Il carcere è legittimo se rispetta la persona. Altrimenti è solo violenza, alimentata dalla politica di Adriano Sansa* Famiglia Cristiana, 19 giugno 2025 Ho frequentato a lungo il carcere come giudice per interrogare gli arrestati, uomini e, molto più raramente, donne. Gli ambienti erano assai diversi, la sezione femminile pareva una casa ordinata, priva di quell’odore di umori e sudori, di quel sentore di promiscuità forzata e sciatta quasi sempre presente tra gli uomini. Ammetto che il pensiero di dover stare anche un solo giorno in una cella mi inquietava. In pochi metri quadrati i letti a castello e qualche minimo arredo a disposizione dei detenuti: d’estate il caldo accresceva ogni disagio. In una cella passano la maggior parte della giornata le persone nei cui confronti lo Stato esercita la “legittima violenza” per garantire custodia e rieducazione. I motivi della detenzione sono i più diversi, dagli omicidi alle rapine, a borseggi e scippi fino al grande numero di violazioni alle norme sugli stupefacenti. Nella maggior parte delle prigioni c’è sovraffollamento, termine cui ci siamo assuefatti, ma che significa compressione fisica dei corpi, accresciuta spinta alla violenza o alla disperazione; anche ai suicidi facciamo poco caso. In un contesto simile, che conosce alcune belle eccezioni, opera un personale affaticato, demotivato e insufficiente a garantire un pur minimo adempimento della prescrizione costituzionale. Su questa situazione si disputa da decenni, senza che le cose cambino. Posto che il carcere è necessario per i crimini più gravi, occorre limitare la detenzione per i reati minori. Tuttavia il Governo aumenta di continuo i reati e le pene detentive. Ma bisogna pure che ci fermiamo a riflettere, se vogliamo restare umani. Il carcere va risanato e deve consentire una vita decente ai detenuti. Si devono introdurre ovunque il lavoro e un’assistenza che fermi la disperazione dei suicidi. Occorre ridurre i tempi della carcerazione preventiva; l’accanimento sulla separazione delle carriere dei magistrati si accompagna invece alla trascuratezza dei veri problemi della giustizia. Ricordo bene la sensazione di sollievo che provavo quando, passata la prima e poi la seconda porta, mi ritrovavo all’aria aperta. Mi lasciavo alle spalle un’umanità dolente, privata delle esigenze fondamentali di vita, quali che fossero state le colpe di ciascuno. E un personale di custodia a sua volta privato della possibilità di dare lo statuto di persone a tutti i detenuti. Poiché qui sta il cuore della questione, per la politica e per la cittadinanza: l’umanità. Quando un uomo di Governo gongola al pensiero che il furgone di detenuti li faccia soffrire, ne siamo fuori. Chi ammicca alla repressione e desidera “sbattere in galera” sfrutta i peggiori istinti dei peggiori tra i cittadini. Il carcere è legittimo esercizio del potere dello Stato solo se rispetta la persona. Altrimenti è una violenza tra le tante. *Ex magistrato Quando la pena diventa cura di Luca Cereda Famiglia Cristiana, 19 giugno 2025 Un giorno con gli educatori dell’istituto penitenziario di Bollate (Milano). “Non formiamo bravi detenuti, ma cittadini”, dice il responsabile Roberto Bezzi. Qui le celle sono chiuse solo di notte e si svolgono tante attività. Risultato: il tasso di recidiva è solo del 18%. si entra lasciando il documento dopo la registrazione. Poi si attraversano la guardiola esterna e tre cancellate presidiate dagli agenti. Ogni cancello si apre solo quando il precedente si è chiuso. È un passaggio fisico, ma anche simbolico: varcata la soglia della Seconda Casa di reclusione di Milano-Bollate, si entra in un’altra dimensione, dove il tempo è sospeso e il “fuori” sembra lontano anni luce. Eppure, proprio qui, ogni giorno si lavora perché quel fuori “torni” ad avere senso. È in questo spazio in bilico tra controllo e accoglienza che incontriamo Roberto Bezzi, responsabile dell’area educativa: “Il carcere per me deve essere un pronto soccorso pedagogico. Non un contenitore, ma un luogo capace di rimettere in cammino chi è caduto”. A Bollate, queste parole si fanno prassi quotidiana. Le celle sono aperte dalle otto del mattino alle otto di sera. I detenuti si spostano autonomamente da un’attività all’altra con un badge elettronico. “L’obiettivo”, spiega Bezzi, “è permettere a chi è recluso di autogestire la propria giornata. Perché fuori nessuno ti dice quando devi andare a lavorare, a studiare, a lavarti. Se vogliamo preparare al rientro nella società, dobbiamo responsabilizzare. Questo lo facciamo con l’aiuto degli agenti: noi siamo funzionari giuridico-pedagogici”. È questo il nome tecnico che delinea la figura dell’educatore. “Il nostro compito principale è la programmazione dei percorsi rieducativi che realizziamo insieme al detenuto”, prosegue il responsabile, che è anche co-autore del libro Educare in carcere. Tra le celle si lavora, si studia, si partecipa a laboratori teatrali, ci si iscrive all’università. “Circa 300 persone escono ogni giorno per andare a lavorare all’esterno. Se il carcere è troppo centrato su sé stesso, rischia di insegnare solo a stare in carcere”, riflette Bezzi. “Ma noi dobbiamo aiutare le persone a imparare a vivere fuori”. Bollate ospita circa 1.400 detenuti, di cui 150 donne, distribuiti in reparti con specificità diverse: giovani, detenuti con pene lunghe, mamme con bambini, semiliberi, persone con problemi di natura mentale o dipendenza da sostanze. “Ci sono persone che hanno vissuto per anni nella marginalità, altre che vengono da contesti “normali”, ma hanno commesso reati. La nostra sfida è pensare a percorsi individualizzati”, spiega. Gli educatori a Bollate seguono direttamente un gruppo di persone e coordinano ambiti specifici: genitorialità, scuola, sport, cultura, lavoro. “Non siamo terapeuti, ma persone che si prendono cura. Siamo facilitatori. Il compito dei 22 educatori, a cui si aggiungono psicologi e criminologi, è offrire strumenti. Poi tocca alla persona usarli”, dice ancora Bezzi. “Mi piace pensare che portiamo pagine bianche in libri che sembravano già finiti. Offriamo la possibilità di riscrivere un finale diverso”. E qualcuno lo fa davvero. Cristian e Christian, per esempio, hanno seguito un corso per tecnici luci e audio. Oggi lavorano nel teatro interno e partecipano a laboratori con l’esterno. “Rubavamo, è vero”, ammettono, “ma poi ci siamo scoperti capaci di fare altro. Non lo sapevamo nemmeno noi”. “Se una cosa ti piace, la memorizzi prima”, aggiunge Cristian, che ora lavora anche fuori dall’istituto di pena in regime di articolo 21, “e noi ci siamo appassionati. A volte partecipiamo anche come attori, ma il nostro ruolo è dietro le quinte, come tecnici. E sai che soddisfazione quando il pubblico applaude e tu hai sistemato le luci giuste”. Gabriel lavora nel settore della logistica e confeziona pezzi per un’azienda. “Qui ti insegnano la precisione, la responsabilità. Un lavoro che fuori forse nessuno mi avrebbe mai affidato, ma che qui mi restituisce dignità”. Fadi invece è appassionato di lingue. “Ho imparato da solo lo svedese, l’inglese e adesso anche l’italiano. Le lingue mi piacciono perché ogni parola apre un mondo nuovo. Anche in carcere si può viaggiare, basta saper ascoltare”. Dentro non sempre c’è spazio per le relazioni affettive: “Fuori ho una compagna, una persona perbene” - dice Cristian - “ma è stanca. E io ho capito che non sono solo le vittime dirette a soffrire. Anche chi ti vuole bene paga per gli errori che hai fatto. Lei è una vittima innocente”. Questo lavoro è anche per lei. Un punto forte dell’istituto milanese è il rapporto con il mondo esterno: “Ogni giorno qui entrano scuole, cooperative, aziende. Se mi chiedono: “Si può replicare questo modello?”, rispondo sì, ma a due condizioni: serve una comunità disposta a bussare e un carcere disposto ad aprire”, chiosa Bezzi. L’approccio educativo di Bollate ha anche un forte impatto sui numeri. La recidiva qui è al 18%, contro una media nazionale di circa il 70%. “Più un carcere è aperto, più dà strumenti, più mette una persona in condizione di scegliere, meno è probabile che torni a delinquere”. La pedagogia di Bollate è fatta anche di umanità, prossimità, empatia. “Quando un detenuto ha un problema”, spiega Bezzi, “bisogna esserci. È questa la parte più umana del nostro lavoro. A volte anche la più dura: come quando devi comunicare a qualcuno che ha perso un familiare”. Le storie di chi ce l’ha fatta si intrecciano con le fragilità di chi ancora cerca un equilibrio. “Dopo 17 anni dentro e fuori” - racconta Christian - “questa volta voglio finirla. Voglio chiudere con il passato e iniziare un altro capitolo”. Tante vite e tentativi, guidati dagli educatori del carcere: “Non mi interessa formare bravi detenuti, ma cittadini. La pena deve servire, non ferire”, conclude Bezzi. “Perché ogni persona che ha sbagliato, può cambiare. La vera sfida è crederci fino in fondo”. Carceri, non c’è più tempo: amnistia e indulto di Claudio Bottan vocididentro.it, 19 giugno 2025 Le carceri scoppiano e la politica sonnecchia. Nei giorni scorsi, complici le alte temperature e il sovraffollamento, ci sono state rivolte a Genova, Terni, Spoleto, Trapani, Aosta e Palermo Malaspina. In alcuni istituti manca puntualmente l’acqua, altri sono infestati da cimici e topi. Ovunque si registrano condizioni igieniche carenti e mancanza di personale a fronte di un continuo aumento della popolazione carceraria, alimentato soprattutto da persone con problemi di tossicodipendenza e patologie psichiatriche: un mix esplosivo che lascia intravedere un’estate bollente. Nulla di nuovo sotto il sole secondo Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino, che da domenica 15 giugno ha ripreso lo sciopero della fame affinché il Parlamento intervenga prima della pausa estiva con una legge che riduca il sovraffollamento nelle carceri. D’altronde l’aveva precisato la leader radicale quando aveva deciso di interrompere la protesta non-violenta che portava avanti ormai da 23 giorni: “Si tratta di una sospensione momentanea” aveva detto in occasione dell’incontro dal titolo “Affamati” organizzato da Voci di dentro lo scorso 15 maggio cui aveva partecipato con Gabriella Stramaccioni, già garante per i detenuti di Roma Capitale. Un gesto di riconoscenza di fronte all’inattesa apertura del Presidente del Senato Ignazio La Russa, condivisa dal Vicepresidente del CSM Fabio Pinelli, sulla proposta di legge Giachetti che prevede un aumento dei giorni di liberazione anticipata che tuttavia rimane in una situazione di stallo. “Uno Stato credibile nei confronti dei detenuti è uno Stato che rispetta la Costituzione e le Convenzioni internazionali sui Diritti Umani che il nostro Paese ha sottoscritto. Questo cerco di dire con il mio sciopero della fame soprattutto a coloro che disconoscono questa mortificazione costante dello Stato di diritto - scrive Rita Bernardini - Non va bene la proposta Giachetti/Nessuno Tocchi Caino? Cambiategli nome e paternità! Certo, l’ideale sarebbe un indulto associato ad un’amnistia, cosa che oggi dicono persino coloro che sbeffeggiavano Pannella quando faceva i suoi prolungati scioperi della fame e della sete in nome dell’”amnistia per la Repubblica”. Quello che dovrebbero fare tutte le parti politiche è - per carità di Patria - deporre per un attimo le armi”. Si riconoscessero a vario titolo responsabili della situazione vituperosa in cui versa il nostro sistema penitenziario - ha detto recentemente il Professore dell’accademia dei Lincei Tullio Padovani - e solidamente si assumessero la responsabilità di un indulto accortamente modulato per dar corso ad un’effettiva riduzione della popolazione carceraria, per impedire che la galera si trasformi sempre di più in un’orrenda discarica di corpi ammassati. Si può fare subito tutto, e perciò deve essere fatto tutto, e subito. Nel 2024 il nostro Paese ha dovuto registrare il record di detenuti che si sono tolti la vita e quest’anno - a ridosso di un’estate rovente, purtroppo siamo su una pessima strada con 37 suicidi e 81 detenuti morti per altre cause. “Oggi, i detenuti non sono un pericolo, semmai sono in pericolo”, afferma il prof. Andrea Pugiotto, Ordinario di Diritto costituzionale Università degli studi di Ferrara in occasione del convegno “Diritto e clemenza: che fare per il carcere?” citando l’ultimo report analitico del Garante Nazionale dei diritti dei detenuti che, al 30 maggio scorso, denuncia 62.723 ristretti a fronte di una capienza regolamentare di 51.297 posti, di cui solo 46.706 effettivamente disponibili. Ne risulta un indice di sovraffollamento pari al 134,29%: in media, per ogni 100 posti ci sono 134-135 detenuti. La curva è in salita (nel 2020 erano 10.499 in meno) e sarà spinta in su dall’inventiva dell’attuale XIX Legislatura, spregiudicata nel moltiplicare i reati, inasprire le pene, creare nuove aggravanti e inedite ostatività penitenziarie. “È solo questione di tempo-, dice Pugiotto. Senza un’inversione di tendenza, ci troveremo presto nelle stesse condizioni che costarono all’Italia, nel 2013, la vergogna di una condanna a Strasburgo per un sovraffollamento carcerario “strutturale e sistemico”, lesivo dell’art. 3 Cedu che - ricordo a tutti - vieta incondizionatamente la tortura e i trattamenti inumani e degradanti”. Che fare dunque? Bisogna trovare il coraggio di pronunciare due parole: amnistia e indulto, “una forma secolarizzata di clemenza”. “Nulla a che vedere con una concezione compassionevole del diritto e della giustizia penale: giuridicamente, essere clementi non significa essere buoni, perché il ricorso a una legge di amnistia e indulto non mette in gioco il cuore e le passioni, bensì la testa e la ragione - prosegue il professor Pugiotto - La clemenza collettiva è prerogativa esclusivamente parlamentare: non può essere introdotta dal Governo né può essere abrogata dal popolo per via referendaria. Proceduralmente, richiede un accordo trasversale tra le forze politiche, cioè un’assunzione di responsabilità collettiva nell’interesse della Repubblica. Allo sbadiglio senza sosta di deputati e senatori davanti a tali proposte, vorrei replicare - se posso - ricordando che, “in democrazia, i Parlamenti muoiono per suicidio” (Luciano Violante). Rinunciare ad esercitare una competenza di cui si ha il monopolio costituzionale è la modalità più veloce per farla finita. Siete ancora in tempo, per quanto tempo abbiate ancora. Dove, invece, non c’è più tempo è dietro le sbarre: spetta a voi, deputati e senatori, il compito di fermare la strage di vite e di diritti che si consuma nelle carceri italiane”. Sciopero della fame per una legge che riduca sovraffollamento di Rita Bernardini* nessunotocchicaino.it, 19 giugno 2025 Dalla mezzanotte di domenica 15 giugno ho ripreso lo sciopero della fame affinché il Parlamento intervenga prima della pausa estiva con una legge che riduca il sovraffollamento nelle carceri, sovraffollamento che il 30 maggio 2025 ha raggiunto l’indice medio nazionale del 134,9% con punte che in alcuni istituti superano il 200% secondo quanto riportato dal Garante Nazionale delle Persone private della Libertà (Gnpl). Secondo il Gnpl, che redige il suo rapporto con i dati del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap), sono 157 (pari all’83%) gli Istituti con un indice di affollamento superiore al consentito e 63 (pari al 33%) quelli in cui tale indice risulta pari e superiore al 150%. Il problema si trascina da anni senza che il Parlamento abbia mai posto rimedio. Nell’estate dello scorso anno, il 4 luglio fu emanato il decreto-legge n. 92 convertito con legge n. 112 dell’8 agosto 2024. Nel frattempo, la proposta di legge “Roberto Giachetti/Nessuno tocchi Caino” sulla liberazione anticipata speciale veniva dall’aula rinviata in Commissione perché il citato decreto-legge avrebbe risolto l’emergenza penitenziaria che era sotto gli occhi di tutti. La situazione, come in tanti avevano previsto, si è invece addirittura aggravata. Se al 30 giugno 2024 i detenuti erano 61.480, quest’anno al 31 maggio sono cresciuti a 62.761, mentre i posti regolamentari sono rimasti al palo, erano 51.241 e sono diventati 51.296, tenendo presente però che i posti effettivamente disponibili sono molti di meno perché 4.579 posti sono inagibili. È il caso di ricordare a quanti fanno finta di non capire che il sovraffollamento unito alla carenza cronica di personale, dà luogo a sistematici “trattamenti inumani e degradanti” certificati dai magistrati di sorveglianza in almeno 5.000 casi all’anno, tanti sono i detenuti che vengono risarciti in base all’art. 35-ter dell’Ordinamento penitenziario. Mancano 6.000 agenti dalla più recente pianta organica voluta dal Ministro Nordio, mancano educatori, direttori, assistenti sociali, mediatori culturali, magistrati di sorveglianza, personale amministrativo, medici (in particolare psichiatri), infermieri, operatori sanitari. Nel 2024 il nostro Paese ha dovuto registrare il record di detenuti che si sono tolti la vita e quest’anno - a ridosso di un’estate rovente, purtroppo siamo su una pessima strada con 37 suicidi e 81 detenuti morti per altre cause. La proposta di legge sulla liberazione anticipata speciale è stata ripresa recentemente dal Presidente del Senato Ignazio La Russa e dal Vicepresidente del Csm Fabio Pinelli. Un’apertura importante che consentirebbe ad alcune migliaia di detenuti che in carcere hanno avuto un buon comportamento di uscire un po’ prima, come già è accaduto alla fine del 2013/inizio 2014 con la legge voluta dall’allora Guardasigilli Anna Maria Cancellieri all’indomani dell’umiliante condanna dell’Italia da parte della Corte Europea dei diritti dell’uomo per violazione dell’art. 3 della Cedu. Uno Stato credibile nei confronti dei detenuti è uno Stato che rispetta la Costituzione e le Convenzioni internazionali sui Diritti Umani che il nostro Paese ha sottoscritto. Questo cerco di dire con il mio sciopero della fame soprattutto a coloro che disconoscono questa mortificazione costante dello Stato di diritto. Non va bene la proposta Giachetti/NtC? Cambiategli nome e paternità! Certo, l’ideale sarebbe un indulto associato ad un’amnistia, cosa che oggi dicono persino coloro che sbeffeggiavano Pannella quando faceva i suoi prolungati scioperi della fame e della sete in nome dell’” amnistia per la Repubblica”. Quello che dovrebbero fare tutte le parti politiche è - per carità di Patria - deporre per un attimo le armi. Si riconoscessero a vario titolo responsabili della situazione vituperosa in cui versa il nostro sistema penitenziario - ha detto recentemente il Professore dell’accademia dei Lincei Tullio Padovani - e solidamente si assumessero la responsabilità di un indulto accortamente modulato per dar corso ad un’effettiva riduzione della popolazione carceraria, per impedire che la galera si trasformi sempre di più in un’orrenda discarica di corpi ammassati. Si può fare subito tutto, e perciò deve essere fatto tutto, e subito. *Presidente di Nessuno Tocchi Caino Colloqui intimi: ancora nulla di fatto (o quasi) garantedetenutilazio.it, 19 giugno 2025 La Conferenza dei Garanti territoriali in assemblea ribadisce la necessità di un provvedimento di clemenza che sia rapido ed efficace contro il sovraffollamento. Si è tenuta ieri a Roma, nella sede della Conferenza dei presidenti delle assemblee legislative regionali e delle province autonome, l’assemblea della Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà personale che attualmente conta 93 figure di garanzia designate, da Regioni, province, comuni. Il Portavoce della Conferenza, il Garante campano Samuele Ciambriello, ha aperto i lavori, dando la parola ai Garanti delle realtà territoriali che hanno raccontato cosa è stato fatto negli istituti penitenziari per consentire i colloqui riservati tra le persone detenute e i propri partner, seguendo le recenti linee guida del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap). Purtroppo, ne è emerso un quadro desolante: a parte il caso di Terni che ha dato origine alla sentenza della Corte costituzionale n.10 del 26 gennaio 2024, nessun Garante ha riferito di incontri riservati, benché alcuni istituti stiano predisponendo appositi spazi all’uopo destinati. Ciambriello ha ricordato che “ci sono state quattro sentenze di magistrati di sorveglianza che hanno intimato di permettere subito incontri intimi”. Pur evidenziando talune criticità, i Garanti territoriali si riservano di sollecitare il Dap a modificare le linee guida nelle parti relative alla durata e alle modalità del colloquio, sottolineando la sostanziale inutilità della faticosa attività istruttoria attualmente prevista dalle linee guida anche per persone detenute che si relazionano con lo stesso partner da molti anni. Per il periodo estivo, in considerazione del caldo e del sovraffollamento, i Garanti territoriali auspicano la sospensione delle circolari che chiudono i detenuti per venti ore nelle celle e l’apertura delle camere detentive durante il giorno, nonché la possibilità di accesso all’aria anche dopo le ore 16, e non solo dalle 13 alle 15, come avviene adesso sotto il sole cocente. Per quanto riguarda l’annoso problema del sovraffollamento, la Conferenza ribadisce la necessità di un provvedimento deflattivo che sia rapido ed efficace nella riconduzione della popolazione detenuta nella capacità degli istituti penitenziari, con una riduzione di 16 mila presenze. La via maestra resta quella di un provvedimento di clemenza che comprenda un indulto nella misura di due anni. Se ciò non fosse possibile e si optasse per una proposta di liberazione anticipata speciale, quest’ultima per essere efficace non dovrebbe contenere preclusioni e anzi dovrebbe essere accompagnata da un condono disciplinare. La cooperazione sociale come ponte tra carcere e lavoro, ma c’è bisogno di una governance di Elettra Raffaela Melucci ildiariodellavoro.it, 19 giugno 2025 È appena terminata la II edizione di “Recidiva Zero. Studio, formazione e lavoro in carcere e fuori dal carcere”, giornata di lavoro organizzata dal Cnel in collaborazione con il Ministero della Giustizia. L’obiettivo è di favorire e promuovere l’inclusione sociale e lavorativa delle persone private della libertà personale. L’iniziativa si inserisce nel quadro dell’Accordo interistituzionale sottoscritto nel giugno 2023 tra Cnel e Ministero della Giustizia e fa seguito alla I edizione che si è tenuta il 16 aprile dello scorso anno. Numerosi gli interventi e le proposte dei soggetti coinvolti in