Non è Kafka, è soltanto il paese di Totò di Francesco Merlo La Repubblica, 16 giugno 2025 Si può mandare in galera - e non ai domiciliari - un uomo di 94 anni, condannato non per un delitto di sangue ma per la bancarotta di una casa editrice? Si può. Ma per fortuna siamo in Italia e l’ingranaggio giudiziario si tinge sempre di commedia. “In galera ti mando” prometteva Totò in una famosissima scena che, meglio del Processo di Kafka, spiega l’ingranaggio giudiziario italiano, che - come vedremo - si tinge, comunque e sempre, di commedia. Domanda: si può nell’Italia della “brava gente” mandare in galera, e non ai domiciliari, un uomo di 94 anni, Renato Cacciapuoti, condannato a 4 anni e 8 mesi non per un delitto di sangue, ma per la bancarotta, 15 anni prima, della casa editrice “Olimpia”, specializzata in caccia e pesca? Si può rinchiudere in una cella con altri quattro detenuti un vecchissimo signore con il suo treppiedi e i suoi bastoni, le emorroidi e gli spaesamenti? Si può trascinare in uno dei peggiori penitenziari, il Sollicciano dei brutti ceffi, dei topi e delle cimici nei letti, un uomo che “non è più - diceva Scalfari a 93 anni - nell’età dei vecchi né dei molto vecchi, ma dei vegliardi che spesso sono rimbambiti, ma talvolta sono più lucidi degli altri, perché vedono di più e meglio”? Si può, si può. Si può, se l’avvocato non si è opposto in tempo, e cioè subito prima che la condanna diventasse esecutiva. Si può, se il sostituto procuratore generale ha emesso l’ordine di arresto senza farsi e fare domande sul numero 94. Si può, se i medici del carcere hanno scritto che le condizioni appaiono buone, “anche se”, “malgrado” e “nonostante”. Si può, se il magistrato di sorveglianza non ha esercitato il potere-dovere della compassione e non ha scelto la detenzione in casa perché ha con il regolamento lo stesso rapporto inesorabile che aveva Javert con i “Miserabili”. Si può, se l’ingranaggio non aggroviglia il nastro, se nessuno ha una paralisi di panico, se la misericordia non illumina la legge. Si può perché “essendo comune - diceva appunto Kafka - questa storia non prevede miracoli”. Siamo però in Italia, che non è il paese di Kafka ma di Totò, e qui “i vegliardi - diceva ancora Scalfari - a volte sono bambini, a volte sono saggi”. Cacciapuoti in cella è diventato saggio, beniamino di carcerieri e detenuti, e invece di perdersi si è ritrovato, più forte dell’insulto che il suo corpo esausto subiva, al punto da spiazzare persino l’avvocato che, per averlo fuori, lo raccontava a Radio24 malandato come l’abate Faria, ma poi gli scappava un meravigliato: “È un leone”. E si è svegliata l’Italia, si sono indignati i giornali, il cappellano e l’intera chiesa di Firenze, il garante dei detenuti e, mi dicono - Ssst! - che dal Quirinale qualcuno ha telefonato a qualcuno: provate a sconfiggere il regolamento con il regolamento. Si può? Si può, con un trasferimento sprint in un carcere “più adatto”, il Gozzini, dove Cacciapuoti non è nemmeno entrato perché il magistrato di sorveglianza, che lì è diverso, è una gran donna che, nel tempo di un Padrenostro, lo ha mandato ai domiciliari. E Cacciapuoti, in sei giorni di galera, ha scoperto che nei posti peggiori ci sono le persone migliori. Carcere, quando il volontariato è una vocazione di Antonella Barone gnewsonline.it, 16 giugno 2025 Incontri con i protagonisti, donne e uomini che hanno creato lavoro e formazione per i detenuti, promosso la cultura come esercizio di libertà, sfidato ostacoli burocratici, combattuto pregiudizi e stereotipi. Tra passato e presente, attraverso queste figure, è possibile riscrivere la storia del mondo penitenziario dalla Riforma Gozzini a oggi. Anna Protopapa: artista e volontaria “free lance” - Operatrice sanitaria, fin da giovanissima attiva nel sociale, Anna Protopapa è entrata nel carcere di Reggio Emilia da ‘indipendente’, senza cioè far parte di un’associazione di volontariato, nel 2020 durante il primo lockdown. In piena emergenza sanitaria da Covid 19 ha messo a disposizione della comunità carceraria una spiccata attitudine alla manualità e una notevole capacità organizzativa per realizzare dispositivi di protezione individuale. Da allora non ha mai smesso l’attività di volontariato in carcere: ancora oggi ‘free lance’ ha creato il progetto Liberi ART che trasforma temi e concetti oggetto di riflessione con i detenuti in oggetti con valore artigianale e anche artistico. L’impegno nel sociale di Anna non riguarda però solo i detenuti: è delegata regionale di Gens Nova associazione che tutela i i soggetti svantaggiati vittime di violenza e gestisce un punto d’ ascolto dedicato alle vittime presso uno studio legale di Reggio Emilia. Cosa ricorda di quel periodo, indimenticabile per tutti ma, soprattutto per chi si trovava, a vario titolo, in carcere? Mancavano le mascherine, al tempo erano introvabili e ne occorrevano ingenti quantità per contenere il contagio. Il rischio maggiore di contrarre il virus e la carenza di presidi erano motivo di agitazione tra la popolazione detenuta. Così mi sono attivata per tale produzione facendo in primis appello alla solidarietà di aziende, di commercianti e di privati sul territorio nazionale che hanno risposto positivamente alla mia richiesta mettendo a disposizione ritagli di stoffa, oltre ad atri materiali (elastico, filo, macchine da cucire). Ho poi acquistato io stessa quello che mancava per realizzare le prime mascherine coinvolgendo detenuti Sempre in quel periodo sono riuscita a mettere a disposizione materiale Tnt per la produzione di presidi al carcere di Modena e di Castelfranco Emilia. Come è riuscita a coinvolgere detenuti in un momento così difficile? L’adesione di alcuni detenuti, fu immediata e in breve riuscimmo ad allestire un laboratorio con macchine da cucire fornite da alcune canoniche del circondario. Credo che la reazione positiva sia stata dovuta alla consapevolezza di dare un contributo al bene di tutti in un contesto così complesso come il carcere dove la concentrazione di focolai Covid era veramente esplosiva. Le prime mascherine realizzate furono state messe a disposizione di tutti i detenuti, del personale della struttura detentiva e dei familiari dei ristretti. Seguirono poi iniziative di donazioni sul territorio reggiano e fuori dai confini regionali e nazionali come l’invio di presidi solidali ai bambini della missione di Apeitolim in Uganda, a tutte le Forze dell’Ordine di Reggio Emilia, ai piccoli pazienti dell’Ospedale Regina Margherita di Torino. Consegnai personalmente le mascherine durate un’udienza generale anche a Papa Francesco. A Dopo l’urgenza è arrivato il momento di mettere a disposizione dell’Istituto Penale di Reggio Emilia la sua passione artistica … Nell’estate del 2021 ho ideato il progetto o Liberi Art che punta alla rieducazione dei ristretti attraverso l’utilizzo dell’arte. Otre a insegnare come utilizzare la manualità per esprimere e a liberare il loro potenziale creativo, il metodo utilizzato consiste nell’ affrontare tematiche sociali quali la violenza sulle donne, sui bambini, sull’ambiente, su bullismo e cyberbullismo, su religioni, inclusione, Giustizia e Legalità. Temi che, al termine di percorsi di confronto e riflessione, si concretizzano poi con la realizzazione di quadri e manufatti che diventano oggetto di mostre Liberi Art itineranti. Intendiamo così costruire ponti di solidarietà tra il mondo carcerario e la società civile. Tra gli eventi che ritengo più significativi c’è senz’altro la mostra contro la violenza sulle donne che ho organizzato in collaborazione con gli Istituti Penali, il Comune e la Biblioteca Marco Gerra di Reggio Emilia. Nell’ambito della medesima esposizione abbiamo svolto altre due iniziative: “L’ amore unisce” che ha coinvolto in un laboratorio creativo le persone del Centro di Salute Mentale di Reggio Emilia. In occasione del Trentennale della Strage di Capaci e via D ‘Amelio si è svolta negli Istituti Penali di Reggio Emilia la Mostra Liberi Art “Arte in carcere, un dono a Salvatore Borsellino” presente all’evento con la sua testimonianza. “Arte in carcere: un cammino verso la Legalità” è la mostra Liberi Art che invece si è svolta nella Scuola di Formazione e Aggiornamento Polizia Penitenziaria Giovanni Falcone a Roma in collaborazione con il Dipartimento della Polizia Penitenziaria e con il patrocinio del Ministero della Giustizia. Mi piace ricordare anche il progetto del 2023 “Sbagli, sofferenza e vita”, consistente nella realizzazione di due serie di quadri. Un primo gruppo di opere dedicate alla realtà del carcere: dalla consapevolezza dei propri errori, alla sofferenza per la separazione dagli affetti famigliari per la privazione della libertà personale, al dramma dei suicidi e alla voglia di migliorarsi per cercare di vivere fuori dalle mura una vita nuova. Un’altra serie di quadri invece sono dedicate al Corpo di Polizia penitenziaria e raffigurano diversi loghi del Corpo, oltre a un’opera dal titolo “Il male oscuro delle divise” per sensibilizzare anche la sofferenza e il fenomeno dei suicidi degli Agenti, e delle Forze dell’Ordine in generale. In cosa consistono le creazioni LiberiArt? Quadri, oggetti dal significato simbolico, piccole sculture di carta che i detenuti partecipanti possono donare ai familiari. In occasione dell’8 marzo pergamene donate alle mogli, fidanzate, figlie, al personale femminile del carcere reggiano, ad alunni delle scuole che hanno partecipato al nostro progetto segnalibri Il suo impegno sembra caratterizzarsi per aver realizzato iniziative coinvolgendo anche come partner soprattutto la polizia penitenziaria e le forze dell’ordine. Da cosa è stata determinata questa scelta? Le mie iniziative in generale toccano diverse tematiche e problematiche sociali che per essere affrontate nella loro complessità in maniera approfondita richiedono il coinvolgimento di diverse istituzioni: non solo forze dell’ordine ma anche Comuni, realtà territoriali, scuole, biblioteche. Ho sempre considerato la Polizia Penitenziaria e le Forze dell’Ordine molto importanti per il prezioso ruolo che svolgono per la società civile, per la sicurezza pubblica e la protezione dei cittadini sia dentro che fuori dalle mura carcerarie. Per me è fondamentale il “rispetto” della persona che sia essa detenuta o no. Nelle attività rieducative che svolgo con i ristretti è essenziale insegnare loro il “rispetto” anche verso gli uomini e le donne che indossano una divisa e che spesso vengono invece considerati, da alcuni detenuti, nemici, quando in realtà i loro unici nemici sono i reati da essi commessi. Pertanto, a mio parere, necessitano di maturare la consapevolezza dei propri errori dai quali sono prigionieri. Il primo passo verso il cambiamento. Una impresa ardua, ma non impossibile! Anche il lavoro della Polizia Penitenziaria è finalizzato alle attività rieducative dei detenuti collaborando con le diverse figure professionali, gli operatori e volontari penitenziari. Secondo lei il carcere oggi rappresenta davvero un’opportunità di riabilitazione oppure le criticità vanificano il compito assegnatogli dall’ articolo 27 della Costituzione? Dal mio punto di vista l’efficacia o meno della riabilitazione dipende in gran parte dalla volontà del detenuto. La mia esperienza mi porta a dire che ci sono detenuti che hanno voglia di cambiare e altri che per “loro scelta” vanificano le opportunità di riabilitazione che il carcere mette a disposizione. È anche vero che le criticità del carcere intese come la mancanza di spazi adeguati per consentire le progettualità rieducative possono incidere e