La politica parla di carceri (ed è una babele...) di Angela Stella L’Unità, 17 giugno 2025 Anche Pinelli (Csm) invita a ragionare insieme. Ma i partiti restano divisi sulle soluzioni all’emergenza sovraffollamento. Che intanto peggiora. “Auspico che, anche dal punto vista dell’eventuale approfondimento su alcuni istituti già esistenti nell’ordinamento penitenziario, si possa arrivare a prendere delle decisioni che nel breve restituiscano dignità alla vita dei detenuti e nel medio-lungo termine si possa pensare a una visione sulla pena e sugli istituti penitenziari in genere di più largo respiro. Devo dire che anche il presidente del Senato, è intervenuto manifestando una sensibilità importante sul tema. E quindi io penso che si possa ragionare insieme senza divisioni su questa situazione”: così ieri il vicepresidente del Csm, Fabio Pinelli, ospite a ‘Start’ su Sky Tg24. Il riferimento è stato al fatto che la seconda carica dello Stato qualche giorno fa ha aperto alla proposta di Roberto Giachetti sulla liberazione anticipata speciale per affrontare il tema del sovraffollamento. Eppure la politica resta divisa come emerso nell’incontro “La politica incontra il carcere”, organizzato ieri a Napoli dalla Conferenza dei Garanti territoriali dei detenuti. Ad aprire i lavori il portavoce della Conferenza, Samuele Ciambriello: “Ho volutamente, quasi provocatoriamente, dato a questa iniziativa, lo stesso titolo che detti nel 2022. Da allora, sul piano normativo, tante cose sono cambiate, ma purtroppo non in meglio. Anche sul piano della realtà, le condizioni del sistema penitenziario sono peggiorate. È aumentato il sovraffollamento, (oltre 62.000 detenuti su 45.000 posti disponibili), aumento dei minori in carcere, 9000 persone che devono scontare meno di un anno in carcere, l’aumento del disagio psichico nelle carceri, di tossicodipendenti. Tutto questo, mentre si lavora sulla “percezione” di sicurezza nel vano tentativo di sterilizzare i problemi sul territorio, mandando via i cosiddetti indesiderabili, quelli che protestano, danno fastidio, o fanno paura. Le figure della paura sono sempre le stesse: i ‘diversi’, i carcerati, i migranti e le prostitute troppo visibili, quelli che lavano le macchine ai semafori o coloro che frugano nei cassonetti”. Secondo la deputata del Partito democratico, Michela di Biase, “la situazione nelle carceri italiane è ormai insostenibile. Il sovraffollamento ha raggiunto livelli allarmanti. In molte strutture, le condizioni di vita sono al limite della dignità umana. Non possiamo più permetterci di affrontare questo tema con superficialità o, peggio, con logiche punitive cieche. Servono risposte serie, strutturate e coraggiose. Occorre rilanciare con convinzione l’uso delle pene alternative, previste dall’ordinamento ma ancora troppo poco applicate. Il carcere non può essere la risposta automatica a ogni reato, soprattutto quando si tratta di fatti di lieve entità o di soggetti con percorsi di recupero credibili. Ma davanti alla drammatica emergenza di oggi devono essere presi in considerazione anche gli strumenti della liberazione anticipata. Non si tratta di “sconti di pena”, ma di scelte di civiltà che contribuiscono alla sicurezza vera, quella che passa per la rieducazione e la prevenzione. Chi è privato della libertà resta comunque un essere umano, non dobbiamo mai dimenticarlo. E lo Stato ha il dovere di garantire diritti, dignità e percorsi di riscatto”. Per Riccardo Magi, segretario e deputato di +Europa: “Verrebbe da dire che sul carcere si sa già tutto e da molto tempo manca la volontà politica di intervenire e manca la consapevolezza di quanto sia urgente e non più rinviabile farlo. Noi sul tavolo abbiamo una gamma di strumenti per alleviare l’emergenza ma anche per avviare una riforma strutturale del carcere e i due piani devono necessariamente coesistere: revisione dell’articolo 79 della Costituzione, altrimenti i provvedimenti di clemenza saranno di fatto impossibili, liberazione anticipata speciale, numero chiuso nelle carceri, case di reinserimento sociale per chi ha meno di un anno di pena residua. Le proposte sono tutte sul tavolo ma perché parta l’iter è necessario che la maggioranza si convinca che la soluzione non sta nell’edilizia con l’aumento dei posti ma nella diminuzione dei detenuti”. Ma a leggere le dichiarazioni del senatore di Fdi Sergio Rastrelli, è chiara la linea del partito della premier: “Nei confronti del drammatico ed atavico problema della emergenza carceraria, occorre sostituire un approccio emergenziale con uno strutturale. Questa sin dall’inizio, la linea del Governo Meloni: edilizia penitenziaria, piano straordinario di assunzioni di personale, modifiche dei criteri di carcerazione preventiva. Siamo quindi contrari al ricorso sistematico, come è avvenuto sinora, a misure eccezionali “svuota-carceri”: le amnistie e gli indulti sono infatti la confessione di una impotenza: essi sviliscono l’autorità dello Stato, erodono la certezza della pena e incrinano la sicurezza sociale”. Secondo il parlamentare della commissione giustizia di Palazzo Madama “lo sforzo comune cui tutti dobbiamo partecipare - soprattutto in questa fase di rinnovata emergenza - deve poter conciliare certezza della pena ed umanizzazione del trattamento, e coniugare quindi la sicurezza delle strutture carcerarie con la piena dignità dei detenuti. Bene quindi ogni riflessione, purché rispettosa del principio della certezza della pena”. Sarebbe dovuta intervenire anche la senatrice di Avs Ilaria Cucchi che comunque ci ha detto: “le carceri parlano, la politica rimane in silenzio. Purtroppo è questa la sintesi che ci consegnano tutti i rapporti sulle condizioni detentive in Italia. I detenuti sono considerati un pericolo da allontanare il più possibile: la famosa metafora del “buttare la chiave”, di cui è fiero portavoce il nostro governo, racchiude in sé sia la ragione dei numeri che crescono sia la ragione delle sofferenze che sembrano destinate a non finire mai. Perché la verità è che la pena, progressivamente, si sta trasformando: da un’occasione di riscatto (sancita dalla nostra Costituzione), a un terribile meccanismo di vendetta, guidato dallo Stato”. Caldo asfissiante e celle sovraffollate. Detenuti in rivolta a Terni, Spoleto e Aosta di Alessandra Ziniti La Repubblica, 17 giugno 2025 Sono i primi episodi dopo l’istituzione del nuovo reato con il decreto sicurezza e le condizioni delle carceri italiane fanno temere che sia solo l’inizio. Verini (Pd): “Impossibile garantire la sicurezza, Nordio intervenga subito”. Alle sei del pomeriggio, quando esce dal carcere di Terni, il senatore del Pd Walter Verini, dice: “C’è stata una rivolta che poteva avere conseguenze molto gravi, un agente di polizia penitenziaria è rimasto ferito, ci sono decine di detenuti che stanno danneggiando le celle e colpito agenti, poteva finire in tragedia”. Seicento detenuti in un penitenziario che ne potrebbe ospitare poco più di 400, temperature insopportabili nelle celle (fino a 40 gradi) e niente acqua. Sufficiente a far scattare una rivolta che, adesso, con l’istituzione del nuovo reato previsto dal decreto sicurezza appena entrato in vigore costerà caro ai detenuti. La denuncia: “Situazione esplosiva” - Da Terni, a Spoleto, ad Aosta. E la facile previsione che, con le terrificanti condizioni delle carceri italiane e all’inizio di un’estate torrida, la stagione delle rivolte possa essere solo all’inizio. “La situazione è insopportabile, insostenibile. Con questo sovraffollamento e con il caldo, non si può garantire la benché minima sicurezza dei detenuti e degli agenti che svolgono il loro difficile lavoro. In tutto questo, cosa fa il ministro Nordio? Perché non va a visitare subito le carceri dove la situazione è più difficile e dove c’è bisogno di interventi urgenti e provvedimenti per colpire il sovraffollamento? È una preghiera più che una polemica. Ma lo faccia e alla svelta! La situazione è veramente una bomba e non può più essere tollerata”, la denuncia di Verini. A Terni la situazione più grave. Il bilancio serale: un reparto interamente distrutto e un agente di polizia penitenziaria ferito. “La protesta è nata a seguito di un litigio durante una videoconferenza familiare di un detenuto, il quale, in preda alla disperazione, si è procurato un taglio alla gola. Un altro detenuto straniero, presente nei dintorni dello stesso reparto ha interpretato il gesto come una reazione a presunti maltrattamenti da parte del personale penitenziario anziché a motivi personali. Questa falsa convinzione ha innescato immediati disordini, rapidamente estesi a tutta la sezione di media sicurezza”, ricostruisce l’origine dei disordini, Fabrizio Bonino, segretario per l’Umbria del Sappe. I danneggiamenti hanno interessato telecamere, suppellettili e impianti elettrici. Sono stato appiccati incendi in più zone. Un agente ha riportato una ferita alla testa. Dopo ore di tensione gli agenti hanno ripreso il controllo dell’area isolando il reparto e utilizzando dispositivi di sicurezza per sedare la rivolta. Spoleto: bombolette di gas incendiate contro gli agenti - A Spoleto, raccontano i sindacati della penitenziaria, “la violenta rivolta è partita per motivi futili e pretestuosi, in questo caso la distribuzione del vitto, hanno dapprima devastato suppellettili, porte, infissi impianti elettrici, poi hanno scagliato bombolette di gas verso il personale di polizia penitenziaria intervenuto” spiega ancora Bonino, sottolineando che gli agenti “hanno dovuto usare gli idranti per spegnere gli incendi delle esplosioni e per respingere i facinorosi che lanciavano addosso agli intervenuti di tutto, dalle bombolette innescate agli assi di legno”. Ad Aosta tre detenuti barricati nel reparto transito - Tensioni anche nel carcere di Aosta, dove tre detenuti sono barricati nel reparto transito da oltre tre giorni. Nella casa circondariale di Brissogne “tre detenuti - denuncia l’Osapp - si sono barricati all’interno di una cella del reparto transito, concepita per ospitare un solo soggetto. Sin dal primo momento, erano armati di bastoni e hanno cosparso il pavimento e sé stessi di sostanze oleose, probabilmente miscelate con detergenti e altre sostanze, rendendo estremamente difficile e pericoloso l’intervento del personale”. Il Garante dei detenuti come parte civile e amicus curiae di Mario Serio* questionegiustizia.it, 17 giugno 2025 Il finalmente attuato adempimento da parte dell’Italia dell’obbligo internazionalmente assunto di istituire nel proprio ordinamento un meccanismo istituzionale con funzioni preventive della tortura e di ogni altra equivalente condotta lesiva della personalità umana considerata in ogni suo aspetto ha portato all’approvazione legislativa nel 2013 della figura di tutela oggi denominata Garante nazionale delle persone private della libertà personale, che tre anni dopo è stata in concreto costituita. La successione, negli anni di disposizioni, anche di rango diverso, ha portato alla configurazione di un assetto, che oggi può dirsi stabilmente consolidato, delle linee di intervento funzionale del Garante dall’ampia latitudine oggettiva, in quanto spaziante in ogni luogo nel quale, a vario titolo e per cause eterogenee, si determini la specifica situazione deprivativa della libertà. Proprio con riguardo alla definizione di tale situazione, dedotta dalle circostanze di volta in volta affioranti, il Garante ha elaborato, in conformità con giurisprudenza, dottrina, prassi transnazionali, un’articolata tavola di criteri assertivi o, comunque, gravemente sintomatici, della ricorrenza di una siffatta situazione. L’attività pubblicistica del Garante, documentativa delle relative aree di intervento, convalidata nello scenario internazionale in ragione della coerenza con il relativo sistema di principi e regole, ha prodotto come frutto maturo un’ulteriore, significativa conseguenza sul piano dell’allargamento delle competenze quali disegnate in relazione alle evenienze privative della libertà effettualmente rilevate. Ci si riferisce alla meditata e concettualmente assistita formazione di una linea di pensiero, poi tradotta in specifiche iniziative, diretta a creare un passaggio di inscindibile collegamento tra il momento dell’accertamento e della denuncia di condizioni violative del divieto di tortura e trattamenti inumani, degradanti e crudeli e quello, logicamente e finalisticamente connesso, dell’intervento a tutela delle persone che, in stato privativo della libertà, ne avessero sofferto. Il passo è, così, stato coerentemente compiuto in direzione dell’assunzione da parte del Garante di un locus standi processuale idoneo ad innescare meccanismi di tutela spendibili anche in sede processuale. Numerosi sono i procedimenti pendenti, in differenti fasi processuali, relativi a fatti delittuosi verificatisi in pregiudizio di persone a vario titolo detenute o trattenute in ambiente penitenziario o in centri di permanenza per il rimpatrio nei quali il Garante, costituitosi parte civile, ha visto riconoscere giudizialmente l’ammissibilità della propria azione (alcuni si riferiscono a fatti che hanno provocato allarme sociale e notorietà, quali i gravi incidenti di Santa Maria Capua Vetere o episodi di violenza verificatisi nei Cpr di Gradisca di Isonzo e di Palazzo San Gervasio). Si è, pertanto, nel tempo disegnata una nozione funzionale di Garante quale polo diretto di attrazione vigile ed attivo in ambito giurisdizionale di tutte quelle situazioni, prodotto diretto o mediato di condotte individuali o di gruppo, risolventisi, appunto, nei trattamenti prima enunciati. Questa trasformazione in senso proattivo del ruolo del Garante ha trovato la più robusta esplicazione nella sua costituzione di parte civile, in quanto portatore di un interesse sovraindividuale alla rappresentanza e protezione dell’ampia categoria soggettiva delle persone private della propria libertà, nei procedimenti e nei processi in cui si dibattesse di fattispecie di reato implicanti la commissione di atti vietati in danno di tali persone. Il fondamentale passo compiuto, che ha trovato collaterali manifestazioni nell’ormai giurisprudenzialmente accolta facoltà di formulazione di pareri in qualità di amicus curiae nei giudizi costituzionali o davanti organi giurisdizionali europei, aventi ad oggetto la funzione primaria del Garante ha, in sostanza consentito, in virtù anche della sensibilità innovativa mostrata dai giudici nazionali, il suo ingresso nell’arena dei protagonisti muniti di ius agendi del processo. Tra i pareri resi dal Garante nei numerosi contesti giurisdizionali, interni o sovranazionali, si possono ricordare quello di recente reso nel giudizio costituzionale riguardante l’asimmetria di posizione soggettiva di detenuti e di trattenuti nei Cpr nonché gli altri in più di una occasione formulati davanti la Corte Europea dei Diritti Umani in relazione a ricorsi proposti da cittadini italiani sottoposti a regime detentivo speciale previsto dall’articolo 41 bis dell’Ordinamento Penitenziario. Non può trascurarsi che nelle sedi nelle quali si sono esplicati i numerosi interventi del Garante essi sono stati sempre rivolti a rendere effettiva, ossia idonea a soddisfarne integralmente ed in concreto le aspettative, la altrimenti vulnerabile posizione delle persone private della libertà, così sottraendole al giogo dell’esercizio incontrollato del potere di supremazia pubblica nei loro confronti. Questo è stato un traguardo di indiscutibile importanza simbolica e pratica che la propensione del Collegio in cui si articola l’attività del Garante ha mantenuto fermo nelle sue diverse composizioni, in riconoscimento della lungimiranza ed irretrattabilità di una scelta imposta dalla natura delle attribuzioni per legge assicurategli. Il mantenimento di un percorso di continuità, alimentato dalle esperienze professionali accumulate con profitto di risultati via via conseguiti, si prospetta, pertanto, come condizione necessaria ed ineliminabile per il pieno, proficuo, incondizionato svolgimento dell’essenziale e solidaristico compito affidato al Garante ed al suo correlato dovere di tener sempre accesa la luce della speranza nelle persone la cui posizione deprivata è chiamato a tutelare senza incertezze o nocive battute d’arresto. *Professore di Diritto Privato Comparato presso l’Università di Palermo, già componente di nomina parlamentare del CSM nella consiliatura 1998-2002 Il dramma dei suicidi in carcere, ogni settimana un detenuto decide di farla finita di Pierluigi Mele rainews.it, 17 giugno 2025 Intervista a Vincenzo Musacchio, criminologo, docente di strategie di lotta alla criminalità organizzata transnazionale, associato al Rutgers Institute on Anti-Corruption Studies (Riacs) di Newark (Stati Uniti): “I numeri sono decisivi per comprendere la situazione attuale. La gravità del quadro emerge dai suicidi nel 2024. Se ne sono contati 84, cifra record che supera i dati dell’ultimo decennio”. Professor Musacchio lei ha insegnato diritto penale e criminologia in molte università italiane ed estere, quali pensa siano le principali cause dei suicidi in carcere? Siamo di fronte ad un problema particolarmente complesso e multidisciplinare. Il sovraffollamento e l’assenza di servizi di assistenza psicologica e sanitaria sono le cause primarie. La situazione da anni è davvero gravissima. Sul problema del sovraffollamento delle carceri andrebbero risolti i problemi che riguardano gli spazi inadeguati, le condizioni igieniche e sanitarie inaccettabili, il personale penitenziario in sottorganico. Cosa si potrebbe fare nell’immediato secondo lei? Sicuramente depenalizzare evitando di creare nuovi reati per risolvere qualsiasi problema di politica criminale. Non serve a mio parere neanche costruire nuove carceri. Serve un sistema penale in armonia con la nostra Costituzione. Una pena