questo percorso incentrato sull’attivazione di strumenti strutturali e multilivello. Un passo di civiltà per il nostro Paese, seppure tardivo, che rimette al centro il valore del lavoro come strumento di emancipazione per le persone ristrette e una visione del detenuto come portatore di diritti inalienabili. In questo scenario, dirimente è il ruolo delle cooperative sociali, la cui mission non è il profitto ma l’integrazione e il reinserimento sociale. Ne parla in questa intervista Stefano Granata, presidente di Confcooperative Federsolidarietà. Quali i principali risultati di questo incontro? Il primo risultato è l’aver messo attorno allo stesso tavolo tutti gli interlocutori: l’amministrazione carceraria, la politica, la parte organizzativa e il mondo delle imprese, in cui ovviamente c’è la cooperazione. Va dato il merito al Cnel di aver acceso un faro importante sulle carceri, tema purtroppo non in cima all’agenda politica pur essendo un problema non degno di un Paese civile. Ci sono 62.000 persone recluse dentro le case circondariali, ma bisogna ricordare anche le altre 250.000 che gravitano attorno all’esecuzione penale in generale. Il secondo risultato, invece, è di aver radicato un patto tra il mondo delle imprese e l’amministrazione carceraria rispetto al tema del lavoro, senza il quale è difficile pensare a un reale reinserimento delle persone. Il titolo dell’iniziativa, “Recidiva Zero”, sintetizza i risultati prodotti in questi anni, che dimostrano che il 90% delle persone inserite nel circuito lavorativo durante il periodo detentivo non commettono reati una volta scontata la pena; percentuale che viene ribaltata - anzi, peggiorata - per chi non lavora, che una volta fuori dal carcere torna a commettere reati. L’incontro è stato anche l’occasione per avanzare delle proposte. Quali avete presentato come Confcooperative Federsolidarietà? Per un’impresa è molto difficile entrare in carcere sia per via di lacci e lacciuoli burocratici che per una indisposizione di alcune direzioni carcerarie che ne scoraggia l’intervento. I dati della Legge Smuraglia, che prevede agevolazioni fiscali per imprese che operano in carcere, evidenziano che le più alte quote di lavoratori in carcere sono gestiti dalla cooperazione sociale: innanzitutto perché sono più resilienti rispetto alle altre imprese - evidenza emersa anche dalla ricerca del Cnel presentata nell’incontro - e poi perché il primo obiettivo della cooperazione sociale è proprio l’inserimento lavorativo delle persone fragili, non il perseguimento di uno scopo economico-finanziario. In secondo luogo, abbiamo precisato che non basta solo l’intervento formativo e prima ancora quello dell’istruzione, ma è fondamentale anche l’accompagnamento delle persone: tra la popolazione carceraria, il 50% dei detenuti ha problemi di salute mentale legato a dipendenze da sostanze, il che rende evidente l’ampio spettro di fragilità di queste persone per le quali vanno creati elementi di accompagnamento che possono portare a frutto l’inclusione lavorativa. Servono quindi dei modelli organizzativi, come quelli delle cooperative sociali, improntati alla creazione di percorsi più flessibili. “Recidiva Zero” significa abbattere la permanenza in carcere, ma bisogna considerare anche tutti coloro che sono inseriti nelle misure alternative che però fuori dal carcere non trovano sbocco perché non hanno appoggi. In questo senso, trovare una soluzione abitativa per quei detenuti, oltre a contenere la recidiva, significa anche abbattere il sovraffollamento. Il ministro Nordio, presente all’incontro, ha parlato di un “progetto ampio per portare nelle carceri un filo di speranza, se non di ottimismo”. Cosa rileva, a livello di responsabilità, questa affermazione? Credo che il Ministro si riferisse al pessimo clima che c’è nelle carceri, in cui c’è un malessere diffuso che si riflette spesso in episodi di violenza - reciproca, autoriferita e anche nei confronti della polizia penitenziaria. Bisogna abbattere questa soglia tenendo aperto un filtro con la realtà extracarceraria e riportare dentro non solo il lavoro ma anche, per esempio, istituti come la cultura e lo sport. Il filo di speranza è questo: avere in carcere cose che ti sono precluse, che ti fanno intravedere la luce in fondo al tunnel. Il tasso di suicidi che ha colpito la popolazione carceraria è un’evidenza conclamata del disagio di queste persone, che tra l’altro smentisce i precetti della nostra Costituzione. Questa è una battaglia di civiltà, oltre che di equità e giustizia. Ma per dare questo filo di speranza bisogna dotarsi di interventi concreti. Rispetto all’attuale situazione di sovraffollamento, congiuntamente all’inasprimento delle norme con il decreto sicurezza, non sembra che si vada in direzione contraria agli obiettivi di Recidiva Zero? A causa del caldo estremo, nei giorni scorsi ci sono stati degli episodi di protesta in alcuni istituti carcerari che rischiano di avere conseguenze più severe per via delle disposizioni del nuovo decreto. Purtroppo fa parte delle contraddizioni del mondo carcerario. Non si può uscire da questa bolla con uno schiocco di dita: è un percorso che richiede tempo, per di più in un Paese che non investe più di tanto nelle carceri. Il coinvolgimento delle parti datoriali in queste situazioni è fondamentale, perché le risorse pubbliche di per sé non bastano. D’altro canto non credo che una semplice ristrutturazione architettonica degli edifici risolva il problema, che riguarda principalmente la qualità della vita dei detenuti. Gli istituti sono desueti, sovraffollati, le opportunità di lavoro sono poche: se mettiamo insieme tutti questi fattori la situazione risulta disastrosa. Ma da qualche parte bisogna iniziare e farlo dal lavoro, aprendo ai detenuti-lavoratori, è un primo passo. Una situazione disastrosa che non è certo dell’ultima ora… È una questione culturale che bisogna ribaltare e non può essere fatto solo dal punto di vista normativo, ma deve essere un passaggio di coscienza collettiva. Oggi il carcere sembra un problema che non riguarda nessuno se non quelli che ci stanno dentro e più ci stanno dentro meglio è. In questo senso anche il mondo della comunicazione ha delle responsabilità: sul tema l’opinione pubblica è facilmente condizionabile in senso negativo. Penso all’episodio del detenuto di Bollate che, fuori per lavoro, ha commesso un omicidio-suicidio. Subito si è cavalcato il sensazionalismo della storia, invocando che i detenuti non vadano fatti uscire nemmeno per lavoro per non correre rischi. Certo alcuni di loro non godono di piena salute mentale, ma quello è stato un episodio isolato per il quale non si può bloccare un intero sistema e far sì che altri detenuti ne paghino le conseguenze. Entrando nel merito del vostro impegno, per voi la cooperativa sociale è un vero e proprio ponte tra carcere e lavoro. In che modo? Le cooperative sociali sono le più presenti in carcere, anche perché l’impegno primario non è certo quello di fare business ma di dare l’opportunità alle persone di reinserirsi nella comunità. L’impresa è un mezzo, non è il fine. Negli anni le cooperative hanno trovato diversi ostacoli, perché molto dipende dalla responsabilità dell’amministrazione carceraria che ha un potere discrezionale rilevante: ce ne sono di più propense, più visionarie e culturalmente orientate, e altre che sono più farraginose nei loro atteggiamenti. Mediamente le cooperative che sono nel carcere sono di piccola dimensione - proprio perché non possono svolgere una vera e propria attività di mercato per via dei contingentamenti dettati dalla situazione - e ci sono anche quelle danno l’opportunità a questi detenuti di fare l’esecuzione penale esterna. Il reinserimento delle persone fragili fa parte proprio della nostra mission e questo favorisce un maggior flusso di persone. A marzo è stato presentato un progetto innovativo che estende ai detenuti l’utilizzo di SIISL (Sistema Informativo per l’Inclusione Sociale e Lavorativa) integrandolo con il programma GOL (Garanzia di Occupabilità dei Lavoratori). Ci sono criticità a riguardo? Il ministero del Lavoro ha messo a disposizione questa piattaforma che tiene conto del bilancio delle competenze, del possibile percorso formativo fino al matching domanda-offerta. Ma questo funziona se ci sono una serie di azioni collaterali di sostegno che tengano conto delle fragilità delle persone: da sole non riuscirebbero ad assolvere questa fase. Nel corso dell’incontro, poi, Sviluppo Italia ha annunciato un progetto che va a incentivare l’utilizzo di questi strumenti costituendo anche delle cabine di regia che coinvolgano tutti i soggetti. Questa è una vera governance condivisa ed è quello di cui c’è bisogno per far sì che il sistema funzioni. Confcooperative Federsolidarietà sta sviluppando anche una piattaforma tra le proprie cooperative sociali, imprese sociali e consorzi. Di che si tratta? È un tentativo a doppio binario. Da una parte è una piattaforma che evidenzia la nostra offerta abitativa, una sorta di mappatura che permette di comparare il fabbisogno e la capacità di risposta sui diversi territori. Dall’altra, è una una piattaforma che si indirizza alle filiere produttive. Obiettivo, infatti, è dare vita a delle vere e proprie filiere industriali che generano un effetto moltiplicatore dal punto di vista delle opportunità di lavoro e dell’ingresso nel mercato. L’articolo 45 della Costituzione riconosce la funzione sociale della cooperazione e ne promuove l’incremento. Crede che questo articolo sia disatteso? Il vostro lavoro è sussidiario o supplettivo allo Stato? È capitato che la cooperazione avesse un ruolo supplettivo, per esempio nel sociale, ma il compito primario resta sussidiario: la cooperativa concorre al benessere della comunità, lo dice la stessa legge, tant’è vero che in generale le viene riconosciuta una funzione quasi pubblica sebbene siano soggetti di diritto privato, perché è l’interesse generale la finalità del lavoro della cooperativa, non quello particolare. Nella cooperazione è riconosciuta non solo la mutualità interna per il raggiungimento degli scopi dei soci, ma anche la mutualità esterna nell’interesse dell’intera comunità. Quindi lei crede che i vari Governi che si sono succeduti siano stati coerenti con il dettato costituzionale? Spesso hanno faticato a essere coerenti. Le cooperative svolgono un ruolo importante nel Paese, quindi nessun Governo si azzarda a non riconoscerne la funzione, ma certo non c’è una corsa all’incentivazione. La sussidiarietà prevede una concertazione, una co-programmazione, una cabina di regia condivisa e su questo si è sempre fatto fatica. Il disegno di legge sull’inclusione socio lavorativa e l’abbattimento del recidiva delle persone sottoposte a provvedimenti limitativi o restrittivi della libertà personale procede nel suo iter. Quali le vostre priorità in tal senso? Che venga riconosciuta la singolarità, e non l’esclusività, della cooperazione di inclusione lavorativa e quindi la possibilità di usare il nostro contratto che contiene anche normative che tengono conto della fragilità di queste persone; che ci sia quell’alveo normativo che riconosca che le persone fragili possano lavorare ma con strumenti che siano diversi. Allo stato delle cose, in Italia il reinserimento sociale dei detenuti è sostenibile? Assolutamente sì e lo dimostrano i dati: quei pochi che hanno possibilità di lavorare nei percorsi di reinserimento hanno numericamente un successo incredibile in termini di risultato. Viceversa chi non ha questa opportunità resta con la prospettiva della galera a vita. Noi vorremmo che i risultati positivi conseguiti in tanti anni, non solo nei due del programma “Recidiva Zero”, assumessero una dimensione molto più vasta e che riguardassero anche le imprese, di cui c’è bisogno per poter raggiungere il famigerato risultato della recidiva zero. Giustizia blindata. La riforma Nordio è immodificabile di Giulia Merlo Il Domani, 19 giugno 2025 La legge costituzionale va a tappe forzate. Ira di Pd, Avs e M5S. Voto finale entro il 26 giugno. Le toghe si preparano al referendum. Il testo è “intoccabile” e il suo iter parlamentare non prevede rallentamenti: è con questa certezza granitica messa in chiaro dal guardasigilli Carlo Nordio che la riforma costituzionale della giustizia è arrivato al Senato, dopo il sì della Camera. L’obiettivo è l’approvazione entro la fine dell’anno in doppia lettura. Poi sarà referendum, la prossima primavera. Un referendum costituzionale e dunque senza quorum, che sarà la vera scommessa del governo Meloni e un fondamentale test sul gradimento del centrodestra. Tutto è apparso chiaro, lineare e ineluttabile nell’aula di palazzo Madama, dove si sono succeduti i duri interventi delle opposizioni. Duri quanto inutili visto che, come ha fatto notare Andrea Giorgis del Pd, “la riforma è stata calendarizzata indipendentemente dallo stato di avanzamento dei lavori in Commissione”. “Non c’è memoria di un’altra riforma costituzionale che il parlamento non ha toccato”, ha rincarato Peppe De Cristofaro di Avs. A riprova dell’immodificabilità del testo licenziato dal governo, nemmeno il centrodestra ha potuto presentare emendamenti. Prima il “canguro” in Commissione, poi l’approdo in aula senza relatore hanno dato l’esatta misura di come l’esecutivo abbia imposto tappe forzate e inibito la propria maggioranza dal fare alcun che. Tranne che votare a favore, quando sarà necessario. Con buona pace della regola non scritta secondo cui le riforme costituzionali debbano essere discusse in parlamento. L’unico spiraglio di insufficiente consolazione lasciato aperto da Nordio ha infatti riguardato la legge attuativa. Si è discusso le pregiudiziali di costituzionalità. Le opposizioni hanno sottolineato la contrarietà sul metodo, mentre si sono divise sul merito: contrari Pd, M5S, Avs, a favore invece Azione e Più Europa, con Italia Viva a favore della separazione ma contraria alla cancellazione del dibattito parlamentare. La discussione riprenderà martedì prossimo, il voto finale invece arriverà tra il 25 e il 26 giugno. L’Anm - Fuori dal parlamento, la magistratura associata si sta organizzando, in vista della campagna referendaria. Eppure, all’interno dei gruppi associativi, si stanno aprendo i primi impercettibili distinguo. Lo sciopero del 27 febbraio ha visto una partecipazione dell’80 per cento, con l’adesione di tutte le correnti e la continuità tra Anm uscente guidata da Giuseppe Santalucia della progressista Area e quella con al vertice Cesare Parodi, della conservatrice Magistratura indipendente. Tuttavia, il fine settimana appena passato - teatro del congresso di Unicost e del convegno nazionale di Mi - ha fatto leggere in controluce i diversi posizionamenti dei gruppi. Se i moderati di Unicost si sono mostrati compatti contro la riforma e così anche i progressisti di Area e Magistratura democratica, una sfumatura diversa si è potuta percepire in casa Mi. Nessuno lo ha detto ad alta voce ma una fonte interna ha spiegato il suo scetticismo rispetto allo “schiacciarsi in una battaglia frontale contro la maggioranza” e i dubbi sulla “chiusura dell’Anm di Santalucia rispetto a qualsiasi dialogo con il governo. E ora non c’è più tempo per aprirlo”. Una posizione, questa, che era stata adombrata dal presidente Claudio Galoppi in una intervista al Giornale. Fuor di metafora - è la spiegazione di una fonte di Area - Mi sarebbe stata “pronta a sedersi al tavolo per accettare la separazione delle carriere a patto di eliminare o addolcire il sorteggio al Csm”. In questa fase, in Mi convivono diverse anime e anche diverse sfumature di adesione alla gestione Parodi, più dialogante di Santalucia ma ugualmente contrario alla riforma nella sua interezza. Cosa prevede - Certo è che la legge costituzionale, pur rubricata come “della giustizia”, in realtà riorganizza solo l’ordine giudiziario. Questa è stata la critica condivisa da Pd, Avs e M5S: la separazione delle carriere, che porta con sè il rischio della sottoposizione del pm all’esecutivo, non risolve nessuno dei problemi della giustizia, non tocca i tempi dei processi né migliora la qualità del servizio giustizia. “Si consuma la vendetta del centrodestra nei confronti delle toghe”, ha detto la 5S Mariolina Castellone. La riforma prevede infatti la separazione netta tra giudici e pubblici ministeri (che ora possono passare solo una volta da una funzione all’altra); la conseguente creazione di due Csm, composti da consiglieri togati e laici scelti con sorteggio, ma sempre presieduti dal Capo dello Stato, e lo scorporo della funzione disciplinare, assegnata ad una unica Alta corte. Una apertura del ministro riguarda il sorteggio, che potrebbe essere “temperato” almeno per i laici (come previsto da un emendamento di Forza Italia, poi ritirato). Tutto, però, verrà fatto nella futura legge di attuazione. Prima però ci sarà il referendum e l’inevitabile scontro sia politico che tra poteri dello stato. Separazione delle carriere, l’Aula discute di Valentina Stella Il Dubbio, 19 giugno 2025 Il testo approda al Senato senza “sorprese”. Il presidente del Cnf Francesco Greco: il provvedimento “è un passo avanti verso una giustizia finalmente imparziale”. La separazione delle carriere è sbarcata ieri in una Aula del Senato quasi vuota, senza mandato al relatore e senza la discussione di tutti i mille emendamenti presentati in Commissione affari costituzionali. Tutto come previsto, nulla di nuovo sotto al cielo: le opposizioni che hanno ribadito come dal Governo sia in atto una sorta di “golpe costituzionale”, la maggioranza che ha replicato come sia stata garantita la discussione e che tutto è iscritto nel regolamento parlamentare. Ma per il capogruppo del Pd in Commissione Affari Costituzionali del Senato Andrea Giorgis “si tratta di una forzatura gravissima che non ha precedenti nella nostra storia repubblicana e che mortifica non solo le prerogative delle opposizioni, ma dell’intero Parlamento. La riforma della Costituzione, così come la Costituzione, dovrebbe essere sempre il risultato di un accordo, di un compromesso tra tutte le forze politiche e quindi tra tutti i cittadini, e non un patto stipulato dentro il governo che il Parlamento deve solo ratificare”. Mentre per il senatore di Fratelli d’Italia Sergio Rastrelli “stiamo attraversando un Rubicone di una magistratura spesso incline a sottrarsi alle scelte del potere legislativo e alle norme che devono regolarne l’attività. Stiamo attraversando un Rubicone - aggiunge - di una palude, che troppo spesso ha infestato questa Nazione, un vero e proprio abisso istituzionale e giudiziario nel quale l’Italia stava sprofondando. E quindi è nostra scelta e nostra responsabilità varcare quel guado qui e ora, nonostante le forze di resistenza al cambiamento, perché è quello che ci sta chiedendo l’Italia”. Sulla questione è tornato a prendere una ferma posizione Francesco Greco, presidente del Cnf: “La separazione delle carriere è un passo avanti verso una giustizia finalmente imparziale, fondata sul contraddittorio e sulla parità tra accusa e difesa, attuando il principio del giusto processo come previsto dalla Costituzione. Prosegue così un percorso di riforma atteso da decenni, che restituisce terzietà all’azione giudiziaria e centralità al dibattimento in aula. Per questo motivo, il Cnf sostiene una riforma che rafforza le garanzie per i cittadini e rende il procedimento più equo e trasparente”. Per il vertice dell’avvocatura istituzionale “nessuno intende indebolire la magistratura, anzi: il provvedimento introduce chiarezza, distinguendo le funzioni nell’interesse del giusto processo. Se mai si intravedesse un rischio per l’autonomia dei magistrati, gli avvocati sarebbero pronti a mobilitarsi in difesa della loro indipendenza, baluardo dello Stato di diritto”. Ha concluso Greco: “In una democrazia è essenziale che siano i cittadini ad esprimersi su una modifica di così alto rilievo costituzionale. Il referendum confermativo sarà l’occasione per coinvolgere direttamente la società civile: è giusto che sia il popolo sovrano a decidere sulla separazione delle carriere”. Il provvedimento dovrebbe essere approvato a metà della prossima settimana a Palazzo Madama. A luglio, come da calendario d’Aula già approvato, la riforma arriva nuovamente a Montecitorio. Non si sa ancora se verrà approvata prima delle vacanze estive o settembre. L’obiettivo del Governo è quello di chiudere la partita parlamentare entro la fine dell’anno, indire il referendum nei primi mesi del 2026 e scrivere le leggi attuative prima del rinnovo del prossimo Consiglio Superiore della Magistratura, previsto per settembre del prossimo anno. Difficile rispettare tale desiderata in quanto il Guardasigilli ha sempre detto che vorrebbe discutere con gli attori in gioco, in primis l’Anm, la scrittura dei decreti attuativi. Proprio dall’Anm si è pronunciato il Segretario, Rocco Maruotti, che ha espresso il timone di come il referendum possa diventare un “sondaggio sul gradimento della magistratura da un lato e del governo dall’altro, determinando perciò un non auspicabile conflitto istituzionale che si poteva evitare se il governo non avesse blindato il testo e avesse fatto il tentativo di giungere ad una soluzione condivisa con le altre forze parlamentari, magari accogliendo alcune delle tante proposte migliorative contenute negli emendamenti presentati dai partiti di minoranza”. Comunque guardando a questo timing sembra prevalere l’interpretazione dell’articolo 138 della Costituzione (“Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione”) per cui i tre mesi vengono calcolati dall’approvazione nella prima Camera, come ci aveva già anticipato il professor Giovanni Guzzetta. Fonti parlamentari del Pd alla Camera fanno sapere che su questo aspetto, che riguarda proprio l’iter di approvazione della norma, potrebbero sollevare una questione pregiudiziale di costituzionalità più performante rispetto a quelle presentate al Senato, che si sono concentrate in generale sulla blindatura del testo da parte del Governo e sono state tutte respinte alla presenza del Ministro Nordio che poi ha lasciato l’emiciclo. “Perché Italia viva si asterrà sulla riforma Nordio”. Parla Ivan Scalfarotto di Ermes Antonucci Il Foglio, 19 giugno 2025 Intervista al senatore renziano: “Siamo favorevoli alla separazione delle carriere, ma siamo contrari a come questo principio è stato declinato dal Governo. Il sorteggio dei laici del Csm è il trionfo del