Vivere in 3 metri quadri: l’allarme del vicepresidente del Csm di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 giugno 2025 Una fotografia impietosa quella tracciata dal vicepresidente del Csm, Fabio Pinelli, ospite a Start su Sky Tg24. “Il sovraffollamento è drammatico: ci sono detenuti che vivono in 3 metri quadri”, ha denunciato, richiamando l’attenzione sulla stretta relazione fra politica giudiziaria e condizioni nelle carceri. Dalle sue parole emerge un invito al dialogo fra forze politiche: “Si può ragionare insieme, senza divisioni”, con l’impulso sottolineato anche dal presidente del Senato Ignazio La Russa. Pinelli ha voluto smorzare ciò che considererebbe un falso mito: “È difficile dire che nuovi reati portino automaticamente al sovraffollamento”, ma nel contempo ha comunque riconosciuto l’equazione astratta tra stretta sulle pene e crescita dei detenuti. Poi la proposta concreta: ampliare da 45 fino a 60-90 giorni il beneficio della liberazione anticipata per reati non gravi, già sostenuta in sede di convegno al Senato come forma di “gesto di clemenza”. Il sovraffollamento non è una formula, ma una realtà numerica: Milano San Vittore tocca il 208% oltre la capienza; altre strutture viaggiano vicine al 190%. A livello nazionale, i detenuti sono circa 62.700, con poco meno di 47.000 posti disponibili e un indice di affollamento vicino al 134%. Questa logica compressione conduce a conseguenze drammatiche: nel 2024 si sono registrati 88 suicidi tra i detenuti, un primato storico. Vivere e sopravvivere in spazi che non permettono neppure misure minime di umanità. Se poi aggiungiamo le carenze strutturali e sanitarie - da igiene a assistenza medica - il quadro diventa ancora più grave. Pinelli ha rilanciato un invito a sedersi a un unico tavolo politico, mettendo da parte steccati e giochi di forza, per affrontare subito l’emergenza carceraria con soluzioni concrete. Tra queste, ha citato la proposta di legge di liberazione speciale anticipata - un’idea che non nasce nel nulla, ma porta la firma di Roberto Giachetti di Italia Viva e di Rita Bernardini di Nessuno Tocchi Caino - pensata per concedere fino a 60-75 giorni di sconto ogni semestre a chi davvero merita un riconoscimento e persino di spingersi fino a 90 giorni per dare un colpo d’ala all’affollamento. Infine, ha sollecitato una vera riflessione sul concetto stesso di pena: non servono nuovi blocchi o gabbie più grandi, quanto uno sguardo rieducativo e rispettoso della dignità umana, capace di dare un senso al carcere come luogo di ripartenza e non solo di reclusione. Da ricordare che il presidente della Repubblica Mattarella definisce la questione “grave” anche sulla tenuta dell’ordine interno. La Corte dei Conti parla di ritardi e “situazioni critiche al limite dell’emergenza”. E l’Europa - tramite il Cpt - denuncia condizioni vicine alla tortura, con violenza costante tra detenuti. Parlare di “dramma” non è esagerato. Vivere in 3 metri quadri è una condizione che nega dignità, speranza, rieducazione e sicurezza. Con un tasso di suicidi in picchi continui e tensioni diffuse, la situazione va al di là della cronaca: è un’emergenza culturale e politica. Pinelli chiama la politica a prendere in mano la matassa con serietà: non con slogan o annunci, ma con misure reali, immediate e condivise. La speranza è che nel campo della giustizia - dal Parlamento, dal Csm, dal governo - si alzi una voce unica, capace di trasformare la denuncia in azione. Prigioni in rivolta. Gonnella: “Senza respiro e senza speranza” di Angela Stella L’Unità, 18 giugno 2025 Intervista al presidente di Antigone. Il sovraffollamento drammatico, le condizioni igieniche carenti e ad aggiungersi il caldo che rende ancora più insopportabili le condizioni di vita nelle prigioni italiane. Ed ecco che da nord a sud scoppia la protesta: Spoleto, Terni, Como, Aosta, Trapani. “II quadro entro cui queste proteste avvengono è un quadro disperato e disperante, che noi abbiamo raccontato nel recente rapporto, intitolato non a caso Senza respiro”, commenta il presidente di Antigone Patrizio Gonnella, intervistato dall’Unità. “E poi abbiamo la chiusura delle celle e delle sezioni, che è chiusura della vita. Assistiamo a un’ingiustificata e insensata restrizione di occasioni e progetti che arrivano dal mondo esterno, dal volontariato, dall’associazionismo, dalle scuole. Noi raccogliamo il disagio di tanti mondi che erano abituati a essere protagonisti nella vita penitenziaria, offrendo opportunità di intrattenimento culturale, sportivo, ludico, scolastico o universitario. Oggi è tutto difficile, quasi impossibile”. “Manca completamente una visione di quella che deve essere la pena del carcere: si è persa completamente negli ultimi tempi ogni progettualità. Le responsabilità sono politiche, non del singolo dirigente o operatore. Questo è il modello di carcere che questo governo ha deciso di legittimare, un carcere chiuso e senza speranza, un carcere dove la pena è mera punizione, diversamente dal dettato costituzionale. Nonostante questo scivolamento costituzionale purtroppo non avvertiamo scricchiolii nella maggioranza”. Professor Patrizio Gonnella, Presidente dell’Associazione Antigone, negli ultimi giorni ci sono state tre rivolte nelle carceri. La situazione sembra sempre più peggiorare. II quadro entro cui queste proteste avvengono è un quadro disperato e disperante, drammatico, che noi abbiamo raccontato nel recente rapporto, intitolato non a caso Senza respiro. È un quadro fatto di condizioni igienico-sanitarie complicatissime, con un sovraffollamento che aumenta nei momenti di grande caldo rendendo la situazione ancora più opprimente. E poi abbiamo la chiusura delle celle e delle sezioni, che è chiusura della vita. Assistiamo a un’ingiustificata e insensata restrizione di occasioni e progetti che arrivano dal mondo esterno, dal volontariato, dall’associazionismo, dalle scuole. Noi raccogliamo il disagio di tanti mondi che erano abituati a essere protagonisti nella vita penitenziaria, offrendo opportunità di intrattenimento culturale, sportivo, ludico, scolastico o universitario. Oggi è tutto difficile, quasi impossibile, ti viene risposto ‘no’ anche alla richiesta per fare una partita di calcio. E ciò cosa comporta? Si respira in molti istituti tensione nel personale, fra gli operatori, e tra i detenuti. Abbiamo 16 mila reclusi in più rispetto alla capienza effettiva e manca qualsiasi prospettiva di farsi carico di quello che sta accadendo: come si può pensare che la situazione resti tranquilla? Le responsabilità di chi sono? Penso che manchi completamente una visione di quella che deve essere la pena del carcere: si è persa completamente negli ultimi tempi ogni progettualità. Le responsabilità sono politiche, non del singolo dirigente o operatore. Questo è il modello di carcere che questo governo ha deciso di legittimare, un carcere chiuso e senza speranza, un carcere dove la pena è mera punizione, diversamente dal dettato costituzionale. Nonostante questo scivolamento costituzionale purtroppo non avvertiamo scricchiolii nella maggioranza. Nordio ieri ad un evento del Cnel ha dichiarato che molti suicidi tra detenuti avvengono perché preoccupati della vita che li aspetta dopo. Quindi molti avvengono tra quelli che stanno per uscire. Condivide? Purtroppo è sempre avvenuto. Comunque Nordio non è un sociologo, è un ministro. Non gli chiediamo di interpretare passivamente, gli chiediamo di amministrare umanamente. E allora se lui pensa che sia così, di conseguenza si attivi per organizzare corsi di preparazione e rilascio, attivi rapporti con i territori, con i Comuni, faccia un’immediata conferenza dei servizi con le Regioni per aprire nelle grandi case circondariali degli sportelli di orientamento che aiutino le persone per l’anagrafe, il lavoro, la previdenza, la casa. Abbiamo bisogno di fatti, di welfare, di risorse per i servizi sociali, di aumentare le telefonate per i detenuti; non abbiamo bisogno di interpretazioni. In queste settimane si parla molto dell’apertura del presidente La Russa alla proposta di Roberto Giachetti. Pensa che rimarrà una voce isolata? Auspico che le parole si traducano in fatti veri e concreti, perché altrimenti si creano delle fratture ancora più pericolose di quelle già presenti, si creano delle aspettative che rischiano di andare deluse. E questo è ancora più frustrante. Quello che servirebbe è un provvedimento che preveda un indulto per chi ha ancora due anni da scontare. Se non si vuole percorrere questa strada allora si discuta su una riorganizzazione in termini estensivi delle misure alternative, che sia la proposta Giachetti sulla liberazione anticipata o altro: va bene tutto. Purché ovviamente non siano parole. Chi ha responsabilità istituzionali è importante che sappia - e questo sono certo che il presidente del Senato ne è consapevole- che ogni sua parola poi può avere una ricaduta nel reale. Lo abbiamo già visto in passato, non è la prima volta. Noi quando andiamo in carcere, anche di recente, la prima cosa che ci chiedono è: “ma è vero, ma c’è speranza?”. Dato questo quadro, c’è il rischio di un aumento delle rivolte in carcere? Spero di no, anche perché adesso dopo ogni protesta seguono anni di carcere, a causa del delitto di rivolta penitenziaria presente nel dl sicurezza. Questo è quello che hanno voluto alcune organizzazioni sindacali di polizia penitenziaria. Ovviamente questo significa che noi stiamo seppellendo in carcere chi protesta. Ma secondo lei però c’è il rischio? Certamente esiste questo rischio. In qualunque contesto sociale, più crei tensione più si risponde ad essa con le proteste. Io, per mia cultura e per mia storia, sono del tutto alieno ad una qualunque legittimazione di qualunque forma di violenza sulle cose e sulle persone. Detto questo, la situazione è drammatica. E le proteste arrivano dai ceti più marginali, dai più vulnerabili, da persone che hanno condizioni psicofisiche deteriorate. Quindi non si vada a cercare una regia, perché è già accaduto con le rivolte del 2020. E poi si verificò che questa regia non c’era. Un’ultima domanda: si è dimesso l’avvocato Mimmo Passione che assisteva il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Secondo Lei l’organo sta facendo quello che dovrebbe? In primo luogo conosco le qualità, le professionalità e l’etica dell’avvocato Passione. Noi siamo stati quelli che nel 1998 presentarono la prima proposta per dar vita alla figura di quello che chiamavamo Difensore civico penitenziario. Sin dal primo momento auspicavamo che fosse una figura indipendente. Una figura che visiti, ispezioni, stia nei processi per tortura. Una figura che sia il controcanto del potere. Così oggi non è. Sin dall’inizio avevamo espresso i nostri dubbi su una nomina che non aveva i caratteri curriculari di indipendenza rispetto all’amministrazione che dovranno controllare, provenendo dal Dap. Se si sceglie una figura all’interno della stessa amministrazione penitenziaria arriviamo ad una confusione di ruolo tra controllore e controllato. A discapito, quindi della vigilanza sulla tutela dei diritti… L’assenza di terzietà fa sì che ovviamente poi si rischi che l’impatto sia ben diverso. Questo è il problema del Garante nazionale. Però ci preoccupa la tendenza di alcuni Comuni e di alcune Regioni ad individuare i garanti in base all’appartenenza politica e non alla competenza, alla imparzialità, alla autorevolezza in materia di diritti umani, all’esperienza nel monitoraggio. La logica spartitoria nel campo dei diritti umani è veramente disdicevole. Inoltre non è mai opportuno che si traslochi dalla amministrazione penitenziaria ad organismi di controllo esterni. È accaduto in alcune regioni. All’interno del Dap ci sono straordinarie professionalità, ma le funzioni dei Garanti richiedono competenze evidentemente diverse. Carceri minorili tra sovraffollamento e psicofarmaci. Serve un nuovo modello di Livia Zancaner Il Sole 24 Ore, 18 giugno 2025 Per la prima volta nella storia italiana anche le carceri minorili sono sovraffollate. E’ l’allarme lanciato dall’associazione Antigone, che nell’ultimo rapporto sulle condizioni di detenzione evidenzia un sovraffollamento in 9 istituti minorili su 17, a partire da Treviso, Milano e Cagliari. Secondo i dati aggiornati a maggio 2025 del Dipartimento per la giustizia minorile, i minorenni e giovani adulti dai 14 ai 24 anni detenuti negli istituti penali minorili italiani sono 600, con un forte incremento rispetto agli anni precedenti, in particolare da fine 2023, quando è entrato in vigore il decreto Caivano. Il decreto-legge, tra gli altri punti, ha inasprito le pene per i minori autori di reato e ampliato l’uso delle misure cautelari. Sovraffollamento, uso sempre più frequente di psicofarmaci, carenza di percorsi rieducativi efficaci hanno portato negli ultimi mesi a proteste e rivolte anche nelle carceri minorili. “Il carcere deve essere l’estrema ratio ma spesso non così. In questo momento storico di malessere giovanile generalizzato il carcere per i giovani può avere un effetto devastante”, sottolinea don Claudio Burgio, cappellano del carcere minorile Cesare Beccaria di Milano e fondatore della comunità Kayros. “Se si concepisce il carcere come luogo punitivo, non avrà mai effetti rieducativi”, continua don Claudio. Il sottosegretario alla giustizia, Andrea Ostellari sottolinea: “stiamo lavorando sui percorsi di rieducazione e a breve apriremo altre carceri”. Chi sono i giovani detenuti - Complessivamente i giovani presenti nei servizi residenziali, ovvero carceri, comunità e centri di prima accoglienza, sono circa 1800, in salita rispetto ai 1300 di luglio 2023. I giovani in carico ai servizi della giustizia minorile al 15 maggio sono quasi 16 mila, sempre in aumento. Seicento i giovani detenuti negli Ipm, per la stragrande maggioranza maschi - 30 le ragazze - circa la metà minori stranieri non accompagnati. Nel luglio 2023, cioè prima dell’entrata in vigore del decreto Caivano (novembre), i giovani detenuti negli istituti erano 420, 381 a fine 2022. Oggi oltre il 60% ha meno di 18 anni. Percentuale in crescita, visto che nel 2023 i minorenni rappresentavano il 56%. Il decreto Caivano permette, infatti, il trasferimento dei maggiorenni nelle strutture per adulti. I trasferimenti nel carcere per adulti - “Sempre più accade che al compimento del diciottesimo anno di età i ragazzi vengano spediti in via punitiva al carcere per adulti. In questo modo diventano vite a perdere” avverte Susanna Marietti, coordinatrice nazionale dell’associazione Antigone e responsabile dell’osservatorio sulla giustizia minorile. Per il sottosegretario Ostellari, “non c’è nessun provvedimento generalizzato. Il trasferimento di giovani adulti dal minorile al comparto adulti non avviene indiscriminatamente, ma in base al comportamento del singolo”. Molte le proteste innescate dai crescenti trasferimenti, come a Bologna, dove detenuti maggiorenni, provenienti dal minorile, sono stati trasferiti in una sezione del carcere per adulti della Dozza. Senza dimenticare Marassi, il carcere per adulti di Genova, dove i primi di giugno c’è stata una forte protesta, dopo che un detenuto 18enne è stato abusato e torturato dai compagni di cella. Stupefacenti e lesioni i reati più diffusi - Osservando i delitti a carico dei minorenni e giovani adulti entrati negli Ipm, si nota che sono in aumento rispetto al 2022 i reati legati agli stupefacenti (122 nel primo semestre 2024 contro i 153 dell’intero 2022), le lesioni personali e volontarie (da 211 del 2022 a 263 del 2024), la violenza, resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale (da 108 a 178). A seguire tentato omicidio (da 38 a 76) e violenza sessuale (da 35 a 49). Ricordiamo che un soggetto può entrare nelle strutture per uno o più delitti. Tra i reati più diffusi, complessivamente tra i giovani minorenni in carico ai servizi di giustizia minorile, troviamo sempre lesioni personali, furti, rapine, stupefacenti, resistenza a pubblico ufficiale, armi. Nuove carceri e comunità per giovani con disagio psichico - Per contrastare il sovraffollamento, il ministero della giustizia ha annunciato l’apertura di nuove carceri, oltre a rimodernare e ristrutturare strutture già esistenti. Entro l’anno aprirà un nuovo istituto a Rovigo, poi a Lecce e L’Aquila. Il ministero ha annunciato anche l’apertura di comunità ad alta intensità sanitaria per giovani con disagio psichico, in collaborazione con le regioni. La prima è stata aperta a Casteggio, in provincia di Pavia ed è gestita da Recovery for life. A marzo ha accolto il primo paziente, ora sono 9. “I tempi di permanenza degli ospiti nella nostra struttura vanno da 3 mesi a massimo un anno, con l’obiettivo di valutare il percorso migliore per il ragazzo, ovvero il trasferimento in un’altra comunità o il rientro in famiglia” sottolinea Giovanna Cuzzani, psichiatra e direttrice sanitaria. La carenza di percorsi rieducativi efficaci - Altro punto cruciale riguarda le attività, perché se il percorso in carcere o comunque nella giustizia minorile, non passa da una rieducazione, da un reinserimento nella vita sociale e nelle relazioni con gli altri, allora il ragazzo quando esce si trova al punto di partenza. “Sempre di più la detenzione minorile somiglia a quella degli adulti. C’è uno stato di abbandono. I ragazzi passano molto tempo in cella senza fare niente” sottolinea Marietti. Anche per don Claudio Burgio mancano ancora le opportunità formative e lavorative che “potrebbero essere di gran lunga più esplorate. Soprattutto il tempo estivo è un tempo vuoto. Bisogna fare qualche sforzo in più” dice don Claudio. Le comunità - Altra criticità l’assenza di una forte rete di accoglienza che, ad esempio, per i minori stranieri, soli senza famiglia, è spesso l’unica via. Al momento le comunità sono in affanno e gli educatori sempre meno. Secondo i dati aggiornati a maggio 2025 del dipartimento per la giustizia minorile, sono tre in Italia le comunità ministeriali, che accolgono 18 ragazzi. Oltre mille sono, invece, quelli accolti nelle strutture private. “La criticità del carcere non è solo la criticità dell’istituto penale. Il vero problema è fuori, dove mancano le strutture comunitarie. Ciò influisce sul sovraffollamento: ci sono ragazzi che restano in carcere a lungo proprio perché non si trovano comunità in cui ospitarli, precisa