limitare i percorsi di riabilitazione dei detenuti. La rivoluzione del Made in Carcere che porta benessere a tutti di Micol Ferrari Il Tempo, 16 giugno 2025 In “Sprigiona il valore!” un sistema carcerario che valorizza il lavoro nei penitenziari. “Sprigiona il valore. Made in Carcere e la rivoluzione del Benessere Interno Lordo” è un libro che ho curato con Luciana Delle Donne (edito da Franco Angeli), nella difficile sfida di invitare a ripensare il carcere non solo come luogo di detenzione, ma come spazio di rinascita umana e sociale. E pure una sfida imprenditoriale. Nato dall’esperienza concreta di Made in Carcere, realtà che da anni promuove il reinserimento sociale attraverso il lavoro artigianale nelle carceri femminili italiane, racconto un modello di economia circolare e rigenerativa che offre dignità e nuove opportunità a chi si trova in situazioni di privazione della libertà. Sul solco della suggestione che diede Robert Kennedy anche noi affrontiamolo stesso cambio di paradigma: sostituire il più noto Prodotto interno lordo (Pil) con un più ampio Benessere interno lordo (Bil), indicatore che va oltre la mera crescita economica, che misurala qualità delle relazioni, la consapevolezza individuale e l’emancipazione. Attraverso contributi multidisciplinari che spaziano dalla sociologia all’economia, dalla psicologia alla filosofia, il libro costruisce una mappa possibile di un sistema carcerario che valorizza il lavoro, l’educazione e la creatività come strumenti di trasformazione. Le esperienze concrete di realtà come Lecce, Taranto e Trani sono accompagnate dalle testimonianze di chi dentro il carcere ha trovato la forza per ricostruirsi. Come questa detenuta: “Noi dal carcere guardiamo il futuro con tanta speranza. Qui ho imparato a conciliare tante cose. E un po’ come cucire una borsa: se tu cuci una borsa e sai i pezzi che devi montare capisci anche la tua vita come deve essere montata. Poi nel laboratorio di sartoria io mi distacco dal contesto carcerario posso anche pensare alla mia vita fuori in meglio. Essendomi specializzata in questo lavoro spero di trovare una occupazione come addetta alla cucitura. Sarebbe bellissimo perché oltre ad avere la retribuzione ci metto anche la passione”. Persone nuove dentro un progetto che abbatte la recidiva e fa impresa, impresa circolare, impresa di recupero: ecco il metodo Made in Carcere che unisce formazione, creatività, artigianato tradizionale e moderno; restituendo bellezza e dignità a coloro che la società aveva invece condannato all’oblio. E non è un caso che questo progetto sia stato sposato da importanti aziende e grossi gruppi, convinti non solo dell’idea ma soprattutto di quella “cassetta degli attrezzi” che Made in Carcere mette a disposizione al fine di trasformare l’estetica in atto etico. “Sprigionare il valore” dimostra come il carcere possa diventare un luogo di generatività personale e sociale, dove le ferite diventano seme di futuro. Per questo nella parte conclusiva il libro raccoglie frammenti di vita vera, racconti e pensieri di chi ha vissuto l’esperienza carceraria o l’ha attraversata con uno spirito di trasformazione. Le parole di figure come Vito Mancuso, Cristiana Dall’Anna, Daniel Lumera, Gianluigi Paragone e Filippo La Mantia si alternano a quelle poetiche e liberatorie di Gio Evan. Tale coralità è un contributo importante in un momento storico in cui il carcere viene ancora visto quasi esclusivamente come luogo di esclusione e di punizione, mentre qui si propone come laboratorio di umanità e rinascita sociale, confortato dagli ottimi dati circa l’abbattimento della recidiva. Alla base di tutto c’è la convinzione che nessuno sia irrecuperabile e che ogni persona abbia dentro di sé la capacità di cambiare. Il concetto di “carcere consapevole” descritto nel libro non è più una macchina punitiva, ma diventa un ponte verso un futuro possibile. Come sottolineano nella postfazione Annalisa Corrado e Alessandro Gassman, questa rivoluzione è già iniziata con dati confortanti ed è urgente promuoverla. Gli effetti del Decreto Sicurezza: la stretta del Governo porterà 400 anni di carcere in più di Irene Famà La Stampa, 16 giugno 2025 I nuovi reati - dall’omicidio nautico al cyberbullismo - e le aggravanti introdotti dal Governo Meloni produrranno un enorme aumento dei periodi di reclusione. Dai rave party al decreto sicurezza, il governo Meloni sembra avere due filoni chiave: introdurre nuove norme e inasprire le pene. Secondo i calcoli di autorevoli penalisti, che prendono a riferimento i reati più importanti, le modifiche introdotte prevedono, in più rispetto alla legislazione precedente, da un minimo di quaranta ad almeno duecento anni di reclusione. Per gli algoritmi dell’intelligenza artificiale, che prendono in considerazione anche il rafforzamento della cybersicurezza e l’omicidio nautico, si superano i quattrocento anni di carcere. “Misure necessarie per rafforzare la tutela dell’ordine pubblico”, si giustifica la maggioranza. “Repressione ingiustificata”, ribattono dalle opposizioni. Si inizia nel dicembre 2022 con l’introduzione del reato di organizzazione o promozione di rave party non autorizzati punito dai tre ai sei anni e una multa da mille a diecimila euro. Qualcosa di più dettagliato e specifico dell’occupazione di terreni. Poi il decreto Cutro con pene fino a trent’anni per chi provoca la morte o lesioni gravi durante il traffico di migranti. Tra bagarre in aula e scontri di piazza, nelle scorse settimane il decreto sicurezza è diventato legge. Trentanove articoli che introducono quattordici nuove fattispecie di reato e nove aggravanti di delitti già esistenti. La premier plaude a “un passo decisivo”. Le opposizioni insorgono, parlano di “criminalizzazione del dissenso”. Gli avvocati lanciano l’allarme: “In questo modo si blocca il sistema giustizia”. Gli articoli più contestati riguardano le mobilitazioni e le contestazioni di piazza. Il blocco stradale non sarà più un illecito amministrativo, ma un reato punito sino a un mese di reclusione. Se poi il fatto viene commesso da più persone si passa a una pena da sei mesi a due anni. Soprannominata “norma anti-Ghandi”, le opposizioni sono convinte che sia stata introdotta per colpire i sit-in e le azioni degli ambientalisti. Oppure l’aggravante all’articolo 639 del codice penale cosiddetta “anti-ecovandali”: da sei mesi a un anno di carcere per chi deturpa o danneggia “beni mobili o immobili adibiti all’esercizio di funzioni pubbliche con finalità di ledere l’onore, il prestigio o il decoro dell’istituzione cui il bene appartiene”. E ancora. La norma “anti no Ponte o anti no Tav” che colpisce atti violenti commessi per impedire la realizzazione di un’infrastruttura “destinata all’erogazione di energia, servizi di trasporto, telecomunicazioni e altri servizi pubblici”. Pugno duro con i “pizzini” della guerriglia. Chiunque si procura o detiene materiale con istruzioni su come si preparano o si usano “congegni bellici micidiali, armi, sostanze chimiche, batteriologiche” o su come si mettono in atto “sabotaggi a servizi pubblici” è punito con la reclusione dai due ai sei anni. E, sempre nell’ottica di contrastare il terrorismo, chi ha un’attività di noleggio di veicolo senza conducente e non comunica i dati del cliente rischia sino a tre mesi. C’è poi l’articolo sull’occupazione arbitraria di un immobile destinato al domicilio altrui che punisce con pene dai due ai sette anni di reclusione chi occupa una casa e chi lo aiuta. La novità introdotta è la possibilità per la polizia giudiziaria di disporre il rilascio immediato dell’immobile anche senza mandato del giudice. Punto, questo, molto caro alla premier che solo qualche giorno fa è tornata a ribadire: “Interveniamo con determinazione contro le occupazioni abusive, accelerando gli sgomberi”. Una stretta è prevista per le rivolte all’interno del carcere: chi organizza o dirige la sommossa è punito con la reclusione da due a otto anni. Chi partecipa ne rischia da uno a cinque. Se poi vengono utilizzate armi, la pena prevista varia dai tre ai dieci anni. Se qualcuno, durante la rivolta, viene ammazzato, sono previsti dai dieci ai venti anni di reclusione. L’elenco è lungo. Si aggrava la pena prevista per chi mette a segno i borseggi vicino alle stazioni ferroviarie o della metropolitana o per chi mette in strada, a chiedere l’elemosina, minori sino ai sedici anni. E anche per chi truffa gli anziani. Per la cannabis è tolleranza zero: bandita anche quella light, cioè priva di principio attivo. Vietata “l’importazione, la cessione, la lavorazione, la distribuzione, il commercio, il trasporto, l’invio, la spedizione e la consegna” delle sue infiorescenze. “Questo è populismo. Aggiungendo reati e aumentando le pene non si risolve il problema sociale, ma lo si acuisce”. Gian Luigi Gatta, ordinario alla Statale di Milano e presidente dell’Associazione italiana dei professori di diritto penale, spiega: “Si trasmette il messaggio che aggiungendo nuovi reati e aumentando le pene si possa ottenere una maggiore sicurezza”. Ma “per la sicurezza pubblica, la ricetta migliore è lavorare per le condizioni sociali, non investire sulla repressione”. Solleva quesiti non solo tecnici, ma anche e soprattutto morali, l’articolo del decreto sicurezza che elimina l’obbligo di rinviare la pena per le donne incinte o madri con bambini di età inferiore a un anno. Anche per loro si possono aprire le porte del carcere. — Le tragedie della cronaca e i processi in tv da evitare di Accursio Gallo* Il Messaggero, 16 giugno 2025 Dai casi Cogne e Avetrana, fino a Garlasco, Perugia, dal caso di Yara, passando per le ultime cronache di femminicidio, ogni tragedia reale si trasforma in una saga da palinsesto. Le trasmissioni si moltiplicano, le dirette web si rincorrono, i talk-show sostituiscono le aule di giustizia. Il dolore si consuma in prima serata, la verità viene piegata allo share. E così le trasmissioni dedicate a casi giudiziari, prima destinate esclusivamente ad alcune trasmissioni “specializzate”, stanno sconfinando in gran parte dei programmi di approfondimento televisivo. Come Organismo Congressuale Forense crediamo che sia giunto il momento di dire con forza basta con i processi in tv e con la spettacolarizzazione della giustizia, in cui la tragedia si trasforma in show, la ricerca della verità in feuilleton, la vittima in oggetto di consumo. Sentiamo il dovere etico, deontologico e professionale di affermare un principio irrinunciabile: la giustizia si fa nelle aule dei tribunali, non nei salotti televisivi. Perché il “carnevale dell’opinionismo” televisivo, come lo ha definito recentemente Aldo Grasso, mina i cardini del nostro sistema giudiziario, negando il principio di legalità e quello di proporzionalità, il principio del giusto processo e naturalmente la presunzione di innocenza. Come Organismo di rappresentanza politica dell’Avvocatura italiana esprimiamo profonda preoccupazione per il tono inquisitorio di molte trasmissioni televisive, dove l’informazione cede il passo alla fiction e la cronaca diventa spettacolo morboso. Così la figura della vittima viene usata per fare audience e dare visibilità a opinionisti e presunti esperti mentre l’opinione pubblica viene sistematicamente spinta a sostituirsi al giudice, esprimendo giudizi sommari basati su simpatie e pregiudizi, non su fatti accertati giudizialmente. Ed è per questo che non possiamo più accettare che gli stessi avvocati e i loro consulenti si prestino a un ruolo di protagonisti in un circo mediatico che spesso distorce fatti e responsabilità. Come Ocf riaffermiamo