grillismo”. “Noi di Italia viva siamo favorevoli alla separazione delle carriere, ma siamo contrari a come questo principio è stato declinato dal governo. Siamo talmente favorevoli al principio che, nonostante il disegno di legge governativo sia pessimo, sia nel merito sia nel metodo, non voteremo contro, i nostri voti non saranno in opposizione al provvedimento”. Lo dice al Foglio Ivan Scalfarotto, senatore di Italia viva. Ieri su queste pagine, l’avvocato Gian Domenico Caiazza, amico di Renzi e candidato alle europee lo scorso anno per la coalizione che riuniva Italia viva e Più Europa, ha espresso sorpresa per la scelta del partito renziano di astenersi sulla riforma della separazione delle carriere, sbarcata ieri all’Aula del Senato. “Come ho detto oggi in Aula, la separazione delle carriere è sacrosanta”, replica Scalfarotto. “Questa riforma andava fatta insieme a quella del processo penale del 1988. Il fatto che il pubblico ministero e il giudice non appartengano alla stessa categoria professionale è una necessaria conseguenza del processo accusatorio. Ma non ci si può aspettare che un partito di opposizione come Italia viva voti a favore, a scatola chiusa, un provvedimento sul quale non c’è stata data la possibilità di collaborare e sul quale abbiamo diverse riserve sostanziali”, sottolinea il senatore. Per Scalfarotto ci sono problemi sia di merito sia di metodo. Partiamo dal merito. “Innanzitutto c’è il tema del sorteggio dei componenti laici del Csm. Se stabiliamo che dei rappresentanti politici devono essere sorteggiati, di fatto realizziamo la riforma delle riforme di Beppe Grillo: quella di sorteggiare i parlamentari. Quando i padri e le madri costituenti scrissero la Costituzione pensarono che al Csm dovessero esserci i rappresentanti dei magistrati ma anche una rappresentanza politica, cioè del corpo elettorale. Che questa venga sorteggiata è inammissibile”, dice Scalfarotto. “La seconda questione importante è che non è possibile realizzare una riforma della giustizia penale senza mettere mano all’obbligatorietà dell’azione penale. Era cruciale agire su questo tema e invece non è stato possibile parlarne. Infine, non ci convince fino in fondo neanche l’Alta corte disciplinare”. Le riserve di metodo di Italia viva riguardano la chiusura al dialogo mostrata dal governo. “Dato che siamo favorevoli alla separazione delle carriere, abbiamo provato a interloquire con la maggioranza, anche perché il dialogo dovrebbe essere alla base di ogni riforma costituzionale, ma non è stato possibile. Il testo è rimasto identico a se stesso. Il ministro Nordio ha rivendicato che non fosse modificabile in alcun modo”, dice Scalfarotto. “All’epoca della riforma costituzionale Renzi-Boschi io ricoprivo l’incarico di sottosegretario per le riforme. Il testo di riforma varato dal Consiglio dei ministri non assomigliò neanche lontanamente a quello che poi venne votato al referendum, perché giustamente il Parlamento ebbe tutto il tempo di discuterlo e di modificarlo. I disegni di legge costituzionale per definizione devono essere il frutto di una discussione che coinvolge tutti”. Quindi è da maligni pensare che Italia viva si astenga sulla riforma per ribadire la sua collocazione nel campo largo del centrosinistra? “Faccio notare che sulle pregiudiziali di costituzionalità noi abbiamo votato contro, perché pensiamo che questa riforma sia fatta male ma non sia incostituzionale. Tuttavia, noi non dobbiamo votare solo un principio, quello della separazione, ma una riforma della Costituzione che resterà valida in saecula saeculorum. Penso che sia anche un gesto di responsabilità pretendere che quel condivisibile principio sia declinato tecnicamente nel modo corretto. Il nostro voto non ha niente a che vedere con le alleanze. Noi siamo opposizione, se la maggioranza vuole coinvolgere l’opposizione deve parlarci”, risponde Scalfarotto. Anche Azione è all’opposizione, ma pare orientata a votare a favore della riforma anche al Senato, come ha già fatto alla Camera. “Gli apprezzamenti e i segnali di apertura di Calenda a Giorgia Meloni negli ultimi tempi sono stati numerosi. Non so se questo concorra a stabilire la posizione di Azione. Non so ancora quale sarà il loro voto finale. Ma posso dire che la differenza tra noi e loro è che noi siamo certamente all’opposizione del centrodestra, mentre Calenda sostiene una linea di terzietà e in alcuni casi di appeasement con il centrodestra”, conclude Scalfarotto. La Commissione Ue mette in mora l’Italia sulla presunzione d’innocenza di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 19 giugno 2025 Nuovo fronte di conflitto tra Italia e Unione europea in materia di giustizia. Questa volta centrale è il tema della presunzione d’innocenza e del diritto di indagati e imputati a essere presenti nel procedimento penale. La Commissione europea ha deciso di aprire una procedura d’infrazione con l’invio di una lettera di costituzione in mora nei confronti dell’Italia (e della Lituania) per non avere correttamente recepito la direttiva 2M6/343/UE. Due i mesi di tempo per rispondere e fare chiarezza sulle misure nel frattempo adottate per porre rimedio alle criticità segnalate, mentre, possibile futuro sviluppo in caso di risposta insoddisfacente, la Commissione potrà decidere di rilasciare un parere motivato. La direttiva è una delle sei adottate dall’Unione europea per creare standard minimi comuni indirizzati ad assicurare garanzie omologhe in tutti i Paesi Ue per un equo processo a tutela delle persone coinvolte in indagini. Per la commissione, in particolare, il deficit dell’Italia va individuato sul versante delle limitazioni all’uso di misure di coercizione fisica in pubblico, del diritto al silenzio e a non autoaccusarsi, sia al momento della raccolta di informazioni da parte delle autorità investigative sulla scena del reato sia quando il sospettato rilascia dichiarazioni spontanee. Valutazione critica quindi da parte della Commissione di quanto sinora fatto per adeguare l’ordinamento nazionale a alle sollecitazioni della direttiva. Dove gli interventi messi in campo sono stati comunque controversi e fondamentalmente indirizzati a una sola parte delle prescrizioni comunitarie, quella relativa alla comunicazione degli uffici giudiziari. Con il decreto legislativo n. 188 del 2021, infatti, è stato istituito un set di norme per garantire che, fino a quando la colpevolezza di un imputato non è stata provata, le dichiarazioni pubbliche e le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla attribuzione di responsabilità penale non devono presentare la persona interessata come colpevole. Come pure nel testo trova posto il rafforzamento delle garanzie sulle modalità di partecipazione alle udienze, che solo in caso di ragioni motivate attraverso ordinanza del giudice potranno prevedere l’utilizzo di particolari cautele, come le manette. Più nel dettaglio, allora, alle autorità pubbliche (concetto di notevole estensione, comprendendo non solo i magistrati, le forze dell’ordine e tutti i soggetti chiamati all’applicazione della legge, ma anche figure come i ministri e altri funzionari pubblici) è vietato di presentare prematuramente come colpevole la persona sottoposta a indagini o imputata in un procedimento ancora in corso. A quest’ultima è riconosciuto il diritto di richiedere la rettifica della dichiarazione resa all’autorità pubblica. Per quanto riguardale comunicazioni delle Procure, il decreto stabilisce, innanzitutto, che il Procuratore, già tenuto sulla base dell’ordinamento giudiziario a mantenere personalmente o attraverso delegato, i rapporti con gli organi di informazione, deve affidare le proprie esternazioni a forme “ufficiali” di comunicazione, potendo convocare conferenze stampa solo quando le vicende da trattare rivestono particolare rilevanza pubblica. Si prevede, inoltre, che la diffusione di notizie sui procedimenti penali è possibile solo in due casi: quando strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini e quando esistono “altre specifiche ragioni di interesse pubblico”. Ma da pochi mesi è in vigore la disposizione, assai contestata, tanto da riproporre una delle più canoniche espressioni del conflitto tra informazione e politica, la “norma bavaglio “, che ha istituito, ritenendolo elemento chiave per il rafforzamento del principio della presunzione d’innocenza, un divieto di pubblicazione (fino al dibattimento), integrale o anche solo di estratti, dei provvedimenti giudiziari che adottano misure cautelari. Un’esasperazione delle ripercussioni sulla comunicazione delle indicazioni della direttiva che la Commissione ha ora considerato parziale e comunque, insufficiente. Da imprenditori a narcos “grazie” al decreto Sicurezza di Asia Buconi L’Unità, 19 giugno 2025 I negozi di canapa industriale di Simona ed Emiliano sono i primi “bersagli”: i due, accusati di spaccio, rischiano ora dai 6 ai 20 anni. “Ho dovuto telefonare alle maestre della mia bimba spiegando che ero in stato di fermo, mi sono vergognata così tanto e non è giusto”. Simona Giorgi non è una pericolosa narcos, ma una delle 22mila persone impegnate in Italia nel settore della canapa industriale (il suo negozio è capofila di una piccola catena) che ha visto il proprio posto di lavoro cancellato dal decreto sicurezza approvato dal governo. E che adesso si trova sbattuta in mezzo alla strada senza certezze per il futuro e con molti rischi. La nuova legge sancisce infatti che le infiorescenze di CBD (una molecola della cannabis priva di effetti stupefacenti) sono vietate come fossero droga. Di conseguenza, chi le commercia si prende una denuncia per articolo 73: spaccio. Lo chiarisce l’articolo 18 del decreto: sono vietati “l’importazione, la cessione, la lavorazione, la distribuzione, il commercio, il trasporto, l’invio, la spedizione e la consegna delle infiorescenze della canapa”. E così, nel giro di qualche giorno, prodotti fino a ieri legali e controllati sono diventati fuorilegge. E chi prima era imprenditore si è trasformato per magia in delinquente e rischia dai 6 ai 20 anni di carcere, nonostante paghi le tasse e abbia un codice ATECO. Stessa sorte è toccata a Emiliano del Ferrero, 24 anni e papà di una bimba di 2, il cui negozio di cannabis light a Colleferro (Roma) è stato il primo bersaglio del decreto sicurezza. “Venerdì 30 maggio sono andato ad aprire il negozio come ogni giorno - ha raccontato Emiliano - e appena ho alzato la serranda ho sentito dei passi alle mie spalle, erano 5 agenti della Guardia di Finanza”. Il bilancio della “retata”: oltre 10 kg di materiale sequestrato nel complesso ai due giovani imprenditori dalle forze dell’ordine. A tendere la mano a Simona ed Emiliano è adesso l’associazione Meglio Legale, che tramite l’avvocata Paola Bevere ha presentato istanza di riesame al Tribunale di Roma sollevando la questione di legittimità costituzionale dell’art.18 del decreto sicurezza, evidenziando in particolare l’insussistenza del reato ipotizzato, perché - come si diceva - la sostanza sequestrata è priva di qualsiasi effetto drogante. E si è mossa anche la politica nella figura del segretario di +Europa Riccardo Magi che, assieme ad Antonella Soldo, presidente di Meglio Legale e membro del Consiglio generale dell’Associazione Luca Coscioni, ha organizzato ieri una conferenza stampa di fronte a Montecitorio per dare voce a chi è rimasto senza un’occupazione e per annunciare nuove iniziative contro il decreto dell’esecutivo, a cominciare da un ricorso alla Consulta. Con Magi e Soldo di fronte alla Camera c’erano anche Simona ed Emiliano, i primi “bersagli” del decreto, che hanno ribadito un concetto semplice: “Noi vorremmo solo lavorare”. Ma il testo del governo parla chiaro, anche se Magi ne rileva subito una problematicità: la nuova legge va contro la normativa europea e rischia di essere “in contrasto con il principio di libera circolazione delle merci”. Un punto, o meglio un paradosso, rimarcato anche da Soldo: “Dalla Francia posso acquistare liberamente CBD”. Ma c’è un ulteriore cortocircuito a scatenare l’indignazione degli imprenditori, ben riassunto in uno dei cartelli sollevati di fronte alla Camera: “7 miliardi alle mafie del mercato nero della cannabis, ma lo stato manda in fumo 22mila posti di lavoro del mercato della cannabis”. Insomma: oltre il danno anche numerose beffe, soprattutto se si pensa che la filiera della canapa industriale - che in Italia conta oltre 3.000 aziende - frutta 500 milioni di euro l’anno, di cui 150 versati allo Stato sotto forma di tasse. Campania. “Chi entra in carcere da uomo, non deve uscire da bestia” di Daria Romano giustizianews24.it, 19 giugno 2025 L’avvocato Francesco Giuseppe Piccirillo: “Chi disprezza i detenuti, disprezza l’ultimo. E chi entra in carcere senza difese, senza dignità, uscirà peggio. E allora toccherà a noi, fuori, farci i conti”. In Italia ogni quattro giorni una persona si toglie la vita in carcere. Ogni otto ore, qualcun altro viene privato della propria libertà personale in assenza di responsabilità penale accertata. Oltre 62.000 detenuti vivono attualmente stipati in 45.000 posti detentivi. Alcuni hanno bisogno di cure, altri non dovrebbero neanche trovarsi in cella, eppure molti, in silenzio e nell’indifferenza, ci stanno. È in questo scenario, documentato nel report annuale sulle condizioni delle carceri redatto dal Garante Samuele Ciambriello, che lunedì 16 giugno, nella sala ‘G. Siani’ del Consiglio regionale della Campania, si è svolto il convegno ‘La politica incontra il carcere’ bis (nel 2022 si tenne il primo incontro con stesso titolo ed organizzatore). Samuele Ciambriello, Garante regionale per le persone private della libertà e promotore dell’evento, costruisce così un ponte tra due mondi che spesso stentano a dialogare: da un lato garanti, operatori, volontari, cappellani e rappresentanti del terzo settore e dall’altro lato politica e istituzioni. Sul tavolo, Ciambriello mette subito i problemi: sovraffollamento, suicidi, tossicodipendenza, disagio psichico, abbandono sanitario. “A Poggioreale - ad una distanza di soli 300 metri dalla sala con comode poltrone in velluto blu e rinfrescante aria condizionata in cui si è tenuta l’iniziativa - ci sono ufficialmente 1.400 posti, ma oggi vivono lì più di 2.150 persone”, fa presente Ciambriello. La realtà emergente è quella di piante organiche della Penitenziaria vecchie, ferme e sovraccariche. Eppure, illustra il Garante, “la metà dei tossicodipendenti detenuti in Campania (ad oggi 1704) è stata denunciata dai familiari” perché “una madre o un padre, vedendo strutture esterne non funzionanti, preferisce far arrestare il figlio purché stia ‘al sicuro’”. L’avvocato Francesco Giuseppe Piccirillo ricorda come il carcere abbia un ruolo di ‘termometro della legalità’: “Quando la legalità comincia ad andare in asfissia, i primi segnali li troviamo proprio lì. Il carcere misura la nostra civiltà”. I riferimenti ai più recenti casi di detenuti picchiati in cella, da Avellino a Reggio Calabria, sono inevitabili: “Quando l’abuso viene giustificato, quando le botte ai detenuti sono accolte con un ‘hanno fatto bene’, è lì che muore lo Stato di diritto”. E aggiunge: “Chi disprezza i detenuti, disprezza l’ultimo. E chi entra in carcere senza difese, senza dignità, uscirà peggio. E allora toccherà a noi, fuori, farci i conti. Ma chi entra in carcere da uomo, non deve uscire da bestia”. A conferma di ciò, la senatrice Maria Domenica Castellone (Movimento 5 Stelle) riflette sul fatto che “oltre l’80% dei detenuti torna a delinquere”, sancendo una notevole specularità tra il carcere e le disfunzioni del sistema sanitario e sociale: “Il nostro sistema penitenziario ha fallito. Non basta costruire nuove carceri. Se dentro si riproduce la stessa tossicità, non stiamo migliorando nulla. Anzi, peggioriamo”. Ma non finisce qui. Riaprendo il “libro bianco” dei report del 2024 emerge che maltrattamenti e abusi dietro le sbarre non hanno solo ha effetti devastanti sulla salute fisica e mentale dei detenuti ma alimentano pregiudizi già ampiamente radicati, che portano a vedere negli ex detenuti individui segnati e difficilmente recuperabili, compromessi e perciò non reinseribili in società. Negli ultimi 8 anni - raccontano i dati - l’età media dei morti per suicidio nelle carceri si è assestata intorno ai 40 anni, con un’impennata della curva non su ergastolani, come ci si sarebbe aspettati, ma su coloro che entrano in carcere per la prima volta, che vi si trovano da pochi mesi o che sono prossimi alla liberazione. Per la deputata Michela Di Biase (Partito democratico), le strategie politiche dell’attuale Governo non favoriscono un superamento dei problemi dell’universo carcerario, anzi si procede a creare, ampliare “container detentivi” e a varare norme che “vanno nella direzione opposta” all’attuazione della “funzione rieducativa sancita dall’articolo 27 della Costituzione”. “Siamo in una fase storica in cui lo Stato, invece di depenalizzare e ricorrere a misure alternative, continua ad ampliare l’ambito del penale - attacca la parlamentare -. E lo fa anche in modo surrettizio, come con l’inserimento di nuove aggravanti che rischiano di allungare inutilmente le pene detentive anche per reati minori. È questo il caso, ad esempio, del reato di resistenza passiva, che in alcuni casi è bastato a prolungare la detenzione di chi aveva rubato un portafoglio”. Senza dimenticare, aggiunge Di Biase, il “Decreto Sicurezza”, che “ha introdotto 14 nuove fattispecie di reato, aggravando ulteriormente il sovraffollamento carcerario”. La sensazione di Di Biase è che “si sta facendo un passo indietro, anche rispetto al codice Rocco del periodo fascista”, quando invece “serve una riforma vera - dice Di Biase -: più psicologi, più educatori, più misure alternative. E più dignità per chi sta scontando una pena”. “Si è detto in aula: neanche il codice Rocco prevedeva certe restrizioni. E allora, qual è il messaggio che vogliamo dare? È chiaro - conclude - che stiamo andando nella direzione sbagliata”. Carlo Mele, Garante della Provincia di Avellino, ha lanciato un monito chiaro in merito a questi temi caldi: “In molti istituti campani le attività sono sospese. I detenuti restano chiusi nei reparti, senza nulla da fare. Eppure, ogni detenuto costa allo Stato 250 euro al giorno”. Tra le preoccupazioni più urgenti emerse nel corso del convegno, c’è infatti quella legata all’arrivo del caldo estivo. In molti istituti campani, i detenuti sono stipati in celle anguste, prive di ventilazione adeguata, spesso in tre o quattro per stanza progettata per uno o due. “Stiamo entrando nei mesi più critici”, avverte il Garante di Avellino, “e in alcune carceri si parla già di razionamento dell’acqua. I detenuti resteranno nelle sezioni senza nulla da fare, con temperature insostenibili e condizioni igienico-sanitarie che peggioreranno ogni giorno”. Il senatore Sergio Rastrelli (Fratelli d’Italia) ha lanciato perciò un appello su larga scala, proponendo “un confronto parlamentare vero, responsabile, senza schemi ideologici”, considerato che “tutte le soluzioni strutturali - dalla costruzione di nuovi penitenziari all’assunzione di 7.500 nuovi agenti - richiedono tempo per entrare a regime e nel frattempo i detenuti vivono in condizioni che non possono più attendere”. La sua attenzione si concentra in primis su chi lavora dentro le carceri: agenti di polizia penitenziaria, personale amministrativo, operatori. “Quando capiremo che questi lavoratori non segregano, ma custodiscono, avremo compiuto - dice Rastrelli - un salto di qualità fondamentale” che permetterà di comprendere di doverli tutelare, anche e soprattutto a beneficio della popolazione detenuta. Infine, Don Tonino Palmese ha richiamato tutti alla responsabilità morale: “Scuola, ospedale e carcere sono i luoghi sacri della Repubblica. Non per religione, ma per civiltà ma perché è lì che affidiamo la vita delle persone. Non dimentichiamolo mai”. Durante il dibattito sono intervenuti anche numerosi altri rappresentanti delle istituzioni, come il senatore Gianluca Cantalamessa (Lega), il coordinatore regionale in Campania di Noi Moderati Gigi Casciello, e l’onorevole Riccardo Magi (+Europa), nonché i Garanti territoriali della Campania Patrizia Sannino (Provincia di Benevento), Don Salvatore Saggiomo (Provincia di Caserta), Maria Giovanna Pagliarulo (Comune di Benevento). “Facciamo un convegno dentro il carcere. Invitiamo i parlamentari. Ascoltino. Guardino. Sentano con mano cosa significa vivere lì dentro”, è la proposta conclusiva di Ciambriello. “Noi siamo malati di diritti. E per fortuna - dice sorridendo - da questa malattia non vogliamo guarire”. Torino. Detenuto infartuato lasciato in cella per 12 ore, medico a processo di Ludovica Lopetti Corriere Torino, 19 giugno 2025 È il 15 ottobre 2019 quando in una cella del carcere Lorusso e Cutugno un detenuto 54enne inizia a lamentare forte dolore al petto, difficoltà a respirare e senso di mancamento. Ad assistere c’è il compagno di cella, che subito avverte il personale di servizio. Il recluso viene portato nell’infermeria del carcere, dove viene visitato e trattenuto in osservazione per qualche tempo. Soffre già di patologie cardiache (di “malattia coronarica grave e diffusa”), ma il medico di turno lo rispedisce in cella, dove però continua ad accusare gli stessi sintomi. La sua sofferenza si fa penosa, il compagno di cella insiste con gli agenti. Passeranno ben dodici ore prima che il detenuto venga portato al Pronto Soccorso, dove i sanitari diagnosticheranno l’occlusione completa della principale arteria del cuore e lo salveranno per il rotto della cuffia. Nella cartella clinica si parla di “infarto miocardico”. Gli strascichi di quella mezza giornata in preda alle fitte sono importanti: “necrosi miocardica” e una “severa disfunzione sistolica globale”, ovvero l’indebolimento del muscolo cardiaco, che nei mesi e negli anni successivi lo obbligheranno a tornare sotto i ferri diverse volte. Dopo la convalescenza racconta l’episodio al suo avvocato, Benedetta Perego, e parte la querela: perché i sanitari del carcere hanno atteso così a lungo prima di disporre il ricovero d’urgenza?, si chiedono il diretto interessato e i suoi familiari. Ora a quella domanda si proverà a rispondere nel dibattimento. A processo c’è il medico di turno, che risponde di lesioni personali colpose per aver omesso “la tempestiva diagnosi di infarto miocardico” e in particolare “l’effettuazione di un elettro-cardiogramma e di altri