effettiva ed efficace per reati gravi sempre nel pieno rispetto della dignità della persona umana. Professore lei ha mai visitato qualche istituto penitenziario? Tanti. Mi ricordo Brescia, Bologna, Larino, Campobasso. Cosa le è rimasto impresso di queste visite? Ci sono stato per motivi di lavoro, tuttavia, il fatto che più mi ha colpito è il rumore di chiusura della porta d’ingresso oltre agli sguardi di molti detenuti che probabilmente non dovrebbero stare lì. Il carcere è una comunità chiusa che meriterebbe più attenzione e maggiore apertura verso la società civile. Di cosa ha bisogno l’art. 27 della Costituzione per realizzarsi in tutti i suoi principi fondamentali? Ha bisogno soprattutto di grandi investimenti in termini economici e di risorse umane. Ci sono molti detenuti con malattie psichiatriche, questo secondo lei incide sui suicidi? Assolutamente sì. Le persone affette da patologie psichiatriche spesso non sono compatibili con il carcere. Il disagio psichico non può trovare adeguato trattamento in carcere, c’è bisogno di strutture che siano in grado di garantire un percorso terapeutico e contenere la pericolosità sociale. Secondo lei chi decide sulla libertà personale dovrebbe conoscere i luoghi dove questa sia privata? Sì. Decidere la detenzione di un individuo dovrebbe poter significare anche conoscere il sistema carcerario. Chi si occupa di diritto penale, come me che lo insegno e lo pratico da oltre trent’anni, dovrebbe conoscere a fondo il “mondo” penitenziario, e avere un’idea precisa di come si viva nelle carceri. Nel 1996 scrissi su “La Giustizia Penale” che la formazione dei nuovi magistrati dovesse contenere un tirocinio mirato in carcere. A distanza di venti anni ancora si discute su questo. Che cosa pensa dell’ergastolo e della sua funzione? Credo questo sia un tema molto complesso. L’ergastolo è, oggi, ritenuto ancora necessario ed è compatibile con la Costituzione poiché dopo un congruo periodo di espiazione della pena si trasforma in pena temporanea. Da più parti della dottrina si discute sull’abolizione del carcere. Che ne pensa? Credo purtroppo il carcere sarà ancora per molto tempo parte del sistema penale. Se mi si parlasse di abolire il carcere nella situazione in cui è oggi, sarei d’accordo. Nel caso s’intendesse abolizione del carcere come ripensamento della funzione della pena e della restrizione della libertà personale per determinati reati, il discorso diventerebbe molto più complesso e articolato. La pena non può non essere proporzionata alla gravità del delitto, non può essere mai vendetta contro il reo, ma non può neanche essere totalmente svuotata della sua essenza. L’afflittività è un elemento essenziale della pena che trova il suo limite quando viola la dignità della persona umana. Percorsi alternativi al carcere sarebbero auspicabili a mio avviso per tutta una fascia di reati di bassa e media gravità. Come vede il sistema di giustizia riparativa, può diventare l’alternativa all’attuale diritto penale? Se la giustizia riparativa è intesa come coinvolgimento della vittima e del reo nel processo di guarigione dalla ferita provocata dal reato, sono d’accordo. Questa visione però deve centralizzare fortemente il ruolo della vittima nell’orizzonte del diritto e del processo penale. Molti penalisti criticano questa centralizzazione della vittima, lei che ne pensa? L’errore che spesso si commette, è pensare che le vittime cerchino solo vendetta, non è per nulla così: le vittime cercano giustizia e verità. Per questo vanno ascoltate e aiutate a superare la sofferenza provocata dal reato. In conclusione, il sistema carcerario attuale va ripensato? Il carcere non può essere la soluzione alla mancanza di politiche sociali ed economiche da parte dello Stato. Dobbiamo avere il coraggio di dire che principalmente nelle nostre galere non ci sono corruttori, mafiosi, stupratori e assassini. La metà dei detenuti in carcere sono responsabili di reati contro il patrimonio. Se rubo una bottiglia di vino in un supermercato rischio la detenzione. Ci sono invece persone che provocano molti più danni alla società, dal punto di vista politico ed economico, ma in carcere non ci stanno. Il dettato costituzionale e il moderno diritto penale sono gli strumenti con cui operare. Dobbiamo però cominciare a riflettere seriamente e concretamente sul futuro del nostro sistema carcerario. Su questo tema purtroppo il dibattito è ancora fermo alla sola teoria. Giustizia-Cnel, al via la seconda edizione di Recidiva Zero ansa.it, 17 giugno 2025 Brunetta: “Oltre il 70% di recidiva, dato allarmante. Colmare divario con legame tra carcere, impresa, formazione”. “Da economista, osservo i dati. Perché i numeri non mentono: ci dicono dove siamo e quanto c’è ancora da fare. Nel 2023, quando il Cnel ha scelto di ‘investire’ in questa iniziativa, la baseline, il punto di partenza, era chiara: oltre il 70% dei detenuti ha al massimo la licenza media; il 6% è analfabeta o privo di qualsiasi titolo di studio; solo l’1% è laureato. Spendiamo ogni anno 3,5 miliardi di euro per il sistema penitenziario, ma il risultato è un dato allarmante: oltre il 70% di recidiva”. Così il presidente del Cnel Renato Brunetta alla II edizione di “Recidiva Zero. Studio, formazione e lavoro in carcere e fuori dal carcere”, giornata di lavoro organizzata dal Cnel in collaborazione con il ministero della Giustizia. “Il nostro impegno è colmare questo divario, creando un legame strutturale tra carcere, impresa, formazione e istruzione - ha aggiunto - La rieducazione, come ci ricorda la Costituzione, restituisce cittadini alla comunità e spezza la catena della devianza tra le generazioni. L’obiettivo di Recidiva Zero è ottemperare all’articolo 27 della Costituzione: la pena deve ‘tendere alla rieducazione del condannato’“. Sulla recidiva oltre il 70%, Brunetta ha evidenziato, dunque, che “per rompere questo circuito perverso, la chiave è una sola: lavoro, studio e formazione, dentro e fuori dal carcere. Serve un cambio di passo: valorizzare il capitale umano del sistema penitenziario, chi vi lavora e chi sta scontando una pena o è in attesa di esecuzione della pena, con un approccio strutturale, non emergenziale”. Nordio: molti suicidi tra detenuti in via di liberazione “Una buona percentuale di suicidi che costituiscono un po’ il flagello della carcerazione, ma non solo di quella italiana, di tutto il mondo, avviene tra detenuti che non sono appena entrati in carcere. E sarebbe anche comprensibile perché quando ti ammanettano e ti sbattono in una cella ti cade il mondo addosso e probabilmente la tentazione di togliersi la vita è forte. No, accade in buona percentuale tra i detenuti che sono in via di liberazione, il che significa che per queste persone la prospettiva della libertà è una prospettiva per certi aspetti preoccupante perché non sanno dove andranno a finire, non sanno come vivranno, non sanno come la società li accoglierà, se li accoglierà”. Così il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, alla II edizione di “Recidiva Zero. Studio, formazione e lavoro in carcere e fuori dal carcere”, giornata di lavoro organizzata dal Cnel in collaborazione con il ministero della Giustizia. “Il progetto Recidiva zero mira proprio a correggere questo ultimo segmento della detenzione, il segmento probabilmente più delicato in cui la persona sta per affacciarsi a una libertà per cui magari non è psicologicamente preparato”, ha aggiunto. “Noi abbiamo un’edilizia penitenziaria estremamente disomogenea. L’unica omogeneità che abbiamo è la polizia penitenziaria, alla quale va il mio infinito ringraziamento”. Lo ha detto il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, alla II edizione di “Recidiva Zero. Studio, formazione e lavoro in carcere e fuori dal carcere”, giornata di lavoro organizzata dal Cnel in collaborazione con il ministero della Giustizia. “Abbiamo carceri modello dove ci sono ampi spazi e abbiamo purtroppo delle carceri antiche, anche qui a Roma, dove è praticamente impossibile esercitare attività lavorative e addirittura assolutamente impossibile esercitare quelle sportive che richiedono invece degli spazi molto molto elevati e ci sono dei vincoli”, ha aggiunto. Nordio ha quindi evidenziato che “abbiamo un sistema carcerario che vede eccellenze nell’ambito edilizio ma vede invece anche delle situazioni estremamente degradate. È stato istituito il commissario all’edilizia carceraria. Contiamo molto sul fatto che i suoi poteri essendo stati allargati possano quindi superare quelle che sono le difficoltà burocratiche che fino ad adesso hanno impedito o comunque hanno rallentato questo lavoro”. Quel panpenalismo senza più ambizioni di Flavia Perina La Stampa, 17 giugno 2025 Fa una certa impressione leggere i calcoli dell’intelligenza artificiale sul portato delle modifiche al codice penale introdotte dal governo di centrodestra: a parità di reati, circostanze, condanne, oltre quattrocento anni di carcere in più rispetto all’epoca pre-meloniana. E magari il conto è arrotondato per eccesso, magari gli anni sono “solo” trecento in più, e tuttavia i numeri risultano comunque enormi. L’Alfa e l’Omega di questo tipo di interventismo sono il primo decreto Rave, quello che puniva i raduni musicali privi di autorizzazione con galera fino a sei anni, e il decreto sicurezza di qualche giorno fa, quello che consente di tenere in carcere le detenute incinte (ma introduce anche moltissimi nuovi reati). In entrambi i casi stupisce l’ossessione per nicchie penali di infima entità, come se la politica dragasse gli angoli del codice alla ricerca di granelli di polvere sfuggiti al suo controllo. Il reato di rave, in tre anni, ha generato appena 21 procedimenti con una cinquantina di indagati. Sulle donne in gravidanza la norma è troppo recente per avere numeri, ma si sa che le madri con bambini piccoli in galera sono meno di venti: anche se decuplicassero è difficile immaginare che duecento borseggiatrici incinte costituiscano elemento di allarme sociale in un Paese di sessanta milioni di abitanti. L’istinto securitario e un certo grado di panpenalismo è da sempre nei codici culturali delle destre, e da sempre sorregge il loro consenso popolare e le loro percentuali elettorali. Ma era lecito avere aspettative diverse su un governo a guida Fratelli d’Italia, che in materia di crimine e giustizia ha una specifica tradizione. Ad esempio, che esercitasse la sua forza contro i grandi fenomeni criminali che ha sempre denunciato, le mafie, il caporalato, il traffico di rifiuti, la corruzione, seguendo il sogno che tradizionalmente ha proposto agli italiani: un Paese dove la furbizia e l’elusione delle regole smettano di costruire rendite di posizione e lo Stato si imponga con fermezza ai potentati dell’illegalità. Quel sogno è stato sostituito da un abnorme giro di vite contro condotte che, salvo alcune eccezioni, sono sempre state rubricate come “reati minori” e che peraltro sono in netto declino non certo per l’inasprirsi delle pene ma per il moltiplicarsi delle tecnologie di sorveglianza in ogni luogo pubblico. E tuttavia, mica è solo colpa del governo. È l’opinione pubblica, in larghissima parte, ad aver cambiato il suo sguardo sulle cose e la sua percezione di ciò che significa il binomio legge e ordine. Se ieri chiedeva un’Italia più giusta e più libera, dove non fosse obbligatorio levarsi il cappello al passaggio di ogni mammasantissima (e non solo quelli delle cosche), oggi ha abbassato le sue aspettative, e di molto. Le basta l’idea che si butti la chiave per la scippatrice impunita, per il dimostrante che blocca il traffico, per gli sconvolti che fanno festa sui pratoni di periferia senza il permesso della Siae e della Questura. Le bastano quei quattrocento, o trecento, anni teorici di galera in più per dire: ecco, finalmente i delinquenti hanno quel che si meritano. La vecchia teoria criminologica delle finestre rotte - reprimere i piccoli reati per ridurre il rischio di illegalità socialmente più rilevanti - è reinterpretata viceversa: mandiamo in galera quelli dei reati minori perché contro i reati maggiori non si può fare più di tanto, è un’ambizione troppo grande per noi. Dal giusto processo all’ossessione securitaria: la giustizia penale tra poteri, garanzie e involuzioni di Giorgio Spangher* Il Dubbio, 17 giugno 2025 La centralità del dibattimento si è progressivamente indebolita, mentre i poteri di pm e polizia giudiziaria si sono rafforzati, spesso in nome della lotta alla criminalità organizzata o a nuove insicurezze sociali. Il passaggio da un modello processuale a un altro implica inevitabilmente, al di là di altre variabili minori, una ridistribuzione del potere processuale. Per convincersi di questo fatto, basti pensare dove si collocava il pubblico ministero nel sistema inquisitorio: a fianco al giudice. Addirittura nel processo pretorile, la figura del giudice accorpava dentro in sé la figura del pubblico ministero. In dibattimento si era costretti a fare una specie di fiction per cui c’era l’avvocato che faceva le sue conclusioni e poi tanto il pretore decideva. Oggi l’Aula di udienza rappresenta la nuova distribuzione del potere processuale, come previsto dalla disposizione di attuazione del Cpp (art. 143), almeno nella fase dibattimentale, nella quale sostanzialmente si forma la prova durante la cross examination. Quindi il passaggio da un sistema inquisitorio a un sistema accusatorio ha toccato i poteri: quelli del giudice, del pm e ha ampliato le garanzie difensive. Si pensi che solo nel 1955, per effetto dell’entrata in azione della Corte costituzionale, le norme di garanzia costituzionale, tipo l’inviolabilità del diritto di difesa, hanno trovato un riconoscimento attraverso il passaggio da nullità relative a nullità assolute. Toccare il potere delle parti non è un fatto indolore ed è chiaro che chi si vede sottratto un potere che fino all’altro giorno aveva esercitato, si oppone, fa resistenza ai progetti di riforma. Si consideri altresì un altro dato: il processo penale si è dovuto misurare prima con il terrorismo interno e poi con la criminalità organizzata. Naturalmente certe norme di garanzia sono state ritenute ostative rispetto alla possibilità di accertare quei fatti complessi: una cosa è un omicidio, altra cosa sono quei fenomeni. Poi l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale ha cambiato radicalmente quelli che erano gli assetti di potere all’interno del processo: la difesa è diventata più forte. Il che non vuol dire che ciò sia andato a scapito necessariamente del pubblico ministero, ma certamente l’intervento di un giudice terzo ha riequilibrato i poteri all’interno del processo. Quindi quando il codice dell’88 è nato, noi abbiamo registrato delle forti resistenze. Una sorda resistenza, in alcuni casi anche palese come quella del giudice Marcello Maddalena. Ci sono stati cultori della materia, professori, politici e quant’altro che hanno avuto una serie di difficoltà a varare norme che si ponevano in contrasto con una cultura che se non era inquisitoria pura, certamente era di tipo inquisitorio cosiddetto garantito. E su queste resistenze sorde poi è sopravvenuta la strage di Capaci, e questo ha determinato tranquillamente da parte della politica la necessità di ritenere che il codice non fosse adeguato a risolvere i problemi della criminalità. Pertanto il modello si è involuto, questa involuzione è sostanzialmente continuata: cioè quel modello accusatorio che avevamo concepito, che era stato concepito progressivamente, ha visto un’attrazione anteriore verso la fase dell’indagine, un rafforzamento dei poteri della polizia giudiziaria e del pubblico ministero. E naturalmente tutto questo ha alterato quelle che erano le garanzie e quella che era la struttura processuale, il potere dentro il processo. Poi per una volontà di riequilibrio si è approvato l’articolo 111 della Costituzione, il giusto processo. Ma le lancette dell’orologio non tornano mai indietro. E naturalmente cosa è successo? Si è fatta una riforma, ma essa non poteva non tener conto di ciò che nel frattempo si era determinato e quindi non si è ritornati al modello accusatorio caratterizzato dalla centralità del dibattimento. Si è cercato di trovare un nuovo equilibrio fra indagini del pubblico ministero e polizia giudiziaria; il controllo del giudice è stato molto blando. E la centralità del dibattimento in qualche modo si è persa. Il sistema ha cercato un suo riequilibrio che naturalmente ha portato a rafforzare le indagini preliminari, ha riformato la fase dell’impugnazione successiva, ma non ha toccato il cuore del dibattimento perché non si è ritenuto di rafforzare il concetto di oralità, pensando di privilegiare il concetto del contraddittorio. Oggi si cerca in tutti i modi di ritornare un po’ nei vari progetti: quello del Lapec, la riforma che è allo studio della Commissione Mura del ministero della Giustizia, la riforma dell’Isola di San Giorgio delle Camere Penali. Tutte cercano di ripristinare la logica dell’oralità nel contraddittorio. Naturalmente lo fanno correggendo alcune norme che difettano di vere e proprie sanzioni. Si cerca di ridimensionare i poteri del giudice del dibattimento. Perché ancora non si riesce? Non si riesce perché chi ha un potere cerca di mantenerlo. Ci sono oggettivamente delle forti resistenze a ritornare su quel modello processuale perché lo si ritiene in qualche modo inadeguato rispetto ai fenomeni della criminalità terroristica internazionale e interna, domestica e, da ultimo, anche rispetto alle esigenze securitarie che stanno determinando l’approvazione del pacchetto sicurezza, la quale sta originando un’ulteriore anticipazione del momento dell’accertamento dei fatti nel rapporto fra pubblico ministero e polizia giudiziaria. Per cui la classe politica l’unica cosa che riesce in qualche modo a fare sono interventi