Burgio. Per i giovani serve un nuovo modello - “La tendenza è ancora quella repressiva, di contenimento, di un regime di sorveglianza che si vede ed è palpabile anche negli istituti minorili. Ed è proprio l’idea di fondo che bisogna rivedere. Oggi sembra un delitto parlare dell’abolizione del minorile e non si lavora in questo senso. C’è molta strada da fare” racconta don Claudio Burgio, che 25 anni fa ha fondato la comunità Kayros per accogliere i ragazzi. “In questo momento storico di estrema fragilità dei giovani, il carcere rischia di slatentizzare una situazione di malessere esistenziale psichico molto profondo. I ragazzi arrivano in un ambiente molto violento, hanno paura, iniziano ad assumere farmaci e rischiano di uscire ancora più incattiviti o sofferenti a livello psichico”. Don Claudio spiega che i ragazzi non cambiano in forza delle leggi o dei codici e che l’inasprimento non fa da deterrente. Per don Claudio bisogna ripensare il modello: “non servono altre carceri, servono piccole comunità in cui aiutare i ragazzi a ricostruire i rapporti sociali”. Carceri, un’emergenza in crescita anche per chi ci lavora di Roberta Lisi collettiva.it, 18 giugno 2025 La denuncia arriva dalla Fp-Cgil, i lavoratori e le lavoratrici che operano all’interno dei penitenziari sono lasciati soli. Saltano orario di lavoro, ferie e turni di riposo. È di meno di 24 ore fa la notizia di rivolta nelle carceri di Terni e di Spoleto. Fa caldo, il sovraffollamento è ormai un male atavico, basti pensare che nel carcere di Terni sono detenute 600 persone, 178 in più rispetto al massimo della capienza fissata a 422 e a fare le spese di una condizione invivibile, oltre agli stessi detenuti sono quanti operano negli istituti di pena. “Ogni giorno registriamo disordini, aggressioni e vere e proprie sommosse nelle carceri italiane. Questo trend, iniziato durante la pandemia, persiste da oltre cinque anni senza soluzioni efficaci. Anzi, la violenza è sempre più dilagante e nessuna delle misure finora adottate è riuscita a invertire la rotta” lo afferma Donato Nolè, Fp Cgil nazionale. A fronte del nulla o quasi degli interventi governativi, se non l’approvazione di norme che contribuiscono al riempirsi delle carceri come il Decreto sicurezza, invece che individuare strumenti che per svuotarle, l’onere del governo di situazioni davvero difficili è lasciata a chi vi opera. Aggiunge il dirigente sindacale: “L’amministrazione penitenziaria è riuscita a riprendere il controllo in istituti come Avellino e Pescara, dove, a seguito di episodi gravi, sono stati assegnati direttori e comandanti adeguati e stabili, e si è proceduto al rafforzamento dell’organico della polizia penitenziaria. È invece incomprensibile - e inaccettabile - che in altre realtà, come Terni, Spoleto, Prato e Messina, solo per citarne alcune, da anni vengono segnalate situazioni di pericolosità, organico insufficiente e mancanza di direttore e/o comandante. Si rimane inascoltati fino a quando non si registrano gravi disordini o ferimenti. Solo a quel punto si ricorre al G.I.O. (gruppo intervento operativo) per ripristinare l’ordine, con rischi assurdi per il personale, ingenti danni materiali e ulteriore riduzione degli spazi detentivi. La domanda sorge spontanea: perché non si interviene in anticipo, in quei contesti in cui la percezione dell’imminente caos è diffusa e denunciata da tutti, ma ignorata dai vertici?”. Già perché non si interviene in anticipo? Ma esiste un’altra domanda che segue quella pronunciata da Nolè: che fine fa la retorica sulla importanza del personale che si occupa della sicurezza? Alla prima domanda forse si potrebbe rispondere che non si interviene cercando una soluzione vera e strutturale al problema del sovraffollamento degli istituti di detenzione perché se la tendenza è quella ad aumentare i reati penali e le aggravanti non vi è nessun interesse ad affrontare la questione del sovraffollamento, tanto più che per chi ci governa i cosiddetti “delinquenti” non avrebbero diritti, basti pensare all’idea che il sottosegretario alla giustizia Delmastro ha dei detenuti. E alla seconda si potrebbe rispondere che la retorica è appunto retorica. La considerazione di Nolè è amara quanto puntuale: “La soluzione ‘di routine’ adottata, il trasferimento dei detenuti facinorosi in altre sedi, senza particolari provvedimenti a loro carico, non solo è insufficiente, ma elude il problema reale. Di fatto, pare abrogato l’art. 14-bis dell’ordinamento penitenziario. Sarà difficile affrontare l’estate in queste condizioni”. “Di prassi - aggiunge - l’estate è da sempre il periodo più difficile, non solo per le condizioni climatiche, dove gli istituti costruiti in cemento armato e ferro diventano luoghi roventi con spazi sempre più ridotti, ma anche per la sospensione delle poche attività, come quelle didattiche. In questa realtà surreale per chi lavora negli istituti, dove l’orario di lavoro è soltanto un rigo scritto nel contratto e vengono annullati tutti i diritti, quali ferie e riposi settimanali, la priorità per la maggioranza delle organizzazioni sindacali rappresentative e firmatarie del contratto è la rivisitazione dell’Accordo Quadro Nazionale”. Insomma nessun diritto per i reclusi, e pochissimi per i lavoratori e le lavoratrici che sono sempre più soli di fronte alle difficoltà. Secondo Nolè “si continua con provvedimenti casuali: un giorno si rafforza Trapani, un altro si conferma la missione nella sezione giovani adulti di Bologna; spesso si bandiscono ricognizioni presso il Dap, dove pare ci sia un sovraorganico di oltre 1.000 unità”. È di oggi la notizia dell’incremento con invio in servizio di missione (forfettaria) ruolo ispettori presso la Casa Circondariale di Cuneo, “realtà questa rimasta invisibile per anni, che da poco ha visto assegnarsi 10 unità del ruolo ispettori. Se erano necessari ulteriori 2 ispettori, perché non sono stati assegnati con la messa a ruolo dei neo ispettori? Facciamo appello al nuovo Capo Dap, affinché le priorità del Dipartimento tornino ad essere le carceri e le condizioni di lavoro della polizia penitenziaria sempre più in fuga dai Reparti”. Il lavoro in carcere conviene a tutti: Cnel, Governo e parti sociali “fanno sistema” di Manuela Perrone Il Sole 24 Ore, 18 giugno 2025 Il lavoro in carcere “conviene a tutti”. Ai detenuti, nell’ottica del futuro reinserimento nella società. Allo Stato, che garantisce la piena attuazione dell’articolo 27 della Costituzione. Alle imprese, che possono allargare il bacino della manodopera di cui hanno bisogno. Nutrito da questa convinzione condivisa, cresce il progetto “Recidiva Zero”, che ieri a Roma, al termine della seconda edizione della giornata dedicata, ospitata presso la Scuola di formazione “Giovanni Falcone” del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, ha aggiunto una tessera chiave al mosaico: l’alleanza tra ?l Cnel e 16 associazioni datoriali, suggellata da un protocollo d’intesa. L’obiettivo generale dichiarato e costruire un sistema integrato di formazione e lavoro in tutti i 189 istituti di pena italiani, grazie alla sinergia tra istituzioni, aziende, sindacati e terzo settore. L’iniziativa, avviata due anni fa con l’accordo firmato tra il presidente del Cnel, Renato Brunetta, e Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, si e irrobustita passo dopo passo: prima la nascita del segretariato permanente al Cnel, che ha sfornato un disegno di legge per rivisitare il quadro normativo e regolamentare e garantire in carcere l’applicazione dei contratti collettivi nazionali, poi la conversione del decreto Sicurezza, che all’articolo 37 autorizza il governo a modificare il regolamento sul lavoro (il cantiere è aperto). Infine, l’estensione alle persone in regime di detenzione della piattaforma Siisl per l’inclusione sociale e lavorativa. “È un’occasione storica per coniugare il diritto alla rieducazione del condannato con l’utilità in cui si può convertire l’espiazione della pena”, ha sottolineato il Guardasigilli Carlo Nordio. Perché “con “Recidiva Zero” c’è la possibilità di aiutare le aziende che hanno bisogno di manodopera, spesso per attività che gli italiani non vogliono più esercitare”. Il ministro ha ricordato l’urgenza di intervenire sul sistema carcerario, in particolare su quell’“edilizia penitenziaria disomogenea” che vede la compresenza di carceri modello con grandi spazi e istituti antichi, spesso vincolati, “dove è impossibile esercitare lavoro e sport” e che ora può contare su un commissario ad hoc Sempre Nordio ha sottolineato che “una buona percentuale di suicidi, flagello della carcerazione, avviene tra detenuti invia di liberazione. Yiche significa che per queste persone la prospettiva della libertà è preoccupante: non sanno come la società li accoglierà”. Eccolo, il buco nero. “Recidiva Zero” punta a dare la speranza a che oggi non c’è. Secondo il rapporto Censis aggiornato per l’evento, tra il 2023 e il 20241 detenuti sono aumentati del 28%, a quota 61.861. Appena il 31,3% frequenta percorsi di istruzione di primo o secondo livello, ma cresce al 7,2% la quota di chi e iscritto a corsi di formazione. Soltanto il 34,2% lavora (+5,8%rispetto al 2023), e 85 su 100 lo fanno alle dipendenze dell’amministrazione. “Da economista osservo i dati”, ha affermato Brunetta. “Nel 2023 il punto di partenza era chiaro: oltre il 70% dei detenuti aveva al massimo la licenza media; il 6% era analfabeta o privo di titolo di studio; solo l’1% era laureato. Spendiamo ogni anno 3,5 miliardi per il sistema penitenziario, ma il risultato è allarmante: oltre i170% di recidiva Il nostro impegno è colmare questo divario, creando un legame strutturale tra carcere, impresa, formazione e istruzione. Serve un cambio di passo”. Per la ministra del Lavoro, Marina Calderone, che ha ribadito l’importanza del rispetto dei contratti collettivi, “dare la possibilità di abbracciare un’ipotesi di futuro diverso, oltre che un obbligo, è un atto di giustizia sociale importantissimo” .”Abbiamo bisogno di almeno 1,4 milioni di lavoratori in più - ha aggiunto: vuol dire che c’è posto per tutti e che a tutti dobbiamo offrire un’opportunità Aprire la piattaforma Siisl all’incrocio tra domanda e offerta per il lavoro in carcere e fuori dal carcere va in questa direzione”. La sperimentazione e in corso in otto istituti, da settembre dovrebbe essere ampliata. Il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Ostellari, ha voluto ricordare Enzo Tortora, arrestato ingiustamente ?l 17 giugno 1983, e ha citato un dato su tutti: “Il 98% di chi acquisisce competenze professionali non commette più reati. Lavorando insieme per questo obiettivo, possiamo migliorare la società del futuro”. Lo ha ribadito a fine giornata il presidente del Senato, Ignazio La Russa: “Accanto alla necessità della certezza della pena devono esserci condizioni civili per chi sta in carcere, che comprendano il lavoro. A me sta a cuore, però, anche il modo con cui lo Stato onora la polizia penitenziaria, coloro che hanno il doppio compito di assicurare l’ordinato svolgimento della detenzione e di far riconoscere la civiltà dello Stato nel loro comportamento”. Lungo l’applauso della platea. Lavoro in carcere. Più sgravi per più imprese in un quadro di forti criticità di Raffaella Calandra Il Sole 24 Ore, 18 giugno 2025 Se e vero che la Costituzione scommette sul cambiamento del detenuto, questo non può che essere un percorso. Graduale, con più fattori e attori. Cos? a due anni dalla sottoscrizione dell’accordo tra Cnel e ministero della Giustizia verso l’ambizioso obiettivo di una recidiva zero, dati positivi - come l’aumento delle imprese pronte a cercare manovalanza nel sistema penitenziario e l’aumento di detenuti impiegati - convivono con gli ostacoli di istituti spesso privi di spazi adeguati, sovraffollati, con pochi mediatori e una scarsa conoscenza di domanda e offerta di lavoro. Tutte questioni emerse in prevalenza nei tavoli tecnici della seconda edizione del progetto. In attesa del piano del commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria - atteso con Dpcm per oine mese, a quanto trapela - il quadro di partenza lo traccia il neo capo Dap, Stefano De Michele. Su quasi 62mila detenuti, al 31 dicembre era impiegato il 34%, un dato cresciuto rispetto al 26% di dieci anni prima: la stragrande maggioranza, l’85%, e al servizio dell’amministrazione penitenziaria (pulizie o cucina); 3.172 i detenuti impiegati da cooperative o imprese. Si lavora soprattutto all’interno delle mura di cinta (1.151 gli impiegati: 902 per cooperative, 249 per aziende) o in regime di semilibertà (1.123); meno in lavoro esterno (898 persone). Un punto su cui prova ad intervenire il decreto sicurezza. Negli ultimi anni, il numero di imprese beneficiarie degli sgravi previsti dalla legge Smuraglia in caso di impiego di detenuti risulta in costante crescita. Oltre 11 milioni le concessioni del credito di imposta per 694 aziende nel 2024 e nel 2025 i numeri sono già superiori: 12 mln 706mi1a a favore di 73o imprese. Se si va pero in profondità, come nell’analisi di Filippo Giordano, membro del segretariato permanente Cnel e professore Lumsa, si scopre la scarsa continuità (su 210 nuovi enti ammessi agli sgravi l’anno scorso, solo 88 hanno ottenuto fondi anche per il 2025) ed emergono alcuni ostacoli, come l’impossibilità di far lavorare dopo le 17:30 il detenuto, che spesso ha un fine pena troppo breve per essere formato (8.087 con pena residua fino a un anno nel 2024) o un alto tasso di dipendenza da sostanze. Per favorire l’incontro tra domande e offerta di lavoro, in 8 penitenziari di 5 Regioni è partita una sperimentazione con ministero del Lavoro e Inps attraverso la piattaforma Siisl, anche per una “profilazione” della popolazione detenuta, un aspetto valorizzato in particolare da Emilio Minunzio, presidente del segretariato permanente del Cnel: gli operatori caricano i curricula dei candidati, le imprese li selezionano e possono indicare le proprie esigenze. Uno scambio proiettato anche verso il cruciale momento del fine pena. Da un territorio all’altro, non cambia solo la domanda, cambia anche la formazione, cos? i dirigenti Dap sollecitano livelli di prestazione essenziali minimi per favorire uniformità e uno Statuto per i lavoratori alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria. Ma ancora troppo spesso, com’e successo anche in realtà ad alta vocazione industriale e forte sensibilità per le carceri come Brescia, le imprese non hanno potuto dare seguito a progetti di collaborazione per mancanza di spazi adeguati nel vecchio istituto di Canton Mombello. “Se la detenzione non porta via la visione del futuro legata al lavoro, e già un primo passo per il recupero”, plaude il vicepresidente del Csm, Fabio Pinelli, che in questo contesto non richiama la sua proposta di liberazione anticipata per ridurre il numero dei reclusi. Quando le celle sono sovraffollate e la tensione sale, più difficile diventa ogni iniziativa. Lo ricordano spesso i direttori delle 189 carceri collegati a distanza nella giornata dedicata alla “Recidiva zero”. Lavoro in carcere: ecco cosa non funziona nella legge Smuraglia di Ilaria Dioguardi vita.it, 18 giugno 2025 Durabilità nel tempo, dimensionamento economico, qualità delle collaborazioni istituzionali: sono questi i tre fattori critici del lavoro in carcere. Dialogo con il professore Filippo Giordano che ha presentato una ricerca promossa dal Cnel sugli enti che beneficiano della legge Smuraglia. La giornata di lavoro “Recidiva zero”, organizzata dal Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro-Cnel in collaborazione con il ministero della Giustizia, è stata l’occasione per approfondire il tema dell’inclusione sociale e lavorativa delle persone private della libertà personale. “Dal 2023 al 2025 il numero di enti fruitori della legge Smuraglia è cresciuto del 40%, però lo sviluppo e l’incremento numerico delle opportunità lavorative e di reinserimento in favore delle persone in esecuzione penale è legato non solo all’ampliamento della platea dei datori di lavoro, ma soprattutto alla durabilità e allo sviluppo nel tempo delle attività economiche”, dice Filippo Giordano, ordinario di Economia aziendale all’Università Lumsa di Roma, membro del Segretariato Cnel. La Legge Smuraglia, la 193/2000, mira a favorire l’attività lavorativa dei detenuti, offrendo incentivi fiscali e contributivi alle imprese che li assumono. Alto tasso di caduta tra il 2024 e il 2025 - “È la sostenibilità delle attività economiche che permette di dare continuità ai percorsi di inclusione lavorativa e, quindi, generare impatto in termini di riduzione della recidiva”, afferma Giordano. Dall’analisi dei dati pubblici disponibili sulla Smuraglia “emergono tre criticità delle attività lavorative in carcere. La prima riguarda la continuità. Osservando i dati del triennio si osserva che meno del 25% (239 enti) ha fruito dello sgravio fiscali su tutti e tre gli anni”, prosegue Giordano. “Questo evidenzia una rilevante questione relativa alla continuità dei percorsi di inclusione e alla precarietà delle attività economiche che merita un necessario approfondimento. Ciò è confermato dall’alto tasso di caduta che si registra tra il 2024 e il 2025: dei 210 nuovi fruitori di Smuraglia del 2024, solo 88 enti hanno ricevuto ad oggi finanziamenti anche per il 2025. L’importo delle agevolazioni fiscali richieste per il 2025 è circa 12 milioni 431mila euro”. Solo il 9% degli enti ha percepito più di 50mila euro - La seconda criticità delle attività lavorative in carcere è la volatilità. “Gli importi erogati di Smuraglia presentano una grande variabilità, sia in positivo che in negativo, degli importi. Ci sono organizzazioni che registrano incrementi o riduzioni percentuale a tre cifre. In particolare, degli enti che hanno fruito di Smuraglia nel triennio in esame, circa il 60% presenta nel 2025 variazioni rispetto al 2023, con il segno “più” o con il segno “meno”, superiori al 20%”. La terza criticità concerne il dimensionamento. Solo il 14% degli enti, nel 2024, “ha percepito un importo maggiore di 24mila euro, ossia in grado di garantire l’assunzione di quattro detenuti full time per 12 mesi. Questi rappresentano il 72% dell’erogato. Mentre il 7% ha percepito un importo maggiore di 50mila euro, ossia in grado di garantire l’assunzione di otto detenuti full time per 