l’importanza dell’equilibrio tra informazione e riservatezza, nel più assoluto rispetto per tutte le persone coinvolte. Il nostro appello va a tutte le componenti di questo sistema: ai giornalisti, che hanno il diritto - ma anche il dovere - di raccontare senza deformare; ai colleghi avvocati, che devono difendere i propri assistiti nelle sedi opportune, non davanti alle telecamere; alle istituzioni, che devono vigilare e garantire equilibrio. Noi non chiediamo censure, chiediamo responsabilità. Chiediamo che la cronaca giudiziaria torni ad essere sobria, rispettosa, consapevole. E che la ricerca della verità non venga più scambiata per fiction, né il dolore trasformato in oggetto di consumo. Chiediamo con forza a tutti i colleghi, ai media e alle istituzioni di farsi carico di questa responsabilità. Non per censurare ma per recuperare il senso etico nel racconto giudiziario, affinché la dignità della persona e la funzione della giustizia non siano più ridotti a strumenti di intrattenimento in nome dell’audience. Prima che sia troppo tardi. *Segretario dell’Organismo Congressuale Forense Serve davvero riaprire i vecchi processi? Fino a che punto è lecito riaprire vecchie ferite di Pierfrancesco De Robertis today.it, 16 giugno 2025 Nei giorni scorsi sono state riaperte a Bologna le indagini sulla “Uno Bianca”, la banda di rapinatori e assassini che misero a ferro e fuoco l’Emilia a inizio degli anni Novanta. Oltre trenta anni fa, e nel frattempo coloro che sono stati condannati hanno quasi del tutto scontato le pene che erano state loro inflitte. Nei giorni scorsi la procura di Palermo ha rimesso mano al fascicolo sull’assassinio di Piersanti Mattarella. Due settimane fa in Portogallo si è tornati a parlare della scomparsa di Madeleine McCann, la bambina inglese di sette anni sparita e mai più ritrovata. Nuove ricerche da tecniche non disponibili all’epoca. Di quanto è accaduto e accade a Garlasco non è il caso di dilungarsi, visto lo spazio che la vicenda è tornata a prendere sui giornali. Sulla manata sporca di sangue che a suo tempo nessuno aveva potuto decrittare adesso si stanno riempiendo pagine e pagine di giornali da settimane. Progresso o ossessione - Tutto questo, come abbiamo accennato, è stato possibile grazie al fatto che rispetto a quando le indagini sono state avviate e hanno portato a condanne o assoluzioni, in certi casi a clamorosi nulla di fatto, la tecnologia ha compiuto passi da gigante, e ciò che venti o trenta anni fa era impossibile da capire, adesso con un semplice test del DNA, l’utilizzo di tabulati, delle celle telefoniche, di tracciature sul web, di telecamere che riprendono ogni momento e ogni spasso della nostra quotidianità, ecco grazie a tutto questo gli orizzonti delle inchieste sono radicalmente cambiati. Qualcuno scherzando è arrivato a ipotizzare la riapertura del caso Piccioni o magari di riapertura in riapertura si arriverà ad avviare una nuova inchiesta sull’omicidio di Giulio Cesare. Siamo sicuri che fu solo Bruto a uccidere il grande condottiero e non invece ci furono altri che tesero la mano assassina? Non sarà il caso di riesumare qualche vecchio resto nel foro romano alla ricerca di un’impronta non vista, di una traccia di DNA? Provocazioni, ovviamente, che però rendono l’idea del clima. Quando sono davvero utili le moderne tecnologie - A questo punto si apre uno spazio di riflessione pubblica a cui tutti siamo chiamati, e potenzialmente di dibattito: dove finisce la giusta esigenza di perseguire crimini già esaminati ma in certi casi non del tutto scoperti, il bisogno di arrestare qualche assassino in libertà e all’opposto dove risiede l’ovvia considerazione che la giustizia (magistrati, poliziotti, investigatori) farebbe bene concentrarsi sul presente, visto che fatti da indagare non mancano e magari le tracce sono ben più fresche e facili da individuare? Non sarà che tutta questa tendenza a guardare al passato alla ricerca del titolone nell’inchiesta che tutti conoscono (Garlasco, Mattarella, Uno Bianca) e che quindi di per sé fa “ascolto” più che assecondare una reale esigenza investigativa va incontro alla tendenza quasi voyeuristica del “pubblico” di rendere tutto uno spettacolo buono per le trasmissioni di cronaca nera? Che c’è di meglio che un CSI dal vivo, ogni giorno una nuova puntata ma stavolta non inventata… Ricordiamoci che il crime, i programmi crime, è infatti ormai un genere tra i più seguiti e ognuna delle inchieste che abbiamo citato non fa che impennare gli ascolti di certi salotti tv. La catena a catena dei casi che abbiamo appena ricordato non è casuale ma nessuno ha la risposta giusta al dubbio che abbiamo riportato, come sempre accade quando la ragione non sta tutta dalla solita parte. Come si sa, l’omicidio è l’unico reato che non va mai in prescrizione, e un motivo evidentemente ci sarà. Il legislatore, prevedendo questa specifica ha voluto far capire che di fronte alla possibilità di assicurare un assassino alla giustizia non ci si deve fermare di fronte e niente, neppure al tempo che passa. Il punto è però che a volte si rimette mano a inchieste perché adesso sono disponibili tecnologie una volta neppure immaginabili ma non ci sono ipotesi davvero nuove o concrete, e pare che gli inquirenti seguano più suggestioni che altro. L’emblematico caso di Erba - Il caso della riapertura del processo di Erba, nei mesi scorsi, è un esempio lampante: settimane e settimane di discussioni, un nuovo processo e un nuovo buco nell’acqua. Quanto è costato allo Stato tutto ciò? Nel frattempo però si erano riempiti i palinsesti delle trasmissioni crime, si sono lasciati parlare per ore e ore i soliti presunti esperti di quindici o vent’anni fa stavolta un po’ più invecchiati, si sono rivisti gli assassini già condannati anche loro con i segni dell’età sul volto, vengono passate ai raggi i soliti indizi di una volta, rimescolati a dovere per dare il senso della novità. I pm che hanno avviato la nuova indagine hanno avuto il loro momento di celebrità, e anche gli inquirenti sono finiti nei tg, come magari non sarebbe accaduto se si fossero occupati di un “normale” delitto che nessuno conosce. Un vecchio caso fa sempre notizia, e l’utilizzo di un nuovo metodo di indagine, l’ultimo ritrovato della tecnica, porta lustro a chi l’adopera e magari gli fa fare carriera più velocemente. Stiamo estremizzando, ovviamente, perché può anche capitare che in effetti emergano nel tempo fatti realmente nuovi, e allora non c’è niente di più urgente che fare giustizia vera, quella che porta dietro le sbarre un colpevole adesso in libertà e all’opposto riabilita chi era stato ingiustamente condannato. Ma una riflessione sarà il caso di avviarla. Una scorta è per sempre. L’epica quotidiana dei protetti d’Italia di Francesco Palmieri Il Foglio, 16 giugno 2025 Snaturamenti e abusi ci sono, ma meglio una sicurezza superflua di un improvvido ottimismo. Il disagio e l’irrinunciabile aura di gloria, le fughe in incognito e le sirene spiegate. Così vivono i minacciati illustri. Don Blasco, che aveva visto “i bei tempi” di casa Uzeda di Francalanza, si ricordava ancora di quando suo padre, il principe Giacomo XIII, poteva contare ben “venti cavalli in istalla”. Si valutava così, dallo sfoggio di carrozze e destrieri, l’importanza di una famiglia nella Sicilia crepuscolare raccontata ne “I Viceré” da Federico De Roberto. Forse ancora così si soppesa, centotrentun anni dopo l’uscita del romanzo, la rilevanza pubblica di un personaggio: basta sostituire alle carrozze le auto blindate e ai destrieri gli uomini di scorta. Servizio irrinunciabile, non soltanto in Sicilia, con cui lo stato tutela l’incolumità di chi è considerato a rischio, quello delle scorte si è pure prestato a inevitabili snaturamenti, a qualche abuso che solo di rado finisce sui giornali e a pilatesche concessioni ad abudantiam perché “non si sa mai”. Le minacce, per dirla aristotelicamente, hanno un quid di apofantico: possono sembrare inattendibili ma sono vere oppure il contrario. Nel dubbio però, come insegna l’esperienza del passato, è preferibile una sicurezza superflua all’improvvido ottimismo; meglio un onere in più per lo stato che una fatale sottovalutazione. Dal 2002, dopo l’assassinio terroristico del giuslavorista Marco Biagi, l’assegnazione delle scorte è stata delegata all’Ucis, l’Ufficio centrale interforze che fu istituito apposta dal governo Berlusconi per valutare le richieste e stabilire la gravità del pericolo cui soggiace una personalità. Si va dal quarto livello (rischio basso), che prevede un’auto non blindata con uno o due agenti, fino al primo (rischio elevato): due o tre vetture blindate con tre addetti per ciascuna. Considerando turni, ferie, giorni di riposo e malattie se ne deduce un totale di quasi trenta uomini impegnati nella protezione h24 di un potenziale obiettivo. Non beneficiano di scorta, com’è ovvio che sia, soltanto le alte cariche dello stato, ma rappresentanti istituzionali, magistrati, giornalisti e criminali pentiti più una folta pattuglia di “ex”: è dei giorni scorsi la notizia, riportata dal Foglio, che dal primo gennaio 2026 il governo ritirerà gli uomini dei servizi segreti dalla tutela dei già presidenti del Consiglio, però tra i circa seicento scortati italiani perdurano altri “ex” di qualche cosa cui resta garantita protezione. Magari in forma declassata, non più di primo o di secondo livello, ma un’auto con l’agente ce l’hanno ancora, con discusse e sporadiche eccezioni come quella del “Capitano Ultimo” Sergio De Caprio, l’ex ufficiale dei carabinieri che nel 1993 arrestò Totò Riina. Per lui fu un togli e metti, la scorta gli veniva revocata e riassegnata finché dal 2018 ne è stato privato definitivamente, come di scorta è stato privo il generale Mario Mori, l’ex comandante dei Ros finito nel tritacarne del famoso processo sulla trattativa stato-mafia da cui è sortito assolto, e soprattutto ancora vivo per gustarsi l’estenuata vittoria. Come l’ex ministro Calogero Mannino, altro vegliardo che l’ha spuntata, perché per misterioso paradosso l’accanimento giudiziario e persino la galera in qualche caso trasformano il ferro in acciaio e allungano l’esistenza di Giobbe. Non percepita soltanto quale misura di protezione, talvolta la scorta è patita con disagio dalla personalità protetta, che percepisce la propria condizione come “una cattività”: lo ha affermato di recente ma già lo aveva lamentato Roberto Saviano, sotto protezione dal 2006 per le minacce dei Casalesi dopo l’uscita del libro Gomorra. “Quasi vita, quasi morte” sarebbe la routine dello scortato secondo lo scrittore, che ammette di avere pagato il successo con pesanti conseguenze personali. Il drappello di carabinieri che ne assicura da quasi un ventennio l’incolumità assume i connotati di un’Aura Gloriae pesante quanto identificativa, un po’ come lo Khvarenah, l’alone consacrante che gli studiosi di zoroastrismo traducono nell’incandescenza divina che contrassegna la persona del suo portatore. Perdere lo Khvarenah da un lato renderebbe ordinaria la quotidianità di un personaggio, sobbarcandolo di oneri minuti eppur rimpianti, dall’ardua ricerca del parcheggio all’attesa speranzosa di un taxi; dall’altro tuttavia ne desacralizzerebbe le epifanie, con lo stesso effetto riduttivo che avrebbe sui credenti un improvviso ritorno alla raffigurazione aptera degli angeli, ossia senz’ali, come venivano dipinti nei primi tre secoli del cristianesimo. Se qualcuno avanza il dubbio che, malgrado i disagi denunciati, gli aspiranti apteri non siano moltissimi (la rinuncia alla scorta soggiace, cristianamente, al