frammentari che correggono alcune piccole patologie. Si consideri l’interrogatorio anticipato voluto da Nordio e il limite delle intercettazioni a 45 giorni. Si è intervenuti poi abrogando l’abuso d’ufficio. Sono interventi in qualche modo spot che però anche loro devono tener conto del contesto generale, si pensi al femminicidio. Ulteriore binario: la criminalità minorile con l’incremento delle fattispecie incriminatrici e l’inasprimento delle pene. Tutto questo con ricadute sul sistema penitenziario. L’ideologia del governo, della sua maggioranza non è in grado di suggerire ipotesi particolarmente garantiste che non siano quelle in qualche modo estemporanee e marginali dei singoli parlamentari che fanno parte delle forze di governo e i quali riescono, come dire, a erodere alcune patologie del sistema. In altri casi devono arrivare la Corte di Giustizia Europea e la Corte Costituzionale per ripristinare alcune garanzie. Pertanto, attualmente, una riforma complessiva del sistema processuale a favore di un sistema accusatorio puro non è possibile, non ci sono gli spazi, manca la convergenza di maggioranza e opposizione. Indubbiamente la separazione delle carriere metterà in moto, se si realizzerà e dovrebbe realizzarsi, delle dinamiche: in attesa di conoscere bene quale sarà il ruolo del pubblico ministero, il giudice potrà considerarsi terzo nella dialettica fra difesa e accusa. Certamente la riforma del dibattimento e delle garanzie dibattimentali fisserebbero bene i compiti del giudice, rafforzerebbero la dialettica processuale. *Giurista Il sequestro illegale, il concorso truccato, il bando su misura: storie di abusi che non sono più reato di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 17 giugno 2025 Uno studio della Statale di Milano passa in rassegna le vicende oggetto dei ricorsi alla Consulta, che ha legittimato l’abrogazione dell’abuso d’ufficio. E sottolinea “i gravi vuoti di tutela” lasciati dalla riforma del ministro. La pm che sequestra illegalmente le quote di una società per favorire un imprenditore amico. Il dirigente della Asl che nega il permesso di aprire nuovi ambulatori per evitare concorrenza a quello di suo figlio. I “baroni” universitari che aggiustano i bandi per assumere i loro protetti. Il commissario del concorso in magistratura che cerca di truccare la prova per aiutare un candidato amico. Sono tutti esempi (veri) di soggetti indagati e imputati per abuso d’ufficio e ora scagionati grazie alla legge Nordio, che ha abrogato il reato a partire dall’agosto 2024. A raccoglierli è stata un’assegnista di ricerca dell’Università Statale di Milano, Cecilia Pagella: in un articolo sulla rivista online Sistema penale - diretta dal professor Gian Luigi Gatta - la studiosa passa in rassegna i casi concreti sollevati alla Corte costituzionale dai 14 giudici (inclusa la Cassazione) che hanno sostenuto l’illegittimità della cancellazione della fattispecie per violazione della Convenzione Onu di Merida contro la corruzione. Una tesi rigettata dalla Consulta lo scorso 8 maggio, con il risultato che i procedimenti sospesi in attesa del verdetto - nonostante i (presunti) gravi soprusi commessi - finiranno o sono già finiti in fumo “perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato”. Le motivazioni della sentenza saranno depositate a breve, ma lo studio della Statale prende spunto dalle vicende oggetto dei ricorsi per “sottolineare ancora una volta i gravi vuoti di tutela” aperti dalla riforma del ministro della Giustizia, che lascia “sfornite di tutela penale” condotte dal “peso politico-criminale non trascurabile”. Il colpo di spugna più clamoroso riguarda i casi in cui l’abuso d’ufficio consiste(va) in una prevaricazione. In un piccolo comune in provincia di Avellino, ad esempio, un capogruppo di opposizione era stato dichiarato decaduto dal segretario comunale che lui stesso aveva denunciato per abusi edilizi: un atto secondo l’accusa illegittimo, perché basato su dimissioni in realtà mai rassegnate dal consigliere, e comunque emesso in violazione dell’obbligo di astensione. In primo e in secondo grado il segretario era stato condannato per abuso d’ufficio: dopo la cancellazione del reato, però, aveva impugnato la sentenza chiedendo l’assoluzione piena. E lo scorso febbraio la Sesta Sezione della Suprema Corte ha deciso di portare la questione alla Consulta, ultima a farlo in ordine di tempo. Il primo, invece, era stato a settembre il Tribunale di Firenze nel processo sul cosiddetto “caso Duchini”: Antonella Duchini, ex procuratrice aggiunta di Perugia, era accusata di aver sequestrato illegittimamente le quote di una società, in modo da consentire di comprarle “a un altro imprenditore con cui intratteneva una duratura relazione personale”. Infine c’è il caso sollevato dal gup di Locri, il cui protagonista è “il direttore dell’area dei servizi veterinari di un’azienda sanitaria, il quale serialmente negava ai richiedenti l’autorizzazione all’apertura o alla prosecuzione dell’attività di nuovi ambulatori al fine di assicurare che lo studio di cui era titolare il figlio non ne subisse la concorrenza”. Secondo la ricercatrice, le condotte di questo tipo sono ormai “penalmente irrilevanti”: l’unico reato astrattamente ipotizzabile, infatti, sarebbe la violenza privata, che però non è quasi mai applicabile in quanto presuppone l’uso di “violenza o minaccia” per “costringere” qualcuno a fare o subire qualcosa. Diversi invece i casi di abusi a vantaggio del privato, il cui esempio classico sono i concorsi truccati: l’articolo cita i processi sulle “concorsopoli” universitarie di Catania e Firenze, in cui rettori e professori sono accusati di aver cucito bandi su misura per i candidati prescelti. Ma tra le vicende rimesse alla Consulta ce n’era una particolarmente clamorosa, a giudizio di fronte al Tribunale di Roma: un tentativo di truccare il concorso per l’accesso in magistratura da parte di un membro della commissione. Secondo i pm l’imputato, professore universitario, non aveva dichiarato “un consolidato rapporto personale con uno dei candidati, che era anche suo dottorando e col quale aveva instaurato una relazione amicale che andava oltre i normali rapporti professionali”. E aveva concordato con lui una serie di “segni di riconoscimento” del suo tema, salvati sul proprio pc. La “furbata” non era andata in porto solo perché era stata scoperta da un altro commissario, che l’aveva prontamente denunciata. Anche queste ultime condotte, sostiene l’articolo, rimangono “sostanzialmente scoperte dal punto di vista penalistico”: il reato di turbativa d’asta, infatti, è stato reso inservibile da un recente cambio di orientamento della Cassazione, che consente di applicarlo solo alle gare per l’acquisto di beni e servizi e non alle procedure per la selezione di personale. Anche il nuovo reato di “peculato per distrazione”, introdotto dal governo contemporaneamente all’abolizione dell’abuso d’ufficio (per evitare procedure di infrazione da parte dell’Ue) “presenta margini talmente angusti da risultare sostanzialmente inutile”: il delitto infatti si configura solo quando i fondi pubblici sono destinati “a un uso diverso” da quello individuato dalla legge. E nel caso dei concorsi truccati questo requisito apparentemente non sussiste: le risorse, infatti, sono stanziate per assumere un tot (ad esempio) di ricercatori o magistrati, senza precisare che tipo di caratteristiche debbano avere. Insomma, conclude la studiosa, “c’è materiale in abbondanza per toccare con mano i vuoti di tutela che restano dopo l’abolizione dell’abuso d’ufficio. Vuoti che sta al legislatore, di oggi o di domani, colmare”. “Vogliono far dimenticare Enzo e la sua tragedia. Io non smetto di lottare” di Valentina Stella Il Dubbio, 17 giugno 2025 Il 17 giugno di quarantadue anni fa i carabinieri di Roma misero le manette ai polsi a Enzo Tortora. Oggi lo ricordiamo insieme alla sua storica compagna Francesca Scopelliti. Cosa ricorda di quel giorno? Io avrei dovuto raggiungere quella mattina Enzo a Roma e invece alle 07:30 mi chiamò Renata Pis, una mia amica giornalista di Repubblica, e mi disse “Francesca, hai sentito il telegiornale? Hanno arrestato Enzo”. È stato come cadere in un pozzo profondo di incomprensione, di incredulità, di confusione. Mi chiedevo com’era possibile che avessero arrestato Enzo. Io non ho mai avuto dubbi sulla sua integrità morale, onestà, per cui non riuscivo a capire quello che stava succedendo. A tanti anni da quel giorno, a che punto siamo? Da allora abbiamo avuto 26 governi, di tutti gli schieramenti politici, ma nessuno è riuscito a fare tesoro della vicenda Tortora, a farne uno studio, come una sorta di autopsia, capire quali siano state le cause. Eppure ancora oggi se qualcuno denuncia una storia di malagiustizia vi ritrova tutte le caratteristiche del caso Tortora: dalla carcerazione preventiva al processo mediatico, passando per una magistratura che dovrebbe fare più attenzione alla presunzione di innocenza sancita in Costituzione. Perché questo, secondo lei? Il nome di Enzo andava dimenticato, era come la polvere da mettere sotto il tappeto, in quanto rappresentava la cattiva coscienza di quella magistratura che lo voleva colpevole a tutti i costi e di quel giornalismo che lo aveva cannibalizzato. Con un esempio su tutti: quello di Camilla Cederna, che sulla Domenica del Corriere diede sostanzialmente ad Enzo del colpevole perché antipatico. Quello ad Enzo è stato il primo vero processo mediatico della nostra storia. Poi sono arrivati gli altri. È con Enzo che hanno fatto “il più grande spettacolo” come citava una trasmissione di Fiorello. Solo che era una tragedia, non era un bello spettacolo. Furono in pochi a difenderlo... Enzo Biagi scrisse una lettera intitolata “E se fosse innocente?”, sottoscritta anche da altri come Giorgio Bocca, Indro Montanelli e Piero Angela. C’erano autorevolissime voci di pensiero libero che si scagliarono contro l’inchiesta napoletana, ma oggi non sarebbe possibile perché il clima che si è instaurato è quello della gogna a tutti i costi e del fango, dei Travaglio e simili. A proposito di processo mediatico, oggi torna alla ribalta l’inchiesta Garlasco bis, che sta costruendo un nuovo mostro: Andrea Sempio. Da Enzo Tortora a Garlasco la situazione non è migliorata per nulla… Anzi è peggiorata anche a causa dei social e delle fake news che fanno macello della verità, della dignità, della reputazione di una persona. Questa nuova indagine sarebbe dovuta essere trattata nel silenzio del Palazzo, in maniera molto discreta, senza scatenare una tifoseria da stadio. Negli anni si è tentato di portare avanti riforme che riguardassero la magistratura. Secondo lei perché la politica non è riuscita? Erano quasi profetiche le parole che disse Leonardo Sciascia per il quale “quando si rimanda una riforma sulla giustizia e non la si piglia mai di petto, poi la si rimanda a peggior tempo”. E le cause sono diverse: una magistratura che esercita il suo potere, un popolo e una stampa forcaioli. Adesso forse si farà la separazione delle carriere… Io di questo sono molto felice. Faccio il tifo per il ministro Nordio e per Forza Italia. E spero che tengano duro rispetto alle resistenze di qualche forcaiolo leghista. Non dimentichiamo però che è stata rimandata la discussione sull’intitolazione del 17 giugno alla Giornata delle vittime degli errori giudiziari. Anche in questo caso la magistratura si è opposta: io trovo assurdo che l’ex presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia abbia detto che se venisse approvata ci sarebbe una sorta di disonore per l’intera categoria. Io credo che si disonorano da soli i magistrati quando fanno certi errori. E penso che in Italia ce ne siano molti. Il 21 dicembre si celebra la Giornata Mondiale dell’Orgasmo e noi non riusciamo ad avere una giornata dedicata alle vittime di malagiustizia. Si dice che la discussione è stata rimandata per portare a casa la separazione delle carriere. Va bene, però vi aspetto al varco. Per lo stesso motivo sono state rimandate anche altre riforme: come quella contro l’abuso della custodia cautelare, quella sulla responsabilità diretta dei magistrati, quella di Giachetti sulla liberazione anticipata speciale, e altre ancora... L’inerzia davanti a quello che sta succedendo in carcere è vergognosa. La proposta che aveva fatto Giachetti mi sembrava di grande saggezza ma la politica non fa nulla. Anzi aggrava la situazione approvando un decreto legge, quello sicurezza, che aumenta il numero delle fattispecie di reato e questo non fa altro che prevedere altro carcere per tutti. E la costruzione di un nuovo codice penale, come diceva Luciano Violante, non fa altro che dare maggior potere alla magistratura che sguazza come Paperone nelle sue monete d’oro. Non si discute ancora, benché sia stata calendarizzata, la legge “Sciascia Tortora” presentata da varie forze politiche (+ Europa. Pd, FI, Avs, Noi moderati) che prevede tra l’altro che il periodo formativo dei magistrati in carcere includa anche il pernotto... Alcuni magistrati, come il presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze, Marcello Bortolato, hanno sottoscritto la legge ma si è detto perplesso sul pernotto in carcere. E in un convegno ha aggiunto: “Uno che vince il concorso potrebbe dire ‘ che ho fatto di male per passare una notte in carcere?’”. E allora io, ironizzando, ho replicato: “Comprendo la sua compassione per il suo giovane collega, ma chi l’ha avuta per Tortora che ha trascorso sette mesi da innocente in galera?”. Lei porta avanti la battaglia di Enzo da tanti anni. Non è stanca? Non direi di provare stanchezza, ma amarezza. Forse perché ho sempre questa impressione di camminare su un tapis roulant dove fai tanta fatica e non porti a casa un risultato. E questo mi dà molto dolore. Quando io parlo e racconto dei casi di malagiustizia o di crimine giudiziario, quale è stato quello di Enzo Tortora, dico cose talmente semplici che dovrebbero essere recepite nello stesso modo in cui si sorseggia un bicchiere d’acqua. E invece no, perché non si trova mai una soluzione. In 42 anni quali sono i risultati che ha portato la vicenda di Enzo? A cosa è valso il sacrificio di Enzo Tortora? Vuole aggiungere qualcosa? Anche se non esiste ufficialmente, viviamo questa giornata come quella del ricordo delle vittime della giustizia. Come diceva Primo Levi, “chi dimentica il passato è condannato a riviverlo”. Cascina Spiotta, ancora abusi: intercettati anche gli avvocati di Paolo Persichetti L’Unità, 17 giugno 2025 A 50 anni di distanza dalla sparatoria, procura di Torino e procura nazionale antiterrorismo hanno autorizzato il monitoraggio di Burani, legale di Azzolini, e spiato Steccanella. Per fare luce sulla sparatoria che il 5 giugno 1975 vide la morte in circostanze sospette della brigatista Margherita Cagol, e il ferimento mortale dell’appuntato dei carabinieri Giovanni D’Alfonso il giorno successivo al sequestro, da parte della Brigate rosse, dell’imprenditore dello spumante Vallarino Gancia, procura di Torino e procura nazionale antiterrorismo hanno autorizzato a cinquant’anni di distanza il monitoraggio e l’intercettazione di dialoghi che riferivano il contenuto di conversazioni avute da un indagato con due avvocati. Indagine contro i difensori - I due legali, Davide Steccanella e Vainer Burani, hanno assunto le difese nel processo che si è poi aperto nel febbraio scorso davanti la corte d’assise di Alessandria, rispettivamente di Lauro Azzolini e Renato Curcio. I due legali hanno tutelato nel corso delle indagini anche altri ex Br considerati dalla procura “persone informate dei fatti”, chiamati a testimoniare nella qualità di ex imputati di procedimenti connessi: una posizione che prevede tutele particolari da parte del codice di procedura, come l’assistenza di un legale e la possibilità di avvalersi della facoltà di non rispondere. Nonostante i Ros di Torino fossero perfettamente consapevoli della funzione svolta dai due legali, non hanno esitato a pedinare, osservare e intercettare, la loro attività difensiva violando i principi di tutela della difesa previsti dalla costituzione e dallo stesso codice. Non è la prima volta che accade e non è nemmeno la prima straordinaria singolarità di questa sconcertante inchiesta, dove codice di procedura e diritti costituzionali delle persone sottoposte a indagine sono stati abusati ripetutamente. Monitorata l’attività dell’avvocato Burani - Secondo quanto riferito dagli inquirenti nelle informative inviate alla procura, l’interesse mostrato dalla persona attenzionata sulle nuove indagini condotte dalla procura sabauda sarebbe stato indizio di colpevolezza. Rivolgersi a un avvocato, per giunta vecchio amico e residente nella propria città di origine, Reggio Emilia, come è accaduto a Lauro Azzolini quando il 6 febbraio 2023 si è recato presso lo studio di Vainer Burani, “che, si ricorda, non era il suo difensore”, sottolinea l’estensore dell’informativa, sarebbe stato un fatto illecito, come se un imputato non avesse il diritto di ascoltare altri avvocati. Nell’informativa che porta la data del 28 febbraio successivo, i carabinieri censurano l’incontro ritenendolo una prova della volontà di inquinare le prove, una dimostrazione anticipata di colpevolezza. Il tutto secondo una vecchia logica inquisitoriale per cui nel corso di una indagine la pubblica accusa e le forze di polizia delegate alle indagini hanno la massima agibilità di manovra, possono qualunque cosa (persino indagare una persona già prosciolta in passato), mentre la persona attenzionata o indagata, non può nulla. Se si muove per attingere informazioni e capire cosa stiano facendo gli inquirenti, non solo dimostra anticipatamente la propria colpa ma si macchia del reato di inquinamento delle prove. E se questo accade tra ex appartenenti a un gruppo