accertamenti ematochimici”, nonché di “trasferire tempestivamente il paziente verso il più vicino nosocomio”. La vittima è mancata nel 2021, in seguito all’aggravarsi delle sue patologie al cuore. Inizialmente il fascicolo aveva più indagati e il pm Chiara Canepa contestava l’omicidio colposo, ma per loro il giudice ha disposto il non luogo a procedere. Anche l’ipotesi di omicidio ha avuto vita breve: quando l’uomo è mancato infatti non è stata svolta tempestivamente l’autopsia, perciò ogni correlazione tra il decesso e l’infarto di due anni prima è rimasta un’ipotesi non verificabile con i crismi richiesti dal processo penale. Solo tempo dopo i familiari hanno preso contatti con l’avvocato per partecipare al dibattimento in veste di eredi della persona offesa. Oggi sono costituiti parte civile. Non è la prima volta che l’operato di un medico del carcere finisce sotto la lente dei magistrati. Pochi mesi fa quattro camici bianchi hanno incassato l’archiviazione in relazione alla morte di Susan John, detenuta di 42 anni che l’11 agosto 2023 si è lasciata morire di inedia nella sezione femminile del Lorusso e Cutugno. Il pm Mario Bendoni li accusava di omicidio colposo: il capo d’imputazione attribuiva a vario titolo il mancato ricovero d’urgenza della detenuta quando era ormai a rischio della vita e il ritardo “senza giustificato motivo” nel ricovero programmato. All’esito di due consulenze tecniche convergenti però è stata la stessa procura a chiedere l’archiviazione al gip. Genova. Detenuto seviziato in carcere, la lettera-appello di Nicola Giordanella genova24.it, 19 giugno 2025 “Lo Stato non ha saputo proteggerlo: si faccia carico della riabilitazione”. La lettera è stata firmata da un centinaio di persone tra cui avvocati, giuristi, psicologi, imprenditori e politici: “Serve un gesto collettivo di riparazione alla comunità detenuta tutta”. Un’ondata di sdegno e preoccupazione ha travolto Genova dopo la notizia delle violenze subite da un diciottenne nel carcere di Marassi. Sevizie durate di versi giorni e che hanno acceso la miccia per la rivolta dei detenuti che ha tenuto in scacco la casa circondariale per una giornata intera. Dopo la notizia dell’avvio delle indagini su quanto successo al giovane, un gruppo eterogeneo di cittadini, tra cui giuristi, avvocati, medici, psicologi, esponenti politici e membri della società civile, ha lanciato un appello, affinché la città si mobiliti per il giovane e per la dignità di tutti i detenuti. La lettera aperta sottolinea come il carcere di Marassi sia “vicino di casa di noi tutti; radicato nel popolare quartiere di Marassi a fianco del tempio laico di Genoa e Sampdoria, vicino a quello monumentale e misericordioso di Staglieno, a due passi dal centro della città, è intimo a ognuno di noi più di quanto non crediamo”. L’appello non si sofferma sui dettagli delle atrocità subite, “per rispetto della dignità del giovane, perché chi è già stato massacrato in detenzione non deve essere esposto una seconda volta allo sguardo indifferente o curioso degli altri.” L’attenzione è invece posta sul bisogno immediato del ragazzo: “La Magistratura sarà chiamata a stabilire le responsabilità penali dell’accaduto. A noi, cittadini, padri, madri, nonni, fratelli, sorelle, preme che ciò non capiti più, che le condizioni di detenzione siano le più umane possibili, e tale limitazione della libertà non può essere gravata dalla violenza. Quel giovane oggi ha bisogno di cure mediche, attenzione, protezione e futuro. Quel ragazzo non ha alcun sostegno né rete sociale. Eppure lui è nostro figlio. Figlio di questo Stato, che non ha saputo proteggerlo. Figlio adottivo di Genova e della Liguria, dove è arrivato appena maggiorenne. È figlio nostro, di noi tutte e tutti.” Richiamandosi poi ai principi costituzionali, anche il fatto che le aule studio all’interno del carcere siano state devastate deve, secondo i firmatari, essere letto come un grido d’allarme da raccogliere. Di fronte a questa situazione, i firmatari lanciano una serie di richieste concrete. Chiedono alle istituzioni di “farsi carico di questo giovane, non solo come si sta facendo dal punto di vista sanitario, ma anche educativo e sociale”, con un “progetto di reinserimento chiaro, umano, concreto”. Alle fondazioni, associazioni e professionisti del territorio, si chiede di “mettere a disposizione competenze e tempo per offrirgli un percorso di ricostruzione”. Infine l’iniziativa, in fase di attivazione, punta anche alla mobilitazione della società civile anche per gesti di riparazione che riguardino tutta la comunità carceraria. L’obiettivo finale è che “Lo Stato si faccia carico della completa riabilitazione fisica e morale di questo giovane, fino a quando il dolore sofferto sia un ricordo lontano, parte della sua esistenza ma non più ostacolo al suo cammino. Dal male si crei l’esempio di un percorso virtuoso per tutti i giovani in difficoltà”. Trieste. Caso di meningococco nel carcere, detenuto ricoverato in terapia intensiva Il Piccolo, 19 giugno 2025 È stato ricoverato lunedì in terapia Intensiva dell’Ospedale di Cattinara un paziente domiciliato nel carcere del Coroneo di Trieste, che presentava sintomi riconducibili a uno stato settico e gli esami eseguiti hanno confermato una malattia batterica invasiva da Neisseria meningitidis, conosciuto anche come meningococco. Il paziente attualmente è in isolamento presso la terapia intensiva dell’Ospedale di Cattinara in condizioni stazionarie. A seguito del ricevimento della notifica obbligatoria, la struttura di igiene e sanità pubblica ha avviato tutte le misure di prevenzione al fine di limitare il diffondersi della patologia in un’ottica di tutela della salute pubblica. È attualmente in profilassi a scopo preventivo e, come previsto, tutto il personale della Casa Circondariale venuto a contatto: più o meno 60 detenuti e 50 agenti di polizia penitenziaria. Asugi conferma il monitoraggio costante della situazione che non registra nuovi casi. Eventuali e ulteriori informazioni utili di carattere di sanità pubblica verranno comunicati dall’Azienda. Chieti. Il grido d’aiuto di Francesco, ex detenuto ai lavori socialmente utili chietitoday.it, 19 giugno 2025 “Da un anno senza rimborsi, chiedo al Comune di poter lavorare”. Il suo impiego negli uffici cimiteriali, in virtù di un protocollo, finirà a dicembre 2025 ma l’uomo, che è invalido, a 58 anni non riesce a trovare un lavoro che gli permetta di vivere dignitosamente dopo aver scontato la sua pena. L’assessore alle Politiche sociali, Giannini: “La Ragioneria sta inoltrando tutti i pagamenti. Tanti casi come questo al Comune, ma occorre fare rete”. Francesco M. è un ex detenuto di 58 anni che vive e lavora a Chieti ma che, dopo essere uscito dal carcere e aver finito di scontare la sua pena detentiva, come molti nella sua stessa situazione, sta avendo difficoltà a lavorare e a guadagnarsi da vivere. È paradossale pensare che forse stava meglio prima, almeno economicamente, poiché riusciva a sopravvivere, da come ci racconta. Francesco non ha grandi pretese: gli basterebbe un contratto part-time per riuscire a coprire le spese di affitto nell’abitazione che condivide con l’anziana madre e riuscire a fare un minimo di spesa senza dover chiedere aiuto agli amici o andare alla Caritas, dove oggi opera come volontario. Nel frattempo è un lavoratore socialmente utile assegnato al Comune di Chieti, il suo impegno è negli uffici cimiteriali. Possibilità di assunzioni non ce ne sono al momento e, accanto a questo, l’uomo convive con la frustrazione di non avere da mesi i rimborsi previsti per legge a causa di ragioni legate alla burocrazia. A giugno 2024 l’uomo viene assegnato negli uffici del cimitero comunale di Sant’Anna in base a un accordo frutto di un protocollo di intesa tra Comune e casa circondariale e in virtù del quale ha diritto una diaria di 7 euro e 50 centesimi. “Poi arriva la proroga fino a dicembre del 2024 - racconta il 58enne - quando termino il regime di semi libertà: quello stesso mese sono andato in affidamento uscendo dal carcere. Ad oggi ho un accordo verbale valido fino a dicembre 2025, ma è da ottobre 2024 che non prendo i rimborsi che mi spettano per legge, nonostante ci siano delibere comunali approvate”. Dopo i primi tre mesi di lavoro negli uffici del cimitero nei quali Marino dice di aver ricevuto 429 euro in totale, i bonifici si sono fermati. “Sono andato più volte a sollecitare i miei referenti al Comune, non riuscendo mai a parlare con il sindaco. E pensare che in carcere ero riuscito a parlare con il presidente della Repubblica Mattarella. A Chieti, invece, non riesco a parlare con il sindaco. Ho trovato il solito scaricabarile. Essendo invalido civile (legge 68/1999) e iscritto nelle liste di collocamento mirato ho fatto più volte richiesta di essere assunto come stabilito dalla legge. Non è possibile che a 58 anni debba fare l’elemosina per vivere. Purtroppo sono malato - si sfoga - devo prendere 14 medicinali al giorno, nelle aziende private non mi assumono perché sono un ex detenuto. L’unica mia speranza è questo impiego al Comune dove sono stato più di una volta ritenuto un elemento valido. Al momento non ho un centesimo e sto aspettando i pagamenti dal 2024”. La situazione di M. è sotto l’attenzione dall’assessore alle Politiche sociali del Comune di Chieti, Alberta Giannini che a Chieti Today assicura che il lavoratore sarà pagato fino all’ultimo centesimo per l’impiego tuttora in corso negli uffici cimiteriali. “L’ufficio Ragioneria del Comune di Chieti sta provvedendo in queste ore ad emettere il mandato di pagamento” spiega l’assessore confermando i ritardi legati a passaggi burocratici “in quanto il signor M., avendo cambiato posizione giuridica, passando dunque dalla semilibertà in affidamento, riceveva l’accredito tramite un conto corrente intestato alla casa circondariale di Chieti. Adesso siamo finalmente giunti a una soluzione e, grazie alla disponibilità del direttore della casa circondariale di Chieti, i pagamenti potranno continuare ad essere elargiti a favore dell’istituto di pena che poi provvederà a liquidarli sul conto del lavoratore socialmente utile”. Purtroppo per Francesco, quando scadrà l’accordo, a fine 2025, non sarà possibile continuare a lavorare per l’ente. “Non possiamo illudere nessuno in questo momento - ammette Giannini - pur comprendendo appieno o le ragioni del signor M. tant’è che l’anno scorso abbiamo disposto il rinnovo dell’accordo con lui per un anno. Al momento, però, il Comune di Chieti non può assumere: siamo in regola come percentuale di iscritti alle categorie protette su un totale di 155 dipendenti”. La vicenda di Francesco M. è simile a quella di tanti altri ex detenuti i quali, una volta scontata la pena detentiva, per età e condanne penali, non riescono ad avere accesso a una condizione lavorativa dignitosa. Il rischio di ripetere gli stessi errori per i quali sono finiti in carcere è dietro l’angolo. “Su queste cose bisogna fare rete - riflette Alberta Giannini. Bisogna modificare la normativa regionale. Da quando sono assessore ho partecipato a varie riunioni con garante detenuti, Comune, direttore della casa circondariale, assistenti sociali. Andrebbe, ad esempio, anche modificata la normativa regionale sull’edilizia popolare che ad oggi non consente la concessione di un alloggio popolare a un ex detenuto il quale, se non ha alle spalle una famiglia, dopo il carcere finisce in strada”. M. non chiede tanto. “Mi basterebbe anche un part-time da 500 euro per poter vivere dignitosamente con mia madre di 87 anni, invalida come me, che prende una pensione di circa 700 euro, pagare l’affitto, comprare i farmaci, fare la spesa e non dover ricevere dagli amici soldi che non potrò restituire. L’ultima volta in Comune - ricorda - mi sono messo in ginocchio. Chiedo solo di poter lavorare, non voglio andare a rubare”. Ivrea (To). Hanno ucciso il giornale “La Fenice” e con lei la voce dei detenuti di Liborio La Mattina giornalelavoce.it, 19 giugno 2025 La notizia ora è ufficiale, non che occorresse una ufficialità per renderla tale. Dal 15 giugno 2025 La Fenice non esiste più. Il giornale interno alla Casa circondariale di Ivrea, scritto da detenuti con la collaborazione dell’Associazione Rosse Torri, è stato ufficialmente chiuso. Dopo mesi di sospensione “tecnica” imposta dalla direzione, la voce più autentica di quel carcere è stata zittita. Non per calo d’interesse. Non per mancanza di collaboratori. Ma per volontà esplicita dell’istituzione penitenziaria, che da gennaio ha sospeso l’attività della redazione, annullato gli incontri, bloccato i computer, e tenuto fuori i volontari. Ora, con un comunicato apparso su Varieventuali.it, si certifica la fine di un’esperienza unica, simbolica, vitale. Niente più “Giornale dal carcere di Ivrea”, recita il titolo dell’annuncio. Solo “Voci dal e sul carcere”. Ma la differenza è enorme. Perché La Fenice era altro. Era parola diretta, testimonianza incarnata, pensiero libero partorito dietro le sbarre. Era il diritto, non scontato, di esprimersi. E di firmarsi. Di dire: “Questa è la mia voce. Questa è la mia verità”. Eppure, proprio quel diritto è stato messo in discussione. Prima le restrizioni sulle firme degli articoli (non possono essere sottoscritti dai detenuti), poi le censure preventive, infine la chiusura vera e propria. Il tutto motivato con una frase che pesa come una pietra: “I testi pubblicati danneggiano l’immagine del carcere”. Ma se l’immagine è così fragile da non reggere la verità, forse il problema non è chi scrive. È ciò che si vuol tenere nascosto. Perché La Fenice raccontava ciò che molti fingono di non vedere: celle piene di muffa, letti sfondati, finestre arrugginite, docce fredde, diritti negati. Ma anche storie di uomini che provano a ricostruirsi, che usano la scrittura per salvarsi. Raccontava, cioè, il carcere com’è. Non come lo si sogna, magari con un bel progetto sui gattini che gironzolano qua e là. E questo, evidentemente, dava fastidio. A denunciare il silenziamento non sono solo i volontari o i collaboratori esterni. Lo aveva fatto in modo chiaro, qualche mese fa, anche Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte Costituzionale ed ex ministro della Giustizia, che aveva definito “preoccupanti” - anzi, a ben vedere indegne - le voci di pressioni interne per impedire la pubblicazione di articoli firmati. “Se il carcere è il luogo della rieducazione - diceva Flick - non può essere il luogo dove si perde anche il diritto di pensare, di raccontare, di firmare il proprio nome.” Ancor più esplicito Francesco Lo Piccolo, direttore del trimestrale Voci di dentro: “I detenuti vengono trattati come reati che camminano. Non hanno voce, non hanno diritti. E chi cerca di restituirglieli viene escluso, zittito, spinto fuori.” E quello che è successo a Ivrea è identico a ciò che è accaduto - in questi anni - a Rebibbia, Lodi, Trento. Sempre lo stesso copione: chi scrive, chi racconta, chi dà voce ai reclusi viene messo a tacere. Ma perché? Perché in carcere la verità fa paura. Fa più rumore di un’evasione. Mette in crisi la narrazione rassicurante: “Tutto sotto controllo. Tutto civile. Tutto umano.” E allora, si parte con piccoli divieti e si arriva alla censura totale. Nessuna firma, nessuna redazione, nessuna pubblicazione autonoma. Tutto deve passare dal filtro istituzionale. Tutto deve essere edulcorato. O, più semplicemente, cancellato. Chiudere La Fenice, però, non è un atto neutro. È una scelta politica. È un messaggio chiaro: non potete parlare. Non potete mostrarvi per ciò che siete. È l’ennesimo colpo alla funzione costituzionale del carcere, che dovrebbe essere orientata alla rieducazione, non all’annientamento. Scrivere - dentro - non è un passatempo. È un atto di resistenza. È un modo per non scomparire, per rimanere uomini, per ricostruire un’identità. Ecco perché La Fenice era così importante. Perché era vera. Perché era libera. Perché era scomoda. Chiuderla è stato un errore. Grave. Un errore che pesa su chi ha deciso, su chi ha taciuto, su chi ha voltato lo sguardo, a cominciare - ci spiace dirlo - dall’amministrazione comunale e dall’assessora Gabriella Colosso delegata ad occuparsene. Su questo argomento non ha mai preso una posizione, mai fatto una dichiarazione, mai detto “beh”. Non è detta l’ultima parola. Perché come l’animale mitico da cui prende il nome, La Fenice è destinata a rinascere. Se non nel carcere di Ivrea, altrove. Se non su carta, su voce. Se non con le stesse firme, con altre. Ma tornerà. Finché ci sarà anche solo un detenuto disposto a raccontare, un volontario disposto ad ascoltare, un giornalista disposto a scrivere, nessuna censura potrà seppellire del tutto la verità. Come disse Sandro Pertini: “Negare la libertà a chi ha sbagliato è negare la possibilità stessa del riscatto.” E noi, quella possibilità, vogliamo continuare a difenderla. Scrivendo. Sempre. Ma non è finita qui. C’è un altro pezzo di storia da raccontare. E’ la storia di Vespino, redattore in questo giornale che non c’è più. Con questo suo pseudonimo scriveva tanto, ma proprio tanto. L’ultimo suo articolo risale al 9 gennaio del 2024. Tre giorni dopo “Vespino”, 47 anni, è morto. Quando la notizia è cominciata a circolare da una cella all’altra, alla velocità della luce, in molti han cominciato a piangere. A piangere di brutto. Per quello che lui rappresentava lì. E lì quel che sei stato fuori, quello che hai combinato nel mondo reale, proprio non conta. Vespino in redazione era un leader che cercava di portare avanti, con una incredibile passione, il lavoro nel suo insieme, trascinando e spronando gli altri a scrivere sempre di più e sempre meglio. Dicono che Vespino sia morto per “embolia polmonare” e in effetti “Vespino”, stando ai racconti di chi lo conosceva, da più di una settimana stava male e giorno dopo giorno era peggiorato sempre di più. Faceva fatica a camminare, respirare, muoversi. Aveva dolori in ogni parte del corpo. Nelle ultime ore le labbra erano diventate viola e il colore della sua pelle bianco-giallastra. Tutto molto strano considerando che solo qualche giorno prima che si ammalasse, sano come un pesce, aveva giocato a calcio per due ore senza alcun problema. Vespino è morto ed è subito diventato un numero, nel conteggio che si fa di chi passa a migliore vita in carcere. E per la cronaca, fredda e severa solo in questi casi, Andrea Pagani Pratis era semplicemente uno che stava scontando una condanna a 18 anni di reclusione. Uno che prima dell’arresto, faceva l’insegnante di educazione fisica. Fine della notizia. Insomma fuori dal carcere qualcuno ha detto “Amen”, là dentro, invece, in molti han cominciato a borbottare, a farsi delle domande sul senso della propria esistenza e della vita, puntando il dito sulle responsabilità di chi nell’area medica ha preso quel malessere sottogamba facendolo passare per una semplice influenza. “L’ultima volta che è sceso in infermeria - disse e scisse La Fenice - l’hanno dovuto accompagnare. Il dottore gli ha detto: prenditi una Tachipirina ed un Brufen e vedrai che ti passa... Perchè i dottori tendono sempre un po’ a sottovalutare le lamentele dei detenuti, pensando che esagerino... Quel dottore ... dovrà come minimo fare i conti con la propria coscienza”. E poi ancora: “Oggi ci sentiamo tutti colpevoli anche noi compagni di sezione. Ci domandiamo se potevamo fare qualcosa in più per aiutarlo”. Ebbene sì! Vespino non stava esagerando. Sarebbe bastata un’analisi del sangue per capirlo. Roma. Volontariato in carcere: la storia di Laura, 86 anni di dedizione e ascolto di Laura Proietti b-hop.it, 19 giugno 2025 Da oltre trent’anni nei reparti di Rebibbia, l’ex insegnante Laura Fersini ha scelto di camminare accanto a chi è detenuto senza mai voler essere chiamata “volontaria”. In circa trenta anni Laura Fersini, 86 anni, ex insegnante, ha attraversato le porte di varie carceri romane: Rebibbia Nuovo Complesso, Casal del Marmo, e dal 2008 Rebibbia Femminile. Una straordinaria storia di chi ha dedicato molto del suo tempo a cercare di capire il “sistema-carcere” ma soprattutto per essere utile a chi si trova dall’altra parte del muro. Classe 1939, Laura Fersini è una donna minuta e guardandola non si può fare a meno di chiedersi dove prenda tutta quella forza ed energia che la porta ancor oggi a salire in auto e guidare fino al carcere per non mancare agli appuntamenti con le detenute che incontra nei vari reparti. Non è possibile sapere con certezza se è attualmente la volontaria più anziana che entra nelle carceri italiane (a Rebibbia femminile lo è) ma sappiamo per certo che non ama definirsi “una volontaria”: “Io sono semplicemente Laura”, ripete sorridendo. “Quando nel giugno del 1996 mia madre morì mi resi conto che, anche se insegnavo nella scuola statale, mi era rimasto molto tempo libero che potevo dedicare agli altri - racconta a B-Hop. Proprio in quell’anno l’HIV aveva subito una svolta notevole: calato il numero dei decessi ma non quello dei contagi. Una collega mi disse che la Caritas aveva una Casa in cui accoglieva alcune persone malate e decisi di andare ad un incontro-dibattito in cui si affrontava il problema. Don Luigi Di Liegro, storico direttore della Caritas di Roma, concluse il suo discorso dicendo: ‘…e non lustratevi la medaglia!’