libero arbitrio dello scortato), v’è anche la possibilità che il soggetto tutelato si ritagli di tanto in tanto qualche furtivo spazio di privacy. A proprio rischio, è vero, ma per quanto sia banale notarlo dà molto più nell’occhio una teoria di vetture blindate che un motociclista di cui non s’intravedono le fattezze sotto il casco integrale mentre si gode un giro solitario come un quisque de populo: assaporava così quel po’ di libertà Giuseppe Ayala, che fu pm nel maxiprocesso di Palermo. Tentò di assaporarla alla stessa maniera, perché - scorta o non scorta - l’uomo è di carne anche se siede all’Eliseo, il presidente francese François Hollande raggiungendo su uno scooter la casa dell’amante clandestina, l’attrice Julie Gayet, dopo essere sgattaiolato quatto quatto dal Palais. Alla fine i reporter lo beccarono e sull’amour secret du Président scoppiò uno scandalo non dimenticato, grazie al quale il vecchio Piaggio Mp3 delle sue scappatelle è stato battuto all’asta per più di venticinquemila euro giusto un anno fa. L’uomo è di carne con o senza autoblu, come constatò a sue spese il presidente della regione Lazio, Piero Marrazzo, che non adottò la soluzione Hollande per le proprie distrazioni ma ci si fece accompagnare; l’uomo è di carne, come toccò considerare agli uomini di scorta di un celeberrimo pentito di Cosa nostra, il quale aveva precisato ai magistrati che senza visite periodiche alle professioniste dell’amore gli si sarebbe arrugginita anche la lingua. E continuò felicemente a parlare. Ormai solo i non più giovanissimi possono ricordare in prima persona la cruenta stagione degli attentati mafiosi del ‘92/93. Lo stato versò sangue però vinse e gli esponenti di quella criminalità o sono morti o sono vecchi sparuti, murati al 41-bis come Leoluca Bagarella (non è il caso di Giovanni Brusca, che grazie al pentimento è tornato libero - e sotto scorta). Restano i misteri e le polemiche che si rinnovano a ogni commemorazione, nonché testimonianze residuali dell’epoca che fu: come il servizio di tutela riconosciuto ancora all’avvocato Alfredo Galasso, difensore di parte civile nel maxiprocesso di Palermo; o all’ex sindaco Leoluca Orlando, anche se le foto di copertina che lo ritraevano con il giubbotto antiproiettile attorniato dagli uomini coi mitra spianati sono, fortunatamente, sbiadita memoria di un’infausta storia. Ma la protezione è stata assegnata anche a chi è divenuto depositario successivo di quelle memorie come Maria Falcone, sorella del giudice massacrato a Capaci con Francesca Morvillo e la scorta il 23 maggio 1992. Cosa nostra è ridotta a un rimasuglio però i rischi sono sempre imprevedibili, sicché vive sotto massima protezione dal ‘93 il sostituto procuratore nazionale antimafia Nino Di Matteo, titolare di numerosi procedimenti giudiziari (e di ventiquattro cittadinanze onorarie). Con cospicuo dispiegamento di sirene che annuncia ogni mattina, al vicinato, la sua uscita di casa. Certo che non è facile la vita degli scortati. Eppure, a farci l’abitudine, il felice o infelice protetto si rivela restio al cambiamento salvo rare eccezioni. Quando fu revocata la scorta all’ex procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia, prima sceso in politica poi datosi all’avvocatura, per riaverla ricorse alla giustizia amministrativa e riottenne la tutela, benché impegnato su fronti meno rischiosi come la cura degli interessi legali di Gina Lollobrigida. Ma non tutto si può ridurre ai freddi calcoli del rischio e a esigenze di sicurezza. C’è da osservare che tra scortanti e scortati può instaurarsi pure uno schietto rapporto di dimestichezza, per cui anche i primi vengono illuminati di riflesso - in Aura Gloriae - desiderando proseguire nel servizio. Se poi il tutelato si sposta di frequente, altrettanti sono i fogli missione compilati specie quando (com’è accaduto al procuratore capo della Repubblica di Roma, Francesco Lo Voi) alla personalità sono negati i voli di stato ed è costretta a viaggiare sugli aerei di linea come un qualunque passeggero, ma con due agenti a protezione. Nei casi migliori, nei tempi lunghi delle tediose attese, tanti scortanti hanno potuto elevare il proprio livello di istruzione con full immersion nei corsi delle università telematiche. Non a caso è un carabiniere in pensione, il professor Calogero Di Carlo, ad avere intuito le potenzialità degli atenei online diventando responsabile nazionale delle sedi d’esame della Pegaso. Nei casi peggiori qualcuno dovrà portare a scuola il rampollo della personalità protetta, costretto magari alla baruffa con i vigili urbani che si sono incaponiti a multarlo perché percorre un tratto pedonalizzato: accadde per il figlio di un ex presidente della Repubblica, che al mattino attraversava abitualmente con l’auto di scorta tutta via Condotti a Roma accompagnando il bambino. Qualcuno, ancora, avrà dovuto riempire alla vigilia di ogni vacanza estiva il Fiat Ducato provveduto in aggiunta per trasferire le masserizie del protetto in villeggiatura al mare con famiglia. L’estate è paventata come la stagione più crudele soprattutto da chi è assegnato a protezione delle eminenti personalità che vanno a refrigerarsi nei circoli di Mondello, mentre l’implacabile calura siciliana incrudelisce sulle madide sentinelle e avvampa i vetri fumé delle blindate. Più spesso però tra scortanti e scortati si sviluppa un rapporto fiduciario e felice: a fine 2016 lo staff di Paolo Gentiloni appena diventato presidente del Consiglio suggerì per la scorta un tale agente dell’Aisi, il quale a sua volta caldeggiò un paio di colleghi; i tre rimasero in servizio a Palazzo Chigi anche con i premierati di Giuseppe Conte, finché all’epoca di Mario Draghi vennero tutti rimandati all’Agenzia informazioni e sicurezza interna né furono rimpiazzati con personale della polizia di stato, perché il premier pro tempore era rimasto soddisfatto del risparmio. Qualche volta, come accade in tanti ambienti di lavoro, possono affiorare disaccordi tra colleghi che si rivelano insanabili: successe nella scorta di Mario Monti, quando le divergenze indussero a richiamare all’Aisi il caposcorta e il suo vice. C’è scorta e scorta, come c’è rischio e rischio. Concreto, eventuale, aleatorio o divenuto tale col passaggio del tempo, che nei decenni divora anche i cattivi. Agli osservatori profani risulta che più sono tenui le minacce più la scorta la gestisce lo scortato. Non è propriamente la condizione di un “ostaggio” anche se le esigenze personali vanne conciliate con le cautele imposte, a meno di sottrarvisi di tanto in tanto in stile Hollande (vai a saperlo) o rinunciarvi proprio come fece, per esempio, Enrico Letta dopo aver lasciato la presidenza del Consiglio. In teoria, liberarsi della scorta è il desiderio vagheggiato da tutti quelli che ce l’hanno, anche se riprendere la condizione di angelo senz’ali - con i corrivi e obliati grattacapi di chi conduce un’esistenza comune - suscita un pizzico di inconfessata apprensione. Perché a tutto ci si abitua. L’epica dei lampeggianti che saettano nel traffico delle città, il riverbero del blu persino se affiochito nel modesto quarto livello di una vettura sola senza blindatura, rende ogni don Blasco memore di quando fu egli stesso il Giacomo XIII con “venti cavalli in istalla”. Sic transit scorta mundi? Non siatene così sicuri. “Intelligenza Artificiale, regole chiare per la giustizia” Il Roma, 16 giugno 2025 Il presidente dell’Ordine degli Avvocati di Napoli: “Evitare il rischio che si sostituisca all’uomo”. Intelligenza artificiale, crollo delle “vocazioni” e un futuro, quello della professione forense, che oggi più che mai appare sotto minaccia. “L’approccio dell’avvocatura deve essere positivo e costruttivo. Per questo motivo è necessaria la nostra partecipazione attiva alla determinazione delle nuove regole”. Carmine Foreste, presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Napoli, guarda con fiducia al domani e al Congresso nazionale forense - la massima assise dell’avvocatura - che si terrà a Torino dal 16 al 18 ottobre prossimi: “Un appuntamento al quale puntiamo nell’ottica di individuare le nuove competenze dell’avvocato e rimanere al passo con i tempi. Bisogno superare l’impostazione che vede la nostra professione ancorata solo al giudiziale”. Presidente Foreste, la lista “Per l’Avvocatura” da lei guidata ha ottenuto l’elezione di tutti i 22 candidati, su un totale di 25 che andranno a Torino. Assisteremo dunque a un Congresso nel quale l’avvocatura partenopea per una volta supererà le logiche di contrapposizione? “Per la prima volta nella storia delle elezioni forensi, almeno da quando esiste il limite delle preferenze, abbiamo presentato una coalizione con un numero superiore al numero delle preferenze che è di 18. Abbiamo affrontato una sfida e l’abbiamo vinta. L’obiettivo era quello di capire che tipo di fiducia i colleghi riponessero nell’attuale maggioranza in Consiglio e l’esito è andato oltre ogni aspettativa. Terminata la contesa elettorale, adesso è però il momento di ragionare nell’ottica di un corpo unico, pensando al fine congressuale. Compatterò i 25 eletti e lavoreremo gomito a gomito anche con le altre delegazioni del distretto”. E di compattezza ne servirà, vista anche la portata delle sfide che la professione forense si appresta ad affrontare. Fino a che punto l’intelligenza artificiale rischia di tramutarsi in una minaccia reale? “Il timore, di base, c’è. La preoccupazione che l’Ai possa sostituirsi a una realtà professionale come l’avvocatura è dettato soprattutto dall’incertezza del domani. Stiamo parlando di qualcosa di cui non sappiamo ancora quale sarà la portata. Ma il nostro approccio deve essere positivo e costruttivo affinché l’Ai diventi uno strumento utile alla giustizia. Perché questo accada è però necessario che l’avvocatura partecipi attivamente alla determinazione delle regole per l’uso dell’Ai in ambito giudiziario. Il tema del congresso, non a caso, è “L’avvocato nel futuro. Pensare da legale, agire in digitale”. Per questo motivo guardiamo all’Assise nell’ottica di individuare nuove competenze per stare al passo coi tempi. I sistemi di intelligenza artificiale devono essere strutturati per assistere l’avvocato nel la ricerca, nell’approfondimento e nello studio, ma si deve evitare che la macchina arrivi alla redazione di atti, quello deve essere un paletto imprescindibile per evitare il rischio che si sostituisca all’uomo”. Sullo sfondo restano poi altri due temi caldi, quelli dei compensi e della perdita di appeal della professione forense. Che tipo di mozioni e indicazioni arriveranno del congresso? “I dati dicono che c’è un forte calo di iscritti a Giurisprudenza e di candidati all’esame di Stato. Da 6.000 candidati siamo passati a 1.400 nell’ultima sessione nei sette fori del distretto di Napoli. Le cause sono diverse e la prima è legata a un fatto storico. Nell’ultimo quinquennio si è registrata una proposizione di concorsi pubblici che non si vedeva da vent’anni. Una via di fuga per molti avvocati e aspiranti avvocati. C’è poi il tema dei redditi al Sud, dove si lavora ancora quasi solo sul contenzioso e i tempi di liquidazione restano lunghissimi. La recente legge sull’equo compenso non basta e il ritorno ai minimi obbligatori è necessario. Al Congresso non trascureremo alcun aspetto”. Sardegna. Colonie penali: cosa sono, come funzionano e perché dovremmo investirci di più di Daniele Pisano italiachecambia.org, 16 giugno 2025 Un approfondimento sulle colonie penali, sistema ad oggi poco valorizzato ma che può essere rivisto in funzione (anche) di una