politico: sentirsi al telefono come è accaduto ad alcuni di loro (legati da affinità amicali o perché detenuti nel medesimo carcere in passato), oppure incontrarsi occasionalmente nel corso di una presentazione di un libro, dimostrerebbe la persistenza del vecchio legame associativo. “Oggi sono un’associazione di pensionati con le stesse idee”, ha dichiarato l’ex magistrato Guido Salvini, divenuto nel frattempo legale delle parti civili nel processo. Nell’ottobre del 2022 era uscita una intervista all’ex colonnello Luciano Seno, uno dei responsabili del nucleo speciale dei Carabinieri diretto dal generale Dalla Chiesa, che era intervenuto nelle indagini. Seno che era stato appena ascoltato dai pm aveva rivelato che le nuove indagini indirizzavano la loro attenzione nei confronti di Lauro Azzolini. Due libri e diversi articoli di stampa avevano riacceso l’attenzione sulla vicenda. La procura aveva iniziato a convocare alcuni ex appartenenti alle Br della prima ora che avevano cominciato a chiedersi cosa stesse accadendo, il perché della nuova inchiesta per un fatto prescritto (il rapimento) e una sparatoria rispetto alla quale i carabinieri e le autorità avevano sempre mostrato nei decenni precedenti disinteresse, voglia di non approfondire circostanze che potevano riaprire l’attenzione sulla morte mai chiarita di Mara Cagol. Intercettato il contenuto della conversazione con l’avvocato Steccanella - Dopo il monitoraggio dell’avvocato Burani, il 25 maggio del 2023 i carabinieri del Ros prendono di mira anche l’avvocato Steccanella, solo perché un amico della coppia Azzolini-Sivieri (difesi da Steccanella), intercettato nel corso di una precedente conversazione, era stato convocato in procura. Il teste, la cui unica colpa era quella di essere divenuto amico in anni recenti della moglie di Azzolini, era stato chiamato per riferire su una conversazione avuta conquest’ultimo, ritenuta rilevante sul piano probatorio. Preso dal panico il testimone, totalmente ignaro di vicende giudiziarie, chiese alla sua amica Biancamelia Sivieri, anch’essa ex appartenente alle Br milanesi, di parlare con l’avvocato Steccanella per essere rassicurato. L’incontro veniva monitorato dai Ros che successivamente intercettavano la conversazione intercorsa tra Azzolini e Sivieri sul contenuto dell’incontro ricavandone l’abusivo sospetto di subornazione del teste da parte dell’avvocato. Una velenosa insinuazione introdotta nelle carte dell’indagine che si è risolta solo nell’udienza del 20 maggio scorso, quando davanti alla pretesa della pubblica accusa di sentire in aula il carabiniere autore dell’informativa, difronte alla rimostranze molto forti dell’avvocato Steccanella che aveva rimesso il suo incarico nelle mani della corte chiedendo di sapere se il processo contro il suo difeso Lauro Azzolini si stava trasformando nel processo contro il suo difensore, la corte ha rinunciato all’esame del carabiniere riconoscendo la piena correttezza dell’operato del legale. Una situazione analoga si ripresenterà nella prossima udienza del 17 giugno dove è prevista la deposizione del carabiniere che ha condotto il monitoraggio dell’incontro tra Azzolini e l’avvocato Vainer Burani. La minaccia contro Maraschi - Non avendo grandi argomenti per puntellare il proprio teorema accusatorio, in particolare contro Curcio e Moretti, l’accusa getta fango sulle difese e come se non bastasse è venuta dai legali della parte civile, Brigida e Salvini, la richiesta di vietare a Massimo Maraschi che sarà in aula martedì 17, condannato all’epoca per il rapimento Gancia e la sparatoria nonostante fosse nelle mani dei carabinieri già da 24 ore, di mantenere la posizione tenuta nel corso del suo processo, obbligandolo a trasformarsi in un collaboratore di giustizia. Tutelare gli innocenti, la “notizia” non è tutto: parola della Cassazione di Antonio Alizzi Il Dubbio, 17 giugno 2025 C’è voluta la Suprema corte per “far sparire” dalla rete i servizi con vecchie accuse (in seguito smentite) a un immobiliarista. Nel sempre più articolato equilibrio tra diritto all’informazione e diritto all’oblio, la prima sezione civile della Cassazione segna un nuovo punto fermo, ribaltando una decisione che aveva negato la deindicizzazione di alcuni “Url”, cioè indirizzi web, da parte di un noto motore di ricerca, contenenti notizie che continuavano ad associare il nome del ricorrente a un’indagine per mafia, nonostante la sua assoluzione definitiva. Con sentenza numero 14488/ 2025, depositata il 30 maggio scorso, la Suprema corte ha cassato con rinvio, sottolineando la necessità di un bilanciamento “effettivo e ragionevole” tra il diritto alla riservatezza e la libertà di cronaca, soprattutto quando in gioco c’è la reputazione di chi è stato riconosciuto innocente. Il protagonista della vicenda giudiziaria era stato arrestato nel novembre del 2011 con l’accusa di associazione mafiosa, in quanto ritenuto vicino alla cosca di ‘ ndrangheta operativa nella zona dell’Expo di Milano. Dopo l’assoluzione in primo grado e la condanna in appello, la Cassazione, nel 2015, lo aveva definitivamente assolto da ogni addebito relativo all’appartenenza a un sodalizio criminale. Tuttavia, digitando il suo nome sui motori di ricerca, continuavano ad apparire numerosi articoli di stampa che facevano riferimento alla fase iniziale delle indagini, omettendo l’esito finale del processo. Nel 2022, l’uomo aveva chiesto al motore di ricerca la rimozione (cioè la deindicizzazione) di 14 “Url” contenenti notizie che lo associavano al clan mafioso, invocando il diritto all’oblio sancito dall’articolo 17 del Regolamento europeo sulla protezione dei dati (Gdpr). Dopo una prima rimozione parziale, nel febbraio 2022 aveva constatato la persistenza di quattro link rimasti attivi. Di fronte al rifiuto del gestore del motore di ricerca, l’uomo aveva proposto ricorso. Il Tribunale aveva rigettato la domanda per i quattro “Url” residui, sostenendo che il diritto all’oblio, pur essendo un diritto fondamentale, deve essere bilanciato con il diritto all’informazione e alla cronaca giudiziaria, tutelato dall’articolo 21 della Costituzione. Secondo i giudici di merito, la collettività avrebbe ancora un interesse attuale a conoscere le vicende giudiziarie dell’imprenditore, anche in considerazione della sua precedente candidatura alle elezioni comunali e del ruolo nel settore immobiliare. Inoltre, avevano ritenuto non rilevante il tempo trascorso, individuando come “dies a quo” la data della sentenza di assoluzione del 2015 e non quella ben più remota della pubblicazione degli articoli (risalenti anche al 2010). La Cassazione ha accolto il ricorso, affermando che il Tribunale ha errato nel non tenere conto del fattore temporale e dell’esigenza di aggiornamento delle informazioni accessibili online. In particolare, i giudici hanno ritenuto che la sentenza impugnata non abbia adeguatamente considerato due profili fondamentali. Il primo riguarda l’obsolescenza della notizia. Per gli ermellini, gli articoli in questione riportavano ancora l’accusa di affiliazione mafiosa, nonostante fosse stata superata da una sentenza definitiva di assoluzione. In particolare, tre dei quattro “Url” contestati continuavano a proporre l’uomo come esponente di un clan mafioso, ignorando del tutto l’esito del processo. In secondo luogo, la Suprema corte ha rilevato l’assenza di un effettivo bilanciamento. Il Tribunale avrebbe dovuto esaminare se l’interesse della collettività a conoscere quella specifica notizia fosse ancora attuale, e se la permanenza del collegamento ipertestuale sui motori di ricerca fosse proporzionata rispetto al danno reputazionale subito dall’interessato. Inoltre, i contenuti contestati non contenevano alcuna nota che aggiornasse il lettore sull’esito finale del procedimento, né erano confinati agli archivi storici dei giornali, come invece suggerito dalla giurisprudenza consolidata. La Cassazione, entrando nel merito della decisione, ha richiamato un consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui il diritto all’oblio consiste nel non rimanere esposti senza limiti di tempo ad una rappresentazione non più attuale della propria persona. In poche parole, davanti a una notizia obsoleta, il soggetto ha diritto alla deindicizzazione se non ricopre un ruolo pubblico di rilievo e se non sussiste un interesse effettivo e concreto alla sua esposizione continua sul web. Secondo i giudici, il fatto che il ricorrente si fosse candidato alle elezioni comunali e svolgesse attività imprenditoriale a livello locale non era sufficiente per attribuirgli lo status di personaggio pubblico di rilevanza nazionale. In definitiva, una notizia accessibile online che non sia aggiornata e che non rifletta l’evoluzione giudiziaria successiva può ledere il diritto all’identità personale e alla riservatezza, e quindi deve essere rimossa o deindicizzata, a meno che non sussistano interessi pubblici prevalenti e concreti. Sicilia. Carceri, l’associazione Coscioni: “Quadro complesso e a tratti allarmante” meridionews.it, 17 giugno 2025 “La situazione delle strutture penitenziarie in Sicilia presenta un quadro complesso e, in diversi casi, allarmante”. A dirlo è l’associazione Luca Coscioni, rendendo pubbliche le relazioni redatte dalle Aziende sanitarie locali in merito alle visite effettuate negli istituti penitenziari italiani. I documenti, ottenuti grazie a un accesso civico avviato lo scorso dicembre, spiega l’associazione, costituiscono “un primo passo per fare luce sulle condizioni, spesso opache, delle carceri italiane”. Per quanto riguarda la Sicilia dall’analisi delle risposte fornite dalle Asp nell’ambito delle richieste di accesso agli atti, emergono “dati parziali, assenza di documentazione e condizioni igienico-sanitarie spesso insufficienti o appena accettabili”. L’Azienda sanitaria provinciale di Agrigento, sottolinea l’associazione Luca Coscioni, ha comunicato, il 24 dicembre scorso, che “la richiesta di accesso è stata inoltrata al dipartimento Cure primarie dell’Azienda, senza fornire ulteriori dettagli”. L’Asp 3 di Catania, invece, “ha rigettato formalmente l’istanza, citando l’art. 5, comma 5 del decreto legislativo 33/2013, secondo cui la diffusione dei documenti potrebbe compromettere la sicurezza pubblica. È stata presentata istanza di riesame, attualmente in attesa di riscontro. Si evidenzia, inoltre, l’assenza di linee guida interne per l’esecuzione delle visite ispettive”, spiega l’associazione. Per quanto riguarda Caltanissetta emergono condizioni di sovraffollamento e carenze strutturali. “L’unica relazione ricevuta dall’Asp 2 di Caltanissetta - dice l’associazione Luca Coscioni - riguarda la casa circondariale del capoluogo, dove si segnala un sovraffollamento (221 detenuti per 183 posti disponibili), l’assenza di contenitori isotermici per i pasti e la necessità di risanamento dell’intonaco in alcune aree. I controlli sull’acqua sono risultati conformi. Il giudizio complessivo è sufficiente”. Visite regolari e criticità contenute a Enna, dove l’Asp 4 ha fornito riscontri relativi agli istituti di Enna e Piazza Armerina, visitati nel 2020, 2022 e 2024. “Le condizioni risultano complessivamente buone, con l’unica osservazione di muffa localizzata nel tetto delle cucine della casa circondariale di Enna”, sottolinea l’associazione. A Palermo, invece, condizioni di necessità di interventi. L’Asp 6 segue gli istituti Ucciardone, Pagliarelli e Termini Imerese. All’Ucciardone sono state riscontrate discontinuità nella pavimentazione della cucina, umidità alle pareti e usura in varie sezioni detentive, con bisogno di interventi nelle aree comuni. Al Pagliarelli, le ispezioni del 2022-2023 descrivono una struttura con condizioni appena accettabili: umidità diffusa, problemi nell’erogazione dell’acqua calda, climatizzazione non funzionante e preparazione dei pasti ancora localizzata nella sezione Laghi. La casa circondariale di Termini Imerese mostra condizioni “accettabili, ma non prive di problematiche”. Nel carcere di Ragusa, la situazione igienico-sanitaria è nel complesso positiva, seppur con segnalazioni di screpolature e umidità nei soffitti di celle e bagni. Preoccupano l’accumulo di masserizie inutilizzate nei cortili interni e la gestione dei rifiuti speciali provenienti dall’infermeria. A Trapani, invece, “criticità sistemiche e sollecitazioni ignorate”. Nel carcere di Favignana si registrano intonaci scrostati, umidità diffusa, impianti malfunzionanti e celle inagibili. “Le precedenti segnalazioni non hanno prodotto alcun riscontro pratico da parte dell’amministrazione”, dice l’associazione Luca Coscioni. Analoghe le condizioni nel carcere di Trapani, dove oltre a carenze strutturali e igieniche, si segnala una sezione priva di riscaldamento, servizi igienici con aerazione insufficiente e ambienti non ispezionabili a causa di proteste dei detenuti. La casa circondariale di Castelvetrano risulta invece in condizioni generalmente buone. Sardegna. Sanità penitenziaria: cosa ci dicono (e cosa non ci dicono) le Asl di Francesca Arcai sassaritoday.it, 17 giugno 2025 Salute negata dietro le sbarre: in Sardegna celle sovraffollate, carenza di medici, zero ispezioni. L’indagine dell’Associazione Luca Coscioni denuncia un sistema penitenziario opaco, dove il diritto alla cura resta sulla carta. Ci sono celle affollate, letti a castello incastrati nei pochi metri quadrati disponibili e infermerie con turni scoperti. Ci sono relazioni ufficiali che parlano di “rispetto degli standard”, ma poi mancano le ispezioni, i medici, gli strumenti. C’è chi ha risposto con un paragrafo e chi non ha risposto affatto. È questo il quadro che emerge in Sardegna dal monitoraggio sulla sanità penitenziaria condotto dall’Associazione Luca Coscioni, che ha ottenuto l’accesso agli atti delle Asl italiane per fare luce su un tema troppo spesso ignorato: la salute nelle carceri. Secondo i dati aggiornati al 31 luglio 2024, nell’isola si contano 2.178 detenuti (2.128 uomini e 50 donne) a fronte di una capienza regolamentare decisamente inferiore. Il sovraffollamento è all’83 per cento, e in alcuni istituti si supera il 100%. Ma il vero problema - denuncia l’associazione - è che manca un quadro trasparente e completo delle condizioni sanitarie negli istituti penitenziari. Troppe informazioni assenti, troppi vuoti istituzionali. L’Asl 1 di Sassari ha inviato una semplice descrizione dell’organizzazione sanitaria all’interno del carcere. Nessuna relazione tecnica, nessun dettaglio sulle ispezioni, né sulle condizioni igienico-sanitarie. Si parla genericamente di rispetto degli standard, ma senza alcuna evidenza oggettiva a supporto. Una dichiarazione d’intenti, non un riscontro reale. L’Asl 5 di Oristano ha trasmesso solo la relazione annuale del medico responsabile. Il nodo centrale? Mancano i medici, e per coprire i turni si ricorre a liberi professionisti. Una toppa usata spesso in Italia, ma che non garantisce né continuità né qualità. Una sanità precaria per una popolazione detenuta che ha bisogno di cure stabili e professionali. Nuoro: qualche dato in più, ma sempre senza sopralluoghi Più completa la documentazione dell’Asl 3 di Nuoro, che include l’analisi delle acque, l’elenco dei protocolli in caso di tentato suicidio, e una panoramica dei servizi sanitari. Ma anche qui non c’è traccia di ispezioni recenti né di controlli sul rispetto effettivo delle condizioni igieniche e strutturali. Nel carcere di Arbus, sotto l’Asl 6 - Medio Campidano, viene riconosciuto formalmente il rispetto degli standard igienici. Tuttavia, la relazione evidenzia gravi carenze organizzative e nella dotazione di attrezzature mediche, che mettono in discussione l’efficienza stessa del servizio. E poi ci sono i territori da cui non è arrivata nessuna risposta: Gallura (Asl 2), Ogliastra (Asl 4) e Cagliari (Asl 8). Tre zone dove esistono istituti penitenziari, ma nessuna informazione è stata trasmessa. Nessun documento, nessuna verifica. Nessuna tutela. Una questione di diritti - L’indagine della Coscioni è una fotografia parziale, ma già sufficiente a dire che la salute dei detenuti in Sardegna non è sotto controllo. Mancano i riferimenti a direttive regionali, reazioni istituzionali, progetti di miglioramento. Tutto questo in un sistema carcerario dove - a livello nazionale - il sovraffollamento ha toccato il 134 per ento, con 62.722 detenuti su una capienza reale di poco più di 46mila posti. Nel frattempo, l’Associazione Luca Coscioni ha attivato Freedom Leaks, una piattaforma anonima per segnalare violazioni dei diritti sanitari nelle carceri. Genova. Emergenza nel carcere di Marassi, Ostellari: “Un provveditorato in Liguria” di Stefano Origone La Repubblica, 17 giugno 2025 Entro due anni un Provveditorato regionale con sede a Genova dell’amministrazione penitenziaria, autonomo rispetto a Piemonte e Valle d’Aosta, che si occuperà concretamente dei programmi di recupero, formazione e lavoro per il reinserimento nella società del detenuto. Poi l’individuazione della nuova Casa circondariale per la provincia di Savona e l’eventuale progetto di spostamento di quello di Genova (idea lanciata dal centrodestra in campagna elettorale). Sono questi i temi principali che il sottosegretario alla Giustizia con delega ai Provveditorati e al trattamento dei detenuti, Andrea Ostellari, ha affrontato con la direttrice del carcere di Marassi, Tullia Ardito, e l’assessore alla Sicurezza della Regione Liguria, Paolo Ripamonti, nel corso della visita al carcere di Marassi. Lei ha una delega al trattamento dei detenuti, come è la situazione che ha riscontrato a Marassi, dove da anni il problema è il sovraffollamento, ma nel giro di una settimana c’è stata anche la rivolta causata dal caso del giovane detenuto violentato e delle guardie che per tre giorni non se ne sono accorte, e l’evasione di due detenute da Pontedecimo? Tutto