. Me lo sono portato dentro per tutta la vita. Ho iniziato a frequentare la casa. Di solito ci incontravamo la sera; cucinavamo e mangiavamo insieme, e insieme lavavamo i piatti e mettevamo a posto la cucina. Spesso qualcuno di loro finiva in carcere per reati precedenti e mi chiedeva di andare a trovarlo; ci volevano almeno due mesi per ottenere l’autorizzazione e lo incontravo dietro un vetro. Decisi di entrare come volontaria, con l’associazione VIC-Volontari in carcere. Che tipo di supporto è possibile offrire ai detenuti? Come insegnante di lettere ti capitava di aiutarli nello studio oppure vi incontravate semplicemente per parlare? La mia scelta di fondo era: non rovesciare niente sulle loro teste. Quindi niente progetti: ce n’erano fin troppi. Quando mi chiedevano di aiutarli in qualcosa, vedevo di cosa si trattava e cercavo di capire se potessi essere utile. Due esempi: a Rebibbia femminile una donna aveva messo su un gruppo in cui ciascuna condivideva le proprie letture e le proprie esigenze culturali; mi chiese di dare una mano ed entrai nel gruppo, sempre attenta a non “invadere”. Al Nuovo Complesso (Rebibbia maschile) i detenuti avevano messo su un Gruppo Universitario; uno di loro mi disse che quasi tutti avevano preso all’interno di qualche carcere il diploma di scuola superiore. Mi chiedeva che dessi loro un metodo per affrontare in modo valido gli studi universitari. Naturalmente dovetti formulare un progetto per ottenere l’autorizzazione della Direzione; quello che avevano presentato loro era stato respinto. E non mi sono accontentata dei miei studi universitari: ho un intero scaffale di libri sul/sui Diritto/Diritti dell’uomo e uno scaffale con testi di psicologia. Forse ho letto/studiato più per aiutare loro che per laurearmi in lettere classiche. In 30 anni il mondo è cambiato: le carceri pure? A questo non so rispondere; continuo a pensare che tutto dipende dalle persone e non dai regolamenti: l’ho sperimentato nella scuola e lo sto sperimentando in carcere. Ci sono dei regolamenti da rispettare, è vero, ma il modo in cui questo viene fatto dipende dal singolo: insegnante, volontario, agente, educatore, detenuto. Le cronache ci rimandano a istituti di detenzione in grave difficoltà. Si parla spesso di un carcere che non riesce sempre ad essere coerente con “il fine rieducativo della pena”. Quali sono le tue impressioni in merito? Sono abbastanza convinta che non si possa educare quando si toglie la libertà. Maria Grazia Giannichedda, che insegna sociologia nell’Università di Cagliari, anni fa, in un convegno disse che nella storia ogni volta che si è parlato di “rieducazione” si son fatte cose mostruose: vedi gulag sovietici e campi di sterminio nazisti. Ho letto che i padri costituenti discussero a lungo sulla parte finale dell’art. 27 della Costituzione e conclusero che dovesse significare che non si manda qualcuno in carcere “quia peccavit” ma “ne peccetur”. Di cosa ci sarebbe bisogno, oggi, affinché il percorso delle persone detenute possa essere costruttivo? Io credo che “il percorso di persone rinchiuse non può essere costruttivo”; cito due testi a sostegno di ciò: “[…] nessuno educa nessuno, nessuno si educa da solo; gli uomini si educano insieme, con la mediazione del mondo” (l’opposto del carcere?!) di Paulo Freire, pedagogista e teologo brasiliano; “[…] la fabbrica è nociva alla salute, l’ospedale produce malattia, la scuola crea emarginati e analfabeti, il manicomio produce pazzia, le carceri producono delinquenti” da “Crimini di pace” di Franco Basaglia. E se c’è qualche eccezione…beh, l’eccezione conferma la regola; non so chi l’ha detto, ma mi convince. Educazione e carcere sono sostanzialmente un ossimoro. E allora? Perché passo tante ore in carcere ti chiederai? Per fare un pezzo di strada assieme a quelli che la società ha allontanato, provando a dar loro strumenti, soprattutto metodologici, per affrontare il mondo esterno senza farsi schiacciare; per portare all’interno un po’ del mondo a cui sono stati strappati; per crescere a contatto con loro, che hanno esperienze di vita diverse dalle mie; ma hanno passioni, paure, sogni, emozioni ecc. esattamente come me. Una detenuta ha chiamato “spazi di libertà” le tante forme in cui i volontari sono presenti in carcere. Faccio mia l’espressione: spazi di libertà. Nei quali ciascuno di noi cresce nella misura in cui si lascia attraversare - e mettere in discussione - dall’esperienza che si trova a vivere e dall’altro da sé che incontra. Un episodio bello che ti porti nel cuore? Ce ne sono davvero tanti; ne scelgo uno. Rebibbia Nuovo Complesso, reparto Infermeria. Durante il mio ingresso settimanale un agente mi dice:” Vieni, Laura, andiamo a convincere Giovanni ad interrompere lo sciopero della fame. I medici sono molto preoccupati”. Gli dico che non posso entrare nelle celle e lui: “…e io te lo devo impedire, ma l’alternativa è che lui non sopravviva”. Entriamo; ci sediamo sul lettino del detenuto, io da un lato e l’agente dall’altro. Gli parliamo di sua moglie e della sua bambina, che io avevo conosciute, e stiamo lì finché non chiede che gli portino da mangiare. Non dimenticherò mai quell’agente, sempre pronto a segnalarmi i casi urgenti e ad aiutarmi a risolverli, se possibile. Che consigli daresti a chi come te vorrebbe diventare un volontario in carcere? Prima di tutto, non pensi mai “sono un/a volontario/a” ma solo: “sono Gianni, Laura, Andrea ecc. e vado ad incontrare Carlo, Mario, Lucia, Valentina ecc.”. Questo non vuol dire che io neghi la validità del volontariato. In una società in cui le istituzioni non riescono a rispondere a tutte le necessità dei cittadini il volontariato è essenziale, ma lo intendo soprattutto come “cura dell’altro”, di cui ciascuno dovrebbe farsi carico. E l’altro è per me il vicino di casa che ha una difficoltà, il passante che, anche sulle strisce pedonali si ferma per dare la precedenza ad una macchina in arrivo, l’anziano/a che esce da un supermercato con una borsa troppo pesante per le sue forze ridotte, ecc. ecc. Torino. L’istruzione è un diritto, anche in carcere di Davide Pecorelli collettiva.it, 19 giugno 2025 Ieri è stato il primo giorno della maturità anche nella sezione carceraria del “Primo Liceo Artistico” della città sabauda. “La scuola è l’unico legame con il mondo, l’unica via di riscatto qui - spiegano i docenti -, ma i tagli rischiano di cancellarla”. L’istruzione è un diritto, anche in carcere. Per questo la Cgil di Torino ha raccontato il primo giorno di maturità al “Lorusso-Cutugno”, attraverso le voci di due docenti. La sezione carceraria del “Primo Liceo Artistico” rischia di chiudere per i tagli del Ministero. “Siamo uno dei pochi legami che rimangono con il mondo esterno per i ragazzi all’interno - spiega la professoressa Hadil, docente della sezione carceraria del “Primo Liceo Artistico” -. Imparano, crescono, sono sereni e hanno un rapporto con noi meraviglioso. Il futuro di questi ragazzi, come il nostro, è molto molto precario in questo momento, ci saranno dei tagli molto importanti, soprattutto per quanto riguarda la nostra scuola, vorrebbero tagliare il primo periodo, quindi primo e secondo anno. Il che equivale a uccidere la scuola. Il diritto all’istruzione è fondamentale, il fatto che siano in carcere comunque implica già di fatto un taglio su tantissimi altri loro diritti. Togliergli anche il diritto all’istruzione che in questo momento per loro è davvero l’unica strada sarebbe drammatico”. “Lavorare in carcere non è un gesto di pietà, ma un atto di giustizia - racconta il professor Leardo, collega di Hadil -. E la recidiva scende al di sotto del 9% nel caso delle persone che hanno l’opportunità di poter seguire un corso di istruzione scolastico o hanno l’opportunità di poter lavorare all’interno del carcere. Questi tagli annunciati hanno frammentato delle cattedre che storicamente avevano una continuità. Alcuni di noi docenti dovranno andare a lavorare in altri istituti e questo comporterà sicuramente una perdita di risorse, di energie che graverà sull’efficacia della nostra didattica in carcere”. Ivrea (To). Transessuali in carcere, diritti sospesi: un dibattito che mancava di Liborio La Mattina giornalelavoce.it, 19 giugno 2025 Una conferenza pubblica affronta il tema della detenzione delle persone transgender, tra discriminazioni sistemiche, sezioni protette e buone prassi. A Ivrea una delle più alte presenze trans in carcere d’Italia. In un carcere del Piemonte, quello di Ivrea, sono rinchiuse mediamente una decina delle circa settanta persone transgender presenti oggi negli istituti penitenziari italiani. Un numero che sembra piccolo, ma che in realtà racconta di una delle minoranze più estreme e vulnerabili dell’intero sistema carcerario. Ed è proprio da Ivrea che lunedì 23 giugno, alle 14.30, nella Sala Dorata di Palazzo Civico, partirà una riflessione pubblica e partecipata sul tema della detenzione delle persone transgender, con la conferenza intitolata “Trans in carcere. Il territorio, la pena, le persone e la transizione di genere”. L’iniziativa nasce in diretta continuità con la Giornata internazionale contro l’omofobia e la transfobia, celebrata ogni anno il 17 maggio, e vuole essere - come si legge nel comunicato degli organizzatori - “un’occasione di confronto sul tema della detenzione delle persone transgender, prendendo spunto dalle più significative ed innovative esperienze e buone prassi attuate in Italia”. A Ivrea si parlerà di carcere, ma soprattutto si parlerà di discriminazioni, di esclusione, di dignità negata. La conferenza intende accendere i riflettori su un gruppo di persone che, oltre agli effetti devastanti della privazione della libertà personale, subisce quotidianamente forme di emarginazione aggiuntiva. “Si sta parlando di una minoranza estrema nell’ambito penitenziario: un gruppo di persone che aggiungono agli effetti negativi della privazione della libertà personale quelli legati a discriminazioni specifiche”, scrivono gli organizzatori. La prima e più evidente tra queste discriminazioni è quella di sistema: troppo spesso, le persone transgender vengono trattate come una parte “diversa” rispetto al resto della popolazione detenuta. Diverse nei numeri, certo. Ma soprattutto diverse nel modo in cui vengono gestite, assegnate alle sezioni, integrate (o escluse) nei percorsi trattamentali. Il rapporto annuale 2024 del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti lo afferma con chiarezza: “In linea di principio, le persone transgender dovrebbero essere collocate nella sezione del carcere corrispondente al sesso a cui si identificano”, indipendentemente da quanto indicato nei loro documenti anagrafici. Ma la realtà carceraria italiana è ben lontana da questo principio. La prassi consolidata è quella della collocazione in sezioni protette, quasi sempre all’interno di carceri maschili. Una protezione solo apparente, che si trasforma in isolamento, in esclusione, in ulteriore privazione. “La reclusione nelle sezioni protette delle persone transgender, forse più sicure ma pur sempre all’interno di carceri maschili, comporta problemi di accesso alle attività trattamentali (cultura, scuola, lavoro, etc.) e spesso anche ai beni di supporto, aprendo così la strada alla violazione dei loro diritti”, si legge ancora nel comunicato. A confrontarsi su questi temi saranno, tra gli altri, Gabriella Colosso, assessora alle Politiche di integrazione, Pari opportunità e Lavoro del Comune di Ivrea, Raffaele Orso Giacone, garante comunale delle persone private della libertà, Alessia Aguglia, direttrice della Casa Circondariale di Ivrea, Sofia Ciuffoletti, ricercatrice dell’Università di Firenze e garante a San Gimignano, Daniela Ronco, professoressa dell’Università di Torino e membro del Comitato scientifico di Antigone, Antonietta Cozza, avvocata e attivista del MIT di Bologna, Cristina Bocca, direttrice del Centro Servizi Formativi Casa di Carità Arti e Mestieri, Silvia De Giorgis, volontaria dell’AVP attiva nel carcere eporediese, e Bruno Mellano, garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà. Il titolo della conferenza, “Trans in carcere”, riassume una questione di cui si parla troppo poco, e male. La scelta della sede - la Sala Dorata del Comune - testimonia invece la volontà di aprire un dibattito pubblico, aperto, accessibile, che riguarda tutti: non solo chi vive o lavora all’interno delle carceri, ma chiunque creda che l’identità di genere e i diritti umani non debbano essere sospesi con la libertà. Perché essere privati della libertà personale non può e non deve mai significare essere privati della propria identità. E nemmeno del diritto a essere considerati persone. Cosa significa transgender - Il termine transgender si riferisce a una persona la cui identità di genere non corrisponde al sesso assegnato alla nascita. Questo significa che, per esempio, una persona nata con un corpo maschile può identificarsi come donna, così come una persona nata con un corpo femminile può riconoscersi come uomo. Ma l’identità transgender va oltre questa semplice inversione: può includere anche chi non si riconosce né completamente uomo né completamente donna, oppure chi si identifica in un genere fluido. Essere transgender riguarda il modo in cui una persona percepisce profondamente se stessa e come desidera vivere la propria identità nel mondo. Non è necessario aver intrapreso un percorso medico, ormonale o chirurgico per essere considerati transgender: ciò che conta è il sentire interiore, il bisogno di essere riconosciuti nella propria verità. A differenza di cisgender, termine che indica chi si identifica nel genere corrispondente al proprio sesso biologico, una persona transgender affronta spesso un cammino complesso, fatto di affermazione, visibilità e, purtroppo, anche di discriminazioni. Il termine transessuale, utilizzato più frequentemente in passato, viene oggi considerato parziale o riduttivo, perché tende a ridurre l’identità di genere alla sola dimensione medica della transizione. Riconoscere le persone transgender significa rispettare il loro nome, il loro genere, la loro identità in ogni contesto della vita quotidiana, comprese le istituzioni e i luoghi più rigidi, come il carcere. Perché l’identità non è un’opinione, ma un diritto. Gorgona (Li). Debutta in prima nazionale il nuovo spettacolo del progetto con gli attori detenuti firenzetoday.it, 19 giugno 2025 Domenica 29, lunedì 30 giugno e martedì 1° luglio e a settembre si prosegue con la rassegna di teatro in carcere “Destini incrociati”. Dopo il successo della “Trilogia del Mare” (Ulisse, Metamorfosi, Una Tempesta), il progetto “Il Teatro del Mare”, ideato e diretto da Gianfranco Pedullà, prosegue con una nuova creazione originale: La Città Invisibile, che debutterà in prima nazionale all’interno della Casa di Reclusione dell’Isola di Gorgona nei giorni domenica 29, lunedì 30 giugno e martedì 1° luglio 2025. Lo spettacolo è il frutto di un laboratorio teatrale e musicale condotto da Gianfranco Pedullà, Francesco Giorgi e Chiara Migliorini, con la partecipazione attiva dei detenuti. Il testo nasce da un percorso di scrittura collettiva coordinato da Chiara Migliorini, basato su domande, conversazioni e suggestioni che hanno messo in relazione i partecipanti con lo spazio dell’isola, facendo emergere ricordi, sogni, desideri, paure e timori. Questa pratica laboratoriale ha trovato ispirazione nell’opera di Italo Calvino Le città invisibili e nelle Carte dei Tarocchi. Dal 2020, il progetto “Il Teatro del Mare”, ideato e diretto da Gianfranco Pedullà, ha trasformato l’Isola di Gorgona in un palcoscenico unico, dove i detenuti della Casa di Reclusione diventano protagonisti di un approfondito percorso artistico e umano. La trilogia composta da “Ulisse”, “Metamorfosi” e “Una Tempesta” ha visto - negli anni 2020/2025 - la partecipazione alle repliche sull’isola di oltre 3000 spettatori provenienti da tutta Italia, offrendo un’esperienza immersiva che unisce arte e riflessione sociale. Fuori da Gorgona gli spettacoli sono stati rappresentati a Roma, Piombino, Firenze, Follonica, Lastra a Signa alla presenza di oltre 2000 spettatori. Il progetto ha ricevuto riconoscimenti significativi, tra cui il premio Catarsi/Associazione Nazionale Critici di Teatro per “Ulisse” nel 2020, attestando l’importanza del teatro come strumento di rieducazione e reintegrazione. L’Isola di Gorgona, con la sua natura incontaminata e la sua storia, diventa così simbolo di rinascita e speranza, dimostrando come l’arte possa abbattere le barriere e costruire ponti tra mondi apparentemente distanti. Questo nuovo capitolo con “La Città Invisibile” è un viaggio poetico e simbolico che esplora l’identità, la memoria e il desiderio di trasformazione, offrendo una narrazione corale che intreccia le storie personali dei partecipanti con l’immaginario collettivo. La produzione è realizzata in collaborazione con la Casa di Reclusione di Gorgona, con il Prap di Firenze, con il contributo della Regione Toscana, e il sostegno del Teatro delle Arti e del Comune di Lastra a Signa. Dopo il debutto nazionale previsto per il 29 e 30 giugno e il 1° luglio, l’Isola di Gorgona sarà tra i protagonisti della prossima Rassegna Nazionale di Teatro in Carcere “Destini Incrociati”, in programma dal 25 al 27 settembre 2025 tra Firenze, Livorno e appunto, l’isola. La rassegna, giunta all’undicesima edizione, è promossa dal Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere in collaborazione con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, il Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità, con il sostegno del Ministero della Cultura e della Regione Toscana. Destini Incrociati - Le città visibili sarà un’occasione di confronto nazionale tra esperienze artistiche nate all’interno del carcere, tra cui il percorso teatrale attivo da anni sull’Isola di Gorgona, che proprio con La Città Invisibile apre un nuovo capitolo dopo il successo della “Trilogia del Mare”. Il titolo della rassegna rende omaggio all’opera di Italo Calvino, un richiamo ancora più significativo nel 2025, anno in cui ricorre il quarantesimo anniversario della morte dello scrittore, una delle figure più influenti della letteratura italiana del Novecento. Il programma della rassegna includerà spettacoli, proiezioni video, incontri e momenti formativi, valorizzando il ruolo del teatro come strumento di riflessione, dialogo e reinserimento. Un’anteprima della rassegna è prevista per il 24 settembre a Firenze, mentre gli eventi principali si svolgeranno nei giorni successivi con appuntamenti aperti alla cittadinanza. Qui informazioni sulla rassegna: https://www.teatrocarcere.it/?p=5098 Per partecipare allo spettacolo a fine giugno è obbligatoria la prenotazione scrivendo a teatrocarcere.tparte@gmail.com oppure: https://teatropopolaredarte.it/il-teatro-del-mare-la-citta-invisibile. Dei delitti, delle pene e del reinserimento di Giancarlo de Cataldo La Repubblica, 19 giugno 2025 Donatella Stasio analizza il sistema carcerario italiano attraverso la testimonianza di una storia di recupero. Dice l’articolo 27 della Costituzione che la pena non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e che, oltre a punire il condannato per i reati commessi, deve tendere alla sua rieducazione. Il che implica l’impegno a favore del detenuto in vista della futura libertà: i permessi, la semilibertà, la riduzione della pena per buona condotta, l’affidamento ai servizi sociali, e il diritto all’affettività, di recente affermato da una sentenza (rimasta inapplicata) della Corte Costituzionale. Quanto tutto questo sia poco gradito all’attuale classe dirigente del nostro Paese è chiaro, se si guarda alle nuove fattispecie di reato introdotte negli ultimi due anni, al linguaggio tonante delle reiterate “grida manzoniane” adottate a ogni piè sospinto, alla tendenza a risolvere le eventuali emergenze sociali a botte di aumenti di pena. Per non parlare delle furibonde campagne sulla sicurezza percepita (perché di quella reale si parla poco e male) orchestrate dalla stampa, diciamo così, conservatrice. Eppure, il carcere, quando è organizzato secondo il modello costituzionale, funziona. Ed è in grado di restituire alla libertà individui pronti a contribuire alla vita sociale in modo legale, a lasciarsi alle spalle quelle che i vecchi penalisti chiamavano “le morte gore del delitto”. Questo importante, nobilmente indignato libro L’amore in gabbia di Donatella Stasio, scrittrice e giornalista a lungo portavoce della Corte Costituzionale, da sempre impegnata sul fronte della difesa dei diritti di ultimi e fragili, racconta una luminosa storia di riscatto e cambiamento: quella di Gianluca, cinquant’anni dei quali undici passati in galera, prima ragazzo ribaldo, poi delinquente professionista, ospite di penitenziari di massima sicurezza, infine, pagato il suo debito, e grazie anche al “giusto” trattamento penitenziario ricevuto, cittadino e nulla più. Nei colloqui, negli scambi epistolari, spesso ricchi di sensibilità, ma a volte anche di una brutale sincerità, rivive la storia di un ragazzo nato nella periferia milanese, segnato dalla precoce scomparsa del padre, attratto sin da adolescente dai miti del branco, “spaccino” negli anni della decadenza della Milano da bere, custode di armi, consumatore compulsivo di coca, recidivo. Un irrecuperabile, insomma. Sino all’approdo al carcere-modello di Bollate: dove la rieducazione si fa sul serio. Ci sono due pericoli che incombono da sempre sulla letteratura intorno al carcere. Il primo è di indulgere nell’autocommiserazione dell’”angelo caduto”, trascurando o minimizzando il male commesso. Il secondo nell’elogio delle virtù rieducative della galera. Stasio e Gianluca li evitano entrambi. Stasio non risparmia critiche alla gestione del settore penitenziario, e soprattutto alla diffidenza con la quale l’universo dei benpensanti guarda alla prospettiva costituzionale: il mantra “ma che pena è se stanno sempre a spasso o fare teatro? Questa è una villeggiatura” aleggia come una nube oscura sulle pagine del libro. Gianluca, dal suo canto, ci risparmia il piagnisteo, rivendica anche con una certa durezza il suo aspro percorso, non fa sconti a sé stesso. Il vero reinserimento è consapevolezza, autoanalisi spietata. Non li ho manipolati, confessa Gianluca in un passaggio di lucida confessione, ma non mi sono mai visto come loro mi vedevano. Scrivevano “bravo” sulle relazioni, ma bravo di cosa? La prova vera sarebbe venuta fuori, una volta finita la pena. E sarebbe stata una prova tremenda. Stasio ci racconta di come questa prova sia stata superata. Ci dà una piccola speranza. Si può fare. Ma non “per grazia ricevuta”. Si può fare con dedizione, impegno, onestà, fatica. Dentro come fuori. Così anche una piccola speranza può diventare una grande vittoria. Il libro - “L’amore in gabbia”, di Donatella Stasio, Castelvecchi, pagg. 182, euro 18,50 “La zona di interesse”, il nuovo numero di Voci di dentro, rivista che si occupa di carcere e diritti di Francesco Lo Piccolo vocididentro.it, 19 giugno 2025 Sull’orlo di un baratro e indifferenti alle sofferenze dei tanti bombardati, in fuga, respinti, annegati, deportati, torturati, incarcerati. Voci di dentro, la rivista che si occupa di carcere e diritti, ha pubblicato in questi giorni il n. 56 con il titolo “La zona di interesse” chiaro riferimento al film di Jonathan Glazer nel quale si racconta della bella vita in una bella villa della famiglia di Rudolf Höss, ufficiale nazista comandante del campo di concentramento e sterminio di Auschwitz. E l’immagine della copertina di Voci di dentro vuole proprio rappresentare il nostro paradiso, una Belle Époque con uomini e