12 mesi”. Una curiosità: il 40% degli enti che beneficiano della Smuraglia per oltre 50mila euro sono aderenti a Confcooperative Federsolidarietà. Una ricerca sui soggetti fruitori degli sgravi fiscali - Il Cnel ha avviato a metà maggio una ricerca finalizzata ad analizzare le attività economiche portate avanti dai soggetti fruitori degli sgravi fiscali previsti dalla legge Smuraglia. “A tre settimane dall’avvio hanno risposto 65 enti corrispondenti ad una copertura dell’11% del totale dei fruitori Smuraglia 2024 e del 27% dell’erogato”, dice Filippo Giordano, curatore della ricerca. I primi risultati forniscono già importanti indicazioni circa i fattori alla base della sostenibilità e dello sviluppo delle attività lavorative negli istituti di pena. “In particolare, sono identificate tre dimensioni di sostenibilità: economica, legata alle caratteristiche delle attività economiche, al loro dimensionamento, alle peculiarità del modello di business; sociale, relativa alla qualità e tenuta dei percorsi di inclusione lavorativa; istituzionale relativa all’ambiente istituzionale in cui si svolge l’attività economica”. Nel 2024 il 14% degli enti ha percepito un importo maggiore di 24mila euro, in grado di garantire l’assunzione di quattro detenuti full time per 12 mesi, mentre solo il 7% ha percepito un importo maggiore di 50mila euro, in grado di garantire l’assunzione di otto detenuti full time per 12 mesi. Se tutte le dimensioni sono fondamentali per la sostenibilità aziendale, i rispondenti attribuiscono maggiore peso alla sostenibilità istituzionale, “in particolare alla qualità della collaborazione con l’amministrazione penitenziaria, su una scala da 1 a 5 la media dei valori registrati è 3,2. Gli aspetti legati alla sostenibilità economica e sociale sono messi sullo stesso livello, la media dei valori registrati si attesta sul 2,8 e 2,7”. Ostellari: “Il 98% di chi impara un mestiere in carcere, poi non commette più delitti” di Ilaria Dioguardi vita.it, 18 giugno 2025 Ma la grande maggioranza ha un impiego alle dipendenze del Dipartimento di amministrazione penitenziaria. I ristretti che hanno soggetti terzi come datori di lavoro sono appena 3.172. Stefano Granata (presidente di Confcooperative Federsolidarietà): “Per chi lavora nelle cooperative, recidiva sotto al 10%). “Il 98% dei detenuti che, negli istituti di pena, imparano un mestiere, una volta usciti non commettono più delitti. Questo è l’elemento fondamentale che deve essere sottolineato per cercare di fare squadra. Così facendo non solo miglioriamo l’obiettivo dell’articolo 27 della nostra Costituzione, ma anche quello, egoisticamente più rilevante, di migliorare la nostra società nel futuro”, ha detto il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari durante la giornata di lavoro “Recidiva zero”, alla seconda edizione, organizzata a Roma nella sede del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - Dap dal Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro-Cnel in collaborazione con il ministero della Giustizia. Il sottosegretario ha affermato che “il 34,30% dei detenuti oggi lavora, sono circa 21.200 persone. La grande maggioranza ha un impiego alle dipendenze del Dap, è un lavoro diverso rispetto a quello che dovrebbe essere gestito da un datore di lavoro privato o del Terzo settore, con cui il detenuto ha delle regole diverse, deve crescere ed imparare. All’interno del comparto dei detenuti lavoratori alle dipendenze del Dap, abbiamo avuto un aumento del 5% rispetto al 2022”. Le imprese che hanno beneficiato della legge Smuraglia “sono passate da 519 nel 2023 alle attuali 730, con un aumento del 40,65%. È un dato che registra l’impegno che abbiamo certificato dal 2022 alla fine del 2024”, ha continuato. “Quel mondo che sta fuori dobbiamo cercare di metterlo in relazione con gli istituti per spingere i progetti, per fare in modo che lo strumento del lavoro sia davvero quello che dia fiducia e prospettiva, che renda la speranza qualcosa di palpabile. I progetti ci sono e sono in continua evoluzionei”, ha proseguito Ostellari. “Dobbiamo cercare di coinvolgere il mondo esterno per far capire che il progetto “Recidiva zero” è anche economicamente sostenibile”, ha concluso, “che è un vantaggio per chi vuole investire negli istituti”. Dei detenuti lavoranti, il 15% è alle dipendenze di soggetti terzi - “Il lavoro alle dipendenze del Dap è nei settori funzionali alla gestione della quotidianità, in ambito agricolo, negli opifici”, ha detto il neoeletto capo del Dap Stefano Carmine De Michele. “Sono solo 3.172 i detenuti alle dipendenze di soggetti terzi, di questi 115 in lavoro interno, 898 in lavoro esterno e 1.123 semiliberi. Sul totale dei lavoranti, sia alle dipendenze del Dap sia di terzi, 7.600 sono stranieri”. Recidiva sotto al 10% con il lavoro in cooperativa - “Su 100 detenuti formati e assunti da cooperative sociali, meno di 10 tornano a delinquere”, ha detto il presidente di Confcooperative Federsolidarietà Stefano Granata. “E ogni euro investito in questo percorso genera benefici netti per la collettività, trasformando il carcere da “trappola sociale” a ponte verso il reinserimento. Lo dimostrano i numeri della filiera giustizia di Confcooperative Federsolidarietà: 430 milioni di fatturato, 11.500 occupati, e 3.000 ex-detenuti stabilizzati nel lavoro post-carcere”. Dalle coop sociali di tipo B oltre un terzo dei detenuti assunti con la Smuraglia - Le cooperative del sistema “hanno dato lavoro a oltre 11.500 persone nella filiera della giustizia. In particolare, le cooperative sociali di tipo B, specializzate nell’inserimento lavorativo, si confermano una “locomotiva” per le opportunità di occupazione in carcere, assumendo oltre un terzo dei detenuti impiegati grazie anche agli incentivi della legge Smuraglia”, ha continuato Granata. “Attraverso un modello integrato che vede la collaborazione tra cooperative di tipo A e B, stiamo costruendo una filiera completa che va dalla profilazione delle competenze dei detenuti all’accoglienza residenziale, dalla formazione all’inserimento lavorativo, sia nelle nostre cooperative che presso altre imprese”. Riecco la separazione delle carriere (fra polemiche che sfiorano l’assurdo) di Errico Novi Il Dubbio, 18 giugno 2025 È una storia strana. Anzi, le storie strane, paradossali, sono due. La prima. Oggi in Senato inizia la discussione finale, cioè l’esame in Aula, sulla separazione delle carriere. In teoria si potrebbe passare subito al voto degli emendamenti e poi al sigillo finale. In pratica, il legittimo ostruzionismo delle opposizioni, di Pd, M5S e Avs in particolare, rischia di tenere in freezer il ddl Nordio almeno fino a lunedì prossimo, visto che domani Palazzo Madama sarà impegnato con le celebrazioni per il Giubileo. Il dato curioso è l’imbarazzo del centrodestra, che dovrà fare di tutto per disarmare l’accusa, avanzata dagli avversari, di “golpe costituzionale”, e cioè di voler far passare la modifica della Carta relativa alle toghe con uno strappo alle regole (strappo che non c’è, non c’è stato finora, ma la polemica fa parte del gioco). L’altro paradosso ha a che vedere con una vicenda tragica, e cioè con la morte del carabiniere Carlo Legrottaglie, caduto in una sparatoria giovedì scorso a Francavilla Fontana, in Puglia, e con il successivo scontro a fuoco in cui ha perso la vita un pregiudicato ritenuto coinvolto nel primo conflitto, Michele Mastropietro, precedenti per rapina, colpito da agenti della squadra “Falchi” del commissariato di Grottaglie. Due fatti in apparenza slegati. In realtà un nesso c’è. Nasce dalle polemiche inscenate da alcuni esponenti del centrodestra, locali e nazionali, nei confronti della Procura di Taranto, dopo che un pm di quell’ufficio, Francesco Ciardo, ha iscritto i poliziotti della seconda sparatoria nel registro degli indagati, con l’ipotesi di “omicidio colposo a seguito di eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi”. Nei comunicati di alcuni esponenti della maggioranza sono comparsi cenni a una miopia burocratica del magistrato che avrebbe “accostato dei malviventi a uomini dello Stato impegnati nello svolgimento del dovere”. Polemiche, seppur contenute, sono arrivate anche da sindacati come il Sap, che invocano se non lo scudo penale, almeno una tutela processuale netta per agenti e carabinieri coinvolti in scontri del genere. Ma si registra anche qualche impennata: ancora ieri l’ex colonnello dell’Arma Angelo Jannone, in un’intervista a Libero, ha evocato un “pregiudizio” di alcune toghe nei confronti delle forze dell’ordine. È in un quadro del genere che si spiega la nota con cui lunedì l’Anm sezione Lecce è intervenuta in difesa dei colleghi di Taranto: non sono “condivisibili né accettabili le valutazioni espresse su alcuni organi di stampa da parte di alcuni esponenti politici e dei rappresentanti di alcuni sindacati della Polizia di Stato sull’operato dei magistrati della Procura della Repubblica di Taranto, impegnati in queste ore”, ricorda il “sindacato delle toghe”, “in delicati accertamenti sulle circostanze che hanno immediatamente seguito l’uccisione del brigadiere capo dei Carabinieri Carlo Legrottaglie. La natura degli accertamenti in corso impone la partecipazione ad essi, anche nel loro interesse, del personale del commissariato della Polizia di Stato di Grottaglie, coinvolto, suo malgrado, nel conflitto a fuoco nel quale ha perso la vita Michele Mastropietro. Nessuno di tali accertamenti può e deve essere letto come uno schiaffo alla realtà, alla logica e al lavoro di chi ogni giorno”, prosegue la nota dell’Anm locale, “rischia la pelle per proteggere i cittadini, o come una manifestazione di confusione o di contraddizione o, addirittura, come il segno della volontà di criminalizzare il personale della Polizia di Stato di Grottaglie”. Parole condivisibili: la legge prevede l’iscrizione a registro, e anche se un autorevole esponente del governo come il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari ha confermato che via Arenula lavora per una tutela processuale più efficace per gli uomini dello Stato coinvolti in scontri a fuoco, il pm Ciardo non avrebbe potuto far altro. La cosa spiazzante, ed è qui il nesso con la separazione, è che una delle obiezioni principali rivolte alla riforma, soprattutto dalle opposizioni, riguarda le nefaste conseguenze dello sdoppiamento del Csm e dell’istituzione di un Consiglio superiore “esclusivo” dei magistrati requirenti. Un organismo che, si obietta, diventerebbe la centrale di un potere incontrollabile, in cui la forza dei pm si intreccerebbe con quella della polizia giudiziaria, fino a formare un corpo semi- eversivo (quadro che fa da preludio alla successiva previsione, secondo cui il solo rimedio sarebbe a quel punto l’assoggettamento delle Procure al governo). Le parole sacrosante diffuse dall’Anm leccese finiscono, in un blob irrazionale, quasi per aderire a questa lettura un po’ apocalittica, sebbene siano state concepite solo per riportare un minimo di senso della misura nella tensione fra toghe e forze dell’ordine. È un corto circuito provo di senso, ma che basta a dimostrare quanto le polemiche sulla riforma rischino di scivolare in un dibattito sterile, esasperato e in contrasto con gli obiettivi reali della stessa magistratura. Separazione delle carriere, la destra corre contro il calendario di Mario Di Vito Il Manifesto, 18 giugno 2025 Oggi in aula al Senato il testo sulla giustizia. Le opposizioni sulle barricate. Le opposizioni giurano che sarà battaglia, ma per la riforma della giustizia, che stamattina arriva in aula al Senato, il vero nemico della maggioranza è il calendario. Infatti già domani sarà impossibile proseguire la discussione in virtù di un’iniziativa legata al Giubileo mentre la settimana prossima, lunedì arriverà il testo delle comunicazioni della premier Meloni in vista del consiglio europeo, questione che verrà poi discussa martedì. Dunque l’ipotesi più probabile è che l’esame della riforma ricomincerà soltanto mercoledì. L’idea della destra è di cominciare a votare il prima possibile e, per scavalcare gli emendamenti delle opposizioni, tutto lascia presagire che verrà utilizzato il famigerato “canguro” per accorpare gli articoli simili e poi votarli in blocco. L’imperativo categorico resta dunque quello dell’urgenza, costi quel che costi. Una fretta che si era materializzata già in commissione con la maggioranza che aveva deciso di non completare l’esame del testo e di mandarlo in aula senza relatore. Tutto questo perché la speranza è di effettuare la seconda lettura alla Camera già a luglio per poi concentrarsi in autunno sul ritorno al Senato. A quel punto rimarrà un solo ostacolo: il referendum costituzionale, che arriverebbe verosimilmente nella primavera del 2026. L’ultima rilevazione, fatta dall’Eurispes due settimane fa, vede il 60% degli italiani favorevoli alla riforma. Una cifra significativa e che però dalle parti dell’Associazione nazionale magistrati ritengono non essere impossibile da rimontare. Molto dipenderà da quanto si politicizzerà la partita: al di là del merito della questione, infatti, se il referendum diventerà un voto sul governo Meloni, tutto potrebbe cambiare all’improvviso. Il precedente della riforma costituzionale rovinosamente perso da Renzi nel 2016 lo ricordano tutti. E l’allora premier del Pd partiva da consensi anche più alti rispetto all’attuale inquilina di palazzo Chigi. Intanto, però, in parlamento si corre, le opposizioni non hanno grandi strumenti a disposizione e tutto quello che possono fare è provare a rendere un po’ più difficile la vita alla maggioranza. Così sia da parte del Pd sia da parte del M5s verranno presentate delle pregiudiziali di merito contro la riforma che separerà le carriere dei magistrati giudicanti da quelli requirenti, sdoppierà il Csm, decreterà il metodo del sorteggio per eleggerne i membri e istituirà un’alta corte per dirimere le questioni disciplinari delle toghe. Un pacchetto che, secondo i senatori del M5s, sarebbe soltanto “funzionale a determinare un diverso e complessivo riassetto del potere giudiziario, scardinando il modello costituzionale vigente per ridurre, con interventi mirati di varia natura, il peso e il ruolo costituzionale della magistratura”. “Interverremo molto duramente perché non c’è nella storia un solo precedente di riforma costituzionale arrivata in aula senza che si fossero conclusi lavori della commissione, è un fatto gravissimo - commenta da parte sua Andrea Giorgis, capogruppo Pd in commissione Affari costituzionali -. Cosa ancor più grave è che la riforma sia stata presentata con un testo non modificabile da parte del parlamento”. La pregiudiziale dei dem servirà nelle intenzioni a “denunciare la modalità attraverso la quale si è arrivati alla trattazione in aula e per sottolineare il contenuto della riforma, il cui obiettivo è solo quello di indebolire l’autonomia e l’indipendenza della magistratura”. La deriva gruppettara di una sinistra che regala alla destra il garantismo di Claudio Cerasa Il Foglio, 18 giugno 2025 La posizione del campo largo sulla giustizia impone una svolta culturale: separare le carriere tra riformismo di sinistra e masochismo gruppettaro. La notizia dell’imminente voto in Aula, al Senato, del disegno di legge costituzionale numero 1.353, un disegno di legge importante perché contiene la riforma che separa le carriere dei giudici e dei pubblici ministeri, perché contiene la riforma che crea due distinti consigli superiori della magistratura, perché contiene la riforma che disciplina le nuove modalità di elezione dei membri togati del Csm, offre alcuni spunti di riflessione che meritano di essere messi insieme e che ci dicono qualcosa di interessante su tre temi che riguardano il mondo del centrodestra e quello del centrosinistra. Il primo tema fondamentale, politicamente rilevante, è legato a una conferma importante. Il centrodestra ha deciso di inserire la marcia più veloce sui temi della giustizia, e non su altri, con l’obiettivo esplicito di approvare il pacchetto costituzionale entro la fine dell’anno (alla Camera si è già votato in prima lettura) e lasciarsi aperta la possibilità il prossimo anno di celebrare un referendum (senza quorum) che potrebbe aiutare l’elettorato di centrodestra a mobilitarsi, a pesarsi, a misurarsi e a fare le prove generali per le successive elezioni politiche (entro il 2025 si voterà in seconda lettura sia alla Camera sia al Senato, e successivamente all’ultimo voto in seconda lettura sarà possibile convocare un referendum dopo tre mesi, cosa che il governo vuole fare). Il dato politico è evidente e rilevante: l’unica riforma che il centrodestra considera contemporaneamente identitaria e non divisiva e potenzialmente trasversale è quella che riguarda la giustizia, e l’unica riforma sulla quale può avere senso chiamare gli elettori al voto, prima delle politiche, non è quella che riguarda il premierato, riforma che si farà, certo, ma con la tempistica giusta per arrivare al referendum dopo le prossime politiche, ma è quella che riguarda la giustizia. Il secondo tema politico evidente e rilevante riguarda un tema che costituisce uno dei fili conduttori della legislatura in corso, e che riguarda una dinamica allo stesso tempo interessante e incredibile che il centrosinistra ha scelto di assecondare e persino avallare: impegnarsi in modo costante, coerente e sincero per regalare alla destra battaglie non necessariamente di destra. Negli ultimi tempi, ve ne sarete accorti, il centrosinistra ha offerto e consegnato alla destra battaglie di buon senso come l’attenzione ai conti pubblici, la difesa dell’Ucraina, la lotta contro il regime iraniano, la lotta contro il regime putiniano, la difesa europea, il pragmatismo sui migranti. E la trasformazione delle battaglie garantiste in un asset a uso esclusivo della destra è il riflesso di una tendenza inarrestabile del centrosinistra a trazione Fra.Sc.Co.Bo. (Fratoianni, Schlein, Conte, Bonelli): qualsiasi battaglia politica la destra scelga di portare avanti, quella battaglia non può che diventare una battaglia di destra (Tafazzi ringrazia). E il risultato di questa operazione ha trasformato il campo progressista in un campo che non lotta semplicemente contro la destra ma che lotta anche contro la propria storia (vedi il Jobs Act). L’effetto collaterale di questo processo - ecco il terzo tema - è aver azzerato qualsiasi forma di coraggio all’interno del centrosinistra, qualsiasi desiderio da parte di una qualsiasi componente della coalizione di alzare una qualche bandiera identitaria per non alzare bandiera bianca sui temi di buon senso (o se volete, come si sarebbe detto un tempo, sui temi riformisti). Il centrodestra, negli anni, è riuscito a creare un amalgama piuttosto riuscito, attraverso la combinazione di identità molto distanti l’una dall’altra. E così facendo ha offerto agli elettori la possibilità di trovare varie ragioni per sentirsi rappresentati. Il centrosinistra, invece, ostaggio di una pulsione gruppettara, movimentista, masochista, ha scelto di non valorizzare le sfumature all’interno della propria coalizione. E il risultato, sulla riforma della giustizia in particolare, è quello di aver anestetizzato, azzerato, non solo la sua componente interna, la cosiddetta componente riformista, ma è anche quello di aver eliminato qualsiasi forma di coerenza con la propria storia. Non staremo qui a ricordare che un pezzo importante del Partito democratico di oggi un tempo, non un tempo troppo remoto, quando si ritrovò a votare la mozione di Maurizio Martina, chiese espressamente di lavorare per una separazione delle carriere tra giudici e pm (era il 2019, e la frase contenuta nella mozione era questa: “Il tema della separazione delle carriere appare ineludibile per garantire un giudice terzo e imparziale”). Non ricorderemo che a firmare quella mozione fu anche l’attuale responsabile giustizia del Pd, ovvero Debora Serracchiani. Non ricorderemo che tra i firmatari di quella mozione vi erano anche altri senatori del Pd che con scarso coraggio voteranno contro una riforma della giustizia trasformata dalla sinistra in una riforma della destra senza esserlo (e per carità di patria non faremo i nomi di Graziano Delrio, Simona Malpezzi, Francesco Verducci). Quello che potremmo fare, per provare ad accendere non un voto a favore ma almeno un lumicino di riflessione, è ricordare quanti a sinistra, nella storia recente della nostra politica, hanno ricordato quanto sia urgente, e non di destra, una riforma per separare le carriere di giudici e pm, per evitare ogni confusione tra chi giudica e chi accusa e per rafforzare la terzietà del giudice. Non citeremo Giovanni Falcone per non mettere troppo in imbarazzo i magistrati che urleranno al colpo di stato (“Comincia a farsi strada […] che la regolamentazione delle funzioni e della stessa carriera dei magistrati del pubblico ministero non può più essere identica a quella dei magistrati giudicanti […]. Disconoscere la specificità delle funzioni requirenti rispetto a quelle giudicanti […] equivale […] a garantire meno la stessa magistratura”). Potremmo dunque citare Norberto Bobbio, che fu tra i primi a sottolineare i rischi della commistione tra funzione requirente e giudicante, e che disse: “Se il giudice è lo stesso che accusa, non si ha più equilibrio, ma inquisizione”. Potremmo citare Giuliano Pisapia, secondo il quale “il giudice - a garanzia di una corretta amministrazione della giustizia e nell’interesse dell’intera collettività - non solo deve essere - come espressamente previsto dall’articolo 111 della Costituzione - terzo e imparziale, ma deve anche apparire il più possibile equidistante da tutte le parti processuali, pubblico ministero, imputato e parte offesa”. Potremmo citare Giuliano Amato, che più volte ha sostenuto che la separazione delle carriere è “una misura di civiltà giuridica”. Potremmo citare Giovanni Bachelet, che nei primi anni 2000 sostenne che la confusione dei ruoli tra accusa e giudizio comprometteva la fiducia nel sistema. Potremmo citare il grande Emanuele Macaluso, convinto che “non sia possibile accettare che il pm diventi il dominus del processo e della stampa”. Potremmo citare persino Antonio Di Pietro, convinto che non ci sia alcuna ragione per dire che “con la separazione delle carriere venga a mancare l’indipendenza della magistratura”. Ci si potrebbe ingenuamente stupire di fronte alla mancanza di coraggio della sinistra, e del Pd. Ma nel farlo si compierebbe un errore strategico, e non si capirebbe fino in fondo che in questa assenza di coraggio vi è una totale forma di coerenza della sinistra del presente: fare tutto il necessario per mettere le proprie idee al guinzaglio di una triade spaventosa formata dall’Anm, dalla Cgil e dal M5s. Anche qui, si potrebbe pensare che la scelta, il guinzaglio, sia figlia di una strategia legata alla ricerca del consenso. Sarebbe bello fosse così, sarebbe persino nobile, a suo modo. Ma la scelta deriva da altro. Non deriva dall’algoritmo. Deriva dall’identità. Deriva dall’idea di fare tutto il possibile per trasformare la deriva gruppettara della sinistra italiana nell’unica vocazione del campo largo, oltre naturalmente all’altra grande vocazione perseguita anch’essa con coerenza dall’universo progressista: quella autolesionistica. Provare a separare le carriere tra giudici e pubblici ministeri è importante, oltre a non essere di destra. Ma visto lo stato attuale del mondo progressista oggi ci si potrebbe accontentare di molto meno: provare a separare le carriere tra riformismo di sinistra e masochismo gruppettaro. L’Anm, la tragedia di Francavilla Fontana e il paradossale corto circuito con le carriere separate di Errico Novi Il Dubbio, 18 giugno 2025 La sezione leccese del sindacato delle toghe ha giustamente difeso i pm tarantini che indagano sull’uccisione del pregiudicato ritenuto responsabile della morte del brigadiere Legrottaglie. Basta non la si consideri la prova che, con la riforma, si creerà chissà quale corpo eversivo tra Procure e polizia. È una storia strana. Anzi, le storie strane, paradossali, sono due. La prima. Domani in Senato inizia la discussione finale, cioè l’esame in Aula, sulla separazione delle carriere. In teoria si potrebbe passare subito al voto degli emendamenti e poi al sigillo finale, in pratica il legittimo ostruzionismo delle opposizioni, di Pd, M5S e Avs in particolare, rischia di tenere in freezer il ddl Nordio almeno fino a lunedì prossimo, visto che giovedì Palazzo Madama sarà impegnato con le celebrazioni per il Giubileo. Il dato curioso è l’imbarazzo del centrodestra, che dovrà fare di tutto per disarmare l’accusa, avanzata dagli avversari, di “golpe costituzionale”, e cioè di voler far passare la modifica della Carta relativa alle toghe con uno strappo alle regole (strappo che non c’è, non c’è stato finora, ma la polemica fa parte del gioco). L’altro paradosso ha a che vedere con una vicenda tragica, e cioè con la morte del carabiniere Carlo Legrottaglie, caduto in una sparatoria giovedì scorso a Francavilla Fontana, in Puglia, e con il successivo scontro a fuoco in cui ha perso la vita un pregiudicato ritenuto coinvolto nel primo conflitto, Michele Mastropietro, precedenti per rapina, colpito da agenti della squadra “Falchi” del commissariato di Grottaglie. Due fatti in apparenza slegati. In realtà un nesso c’è. Riguarda le polemiche inscenate da alcuni esponenti del centrodestra, locali e nazionali, nei confronti della Procura di Taranto, dopo che un pm di quell’ufficio, Francesco Ciardo, ha iscritto i poliziotti della seconda sparatoria nel registro degli indagati, con l’ipotesi di “omicidio colposo a seguito di eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi”. Nei comunicati di alcuni esponenti della maggioranza sono comparsi cenni a una miopia burocratica del magistrato che avrebbe “accostato dei malviventi a uomini dello Stato impegnati nello svolgimento del dovere”. Polemiche, seppur contenute, sono arrivate anche da sindacati come il Sap, che invocano se non lo scudo penale, almeno una tutela processuale netta per agenti e carabinieri coinvolti in scontri del genere. Ma si registra anche qualche impennata: ancora ieri l’ex colonnello dell’Arma Angelo Jannone, in un’intervista a Libero, ha evocato un “pregiudizio” di alcune toghe nei confronti delle forze dell’ordine. È in un quadro del genere che si spiega la nota con cui ieri l’Anm sezione Lecce è intervenuta in difesa dei colleghi di Taranto: non sono “condivisibili né accettabili le valutazioni espresse su alcuni organi di stampa da parte di alcuni esponenti politici e dei rappresentanti di alcuni sindacati della Polizia di Stato sull’operato dei magistrati della Procura della Repubblica di Taranto, impegnati, in queste ore, in delicati accertamenti sulle circostanze che hanno immediatamente seguito l’uccisione del brigadiere capo dei Carabinieri Carlo Legrottaglie. La natura degli accertamenti in corso impone la partecipazione ad essi, anche nel loro interesse, del personale del commissariato della Polizia di Stato di Grottaglie, coinvolto, suo malgrado, nel conflitto a fuoco nel quale ha perso la vita Michele Mastropietro. Nessuno di tali accertamenti può e deve essere letto come uno schiaffo alla realtà, alla logica e al lavoro di chi ogni giorno”, prosegue la nota dell’Anm locale, “rischia la pelle per proteggere i cittadini o come una manifestazione di confusione o di contraddizione o, addirittura, come il segno della volontà di criminalizzare il personale della Polizia di Stato di Grottaglie”. Parole condivisibili: la legge prevede l’iscrizione a registro, e anche se un autorevole esponente del governo come il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari ha confermato che via Arenula lavora per una tutela processuale più efficace per gli uomini dello Stato coinvolti in scontri a fuoco, il pm Ciardo non avrebbe potuto fare altro. La cosa spiazzante, ed è qui il nesso con la separazione, è che una delle obiezioni principali rivolte alla riforma, soprattutto dalle opposizioni, riguarda le nefaste conseguenze dello sdoppiamento del Csm e dell’istituzione di un Consiglio superiore “esclusivo” dei magistrati requirenti. Un organismo che, si obietta, diventerebbe la centrale di un potere incontrollabile, in cui la forza dei pm si intreccerebbe con quella della polizia giudiziaria, fino a formare un corpo ingestibile (quadro che fa da preludio alla successiva previsione, secondo cui il solo rimedio sarebbe a quel punto l’assoggettamento delle Procure al governo). Le parole sacrosante diffuse dall’Anm leccese finiscono, in un blob irrazionale, quasi per aderire a questa lettura un po’ apocalittica, sebbene siano state concepite solo per riportare un minimo di senso della misura nella tensione fra toghe e forze dell’ordine. È un corto circuito provo di senso, ma che basta a dimostrare quanto le polemiche sulla riforma rischino di scivolare in un dibattito sterile, esasperato e in contrasto con gli obiettivi reali della stessa magistratura. “Il caso Tortora ha anticipato 42 anni fa tutti i mali che affliggono la giustizia” di Luca Fazzo Il Giornale, 18 giugno 2025 La figlia Gaia ha radunato gli amici e i legali del giornalista nell’anniversario dell’arresto ingiusto. La frecciata all’Anm. Ci sono voluti quarantadue anni. Un tempo quasi infinito. Quarantadue anni fa veniva arrestato Enzo Tortora, presentatore e giornalista, una vita distrutta dal connubio tra pubblici ministeri e giudici. Ieri il suo ricordo viene celebrato alla vigilia dell’approdo in Senato della legge che della battaglia combattuta da Tortora fino alla morte è la prima conseguenza concreta: la separazione delle carriere tra chi accusa e chi giudica, la riforma costituzionale che per decenni è stata bloccata dall’Associazione nazionale magistrati. È la stessa Anm che non si perita oggi di battersi contro l’istituzione di una Giornata per le vittime degli errori giudiziari: “Trovo folle che in Italia per istituire una giornata del genere, quando ne abbiamo una per qualsiasi cosa, si debba ascoltare l’Anm”, dice ieri Gaia Tortora, figlia di Enzo. Ma Giandomenico Caiazza, che del presentatore fu uno dei legali, va più in là, e dice che la persecuzione di Tortora in realtà non fu solo un errore giudiziario, “ma una perfetta anticipazione dei mali che tutt’oggi affliggono la giustizia: la Procura che difende ad ogni costo il proprio errore, il giudice che corre in solidale soccorso del pm e della credibilità di una inchiesta clamorosa e di rilievo mediatico eccezionale”. Nel caso di Tortora, sottolinea Caiazza, l’asse tra pm e giudici resse solo in primo grado, e saltò in appello, “il fatto non sussiste”. Ma ci sono voluti altri decenni, e centinaia di altre vittime, perché la separazione delle carriere prendesse forma di legge. Chissà quanti ne serviranno perché prenda forma l’altro rimedio invocato da allora, non solo dai radicali ma dal referendum approvato dall’83 per cento degli italiani: la responsabilità civile dei giudici, il principio - comune a tutti gli altri lavoratori - che chi sbaglia paga. Il referendum rimase lettera morta. Ma è lì che ieri Caiazza torna a battere, “alla base delle distorsioni c’è la più grave di esse, la irresponsabilità totale dei pm e dei giudici”. D’altronde nel 1988 Caiazza citò per i danni a Tortora i sei magistrati - con in testa Lucio Di Pietro e Felice Di Persia - che avevano gestito la persecuzione. Risultato: i magistrati lo denunciarono per calunnia. Si sono ritrovati in tanti, ieri, nel cimitero milanese dove riposa l’uomo che era una presenza familiare, rassicurante, nei salotti degli italiani: e che una mattina d’estate venne trascinato via in ceppi, marchiato come narcotrafficante e complice di camorristi. I pentiti avevano inventato tutto, per offrire ai “loro” pm la preda che li avrebbe fatti diventare famosi. Né i magistrati della Procura né i loro colleghi del tribunale si fermarono davanti alla inverosimiglianza, alle contraddizioni, agli elementi a favore. Tortora in primo grado venne condannato a dieci anni di carcere, un supplizio che il segretario della Fondazione Einaudi, Andrea Cangini, paragona a quello di Giordano Bruno. “Con la differenza che la Chiesa cattolica romana è molto cambiata dai tempi del rogo in Campo de’ Fiori, mentre la magistratura, i media e la società italiana non sono affatto cambiati dai tempi in cui Tortora subì il proprio calvario giudiziario e civile”. Ora però arriva la separazione delle carriere, arriva - nella stessa riforma - anche l’innovazione che dovrebbe togliere alle correnti dell’Anm la gestione dei procedimenti disciplinari a carico dei magistrati distratti e superficiali che portano la responsabilità della gran parte delle carcerazioni ingiuste. Cosa cambierà davvero è presto per dirlo. Ma se qualcosa cambierà sarà merito per primo di Tortora, delle sue battaglie e del suo coraggio: “Enzo Tortora dice ieri Raffaele Della Valle, suo difensore storico - ha vissuto quella vicenda con angoscia, ma anche con una dignità che in 62 anni di professione non avevo mai visto e non ho più ritrovato”. Toscana. Carceri oltre ogni limite: sovraffollamento al 173%, droghe e suicidi in aumento Il Tirreno, 18 giugno 2025 La nuova relazione del Garante dei detenuti fotografa un sistema al collasso: tossicodipendenza diffusa, suicidi, atti di autolesionismo e agenti allo stremo. Grosseto maglia nera. In Toscana il sovraffollamento in carcere tocca punte del 173%. Il dettaglio lo si può ricavare dalla corposa relazione di 350 pagine presentata oggi dal garante regionale dei detenuti, Giuseppe Fanfani, in commissione Affari istituzionali. Il documento relativo all’attività svolta nel 2024, su cui l’organismo del Consiglio regionale appone il proprio sigillo con una risoluzione approvata a maggioranza, tratteggia un quadro che riflette le criticità di fondo del sistema penitenziario italiano. Al 31 dicembre 2024 erano presenti 3.209 detenuti, di cui 1.487 stranieri, nei 16 istituti penitenziari per adulti, due istituti per minorenni e due residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza in Toscana. Il problema della tossicodipendenza - Molto significativo il tasso di tossicodipendenza, che tocca il 36,5%. Un livello che porta lo stesso Fanfani a sottolineare che “il carcere non può essere la sola risposta che si dà al problema della tossicodipendenza”. Al numero dei detenuti in carcere, peraltro, bisogna aggiungere 8.118 persone in esecuzione esterna. Le carceri più sovraffollate - Ma a colpire è il sovraffollamento che raggiunge, come detto, una punta massima del 173%, è il caso di Grosseto, ma che si riscontra in misura importante anche al Gozzini di Firenze (112%), a Lucca (127%), Massa (137%), Pisa (133%), San Gimignano (126%), Siena (131%) rispetto alla capienza regolamentare. Unitamente agli otto suicidi accaduti sempre l’anno scorso e ai “moltissimi atti di autolesionismo” va a comporre un mix di fattori che complica le condizioni di lavoro degli stessi agenti penitenziari, già sottoposti a una importante carenza di organico. Fanfani richiama d’altra parte l’importanza di avviare i carcerati stessi al lavoro affinché, a fine pena, “siano in grado di reinserirsi con successo”. Ma per riuscire, serve fare formazione dentro e creare occasioni di lavoro fuori dai penitenziari. Emilia Romagna. Carceri, “mancano gli psicologi” Corriere di Bologna, 18 giugno 2025 Avere un maggior numero di “psicologi in carcere” per cercare di garantire “una vera riabilitazione”. È l’appello lanciato dal garante regionale dei detenuti, Roberto Cavalieri nel corso di un convegno ospitato nella sede dell’Assemblea legislativa dell’Emilia Romagna e intitolato “Psicologia penitenziaria: sfide, integrazione e innovazione” cui hanno preso parte, tra gli altri, anche Massimo Fabi, assessore regionale alla Sanità, e Luana Valletta, presidente dell’Ordine degli psicologi dell’Emilia Romagna. “Possiamo considerare lo psicologo come un portatore di benessere in carcere, centrale nel percorso di riabilitazione del detenuto durante la pena - osserva il garante in una nota -: nonostante il forte bisogno, emerge però una carenza di queste figure nelle strutture penitenziare, in Emilia Romagna abbiamo solo uno psicologo assunto dal ministero, a Parma”. Anche a seguito del sovraffollamento carcerario, spiega Cavalieri, “nel 2024 in Emilia-Romagna tra i detenuti sono stati registrati 1.500 atti di autolesionismo, 198 tentati suicidio e 9 suicidi portati a termine, 21 invece i decessi in carcere per altri motivi”. Quindi, prosegue, “serve aumentare il supporto in carcere di queste figure: i dati ci dicono che ogni detenuto che necessita di supporto psicologico viene ascoltato per una media di soli quindici muniti al mese, sollecito quindi l’Assemblea legislativa regionale ad intervenire”. Nel 2024, il 28,6% dei detenuti in regione è stato affetto da disturbi psichici e comportamentali. Tra chi presenta patologie croniche (il 39,4% sul totale della popolazione) il 57,6% è soggetto a problemi di salute mentale al cui tema si collega quello delle dipendenze, che riguarda il 19,9% dei detenuti. Parma. La cella di P. e il muro di carta di via Arenula di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 giugno 2025 Un muro di gomma. Anzi, un muro di carta, quella della risposta ministeriale che descrive una realtà quasi idilliaca, in stridente contrasto con il quadro desolante denunciato da più parti. Al centro della vicenda, le condizioni di P.Q., un detenuto del carcere di Parma che, secondo un’interrogazione del deputato di Italia Viva Roberto Giachetti, basata su un articolo di Thomas Mackinson de Il Fatto Quotidiano, sarebbe da 15 mesi prigioniero nella sua stessa cella perché la carrozzina è troppo larga per passare dalla porta. Una denuncia circostanziata, quella di Giachetti, che riportava le parole del legale del detenuto, l’avvocato Fausto Bruzzese, il quale parlava di un “quadro che rasenta la tortura”, fatto di cure negate, termosifoni spenti, assenza di acqua calda e la necessità per il recluso di cambiarsi da solo i sacchetti per la stomia. L’interrogazione citava anche i report dell’associazione “Nessuno Tocchi Caino”, che già in passato aveva segnalato il paradosso di Parma: un istituto che attira detenuti malati da tutta Italia per la presenza di un Servizio di assistenza intensificata (Sai), salvo poi non avere abbastanza posti nel centro clinico e lamentare gravi carenze di personale. Ma nella risposta scritta del ministro della Giustizia, la versione che emerge sarebbe un’altra. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), interpellato in merito, fornisce una narrazione che smonta, punto su punto, le accuse. La questione della carrozzina? Un’invenzione, secondo il ministero. La porta della camera di pernottamento, si legge, è larga 72 centimetri, quella del bagno 68 centimetri. La sedia a rotelle in uso al detenuto? Larga 64 centimetri. “Idonea, dunque, al transito”. Non solo. Per scendere ai piani inferiori ci sono ascensori accessibili e il detenuto si avvale di un “caregiver” per ogni necessità. Anzi, il personale avrebbe rilevato che il ristretto si muove spesso “personalmente e senza ausili”. E le altre doglianze? Sul riscaldamento, “non risultano problematiche”. La questione dell’intervento alle anche, che gli permetterebbe di camminare con un deambulatore, viene ribaltata: l’Ausl avrebbe proposto un ricovero all’ospedale di Parma, ma il detenuto “ha rifiutato, poiché vuole essere assistito dall’ospedale di Bologna”. Una possibilità non preclusa, precisa il ministero, ma che necessita di una presa in carico da parte della struttura bolognese e dell’autorizzazione del magistrato, autorizzazione mai chiesta. Anche la gestione della stomia viene presentata diversamente: ogni mattina gli vengono consegnati 3 sacchetti e ha sempre la “facoltà” di chiedere l’aiuto del personale sanitario. La risposta si sofferma poi a lungo sull’organico sanitario, quasi a voler smentire le denunce di “Nessuno Tocchi Caino”. Il quadro descritto è quello di una piena efficienza: servizio sanitario “attualmente completo”, 22 medici tra settore e guardie, con due dottori sempre presenti h24. Dieci infermieri al mattino, nove al pomeriggio. Un elenco sterminato di specialisti interni: dentisti, cardiologi, fisiatri, infettivologi, chirurghi, oncologi. E dove non arrivano, c’è la telemedicina. Tutto perfetto, dunque? Sembrerebbe di sì. P. Q. non si troverebbe neanche nel reparto disabili o al Sai per assenza di prescrizioni mediche in tal senso, e anzi, un trasferimento al Servizio di assistenza intensificata lo avrebbe rifiutato lui stesso il 19 agosto 2021. Eppure, in questo quadro di efficienza e piena tutela, una crepa si apre quasi alla fine del documento. Rispondendo alla domanda specifica di Giachetti sull’effettuazione delle due visite annuali del dirigente della Asl, previste dall’ordinamento penitenziario per monitorare le condizioni igienico-sanitarie degli istituti, il ministero ammette candidamente: “Agli atti del competente Ufficio III Attività ispettiva e di controllo, non risulta alcuna documentazione relativa all’effettuazione di visite Asl ai sensi dell’articolo 11, commi 13 e 14, o. p.”. Un’ammissione di enorme peso. Le ispezioni che dovrebbero certificare il rispetto dei diritti e delle norme sanitarie, semplicemente, non risultano essere state fatte, o quantomeno non ve n’è traccia. Ed è un dettaglio che rischia di far crollare l’intero castello di certezze esposto nella risposta. Se manca il controllo sistematico previsto dalla legge, come si può essere certi della veridicità di un quadro altrimenti così impeccabile? La promessa finale di calendarizzare future visite ispettive suona come una magra consolazione. La verità di carta del ministero si scontra con una realtà la cui verifica, per stessa ammissione, è mancata. E nel mezzo resta la condizione di un uomo che, al di là delle misure di porte e carrozzine, continua a denunciare una sofferenza che le risposte burocratiche non possono cancellare. Monza. Il carcere è al collasso: sovraffollamento al 180%, violenze e pochi agenti di Alessandro Salemi Il Giorno, 18 giugno 2025 L’allarme della direttrice Cosima Buccoliero nel Consiglio straordinario. Nella casa circondariale sono presenti 733 reclusi a fronte di 411 posti. E in 500 hanno problemi di droga: gestire le crisi sta diventando impossibile. Una situazione drammatica, quella fotografata nell’aula consiliare del Comune di Monza. Per la prima volta nella storia recente della città, il Consiglio comunale ha dedicato una seduta straordinaria alla casa circondariale di via Sanquirico. Una scelta non rituale, ma necessaria: il carcere di Monza è uno dei più affollati e problematici d’Italia. A renderlo evidente sono i numeri, i dati, le testimonianze raccolte in aula e diventate eco di una situazione sempre più insostenibile. La direttrice della struttura, Cosima Buccoliero, ha aperto la seduta con un intervento lucido e grave, con cui ha fatto capire che la situazione è al collasso. I dati parlano da soli: 733 detenuti presenti, a fronte di una capienza di 411 posti. Un tasso di sovraffollamento che supera l’80%, ben oltre la media nazionale. A rendere ancora più critica la situazione è la composizione della popolazione detenuta: 347 sono cittadini stranieri, molti dei quali privi di documenti o fissa dimora. Un segmento fragile che spesso intraprende percorsi di giustizia nella speranza di un riscatto sociale, ma che si scontra con una macchina penitenziaria al collasso. L’istituto ospita ben 250 persone con diagnosi psichiatrica accertata, un numero drammaticamente in crescita. A queste si aggiungono numerosi detenuti con gravi disturbi comportamentali non diagnosticati, sintomo di una marginalità estrema e di un’assistenza sanitaria inadeguata. Sul fronte delle dipendenze, la fotografia è altrettanto allarmante: quasi 500 detenuti sono presi in carico per problemi legati alla tossicodipendenza. Le crisi di astinenza sono frequenti e difficili da gestire, soprattutto in un contesto dove il personale è insufficiente e le strutture sono sature. Lo ha spiegato con dati altrettanto nitidi la comandante della polizia penitenziaria, Emanuela Anniciello. Nell’ultimo anno si sono registrati 359 procedimenti disciplinari, 10 aggressioni al personale, 29 casi di oltraggio e minacce, 71 colluttazioni tra detenuti e persino un incendio. “E tutto questo - sottolinea Anniciello - con un organico in costante diminuzione: oggi contiamo 297 agenti, troppo pochi rispetto alle reali esigenze operative”. A portare la voce dei detenuti è stato Roberto Rampi, garante per i diritti dei reclusi. “Il carcere è un tema invisibile ma centrale - le sue parole - perché ci racconta dove fallisce la nostra società. Se funzionassero meglio le misure alternative, avremmo meno persone dietro le sbarre. La richiesta principale che ricevo dai detenuti è il lavoro. Questo è il vero riscatto”. Parole forti, che rompono il silenzio attorno a una realtà spesso rimossa. “Monza non è il peggior carcere d’Italia - aggiunge il garante - ma non possiamo accontentarci. Oggi stiamo rompendo un tabù”. Il sindaco Paolo Pilotto ha riportato la memoria collettiva al 1984, anno dell’inaugurazione del carcere, quando la struttura era moderna, capace di rispettare gli standard europei, con una persona per cella. “Già allora, però, c’erano drammi come i suicidi - precisa il sindaco -. Oggi non ci limitiamo alla denuncia: il Comune si assume la responsabilità di esserci, ma servono azioni congiunte con Regione, governo, enti sociali e privati. Da soli non ce la facciamo”. Pilotto ha molto apprezzato le parole dell’ex sindaco Dario Allevi, che ha ribadito l’importanza del carcere come parte integrante del territorio. “Già da presidente della Provincia consideravo Sanquirico come il 56esimo Comune di Monza e Brianza - dichiara il leader del centrodestra. Il tema chiave è il reinserimento: servono risorse pubbliche per sostenere gli imprenditori che assumono ex detenuti”. Ha sottolineato il ruolo della cultura e della rieducazione, “per abbattere i muri e i pregiudizi”. Di tono più critico l’intervento del consigliere Paolo Piffer (Civicamente), educatore con lunga esperienza nel carcere monzese: “Il Comune può fare di più, a partire dalle risorse economiche”. Napoli. Il pg: “Mancano medici al carcere di Poggioreale, ecografia e radiografia inutilizzate” di Dario Del Porto La Repubblica, 18 giugno 2025 Lettera all’amministrazione penitenziaria con le proposte sulla tutela della salute dei detenuti. “È francamente scandaloso che il carcere di Poggioreale abbia in dotazione attrezzature per l’ecografia e la radiografia inutilizzate perché non vi sono sanitari per farle funzionari”. Il procuratore generale del Tribunale Aldo Policastro scrive all’amministrazione penitenziaria per segnalare “l’assoluta urgenza” di alcuni interventi volti a migliorare e rendere effettiva la tutela della salute dei reclusi. Nella missiva, indirizzata anche all’Aran, ai consigli dell’Ordine dei medici e degli psicologi, al direttore dell’Asl Napoli 1 Centro, e per conoscenza anche ai garanti nazionale, regionale e comunale dei detenuti, il pg chiede innanzitutto “di provvedere con urgenza a un ridimensionamento della popolazione carceraria nei limiti della effettiva capienza degli istituti” e di “adeguare le strutture sanitarie interne”. Policastro suggerisce inoltre “di prevedere incentivi contrattuali al personale sanitario destinato agli istituti penitenziari, facendo rientrare questi tra le sedi disagiate e di creare un presidio stabile interno dedicato alla cura della salute mentale penitenziaria”. Quindi l’alto magistrato propone “di sperimentare la telemedicina in ambito penitenziario e di assicurare la circolarità e completezza delle informazioni che consentano a ciascun soggetto istituzionale (magistratura inquirente e di sorveglianza, amministrazione sanitaria e amministrazione penitenziaria) di avere una conoscenza quanto più ampia e articolata del singolo detenuto, delle sue condizioni di salute fisica e mentale, delle esigenze di cura sin dal primo momento del suo ingresso”. Il pg rileva “l’amara e frustrante presa d’atto che la difficoltà di prendere in carico la cura dei detenuti dipende da carenze interne ed esterne” e ribadisce la necessità di “dotare gli istituti penitenziari di presidi sanitari e macchinari medicali, sia nel senso di rendere effettiva la presenza del personale medico e la continuità assistenziale nella prestazione delle cure, incentivando l’accettazione e la permanenza nell’incarico presso le strutture penitenziarie con specifiche formule contrattuali”. L’iniziativa, spiega Policastro “si colloca nel solco nell’impegno assunto sul fronte della sicurezza all’interno degli istituti penitenziari del distretto”. Se il clima nelle carceri è così pesante, afferma il pg, “è anche per le gravi criticità che affliggono la vita” dei detenuti. Fra queste, conclude, “sicuramente la tutela della salute della popolazione carceraria”. Milano. Umanità e competenza siano le doti del nuovo Garante dei detenuti collettiva.it, 18 giugno 2025 Una rete di realtà milanesi scrive al sindaco per sostenere la candidatura di Corrado Mandreoli in un momento segnato da gravi criticità all’interno degli istituti di pena. Una vasta rete di realtà sociali, associative e del terzo settore ha sottoscritto un appello a sostegno della candidatura di Corrado Mandreoli al ruolo di garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Milano. L’appello è stato inviato al sindaco Giuseppe Sala, alla Giunta e al Consiglio comunale di Milano. In un momento segnato da gravi criticità all’interno degli istituti di pena, dal sovraffollamento della Casa circondariale di San Vittore alla condizione dell’Istituto penale minorile Cesare Beccaria, fino alle costanti violazioni nei Cpr come quello di via Corelli, i firmatari chiedono che la scelta del nuovo garante sia frutto di un confronto pubblico e attento, e che venga affidata a una figura di comprovata esperienza e profondo radicamento nel tessuto sociale milanese. “Corrado Mandreoli ha dedicato oltre quarant’anni al lavoro sociale, sindacale e di tutela dei diritti delle persone più fragili. La sua esperienza nell’Osservatorio carcere e territorio, nella cooperazione e nella Cgil, unita al suo impegno con Resq e alla profonda conoscenza del tessuto cittadino, ne fanno il candidato ideale per affrontare con umanità e competenza le sfide connesse alla privazione della libertà”. Lo dichiarano i firmatari dell’appello, tra cui la presidente del Municipio 9, Anita Pirovano, il senatore Franco Mirabelli, il segretario generale Cgil di Milano, Luca Stanzione, Valeria Verdolini, presidente lombarda di Antigone, e molte importanti associazioni tra cui Forum Terzo Settore, Cnca, Arci. “Crediamo - concludono - che la figura di Mandreoli possa garantire continuità al lavoro svolto dal dottor Francesco Maisto, che ringraziamo per l’impegno generoso di questi anni, e offrire alla città uno sguardo attento, competente e capace di costruire relazioni tra istituzioni, cittadini e persone detenute”. Milano. Carcere e imprese, insieme per il reinserimento dei detenuti imprese-lavoro.com, 18 giugno 2025 Un confronto tra imprese e mondo carcerario: si è svolto ieri mattina nella Casa di Reclusione di Opera (Mi) il convegno “Il lavoro apre le porte: opportunità economica e sociale”, promosso dal Difensore regionale della Lombardia Gianalberico Devecchi, insieme al Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia. “Il ‘recupero’ di chi ha sbagliato e ha compreso l’errore è un dovere delle istituzioni: questo deve essere un punto fermo del nostro sistema carcerario - ha sottolineato nel suo intervento introduttivo il Presidente del Consiglio regionale della Lombardia Federico Romani. La strada che dobbiamo percorrere è quella di offrire ai detenuti concreti percorsi formativi. Il lavoro, infatti, è, un ‘ponte’ tra il carcere e la realtà che c’è ‘fuori’, è un’occasione di riscatto sociale che ruota attorno al concetto di ‘fiducia’. Dare fiducia è la parola chiave da cui partire per promuovere, nei fatti, il reinserimento sociale dei detenuti e per far parlare i due ‘mondi’ e proporre ai detenuti la prospettiva di un ‘nuovo inizio”. Secondo i dati presentati al convegno la recidiva, cioè la ricaduta nel reato, scende al 2% tra chi intraprende un percorso lavorativo, mentre supera il 70% tra chi non ha questa possibilità. “Per questo è fondamentale dare ai detenuti una ‘seconda possibilità’ e il lavoro è lo strumento principale di questo percorso” - ha affermato il Presidente Romani. In Lombardia sono circa 2.500 i detenuti assunti alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria e 930 quelli che lavorano per soggetti privati (imprese e/o cooperative). L’iniziativa di oggi nasce per promuovere un percorso di possibili sinergie tra il mondo carcerario, imprese e terzo settore, in un’ottica di inclusione, responsabilità sociale e prevenzione della recidiva.? “Dobbiamo favorire il reinserimento socio-lavorativo dei detenuti - spiega il Difensore regionale della Lombardia e Garante regionale dei detenuti Gianalberico Devecchi- con un aumento degli investimenti e delle iniziative mirate a favorire l’accesso di detenuti ed ex detenuti alla formazione professionale, condizione indispensabile per facilitare in modo qualificato il loro inserimento nel mondo del lavoro. Ricordo che le imprese che assumono detenuti o ex detenuti possono godere di sgravi fiscali e contributivi significativi, rendendo l’assunzione più vantaggiosa”. Dopo gli interventi del Presidente Romani e del Difensore Devecchi, sono intervenuti la Direttrice della Casa di reclusione di Opera Stefania D’Agostino: il Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria Maria Milano Franco D’Aragona, la Presidente della Commissione speciale regionale sulla situazione carceraria Alessia Villa, il Vice Presidente della Commissione Luca Paladini e Carlo Lio, già Garante regionale dei detenuti. Seguiranno un panel con Teresa Mazzotta (Direttrice dell’Ufficio interdistrettuale esecuzione penale esterna di Milano); Giorgio Treglia (avvocato giuslavorista e professore a contratto presso l’Università degli Studi di Milano); Maurizio Del Conte (Presidente di AFOL Metropolitana e professore ordinario di Diritto del lavoro presso l’Università Bocconi); Don David Riboldi (Cappellano della Casa Circondariale di Busto Arsizio); Anna Bonanomi (Presidente de “La Valle di Ezechiele”); Lorenzo Belverato (laboratorio di panificazione “Buoni dentro”); Riccardo Bettiga (Garante regionale per la tutela dei minori e delle fragilità); Elisabetta Ponzone (Cooperativa “Officina dell’Abitare”); Federica Della Casa (Cooperativa sociale “Opera in Fiore”). Napoli. Carceri, “Caffè sospeso”: uno spot per la riapertura delle Lazzarelle di Roberta Barbi vaticannews.va, 18 giugno 2025 Il cantautore napoletano Canio Loguercio per promuovere il suo nuovo brano ha pensato a una pubblicità da far girare in