in pochi giorni. “Ho parlato con il personale, la direttrice, ho visitato le sezioni. Il sovraffollamento esiste, nessuno lo nasconde. Ma ci sono tante ricette per affrontare questo tema, come la formazione-lavoro. Ci sono degli spazi che stanno per essere implementati, con una visione di centralità del lavoro. Serve una capacità di coinvolgimento della città, perché per fare attività lavorative è necessaria una disponibilità”. Per quanto riguarda la rivolta? “Non parlo di questo. Questa era una visita programmata. Parliamo di una cosa positiva, abbiamo bisogno di cose positive”, taglia corto Ostellari, che mette in dubbio l’iniziativa delle assessore comunali Cristina Lodi al Welfare e alla Sicurezza, Arianna Viscogliosi, che vogliono rifondare la consulta Carcere-Città per progetti concreti di reinserimento. “Non abbiamo bisogno delle consulte, ma di programmazione vera, di pragmatismo. Se loro hanno qualcuno disponibile ad entrare nel mondo del carcere per investire davvero, siamo a disposizione, se invece vogliono fare solo per costituire tavoli, quelli non servono”. Ostellari ha poi illustrato i benefici che porterà il Provveditorato dedicato alla Liguria con sede a Genova, mentre ora la gestione è interregionale a Torino. “Oggi il Provveditorato ha più regioni, questo è un territorio che ha bisogno di una sua specificità - ha sottolineato il sottosegretario -. Fare questo significa investire in sicurezza all’interno degli istituti, ma con una visione chiara del territorio e dell’esecuzione penale, sulla quale stiamo investendo molto in termini di numeri di assunzioni, in termini di strutture”. Il nuovo Provveditorato, come detto, aiuterà nel percorso di individuazione dell’area in cui verrà costruito il nuovo carcere per la provincia di Savona “perché averlo chiuso ogni presidio è stato un errore”, ammette il senatore della Lega. L’esigenza di iniziare un vero programma di reinserimento è uno dei punti principali, visto che a Marassi, per esempio, c’è solo il panificio che dà lavoro a otto detenuti e sta per riaprire la falegnameria. “Il recupero del detenuto non è solo a parole, ma lo vogliamo fare attraverso la formazione e attraverso il lavoro. Chi impara qualche cosa all’interno di questo circuito di recupero, per il 98% dei casi quando esce non delinque più e quindi si raggiungono due obiettivi: uno che è quello sancito dalla nostra costituzione, ma l’altro è che in qualche modo facciamo sicurezza anche per le nostre città del futuro. Abbiamo già investito sui funzionari pedagogici, che sono fondamentali all’interno degli istituti. E abbiamo investito anche sugli psicologi”, conclude Ostellari. Torino. Situazione critica all’Ipm. “Il sovraffollamento aumenta la conflittualità” di Rebecca De Bortoli Corriere di Torino, 17 giugno 2025 Non accenna a diminuire il problema dei minori sottoposti a custodia in carcere. Al minorile i numeri nel 2025 confermano una crescita che è un raddoppio: nel 2023 la media era stata di 30-40, oggi siamo tra 55 e 60 ragazzi detenuti in uno spazio che dispone di 46 posti. E l’emergenza continua. Tutto questo nonostante non emerga una correlazione fra l’aumento di minori sotto custodia e quello dei reati. Da un punto di vista nazionale le denunce nei confronti dei minori sono costanti, a Torino sino al 2023 erano in diminuzione rispetto ai dati nazionali. Ma se entrare in carcere sembra diventato più facile, uscirne è più difficile. “Quando parliamo di criminalizzazione parliamo non solo di quanti crimini vengono commessi ma di cosa vogliamo controllare - analizza Daniela Ronco, docente di giurisprudenza all’università di Torino e impegnata con l’associazione Antigone - in questo momento storico si è scelto di concentrarsi sui giovani, visti come un problema. Se si investono più risorse per controllare un comportamento si troveranno maggiori reati. E il decreto Caivano aumenta gli ingressi nel penitenziario minorile, permettendo di mandare tutti in custodia cautelare in carcere. Questi dati, aggiunti alla difficoltà di trovare disponibilità nelle comunità per far scontare le misure alternative, creano sovraffollamento, insolito, cioè brandine da campeggio messe nelle celle per aggiungere posti. E questo logicamente peggiora la vita detentiva, accrescendo la conflittualità”. La professoressa Ronco ha una sua teoria sulla percezione del problema. “La mediatizzazione sulla pericolosità di alcune fasce della popolazione e di alcune zone della città ci fa percepire un peggioramento che non c’è”. “C’è invece una più difficile integrazione, che rende il disagio più visibile: la repressione e la punizione da sole non risolvono - interviene il professor Torrente dell’università di Torino -. Se si tagliano risorse su integrazione e accoglienza e sul lavoro aumenteranno le situazioni di disagio. Se al di fuori del carcere i detenuti non hanno nulla a cui tornare non saranno incentivati ad avere pene ridotte e preferiranno ribellarsi, come nell’agosto scorso: che tu abbia commesso o meno il crimine devi avere delle opportunità di sviluppare le competenze che ti daranno possibilità al di fuori, cosa che in carcere non avviene”. Milano. Garante dei detenuti. Le candidature per il dopo-Maisto: in campo Mandreoli e Pagano di Massimiliano Mingoia Il Giorno, 17 giugno 2025 C’è tempo fino al 30 giugno. Lettera di Cgil, Mirabelli e Pirovano al sindaco a favore del sindacalista. Giungi (Pd) per l’ex direttore di San Vittore: ha fatto tanto contro il sovraffollamento e ha inventato l’Icam. Luigi Pagano o Corrado Mandreoli? L’ex direttore del carcere di San Vittore o il sindacalista con esperienze nell’Osservatorio Carcere e Territorio, nella cooperazione e nella Cgil? Chi sarà il successore di Luigi Maisto, a fine mandato, come garante dei detenuti nominato dal Comune di Milano? C’è tempo fino al 30 giugno per presentare anche altre candidature. Il dibattito, intanto, si accende grazie a una lettera inviata al sindaco Giuseppe Sala da parte dei sostenitori di Mandreoli. Tra i firmatari ci sono la presidente del Municipio 9 Anita Pirovano, il senatore del Pd Franco Mirabelli, il segretario generale Cgil di Milano Luca Stanzione, Valeria Verdolini, presidente lombarda di Antigone, l’Osservatorio Carcere e Territorio di Milano, Cnca Lombardia, il Forum Terzo Settore di Milano, l’Arci, la Fondazione Casa della Carità e la Caritas. Nella loro missiva indirizzata al primo cittadino, si legge che in un momento segnato da gravi criticità all’interno degli istituti di pena, dal sovraffollamento della Casa Circondariale di San Vittore alla condizione dell’Istituto penale minorile Cesare Beccaria, fino alle costanti violazioni nei Cpr come quello di via Corelli, i firmatari chiedono che la scelta del nuovo Garante sia frutto di un confronto pubblico e attento, e che venga affidata a una figura di comprovata esperienza e profondo radicamento nel tessuto sociale milanese. Non solo. La lettera, a questo punto, si trasforma in un esplicito endorsement: “Corrado Mandreoli ha dedicato oltre quarant’anni al lavoro sociale, sindacale e di tutela dei diritti delle persone più fragili. La sua esperienza nell’Osservatorio Carcere e Territorio, nella cooperazione e nella Cgil, unita al suo impegno con Resq e alla profonda conoscenza del tessuto cittadino, ne fanno il candidato ideale per affrontare con umanità e competenza le sfide connesse alla privazione della libertà”. E ancora: “Crediamo che la figura di Mandreoli possa garantire continuità al lavoro svolto da Maisto e offrire alla città uno sguardo attento, competente e capace di costruire relazioni tra istituzioni, cittadini e persone detenute”. Il vicepresidente della sottocommissione Carcere del Comune, il consigliere del Pd Alessandro Giungi, si schiera con Pagano: “Pagano e Mandreoli sono due ottime candidature. Personalmente, conosco meglio Pagano. La sua attività è stata fondamentale non solo per il carcere di San Vittore, ma per tutte le carceri italiane, soprattutto sul tema del sovraffollamento delle strutture. In più Pagano ha inventato l’Icam, cioè l’Istituto a custodia attenuata per detenute madri, portando l’asilo con mamme e figli fino ai tre anni fuori dalle mura di San Vittore”. Agrigento. Al Petrusa nasce l’olio “La Rupe”, ecco il progetto di rieducazione dei detenuti agrigentonotizie.it, 17 giugno 2025 Le piante si trovano all’interno dell’area del penitenziario, è un’azienda del territorio ad aver gestito le fasi di produzione. Si chiama “La Rupe” l’olio extravergine d’oliva estratto dai frutti degli alberi della casa circondariale “Pasquale Di Lorenzo” e raccolti dai detenuti. Si tratta del progetto di rieducazione “Viaggiare su un filo d’olio” nato dalla collaborazione tra l’istituto di pena e una nota azienda di olivicoltura del territorio. L’iniziativa è stata avviata nell’autunno scorso ed ha impiegato tre detenuti che hanno materialmente raccolto le olive che poi sono state portate in frantoio. Il prodotto, un eccellente olio extravergine di oliva imbottigliato e che non sarà venduto ma offerto in beneficenza. In mattinata, l’olio “La Rupe” è stato presentato nei locali del carcere di contrada Petrusa alla presenza di tutti gli attori coinvolti nel progetto. “è un’attività che continuerà anche in futuro - dice ai microfoni di Agrigento Notizie la direttrice del carcere, Anna Puci - per dare degli strumenti che potranno servire al detenuto, quando sarà libero, per sviluppare una eventuale attività lavorativa”. Verona. “Libertà vo cercando”: come Dante fuori da Montorio di Elisabetta Cassano digitradio.it, 17 giugno 2025 È il momento di confrontarsi al Veronetta Contemporanea Festival sulla realtà del carcere o meglio su cosa fare durante ed eventualmente dopo il periodo di detenzione. A condividere le loro esperienze, successi e qualche delusione dal mondo no profit Elena Brigo (Panta Rei) e Federica Collato (Reverse), Alessandro Anderloni (attore e regista) e, a far da moderatore e soprattutto a fornire le coordinate in cui collocare esperienze alternative al chiudere le porte e dimenticarsi di chi viene privato della libertà a causa dei reati commessi, Ivan Salvadori dell’Università di Verona nel talk “Libertà vo cercando: arte, cultura e lavoro nel carcere di Montorio” svoltosi nel Polo Universitario di Santa Marta. Certo i fatti parlano ma le cifre non possono essere rimosse: al 31 maggio 2025 secondo i dati forniti dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria nei 190 istituti di detenzione penitenziaria erano detenute 62.761 persone, di cui 2.737 donne; gli stranieri erano 19.810. Il carcere di Montorio a Verona su 335 posti disponibili ospita al momento 621 detenuti. Secondo i dati del garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale l’indice di sovraffollamento della casa circondariale di Montorio è attorno al 183,33%: numeri che rendono la complessità delle condizioni di vita in cui si trovano detenuti e detenute, che occupano il doppio dei posti disponibili. Cosa possono fare la cultura e il lavoro per rendere più umano, sociale e utile il carcere? E cosa può o meglio fa l’arte lo racconta Alessandro Anderloni, dal 2014 direttore di teatro a Montorio, evocando davanti al pubblico l’immagine di un detenuto da lui seguito con lo sguardo al momento di lasciare il carcere. Se chi non ha mai attraversato l’esperienza può immediatamente pensare alla felicità, non è così scontato che le stesse emozioni accompagnino chi ha scontato la pena comminata e ritorna in libertà. Quello, e qui concordano tutti i presenti, può essere un momento traumatico, drammatico. Anderloni ci fa vedere un individuo che lascia un posto a lui noto con un sacco nero di immondizia che contiene tutto quello che ha, pochissimo. Non ha di norma nemmeno un cellulare. Cosa trova oltre il cancello? La città ha fatto molto per isolare, tenere lontano quel mondo chiuso, eliminando la cabina telefonica e qualche anno fa la fermata degli autobus vicina al carcere. Dove va chi non ha una rete familiare o amicale? Il regista lavora all’interno di quel mondo a parte dove i bisogni sono quelli di un qualsiasi essere umano nella declinazione individuale e personale che ognuno ha del concetto di libertà, a volte, sempre più spesso in carcere, anche intesa come libertà dalla vita attraverso il suicidio. Ed ecco il potere dell’arte, il salto è così rapido da lasciare inizialmente smarriti: due anni fa il regista lavora al I canto del Purgatorio con i detenuti: Dante e la sua guida Virgilio abbandonano la città dolente (il luogo del fine pena mai).”Chi siete voi che, contro il cieco fiume / fuggita avete la prigione eterna?” così, malamente, vengono apostrofati dal custode del Purgatorio, il senatore Catone, che per amore della libertà politica, per il suo ideale repubblicano, ha rinunciato alla libertà di vivere. Non è difficile trasporre la reazione di Catone a quella di un comune cittadino di fronte ad un carcerato che lascia il luogo di detenzione e si trova fuori, accompagnato dal suo anelito di libertà. Quali riflessioni possono scavare in un individuo in carcere le terzine dantesche? Il Purgatorio è poi così lontano dalle funzioni di un carcere? Perché il Sommo Poeta sceglie come custode di questo luogo di permanenza temporanea, di redenzione, un suicida? Ma anche lo stesso smarrimento, la difficoltà che Dante prova nel riabituarsi a camminare sulla sabbia uscito dall’inferno è quella confessata al regista da un detenuto dopo aver passato 9 anni in isolamento, al momento di ritrovarsi sotto i piedi qualcosa che non fosse il cemento della cella. Proprio questo vuol dire fare teatro per un condannato: avere voce per raccontarsi, per essere visibile e fare esperienza di altro da sé. Lascia basiti sentire dal drammaturgo che i detenuti non gradiscono commedie o teatro leggero. Hanno bisogno di riflettere con testi che scavano dentro, che mettono in discussione e consentono di mettersi in gioco sul palco, come l’Ulisse dell’Odissea nella lettura di Kazantzakis, testo che sarà messo in scena a Montorio il prossimo 24 giugno dopo 3 anni di lavoro. Elena Brigo e Federica Collato presentano il lavoro che quotidianamente le loro associazioni no profit svolgono in e con il carcere, partendo da qualche dato: il 64% di condannati stranieri spesso è privo di dimora, senza risorse economiche e senza rete familiare. Il rischio di recidiva una volta estinta la pena è del 70%. Con un percorso di misure alternative, a cominciare dal lavoro, di sviluppo di competenze anche di base e di inserimento in un contesto sociale, questa percentuale si abbassa al 14%, con un beneficio evidente anche per la società che deve riaccogliere chi ritorna. Rieducare e risocializzare attraverso l’impegno lavorativo sia in carcere con piccole mansioni oppure all’esterno con tirocini ed acquisizione di competenze da spendere magari fuori. Panta Rei entra a Montorio su invito della direttrice, in quanto specializzata nel lavoro con soggetti fragili dal punto di vista psichiatrico. La casa circondariale pullula di elementi fragili, in particolare le donne che soffrono un luogo che in ogni centimetro è impregnato dell’impronta maschile. Vari i progetti implementati dall’associazione, come ad esempio la produzione di marmellate con frutta e verdura di scarto, e quindi destinata a esser buttata via oppure un forno per biscotti, crackers e prodotti da panificio. Per molti detenuti l’esperienza lavorativa è la prima nella loro vita come anche piccoli problemi che per “gli altri” sono incombenze quotidiane: il medico di famiglia, i piccoli acquisti come le sigarette, il cellulare, o essere nel verde di una villa come Villa Buri per servire in un bar. O creare allestimenti in legno, e sentirsi coinvolti anche in un’operazione di recupero dell’artigianato locale in chiave moderna lavorando nel design artigianale con l’associazione Reverso, che ha allestito un’intera falegnameria in carcere, e giorno dopo giorno, dà la possibilità a chi magari non ha alle spalle nemmeno un giorno di lavoro di creare o seguire tutto il percorso dalla nascita di un’idea fianco a fianco con un architetto alla sua realizzazione, di sperimentarsi nell’imparare regole come la puntualità o la collaborazione con compagni di detenzione come mai avrebbero mai immaginato nella vita precedente. Un esempio: un detenuto con tatuaggi nazisti chiamato a lavorare fianco a fianco con un altro “ospite” di colore. Due sentieri interrotti che si incontrano; due destini che si confrontano e cominciano a rispettarsi. Ogni cittadino è chiamato a fare la sua parte: come volontario, come imprenditore o semplicemente come consumatore, acquistando i prodotti fatti da chi ha alle spalle un reato (il suo passato) per supportarlo ad immaginare e dare forma ad un futuro diverso. Trieste. Presentazione del libro “44 quarantaquattro 44 - la consapevolezza dei diritti in carcere” Ristretti Orizzonti, 17 giugno 2025 Il 18 giugno, al Circolo della Stampa di Trieste (corso Italia 13), con inizio alle ore 17.30, verrà presentato il libro: “44 Quarantaquattro 44 - la consapevolezza dei diritti in carcere”. La pubblicazione, realizzata dall’Osservatorio Internazionale sulla Legalità di Trieste (Oisl), è il risultato di un’importante ricerca, rivolta ai detenuti, in diverse carceri del Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna e Marche, per comprendere quale consapevolezza abbiano li detenuti in tema di diritti umani, civili, politici. Indagine indispensabile quando si persegua una visione della pena costituzionalmente orientata. Secondo l’Osservatorio si tratta della prima ricerca di questo genere svoltasi in Italia e, per il vero, non si hanno notizie di analoghe realizzate in Europa, né si conoscono di uguali indagini in altre parti del mondo. La pubblicazione è anche il resoconto di un gruppo di persone, già impegnate nelle istituzioni e/o nelle professioni “intellettuali”, che hanno scavato nella complessa realtà del disagio che si vive nelle carceri italiane; un mondo apparentemente distante, per le sue contraddizioni ed eccessi, ma capace di fornire spunti di riflessione anche per la società esterna, assertivamente libera, soprattutto in tema di diritti umani, civili, politici, da tempo sottoposti a significativi crash test sociali. La domanda è quella di comprendere quale soddisfazione sociale si tragga dal mero contenimento di persone detenute all’interno delle nostre carceri, ove ci si avvedesse che le stesse risultino indifferenti al tema dei diritti e alla loro importanza. Tale eventualità non condizionerebbe proprio il senso della pena detentiva e non costituirebbe una acclarata dichiarazione di fallimento di un sistema che, come vuole la Costituzione, intende invece puntare al recupero sociale delle persone condannate. Senza la consapevolezza dei diritti, le condanne rischierebbero di perdere il loro significato di opportunità e di recupero sociale e sarebbero degradate a mera sottrazione di quote di tempo-vita alle persone detenute, senza che si maturi un responsabile ripensamento delle proprie azioni criminali e delle relative conseguenze. La conoscenza e la consapevolezza dei diritti, infatti, costituisce il miglior metodo per sviluppare la coscienza civile: averne contezza ci consente di vivere proficuamente all’interno delle nostre società. Per stimolare il confronto con le persone detenute, il progetto realizzato dall’Oisl e finanziato dalla Fondazione Casali di Trieste, ha previsto la proiezione nelle carceri individuate dallo stesso di un film “scomodo” “Kafka a Teheran”, dove si descrivono le vicissitudini di donne, uomini, di persone anziane, ma anche di bambine costretti a vivere in una società teocratica dove il patire incomprensibili umiliazioni si accompagna ad una voglia di riscatto e di libertà che, soprattutto le donne, di qualsiasi età, mostrano nei riguardi di un regime apparentemente forte. La ricerca si è avvalsa della collaborazione di tutti i componenti dell’OISL e del contributo specifico del vicepresidente, Roberto E. Kostoris, del criminologo, Pierpaolo Martucci e dell’avvocato Soraya Pedone, che parteciperanno all’incontro che sarà moderato da Enrico Sbriglia, presidente dell’Oisl. Introdurrà il presidente del Circolo della Stampa, Pierluigi Sabatti. Roma. Il nuovo numero del notiziario “Non Tutti Sanno” dedicato a Papa Francesco Ristretti Orizzonti, 17 giugno 2025 Dopo mesi di attesa, è uscito l’ultimo numero del notiziario realizzato dai detenuti della Casa di Reclusione di Rebibbia. È dedicato a Papa Francesco, “voce e speranza dei reclusi”, l’ultimo numero del notiziario Non Tutti Sanno realizzato dai detenuti della Casa di Reclusione di Rebibbia, egregiamente coordinati dal giornalista Roberto Monteforte. Il periodico, che esce dopo mesi per una lunga attesa del rinnovo del “nulla osta” al progetto per il 2025 da parte dell’ufficio stampa del ministero della Giustizia, dedica al pontefice la sua copertina. Riporta la cronaca dello straordinario incontro dei detenuti con lui all’apertura della Porta Santa al Nuovo Complesso di Rebibbia e osserva il “paradosso” dei tanti riconoscimenti a papa Francesco per la sua straordinaria testimonianza di vicinanza verso la popolazione detenuta, al suo costante invito alla speranza e quanto, invece, sia rimasto inascoltato il suo appello ai “potenti” perché siano rese più umane le condizioni di vita dei ristretti, a partite da un atto di clemenza che riduca il sovraffollamento. Si aprono i cancelli dei penitenziari all’arte ma non ai gesti di umanità. Il notiziario ricorda due vittime della disperazione del sistema carcere, Gianluca che si è tolto la vita alla casa di reclusione di Rebibbia ed Elena, suicida al carcere di Mantova. Ma è sul tema del diritto costituzionale dell’informazione dalla realtà “ristretta” che insiste Non Tutti Sanno con un articolo della direttrice di Ristretti Orizzonti Ornella Favero e del presidente emerito della Corte Costituzionale e già ministro della Giustizia, il prof Giovanni Maria Flick (“La Costituzione non ammette censura”). Oltre alle testimonianze sulla vita carceraria, il numero ospita le riflessioni su questa realtà e sulla legalità di docenti e studenti di diversi istituti, che rappresentano un’importante occasione di dialogo e di ponte tra il dentro e il mondo di fuori. Interessanti anche le cronache di due momenti vissuti alla Cr Rebibbia: nell’ambito della rassegna “adottiamo uno scrittore”, l’incontro con lo scrittore Matteo Martone, autore del romanzo “Assolutamente non portatemi a Caserta” e la presentazione del volume la “Dieta Mediterranea” organizzato dall’istituto alberghiero con gli autori, gli sponsor e in collaborazione con il Garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia, arricchito dalla degustazione di alcune ricette “mediterranee” preparate dagli studenti detenuti all’insegna del felice connubio tra formazione professionale e opportunità di lavoro. Il Ministero della Paura sta iniziando a comandare di Ferdinando Boero* Il Fatto Quotidiano, 17 giugno 2025 Il Ministero della Paura di orwelliana memoria è entrato in funzione e sono in molti ad operare al suo comando. Dobbiamo aver paura degli immigrati che stuprano le nostre donne, dei ladri che ci svaligiano l’appartamento, e degli Stati vicini che potrebbero aggredirci e soggiogarci. La soluzione del problema immigrati è semplice: barriere e deportazione. Per i ladri basta inasprire le pene e mettere l’allarme in casa. Mentre la soluzione al problema degli invasori è un tantino più complessa. Ci dobbiamo armare fino ai denti e dobbiamo cambiare i nostri arsenali. Gli F35 non servono a niente, a fronte di attacchi di droni, e poi ci sono i missili ipersonici. I nostri vicini, i russi, sono una minaccia esistenziale per la nostra sicurezza. E loro hanno percepito l’Ucraina, che discrimina i russofoni e pianifica basi Nato a un metro di distanza dal confine russo, come una minaccia altrettanto esistenziale alla loro sicurezza. Anche Israele, che ha l’atomica, sente come minaccia esistenziale l’Iran che, non avendo l’atomica, vorrebbe dotarsene, visto il curriculum di Israele che, infatti, bombarda l’Iran in una guerra preventiva: ti colpisco prima che tu colpisca me. E ovviamente lo faccio per difendermi, anche se ancora non mi hai attaccato. Se poi qualcuno fa tanto di attaccarmi, dopo che i miei coloni hanno fatto quel che han fatto in Cisgiordania, rado tutto al suolo, donne e bambini compresi. Negando alla Palestina il diritto ad esistere, tanto per tornare alle minacce esistenziali. Gli Usa attaccarono l’Iraq perché aveva le armi di distruzione di massa e le avrebbe potute utilizzare. Meglio prevenire e, già che ci siamo, impiccare Saddam Hussein che, ovviamente, non era una mammoletta ma che non era peggio di tanti dittatori sanguinari sostenuti dagli Usa. Noi abbiamo basi Nato (che poi vuol dire Usa) nel nostro paese, con testate nucleari. Servivano agli Usa come deterrenti di possibili attacchi russi. Prima di colpire gli Usa i russi, che notoriamente mangiano i bambini, avrebbero dovuto neutralizzare le minacce più prossime (noi) e questo avrebbe dato il tempo agli Usa di colpire. Insomma, quelle basi non servono a difendere noi, ma a difendere gli Usa dall’Impero del Male. Ora pare che non abbiano intenzione di continuare ad investire in queste imprese, forse perché si sono resi conto che i massimi guerrafondai sono proprio loro, e quindi ci dicono che dobbiamo essere noi a pagare le spese. Per convincerci si ingenera un clima di paura. Berlusconi, buonanima, ha usato molto i “comunisti” come spauracchio per ingenui elettori che, ne sono certo, continuano a identificare la Russia con il comunismo, dimenticando che l’amicone di Putin era proprio Berlusconi, che ricevette anche un lettone (un grosso letto, non un abitante della Lettonia) da Putin, probabilmente per farne teatro di imprese erotiche con partner multiple. Putin è anche ben visto da Salvini. In teoria, quindi, se Putin è comunista e è amico di Berlusconi (ancora c’è un partito con il suo nome) e di Salvini, allora Berlusconi e Salvini sono comunisti e putiniani. Questi funambolismi logici non sono così evidenti agli elettori di riferimento di questi schieramenti che, credo, non si rendono conto di cosa si sta preparando per loro (e per tutti, del resto). Gli Usa investono moltissimo in armi, sia i singoli individui sia il paese. Hanno l’esercito più potente del mondo e inventano sempre nuovi strumenti di distruzione. Sono un pochino carenti nell’assistenza sanitaria e anche nell’istruzione. Hanno i migliori ospedali e le migliori università, ma solo per chi se lo può permettere. Se non sei assicurato te la puoi sognare l’assistenza. Ricordate il manager assicurativo assassinato da un “giustiziere” perché trovava scuse per non pagare le spese mediche, facendo morire gli assicurati? E le famiglie accendono mutui quando arrivano i pargoli, per pagare le rette delle università. Insomma, la sanità e l’istruzione ci sono per chi se le paga. Da noi sono per tutti, ma stanno iniziando a “consigliarci” di assicurarci. Gli Usa sono molto individualisti e anticomunisti, e vedono la nostra sanità e la nostra istruzione come qualcosa di “socialista”, una bruttissima parola. I cittadini devono imparare a cavarsela da soli. Ve la ricordate Kamala Harris che dice ridendo che se qualcuno le entra in casa si becca una revolverata? Ecco, lei era la moderata progressista. Insomma, basta saperlo, ce lo ha spiegato anche Cingolani (che vende armi) che di fronte a minacce esistenziali bisogna rinunciare a qualcosa. Siamo in una casa con il tetto in fiamme (le hanno accese i russi) e dobbiamo correre ai ripari (ci pensa Leonardo). Intanto la vera minaccia esistenziale, l’alterazione degli ecosistemi, la distruzione della biodiversità e il cambiamento climatico, è uscita di scena. Con questa minaccia chi vende armi non fa affari. Probabilmente l’attuale amministratore delegato di Leonardo se n’è reso conto quando ha fatto il ministro della Transizione ecologica. Si guadagna di più con la transizione militare. Resta solo da convincere chi paga le tasse che le armi sono molto meglio di ospedali, scuole e università. Il bombardamento mediatico è iniziato e i migliori cervelli sono stati reclutati dal Ministero della Paura. Presto mi aspetto una legge che liberalizzi la detenzione di armi. Intanto, si emanano leggi che puniscono severamente chi provoca danni agli animali d’affezione, e altre leggi che liberalizzano la caccia agli animali selvatici. Il gattino è sacro, lupi e orsi… a fucilate! Anche loro sono minacce esistenziali per chi va nei boschi e la soluzione è semplice: si spara. *Naturalista Cittadinanza, ora si riparta dalla proposta di Forza Italia di Paolo Borgna Avvenire, 17 giugno 2025 Lo si chiami Ius scholae o Ius Italiae, ciò che conta del testo proposto è la sua ispirazione: il percorso educativo come prerequisito per l’integrazione. Così capiremmo anche i no al referendum. “Non ho votato per il referendum sulla cittadinanza perché voi fate tutto troppo facile, perché cinque anni sono troppo pochi, soprattutto per chi viene da culture in cui la donna è sottomessa”. Così mi diceva, all’indomani del voto, un’amica arrivata irregolarmente dall’Africa trent’anni fa per fare la badante e che qui in Italia ha studiato, si è laureata, sposata, ha avuto una figlia oggi maggiorenne, ha faticosamente acquisito la cittadinanza italiana e lavora come mediatrice culturale in un ospedale. Ragionamenti non molto diversi devono aver fatto gli elettori di “Barriera Milano”, quartiere popolare di Torino, dove gli ex operai delle tante fabbriche abbandonate ormai da decenni, si sentono - come il Clint Eastwood del film Gran Torino - accerchiati da un’immigrazione multiforme che insidia la loro identità e che al referendum sulla cittadinanza hanno dato il 40% al No (quattro volte di più dei No ai quesiti sul lavoro). È evidente - sul punto convergono tutte le analisi del dopo voto - che i promotori del referendum non sono riusciti a convincere gli elettori del fatto che gli altri requisiti (oltre ai cinque anni di presenza regolare in Italia) per ottenere la cittadinanza (lavoro, conoscenza della lingua, assenza di precedenti) sarebbero stati valutati con serietà. È passato il messaggio che, dopo cinque anni, la cittadinanza sarebbe arrivata quasi automaticamente. Inutile ora recriminare sulle responsabilità di questa insufficienza. Importa, piuttosto, farsi carico delle preoccupazioni che stanno dietro questa solenne bocciatura referendaria: il timore di riconoscere la cittadinanza a persone i cui mores sono troppo in contrasto con quelli europei e i nostri valori costituzionali. Queste paure non possono essere aristocraticamente ignorate e snobbate. Bisogna farsene carico e cercare di darvi risposta, senza rinunciare al tentativo di dare più diritti a chi davvero si è faticosamente inserito nelle nostre comunità, cercando con dignità un futuro migliore per i propri figli e contribuendo ogni giorno alla stanca economia del Paese. Questo tentativo può partire da un punto fermo: i timori che percorrono i ceti italiani più deboli delle nostre città riguardano soprattutto gli adulti stranieri, più che i loro figli. Perché anche il più accigliato tra i critici dell’immigrazione non può ignorare quanto sia non solo ingiusta ma anche pericolosa (e incomprensibile per i compagni di scuola) la creazione di un doppio status tra giovani con eguale radicamento, cultura ed educazione. Negare a un giovane, magari nato in Italia e che qui ha studiato con profitto e qui ha i propri amici, il diritto di sentirsi e proclamarsi italiano è una umiliazione cattiva che, magari tra dieci anni, può provocare soltanto risentimento e rancore. Per questo, tra quelle sul tavolo, la proposta che Forza Italia presentò lo scorso ottobre e che in questi giorni Antonio Tajani ha rilanciato - cittadinanza a chi è nato in Italia o vi è arrivato entro il quinto anno di età, ha 16 anni e ha compiuto con successo la scuola obbligatoria - è oggi un’interessante base di partenza per il confronto parlamentare. Lo si chiami Ius culturae o Ius scholae o Ius Italiae o come si vuole. Quel che conta è la sua ispirazione: il percorso educativo come prerequisito per l’integrazione nella società. Parliamo di un tema che riguarda le regole generali di convivenza, che in quanto tali dovrebbero essere ampiamente discusse e condivise oltre le logiche di schieramento. Lo “Ius scholae “non è nel programma di governo”, ricordano molti esponenti della maggioranza. Vero. Ma proprio per questo - come su queste pagine Danilo Paolini già scriveva il 12 settembre scorso - il Parlamento deve cogliere questa occasione per difendere le proprie prerogative, come luogo in cui posizioni anche diverse si confrontano alla ricerca dell’accordo migliore per il bene comune. Una discussione parlamentare vera, che guardi in faccia i problemi - e non si limiti ad agitare vessilli identitari capaci di cavalcare paure fondate su problemi veri senza però darvi soluzioni - sgombrati i veleni della discussione sul referendum, potrebbe portare all’approvazione di una buona legge, che rispetti la volontà degli elettori, aprendo però una strada verso il futuro. Quando Luigi Einaudi fu eletto Presidente della Repubblica nel suo discorso al giuramento di fronte al Parlamento, del 12 maggio 1948, si diceva dispiaciuto per dover lasciare quell’Aula e di “non poter partecipare più ai dibattiti, dai quali soltanto nasce la volontà comune; e di non potere più sentire la gioia, una delle più pure che cuore umano possa provare, la gioia di essere costretti a poco a poco dalle argomentazioni altrui a confessare a se stessi di avere, in tutto o in parte, torto e ad accedere, facendola propria, alla opinione di uomini più saggi di noi”. Se qualcuno meditasse su queste parole. Delrio: “Riforma della cittadinanza, i voti ci sono se Forza Italia ci sta” di Roberta d’Angelo Avvenire, 17 giugno 2025 Il senatore del Pd: “Deluso dall’esito del referendum. Ma in una democrazia normale è il Parlamento che decide sui diritti civili, anche con maggioranze trasversali”. Non ha perso la speranza neppure dopo la sconfitta referendaria il senatore dem e presidente della commissione bicamerale sull’Immigrazione Graziano Delrio: sulla cittadinanza in Parlamento i voti ci sarebbero, se solo FI lo volesse. Agevolare le pratiche per la cittadinanza è un tema che non interessa gli italiani? Il referendum è stata una delusione? È stata una delusione, sì. Era difficile raggiungere il quorum, anche se la speranza ovviamente c’era, come nei casi delle grandi battaglie civili. Perché questa è una grande battaglia prima di tutto contro il potere ingiusto della burocrazia, che costringe le persone ad aspettare non 10 anni, ma 15 per ottenere la cittadinanza: c’è uno scarto enorme tra il diritto e la realtà. E una battaglia contro i pregiudizi. Il quesito ha riportato diversi “No”. Però avrebbe vinto il “Sì”. E comunque questo è il segno che quando i referendum hanno un obiettivo preciso, i cittadini dicono la loro... Certo, molto ha giocato la campagna referendaria impostata sui referendum del lavoro, che ha fatto passare in secondo piano la cittadinanza. Molti non hanno avuto gli elementi di conoscenza nemmeno sul fatto che appunto non è vero che sono 10 gli anni per ottenerla, ma sono molti di più, sul fatto che stiamo parlando di cittadini che sono qui, che lavorano, che studiano, che vivono insieme a noi e che pagano le tasse. E che non si semplificavano i criteri per ottenerla. Però io sono molto più preoccupato di un’altra cosa. Ovvero? Io ero presidente del Comitato che nel 2011 portò la legge di iniziativa popolare per lo Ius soli fino alla soglia dell’approvazione in