donne al ristorante, tra luci soffuse e calde, tra calici di vino e sorrisi, chiusi nella zona d’interesse, cloroformizzati dai media dominanti, mentre fuori dal locale, al di là delle vetrate, si vede la guerra, il fuoco, la morte di interi popoli… quello che oggi sta veramente accadendo. Tra gli articoli di forza di questo numero (72 pagine, 2 mila copie, visibile gratuitamente sul sito vocididentro.it) le analisi sulla situazione in Medio Oriente a cura di Roberto Reale e Piergiorgio Bortolotti; gli approfondimenti di Carmelo Cantone, Anna Acconcia, Annapaola Lacatena su restrizioni e censure ai giornali delle carceri, su condizionamenti e clima securitario; i testi di Vincenzo Scalia e Francesco Blasi sul Decreto sicurezza. A seguire, oltre agli articoli sui Cpr e sulla sentenza sui Tso, in questo numero grande spazio viene dedicato gli articoli delle persone ristrette dalle redazioni di Chieti, Pescara, Bologna, a quelle del gruppo di sostegno psicologico ai parenti dei detenuti fondato da Luna Casarotti e Vito Totire. E ancora sei pagine sono dedicate al vitto in carcere con la pubblicazione delle e-mail inviate da Rebibbia alla Garante Stramaccioni. Illuminante l’articolo di Antonio Gelardi, già dirigente penitenziario, sul carcere di Santo Stefano e sull’esperimento attuato nel 1952 da Eugenio Perucatti e stroncato otto anni dopo. La rivista si può scaricare gratuitamente da questo link: https://drive.google.com/file/d/1xhF1KDOSHYYwLUM2YHezKjafr1vokzbr/view?usp=sharing Media. Come e perché dobbiamo affrontare l’odio online di Milena Santerini* Avvenire, 19 giugno 2025 Sui social l’hate speech è talmente comune che si rischia di esserne assuefatti. Ma solo combatterlo, con politiche e azioni mirate, può prevenire violenze nel mondo reale. Nella Giornata internazionale per il contrasto ai discorsi d’odio, l’incontro tenutosi al Senato tra il Presidente dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa Theodoros Rousopoulos, Liliana Segre e la Commissione contro l’intolleranza, razzismo e antisemitismo ripropone la necessità di affrontare il tema del discorso d’odio soprattutto nella prospettiva di un’ecologia dei media online. Stiamo normalizzando l’hate speech? Passato lo scandalo e la preoccupazione per i casi più noti, cala l’attenzione della società e delle istituzioni, mentre anche esponenti politici lo utilizzano. Stiamo imparando a convivere con il discorso d’odio che colpisce ora innocenti cittadini, ora minoranze, o persone fragili. Razzismo, antisemitismo e misoginia mutano pelle ma dominano il web. L’esposizione continua a toni forti o insulti porta a una desensibilizzazione graduale, e a sottostimarne gli effetti dannosi. C’è purtroppo un legame molto chiaro tra l’esposizione a messaggi di odio online, la desensibilizzazione e l’aumento dei pregiudizi, ma soprattutto il rischio di disimpegno morale: più si attenua la percezione dell’odio, più diminuiscono le probabilità che lo spettatore reagisca mettendo in campo comportamenti d’aiuto. Il rischio è di rassegnarsi al suo dilagare, considerandolo uno dei tanti modi in cui si esprime la conflittualità umana. Ma l’odio online non è normale. Anche se l’ostilità e la violenza sono sempre esistite, e nonostante alcuni parlino solo di “consuete” dinamiche delle conversazioni, l’habitat stesso dei social network favorisce la diffusione di ostilità, diffamazione, insulti, falsità dirette contro singoli o appartenenti a gruppi bersaglio, dagli immigrati agli ebrei, dalle donne ai disabili. L’hate speech online colpisce e minaccia i gruppi bersaglio, traumatizza le persone, conferma nell’idea che alcuni gruppi e minoranze sono meno degni degli altri, porta le persone non violente ad astenersi, utilizza il pensiero cospiratorio. Quindi, monitorare e affrontare l’odio online appare cruciale per prevenire violenze nel mondo reale. Si dimentica, infatti, che l’odio non è solo un’emozione privata, ma un atteggiamento che può trasformarsi in azione, alimentare polarizzazioni sociali e giustificare forme di esclusione o violenza. La situazione si complica con l’utilizzo spregiudicato della nuova Intelligenza Artificiale, che rende il confine tra “vero” e falso” molto labile, e diffonde immagini manipolate la cui autenticità viene smentita solo dopo che il danno è fatto. Da parte delle grandi piattaforme, che da tempo sanno come l’intensità emotiva sia una forma di business, il disimpegno verso le espressioni d’odio, è evidente: lo attestano la dichiarata rinuncia a moderare i contenuti, e la bassa percentuale di rimozioni, anche quando i contenuti antisemiti o razzisti sono evidenti. Le politiche europee, invece, con il Digital Services Act, vanno in altra direzione, e sono orientate a contrastare i contenuti illegali. Ci sono molte possibilità di azione che l’Italia può cogliere, a diversi livelli e con interventi sistemici. Conoscere meglio il fenomeno significa non tanto misurare la quantità di odio, ma concentrarsi sul suo andamento, in particolare sui “picchi” di aggressività sociale, corrispondenti ai fatti di cronaca o crisi internazionali (momenti di maggiore odio verso le donne, o gli immigrati, o antiebraico). Le ricerche mostrano che è possibile monitorare quelle che possiamo chiamare le “comunità di odio”, gruppi i cui membri rilanciano i messaggi gli uni degli altri, nonché i profili degli attivisti della rete. Gli algoritmi possono anche essere usati non solo per nuocere, ma in modo positivo per decifrare e identificare meglio l’odio online. L’azione di organismi come il Consiglio d’Europa, importante garanzia dei diritti umani, che per primo ha definito l’hate speech, o della Commissione Segre, può dare impulso a un maggiore contrasto. La nascita di alcune Commissioni a livello locale, come quella del Comune di Milano, fa sperare. Anche a livello normativo ci sono vari interventi da intraprendere per non normalizzare l’odio, a partire dall’inserire specificatamente l’addestramento degli algoritmi in funzione del contrasto dei fenomeni d’odio nella nuova legge sulla AI in discussione in Parlamento. Coltivare le alleanze internazionali è necessario: appuntamento con il Consiglio d’Europa a Roma per la prossima Giornata del contrasto ai discorsi d’odio nel 2026. *Consulente della Commissione intolleranza, razzismo, antisemitismo, istigazione all’odio e alla violenza del Senato “Diritto a stare bene”, parte la raccolta firme per un servizio psicologico nazionale di Marina Sereni Il Domani, 19 giugno 2025 A lanciare il testo elaborato da un comitato scientifico l’ente del terzo settore Pubblica. Per mettere in collegamento i servizi di psicologia pubblici servono 3,3 miliardi annui. Per portarlo in parlamento servono 50mila firme. Una campagna di raccolta firme per raccogliere le 50mila sottoscrizioni necessarie per portare in parlamento una proposta di legge che istituisca una rete psicologica nazionale pubblica e gratuita per tutti. L’iniziativa si chiama Diritto a stare bene ed è promossa da Pubblica, un’associazione senza scopo di lucro ed è finanziata con il supporto di Project System, primo fondo filantropico italiano dedicato all’attivismo civico. Il testo della proposta di legge nasce dal lavoro portato avanti per oltre tre anni da un comitato scientifico composto da accademici, professionisti ed esperti nel campo dei diritti, della ricerca e dei servizi pubblici. L’idea è quella di mettere in piedi una Rete Psicologica Nazionale che, nei piani, riduca la pressione sul sistema sanitario e sulle liste di attesa: secondo uno studio dell’università Sapienza e UnoBravo, infatti, “i soggetti che hanno intrapreso un percorso di supporto psicologico di almeno sei mesi hanno dichiarato una riduzione nell’utilizzo di prestazioni sanitarie: accessi al pronto soccorso, visite specialistiche ed esami da laboratori” si legge in una nota diffusa dall’associazione. Per costruire la rete che metta in collegamento i servizi di psicologia pubblici servirebbero “oltre 3,3 miliardi di euro annui entro il 2026”. Il disegno prevede “interventi psicologici in tutti i principali ambiti di vita e contesti istituzionali. Tra i servizi previsti figurano quelli in ambito ospedaliero/sanitario (Spos), nelle scuole e università (Spsu), per l’infanzia e l’adolescenza (Centri per il Bambino e la Famiglia, Centri Prg), per le persone con disabilità (Sppd), con l’istituzione specifica dell’Operatore per l’Emotività, l’Affettività e la Sessualità (Oeas), nei servizi per le emergenze (Spem), nel mondo del lavoro (Spla), nello sport (Spsp) e nelle carceri”. Migranti. Gradisca, la denuncia degli attivisti: “Pestaggi al Cpr”. La Questura: “Tutto falso” di Simona Musco Il Dubbio, 19 giugno 2025 La rete No Cpr diffonde video scioccanti. Ma le forze dell’ordine smentiscono: “Una strumentalizzazione”. Serracchiani: “Quel posto va chiuso”. Un uomo con addosso solo l’intimo corre tra le celle, respinto dagli idranti e inseguito da agenti in tenuta antisommossa, con in mano dei manganelli. Una volta raggiunto, viene circondato e trascinato in una stanza che sottrae la scena alla ripresa. Chi registra il video grida più volte “no!”, ma nessuno risponde. Un altro video, più crudo, mostra lo stesso uomo privo di coscienza a terra. Attorno e addosso a lui del sangue. Un compagno cerca di sollevargli la testa, pronuncia parole nella sua lingua, poi in italiano: “Tutto sangue”. Sono immagini che scuotono quelle che arrivano dal Centro di permanenza per il rimpatrio di Gradisca d’Isonzo. La rete No Cpr denuncia violenze e condizioni sanitarie al collasso. Da giorni, infatti, i trattenuti denunciano una realtà insostenibile, raccontando di cibo scadente, un’epidemia di scabbia fuori controllo e una disperazione crescente. La risposta? A quanto sostengono i migranti sarebbe la repressione. Ma le forze dell’ordine negano. La ricostruzione della Questura - che minaccia querele - è completamente diversa: “La sera del 5 giugno, durante una rivolta con incendi appiccati dagli ospiti nella cosiddetta “zona blu”, il personale della Polizia di Stato, con il supporto della Guardia di Finanza, è intervenuto per ripristinare l’ordine e garantire la sicurezza del personale dell’Ente Gestore impegnato nello spegnimento dei roghi. Gli operatori sono stati oggetto di lanci di bottiglie, frutta e altre suppellettili, e hanno dovuto fronteggiare azioni coordinate di disturbo. In questa fase gli ospiti sono stati fatti rientrare nelle rispettive camere, come documentato da un video che mostra un soggetto a torso nudo accompagnato nella propria stanza”. Il secondo video è stato realizzato circa un’ora dopo, quando “lo stesso straniero si è fatto medicare presso l’infermeria del Cpr. Secondo quanto da lui riferito e registrato agli atti, la ferita riportata (una lesione superficiale di 2 cm al capo) è stata causata da una caduta accidentale. È stato medicato in infermeria senza necessità di ulteriori cure”. L’uomo, sostiene la Questura, sarebbe “già stato protagonista di episodi con dinamiche compatibili con atti autolesionistici a fini strumentali. Un altro video del 6 giugno mostra una messinscena enfatizzata con effetti visivi e simulazione di svenimento. Dunque - conclude la Questura - non c’è stato alcun pestaggio e infatti non ne esiste alcuna prova documentale. Peraltro gli ospiti del Cpr hanno la possibilità di possedere telefonini e quindi avrebbero potuto facilmente riprendere qualsiasi ipotetico abuso. L’intervento si è svolto nel rispetto delle procedure, per garantire l’incolumità degli ospiti e la sicurezza della struttura. Nei confronti di coloro che hanno accusato i rappresentanti delle forze dell’ordine di aver proceduto a un pestaggio, gli uffici della questura si riservano di procedere nelle sedi competenti”. La rete No Cpr parla invece di segnalazioni settimanali. L’epidemia di scabbia, affermano, sarebbe confermata da decine di fotografie che documentano pustole, macchie cutanee e un prurito insopportabile. Secondo quanto riportato nei post sulla loro pagina Facebook, sarebbero decine le persone che manifestano sintomi. Per attirare l’attenzione, alcuni trattenuti hanno appiccato incendi nei cortili, un gesto disperato nato nel silenzio generale. “Ci mandano video della sporcizia nelle celle, pulite di rado - raccontano gli attivisti - spesso sono loro stessi a farlo, con magliette o asciugamani. Quando si raggiunge il limite”. Qualcuno, senza mezzi termini, definisce il centro “un enorme bidone della spazzatura”. Una lunga lettera scritta da uno dei migranti racconta una quotidianità tragica. “È un incubo infinito. In una società sviluppata come l’Italia non dovrebbero esistere posti così. Non nel Paese dei diritti umani”, scrive. Racconta condizioni igieniche disumane: “Nella giungla saremmo più puliti. Viviamo in un posto invivibile. Mi sembra di essere in guerra”. Il cibo, sostiene, è sempre lo stesso - pasta la mattina, riso la sera - e l’igiene personale sarebbe inesistente. “Non ci danno disinfettanti, né scope. Non c’è shampoo, né bagnoschiuma. Anche l’acqua è razionata: due bottiglie da mezzo litro al giorno. E quella della doccia è bollente”. Poi la domanda: “Lo fanno di proposito o non sono in grado di gestire questi centri? In entrambi i casi, è una guerra contro gli esseri umani. È tortura fisica e mentale”. L’autore della lettera ricorda che chi si trova nei Cpr non è un criminale: “Sono persone senza documenti. Mi sento un morto che cammina. Indosserai l’intimo per tutto il tempo. Hanno distrutto la tua personalità. Finirai per odiarti”. Infine, il paradosso. Anche chi vuole tornare nel proprio Paese spesso non riesce a farlo. “C’è una persona che da due mesi chiede di essere rimpatriata. Non ci riescono. Sembriamo prigionieri di guerra. È la storia infinita”. Dal migrante vittima del pestaggio, al momento, non sarebbe arrivata alcuna denuncia. Dai vertici delle forze dell’ordine traspare invece indignazione per le modalità prescelte per la diffusione della notizia e del video. “La trasparenza delle istituzioni è testimoniata dalla concessione del telefonino a tutte le persone trattenute nel centro - hanno ricordato gli investigatori locali sentiti dall’Ansa - che pertanto possono filmare qualsiasi momento della giornata. Nel caso specifico, si nota il personale mentre scorta l’ospite in un’altra stanza. Perché non sono state diffuse anche le immagini successive? C’è poi una seconda ripresa, del tutto distinta, della presunta vittima sanguinante, lasciando ipotizzare che la causa sia un pestaggio, di cui non c’è traccia. All’interno di quel centro, esistono denunce per qualsiasi situazione anomala - ricordano gli operatori delle forze dell’ordine -, ma la vittima di una presunta azione tanto violenta non l’ha sporta. Una situazione davvero anomala che testimonia la volontà di strumentalizzare l’accaduto, fornendo solo una parte dei video girati dai trattenuti, che invece possono documentare tutto con i loro smartphone”. A intervenire è anche la responsabile Giustizia del Pd, Debora Serracchiani, che parla di “episodio molto grave da chiarire presto e in ogni aspetto”, dichiarando che il centro di Gradisca, che ha visitato di recente, “va chiuso per le condizioni di vita e di lavoro estreme”. Ha inoltre presentato un’interrogazione per fare luce sull’evento mostrato nei video e per adottare misure che impediscano il ripetersi di fatti simili. Anche la responsabile Migrazioni del Pd Fvg ed ex sindaca di Gradisca, Linda Tomasinsig, sottolinea come “il video mostra quel che accade quasi quotidianamente in quel luogo di disperazione e violenza dove sono al limite - aggiunge - le condizioni della struttura che da settimane è al centro di proteste, danneggiamenti e atti di autolesionismo”. Per Riccardo Magi di +Europa, invece, “questo inferno è esattamente il modello che piace al governo Meloni”. Contro i Cpr si leva anche la voce della comunità medica. La Società italiana di medicina delle migrazioni (Simm) ha promosso un appello alla Federazione nazionale degli Ordini dei Medici (Fnomceo), chiedendo una presa di posizione netta: chiusura dei Cpr, apertura di un dibattito europeo sulla loro abolizione, riconoscimento della detenzione amministrativa come una violazione dei principi fondamentali della cura. Tra i firmatari, nomi di primo piano del mondo accademico e sanitario: Vittorio Agnoletto, Cristina Cattaneo, Gavino Maciocco, Monica Minardi, Chiara Montaldo - in rappresentanza anche di Medici Senza Frontiere e Medicina Democratica. “La detenzione amministrativa - si legge - presenta enormi criticità in materia di rispetto della dignità e dei diritti, incluso quello alla salute”. L’Organizzazione mondiale della sanità ha già definito questi contesti come “patogeni” e “psicopatogeni”. I medici italiani denunciano degrado sanitario, violenza (anche autolesionista), abbandono. “Nessun professionista sanitario può essere costretto a operare in luoghi privi delle tutele essenziali”, aggiungono, richiamando l’articolo 32 della Costituzione e il Codice deontologico. La Fnomceo aveva già espresso un parere simile in occasione della detenzione dei migranti in Albania. Ora la Simm chiede coerenza. “Siamo mossi dal principio umanitario della tutela della vita e della salute - conclude l’appello. Come vuole il giuramento di Ippocrate: “In qualsiasi casa andrò, io vi entrerò per il sollievo dei malati e mi asterrò da ogni offesa e danno volontario”. Migranti. Scene di ordinaria brutalità dalla Guantánamo italiana di Angela Stella L’Unità, 19 giugno 2025 Nelle immagini un uomo inseguito dagli agenti. Interrogazioni di Avs e Pd, Serracchiani: “Condizioni estreme, il centro va chiuso”. Un uomo che corre disperato tra le celle del Cpr (Centro di permanenza per i rimpatri) di Gradisca d’Isonzo (Gorizia), addosso solo un paio di slip azzurri, viene rincorso da agenti di polizia in tenuta antisommossa, lo raggiungono con i manganelli in mano, lo circondano e lo strattonano, poi di peso lo portano in una stanza attigua. Per la rete No Cpr - che ha diffuso video e immagini filtrati dal centro di detenzione amministrativa friulano - lo straniero sarebbe stato vittima di un pestaggio. Per la questura di Gorizia, invece, nessuna violenza, come spiega in una nota: “La sera del 5 giugno, durante una rivolta con incendi appiccati dagli ospiti nella cosiddetta ‘zona blu’, il personale della Polizia di Stato, con il supporto della Guardia di Finanza, è intervenuto per ripristinare l’ordine e garantire la sicurezza del personale dell’Ente Gestore impegnato nello spegnimento dei roghi. Gli operatori sono stati oggetto di lanci di bottiglie, frutta e altre suppellettili, e hanno dovuto fronteggiare azioni coordinate di disturbo. In questa fase gli ospiti sono stati fatti rientrare nelle rispettive camere, come documentato da un video che mostra un soggetto a torso nudo accompagnato nella propria stanza”. Inoltre “questo momento è distinto da un secondo episodio, in cui lo stesso ospite appare disteso a terra e bagnato, come risulta da altri video e fotogrammi. Circa un’ora dopo - si legge ancora nella nota della Questura - lo stesso straniero si è fatto medicare presso l’infermeria del Cpr. Secondo quanto da lui riferito e registrato agli atti, la ferita riportata (una lesione superficiale di 2 cm al capo) è stata causata da una caduta accidentale”. “Dunque - concludono dalla Questura - non c’è stato alcun pestaggio”. Vedremo gli sviluppi della vicenda. Resta comunque il fatto che come denunciato ieri dalla Rete no Cpr, ma in passato anche da altri organismi, “nel Cpr di Gradisca d’Isonzo le condizioni di vita sono in progressivo peggioramento, così come la qualità del cibo. A questo si aggiunge una sospetta epidemia di scabbia, che sta via via contagiando i trattenuti. In questo quadro, si registra una dura repressione, con azioni violente da parte delle forze dell’ordine”. Il partito democratico prima della nota della Questura aveva preannunciato la presentazione di una interrogazione parlamentare rivolta al Ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi. “Un episodio molto grave da chiarire presto e in ogni aspetto. Denunciamo ancora una volta la situazione di degrado insostenibile del Cpr di Gradisca in cui mi sono recentemente recata per una visita ispettiva”, ha detto la responsabile giustizia dem Debora Serracchiani che ha proseguito: “Il centro va chiuso per le condizioni di vita e di lavoro estreme. Ho presentato con altri colleghi una interrogazione affinché venga fatta luce sull’evento oggetto dei video e vengano prese tutte le misure necessarie affinché fatti simili non accadano più”. “Il video mostra quel che accade quasi quotidianamente in quel luogo di disperazione e violenza dove sono al limite - ha concluso la responsabile Migrazioni del Pd Fvg ed ex sindaca della città isontina Linda Tomasinsig - le condizioni della struttura che da settimane è al centro di proteste, danneggiamenti e atti di autolesionismo”. A chiedere una spiegazione al responsabile del Viminale anche Angelo Bonelli, parlamentare AVS: “Quanto accaduto nel CPR di Gradisca d’Isonzo va immediatamente chiarito dal Governo, e lo chiedo con un’interrogazione parlamentare urgente. La risposta alle proteste per le condizioni igieniche da parte di persone che, a tutti gli effetti, sono detenute nei CPR non può essere rappresentata dai manganelli”. Secondo il parlamentare di +Europa Riccardo Magi, il “andava chiuso e che va chiuso. Peccato però che questo inferno è esattamente il modello che piace al governo Meloni, che vuole esportare all’estero e replicare come avvenuto in Albania”. Per Gianfranco Schiavone, presidente dell’Ics (Consorzio italiano di solidarietà), “ci troviamo di fronte a una situazione da tempo fuori controllo che non mi stupisce: tutti gli studi e tutti i rapporti di questi anni, da ultimo quello del Comitato Europeo contro la tortura, hanno messo in luce le stesse identiche cose. I Cpr sono luoghi di violenza nei quali non è possibile rispettare lo Stato di diritto” e ha spiegato ancora: “per loro natura quelli dei Cpr sono luoghi dove le regole di gestione all’interno non sono affidate a una normativa di dettaglio, dove diritti e doveri del trattenuto, modalità di gestione e di azione da parte delle forze dell’ordine non sono regolati in base a una norma primaria, come nel regolamento penitenziario - ha aggiunto - Non esiste nemmeno una magistratura di sorveglianza, pur essendo, a tutti gli effetti, luoghi di privazione delle libertà, che non è affatto breve, visto che le detenzioni attuali sono ormai assimilate a quelle penali”. Come tanti altri Cpr, anche quello di Gradisca è caratterizzato da condizioni disumane e degradanti. Come denunciato anche da Action Aid “dal 2019, il Cpr di Gradisca è stato teatro di numerose rivolte scatenate dalle deplorevoli condizioni di detenzione. Condizioni che hanno guadagnato alla struttura il soprannome di Guantanamo italiana”. Tra il 31 maggio e l’1 giugno due persone detenute nel Cpr avrebbero tentato il suicidio. Proprio di qualche giorno fa era stato l’appello della Società italiana di medicina delle migrazioni alla Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e odontoiatri affinché “si proceda nell’immediato alla chiusura dei Cpr e all’apertura di un dibattito a livello europeo per l’abolizione della detenzione amministrativa, in quanto realtà patogene per le persone migranti, di cui violano i diritti fondamentali e mettono a rischio la salute e la vita”. Migranti. Gli invisibili dei Cpr in Albania tra psicofarmaci e tentati suicidi di isabella de silvestro Il Domani, 19 giugno 2025 Autolesionismo, proteste, tentativi di suicidio. Almeno 45 episodi da quando il centro è entrato in funzione. Incrociando alcuni dati, si può stimare che il Cpr albanese abbia ospitato circa 80 persone negli ultimi mesi. Ma dati ufficiali non esistono e neppure i parlamentari possono averli. C’è un dettaglio ricorrente nelle testimonianze di chi ha visitato il centro per il rimpatrio di Gjader, in Albania: la domanda “che giorno è?” seguita, subito dopo, da “che ore sono?”