rete per promuovere i prodotti della torrefazione in rosa premiata dal presidente della Repubblica Mattarella, attiva nel carcere femminile di Pozzuoli costretto a chiudere un anno fa a causa del terremoto. Svegliamoci, andiamo avanti, non perdiamoci d’animo, guardiamo al futuro con speranza: a Napoli tutti questi significati si racchiudono nella frase “E ja’ facimmo ‘o cafè”, che ora diventa anche un’esortazione alla solidarietà: quella ad acquistare on line il caffè delle Lazzarelle, il progetto che unisce piccoli coltivatori di caffè del sud del mondo alle donne detenute nel carcere femminile di Pozzuoli. Anzi, univa, perché il 30 maggio dello scorso anno l’istituto è stato chiuso in attesa di ristrutturazione e le detenute disperse, con conseguenze sul piano della formazione e del lavoro, facilmente immaginabili. Ma le Lazzarelle nei loro 14 anni di vita si sono fatte tanti amici: “Stavo preparando questo mio nuovo brano, ‘Caffè sospeso’ e visto ciò di cui parla mi sono venute in mente loro e il dramma che stanno vivendo - racconta ai media vaticani Canio Loguercio, cantautore napoletano - così ho pensato alla realizzazione di uno spot ed eccoci qua”. Così Canio ha pensato di girare un video promozionale in cui sono stati coinvolti tanti amici testimonial di prestigio: dalla cantante Simona Boo all’artista Lino Musella, ma soprattutto l’immensa Marisa Laurito che di caffè e di Napoli se ne intende. Le riprese sono state effettuate tra il circolo Ilva di Bagnoli e il bistrot delle Lazzarelle ancora attivo nella Galleria Principe di Napoli: “Nella versione definitiva del brano abbiamo inserito anche un coro di vecchi operai dell’Italsider, altra realtà che non c’è più - afferma Loguercio - la canzone è praticamente un dialogo tra generazioni: i più anziani disillusi e disincantati, in contrasto con la freschezza e l’energia dei giovani, qui rappresentanti dalla cantante Simona Boo, che alla fine ci spinge a tirarci su e a farci un caffè, appunto”. E la botta di energia che il caffè regala è qualcosa di cui le Lazzarelle hanno tanto bisogno in questo momento: “Lo spot sta girando, spero proprio che lo vedano più persone possibili e facciano un bell’ordine sul sito della cooperativa”, si augura il cantautore, che con alcune detenute del carcere di Pozzuoli aveva collaborato tempo fa per la realizzazione di un altro suo brano, “A n’ammore sperduto”, che racconta la storia di un amore disperso, ma non del tutto perduto. Proprio come la vicenda delle Lazzarelle, che faranno di tutto per rialzarsi e ricominciare… proprio con un caffè. Monza. Dal teatro al sogno di un lavoro: la voglia di riscatto di detenuti di Alessandro Salemi Il Giorno, 18 giugno 2025 Un fiore all’occhiello è anche la biblioteca rilanciata nel marzo del 2023: un servizio unico in Italia. All’avanguardia il rapporto tra l’istituto e l’Ufficio anagrafe per favorire il rilascio dei documenti. Nonostante le criticità strutturali e la carenza di risorse, la direttrice della Casa circondariale di Monza, Cosima Buccoliero, e l’assessore al Welfare del Comune, Egidio Riva, hanno voluto accendere i riflettori su ciò che funziona nell’istituto penitenziario monzese. A partire dai percorsi di giustizia riparativa, che aprono spiragli di dialogo tra vittime e responsabili di reato, passando per i corsi di teatro, vera e propria palestra di cultura e consapevolezza. Non mancano le iniziative culturali, come Oltre i confini, un inserto giornalistico redatto interamente dai detenuti e recentemente trasformato in magazine, dove raccontano le proprie storie e il loro mondo emotivo. Elemento d’avanguardia del carcere monzese è anche il rapporto diretto tra l’istituto e l’ufficio anagrafe del Comune, che consente il rilascio della carta d’identità elettronica, facilitando l’accesso ai documenti necessari per regolarizzarsi e intraprendere percorsi lavorativi o sanitari. “Il carcere deve aprirsi alla città e la città deve saper entrare nel carcere”, afferma l’assessore Riva. Una visione che ha già preso forma: grazie alle associazioni Le Crisalidi e Geniattori, i laboratori teatrali trovano spazio anche fuori dalle mura, sul palco del Binario 7. I Geniattori, con il loro progetto di compagnia teatrale composta da detenuti, hanno ricevuto da poco il prestigioso premio nazionale Maurizio Costanzo per lo spettacolo Senza Parole. Altro fiore all’occhiello è la biblioteca della casa circondariale, un servizio unico in Italia. Nel marzo 2023 è stata rilanciata, permettendo ai detenuti di prenotare i libri direttamente dal catalogo del sistema bibliotecario online e di assistere a rappresentazioni teatrali legate alla lettura, come accaduto con Il Barone Rampante di Calvino durante il Festival delle Storie. Sul fronte del reinserimento lavorativo, un ruolo centrale è svolto dal Progetto Sintesi 4.0, finanziato da Regione Lombardia con il supporto di Fondazione Cariplo. Un’iniziativa che accompagna i detenuti e gli ex detenuti in un percorso personalizzato di reinserimento sociale e lavorativo, offrendo supporto per la ricerca di lavoro, l’alloggio, l’accesso a servizi sanitari e corsi di formazione. “È un progetto prezioso ma fortemente sottofinanziato - ricorda Riva -. Le risorse sono limitate: 250mila euro per tutta la Brianza, adulti e minori inclusi. Serve uno sforzo condiviso di Stato e Provincia, non solo del Comune”. Proprio in quest’ottica, a maggio si è aperto il lavoro per siglare un protocollo d’intesa tra carcere, Comune, Provincia e sindacati che preveda l’impegno provinciale, tramite l’agenzia Afol, a rafforzare le opportunità lavorative per i detenuti. Campobasso. Detenuto di Palmi vince il concorso “Scrittodicuore”, la parola come redenzione citynotizie.it, 18 giugno 2025 Dalle celle di Palmi, nel cuore della Calabria, emerge una voce potente: Ruggiero S., detenuto presso la Casa circondariale, si aggiudica l’ottava edizione di “Scrittodicuore”, un concorso nazionale che celebra l’arte della scrittura come strumento di redenzione e ri-connessione. Promosso dal Comune di Campobasso e dall’Unione Lettori Italiani, il premio “Scrittodicuore” offre una piattaforma unica per detenuti di tutto il territorio nazionale, riconoscendo il valore intrinseco della narrazione come via d’accesso alla comprensione di sé e del mondo. Il testo vincitore, definito dalla giuria un “pianto barocco” per la sua intensa emotività e ricercatezza stilistica, si configura come un’autobiografia interiore, un viaggio commovente nel labirinto della memoria e dell’identità. L’autore, confinato tra le mura, intraprende un dialogo intimo con il proprio passato, sondando le crepe dell’animo umano e le distanze che separano l’io prigioniero dal mondo esterno. La scrittura si rivela così un atto di sfida, una ricerca disperata di significato in un contesto di privazione della libertà, un tentativo di ricucire i fili spezzati dei legami affettivi e sociali. L’opera trascende la dimensione autobiografica per toccare corde universali, offrendo uno spaccato profondo sulla condizione umana, sulla fragilità dell’esistenza e sulla forza resiliente dello spirito. Sebastiano M., detenuto a Sulmona, si distingue con un’opera altrettanto toccante, classificandosi al secondo posto. La sua lettera affronta con cruda onestà il tema delicato e purtroppo ricorrente della violenza di genere, proponendo una riflessione che invita all’empatia e nutre la speranza di un cambiamento culturale. La sua scrittura, carica di significato, si fa portavoce di una denuncia silenziosa e di un appello alla responsabilità collettiva. Gabriele F. e Luca B., rispettivamente, ricevono menzioni speciali dalla giuria, per la loro capacità di esplorare le complessità dell’esperienza detentiva con sensibilità e profondità. Luca B., ospite della Casa circondariale di Campobasso, offre una prospettiva originale sul significato della comunità carceraria, evidenziando le relazioni umane che si intrecciano tra le sbarre. La cerimonia di premiazione, in programma martedì 24 giugno alle ore 10:30 nella Sala-Teatro della Casa circondariale di Campobasso, rappresenta un momento di celebrazione non solo per gli autori, ma per l’intera comunità carceraria e per coloro che credono nel potere trasformativo della parola. L’evento, realizzato in collaborazione con il Laboratorio di lettura dell’istituto, sottolinea l’importanza della cultura come strumento di crescita personale e di reinserimento sociale, offrendo una luce di speranza in un contesto spesso segnato dall’oscurità. “Scrittodicuore” si conferma, così, un faro di umanità, capace di illuminare il cammino verso la riabilitazione e la riconciliazione. Siena. “Movimento oltre le sbarre”, lo sport come strumento di riabilitazione per i detenuti di Claudio Coli corrieredisiena.it, 18 giugno 2025 Fare rete con il territorio per sostenere la riabilitazione psicofisica dei detenuti della Casa Circondariale “Santo Spirito” di Siena. È questo l’obiettivo del progetto “Movimento oltre le sbarre”, nato dalla collaborazione tra la Commissione sport del Comune di Siena e la Casa Circondariale, che dal 2024 coinvolge diverse realtà locali nella donazione di attrezzature sportive e materiali per favorire l’attività motoria all’interno del carcere. “Abbiamo creduto fin dall’inizio - ha spiegato Silvia Armini, presidente della Commissione sport del Comune di Siena - nell’importanza di costruire una rete di solidarietà capace di coinvolgere diverse realtà del territorio, uniti nell’obiettivo comune di riconoscere nelle attività sportive e di movimento un’opportunità e uno strumento di crescita anche in contesti difficili, come lo è il percorso riabilitativo connesso alla pena”. Armini ha poi citato le realtà coinvolte: “All’interno del progetto l’Asd Asta Taverne, la palestra President, il centro medico Performance di Siena, i componenti della Commissione sport e il presidente della Commissione pari opportunità, Emanuela Anichini, con la quale ho condiviso fin dall’inizio questo percorso, il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, Stefano Longo, l’assessore comunale alle pari opportunità, Micaela Papi, e l’assessore comunale allo sport, Lorenzo Lorè. A un anno di distanza, possiamo dire che la città di Siena è presente e attiva anche con chi la città potrebbe non averla neppure mai visitata”. Il direttore della Casa Circondariale “Santo Spirito”, Graziano Pujia, ha sottolineato l’importanza dell’attività motoria in carcere: “L’attività motoria in carcere non è un ‘lusso’, ma una componente essenziale di un percorso riabilitativo efficace. Non solo migliora la qualità della vita durante la detenzione, ma contribuisce in modo significativo alla rieducazione e al reinserimento sociale, obiettivi fondamentali del sistema penitenziario secondo la Costituzione italiana. In un ambiente chiuso e opprimente come il carcere, lo sport e l’attività fisica in generale offrono una valvola di sfogo importante per aumentare la propria autostima e per canalizzare le emozioni in modo costruttivo”. Maria Josè Massafra, funzionaria dei servizi giuridico-pedagogici della Casa Circondariale, ha aggiunto: “L’istituto di Siena, nonostante gli ambienti ristretti, ha sempre cercato di ritagliare un piccolo spazio da dedicare al benessere fisico dei detenuti, grazie anche alle donazioni importanti che negli anni le associazioni o i privati hanno deciso di destinare ai nostri ospiti”. Grazie al progetto “Movimento oltre le sbarre” sono arrivati alla Casa Circondariale circa trenta palloni da calcio, sessanta mute da gioco, una panca per allenare gli addominali e tre attrezzature per la riabilitazione - una cyclette recline, una pulley machine e un half rack - strumenti fondamentali per promuovere i valori dello sport come inclusione, benessere e riscatto personale. Al termine della conferenza stampa, Maria Josè Massafra ha letto una lettera scritta dai detenuti della Casa Circondariale, che esprime gratitudine per il sostegno ricevuto: “Carissimi amici, l’intero personale della Casa Circondariale di Siena, la popolazione detenuta, ma in particolar modo gli assidui frequentatori della palestra, vogliono ringraziare per l’attrezzatura che ci avete donato, la quale ci ha permesso di mandare a rottamare quei pochi ferri rimasti, che erano ormai vecchi e quasi inutilizzabili. Con il vostro gesto ci avete ridato un’altra opportunità: quella di risollevare con noi la voglia di continuare a praticare sport ‘senza alcun peso’. La frase che ci sentiamo dire più spesso è… fatti forza! Ogni consiglio noi lo prendiamo alla lettera, e in effetti siamo ora a scrivervene una: ‘E la bici, come si suole dire, l’hai voluta? O pedala!’. Così, pedala pedala, un dì ci ritroveremo fuori, e vi ringrazieremo di persona” Torino. Masterchef al Lorusso e Cutugno: sfida ai fornelli tra detenuti guidati da Grandi e Mecca di Elisa Sola La Stampa, 18 giugno 2025 La direttrice del penitenziario Lombardi Vallauri: “Vogliamo farvi vedere come siamo bravi a fare cose normali”. In giuria magistrati e autorità. E due schiere di avvocati a tavola. “Chef, mi devi scrivere il tuo nome su un biglietto. A luglio esco. E adesso ho capito dove voglio festeggiare. Nel tuo ristorante. Voglio portare tutta la mia famiglia. Dalla Puglia. Ci vediamo tra un mese”. Antonella è una delle più anziane. Ha i capelli a caschetto e un sorriso che brilla sul volto segnato, le lacrime negli occhi. Ridono e piangono. Rosa e Lorella. Roxana e Nezha. Sono quattordici. È il loro giorno. Hanno vinto. Lo hanno capito tutti ieri che non era solo una gara di cucina. Non solo un’occasione per lavorare con un cuoco famoso e stellato, come Cesare Grandi de La limonaia, che guidava la squadra femminile e Alessandro Mecca del Castello di Grinzane Cavour, leader della maschile. La sfida alla Masterchef tra i detenuti del Lorusso e Cutugno è un’occasione di riscatto. Davanti a una giuria eccezionale, di magistrati e autorità. E due schiere di avvocati a tavola. Antonella esce tra un mese. E prima o poi usciranno anche le sue compagne di squadra proclamate vincitrici. Sono tutte già quasi cuoche. Sono le allieve del corso di cucina del carcere. Sono brave, sono pronte. E di questo forse sono consapevoli. Ma ieri è successo qualcosa di diverso. Ieri è esplosa un’emozione. Forte. Collettiva. Totale. Un’intera platea di giudici, procuratori e avvocati si è alzata in piedi e le ha applaudite per cinque minuti. Loro in tuta grigia e blu. Bellissime, ordinate in fila. Loro in giacca e camicia. Hanno pianto. Poi hanno abbracciato il loro chef guida, Cesare Grandi: “È stato bellissimo lavorare con loro. Spero che diventi un’iniziativa fissa”. È emozionato anche lui. Guarda le sue cuoche. Hanno 20, 30, 60 anni. Sono italiane, albanesi e marocchine. “Anche io voglio il mio nome sul giornale”. “Io anche”. “È stato meraviglioso”. “In cucina ce la caviamo, perché andiamo a scuola. Ma oggi avevo il batticuore”. Lasagna allo scoglio, ombrina e pesche ripiene, il menu studiato da Grandi. “Le ho divise in quattro gruppi. Prima abbiamo fatto un briefing. Il piatto più difficile? L’ombrina, per la cottura. Sono state bravissime. L’hanno marcata dal lato della pelle. Ma non era facile nemmeno il ripieno della lasagna, con la rana pescatrice e le cozze. Le ho viste super cariche. Il momento più bello? L’abbraccio finale”. Erano tutti emozionati. Il Garante regionale dei detenuti, Bruno Mellano, ha chiesto al presidente del tribunale di sorveglianza, Marco Viglino, membro della giuria “qualche giorno di libertà per le vincitrici”. Ambra Orazi, l’insegnante di cucina della Casa di carità Arti e mestieri che lavora nel carcere, ha detto: “Vedo delle donne che riusciranno a fare questo lavoro fuori di qui”. Il benvenuto lo ha dato la direttrice del carcere, Elena Lombardi Vallauri: “Vogliamo farvi vedere come siamo bravi a fare le cose normali”. Ha aperto la cerimonia Lucia Musti, a capo della procura generale: “Che sia un carcere con le porte trasparenti”. “Qui dentro ci sono le persone”, ha ricordato Edoardo Barelli Innocenti, presidente della corte d’appello di Torino. Ha organizzato l’evento, con il Consiglio dell’ordine, l’avvocato Antonio Genovese. Ieri ha portato l’olio che produce per hobby e, con Marco Scarabosio, il produttore di vini Franco Martinetti, presidente della giuria. Anche loro hanno applaudito a lungo i detenuti, tutti. E le vincitrici. “Perché abbiamo vinto? Perché ci piace cucinare. E poi, forse, perché siamo già una squadra”. L’Amore in gabbia dei troppi reduci delle nostre carceri di Raffaella Calandra Il Sole 24 Ore, 18 giugno 2025 Dietro quella porta senza chiave ora è possibile anche fare l’amore. Un letto, un bagno. Lenzuola portate da fuori. Nessun agente a sorvegliare. Due ore di tempo. Una breccia in uno dei tabù più coriacei del carcere. “La dignità dell’amore, bella frase!” Reagisce quasi sprezzante Gianluca alla notizia della prima ordinanza di un giudice che, dopo la storica sentenza della Corte costituzionale, ordina all’istituto penitenziario di consentire incontri intimi di un detenuto con la partner. Il diritto all’affettività e la sentenza della Corte costituzionale - L’assenza di un diritto all’affettività era, per la Consulta, “una compressione sproporzionata e un sacrificio irragionevole della dignità della persona”. “Bella frase”, taglia corto questo ex giovane-adulto delle patrie galere, su cui undici anni di celle affollate, colloqui col vetro, code per il bagno e isolamento hanno provocato un “totale distacco dall’intimità”. Ecco che allora la sua storia, la storia di ex adolescente lasciato troppo solo con la sua rabbia, il suo dolore e il suo ghetto, spalanca un universo di questioni molto più ampie e universali intorno all’Amore in gabbia, titolo dell’ultimo libro di Donatella Stasio (Castelvecchi, 182 pagg, 18,50 euro). Un racconto senza veli sul mondo di dentro, specchio della società di fuori, attraverso la ricerca della libertà di un reduce dal carcere, come recita il sottotitolo. Un libro sul mondo di dentro e di fuori - Un racconto necessario, che parla degli istituti penitenziari, delle loro condizioni, del tradimento del mandato costituzionale, ma parla ancora di più di tutto quello che c’è prima e dopo. L’assenza di welfare in contesti dove si è troppo impegnati a sopravvivere, come era costretta a fare la mamma di Gianluca rimasta vedova con tre figli tra i palazzoni di Quarto Oggiaro; l’abbandono