Senato. Allora c’era molto consenso, anche nella società. E ricordo la profonda delusione di migliaia di ragazzi che attendevano il risultato, quando nel 2017 quella legge approvata dalla Camera finì per arenarsi. La stessa delusione che abbiamo dato a tanti cittadini, italiani di fatto, che speravano in un salto in avanti con il referendum. C’è modo per riaccendere la speranza? Lei a ridosso della sconfitta del 9 giugno ha auspicato la ripresa di un dibattito in Parlamento con FI e le forze a favore. Lo crede possibile? Sì, un Paese maturo come il nostro, una potenza industriale ed economica e anche democratica, non può discutere l’argomento immigrazione come se fossimo nell’800, con la paura, avendo sotto gli occhi solamente gli sbarchi. Ci sono 5 milioni di persone che sono già qua, 800mila bambini che frequentano le scuole, che possono diventare italiani a tutti gli effetti e così, come è dimostrato, anche migliorare il loro curriculum scolastico, perché si sa che quando ottengono la cittadinanza questi bambini migliorano anche la performance scolastica. Noi dovremmo, quindi discutere in maniera ragionevole qual è l’interesse del Paese, approfittando della nuova apertura di Forza Italia. Spero che non sia un’apertura solo verbale, e che FI abbia il coraggio di confrontarsi. La nostra idea è molto più radicale sulla riforma, però siamo pronti a discutere, perché come dice anche la Conferenza episcopale italiana, chi si sente titolare di diritti si sente anche titolare di doveri, quindi ne guadagnerebbe il Paese. Il ministro Tajani deve fare questo atto di coraggio, per l’interesse del Paese. La scorsa estate FI si è molto esposta, poi tutto è rientrato dopo i no di Meloni e Salvini... Questo è il mio scetticismo, temo che i ricatti interni alla coalizione impediscano una discussione serena. Confido che si capisca che dare i diritti un po’ più rapidamente ai bambini non significa togliere nulla a noi. È lo stesso schema mentale che si ripropose nel 1946 quando si decise di dare il voto alle donne: gli uomini pensavano di togliere qualcosa a se stessi. In realtà hanno semplicemente fatto diventare l’Italia più matura e più grande. Oggi è interesse dell’Italia che gli ingressi siano regolari e i tempi più rapidi. È lo scoglio di un Parlamento bloccato dall’interventismo del governo? Le leggi le deve fare il Parlamento. Questo in una democrazia normale, poiché il Parlamento è espressione del popolo, non il Governo. Le leggi sui diritti civili vanno fatte non dal governo ma dal Parlamento, anche con maggioranze trasversali come avvenuto quando proposi l’Assegno Unico a sostegno delle famiglie. Comunque nel 2017 fu anche il M5s a bloccare la riforma al Senato tirandosi indietro. Oggi sarebbe diverso? Non do giudizi su chi la pensa diversamente, vorrei discutere però serenamente: se è vero che concedere la cittadinanza qualche anno prima porta via il benessere agli altri o svilisce il concetto di cittadinanza, vorrei discutere di questi dati di fatto. Parliamone, ma nella sede giusta, approfondendo, ascoltando i dati, gli esperti. Faccio un esempio: la dispersione scolastica dei bambini che non sono italiani ha livelli più alti di un bambino di origine straniera che è diventato italiano grazie al fatto che il padre ha acquisito la cittadinanza. Ed è interesse di tutti che questi bambini non stiano per le strade, magari diventando preda della criminalità. Anche nel Pd ci sono elettori che hanno avuto dubbi sul referendum. Ma la democrazia è bella perché si discute non perché si obbedisce alla paura. Migranti. I Cpr sono contesti di degrado, sofferenza e abbandono di Società Italiana di Medicina delle Migrazioni Il Domani, 17 giugno 2025 La Società Italiana di Medicina delle Migrazioni chiede alla Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e odontoiatri (Fnomceo) che i Centri vengano chiusi e che non si costringano professionisti della sanità a operarvi in quanto privi delle tutele essenziali per le persone detenute e contrari all’etica professionale della cura. I Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) sono i luoghi adibiti in Italia alla detenzione amministrativa delle persone migranti considerate “irregolari”: si tratta di un istituto giuridico che prevede la privazione della libertà in nome di un illecito amministrativo e non di un reato, nel caso specifico delle persone migranti per il fatto di non avere il permesso di soggiorno in regola. La detenzione amministrativa presenta enormi criticità in materia di rispetto della dignità delle persone e dei loro diritti, incluso il diritto alla salute. La stessa World Health Organization (Who) ne ha denunciato gli effetti in quanto pratica patogena e psicopatogena. Sempre maggiori evidenze descrivono i Cpr come contesti di degrado igienico-sanitario, sofferenza fisica e mentale ed abbandono sociale, caratterizzati da un continuum di violenza auto- ed etero-inflitta sui corpi delle persone recluse. Le stesse evidenze, a distanza di 25 anni dalla loro istituzione, confermano che questi luoghi sistematicamente, da sempre, dovunque e a prescindere dal singolo gestore, sono profondamente patogeni e mettono a rischio la salute e la vita delle persone che vi vengono detenute. La Società Italiana di Medicina delle Migrazioni (Simm) da più di trent’anni lavora ogni giorno per cercare di assicurare l’accesso alle cure e il diritto alla salute delle persone migranti in Italia, a prescindere da provenienza e status giuridico, come sancito dall’Articolo 32 della Costituzione. Nel corso del tempo si è spesso occupata di advocacy presso i decisori politici e istituzionali per far sì che il dettato costituzionale si traduca in reale diritto alla salute per le persone migranti. Sulla base di quanto espresso, la Simm si rivolge alla Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici e Chirurghi (Fnomceo) per una sollecita e chiara presa di posizione affinché: si proceda nell’immediato alla chiusura dei Cpr e all’apertura di un dibattito a livello europeo per l’abolizione della detenzione amministrativa, in quanto realtà patogene per le persone migranti, di cui violano i diritti fondamentali e mettono a rischio la salute e la vita; si dichiari che nessun professionista della salute che operi in rispetto dell’articolo 32 della Costituzione e del Codice di Deontologia Medica possa fornire e tantomeno essere costretto a fornire le proprie prestazioni professionali in tali luoghi funzionalmente alla loro operatività (ad esempio tramite la sottoscrizione di valutazioni di idoneità alla reclusione nei Cpr, richieste dalle autorità di polizia), in Italia e all’estero, in quanto privi delle tutele essenziali per le persone detenute e contrari all’etica professionale della cura. Tale posizione è stata tra l’altro avvalorata proprio da una analoga dichiarazione della Fnomceo sull’inammissibilità dell’utilizzo del personale sanitario per le pratiche di selezione delle persone migranti destinate ai centri di detenzione in Albania. I professionisti e le professioniste della Simm, nonché tutti coloro che vorranno sostenere e rilanciare questo appello, sono mossi dal principio umanitario della tutela della vita e della salute delle persone come priorità rispetto a ogni sovrastruttura burocratica e/o securitaria, un principio che si sostanzia nel proposito ippocratico: “In qualsiasi casa andrò, io vi entrerò per il sollievo dei malati, e mi asterrò da ogni offesa e danno volontario”. L’appello è firmato dalla Società italiana di medicina delle migrazioni (Simm) e supportato dai seguenti esperti in ambito medico-scientifico: Vittorio Agnoletto, membro del direttivo nazionale di Medicina Democratica Cristina Cattaneo, prof. di Medicina legale, Università degli Studi di Milano Gavino Maciocco, prof. di Igiene e sanità pubblica, Università di Firenze Monica Minardi, presidente di Medici senza frontiere (MSF) Italia Chiara Montaldo, responsabile Unità medica di MSF Italia Migranti. La Convenzione sulle vittime di tortura è rimasta lettera morta di Linda Caglioni e Lucrezia Lozza Il Fatto Quotidiano, 17 giugno 2025 Recepita nel 2017, ma molte Asl non sanno nemmeno che esiste. Le linee guida emanate otto anni fa sono state formalmente recepite solo da Lazio, Piemonte, Toscana, Marche ed Emilia-Romagna. E in molti casi non sono state nemmeno trasmesse alle Asl. Lasciando alle ong il compito di supplire a un compito dello Stato. E lasciando i migranti stessi senza gli strumenti per il riconoscimento dei loro diritti nel nostro Paese. “Quando sono scappato dal mio Paese, il Mali, sono finito in Libia perché mi avevano offerto un lavoro lì. Non avendo alternative, ho accettato. Non avevo capito che in realtà ero stato venduto come schiavo. Una sera due uomini mi hanno chiuso in un posto dove ho visto cose a cui non avrei mai creduto se non le avessi viste con i miei occhi. Le vedevo e pensavo, ‘ecco, la mia vita sta per finire’. E a dire il vero, speravo che mancasse poco alla mia fine perché sentivo di non avere altra via d’uscita”. Moussa è arrivato in Italia nel 2014 e sono ormai diversi anni che ha imparato a raccontare della fuga dal suo Paese in guerra e delle torture subite in Libia. Ha il timbro fermo di chi ha lottato per riuscire a dare una forma all’indicibile e ha trovato nella parola la via per il riscatto. “In Italia, appena arrivato, sono stato a Genova. Lì ho scoperto dalle persone con cui vivevo che di notte nel sonno urlavo, ma io non me ne rendevo conto”. Dopo Genova è stata la volta di Roma dove per caso è entrato in contatto con il Centro Astalli, una delle poche realtà italiane che offrono supporto specifico alle vittime di tortura. “Grazie a loro sono stato coinvolto in un progetto con le scuole per parlare della mia esperienza davanti agli studenti. Mi sono reso conto che raccontare mi liberava del peso di quello che avevo vissuto. Mi sono sentito meglio”. Ma a un caso d’eccezione come il suo si contrappongono le storie di centinaia di rifugiati che restano soli con i loro traumi, senza sapere a chi chiedere aiuto. Eppure sulla carta l’Italia prevede che fin dall’arrivo sul territorio nazionale le strutture d’accoglienza collaborino con le aziende sanitarie e pianifichino “interventi adeguati a svolgere una funzione riparatoria rispetto alle conseguenze dei gravi traumi subiti”. Questo è in sintesi quanto emerge dalle linee guida per il trattamento delle vittime di tortura, varate nel 2017 dal ministero della Salute grazie al lavoro svolto dai principali attori nel campo dell’accoglienza, tra cui lo stesso Centro Astalli, Medici Senza Frontiere, Unhcr, Caritas e Asgi. A distanza di otto anni dalla pubblicazione in Gazzetta ufficiale di quelle direttive, tuttavia, le uniche regioni che le hanno formalmente recepite con propri provvedimenti sono state Lazio, Piemonte, Toscana, Marche ed Emilia-Romagna, mentre nel resto del Paese sono rimaste lettera morta. “L’Italia ha firmato la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, che all’articolo 14 stabilisce l’obbligo degli Stati di garantire la riabilitazione dei sopravvissuti, compresa l’assistenza medica e psicologica - dice Marco Bertotto, responsabile Advocacy Italia per MSF. Ma il nostro Paese si è limitato a emanare delle linee guida che, nonostante le pressioni, non sono mai state implementate davvero su tutto il territorio nazionale. Non c’è una pianificazione reale di servizi dedicati alle vittime di tortura: ciò che esiste oggi sono iniziative isolate o partnership tra pubblico e privato, spesso guidate da realtà del terzo settore”. Garantire un trattamento adeguato ai rifugiati che hanno subìto torture è fondamentale non solo sul piano psicologico, ma anche da un punto di vista legale. La certificazione delle violenze gioca infatti un ruolo chiave quando la commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale deve decidere o meno se rilasciare il visto di rifugiato, come spiega Silvia Rossi, operatrice del Naga, l’organizzazione di volontariato con sede a Milano che si occupa da decenni della tutela dei diritti sanitari e legali delle persone straniere. “Quando prepariamo qualcuno alla commissione per il riconoscimento della protezione internazionale e rileviamo possibili segni di tortura, organizziamo una visita con uno dei nostri medici, così da certificare la violenza. Le commissioni si dimostrano sensibili a questo aspetto e quindi è importante che esista una relazione che attesti ciò che il richiedente ha subìto, anche quando sul corpo non ci sono segni fisici evidenti. Ma le persone non arrivano mai qui dicendo ‘voglio fare una visita perché ho subito torture’ - spiega Rossi - Non sanno nemmeno che sia un’opzione. Tocca a noi, raccogliendo le loro storie, intuire che ci troviamo davanti a qualcuno che ha subito cose molto gravi e procedere con un percorso di certificazione attraverso i nostri medici”. Quanto svolto dal Naga, però, dovrebbe essere in realtà messo in atto da un ambulatorio pubblico. “Nelle nostre certificazioni noi scriviamo in calce al documento che siamo costretti a proseguire nella nostra attività di volontariato per sopperire alle mancanze del settore pubblico che dovrebbe garantire il servizio di attestazione di tortura perché è ciò che è previsto dalle linee guida del 2017. A distanza di tanti anni, tuttavia, non sono nemmeno sicura che quelle direttive siano state trasmesse a tutte le aziende sanitarie”. Interpellate attraverso un sondaggio, la maggior parte delle ASL sul territorio nazionale non ha fornito alcuna risposta, mentre 18 delle 28 aziende sanitarie che hanno risposto hanno dichiarato di non aver mai ricevuto le linee guida per il trattamento delle vittime di tortura. Un dato che evidenzia la frammentazione e le gravi lacune nei servizi che dovrebbero garantire supporto psicologico a chi ha subito violenze. In questo scenario, è il mondo delle associazioni a farsi carico, in gran parte, del recupero psicologico dei rifugiati, appoggiandosi per lo più a fondi provenienti da fondazioni private o a progetti FAMI (Fondo Asilo Migrazione e Integrazione), che però non consentono di costruire percorsi di sostegno duraturi. Lo psichiatra Fulvio Bonelli, dell’associazione Marco Cavallo di Torino, sottolinea come queste carenze stiano diventando sempre più evidenti, man mano che la tortura assume caratteristiche sistematiche per via delle modalità con cui viene praticata. “Ormai dire Libia significa dire tortura. Chi passa di lì ha subìto gravi traumi in praticamente tutti i casi - spiega Bonelli - abbiamo ascoltato storie di persone che sono state appese agli infissi e a cui i trafficanti hanno dato la scossa, oppure appese per i piedi per far colare la cera delle candele accese sulle loro schiene”. Le violenze spesso vengono effettuate in collegamento telefonico con la famiglia, affinché i parenti, sentendo i lamenti del proprio caro in diretta, accettino di dare i soldi. “L’obiettivo finale dei torturatori è quello di chiedere il riscatto alle famiglie. Per questo la violenza nei luoghi di detenzione nei Paesi di transito sta diventando una pratica sempre più estesa e sistematica”. Migranti. Ong, dopo le navi il governo colpisce le barche di Giansandro Merli Il Manifesto, 17 giugno 2025 Adesso il Viminale se la prende con i velieri e le piccole imbarcazioni: richieste di trasbordi pericolosi e porti lontani anche per loro. Il cambio di tattica perché la flotta civile ha continuato a salvare malgrado tutte le vessazioni. Dopo le navi, le barche. Il ministero dell’Interno ha spostato il fronte della guerra alle ong che salvano vite in mare: ora se la prende con i velieri e le piccole imbarcazioni della “flotta civile”. I primi indizi risalgono a dieci giorni fa, la conferma all’altro ieri: il Viminale indica porti di sbarco lontani anche alle unità di soccorso di dimensioni ridotte. In alcuni casi pretende trasbordi rischiosi, che già due volte i capitani hanno rifiutato per ragioni di sicurezza. Nelle prime ore del 6 giugno Nadir - veliero lungo 18 metri e largo 4 - navigava verso nord con 115 migranti salvati nelle acque internazionali davanti alla Libia. Lampedusa distava 12 ore. Poco prima delle tre la guardia costiera ha confermato, via mail, che era quello il luogo di sbarco. Otto ore dopo la stessa autorità ha telefonato al capitano: vai a Porto Empedocle. Prima, però, avrebbe dovuto trasferire su una motovedetta italiana i vulnerabili, evitando di separare le famiglie. Per la capitaneria così si sarebbe garantita la sicurezza della navigazione fino alla lontana Sicilia. Ma secondo l’equipaggio il trasbordo avrebbe creato grossi rischi: in quelle condizioni selezionare i vulnerabili e tutelare l’unità familiare era impossibile. Dopo un tira e molla è arrivata l’autorizzazione a sbarcare tutti a Lampedusa. Poi, però, il veliero è stato multato e detenuto. Due le accuse: non aver comunicato con libici e tunisini e non aver rispettato le indicazioni italiane sul luogo di sbarco. In tutte le precedenti missioni Nadir era approdata sull’isola pelagica. Mai, viste le dimensioni, gli era stato chiesto di andare in Sicilia. Sempre il 6 giugno la Sea-Eye 5 - unità veloce lunga 23 metri e larga 6 - ha salvato 50 migranti. “Nonostante la limitata capienza della nave, le autorità italiane hanno assegnato il porto di Vibo Valentia, a 295 miglia nautiche dal luogo del salvataggio”, ha scritto l’ong in un comunicato che sottolinea i pericoli derivanti da questa scelta. Per quattro volte ha chiesto di riconsiderarla: non c’è stato nulla da fare. Domenica scorsa la stessa imbarcazione è finita al centro di un braccio di ferro con il Viminale. A bordo, dopo tre evacuazioni mediche d’urgenza a Lampedusa, aveva 65 naufraghi. Credeva di poterli sbarcare a Pozzallo ma nei pressi delle coste siciliane le autorità hanno dato l’ok solo per i vulnerabili: gli altri sarebbero dovuti andare addirittura a