. La porgono le persone trattenute, a cui la dimensione del tempo è stata sottratta appena varcata la soglia del centro voluto dal governo Meloni. Niente orologi, niente cellulari, i televisori ci sono ma non funzionano. Bisogna immaginare una struttura enorme, spettrale, silenziosa, dove i passi rimbombano e dove, appunto, la perdita della cognizione della realtà, dello scorrere del tempo, di ciò che accade fuori diventano strumenti di annichilimento. L’ambiente è ordinato, pulito, asettico, una specie di distopia dove la detenzione non assomiglia più a quella delle fatiscenti e sporche carceri italiane o a quella dei Cpr sparsi sul territorio nazionale, con le sezioni annerite dal fumo degli incendi appiccati dando fuoco ai materassi per protesta o disperazione. Il Cpr albanese è nuovo di zecca. E va, appunto, immaginato, perché come ogni istituzione totale è sottratto allo sguardo pubblico: i parlamentari ed europarlamentari che decidono di esercitare il loro diritto a farvi visita sono senz’altro una scocciatura per l’istituzione, che spesso li fa attendere anche per ore prima di permettere l’ingresso. Claudio Stefanazzi e Debora Serracchiani, deputati del Partito Democratico, hanno visitato il CPR di Gjader nelle scorse settimane. Dall’aeroporto di Tirana ci vuole circa un’ora di auto per raggiungerlo: 55 chilometri lungo una strada che si snoda tra un costone roccioso e il fiume Drin. La struttura dista 22 chilometri dalla costa. Questo complesso isolato è stato costruito su mandato del governo italiano, con un grande dispendio di fondi pubblici - oltre 65 milioni di euro per i soli lavori di costruzione e una previsione complessiva di spesa tra i 610 e i 653 milioni di euro entro il 2028 - per detenere migranti in condizione di irregolarità in vista, teoricamente, del loro rimpatrio nel paese d’origine. Ma è davvero così? La domanda dovrebbe essere retorica se il Cpr albanese assolvesse la funzione che gli attribuisce il nome, e invece, spiega Debora Serracchiani, “le persone trattenute provengono da Paesi diversi, ma pare che gli unici rimpatri possibili al momento siano quelli verso la Tunisia. Gli altri vengono trattenuti lì, e non sappiamo che fine faranno, perché non esistono accordi con i loro Paesi che permettano il rimpatrio. E allora che senso ha?”. Alla domanda di Serracchiani ne segue inevitabilmente un’altra. Di cosa è fatto il tempo del trattenimento, giustificato dalla mancanza di un titolo valido di soggiorno? Andiamo per ordine: si arriva nel Cpr albanese senza saperlo, prelevati - solitamente di notte - da uno dei CPR sul suolo italiano e trasferiti oltre confine, senza alcun preavviso né spiegazione. Si prende coscienza di dove si è soltanto una volta giunti a destinazione. Si ha diritto a una telefonata di dieci minuti al giorno, da un unico telefono fisso della struttura, per contattare il proprio legale in Italia. Se non risponde, la chiamata è persa. Da lì iniziano a passare i giorni senza che se ne abbia contezza. La realtà del Cpr si regge allora sull’abuso sistemico di psicofarmaci, usati come anestetico. Se la situazione nelle carceri e nei Cpr italiani è grave, in quello albanese è persino peggiore. “C’è una somministrazione che definirei ‘alla carta’. Passa il medico e ti chiede quante gocce vuoi. Ti senti agitato? Ecco dieci gocce in più di quelle che ti hanno prescritto. Sono bombardati”, racconta Claudio Stefanazzi, che ha visitato il centro in un giorno di pioggia - dettaglio atmosferico che non significa solo cielo grigio e umidità: le persone trattenute non uscivano dalla cella da due giorni perché il maltempo impediva di recarsi in cortile, uno spazio angusto e coperto da una rete metallica a fare da tappo. In uno scenario del genere non mancano gli eventi critici: autolesionismo, proteste, tentativi di suicidio. Il fascicolo che ne tiene traccia segna 45 episodi da quando il centro è entrato in funzione. Incrociando alcuni dati, si può stimare che il Cpr albanese abbia ospitato circa 80 persone negli ultimi mesi. Ma non si tratta di un dato ufficiale: i numeri precisi non sono stati forniti nemmeno ai parlamentari che li hanno richiesti, alimentando quell’alone di opacità che avvolge l’intera operazione, figlia della propaganda del governo Meloni. Durante la sua visita, Serracchiani ha assistito a una protesta: un uomo ha distrutto le finestre della sua cella chiedendo di essere trasferito. I parlamentari e i collaboratori che li hanno accompagnati nella visita hanno intervistato alcuni dei trattenuti e ne hanno raccolto le storie. Uno di loro è sopravvissuto al secondo tentativo di suicidio. Parla solo arabo. La madre, anziana e malata, vive a Parigi. Lui si è imbarcato in Algeria con lo scopo di raggiungerla. Una volta giunto in Sardegna è stato portato direttamente nel Cpr sardo, dal quale è stato presto trasferito in un altro Cpr e poi in un altro e poi in un altro, infine in Albania. Secondo quale logica avvengano i continui trasferimenti di queste persone non è dato saperlo. Dopo questo esodo forzato e umiliante l’uomo chiede di essere rimpatriato in Algeria, ma -paradosso - non è possibile. Nel frattempo - e nessuno sa quanto duri e che senso abbia questo “frattempo” - rimane lì e tenta il suicidio. Un altro trattenuto sta tornando in Italia perché in Albania le sue condizioni di salute sono apparse incompatibili con il trattenimento. È chiaramente tossicodipendente da psicofarmaci e presenta segni evidenti di disagio psichiatrico, risultato di una vita segnata dalla violenza: orfano, cresciuto da un amico del padre che lo maltrattava, ha subito torture in Libia, e porta sul corpo le cicatrici dei colpi d’arma da fuoco. Ha lavorato un anno e mezzo a Tripoli per pagarsi il viaggio verso l’Europa. Durante la traversata, l’imbarcazione è naufragata: ci sono stati 75 morti. Dopo essere arrivato in Italia è stato condannato per piccoli reati, e ha scontato nove mesi in un carcere toscano. All’uscita dal carcere, è stato condotto al Cpr di Torino, poi a quello di Brindisi, poi di nuovo a Torino, con trasferimenti durati anche 48 ore. In Libia aveva contratto la tubercolosi; è risultato positivo all’HIV ma non ha mai avuto accesso a cure specialistiche. La diagnosi ufficiale è arrivata solo una volta in Albania, sollevando anche una questione di sicurezza sanitaria per sé, per gli altri trattenuti e per il personale. “È la fotografia del fallimento di questa struttura nello specifico e di questo sistema in generale” dice Serracchiani. Un sistema che si basa sulla criminalizzazione dell’immigrazione e prevede già la struttura adatta a sancirla definitivamente: il carcere interno alla struttura- realizzato in cemento armato - destinato a ospitare fino a 20 detenuti che abbiano commesso reati all’interno del centro. Questa struttura detentiva è già presidiata da 16 agenti di polizia penitenziaria, coordinati da un direttore e affiancati da un funzionario giuridico e uno psicologo. Le celle sono state ultimate e anche gli uffici amministrativi sono operativi: il frigorifero era acceso durante la visita, segno che il piano è stato completato. La gestione dell’istituto è affidata a personale italiano “in missione”: il direttore proviene dalla casa circondariale di San Vittore, e agenti e operatori ruotano su turni di alcuni mesi prima di rientrare in Italia. Questo assetto strutturale sembra confermare l’intento di far evolvere il Cpr in un luogo di detenzione permanente e punitiva, al di là della sua funzione amministrativa formale, disattesa in partenza. D’altronde, con il decreto sicurezza del governo Meloni diventato legge, basterà la “resistenza passiva” per essere considerati punibili. Non mangiare, non tornare in cella, rifiutare la violenza: sarà lo Stato a esercitarla, dichiarando illegittimo ogni atto di difesa della propria dignità. Migranti. Stessa storia, destini diversi: per i giudici Amir è uno scafista, Jamala no di Vincenzo Imperitura Il Dubbio, 19 giugno 2025 Stessa traversata, stesso reato contestato, ma verdetti opposti per Amir Babai e Marjan Jamali nel processo di Locri. Il racconto di una giustizia “salomonica”. Amir e Jamala: due storie simili, due posizioni processuali praticamente identiche, due destini diversi. Almeno in primo grado. È finito infatti con una sentenza “salomonica” il processo ai due presunti scafisti di uno dei tanti viaggi della speranza sulla rotta turca. I giudici del tribunale di Locri, al termine di un processo infinito e condito da numerose polemiche, hanno infatti disposto una condanna a sei anni di reclusione più una multa da 1,5 milioni di euro nei confronti di Amir Babai per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina mentre hanno assolto Marjan Jamali, giovane madre single arrivata in Italia assieme al suo bambino di otto anni, che rispondeva dell’identico reato e che in quell’aula di tribunale ci era finita, proprio come Amir, a causa della testimonianza di tre passeggeri, poi svaniti nel nulla. Due storie simili dal finale diverso quelle di Amir e Jamala. Entrambi giovani, entrambi iraniani, entrambi presenti da mesi in Turchia prima di imbarcarsi, assieme ad un centinaio di altre persone, su un veliero rubato con destinazione le coste della Calabria jonica, da almeno venti anni porta privilegiata d’Europa per le masse di disperati che scappano da fame e guerre lungo il Mediterraneo orientale. “Tecnicamente non mi spiego questa sentenza - racconta al Dubbio l’avvocato di Amir, Carlo Bolognino - le posizioni dei due imputati erano intrinsecamente connesse tra loro e mi sarei aspettato per entrambi l’assoluzione piena. Leggeremo le motivazioni e proporremo appello, confidando che anche per Amir si possa arrivare alla fine di questo incubo”. Parrucchiere, rider, operaio tuttofare, nessun precedente penale: Amir Babai era partito dall’Iran e si trovava in Turchia da qualche tempo prima di imbarcarsi verso l’Europa. E in Turchia aveva faticosamente raccolto il denaro sufficiente a pagarsi la traversata. “Il mio assistito ha preso malissimo la sentenza, come me non si aspettava una sentenza di condanna”, racconta ancora Bolognino mentre il suo assistito, nel gabbione di un’aula presidiata da decine di attivisti che hanno seguito il processo fin dalle sue prime fasi, urlava di disperazione e rabbia per un pronunciamento durissimo e per molti versi inspiegabile. Anche alla luce delle dichiarazioni dello stesso comandante della barca, Faruk Sejed - un cittadino egiziano che ha ammesso le proprie responsabilità e patteggiato la pena -, che durante il dibattimento aveva dichiarato che Babai, come Jamala, fosse un comune passeggero. Lo stesso comandante aveva poi raccontato in aula che il ragazzo, poco più di trenta anni, si trovasse sul ponte della barca e non sottocoperta, per via di una profonda ferita che Babai si era fatto al braccio durante il viaggio e che sarebbe potuta peggiorare a causa del sovraffollamento del natante. Arrestato due giorni dopo l’arrivo a Roccella, Amir Babai si trova ristretto in carcere dall’ottobre del 2023 ma il lavoro degli attivisti della zona, impegnati da tempo per trovare al giovane una sistemazione in uno dei tanti paesi dell’accoglienza disseminati nella Calabria jonica, potrebbe presto cambiare le cose. Meno amaro, in questa storia controversa e ancora lontana dalla parola fine, resta l’altro lato della medaglia rappresentato da Marjan Jamali, assolta lunedì da tutte le accuse dopo un calvario durato quasi due anni che la donna ha trascorso, prima del suo rilascio per opera dei giudici del riesame nel marzo scorso, tra carcere e domiciliari, con una presenza di un paio di settimane nell’ex manicomio criminale di Barcellona Pozzo di Gotto, in Sicilia. Partita da Teheran assieme al figlio di appena otto anni, Marjan aveva raggiunto le coste della Turchia per imbarcarsi verso l’Europa alla ricerca di una vita migliore. Ma i problemi per lei e il suo bambino erano saltati fuori già durante la traversata. I tre migranti che qualche giorno dopo la indicheranno agli inquirenti come trafficante infatti avevano tentato di approfittarsi di lei sulla barca e non erano riusciti nel loro intento solo grazie alle resistenze della giovane madre e dall’aiuto dello stesso Amir Babai, che non aveva esitato a mettersi in mezzo e fermare il tentativo di stupro. Accolta a Camini, nel reggino, all’indomani della sua scarcerazione, Marjan ha continuato a seguire il processo in aula scortata da decine di attivisti e simpatizzanti che non l’hanno mai lasciata sola, e ha faticato molto a contenere l’emozione al termine dell’udienza che l’ha mandata assolta: “Sono contenta, contentissima - racconta la giovane alla fine della lunga battaglia processuale - soprattutto per mio figlio. Questo per me rappresenta la fine di un incubo”. Finisce così, con un verdetto dolce amaro, l’ennesimo processo agli scafisti (veri e presunti) della rotta turca, da sempre ruota più debole delle organizzazioni criminali che si occupano dell’organizzazione dei viaggi lungo il Mediterraneo e bersaglio privilegiato delle indagini figlie del decreto Cutro. Migranti. Fermo nave Humanity, il Viminale perde l’appello di Giansandro Merli Il Manifesto, 19 giugno 2025 I giudici ribadiscono: i libici non possono essere considerati autorità Sar, la Libia non è un porto sicuro. La Corte d’appello di Catanzaro dà un’altra mazzata alla legge anti-ong firmata Piantedosi. Confermando l’impianto della sentenza di primo grado, da un lato smonta le accuse mosse dal Viminale alla ong Humanity e dall’altro ribadisce che i libici non possono essere considerati autorità che partecipa legittimamente ai soccorsi. “Rispetto ad altre sentenze la Corte aggiunge che tale dato vale a prescindere dalle condotte concrete, dunque a prescindere dall’uso della violenza come nel caso in questione. Perché la Libia non può mai essere considerata un luogo sicuro di sbarco”, spiega Giulia Crescini, legale della ong. L’affermazione dei giudici si basa sulle convenzioni che regolano il diritto del mare, sui rapporti delle più rilevanti organizzazioni internazionali e sulla giurisprudenza ormai granitica dei tribunali superiori, dalla Cassazione alla Cedu. Queste convergono sull’illegalità di rimandare le persone a Tripoli. Il fatto che nel 2017, su spinta del duo Gentiloni-Minniti, la Libia abbia istituito una propria zona Sar (di ricerca e soccorso) notificandola all’Organizzazione marittima internazionale non cambia nulla sul punto, come invece pretendeva l’avvocatura dello Stato. “Assume valore dirimente non solo l’adesione di uno Stato alla Convenzione Sar, quanto la possibilità che questo sia in grado di garantire, in concreto ossequio a quanto in essa previsto, un posto sicuro di sbarco dei naviganti in pericolo”, scrive la Corte. Il caso nasce dal soccorso in acque internazionali di 77 persone realizzato dalla Humanity-1 il 2 marzo 2023. Durante le operazioni erano intervenuti i libici sparando e scatenando il panico. “L’esplosione di colpi di arma da fuoco da parte della motovedetta libica costituisce più che un elemento di sospetto circa i metodi utilizzati e la sicurezza dei naviganti”, si legge nella sentenza. All’arrivo a Crotone la nave umanitaria era stata comunque sequestrata. Accusata, in base al dl Piantedosi di gennaio 2023, di aver violato le indicazioni di Tripoli e creato situazioni di rischio. In appello il Viminale ha sostenuto perfino che il barcone di migranti non fosse in pericolo (tesi trita e ritrita sempre sconfitta in tribunale: è pacifico che tutti i mezzi che viaggiano in quelle condizioni possono naufragare). Del resto le autorità italiane non hanno fornito alcuna prova a supporto delle proprie tesi, mentre l’ong ha depositato numerosi documenti utili a dimostrare di aver agito correttamente. La Corte ha dato ragione al Viminale solo sulla riformulazione delle spese legali. Magra consolazione di una decisione che consolida la giurisprudenza favorevole alle ong, in attesa che la Corte costituzionale dia un giudizio di legittimità sulla norma. C’è da osservare, comunque, che al di là degli esiti processuali la legge Piantedosi mette comunque i bastoni tra le ruote ai salvataggi: le ong possono vincere i singoli processi, ma i fermi amministrativi continuano. E restano i porti lontani, ora estesi anche alle piccole imbarcazioni nel nuovo fronte della guerra alle ong vessate da governi di diverso colore. Ieri, nella giornata mondiale del rifugiato, le organizzazioni umanitarie hanno diffuso un dato: nei suoi dieci anni di attività la flotta civile, entrata in azione nel Mediterraneo centrale dopo la fine di Mare Nostrum, ha salvato oltre 175mila persone. Quell’Europa divisa di fronte alle bombe di Nathalie Tocci La Stampa, 19 giugno 2025 I Paesi europei e le istituzioni Ue hanno tradizionalmente osservato il mondo attraverso una lente transatlantica. Raramente, come nel caso della guerra in Iraq del 2003, Stati come Francia e Germania lo hanno fatto opponendosi a Washington. Più spesso, l’Europa ha tentato di influenzare la politica estera americana, mitigandone gli aspetti più ruvidi. Il formato E3/Ue + 3 sulla questione nucleare iraniana è stato l’esempio di maggior successo: Francia, Germania e Regno Unito, assieme a Usa, Cina e Russia e con la mediazione dell’Alto rappresentante Ue hanno raggiunto un accordo sul programma nucleare di Teheran nel 2015, il cosiddetto Jcpoa. Su quasi tutte le altre crisi, a partire dal conflitto israelo-palestinese, gli europei hanno lavorato gomito a gomito con Washington, mettendo a fattore comune aiuti allo sviluppo, accordi commerciali, diplomazia, sanzioni e difesa, convinti della condivisione di valori e interessi tra le due sponde dell’Atlantico. Con Donald Trump alla Casa Bianca, l’Europa è entrata in un nuovo mondo. Nel caso dell’Ucraina, sta imparando a stare in piedi da sola: quando Trump si è schierato con la Russia di Vladimir Putin, gli europei sono rimasti saldi nel loro sostegno a Kyiv. Ma in Medio Oriente abbiamo enormi difficoltà a tracciare un corso autonomo. Su Gaza, l’Europa stava iniziando a voltare pagina dopo un anno e mezzo di complicità con i crescenti crimini di guerra di Israele. Prendendo le distanze dai piani osceni di Trump per una “riviera del Mediterraneo”, con la Francia che si apprestava al riconoscimento dello Stato palestinese e il Regno Unito che ha sospeso i negoziati per un accordo di libero scambio con Israele e sanzionato due suoi ministri estremisti. Anche la Germania aveva iniziato ad alzare la voce contro i massacri e la carestia a Gaza. Più significativamente, Bruxelles ha avviato il processo che potrebbe sfociare nella sospensione parziale dell’accordo di associazione Ue-Israele. L’attacco militare di Israele all’Iran, con il sostegno ambiguo ma evidente degli Stati Uniti, ha sconvolto questo percorso europeo verso una maggiore autonomia. L’Europa non ama il regime iraniano, sia per le sue violazioni dei diritti umani sia per la sua cooperazione militare con la Russia, in particolare nella guerra in Ucraina. Inoltre, è giustamente irremovibile sul fatto che la Repubblica islamica non debba ottenere armi nucleari e ha espresso grande preoccupazione per il rapporto dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica sulle violazioni degli obblighi di trasparenza e cooperazione da parte di Teheran. Ma tradizionalmente l’Europa ha mantenuto la barra dritta sulla necessità di risolvere la questione nucleare iraniana attraverso la diplomazia. Questo è il motivo per cui, all’inizio degli anni 2000, gli europei hanno inventato il formato E3/Ue per mediare sul dossier. Oggi, quel mondo pare svanito. Quando Trump ha lanciato una trattativa diretta con l’Iran, gli europei sono stati colti in contropiede, esclusi da qualsiasi mediazione. Ora, con l’attacco di Israele all’Iran, non sono riusciti a posizionarsi con chiarezza: non hanno denunciato l’attacco di Israele come una violazione della Carta delle Nazioni Unite (articolo 2 paragrafo 4, che vieta l’uso della forza nelle relazioni internazionali) così come del protocollo aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra (articolo 56, che proibisce nello specifico gli attacchi contro le strutture nucleari). Al contrario, l’Europa ha inserito l’attacco nel quadro del “diritto all’autodifesa di Israele” ed esortato l’Iran a impegnarsi in quella diplomazia nella quale era già coinvolto. È il caso, dopotutto, di ricordare che l’attacco israeliano è arrivato solo due giorni prima del sesto round negoziale tra Usa e Iran, già in programma in Oman. Con le loro oscillazioni politiche su quest’ultima guerra, gli europei non si sono guadagnati il favore di Washington né hanno migliorato la loro reputazione internazionale. Per giunta, hanno perso ogni credibilità in Iran, che non li considera più mediatori onesti. La ciliegina sulla torta del disorientamento europeo è la proposta, sostenuta dal duo Trump-Putin, di un improbabile ruolo della Russia nel mediare fra Iran e Israele. Il rischio è anche che l’Europa, nell’ansia