maggiore garanzia di diritti delle persone detenute. In Sardegna esistono tre penitenziari in cui le persone detenute vivono sotto un regime diverso, lavorando all’aperto e rientrando in cella solo la sera. Non si tratta delle più conosciute carceri di Uta, Bancali o Badu e Carros, ma delle colonie penali agricole di Is Arenas, Isili e Mamone. In un articolo pubblicato qualche settimana fa parlavamo del sistema penitenziario italiano come di una scatola nera, difficile da capire e da raccontare: le colonie penali sono ben nascoste all’interno di quella scatola nera, tanto da diventare, per molti versi, un vero e proprio buco nero istituzionale. Sono poco note ai non addetti ai lavori, lontane dalle prime pagine dei giornali e isolate geograficamente. Raccontare le colonie serve a portare luce su un sistema poco valorizzato, segnato da limiti burocratici e possibilità inespresse. Parlare di colonie significa parlare di lavoro, dignità e rieducazione: tre parole troppo spesso assenti dal dibattito sul carcere. Le colonie penali - Nascono nella seconda metà dell’800. La prima fu istituita a nell’isola di Pianosa nel 1858 dal Granducato di Toscana e poi regolamentata nel 1863 dal neonato stato italiano. Con le colonie penali da un lato si poneva l’obiettivo di bonificare e rendere produttivi terreni paludosi e isolati; dall’altro c’era la volontà di offrire una forma detentiva intermedia, riabilitativa, tra il carcere tradizionale e il reinserimento in libertà. Questo modello si estese poi alle colonie successive, come Gorgona, Castiada, Mamone. Per la sua natura insulare, la Sardegna è stata storicamente luogo di confino per tutti quegli individui che le istituzioni italiane volevano allontanare dalla società. Infatti nel percorso di costruzione del sistema carcerario italiano i governi istituirono varie colonie penali in Sardegna. Ad oggi molte di queste sono chiuse. In totale in Italia ne restano quattro attive: Mamone, Is Arenas, Isili, mentre la quarta colonia si trova in Toscana, nell’isola di Gorgona, ed è oggi una sede distaccata della Casa Circondariale di Livorno. Solo le tre sarde conservano una direzione autonoma. Le principali attività svolte nelle colonie penali comprendono la coltivazione di orti, la gestione forestale, l’allevamento di bestiame e la trasformazione dei prodotti agricoli. Con il loro lavoro le persone detenute riescono a guadagnare intorno a 600 euro al mese. Escono poi ogni giorno per svolgere le attività lavorative all’aperto, spesso in aree distanti, sotto la supervisione di personale penitenziario. Durante il lavoro sono seguiti da capi d’arte - introdotti nei primi anni 2000 - tecnici specializzati nei settori agricolo, zootecnico e nella manutenzione delle strutture. Entrare nelle colonie penali - L’ingresso nella colonia penale avviene prima di tutto su base volontaria ed è riservata a uomini maggiorenni che hanno dimostrato buona condotta e sono giudicati idonei fisicamente alle attività previste. Non possono accedere alle colonie le donne, i minori e tutte le persone con problemi di dipendenze da droghe o affette da malattia psichica o fisica. Il detenuto nelle colonie penali deve essere prima di tutto un buon detenuto e poi anche un buon lavoratore. Quello delle colonie penali, alla carta, è un sistema che può essere in linea con i principi educativi della Costituzione. Chi viene trasferito in colonia però non vive dietro le sbarre: è sottoposto a un regime di sorveglianza dinamica, con ampia libertà di movimento. Tra il 1974 e il 2014 circa 200 detenuti si sono sottratti all’esecuzione della pena evadendo, approfittando della relativa facilità di fuga ed è proprio per questo che il percorso di assegnazione è attentamente valutato. Problematiche - Le colonie ad oggi ospitano un numero di carcerati che si attesta intorno ai trecento, nonostante sulla carta abbiano una capienza complessiva di 598 detenuti. Anche questo tuttavia è un numero piuttosto esiguo rispetto alle reali necessità del sistema penitenziario. In un momento storico in cui le carceri italiane sono in estrema sofferenza anche a causa del sovraffollamento cronico, sembra paradossale che le colonie non siano utilizzate pienamente. Se si considerano anche le sezioni e le camere non utilizzabili a causa della loro fatiscenza, la capienza effettiva scende a 403 posti, ma anche rispetto a questo numero il tasso di riempimento è molto basso. Oltre all’abbandono istituzionale delle colonie, l’altra causa del sottoutilizzo è l’isolamento delle strutture. La decisione che devono compiere i detenuti che hanno la possibilità di accedere alle colonie non è semplice: la scelta è passare la detenzione a fissare le pareti di una cella minuscola e sovraffollata oppure lavorare nei terreni di una colonia penale completamente isolati dal resto del mondo e molto lontani dai propri cari. La Colonia di Mamone, per esempio, è a 40 minuti di macchina dal centro abitato più vicino: non è una scelta semplice, soprattutto visto che la maggioranza dei detenuti ha pene relativamente brevi. Non è un caso che molti ospiti delle colonie siano stranieri o persone comunque lontane dalle proprie famiglie. Quello delle colonie penali sulla carta è un sistema che può essere in linea con i principi educativi della Costituzione, una forma di carcere virtuosa che rispetta la dignità dei detenuti. Ma ad oggi le colonie sono dei relitti che sopravvivono al passare del tempo, isolate dal mondo esterno, composte da edifici fatiscenti e prive di una gestione idonea. Non si può però parlare di colonie penali come di una realtà sé stante, perché esse sono inserite in un meccanismo profondamente in crisi: potrebbero essere un motore di innovazione, ma sono il fanalino di coda del sistema penitenziario, che a sua volta è ai margini della sfera politico-decisionale italiana. E soluzioni - Per valorizzare davvero le colonie penali è l’intero sistema carcerario italiano ad aver bisogno di una riforma strutturale. Nel frattempo però esistono soluzioni attuabili nel medio periodo, come sottolineato da Irene Testa, garante per le persone private della libertà in Sardegna, e da Marco Porcu del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, già direttore della colonia penale di Isili. La lontananza dal mondo esterno potrebbe diminuire con la giusta progettazione. L’organizzazione attuale delle colonie penali agricole si scontra con ostacoli strutturali, normativi e amministrativi che ne limitano fortemente l’efficienza. Una delle soluzioni all’isolamento delle colonie riguarda la commercializzazione dei prodotti agricoli. Ancora oggi, gran parte di ciò che viene coltivato o allevato nelle colonie viene venduto internamente all’amministrazione penitenziaria, spesso a un prezzo inferiore al costo di produzione e in ogni caso, sotto il valore di mercato. Il rilancio delle colonie penali potrebbe passare da una vera e propria gestione aziendale delle stesse, attraverso la creazione di una sorte di business plan. Ogni tentativo di rilanciare le produzioni, se non accompagnato da un piano economico e da uno sbocco commerciale reale, rischia infatti di fallire. Le colonie penali complessivamente dispongono di più di 8.000 ettari di terreno, dimensioni equiparabili a una qualunque grande azienda agricola. Solo la colonia penale di Mamone si estende per 2.700 ettari. Il rilancio delle colonie penali in chiave produttiva non deve però far dimenticare la missione principale dell’amministrazione penitenziaria: la rieducazione e il reinserimento nella società. Per questo servono interventi su due fronti. Da un lato va ampliata la capienza delle colonie, oggi limitata a numeri irrisori rispetto ai circa 60.000 detenuti presenti in Italia di cui 2138 in Sardegna. Dall’altro, è necessario potenziare e innovare le attività lavorative all’interno delle strutture e all’esterno, aprendo quando possibile a iniziative nel territorio circostante con progetti che coinvolgano per esempio gli enti locali. Le colonie penali offrono competenze spendibili al di fuori del carcere e aprono spazi di libertà all’interno della pena. Attraverso una certa dose di volontà politica e progettualità si possono già valorizzare e migliorare questi luoghi in attesa che il sistema penitenziario italiano riceva una riforma strutturale, di cui ha disperatamente bisogno. Una riforma che veda nelle colonie penali, si spera, un traino e non un fanalino di coda. Campania. La politica incontra il carcere: Ciambriello chiama tutti a raccolta di Gianni Vigoroso ottopagine.it, 16 giugno 2025 Un convegno in consiglio regionale per iniziativa dei garanti territoriali. Oggi 16 giugno 2025 alle ore 16.00 nella sala Giancarlo Siani del consiglio regionale della Campania, centro direzionale di Napoli, Isola F13, si svolgerà un convegno organizzato dal garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della regione Campania, Samuele Ciambriello. Una riflessione sulle principali problematiche della realtà penitenziaria: i suicidi in carcere, il sovraffollamento, la situazione di quanti devono scontare meno di un anno di carcere senza avere reati ostativi, sulla necessità di dar luogo a provvedimenti deflattivi. Discuteranno di questi argomenti rappresentanti delle forze politiche, i Garanti territoriali della Campania, Don Tonino Palmese (Garante del Comune di Napoli), Patrizia Sannino (Garante della Provincia di Benevento), Carlo Mele(Garante della Provincia di Avellino), Don Salvatore Saggiomo (Garante della Provincia di Caserta), Maria Giovanna Pagliarulo (Garante del Comune di Benevento), gli esponenti del mondo del volontariato, delle associazioni del terzo settore, cappellani e operatori penitenziari. Modera il Garante Samuele Ciambriello, introduce l’avvocato Francesco Giuseppe Piccirillo, intervengono il senatore Gianluca Cantalamessa (Lega), l’onorevole Luigi Casciello (Noi Moderati), la senatrice Maria Domenica Castellone (Movimento 5 stelle), la senatrice Ilaria Cucchi(Alleanza Verdi e Sinistra), l’onorevole Michela Di Biase (Partito Democratico), l’onorevole Riccardo Magi (+ Europa), l’onorevole Clemente Mastella (già ministro della Giustizia), l’onorevole Annarita Patriarca (Forza Italia) e il senatore Sergio Rastrelli(Fratelli d’Italia). Parma. Dal carcere alla Rianimazione, gli amici: “Vogliamo sapere perché Adam è morto” di Christian Donelli parmatoday.it, 16 giugno 2025 Si terrà nella mattinata di oggi, 16 giugno, l’autopsia sul corpo di Adam Compaore, il 34enne morto nella giornata di giovedì 12 giugno all’Ospedale Maggiore di Parma. È finito qui, direttamente nel reparto di Rianimazione, dal carcere di via Burla di Parma. Dopo un breve ricovero in terapia intensiva è deceduto. È l’ennesima morte nel penitenziario di Parma. Nel corso del 2024 ci sono stati quattro suicidi. Ma in questo caso l’ipotesi del suicidio è stata esclusa da subito. Adam sarebbe morto per le conseguenze di una caduta, dovuta ad un malore. La prima ipotesi, che andrà verificata dall’autopsia, è che abbia avuto un’emorragia celebrale. Nel referto medico si parla di un sospetto trauma cranico. Per capire con certezza le cause del decesso è stato disposto l’esame autoptico. Sarà presente anche un medico legale, pagato da alcuni amici di Adam di Lugagnano Val d’Arda, in provincia di Piacenza, paese al quale era molto legato. Adam Compaore, originario del Burkina Faso, è in Italia da quando ha 18 anni. La sua vita è stata costellata, raccontano gli amici e le amiche della provincia di Piacenza e di Parma, da difficoltà e tentativi di affermazione, a livello personale e lavorativo. Adam è finito l’ultima