delle periferie nella Milano anni ‘90, dove Gianluca spacciava e le tante periferie sociali ed esistenziali di oggi, che finiscono per affollare le celle. Questo libro interroga in profondità le istituzioni e tutti noi su quali uomini e donne restituisca alla comunità dei liberi un sistema dove i diritti sembrano concessioni e certa vulgata vorrebbe che “chi ha violato la legge - riporta Stasio - non meriti niente, neppure di respirare”. Diritti, non concessioni per i cittadini reclusi - Eppure al di là di quelle alte mura vive un pezzo di Repubblica, popolato da cittadini, che espiano la loro pena, ma non per questo sono cittadini di serie B. Dietro quelle alte mura entra la persona, non il reato. E sul suo cambiamento scommette la nostra Carta fondativa, come ricorda - con parole vibranti di militanza costituzionale - l’autrice, per anni firma del Sole24ore, profonda conoscitrice dell’aria ferma del carcere e del suo “codice di comportamento funzionale alla pax penitenziaria”. Il codice non scritto del carcere - Così chi vive al di là dei cancelli sa che tante cose “non si fanno”, perché non accettate. Compreso non lasciarsi andare a gesti di affetto, a dispetto di tanta filmografia. Il “codice etico del carcerato” racconta Gianluca sulla base delle sue esperienze più dure tra San Vittore, Busto Arsizio, Fossombrone insegna “chi puoi salutare e chi no, con chi puoi parlare e con chi no, come devi versare l’acqua, come ci si deve comportare fra amici, e anche come si deve stare con i familiari. Io ho imparato queste regole, questa severità, e non sgarravo mai. A prescindere dalle guardie”. Ibernazione emotiva - “Ibernazione emotiva” la definisce Roberto Bezzi, storico responsabile dell’area educativa di Bollate. Non chiedo, non reagisco, non do fastidio. Sopravvivo in una realtà “dove tu sei ciò che gli altri raccontano di te, le parole con cui ti descrivono”, a cominciare dalle relazioni degli operatori necessarie per ogni accesso ai benefici. Ma da questa ibernazione quali uomini escono? “Quando tornavo a casa mi sfogavo come una belva”, ammette Gianluca, la cui esistenza cambia traiettoria solo quando - dopo le esperienze più dure - inizia il suo “viaggio” a Bollate, l’eccezione, la dimostrazione che un carcere della Costituzione è possibile: contraddizioni e fallimenti, come il drammatico caso del detenuto in lavoro esterno tornato ad uccidere per poi suicidarsi, non possono far dimenticare i dati sul crollo della recidiva in presenza di un solido progetto di reinserimento. Bollate e il viaggio nel carcere della Costituzione - A dispetto del vuoto sperimentato in istituti ad alta sicurezza, qui Gianluca conosce le occasioni della formazione professionale con Cisco, le emozioni del teatro, il patto di responsabilità con lo Stato, il contrario di un’impostazione fatta solo di controllo; e impara soprattutto a stare con gli altri e a gestire le emozioni, come nessuno insegna a troppi minori che finiscono nei circuiti penali. Il deserto di fuori, le gabbie di dentro - Capita così che nel deserto di fuori, dentro troppi si tolgono la vita alla vigilia della ritrovata libertà. O tornano solo nelle stesse gabbie, con i propri corpi e i propri sentimenti. Il Tso e i diritti, la parola della Corte di Pietro Pellegrini* Il Manifesto, 18 giugno 2025 La recente sentenza n.76/2025 della Corte Costituzionale in materia di Trattamento sanitario obbligatorio (Tso) art 35 l. 833/1978 aumenta le garanzie prevedendo l’obbligo di notifica al paziente dell’ordinanza del sindaco e l’audizione della persona da parte del Giudice Tutelare prima della convalida. La legge regola il patto sociale e il rapporto di potere tra cittadino e istituzioni (sanitaria, amministrativa e giudiziaria) in relazione agli accertamenti e trattamenti sanitari. Questi sono di norma volontari e vi sono requisiti di legge per l’obbligatorietà coercitiva e la privazione della libertà, nonché una precisa procedura ed un sistema di garanzie: certificato di proposta del medico e certificato di convalida di un medico della struttura pubblica, cui fa seguito l’ordinanza del Sindaco e successivamente la convalida del Giudice Tutelare. Il ricovero in ambito ospedaliero dura al massimo 7 giorni prorogabili con atto motivato. Tutti i diritti della persona vengono garantiti compresa la possibilità di comunicare e chiunque può presentare istanza contro il Tso. Il Tso nella normativa in vigore serve, sulla base delle condizioni e garanzie definite dalla legge, ad assicurare il diritto alla salute e va costantemente accompagnato dalla ricerca del consenso. Le condizioni operative di urgenza che connotano i Tso comportano un clima di tensione e pericolo e a volte si svolgono in situazioni ambientali poco favorevoli per dettagliate certificazioni mediche di proposta e di convalida. Nelle prassi operative, sia le ordinanze del sindaco che le convalide del giudice tutelare sono diventate più adempimenti burocratici che significativi momenti relazionali. Nell’ottica del diritto vivente, la Corte Costituzionale prevede che il Giudice Tutelare effettui l’audizione a distanza di un massimo di 48 ore dal ricovero. È importante che oltre alla forma il Giudice possa comprendere la complessità della situazione e delle relazioni. Ad esempio potrà interagire con un paziente in condizioni del tutto diverse da quelle iniziali che hanno portato al Tso. Questo va tenuto presente specie quando le condizioni per il Tso possano apparire in via di superamento e il Giudice Tutelare possa revocare il provvedimento. Una circostanza che deve avvenire tutelando il mandato di cura evitando che la mancata convalida diventi l’occasione per azioni legali di natura risarcitoria ma soprattutto comprometta l’attività di cura, generando sfiducia e sospettosità nel paziente e arrendevole rassegnazione, demotivazione e abbandono negli psichiatri. Grazie anche alla sentenza della Corte credo possa trovare sviluppo la linea del “no restraint”, il superamento delle contenzioni, l’attenzione alla qualità e sicurezza delle cure, alla prevenzione (carte per la crisi, interventi precoci, disposizioni anticipate) e alle tutele (garanti, assistenza legale gratuita, Utenti Esperti). È possibile continuare la riduzione dei Tso passati da oltre 20.000 del 1981 a circa 5.000 del 2023. Le norme previste dalla Corte Costituzionale possono essere utili non solo per evitare abusi ma per promuovere i diritti umani e sociali che sono essenziali per il diritto alla salute ridando così slancio alla 180. L’affermazione della sentenza 76/2025: “È certamente escluso che le persone, soltanto perché affette da infermità fisica o psichica, siano per ciò stesso private dei diritti costituzionali, compreso il diritto di agire e di difendersi in giudizio, in violazione del principio personalista e del principio della pari dignità sociale espressi dagli artt. 2 e 3, primo comma, Cost.”, costituisce la premessa ad un possibile superamento del doppio binario, l’abolizione degli artt. 88 e 89 c.p. in un processo di piena affermazione dei diritti e doveri delle persone con disturbi mentali. *Direttore Dipartimento Assistenziale Integrato Salute Mentale Dipendenze Ausl di Parma Fine vita, corsa a ostacoli per l’approdo in Aula di Francesca Spasiano Il Dubbio, 18 giugno 2025 La senatrice leghista fissa i punti sul testo da scrivere e assicura che la legge arriverà a Palazzo Madama, ma resta il nodo sul servizio sanitario. Le opposizioni attaccano sul comitato etico nazionale. E intanto l’eutanasia arriva per la prima volta davanti alla Consulta. Operazione 17 luglio. A un mese esatto dall’approdo in Aula al Senato, a dettare la linea sul fine vita adesso è il calendario. Perché il tempo stringe e la svolta attesa forse è arrivata, ma non esattamente come era stata promessa. Non con un testo, dunque: che ancora non c’è, ma ci sarà la prossima settimana, assicura la maggioranza annunciando l’ennesimo rinvio. Il segnale bisogna cercarlo altrove, nelle dichiarazioni dei big di partito quanto nei silenzi degli altri. Per ricamare sull’ultima riunione che si è tenuta oggi si potrebbe partire dall’apparizione a sorpresa di Giulia Bongiorno, che per la prima volta dopo sei mesi ha messo piede al Comitato ristretto di Palazzo Madama dove si discute la legge. “Sono stati fatti passi avanti”, assicura la presidente della commissione Giustizia in Senato. Che fissa tre temi su cui bisognerà articolare la norma: “Il punto di partenza è quanto detto dalla Corte Costituzionale”, spiega la senatrice leghista lasciando i lavori in anticipo; il secondo riguarda la nascita di un Comitato etico nazionale, che la maggioranza ritiene “essenziale”; il terzo è sulle cure palliative, che devono essere “concrete e non astratte”. Sul ruolo del Comitato nazionale, che secondo l’ipotesi emersa dopo il vertice a Palazzo Chigi dovrebbe essere nominato tramite un Dpcm, non ci sono ancora dettagli. Ma “sicuramente sarà di altissimo profilo”, sottolinea Bongiorno. Per la quale l’obiettivo di portare il testo in Aula il 17 luglio è a portata di mano: la maggioranza condivide “una serie di principi” e ha buttato giù un po’ di punti. Ora spetta ai due relatori, Pierantonio Zanettin di Forza Italia e Ignazio Zullo di FdI, tradurli in un testo. Scriverlo in una settimana sarebbe anche possibile, ma resta da sciogliere il nodo più grande, quello relativo al ruolo del Servizio sanitario nazionale. Su questo si esprime il meloniano Francesco Zaffini, presidente della decima commissione: “Abbiamo chiarito ai relatori che non si parla del luogo - spiega ai giornalisti -, cioè il soggetto può stare anche in ospedale, può stare anche in una Rsa pubblica, può stare in una Rsa privata, può stare a casa. L’importante è che non ci sia il coinvolgimento del servizio sanitario nazionale, cioè il denaro pubblico non paga una prestazione” che si materializza “in un diritto a morire, perché la Corte costituzionale non stabilisce il diritto di morire. Stabilisce il diritto a non essere punito” per “colui che aiuta e che assiste il suicidio”. È la posizione di Fratelli d’Italia, che non ha cambiato idea sul punto. La novità arriva invece da Forza Italia, che fino ad oggi si era mostrata “scettica”, dal momento che è la stessa Consulta ad affidare al Ssn le verifiche sulle richieste di suicidio assistito. “Non siamo favorevoli che una eventuale assistenza in queste fasi drammatiche sia considerata una prestazione del Servizio sanitario nazionale, non prevediamo che nei Lea ci sia un diritto al suicidio”, dice il presidente dei senatori azzurri Maurizio Gasparri. Lasciando intendere che l’accordo è possibile. La Lega per ora non si esprime sul punto, mentre Noi Moderati - la cui proposta di legge sarà abbinata al testo base - spera che “si arrivi presto a una sintesi”. A dirlo è Mariastella Gelmini, per la quale “serve una legge nazionale che eviti il rischio di una legislazione Arlecchino da parte delle Regioni”. Per quanto riguarda le cure palliative, Zaffini chiarisce che saranno “disponibili” ma “non obbligatorie”. Come chiede anche il Pd, che a differenza della maggioranza non vede molti passi in avanti. Di fronte all’ennesima “fumata nera”, i dem hanno fissato i propri paletti: no al comitato etico nazionale, che “allude a una sorta di supervisione etica del governo sulle scelte dei singoli cittadini”, spiega il senatore Alfredo Bazoli; il ruolo del servizio sanitario non si può negare, perché “l’alternativa è una privatizzazione strisciante inaccettabile”; le cure palliative non possono diventare un trattamento sanitario obbligatorio. “Se presenteranno un testo lo valuteremo, altrimenti andremo in Aula con il nostro”, dice Bazoli, relatore di un ddl che gode di una corsia privilegiata avendo raccolto le firme di oltre un terzo dei senatori. Per impedirlo, il centrodestra dovrà portare in Commissione un proprio testo. E magari non sarà questo a impensierire la maggioranza, già alle prese con le Regioni che lavorano alle proprie leggi. Perché c’è dell’altro: il prossimo 8 luglio l’eutanasia arriverà per la prima volta davanti alla Consulta. L’udienza riguarda il caso di una donna toscana di 55 anni affetta da sclerosi multipla progressiva e completamente paralizzata che, pur avendo tutti i requisiti di accesso al suicidio assistito stabiliti dalla stessa Corte, non è fisicamente in grado di assumere autonomamente il farmaco letale e chiede che possa somministrarlo il suo medico di fiducia. Il tribunale di Firenze ha sollevato questione di legittimità sul reato di omicidio del consenziente, e la parola passa ancora una volta ai giudici, che ora potrebbero aprire anche a questa opzione. Il Parlamento si farà trovare senza legge o con una legge già “superata”? Tossicodipendenze, aumentano i casi ma cala il personale dei Serd: “Duemila addetti in meno” di Giovanni Turi La Stampa, 18 giugno 2025 Nell’ultimo anno, hanno lasciato 252 professionisti su 6223. Allarme oppiacei: ne fanno uso sei persone in cura su dieci. E arriva il metadone in pastiglia. Cresce il numero di assistiti, eppure cala il personale. Un’emorragia lenta ma sempre più evidente. È la fotografia dei Serd italiani, i Servizi pubblici per le dipendenze del Servizio sanitario nazionale. Di cui se ne contano 570 su tutto il territorio nazionale. Ma i numeri del ministero della Salute raccontano anche altro. Dal 2018 al 2023 si sono dispersi 252 professionisti tra medici, infermieri, educatori, assistenti sociali e amministrativi. Nel dettaglio, prima i dipendenti erano 6.223, cinque anni dopo 5.843. Sono 6 punti percentuali in meno. Un dipendente su tre è infermiere, uno su 4 è medico, quasi il 15% è psicologo e il 13,6% è assistente sociale. Il Nord-Ovest sconta una quota di medici e infermieri sotto la media nazionale. E una superiore di educatori, assistenti sociali e amministrativi. Nel Centro e nel Sud Italia la situazione è invece ribaltata, sebbene ci siano piccoli Comuni italiani in affanno come Città di Castello (Perugia), dove a fine 2024 il sindaco Luca Secondi aveva lanciato l’allarme a Regione e Usl Umbria 1 sulla completa assenza di un medico responsabile. La carenza di addetti - Nel frattempo, però, i Serd hanno preso in carico 132 mila pazienti con dipendenza da sostanze stupefacenti, incrementati del 3% dal 2018. E pensare che buona parte della nuova utenza, pari al 13% del totale, ha meno di 34 anni. Oltre al fatto che i contatti complessivi sono stati oltre 250 mila (anch’essi in aumento di anno in anno). Ecco che quindi migliaia di persone non sono state prese in carico. Da qui, la puntualizzazione del report dell’Oised (Osservatorio sull’impatto socio-economico delle dipendenze) pubblicato lo scorso gennaio: mancano all’appello “circa 2.000 unità di personale”. Snocciolando la carenza: “261 medici, 215 infermieri, 396 psicologi, 646 educatori professionali, 273 assistenti sociali, 139 amministrativi”. I pazienti in aumento - Scavando fra le sostanze, sei pazienti in trattamento per droga su 10 sono lì per oppiacei. L’eroina è ancora la sostanza più utilizzata, per quanto in diminuzione. Spicca all’occhio l’abuso di cocaina che sta prendendo piede tra i nuovi utenti, usata in quasi il 45% dei casi. Per gli utenti già in carico si parla di un 23%. Tra quest’ultimi e quelli nuovi c’è un’altra differenza: i trattamenti. Infatti, i pazienti nei Serd da almeno un anno li intraprendono in prevalenza in maniera autonoma o con su proposta di familiari e amici (66,7%), emergono modalità diversificate per la nuova utenza entra: invio dell’autorità giudiziaria (8,9%), da altri servizi sanitari (9,1%) o da altri servizi per le dipendenze (7,8%). Il metadone in compresse - Per soppiantare il carico di lavoro, una delle opzioni che sta prendendo piede dentro i Serd italiani è la somministrazione del metadone in compresse. Sulla falsariga delle decisioni in altri Paesi europei come Francia, Spagna e Germania. Lo sostengono professionisti del Serd, così come una ricerca di Sitox Informa dove si stima che la sua distribuzione può assicurare al Ssn un risparmio di ore lavorate del personale tra il 62 e il 66%. “In questo modo il tempo per la preparazione e dispensazione della terapia si è ridotto”, spiega Eva D’Incecco, direttrice del Serd Aulss 2 Marca Trevigiana, che in poco più di un anno ha trattato così 55 pazienti. Per Lorenzo Somaini, direttore del Serd Biella, ci sono persino dei benefici: “Ad oggi abbiamo in terapia circa cento pazienti, che in generale hanno risposto in modo positivo al trattamento. I vantaggi principali sono la velocità di preparazione delle terapie e la facilità di assunzione”. Migranti. Serve un protocollo unitario del soccorso in mare di Vittorio Alessandro* Il Manifesto, 18 giugno 2025 Il Governo dice chiaramente che sono ammessi solo gli interventi istituzionali, mentre l’azione dei volontari è ritenuta contraria alle finalità istituzionali. Ne consegue un ammasso confuso di misure punitive. La risposta non può che essere un severo auto-coordinamento del soccorso civile. L’analisi del Manifesto di ieri sui più recenti indirizzi governativi in materia di soccorso in mare pone interrogativi sulla strategia corrente, ma anche urgenti considerazioni sul ruolo dell’attivismo umanitario e sulle sue modalità di intervento. La modificata consistenza della flotta civile verso unità di più piccole dimensioni risponde alla necessità di far fronte ai costi del trasferimento nei porti più lontani e alle spese per le sanzioni subite e le relative contese giudiziarie. Ci si chiede, a questo punto, se il generoso impegno degli equipaggi volontari non rimanga il capro espiatorio di una strategia del soccorso in mare che - al di là del grande impegno delle motovedette, di cui sempre meno si parla - si rivela sempre più fallimentare e pericoloso, non soltanto per le persone a rischio di perdersi, ma anche per gli stessi operatori coinvolti. Mentre rispetto alle emergenze a terra (catastrofi naturali, epidemie) è ben delineata l’organizzazione che mette insieme - alle dipendenze della protezione civile - l’intervento istituzionale e quello volontario, l’ispirazione ideologica dei governi che si sono alternati negli ultimi anni ha impedito l’attuazione di qualcosa di analogo per il soccorso in mare. Ciò che prima si percepiva soltanto, l’attuale esecutivo lo dichiara esplicitamente: sono ammessi solo gli interventi istituzionali, mentre l’azione