di doversi posizionare a fianco di Israele e Usa nel conflitto, abbandoni ogni pretesa di ritrovare un minimo di senso etico su Gaza. L’Ucraina è il principale interesse di sicurezza dell’Europa. Tuttavia, guerra, caos e proliferazione nucleare in Medio Oriente - che potrebbero essere la conseguenza indesiderata della guerra in corso - possono avere un impatto maggiore sull’Europa che sugli Stati Uniti. E qui gli europei rimangono anni luce lontani dal pensare e agire con la propria testa. Dalla guerra in Iraq alle bombe sull’Iran diritto internazionale come carta straccia di Paolo Delgado Il Dubbio, 19 giugno 2025 Bush jr. aveva mentito alle Nazioni Unite Putin e Netanyahu invece le ignorano. Dalla notte dell’attacco israeliano fioccano sui social e nei talk show i paragoni con la spedizione contro l’Iraq del 2003, giustificata allora da inesistenti “armi di distruzione di massa” che sarebbero state in possesso del dittatore iracheno Saddam Hussein. Allo stesso modo Israele, gli Usa e l’Europa impugnano il progresso dell’Iran nella costruzione della bomba atomica, che sarebbe stata a un passo, per legittimare l’attacco di Israele. L’esistenza di alcuni elementi identici è palese ma le differenze sono più importanti e indicative. La prima è che le armi di Saddam erano effettivamente un’invenzione e le “prove” portate dagli Usa di fronte all’Onu costruite ad arte. È molto probabile che anche la prossimità dell’Iran all’atomica sia stata esagerata a bella posta. In compenso è altrettanto e anche più probabile che gli ayatollah mirassero e mirino davvero a quel risultato. Tutti, nelle cancellerie di tutto il mondo, sapevano perfettamente che Israele avrebbe colpito in anticipo ed è presumibile che a premere per l’attacco immediato sia stata la consapevolezza che momento migliore non ci sarebbe stato. Il discredito che circonda Israele per i massacri di Gaza è tale che l’attacco all’Iran è servito più a rompere l’isolamento che ad accrescerlo. Se Israele, uscito dalla guerra di Gaza con sulle spalle il peso di una condanna pressoché universale, si fosse imbarcata in una nuova guerra tra un paio d’anni le reazioni del mondo sarebbero state ben diverse. In secondo è alla lunga ben più rilevante luogo, gli Usa ritennero nel 2003 necessario inventare delle prove che rendessero la loro azione consona al diritto internazionale. Il riconoscimento poteva essere solo formale ma si sa che le forme valgono quanto e a volte più della sostanza. La bugia di Bush jr. Lasciava almeno intatto il principio di un diritto internazionale che non poteva essere violato senza ulteriori spiegazioni neppure dalla prima potenza del mondo. Aggirava l’ostacolo rappresentato da quel diritto senza tuttavia negarne la centralità. In questo caso, come già in quello dell’invasione dell’Ucraina, a essere stato spazzato via è invece il concetto stesso di diritto: la giustificazione per l’attacco di Putin come per quello di Netanyahu è il solo fatto di sentirsi a torto o a ragione minacciati. La terza differenza è il Regime Change. In Iraq e prima ancora in Afghanistan era l’obiettivo dichiarato, perseguito e ottenuto. In Iran è solo un auspicio, poco importa quanto sincero e quanto sbandierato a fini di propaganda. Né potrebbe essere altro, a meno di non immaginare un’invasione e l’ipotesi sembra al momento pura farneticazione. Il Regime Change mascherava gli interessi concreti che motivavano l’invasione dell’Iraq dietro la maschera del conflitto di civiltà e della esportazione della democrazia. La realtà è ora più cruda: che cambi o meno, il regime deve considerarsi a sovranità limitata sulla base dei puri rapporti di forza. Le tre differenze tirano tutte nella medesima direzione. Israele, esattamente come la Russia di Putin, ha attaccato sulla base esclusivamente della sua convinzione di dover fronteggiare una minaccia, senza curarsi minimamente di rendere omaggio anche solo formale al diritto internazionale e con l’obiettivo c’è una ulteriore e sostanziale differenza. L’invasione dell’Ucraina era stata condannata e contrastata almeno da tutto l’occidente. Quella dell’Iran è stata applaudita, supportata e anzi ha addirittura spinto almeno per il momento in secondo piano la mattanza di Gaza. Per il motivo che ha esplicitata, con inaudita franchezza, il cancelliere tedesco Merz: “Israele sta facendo il lavoro sporco per tutti”. Va da sé che se gli Usa entreranno in guerra, adottando le stesse modalità praticate da Netanyahu la crisi raggiungerà proporzioni ancora più ciclopiche e del resto le dichiarazioni del presidente americano sull’intenzione di annettere prima o poi la Groenlandia se non addirittura il Canada avevano già impresso una vigorosa spinta in quella direzione. Ma è difficile non addossare la responsabilità del declino del concetto stesso di diritto internazionale alle tre discutibili figure che guidano oggi gli Usa, la Russia e Israele. Il miraggio di poter trasformare quel principio in operativa legalità internazionale discendeva direttamente dalla costruzione di un nuovo ordine mondiale in sostituzione di quello della Guerra fredda. Fallita quell’impresa non è facile che il diritto internazionale, che dovrebbe esserne conseguenza e derivazione, diventi una realtà e non deperisca invece anche dal punto di vista dell’enunciazione di principio. Il problema è che però a mettere mano a un nuovo ordine mondiale, ora, dovrebbero essere proprio i leader che del diritto internazionale hanno deciso di fare carta straccia. “Il diritto internazionale è sempre sotto attacco, ma resta l’unico scudo contro la barbarie” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 19 giugno 2025 Il prof. Giuseppe Paccione analizza lo jus ad bellum e spiega perché la Carta dell’Onu resta il pilastro dei rapporti tra Stati. Nella guerra tra Israele e Iran il diritto internazionale è morto? È una domanda che tanti giuristi si stanno facendo in questi giorni. Il dibattito sulla violazione delle norme internazionali che regolano i rapporti tra le nazioni è stato affossato dalle analisi di opinionisti, esperti di geopolitica e generali a riposo. Eppure, senza diritto neanche la geopolitica potrebbe esistere e reggersi su solide fondamenta. Ne è convinto Giuseppe Paccione, professore di Diritto internazionale umanitario dell’Università “N. Cusano”. Professor Paccione, in questo momento storico il diritto internazionale che fine ha fatto? Anche se qualcuno lo ha considerato ormai morto, il diritto internazionale è vivo e vegeto. Anzi, serve ancora per disciplinare la vita e i rapporti fra gli Stati che costituiscono la comunità internazionale, ma è anche un freno per evitare che l’umanità possa precipitare nel flagello di un Terzo conflitto mondiale e mettere a repentaglio le future generazioni. Va ricordato che la vita di relazione fra gli Stati sovrani e indipendenti si conforma a un insieme di norme di condotta vincolanti. Se non si rispettano tali regole, ci può essere il rischio che tutti i tasselli che uniscono la pace e la sicurezza globale possano saltare e trascinare la società internazionale a un punto di non ritorno. Ecco perché è fondamentale che gli Stati si attengano al rispetto delle regole della vita sociale della famiglia umana. Israele ha il diritto di esercitare tutta la sua forza contro il nemico iraniano, senza rendere conto alla comunità internazionale? Ciascuno Stato può esercitare il diritto di ricorrere allo jus ad bellum contro l’avversario che sferra un attacco, purché tale ricorso sia giustificato per autotutela o legittima difesa. Ciò deve seguire il percorso stabilito dal diritto internazionale e dalla Carta onusiana, nel senso che, pur essendo l’uso della forza vietato nelle relazioni internazionali, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 4, la stessa Carta fornisce, in base dell’articolo 51, qualche eccezione fondata sul diritto intrinseco di ricorrere allo strumento coercitivo di forza per legittima difesa nel caso in cui si verifichi un attacco armato. In sostanza, l’impiego della forza in autodifesa corrisponde al principio cardine “è lecito respingere la forza con la forza”. Israele, prima di avviare l’operazione “Leone nascente”, doveva tenere al corrente la comunità internazionale, rappresentata dalle Nazioni Unite, e rispettare le norme di diritto internazionale e della Carta delle Nazioni Unite. Spetta al Consiglio di Sicurezza intraprendere ogni azione necessaria per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. Israele ha violato, sotto certi versi, la Carta e il diritto internazionale che inibiscono il ricorso all’atto coercitivo armato contro la sovranità e l’integrità territoriale iraniana con l’escalation del conflitto che rischia di allargarsi. Non possiamo però dimenticare le continue minacce di distruzione di Israele, rivolte dall’Iran anche con l’utilizzo dell’arma nucleare… Ogni genere di minaccia può essere considerata uno strumento illecito che viola l’ordinamento giuridico internazionale, ma anche l’anticamera dell’uso della forza. Come giustamente lei ha rilevato, spesso l’Iran ha sbandierato la minaccia dell’utilizzo delle armi di distruzione di massa contro Israele. Che l’Iran rappresenti una minaccia significativa per lo Stato israeliano è fuor di dubbio. Il fatto che la minaccia sia nucleare la rende esistenziale. Non è una minaccia che lo Stato d’Israele può ignorare e, a mio parere, la sua gravità concede a Israele un margine di manovra maggiore in base allo ius ad bellum rispetto a una minaccia minore. Il problema della liceità delle armi atomiche è una vexata quaestio, perché ritenuta un’arma indiscriminata, cagiona sofferenze non necessarie che si possono ripercuotere su altri Stati che non sono coinvolti nel conflitto, per questo, a mio parere, sia Israele che l’Iran devono assolutamente attenersi al rispetto del “Trattato per la proibizione delle armi di distruzione di massa”. L’Iran non può continuare a minacciare il ricorso all’arma nucleare sostenendo che si tratti sola di una minaccia. Il diritto internazionale offre un quadro chiaro per prevenire i conflitti e come comportarsi nel caso in cui dovessero verificarsi. La legge internazionale sembra essere finita in secondo piano. Cosa ne pensa? La Carta delle Nazioni Unite parla chiaro. Sulla prevenzione di ogni genere di scontro bellico stabilisce che gli Stati devono risolvere le loro controversie con mezzi pacifici, se si vuole evitare che i pilastri della pace e della sicurezza internazionali siano posti in pericolo. Vi è pure un capitolo dedicato alla soluzione pacifica delle controversie che obbliga le parti di una disputa a intraprendere la via dei negoziati, della mediazione e della conciliazione per evitare che i pilastri citati finiscano per essere indeboliti pericolosamente. Iran e Israele devono seguire le norme del diritto internazionale, se si vuole evitare il peggio. Stiamo assistendo anche ad un ruolo marginale delle Nazioni Unite. Sono state definitivamente scavalcate? Spiace dover constatare che non si è mai voluta affrontare una seria riforma dello Statuto di San Francisco da parte degli Stati, necessaria per evitare il solito scavalcamento e direi anche la paralisi del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Nel 1945 si decise che alle Nazioni Unite spettasse il compito di salvaguardare le future generazioni dal flagello della guerra, dopo i disastri dei decenni precedenti. Il rischio è che, scavalcando le Nazioni Unite, in particolar modo l’organo politico onusiano, a cui è stato affidato il compito di gendarme internazionale a tutela della pace e della sicurezza dell’intero pianeta, si rischia di finire nel vortice di un terzo conflitto mondiale. Le Nazioni Unite sono il punto di riferimento per ciascuno Stato, parte della comunità internazionale, ogni volta che si verifica una controversia. Sappiamo bene che il fine primario di questa organizzazione, a carattere universale, è mantenere la pace e la sicurezza internazionale, come pure adottare misure efficaci per rimuovere le minacce alla pace. Compiti affidati al Consiglio di Sicurezza. Persecuzioni, torture e abusi di Stato: l’Iran è la fabbrica della repressione di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 19 giugno 2025 Per schiacciare le rivolte del movimento “Donna vita e libertà” il regime ha moltiplicato arresti, condanne ed esecuzioni capitali: le denunce dell’Onu. Il 16 settembre 2022 è una data spartiacque per l’Iran. Quasi tre anni fa veniva uccisa a Teheran Mahsa Amini. La ventiduenne di origini curde è stata picchiata a morte dalle Guardie della moralità. La sua colpa? Avere una ciocca di capelli fuori posto, non coperta dal velo. Da quel giorno gli iraniani hanno iniziato a protestare, rischiando tutti i giorni il carcere e la pena di morte. La loro voce si è alzata nel nome di Mahsa, che potremmo definire sinonimo di libertà, diritti, democrazia. Ma la repressione degli ayatollah, animati dall’odio e dal fanatismo religioso, è stata violenta. Nonostante la brutale reazione, un faro si è acceso sul Paese asiatico con la quasi unanime condanna del regime da parte della comunità internazionale. Allo stesso tempo tutto il mondo vive giornate dominate dall’incertezza e dalla preoccupazione. Gli Stati Uniti stanno pensando di unirsi ad Israele per sferrare l’attacco definitivo e interrompere il percorso di Teheran volto a dotarsi del nucleare per scopi militari. I toni dell’ayatollah Ali Khamenei non fanno ben sperare. “Se gli Usa dovessero attaccare l’Iran - ha detto ieri -, saranno ricambiati con un danno irreparabile”. Guida Suprema dal 1989, dopo la morte di Khomeini, Khamenei ha plasmato la politica iraniana a sua immagine e somiglianza: ultraconservatrice, antioccidentale e antisionista. Con una predilezione per il soffocamento del dissenso. A confermare la situazione dei diritti umani è il rapporto della “Missione internazionale indipendente di accertamento dei fatti sulla Repubblica islamica dell’Iran” (istituita dalle Nazioni Unite), pubblicato a marzo e presentato all’Onu. Dall’inizio delle proteste del 16 settembre 2022 le violazioni dei diritti umani e i crimini contro l’umanità sono diventati sistematici. L’Iran ha fatto ingenti investimenti per rafforzare il controllo sulla popolazione attraverso dispositivi tecnologici. In questo contesto si inserisce il “Piano Noor” dell’aprile 2024 con il quale si realizza la persecuzione legale contro le donne che violano l’obbligo di indossare l’hijab. Multe, reclusione e addirittura la pena di morte se i capelli non sono ben coperti. La Missione ha raccolto oltre 38 mila prove e intervistato 285 testimoni, confermando la commissione di crimini contro l’umanità e casi di stupro di donne fermate dopo le proteste di tre anni fa. Un quadro inquietante confermato dal rapporto della Relatrice speciale Onu sulla situazione dei diritti umani in Iran, la criminologa giapponese Mai Sato. Il documento evidenzia la “sistematica persecuzione statale volta a limitare i diritti di donne e ragazze”, negando loro ogni forma di uguaglianza. Atti persecutori si verificano contro le vittime di torture e violenze subite durante le proteste, nonché contro i loro familiari, gli avvocati e i giornalisti che cercano di far luce su quanto accade nella Repubblica islamica. Dal 2022 almeno 10 uomini sono stati giustiziati a seguito delle proteste scoppiate per la morte di Mahsa; altre 14 persone, tra cui tre donne, rischiano la pena di morte. Sono state documentate gravi violazioni come le confessioni estorte tramite tortura e lo svolgimento di processi senza il minimo rispetto delle regole processuali e del diritto di difesa. La Relatrice speciale sottolinea le dimensioni e l’impatto delle violazioni dei diritti umani. “L’anno 2024 - scrive Mai Sato - ha segnato un aumento significativo delle esecuzioni accertate, il più alto dal 2015. Le Ong, che lavorano con famiglie, avvocati e altri soggetti collegati alle persone giustiziate, hanno segnalato oltre 900 esecuzioni, rendendo la Repubblica islamica dell’Iran il Paese con il più alto tasso nel mondo di ricorso alla pena di morte. L’Iran non pubblica dati ufficiali sulle condanne a morte e sulle esecuzioni, ragion per cui è necessario basarsi su stime. Le osservazioni ricevute dalla Repubblica islamica dell’Iran hanno categoricamente respinto i numeri delle esecuzioni contenuti nel rapporto, ma non hanno fornito statistiche ufficiali. In base alle osservazioni delle Ong sul numero totale di esecuzioni nel 2024, solo una piccola parte, pari al 10%, è supportata da fonti ufficiali o da organi di stampa sostenuti dallo Stato”. La mancanza totale di trasparenza è contraria, sostiene la Relatrice delle Nazioni Unite, ai principi fondamentali che regolano il rispetto dei diritti umani. Il rapporto documenta almeno 179 casi di femminicidio nel 2024 e rileva che il sistema giudiziario iraniano fornisce protezione agli autori di reati di sesso maschile. “Il sistema legale iraniano - commenta Sato - tratta gli omicidi d’onore in modo diverso dalle altre forme di omicidio, creando una pericolosa gerarchia di violenza che legittima azioni letali contro le donne”. Nel 2024 sono state condannate a morte almeno 30 donne, il numero più alto nell’ultimo decennio. “Vorrei richiamare l’attenzione - aggiunge la Relatrice speciale sui diritti umani - sul caso di tre attiviste attualmente condannate a morte per il loro attivismo e impegno sociale, che la magistratura ha considerato reato di “baghi”, vale a dire ribellione armata contro lo Stato. Si tratta di Pakhshan Azizi, Varisheh Moradi e Sharifeh Mohammadi. Le donne condannate a morte e le vittime di femminicidio, spesso, condividono esperienze simili che hanno caratterizzato la loro esistenza: storie segnate da abusi domestici, violenze sessuali e matrimoni precoci”. Secondo il senatore Giulio Terzi (FdI), già ministro degli Esteri, Occidente ed Europa non devono tentennare e stare a guardare. “Non facciamoci ingannare - commenta Terzi - da quella narrativa naïve di un regime iraniano ora guidato dal “presidente moderato” Pezeshkian. Chiamiamo la realtà con il proprio nome. Egli è fedele alla dottrina fondamentalista islamica, rivendica di essere delle Guardie della Rivoluzione, continua a opprimere e violentare il suo popolo, seminando in Medio Oriente il terrorismo. Come Oriana Fallaci si tolse il chador davanti a Khomeini, squarciamo oggi il velo ideologico e acquiescente nei confronti dell’Iran”. Domani, però, è difficile prevedere cosa accadrà. Prima il sostegno alle donne iraniane, ora il silenzio: dall’Occidente solo ipocrisia di Dalia Ismail* Il Fatto Quotidiano, 19 giugno 2025 In Italia, l’adesione al movimento Donne, Vita, Libertà è stata rapida, visibile, unanime. Celebrità, influencer, politici e media hanno amplificato slogan, condiviso post, organizzato eventi. Ma mentre in Iran si pagava con la vita, qui si raccoglievano applausi. Nessuno rischiava nulla. Anzi, sostenere quella battaglia era perfettamente compatibile con gli interessi del nostro Paese, utile a rafforzare la narrazione “giusta” del mondo: noi, paladini dei diritti; loro, il regime da abbattere. Eppure oggi, di fronte all’aggressione israeliana contro l’Iran, molti di quegli stessi nomi tacciono. Oppure parlano in modo ambiguo, cercando un equilibrio impossibile tra due lati che non sono equivalenti. Alcuni danno la colpa “a entrambi”, altri evitano il tema, altri ancora si schierano apertamente con Israele. Nessuno, o quasi, ha ricordato che anche in questo caso esiste un diritto internazionale, che un Paese aggredito - l’Iran - ha diritto alla difesa. Le stesse voci che ieri si proclamavano solidali con le donne iraniane oggi non osano nemmeno pronunciare la parola “illegalità” a proposito dei bombardamenti israeliani. Il punto è che per molti Donne, Vita, Libertà non è mai stato un impegno reale: è stato un modo per sentirsi dalla parte giusta senza mettere in discussione nulla. Un gesto comodo, che non implicava alcun rischio né cambiamento di prospettiva. Si sosteneva la donna iraniana come figura astratta, simbolica, utile per rafforzare la propria identità morale in Occidente - non come soggetto reale, complesso, inserito in una dinamica geopolitica che oggi ci chiama in causa. Perché questo richiederebbe una cosa molto difficile per l’Occidente: guardarsi allo specchio. Riconoscere il proprio privilegio. Significherebbe, soprattutto, uscire da quella comfort zone in cui si può essere “femministi”, “progressisti”, “antirazzisti”, senza mai disturbare l’ordine geopolitico di cui si beneficia. ?Chi oggi condanna entrambi i governi riguardo a questa guerra, dopo essersi tagliato la ciocca di capelli in piazza, non è coerente: è in malafede. Perché sa benissimo che l’Iran sotto attacco cambia la cornice. E allora si rifugia nella neutralità, oppure sulla retorica della difesa dei civili da entrambe le parti senza prendere una posizione seria. E soprattutto, non si può parlare al loro posto - scegliendo di volta in volta quali voci ascoltare, quali ignorare, quali premiare, in base ai nostri gusti o alle nostre convenienze politiche. Farlo significa esercitare una forma di colonialismo, che pretende di selezionare chi è degno di rappresentare una lotta e chi no, chi merita visibilità e chi deve restare ai margini. Un esempio evidente è la tendenza a condividere sistematicamente le dichiarazioni di iraniani monarchici, spesso residenti negli Stati Uniti e apertamente filo-israeliani, come se fossero rappresentativi del popolo iraniano. Questo serve solo a rafforzare una narrazione funzionale all’Occidente, cancellando la complessità delle voci dissidenti iraniane, la maggior parte delle quali si oppongono totalmente all’imperialismo e all’occupazione occidentali. È un meccanismo che svuota di significato le battaglie altrui, trasformandole in strumenti al servizio delle nostre agende ideologiche. Ma la solidarietà non può essere selettiva né condizionata dal nostro bisogno di sentirci dalla parte giusta. Ascoltare davvero significa accettare il disordine, il conflitto, le contraddizioni, e anche le parole scomode che mettono in discussione le nostre posizioni. Sostenere davvero la libertà degli altri significa, prima di tutto, mettere in discussione la propria complicità, il proprio privilegio e il sistema in cui si vive, essendo quello più forte. E in Italia, questo resta ancora il grande tabù. Troppo più facile esibire coraggio dove non serve, e rimanere zitti quando sarebbe necessario parlare. *Giornalista indipendente