volta in carcere a Parma il 2 giugno. Poi da quella cella non è uscito vivo. Nel suo difficile percorso di vita è stato aiutato da alcuni giovani con le loro famiglie che si sono presi cura di lui. Ne è nato un legame indissolubile. Adam è diventato uno di famiglia. Ora gli amici chiedono chiarezza su quello che è successo. “Conosciamo Adam da più di dieci anni e vogliamo capire perché è morto. Chiediamo di accertare le cause della sua morte. Ha avuto diversi difficoltà nel corso della sua vita ma la ricostruzione della dinamica ci sembra molto strana”. Anche l’avvocata Michela Cucchetti di Piacenza vuole chiarezza su quello che è accaduto nel carcere di Parma. Dopo tanto tempo Adam aveva trovato un lavoro fisso. Poi è finito di nuovo in carcere. E da lì la sua speranza di affermazione è finita per sempre. Campobasso. Morte in carcere, la famiglia di Stefano Papa vuole chiarezza di Giulio Rocco quotidianomolise.com, 16 giugno 2025 Il 52enne campano sarebbe morto suicida lo scorso 12 giugno: i familiari pretendono verità e annunciano l’autopsia. Presentata anche una denuncia ai carabinieri. La morte di Stefano Papa, detenuto 52enne originario della Campania, avvenuta nei giorni scorsi nel carcere di Campobasso, ha sollevato numerosi interrogativi da parte della sua famiglia. Secondo quanto comunicato da un sindacato di Polizia Penitenziaria, l’uomo si sarebbe tolto la vita lo scorso 12 giugno. Tuttavia, i familiari - i figli Ciro, Maria e Salvatore - chiedono chiarezza sulla dinamica dei fatti e vogliono accertare con precisione le cause del decesso. Due sono le novità principali emerse nelle ultime ore: la richiesta di un’autopsia e una denuncia presentata ai carabinieri di Campobasso da parte del figlio, che nei giorni scorsi si è recato in città per vedere la salma del padre. La famiglia, che risiede in diverse regioni (Ciro a Napoli, mentre gli altri figli Maria e Salvatore vivono in Emilia), ha dichiarato di avere dubbi su modalità e giorno esatto della morte. Due giorni prima del decesso, inoltre, l’uomo avrebbe contattato i parenti riferendo di essere stato coinvolto in una rissa all’interno della struttura carceraria. Pochi giorni dopo, è arrivata la notizia del presunto suicidio. Stefano Papa stava scontando una pena di otto anni, di cui sei già trascorsi. Gli restavano soltanto due anni da terminare. La richiesta di verità avanzata dai familiari, che si affidano ora agli esiti dell’esame autoptico e alle eventuali indagini conseguenti alla denuncia, viene formulata nel rispetto del dolore e dell’attesa di risposte. Saranno i prossimi giorni, e in particolare i risultati dell’autopsia, a fornire nuovi elementi per comprendere meglio quanto accaduto. Questa la posizione della famiglia, che ha espresso pubblicamente il proprio desiderio di fare piena luce sui fatti. Genova. Visita nel carcere di Marassi: ecco come vivono i detenuti in cella di Francesco Li Noce genovatoday.it, 16 giugno 2025 Dal sovraffollamento al degrado, il report di una visita al carcere di Genova Marassi racconta un sistema in sofferenza. Detenuti psichiatrici isolati, persone malate abbandonate a sé stesse, strutture fatiscenti e servizi sanitari ridotti al minimo. Un viaggio dentro luoghi dove la pena si trasforma in marginalità. Celle sovraffollate, muri pieni di muffa, detenuti malati senza assistenza adeguata e tempi di attesa fino a 50 minuti per ricevere i soccorsi in caso di emergenza. È il quadro drammatico emerso dal report sulla visita al carcere di Marassi effettuata da Nessuno Tocchi Caino e dalla Camera Penale Ligure, con la presenza del garante dei detenuti, consiglieri comunali e regionali. Lo stesso penitenziario, di recente, è stato teatro di una rivolta scoppiata a causa di uno stupro ai danni di un detenuto 18enne, violentato da quattro compagni di cella. Nel penitenziario, al momento della visita, erano presenti 684 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 535 posti: un tasso di sovraffollamento del 128%. “Quando si superano le 700 presenze - riferisce la direzione - la situazione diventa ingestibile”. A pagarne le conseguenze sono soprattutto i più fragili, costretti a vivere in condizioni che, in molti casi, rasentano l’abbandono. Colpisce la storia di C. M., 60 anni, in carcere dal 2019, affetto da gravi problemi di salute. Vive in una cella buia e disordinata, con calcinacci che cadono dal soffitto della doccia, spifferi alle finestre tappati con lenzuola e un bagno in condizioni precarie. Operato nel 2013 per un tumore alla lingua, fatica a deglutire e mangia solo cibo passato col colapasta. È disidratato, privo di piantone e senza assistenza specifica, nonostante sia tutto indicato in cartella clinica. “Non ha mai fatto una videochiamata, l’ultimo colloquio con la famiglia risale al 2021”, si legge nel report. C’è poi F.R., 48 anni, con una lunga storia psichiatrica: “Sono uno psichiatrico da quando avevo 11 anni”, ha raccontato. Si trova in isolamento da oltre un mese, si autolesiona sbattendo la testa contro il muro, vive in una cella sporca e allagata. Ha detto agli operatori: “L’acqua sul pavimento mi serve per spegnere la testa che scoppia dal caldo”. È sotto diversi farmaci, fuma in continuazione, parla a raffica. Ha la finestra bloccata e una sola coperta. Anche T.A., 30 anni, piange e minaccia il suicidio. “Non vedo luce nella mia vita”, ha detto. Proviene da Cuneo, vorrebbe essere trasferito vicino alla moglie e al figlio di sei anni. Sta in isolamento ‘precauzionale’, dopo essere stato definito “agitato” e aver chiesto una cella singola. Vive in una stanza con il bagno rotto, acqua che scorre ininterrottamente e i pochi effetti personali sparsi in sacchetti di plastica sul pavimento. Un’altra storia che fa riflettere è quella di A.B., 41 anni, tunisino, detenuto dal 2016 con fine pena nel 2031. È arrivato a Marassi il 10 ottobre, trasferito da Alessandria “in fretta e furia”, racconta il report, senza neanche avere il tempo di raccogliere i propri effetti personali. Le sue condizioni all’arrivo erano critiche: aveva le mani gonfie perché era rimasto ammanettato per ore, nessuno aveva le chiavi, hanno tentato persino di segare le manette prima di trovare un passe-partout. Presentava un occhio nero, zoppicava per un ginocchio gonfio. L’ispettore del carcere genovese inizialmente non voleva accettarlo e proponeva di mandarlo al pronto soccorso. Al momento della visita attendeva ancora gran parte dei suoi vestiti, rimasti nel carcere di provenienza. Ciò che indossa (scarpe e giubbotto) gli è stato donato dalla Misericordia. La sua famiglia vive a Livorno e aveva chiesto da tempo un trasferimento in Toscana, per essere più vicino a casa. Ma anche questa richiesta è rimasta senza risposta. Anche lui è ospitato in una sezione al piano terra, con poca luce naturale e finestre che danno su un muro a pochi metri di distanza. Come tanti altri, vive in uno spazio angusto, in condizioni ambientali che rendono ancora più pesante la detenzione. In molte sezioni, le celle misurano meno di 10 metri quadrati, come la cella 4 del reparto ex art. 32: 2,25 metri per 4,65, con bagno separato e un lavandino in metallo lungo appena 1,20 metri. Le finestre danno su un muro distante solo quattro metri: luce naturale quasi assente. Nel reparto dei nuovi giunti, un detenuto egiziano asmatico è rimasto due giorni senza coperte. Un altro ha riferito di non aver potuto effettuare la telefonata di ingresso. Il bagno di una cella è “allegato da giorni” in attesa dell’idraulico, mentre un miscelatore rotto fa arrivare l’acqua dal piano superiore. I muri, in diverse celle, sono coperti da muffa e i detenuti attaccano lenzuola alle pareti per evitare che cadano pezzi di intonaco. Il carcere ospita sia la Sai (sezione per malati gravi) che l’Atsm (servizio psichiatrico), con guardia medica h24 e sei “medici di famiglia” per le varie sezioni. Ma le risorse sono insufficienti. Ci sono solo due psichiatri fissi e un forte turn-over tra i medici. I detenuti riferiscono che l’assistenza arriva spesso tardi o è inesistente. Un episodio emblematico: un detenuto con problemi cardiaci ha atteso 50 minuti prima che qualcuno intervenisse, dopo essersi sentito male durante la notte. La situazione è critica anche per i tossicodipendenti: il Serd interno segue 280 utenti, di cui 85 in trattamento metadonico. Molti sono policonsumatori, con dipendenze da eroina, cocaina, crack e alcol. “Qui persone con indole criminale ne abbiamo ben poche - dice il responsabile del Serd - si tratta di persone che hanno bisogno di aiuto”. Firenze. “Regime di massima sicurezza”, il nuovo numero della rivista Jacobin Italia Ristetti Orizzonti, 16 giugno 2025 Domani a Firenze la presentazione della rivista Jacobin Italia. Martedì 17 giugno alle ore 18, presso la sede de la Società della Ragione nell’Area San Salvi (Padiglione 35) a Firenze, si terrà la presentazione del numero della rivista Jacobin Italia intitolato “Regime di massima sicurezza”, dedicato al carcere e all’ossessione securitaria che permea sempre più le politiche italiane. L’evento, organizzato da La Società della Ragione, vedrà gli interventi di Vincenzo Scalia, professore associato di Sociologia della Devianza all’Università di Firenze, Katia Poneti, filosofa del diritto che lavora presso l’Ufficio del Garante dei Detenuti della Regione Toscana, e Jasmine Raffaelli del Collettivo Rosso Malpolo. A discutere con loro ci sarà Ubaldo Fadini, professore di Filosofia Morale presso l’Università di Firenze. Sarà inoltre presente Monica Sarsini, artista e scrittrice che da anni conduce corsi di scrittura creativa nel carcere di Sollicciano, che leggerà alcuni testi scritti dai detenuti. L’iniziativa sarà seguita da un aperitivo. L’incontro rappresenta un’occasione per riflettere criticamente sul sistema penitenziario italiano, sulle derive repressive culminate nel recente decreto sicurezza e sul ruolo della cultura nella costruzione di un’alternativa possibile. Roma. Quando le parole dei detenuti diventano poesia di Alessio Nannini romasette.it, 16 giugno 2025 Presentato il libro “Prima Morte”, frutto dei laboratori portati nelle carceri da Asia Vaudo e Allegra Franciosi, di Free from chains. La testimonianza di Maurice Bignami, ex Prima Linea. Nel pomeriggio di sabato 14 giugno si è svolta nella basilica di Santa Maria Ausiliatrice la presentazione di Prima Morte, un libro che raccoglie l’esperienza di Asia Vaudo e Allegra Franciosi, giovani poetesse e docenti di Free from chains, progetto ideato per portare nelle carceri i laboratori di composizione creativa. Il volume raccoglie le parole dei detenuti degli istituti penitenziari di Rebibbia, Regina Coeli, Poggioreale. Ci sono parti in prosa, scritte da Asia e Allegra, e altre in versi, opera di chi sta scontando la propria condanna. “L’idea di questo libro nasce dalla volontà di racchiudere in un volume tutti i momenti più belli e intensi che abbiamo vissuto nei luoghi di detenzione da più di tre anni”, spiega Asia, che ha 26 anni ed è originaria di Cassino. “L’opera è quindi il mosaico di una realtà carceraria che vogliamo portare fuori da quelle sbarre. Abbiamo incontrato persone che hanno una fame di mondo, una volontà di crescita, anche nella poesia. Al di là del reato commesso, si percepiva in ognuno uno slancio verso l’altro e l’altrove, un germoglio di bene che poi è uscito a fiorire attraverso la parola poetica”. Il libro, edito da Ignazio Pappalardo e con la prefazione del poeta Davide Rondoni, è arricchito anche dallo scritto di un testimone importante della vita in prigione, Maurice Bignami, anch’egli presente