dei volontari è ritenuta eccentrica se non addirittura contraria alle finalità istituzionali. Ne consegue un ammasso confuso di misure punitive, piccole e grandi. La più significativa è l’allontanamento delle navi ong dal quadrante dell’emergenza. La risposta non può che essere un severo auto-coordinamento del soccorso civile, un manuale d’azione per i comandanti che costituisca anche traccia per una difesa in giudizio non di volta in volta imbastita, ma basata su convincimenti consolidati ed espressi. Per esempio a partire dall’abc: le imbarcazioni del soccorso civile devono o no (e perché) spingersi, quando necessario, in acque Sar (di ricerca e soccorso) esterne alla zona di responsabilità italiana? In che modo devono affrontare la pretesa italiana di coordinamento con le autorità libiche e tunisine che non rispondono al dettato del diritto internazionale? E ancora, con riguardo alle mansioni operative: le unità ong di dimensione ridotta, stante la loro limitata operatività, dovranno solo fornire assistenza o invece, ove possibile, prendere a bordo i naufraghi? Si atterranno scrupolosamente alle direttive del centro di coordinamento ma, come sempre in navigazione, quanto dovrà valere l’apprezzamento del comandante sulla situazione di pericolo e le misure necessarie a ridurlo? Servono, dunque, linee guida comuni che, ferma restando la specificità di ogni soccorso, riguardino anche la richiesta del porto sicuro (nulla a che vedere con la selezione dei più vulnerabili e gli improbabili smistamenti verso questo o quell’approdo). Se per le navi di soccorso più grandi poteva forse valere l’alibi di una supposta possibilità di affrontare tre o quattro giorni di viaggio verso i porti più lontani, le piccole unità non sono certamente in grado di affrontare lunghe giornate di mare, al di là del numero di persone ospitate: si tratta delle basilari regole di sicurezza che le Capitanerie di Porto fanno rispettare nei confronti di ogni spedizione. Con l’adozione di un protocollo comune è necessario che ogni interlocuzione con le autorità sia minuziosamente annotata e resa pubblica. Tali linee guida diventerebbero, così, patrimonio pubblico di solidarietà e conoscenza marinara, offerto alle istituzioni perché possano al meglio avvalersi del volontariato, indispensabile in mare come a terra per salvare la vita delle persone in pericolo. *Ammiraglio della Guardia costiera, ora in congedo Migranti. Nel Cpr di Gjader sono rimaste circa trenta di persone di Giansandro Merli Il Manifesto, 18 giugno 2025 Le presenze continueranno a calare con nuove richieste d’asilo o ricorsi. All’interno del Cpr di Gjader sono rimaste circa trenta persone. Quelle che ieri ha potuto contare la delegazione di avvocati del Tavolo asilo e immigrazione e deputati Pd: erano presenti Rachele Scarpa e Matteo Orfini. Autorità di polizia ed ente gestore non sono autorizzati dal Viminale a fornire numeri ufficiali. Nemmeno ai parlamentari. Conosciamo per certo, invece, le nazionalità dei migranti: Congo, Senegal, Turchia, Ghana, Guinea, Georgia, Algeria, Camerun, Costa d’Avorio, Gambia, India, Marocco, Pakistan. Altra notizia importante è che, dopo la decisione della Cassazione di rinviare alla Corte di giustizia Ue la legge che estende l’uso dei centri d’oltre Adriatico anche ai cittadini stranieri in situazione di irregolarità amministrativa, il governo non ha realizzato nuove deportazioni. Il provvedimento degli ermellini, che solleva dubbi di compatibilità con le direttive procedura e rimpatri, è del 29 maggio scorso (le motivazioni sono attese in questi giorni). L’ultimo trasferimento di migranti risale a due giorni prima. Successivamente diversi tra quelli presenti hanno chiesto asilo o sono stati giudicati non idonei al trattenimento dalla commissione vulnerabilità dei medici dell’Usmaf. Così i numeri sono progressivamente calati. E caleranno ancora: in base alle informazioni raccolte dalla delegazione pare che nei prossimi giorni ci saranno nuove udienze di convalida della detenzione davanti alla Corte di appello di Roma. Questa è competente per i richiedenti asilo e, condividendo l’orientamento degli ermellini, ha respinto tutte le richieste di trattenimento avanzate dalle autorità di polizia. Continuano invece a dare il via libera i giudici di pace nelle proroghe per gli “irregolari”. In questi casi, però, i legali dei migranti possono sempre fare ricorso per Cassazione: finirebbero davanti alla stessa sezione, la prima penale, che ha bloccato tutto in attesa del chiarimento dei giudici di Lussemburgo. Che comunque richiederà molti mesi. Basti pensare che il rinvio sulla questione dei “paesi sicuri”, partito dal tribunale di Roma lo scorso novembre e trattato con procedura accelerata, non ha ancora avuto una sentenza. Parliamo di quello che aveva bloccato la prima fase del protocollo Meloni-Rama, spingendo il governo italiano ad ampliare la destinazione d’uso dei centri a fine marzo. Da allora per Gjader sono transitate un centinaio di persone, una trentina sono state rimpatriare - sempre passando dall’Italia - le altre riportate indietro per motivi giuridici o sanitari. “Il progetto Albania è di fatto sospeso, appeso al filo del suo destino giuridico. Lo sa bene anche il governo. È ridicolo che Piantedosi vada in televisione a parlare di percentuali senza dare i numeri delle presenze residuali. Al momento, secondo le stime economiche del ministro, per ogni migrante è stato speso circa un milione di euro”, afferma Scarpa. Democrazie fragili, ma necessarie di Luciano Violante Corriere della Sera, 18 giugno 2025 L’Europa deve ritrovare il suo ruolo, altrimenti rischia di essere schiacciata. Le democrazie sono diventate fragili perché non appaiono capaci di governare il cambiamento d’epoca. I tradizionali principi dell’accoglienza di chiunque fugga dal proprio Paese non appaiono ragionevolmente applicabili alle migrazioni di massa del nostro tempo. La storica esecrazione della guerra e degli apparati bellici si scontra con le esigenze determinate dalle politiche della nuova amministrazione americana e dalle minacce che vengono dal governo russo. Per le difficoltà economiche non riusciamo più a mantenere tutte le tradizionali promesse del welfare. Non troviamo un equilibrio tra la tutela dei diritti fondamentali della persona e lo sviluppo delle nuove tecnologie. Abbiamo taciuto dopo le accuse di immoralità rivolteci da Putin. Nel discorso con cui annunciava l’invasione dell’Ucraina, Il presidente russo insisteva sull’immoralità dell’Occidente, che “ha cercato di distruggere i nostri valori tradizionali - disse - e imporci i suoi falsi valori che eroderebbero noi e il nostro popolo dall’interno”. Successivamente il capo della Chiesa ortodossa russa, il patriarca Kirill, spiegava che il conflitto in Ucraina è una “lotta metafisica” contro i Paesi che autorizzano il Gay Pride e che perciò sono il regno del male. Abbiamo risposto all’invasione dell’Ucraina con sanzioni economiche per la Russia e con investimenti militari per Kiev. È stato giusto, ma insufficiente. Avremmo dovuto opporre anche una contronarrazione fondata sul valore della libertà e del rispetto delle diversità. Ma abbiamo taciuto. Né abbiamo cercato di capire, per meglio contrastarle, le cause della crescita di movimenti xenofobi, razzisti e filorussi in molti paesi europei. Nel silenzio delle democrazie si è costruita negli Stati Uniti una nuova filosofia politica non democratica, destinata ad essere il riferimento tutte le forze reazionarie europee. Ne hanno spiegato gli elementi costitutivi Monica Maggioni nel suo ultimo libro, The Presidents, e John Ganz, columnist di The Nation, in When the Clock Broke: cospirazionismo, xenofobia, razzismo, rifiuto dello Stato e dei poteri pubblici considerati entità coercitive, politica ridotta a negoziato economico, tradizionalismo religioso e sessuale, disprezzo per le regole ed esaltazione della forza, lotta contro le élites culturali. Alla fine di ottobre 2021 JD Vance, attuale vicepresidente degli Stati Uniti, in una convention repubblicana tenne un intervento dal titolo: “The Universities are the Enemy” (Le università sono il nemico). Gli attacchi di Trump agli immigrati, alle Università, all’Europa, unico continente liberaldemocratico al mondo, non sono quindi scatti umorali, ma l’espressione di una filosofia politica reazionaria lungamente elaborata. Per combatterla è infantile esecrare Trump; è necessario invece rinnovare la liberaldemocrazia, non cullarsi nelle oneste certezze del passato, ricominciare a parlare di doveri, dire la verità ai cittadini; impegnarci per la formazione del capitale umano; in materia di immigrazione fare tutto il possibile, ma non promettere quello che non possiamo mantenere. Il premier laburista Starmer ha presentato il 12 maggio scorso il suo libro bianco sulla immigrazione “per riprendere il controllo della politica dell’immigrazione” perché “rischiamo di diventare un’isola abitata da persone tra loro estranee”. È un traditore o un leader che cerca un punto di equilibrio tra gli ideali e la realtà? Quando gli attori tradizionali non comprendono la portata delle trasformazioni in corso e cercano di addomesticarle come se fossero semplici varianti del passato, irrompono nuovi attori che, avendo colto tutta la potenza trasformatrice delle innovazioni, mettono in campo teorie, strategie, e pensieri idonei al nuovo governo del mondo. È quello che sta accadendo. Dopo i conflitti verrà un ordine. Quale sarà il ruolo dell’Europa nel nuovo ordine? La risposta è difficile. Foreign Affaires del 30 maggio scorso ritiene che l’Europa, se giocasse bene le proprie carte, potrebbe prendere il posto degli Stati Uniti, che sembrano più interessati all’ordine interno che all’ordine internazionale. È forse una previsione ottimista. In ogni caso l’Europa o si muove o si condanna alla irrilevanza. “Chi si fa verme - ha scritto Kant ne “La metafisica dei costumi” - non può lamentarsi se poi viene calpestato”. Le democrazie muoiono per suicidio non per omicidio. Si distruggono con le proprie mani quando hanno cessato di capire la loro ragion d’essere. Insulti, aggressività e semplificazione: la nuova lingua in tempo di guerra di Gianni Cuperlo* Il Domani, 18 giugno 2025 “La prima vittima della guerra è il pensiero”, così Gabriele Segre qualche giorno fa su La Stampa. Credo abbia ragione. Ciascuno di noi può testimoniarlo nella sfera quotidiana, nelle relazioni amicali e familiari, nello spazio ampio e plurale del discorso pubblico. Non si tratta di una novità, altre stagioni hanno visto peggiorare sino a liquefarsi l’amalgama sociale e culturale che, in condizioni ordinarie, scorta una dialettica delle differenze. A spezzare quel vincolo è un fattore storico irriducibile nella sua carica di offesa e violenza, la guerra appunto. Scaffali di biblioteche si sono riempiti di studi analitici, talora impietosi, su processi degenerativi dove le culture dell’odio hanno prevalso sulle radici di un’umanità cosciente del valore della vita, anche di quella dell’avversario o del nemico. Il punto è che, seppure in modi diversi, la lingua del tempo di guerra riguarda tutti perché incide sul modo d’interpretare il mondo. L’anima requisita - Che si tratti delle radici dei conflitti o della scelta sul riarmarsi, possono derivarne visioni inconciliabili dentro i partiti, tra nazioni e generazioni. La stessa offensiva militare d’Israele sull’Iran con la decapitazione del piano di arricchimento dell’uranio e l’obiettivo non dichiarato, ma sotteso, di un regime change del potere degli ayatollah alimenta da giorni chiavi opposte di letture che prefigurano scenari più simili a distopie che a immaginari realistici. Tutto ciò impatta l’uso delle parole, tema affrontato in anni lontani da Victor Klemperer, filologo ebreo sopravvissuto alla Shoah. I nazisti - spiegava in LTI, La lingua del Terzo Reich - non hanno inventato nuove parole, hanno stravolto il significato a quelle che c’erano, si potrebbe dire che ne abbiano requisito l’anima. Oggi due guerre condizionano la nostra agenda e la percezione del mondo reale per come si è intristita. Sei o settecentomila, ma c’è chi evoca la cifra agghiacciante di oltre un milione di morti in terra Ucraina, milleduecento ebrei assassinati all’alba del 7 ottobre 2023 dai terroristi di Hamas, decine di migliaia i palestinesi uccisi per vendetta negli oltre seicento giorni che ci separano da quel pogrom. Tra loro, uomini donne bambini, neonati sepolti sotto le bombe cadute anche su scuole e ospedali, o vittime del freddo e della fame. La rottura degli argini - Per mesi ho letto analisi, documenti, appelli, cogliendo una spirale tesa a radicalizzare il giudizio su quelle singole parabole. Potrei fare delle citazioni letterali, ma non cambierebbe la sostanza. L’esito? Una rottura degli argini che in altri momenti avevano impedito l’esondazione dal perimetro di un discorso critico, problematico, per definizione intriso di differenti letture e ricostruzioni. Dalla trama degli eventi ai vissuti personali quasi ogni complessità è finita avvinta dentro le maglie di una versione giudiziaria della storia. Dove operava la pratica del dubbio si è imposta la ratio delle sentenze. Dove influivano interrogativi propri di un approccio intellettuale si sono applicate scomuniche. È come se in un cupio dissolvi della “ragione” siano venute avanzando formule proprie della denigrazione e annientamento morale dell’altro da sé. Il tutto aggravato dall’irruzione di un linguaggio virtuale capace di usare la falsificazione come arma di distruzione del senso. L’enfasi e l’insulto - Rapidamente sono scomparsi gli interlocutori, sostituiti da antagonisti depurati da qualunque profilo di indulgenza, comprensione o semplice riconoscimento della loro alterità. A corollario, l’imporsi dell’enfasi sull’argomento e l’insulto promosso a patrocinio in uno scopo ultimo che non era più la pratica del confronto, bensì la negazione dello spazio del discorso occupato dagli altri. Ora, perché assegnare tanta cura ad aspetti apparentemente formali quando il merito dovrebbe prevalere sul resto, trattandosi di fatti devastanti per l’impatto prodotto sui destini di terre, popoli, nazioni? Per due motivi almeno. Il primo, che può apparire di dettaglio, ma non credo lo sia, è in un effetto emulazione che fa derivare da questo diverso clima forme morbose di aggressività paradossale o patologica. Non credo servano esempi da pescare tra i molteplici degli ultimi tempi, a far testo basta la nuda cronaca compresi alcuni slogan sciagurati sulla fine d’Israele o l’utilizzo strumentale delle accuse di antisemitismo. Qualche anno fa, Gustavo Zagrebelsky lamentava la “forza conformatrice del senso comune” spiegando come operasse anche senza che ce ne accorgessimo. Ne era derivata una battaglia semantica dove tutti i termini avevano finito per rendersi giustificabili con un degrado capace di contagiare anche chi aveva cercato di arginare l’onda. La banalizzazione dei contenuti - Un’assuefazione che ben prima degli ultimi conflitti aveva sdoganato l’aggressione verbale, il dileggio, l’uso pubblico della volgarità. Quasi inevitabilmente il tutto è avanzato di pari passo a una banalizzazione dei contenuti e alla caricatura di quanto non si contempla più come appartenente all’universo giusto del dire. La distinzione tra “alto” e “basso”, ammesso avesse avuto qualche ragion d’essere nel passato, si è risolta un po’ come per la lotta di classe vinta dai ricchi. Nel caso della lingua, del discorso pubblico, a prevalere non è stato neppure il “basso” in quanto tale, ma la retorica dell’esclusione, una lingua immiserita, involgarita, tutta volta a dettare una percezione scorretta della realtà. L’altro motivo è nel venir meno di una capacità egemonica del pensiero sulle dinamiche brutali del conflitto. Se l’intero discorso pubblico deborda dai canoni e limiti tipici delle democrazie, ricostruire quel perimetro unitamente ai suoi argini sarà terribilmente complicato. Un po’ come per le conseguenze di ogni guerra, con l’idea che la firma in calce a un trattato di pace basti a estinguere l’odio che quella guerra ha prodotto e radicato nelle generazioni entranti. Allo stesso modo, distruggere lo spazio condiviso del discorso pubblico non può che proiettarsi nel tempo prossimo con guasti sino a oggi colpevolmente taciuti. “Dobbiamo disarmare le parole per disarmare le menti e disarmare la Terra”, così papa Francesco in una lettera al Corriere della Sera durante l’ultimo ricovero. Concetto ripreso da Leone XIV nel messaggio per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali: “Disarmiamo la comunicazione da ogni pregiudizio, rancore, fanatismo e odio; purifichiamola dall’aggressività”. E ancora: “Una comunicazione disarmata e disarmante permette di condividere uno sguardo diverso sul mondo e di agire in modo coerente con la nostra dignità umana”. Per questo, concludeva, occorre “scegliere con consapevolezza e coraggio la strada di una comunicazione di pace”. La vera domanda è se possiamo ancora riuscirci. E con quali antidoti. Cosa diceva Foa - Il primo e più essenziale è ridare ruolo e spazio a tutti i luoghi dove si alimenta e produce cultura. Arte, letteratura, musica, informazione e saperi, dunque in cima a tutto studio e formazione, scuole, università, laboratori della ricerca, il pluralismo delle fonti come valore. Anche per rafforzare la risposta all’allarme suonato su queste pagine da Mariano Croce a proposito di una “guerra esistenziale”, concetto che “rischia di sedurre e attecchire”, da cui il bisogno di “evitare ogni nostra collusione, denunciarne la subliminale pedagogia guerresca e quindi bandirlo, come si fa con il turpiloquio e le espressioni blasfeme”. L’anziano Vittorio Foa dettava questa nota in una prefazione per il breve saggio sul linguaggio della politica di Federica Montevecchi: “Penso molto alle parole della politica, alla loro capacità o incapacità di comunicare, e penso al carattere plurale di queste parole, alla molteplicità di significati, e anche di contraddizioni, che esse possono raccogliere: solo leggendo la loro interna contraddizione, la loro polarità, riusciamo a capirle”. Al fondo è lì che si dovrebbe tornare, a quella capacità di non sottrarre mai alle parole la loro forza contraddittoria senza la quale non diventano più coerenti, ma solo più inutili, disperate e violente. *Deputato Pd