Taranto. Troppo per un mezzo disegnato e costruito per il soccorso in mare, ma non per simili trasferimenti. “Non possiamo fornire assistenza medica per così tanto tempo. Avevamo quasi finito l’acqua. La sicurezza di naufraghi ed equipaggio sarebbe stata compromessa. Queste prassi violano le indicazioni dell’Organizzazione marittima internazionale”, afferma il capomissione Johanes Gaevert. Da terra, intanto, aveva alzato la voce il sindaco del comune siciliano, il medico Roberto Ammatuna: “Non si capisce chi dovrebbe certificare la presunta fragilità. Fateli sbarcare tutti”. In serata, dopo l’ennesima evacuazione medica di una donna incinta al nono mese, lo stallo si è sbloccato e i naufraghi hanno toccato terra. Nel frattempo la stessa dinamica aveva colpito la Louise Michel. L’unità rapida - 30 metri per 6 - trasportava 193 persone. Nei pressi di Lampedusa la guardia costiera ne ha prese 147. Le altre sono state spedite a Crotone. “Già a inizio anno ci avevano assegnato Reggio Calabria, ma questo episodio segna un salto nell’escalation: il porto della città ionica è il più lontano di sempre”, fanno sapere dalla ong. “Queste prassi non hanno alcun supporto normativo e non rispondono ai criteri di trasparenza dell’azione amministrativa - afferma l’ammiraglio Sandro Gallinelli, per 40 anni nella guardia costiera e ora in pensione - I provvedimenti amministrativi devono essere motivati e giustificati: qui non appare alcuna razionalità, se non quella di allontanare le ong dall’area dei soccorsi. Ma non lo si vuole ammettere”. L’avvocata Lucia Gennari, che difende diverse ong, afferma: “Ordinare a imbarcazioni di piccole dimensioni, come fossero navi grandi, di accogliere per un tempo spropositato le persone a bordo o pretendere di selezionare i vulnerabili in condizioni di sovraffollamento crea forti rischi. Così si obbligano i comandanti a comportamenti pericolosi, sotto la minaccia della detenzione del mezzo”. Le nuove mosse del governo rispondono a una parziale riorganizzazione della flotta civile seguita al decreto Piantedosi di gennaio 2023 - su cui è atteso il vaglio di costituzionalità della Consulta - e alla prassi di assegnare alle navi porti lontani subito dopo il primo soccorso. Percorrere centinaia di chilometri verso gli scali del nord Italia con poche decine di naufraghi ha moltiplicato i costi delle missioni. I numerosi fermi hanno fatto il resto. Basti pensare che l’ammiraglia delle navi umanitarie, la Geo Barents di Msf, nel 2023 ha portato al sicuro 4.646 persone, l’anno seguente 2.278. Per questo è stata dismessa e sarà sostituita da un’altra tipologia di imbarcazione. La stessa Sea-Eye ha cambiato la sua nave numero 4, passata ora a Mediterranea, con l’unità rapida (la numero 5). Nonostante tutte le vessazioni subite, però, la flotta civile ha continuato a soccorrere. A inizio mese le ong avevano salvato complessivamente oltre 5mila persone su 23mila sbarchi (poi saliti a 27mila): il 21% del totale, media più alta degli ultimi anni. Per il governo Meloni sono troppe. Anche perché malgrado l’impegno per contrastare i flussi, una vera e propria ossessione, nel resto d’Europa gli arrivi di migranti calano ma in Italia gli sbarchi aumentano. Migranti. Assolta Marjan Jamali: non era una scafista di Silvio Messinetti Il Manifesto, 17 giugno 2025 Un processo grottesco e ideologico a carico di due cittadini iraniani che per 500 giorni hanno subito l’onta di essere considerati trafficanti di esseri umani. Con una sentenza double face: Marjan Jamali assolta, Amir Babai condannato a 6 anni e al pagamento di una multa monstre di un milione e mezzo di euro per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Malgrado avessero fatto il viaggio insieme, anche quello precedente la traversata che li ha portati in Calabria, e malgrado la posizione processuale emersa nel dibattimento fosse identica. Le urla di disperazione di Amir al termine della lunga camera di consiglio del tribunale di Locri, alla lettura del dispositivo, si possono spiegare solo con l’incongruenza del provvedimento. Perché il processo a Marjan e Amir non è stato solo un caso giudiziario, ma un atto politico. È il prodotto di un sistema che agisce contro le persone in movimento, con arresti immediati e un uso distorto delle testimonianze rilasciate nei momenti di massima vulnerabilità. Dal 18 giugno 2024, data di apertura del procedimento, i due imputati hanno subito oltre 500 giorni di misure cautelari: Amir Babai da detenuto, Marjan Jamali da persona libera, ma solo a fine marzo a seguito dell’ordinanza del Riesame di Reggio Calabria che aveva già smontato l’impianto accusatorio. Eppure, secondo i giudici, Amir avrebbe svolto mansioni esecutive in un’operazione di traffico di esseri umani condotta da soggetti attivi in Turchia. Marjan e Amir hanno subito un processo perché accusati, in pratica, di aver contribuito a fare arrivare circa 100 persone, soccorse a bordo di un veliero a fine ottobre del 2023, poi sbarcato al porto di Roccella Jonica. I due viaggiavano su quella imbarcazione di fortuna e la giovane donna era insieme al figlioletto Faraz. Madre e figlio erano scappati dalla violenza del compagno di lei e del regime teocratico. Successivamente allo sbarco, Marjan è stata accusata da tre iracheni di aver fatto parte dell’equipaggio del natante. L’hanno accusata e poi sono spariti. Diversi testimoni avrebbero poi dichiarato il contrario dei tre accusatori fantasma. Lei ha denunciato, invece, quel che ha subito su quel veliero ovvero un tentativo di stupro davanti al figlioletto. Ha resistito anche grazie all’intervento in sua difesa di un altro compagno di viaggio. Era Amir Babai. Persino Faruk, l’egiziano che ha confessato di essere il conducente dell’imbarcazione, ha testimoniato a discarico: i due erano semplici passeggeri, senza alcun ruolo nell’organizzazione del viaggio. Una testimonianza rafforzata dalle dichiarazioni di una coppia rintracciata in Germania, che ha viaggiato con Marjan e il figlio fin dalla Turchia. Ma soprattutto la documentazione acquisita e le ricostruzioni fornite dalla difesa hanno mostrato come l’intero impianto accusatorio fosse basato su elementi labili e mal interpretati, tra cui la presenza di Marjan e Amir in un gruppo Telegram usato dai trafficanti. Ma ciò non è bastato ad Amir per sfuggire alla condanna. Felicità per Marjan e sconcerto per Amir, i sentimenti della folta delegazione di attivisti che ha presenziato all’udienza di ieri. Tra loro anche Maysoon Majidi, la regista curda, che ha subito la stessa sventura di Marjan e Amir, a Crotone qualche mese fa. “C’è un forte disappunto per una sentenza pilatesca e politica. La nostra lotta per la libertà di Amir continua” ha spiegato Francesco Saccomanno, del movimento antirazzista calabrese ed esponente del Prc. Il legale di Babai, Carlo Bolognini, ha annunciato che presenterà appello. Repressione e missili. Il popolo iraniano vittima di due violenze di Maysoon Majidi Il Manifesto, 17 giugno 2025 I recenti attacchi israeliani contro obiettivi militari in Iran non rompono la logica che da decenni domina la regione: quella di una guerra per procura, in cui i popoli sono solo pedine da sacrificare. In un sud-ovest asiatico attraversato da tensioni sempre più profonde, il popolo iraniano si ritrova ancora una volta intrappolato in una storia che non ha scritto. Senza voce nei processi decisionali, senza alcun potere sui giochi di forza regionali e internazionali, milioni di persone diventano bersaglio passivo di dinamiche che non hanno nulla a che vedere con la loro sicurezza o il loro futuro. I recenti attacchi israeliani contro obiettivi militari in Iran non rompono la logica che da decenni domina la regione: quella di una guerra per procura, in cui i popoli sono solo pedine da sacrificare. Nonostante alcuni osservatori interpretino queste operazioni come un tentativo di indebolire le strutture militari della Repubblica Islamica o persino di favorire un cambio di regime, resta un’unica certezza: chi paga il prezzo più alto sono sempre i civili. Uomini, donne, bambini, esclusi dalla pianificazione della guerra come dalla progettazione della pace. Nel frattempo, il popolo iraniano si trova a fronteggiare non solo una minaccia esterna, ma anche una profonda crisi interna. A seguito degli attacchi israeliani, il governo degli Ayatollah, nel nome dell’emergenza, stringe ancora di più il pugno. Il paese ha visto un’escalation di repressione: arresti notturni di attivisti, incursioni nelle case dei dissidenti e gravi limitazioni all’accesso a internet in varie province. Il governo sfrutta lo stato di guerra per legittimare la violenza istituzionale, restringere lo spazio pubblico e controllare il discorso politico. In Kurdistan e nel Sistan-Baluchistan, regioni già martoriate dalle rivolte degli ultimi anni, la stretta è stata particolarmente feroce. Sono le stesse regioni che durante le recenti rivolte hanno pagato il prezzo più alto in termini di vite umane. Non è una novità. La Repubblica Islamica ha affinato nel tempo una strategia che potremmo definire “ingegneria del conflitto etnico” o Dividi e impera con lo scopo di indebolire i movimenti di protesta. Fomentando la paura del federalismo e creando un’artificiale contrapposizione tra centro e periferia, le istituzioni statali sono riuscite a marginalizzare le rivendicazioni di giustizia sociale delle nazionalità oppresse; kurdi, baluci, arabi, turkmeni. La realtà sul terreno dimostra che le comunità storicamente discriminate, nonostante la repressione persistente, hanno svolto e continuano a svolgere un ruolo centrale nella resistenza civile contro l’autoritarismo. Lo fanno chiedendo uguaglianza giuridica, partecipazione politica, giustizia sociale. Lo fanno nonostante tutto, pagando un prezzo altissimo. Perché ogni richiesta, ogni voce libera, viene letta come un attacco, come una richiesta di separatismo. Ogni resistenza come tradimento. Ma la crisi che oggi attraversa l’Iran va ben oltre i suoi confini. La crisi attuale evidenzia come la mancanza di democrazia e di responsabilità istituzionale abbia trasformato il Paese in un campo di battaglia per le potenze esterne. Inoltre, i programmi nucleari, gli investimenti militari e l’opacità delle strutture decisionali hanno non solo logorato le risorse nazionali, ma anche creato terreno fertile per le ingerenze straniere. Il popolo iraniano oggi sopporta due violenze: quella interna, dello Stato che reprime, censura, tortura; e quella esterna, delle potenze che si contendono l’influenza su un Paese mai pacificato. A queste si aggiunge una terza violenza, più sottile ma non meno devastante: quella dell’abbandono internazionale. Per la gran parte della popolazione, quello che conta è che la guida suprema Ali Khamenei lasci finalmente il potere. Ma non per questo è disposta ad accettare le ingerenze straniere, di Israele e di chiunque altro. A rendere ancora più incerto l’orizzonte c’è l’assenza di una alternativa politica forte e riconosciuta e di un progetto concreto per il dopo Repubblica Islamica, un vuoto che, come le proteste brutalmente soffocate degli ultimi anni hanno mostrato, alimenta una profonda inquietudine collettiva sul destino del Paese. In questo contesto, è responsabilità della comunità internazionale, in particolare dell’Unione europea e degli stati difensori dei diritti umani, andare oltre un ruolo meramente osservativo. L’Europa e l’Italia devono offrire una narrazione indipendente sulla realtà iraniana: una narrazione che non sia subordinata agli interessi geopolitici ma che sia coerente con i diritti umani e la giustizia sociale. Esercitare una pressione diplomatica efficace sulla Repubblica Islamica per fermare la repressione interna, sostenere apertamente i media e gli attivisti indipendenti, facilitare vie sicure per l’asilo politico degli attivisti in pericolo e supportare i movimenti democratici non violenti: sono queste le azioni concrete che possono dimostrare che l’Europa è davvero dalla parte dei diritti umani. L’attacco all’Iran serve a distogliere l’attenzione da Gaza ma non rovescerà il regime teocratico di Antonella Rampino Il Dubbio, 17 giugno 2025 Al quinto giorno di guerra contro l’Iran appare sempre più evidente che il conflitto stia cambiando natura, poiché dopo l’obiettivo dichiarato da Israele di voler fermare il nucleare militare emerge quello di un cambio di regime a Teheran. Obiettivo questo non esplicitato ma visibile e deducibile dagli obiettivi militari israeliani: dopo aver decapitato intelligence e milizie di regime, dopo aver colpito strutture scientifiche e centrali per l’arricchimento dell’uranio, Tel Aviv è rapidamente passata a bombardare zone residenziali, depositi di carburanti, sedi di ministeri, creando il panico e il terrore nella popolazione della capitale iraniana. E si è diffusa, tramite l’agenzia Reuters e la tv statunitense CBS che ha trovato tre fonti governative a conferma, la notizia che Trump ha posto il veto all’assassinio di Khamenei, la Guida Suprema dell’Iran. Se Trump ha posto il veto, nella lunga telefonata con Netanyahu, è evidente che la leadership israeliana ne aveva affermato l’intenzione. Mutare natura alla guerra contro l’Iran è ciò che può far trasfigurare in sconfitta quello che all’inizio era stato un mezzo colpo di genio politico: scagliarsi contro un nemico riconosciuto dalla comunità internazionale, e farlo nell’esatto momento in cui era un’agenzia dell’Onu a certificarlo come tale - con il warning dell’Aiea sull’arricchimento dell’uranio - era servito a rovesciare la tragica maschera da criminale di guerra che ormai Netanyahu grazie agli orrori di Gaza aveva finito per indossare agli occhi della stragrande maggioranza delle cancellerie non solo occidentali. Quell’indicare un nemico comune era servito anche a ritrovare almeno un po’ di unità nel Paese, come provano le immagini del presidente Herzog che affianca il premier nella visita ai luoghi israeliani colpiti dai missili iraniani. Ma adesso, quella di cogliere la storica opportunità di eliminare il nemico numero uno, rischia di essere solo un’illusione. Il regime change è un obiettivo fuori portata, e per vari motivi. Anzitutto è la prima volta dalla sua nascita che lo Stato di Israele dichiara guerra a un altro Stato. L’Iran non è un proxy, cioè un’organizzazione politico- terrorista come quelle contro cui Tel Aviv ha sempre combattuto, da Hamas ad Hezbollah e indietro nel tempo fino all’Olp: l’Iran è uno Stato, incommensurabilmente più vasto e popoloso di Israele, capace di far valere in belligeranza la propria forte identità nazionalista, cosa che vale anche per gli oppositori del regime teocratico, come accadde per esempio nel sanguinoso conflitto contro l’Iraq. È impossibile far cadere un regime come quello di Teheran senza una reale, strutturata, radicata, ben organizzata e armata resistenza interna, che invece in Iran semplicemente non esiste. Tsahal e Mossad, per mettere a segno i loro colpi, si sono appoggiati a minoranze etniche usandole come infiltrati. Hanno fatto quello che per Tel Aviv è business as usual. Inoltre, come avvertiva ieri un editoriale di Haaretz, puntare al regime change potrebbe spingere i persiani a compattarsi, e gli ayatollah a prendere misure estreme. Anche se il 92 per cento dei missili lanciati contro Israele sono stati intercettati dai tre sistemi di difesa aerea di cui Tel Aviv dispone - Iron Dome, Arrow, David’s Sling- non lasciano tranquilli le istantanee dei missili caduti a Dimona, la base nucleare israeliana, o dei droni che sibilano sulla residenza di Netanyahu. L’impressione di molti analisti - ne scriveva il Wall Street Journal, per esempio- è che Netanyahu abbia sottovalutato la capacità del regime di riorganizzarsi dopo i primi, spettacolari, colpi israeliani. E infine, il più cruciale dei motivi che sconsiglia di tentare di detronizzare gli ayatollah: non esistendo opposizione interna, non esiste nemmeno una leadership pronta a colmare il vuoto di potere che si creerebbe. L’Iran finirebbe in una situazione libica, e questo sarebbe spaventoso. Così spaventoso da spaventare anche l’Arabia Saudita, che dell’Iran è nemica, e la Russia, che dell’Iran è amica. Israele poi ha colpito molti siti nucleari, ma resta intatto il più rilevante, quello di Fordow destinato alla costruzione della bomba atomica: è a un po’ meno di cento metri di profondità, nel cuore di una montagna che sovrasta Teheran, e per distruggerlo Israele non ha l’arma adatta. Le bombe di profondità dovrebbe fornirle Donald Trump, che come si vede sta facendo di tutto per non entrare in guerra con l’Iran. Il Pentagono e i suoi consiglieri militari, nonché la sua sedicente refrattarietà alle guerre, devono avergli consigliato prudenza. Imprevedibile ed ondivago, e dunque alla fine inaffidabile, il presidente americano si ritrova però ad essere vittima di se stesso: durante il suo primo mandato alla Casa Bianca stracciò l’accordo internazionale, accettato da Teheran e costato quasi un ventennio di trattative diplomatiche, che teneva sotto controllo il nucleare iraniano. Da allora, gli iraniani hanno sbattuto la porta. E adesso, dopo l’attacco israeliano, potrebbero anche uscire dal trattato sulla non proliferazione nucleare. La pallida proposta di Trump, respinta nell’ultimo vertice in Oman, era di lasciare agli iraniani la possibilità di arricchire l’uranio, ma di farlo fuori dai confini, sotto controllo dell’Aiea, in modo da limitarne l’uso al solo livello civile, e impedire la bomba atomica. È pensabile che, con Netanyahu che punta al cambio di regime, gli ayatollah tornino al tavolo di trattative? Probabilmente no. E deve essere anche per questo che Trump ha proposto (assurdamente: si tratta dell’invasore dell’Ucraina) Putin come mediatore. Non per i suoi rapporti con Teheran: per quelli che intrattiene, da sempre, con Netanyahu.