sabato in sala. Ex comandante del gruppo terroristico Prima Linea e per questo condannato a sette ergastoli, oggi Bignami ha settantaquattro anni. Ha parlato della sua esperienza di detenzione. Lunghi giorni che ringrazia di avere vissuto, senza i quali, dice, non avrebbe incontrato la letteratura e la fede. “Avevo bisogno di fare certe riflessioni e so che è strano sentirlo dire, ma io ero contento di essere finito in galera. Era la fine di un incubo”. Bignami evidenzia un episodio su tutti, l’incontro con una persona per lui fondamentale: “Un giorno sentii bussare alla mia cella. Era il cappellano del carcere dove mi trovavo, a Torino, padre Cipolla. Un francescano. Era la prima volta nella mia vita che parlavo con un prete. Mi chiese se volessi leggere qualcosa, e il giorno seguente mi diede I promessi sposi di Manzoni. Da allora valse la pena tutto, ogni giorno di carcere. Fu dirompente, un passaggio fondamentale della mia vita perché scoprii che qualcosa di diverso era possibile. Mi fu offerta una chiave di lettura dell’esistenza, qualcosa che mi consentisse di dare un senso alle cose che non fosse la violenza. In questo libro di Asia e Allegra io rivedo questo, perché la poesia è approfondimento interiore”. Parlando dell’incontro di ciascuno con la poesia, “a scuola o nell’intimità della propria casa”, nel quale il contesto favorisce nella disposizione all’ascolto e alla composizione, Bignami evidenzia che “in certe situazioni terribili e dolorose, come la trincea o il carcere, la bellezza della poesia esce con più forza e ci salva dall’abbrutimento e dalla cattiveria. Io posso testimoniare che i laboratori di scrittura sono iniziative preziosissime e possono cambiare il detenuto, che può ragionare e smettere ogni sentimento di rabbia o desiderio di evasione dalla cella. È un percorso verso il perdono, ma a partire da te stesso”. Il titolo Prima Morte ha un sottotitolo che si rifà a san Francesco: “Il cantico delle creature in carcere”, e non casualmente. Oltre a essere il 2025 l’ottavo centenario della lauda più famosa del Poverello di Assisi, questi è stato tra i poeti portati all’attenzione e alla sensibilità dei detenuti. È del resto in una cella che cambiò anche la vita di Francesco. Racconta ancora Asia: “Spesso io e Allegra sceglievamo delle composizioni di grandi autori, per esempio Ungaretti, Saba, e appunto san Francesco, e chiedevamo alle persone di rispondere, dialogare con quei versi attraverso un lavoro personale. Il risultato è stato commovente. Io avevo cominciato la mia attività con Free from chains come una vocazione, e oggi posso dire che mi ha restituito qualcosa di importante. Insegno, ma io per prima ricevo qualcosa. Non è un monologo ma un dialogo di cui mi nutro anche io fortemente”. Tra i versi raccolti e letti durante la presentazione dalle autrici, quelli di Bruno, che nella solitudine delle alte mura di Poggioreale ha offerto il suo significato della speranza: “Ho visto la galera / come un mondo diverso dalla libertà. / Devo aspettare ancora a lungo / prima di intravedere una piccola speranza. /Quando arriverà, forse, con il chiaro della Luna, / una stella mi porterà fuori di questa cella”. Bannati e oscurati. Libertà e diritti sotto attacco nei nuovi feudi dei social network di Emilio Minervini Il Dubbio, 16 giugno 2025 Le piattaforme social, in genere accostate all’immagine dell’agorà ateniese, sono nell’opinione di chi scrive, più simili ai feudi medievali, anche se con qualche distinguo, e i loro utenti più vicini ai mezzadri, che ai cittadini di una polis. In primo luogo l’agorà è la piazza, un luogo pubblico, in cui vengono prese decisioni per la collettività e la pubblica autorità esercita la sua giurisdizione. I feudi invece appartengono al sovrano, che concede al feudatario, al signorotto, di amministrarli, a patto che quest’ultimo gli versi gli utili derivanti dalle attività del feudo e gli giuri fedeltà. Il feudatario a sua volta da in concessione parti del territorio datogli dal sovrano ai mezzadri, perché lo coltivino e gli rendano la metà degli utili derivanti dall’attività agricola (a grandi linee). I social network sono feudi, in cui però le figure del sovrano e del feudatario si sovrappongono. Gli utili degli appezzamenti digitali, i profili personali di Meta, Tik Tok, X e simili, sono costituiti dai preziosi dati personali, dalle fotografie o dai video (da cui si possono estrarre dati biometrici come conformazione del volto o tono della voce, ad esempio per addestrare modelli di Intelligenza artificiale), dalle interazioni con gli altri utenti o post, dai mi piace. Cosa succede però se il mezzadro viola le regole, poste in maniera più o meno chiara, dal feudatario? Viene bandito, in gergo, bannato (da ban: vietare, mettere al bando), per qualche mese o per sempre. È ciò che è successo alla giornalista dell’Observer, Carole Cadwalladr, che all’indomani del voto sulla Brexit ha iniziato ad indagare sulle cause che avevano portato il 51,89% dei votanti ad esprimersi per il leave. Cadwallar scoprì una rete di finanziamenti elettorali illeciti sfruttati dai promotori del leave, per veicolare una pressante propaganda tramite i social, Facebook in questo caso. Gli utenti venivano profilati politicamente, si stima siano stati più o meno 87 milioni i profili coinvolti, e se ritenuti adatti venivano bersagliati dalla propaganda per il leave, con post come: “72 milioni di turchi stanno per entrare in Europa”. Lo stesso è successo nel 2019 in occasione della prima elezione di Trump a presidente degli Stati Uniti. Dietro questi due eventi c’è un unico attore reso celebre dalla vicenda: Cambridge Analytica, società di consulenza britannica, chiusa per bancarotta nel 2018, il cui vicepresidente era Steve Bannon, l’ideologo Maga. Cadwalladr è stata bandita a vita da Facebook per aver indagato e pubblicato la storia. La stessa sorte è toccata nel 2021 a Donald Trump. In questo caso però il blocco è scattato a seguito dei post pubblicati da Trump, che hanno innescato l’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021. Il blocco è stato ritirato a inizio 2023 ma Trump si era già creato il suo social personale, modestamente chiamato Truth. Un’alternativa al blocco del profilo è lo shadow ban, ossia quando Meta rende invisibili agli altri utenti i post del profilo colpito, senza che quest’ultimo possa rendersene conto. Di recente Meta ha bloccato i profili di Mariano Giustino, come era già accaduto nel 2020, corrispondente di Radio Radicale dalla Turchia, sbloccato dopo qualche giorno, solo grazie alla grande pressione esercitata sulla piattaforma, e quello di Damiano Aliprandi, collega del Dubbio, ancora in stato di blocco. Non è chiara la motivazione in quanto Meta in questi casi si limita a comunicare che i testi non sono conformi alle regole dell’azienda. Saranno stati forse gli articoli di Aliprandi sulle condizioni delle carceri italiane, o forse i suoi articoli e l’intervento nella trasmissione Far West di Rai3 sul dossier mafia-appalti. Entrambi giornalisti condividono il loro lavoro sui social, non incitano all’odio, non usano linguaggi ingiuriosi, fanno informazione. Un’informazione che dovrebbe essere libera, non soggetta alla censura arbitraria di un privato. In quest’ottica l’unico aspetto che potrebbe accomunare i social e l’agora è l’ostracizzazione, i pezzi di coccio (ostrakon) hanno ceduto il passo alle segnalazioni, in molti casi veicolate tramite numerosi bot, comandabili a piacere come una muta di cani affamati. Nell’era in cui l’informazione è veicolata, e soprattutto fruita, quasi esclusivamente via social, viene da chiedersi quanto questa possa essere libera e non asservita a chi la indirizza in base ai propri interessi economici e politici. Basti vedere le recenti elezioni in Romania per avere una risposta, migliaia di account propagandistici sono stati liberi di influenzare il voto per svariate settimane, senza che Tik Tok intervenisse a riguardo. I social, nati come spazio di libera espressione, in cui poter anche manifestare dissenso altrimenti silenziato, come successo durante le primavere arabe, si sono ormai trasformati in regimi distopici, che silenziano la voce di coloro che lavorano per un’informazione libera e premiano la propaganda. Sarebbe ora che l’Europa e le autorità nazionali intervenissero “a tutela della libertà d’espressione e al libero esercizio dell’attività dei giornalisti”, come scritto da Mariano Giustino nel primo post su Facebook dopo il blocco. Dal referendum sulla Brexit al voto rumeno. Tik-tok e gli altri contro le democrazie di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 16 giugno 2025 Ormai esiste un modello ricorrente con piattaforme opache, algoritmi manipolabili e attori esterni capaci di influenzare milioni di persone. Quando nel giugno 2016 il Regno Unito votò per uscire dall’Unione europea nessuno aveva previsto la vittoria dei leave. Istituti di sondaggi e media tradizionali erano infatti convinti che la Gran Bretagna non avrebbe compiuto un simile salto nel buio. Ma chi già allora navigava nei meandri dei giovani social network sapeva che nel Paese tirava tutto un altro vento. E dopo il clamoroso responso delle urne l’Occidente prese atto per la prima volta che la rete non è soltanto un’arena neutrale dove scambiare opinioni, ma uno spazio attivo, manipolabile, spesso opaco, dove si combattono guerre silenziose. Fu un voto inatteso e, in parte, paradossale. L’emblema di quel paradosso è racchiuso a Ebbw Vale, una cittadina di ventimila abitanti a nord di Cardiff. Un tempo centro nevralgico dell’industria siderurgica britannica, nel tempo è diventata uno dei simboli del declino postindustriale. Negli anni 60, l’acciaieria dava lavoro a più di 14.000 persone; nel 2002 erano rimaste in 450. Eppure, nel periodo precedente la Brexit, la città aveva beneficiato di cospicui fondi europei: un nuovo college da 33 milioni di sterline, un centro sportivo, infrastrutture moderne. L’Unione Europea, da sola, aveva finanziato progetti per oltre 350 milioni. Ma il 62% dei residenti votò per lasciare l’Ue, una delle percentuali più alte in tutto il Regno Unito. La giornalista Carole Cadwalladr realizzò una folgorante inchiesta sugli elettori di Ebbw Vale: quasi tutti attribuivano all’Ue la causa di ogni male, la crisi economica, la disoccupazione e, naturalmente, l’immigrazione fuori controllo. Poco importa che Ebbw Vale registrasse uno dei tassi di immigrazione più bassi di tutto il Galles. Qualcosa non tornava. Molte persone intervistate le parlarono di Facebook, di video e post sponsorizzati che circolavano in rete in modo virale bastonando l’Europa, post senza fonte, senza firma, ma con un’efficacia cento volte superiore a quella dei classici organi di informazione. Quel modello si sarebbe ripetuto, con varianti locali, in tutto l’Occidente. Nello stesso anno della Brexit, le elezioni americane vedono la vittoria di Donald Trump, preceduta da una massiccia attività di propaganda su Facebook, Twitter e YouTube. Secondo il rapporto Mueller, agenzie vicine al Cremlino avevano diffuso milioni di contenuti falsi, in larga parte rivolti a polarizzare l’elettorato su temi come razza, religione e armi. Anche lì, target mirati, pubblicità ambigue, algoritmi compiacenti. Una democrazia digitale manipolata nell’ombra. Un modello affine si è osservato in Polonia, dove il partito Diritto e Giustizia ha fatto largo uso di social media per promuovere la propria agenda conservatrice e anti- LGBT, con il supporto di piattaforme digitali che hanno amplificato contenuti discriminatori, spesso sotto forma di meme o video virali rivolti ai più giovani. L’ultimo caso in ordine di tempo riguarda la Romania e in particolare la figura di Sebastian Georgescu, influencer ultraconservatore ferocemente anti-Ue, anti-Nato e smaccatamente filo- russo. Nel dicembre 2024, la Corte costituzionale rumena annulla le elezioni presidenziali che vedono Georgescu arrivare in testa al primo turno; secondo i giudici di Bucarest avrebbe beneficiato di aiuti esterni e illegittimi, in particolare da parte della Russia attraverso una massiccia operazione di disinformazione sulla piattaforma TikTok. Secondo i servizi segreti rumeni, circa 25.000 account TikTok pro-Georgescu sono stati attivati improvvisamente due settimane prima del voto, con contenuti che hanno raggiunto milioni di utenti, contribuendo alla sua ascesa da perfetto sconosciuto a favorito del primo turno. Inoltre, è emerso che l’imprenditore Bogdan Pe?chir detto “l’Elon Musk dei Carpazi” ha sborsato oltre un milione di euro per sponsorizzare contenuti anti europei su Tik Tok. L’annullamento delle elezioni in Romania rappresenta un precedente storico, essendo il primo caso in cui un paese dell’Ue ha invalidato un’elezione a causa di interferenze straniere attraverso i social media. L’ episodio evidenzia le vulnerabilità delle democrazie moderne di fronte alle nuove forme di guerra ibrida e alla manipolazione digitale, sollevando interrogativi sulla responsabilità delle piattaforme online e sulla protezione dei processi elettorali da influenze straniere. La Romania, come l’Ebbw Vale del 2016, è un caso esemplare di quanto la percezione possa essere manipolata più della realtà. Anche qui ci sono fondi europei, infrastrutture costruite grazie all’Ue, investimenti per l’inclusione e la digitalizzazione. Ma ciò che resta nella memoria collettiva, ciò che orienta il voto, è spesso ciò che si legge, o meglio si subisce, nel flusso di un feed. Il nodo, ormai, non è più solo tecnico, ma politico e culturale. Le piattaforme digitali sono diventate attori geopolitici, capaci di determinare i processi elettorali. Quel che resta è la consapevolezza che la posta in gioco non è una singola elezione, ma il funzionamento stesso della democrazia. L’algoritmo decide cosa vediamo, la rete decide cosa sentiamo, la disinformazione decide cosa temiamo. Sta a noi decidere se continuare a ignorarlo o iniziare finalmente a reagire. Così le big-tech controllano l’opinione pubblica di Mauro Calise e Fortunato Musella* Il Dubbio, 16 giugno 2025 Sono il nuovo oro nero, ambìto da imprese e governi di tutto il mondo. Come in passato il petrolio. Tutti alla rincorsa dei dati digitali, le tracce che lasciamo in una realtà virtuale dove sino a poco tempo fa ci sembrava di “andare”, e che invece ha inghiottito le nostre vite. Basti pensare che quindici anni fa ogni persona in rete era in possesso di un solo device, nel 2010 la media sale a uno e mezzo, nel 2020 arriveremo a 7 device a testa, in un ambiente iperconnesso che segnala una assoluta novità rispetto al passato. Trascorriamo online sei ore al giorno, di cui almeno due su una piattaforma di social media. In un solo minuto della rete sono totalizzate 4,2 milioni di visualizzazioni su YouTube, 3,7 milioni di ricerche su Google, 38 milioni di messaggi via WhatsApp, 187 milioni di email inviate e oltre 481.000 nuovi tweet pubblicati3. Che si tratti di leggere un libro o prenotare un albergo, esprimere emozioni o ascoltare musica, non si scappa a un sistema che traccia, e archivia perennemente, azioni, abitudini, preferenze. Le possibilità di sfruttare questa enorme mole di dati sono sterminate. E danno immediati vantaggi competitivi a chi se ne appropria. L’inedita capacità di calcolo sui dati permette di elaborare forme automatizzate di comunicazione con amplissimi pubblici. Le più immediate applicazioni riguardano il mercato dei beni. Così Amazon, piattaforma che detiene il primato del commercio mondiale elettronico, utilizza informazioni dettagliate per dare consigli pubblicitari basati sui precedenti acquisti. Facebook attraverso la più grande base dati del pianeta “riesce a vendere miliardi di inserzioni pubblicitarie al giorno, ciascuna ritagliata su misura del profilo socio-demografico e comportamentale dell’utente”. Mentre cresce in maniera vertiginosa il numero di imprese al mondo che fanno dei dati una componente essenziale del loro business. Senza considerare quale uso si possa fare delle tecnologie della localizzazione, per ragioni che vanno dalla sicurezza all’e-commerce: molti produttori conservano con dettagliata minuziosità i dati di ogni singolo possessore di smartphone, e potrebbero ricostruire anche gli spostamenti che questi non ricorda più. È però quando si passa dal mercato dei beni a quello delle idee che la questione dei big data va al cuore della nostra vita associata, rendendo il possesso dei dati la risorsa principale per capire e misurare preferenze passate, e influenzare orientamenti futuri dei cittadini. L’uso dei big data impatta sull’opinione pubblica, stravolgendone le caratteristiche originarie, così strettamente intrecciate con l’ascesa dei regimi liberaldemocratici. A partire dal suo elemento più prezioso: la libertà e autonomia di giudizio. Un fenomeno segnalato già agli esordi del web, ma sul quale l’avvento dei social media ha acceso prepotentemente i riflettori, minacciando di erodere alle radici il ruolo dell’opinione pubblica come principale parametro - e baluardo - della democrazia. La nascita della sfera pubblica è scandita da requisiti strutturali, dalla diffusione della stampa alla proliferazione dei luoghi di discussione sui temi più rilevanti, ma soprattutto dalla rivendicazione dell’emergente classe borghese del suo ruolo e controllo sulle decisioni che la riguardano. Nell’affresco di Jürgen Habermas, i cittadini si fanno pubblico quando acquistano adeguate capacità critiche per informarsi e assumere scelte consapevoli e razionali sui destini della collettività. Senza questi passaggi, che assegnano al cittadino la capacità di autodeterminarsi nell’interazione con gli altri, di democrazia non si può iniziare a parlare. Per una lunga fase storica, lo sviluppo dell’opinione pubblica è legato a tre fattori, e alla loro sinergia: l’esistenza di libertà civili efficacemente tutelate dallo Stato, l’ampia diffusione di organi di stampa pluralisti, un adeguato livello di alfabetizzazione che consenta a fasce consistenti della popolazione di partecipare attivamente al dibattito pubblico. Durante tutto l’Ottocento, la conquista di questi tre traguardi e il loro consolidamento segna il faticoso affacciarsi dei diversi paesi sulla scena democratica. In genere, il raggiungimento dei primi due viene considerato sufficiente per entrare a far parte del club dei regimi liberali. Ma è solo quando anche il terzo indicatore coinvolge una percentuale ragguardevole degli aventi diritto al voto che si può parlare di una opinione pubblica di massa. E, di conseguenza, di una più stretta integrazione tra opinioni consapevoli e funzionamento della democrazia. Tuttavia, anche quando le statistiche ufficiali mostrano un notevole restringimento dell’analfabetismo non consegue immediatamente la crescita dei comportamenti - e dell’elettorato - di opinione. Anzi, l’analisi delle motivazioni di voto mostrerà che, a dispetto delle più o meno parziali informazioni che un cittadino può raccogliere sul funzionamento della vita pubblica, queste non saranno trasformate necessariamente in una propensione a scegliere questo o quel partito, o leader. Le sue scelte possono essere orientate da altre spinte, che si tratti della propria esperienza di socializzazione alla politica - familiare, subculturale, partitica - o di attaccamento fideistico a qualche personalità carismatica. Per non parlare, in moltissime occasioni, della semplice tutela di un proprio interesse privato senza prendere minimamente in considerazione le ricadute sul bene collettivo. Un fenomeno cui il nostro paese non manca di contribuire, come lascia intendere il vasto ricorso al voto di preferenza a livello locale e regionale. Alla luce di questi criteri, il peso dell’opinione pubblica, anche in quei regimi politici che sul piano formale corrispondono ai principali requisiti per un suo pieno sviluppo, risulta molto più ristretto di quanto una visione razionale della democrazia postulerebbe. Ma accanto a questi ostacoli sistemici di ordine politico, c’è un altro fattore che, dalla seconda metà del Novecento, mette in crisi la centralità dell’opinione pubblica tradizionale. Mutuando il proprio ruolo e la propria influenza dall’ambiente - e dalla logica - del mercato in cui muovono i primi passi, i sondaggi d’opinione si affermano come uno strumento alternativo di misurazione degli orientamenti dei cittadini. I sondaggi riescono, infatti, a pesare, con discreta attendibilità quantitativa, le opinioni e i loro andamenti nel corso del tempo. Superando le strozzature dei circuiti inevitabilmente elitari dei lettori della carta stampata e delle nascenti trasmissioni radiotelevisive, e ponendosi come interpreti statisticamente affidabili dell’universalità dei cittadini. Proprio questa loro pretesa di esaustività espone però, fin dagli esordi, i sondaggi alla critica sulla validità delle opinioni che raccoglievano. Quanto veramente ne sapevano, i cittadini intervistati, delle questioni su cui si esprimevano? Restano celebri le sprezzanti osservazioni di Lazarsfeld, uno dei padri della sociologia americana: “Dopo avere esaminato in dettaglio i dati su come gli individui percepiscono in modo sbagliato la realtà politica, o rispondono a influenze sociali irrilevanti, uno si chiede come una democrazia possa mai risolvere i suoi problemi politici”. Un quadro che, nel tempo, non sarebbe molto cambiato. I sondaggi elettorali hanno segnalato negli ultimi anni altissime percentuali di “last-minute voters”, indecisi pronti a cambiare idea all’ultimo momento. Con un livello molto superficiale di informazioni e motivazione, che la ricerca mette chiaramente in evidenza. Molto ampi, inoltre, erano - e restano - i rischi che i sondaggi, in sede di somministrazione come di pubblicazione, influenzino gli orientamenti dei cittadini. Si consideri il noto effetto bandwagon, sul quale ha tanto fatto affidamento l’ascesa di Berlusconi nel nostro paese: basta annunciare, sulla scorta di sondaggi più o meno verificabili, un candidato come vincitore per convincere gli elettori più tiepidi. Con i sondaggi, l’opinione pubblica diventa più facilmente influenzabile. Sarebbe sbagliato, però, attribuire ai sondaggi un ruolo sistematico di manipolazione o, addirittura, contraffazione. A parte casi isolati, nella maggior parte delle democrazie i rilevamenti di opinione vengono sottoposti a rigide regolamentazioni e ad obblighi di trasparenza. Oltre che al deterrente più importante, la concorrenza di altri istituti che possono facilmente smentire risultati clamorosamente inattendibili. Il limite principale dei sondaggi non riguarda lo strumento, ma il fenomeno che mette a nudo: l’impietosa fotografia di quanto sia problematico raggiungere, per la maggioranza dei cittadini, un livello informativo adeguato ad affrontare soluzioni complesse, come quelle che quotidianamente intasano l’agenda di governo, a livello locale, nazionale, internazionale. Questo iato - questa contraddizione - diventa ancora più eclatante con l’avvento dei circuiti di informazione, comunicazione e interazione del web. La rilevazione delle opinioni dei cittadini emerge direttamente dalla rete, dall’aggregazione di micro-atti privati misurati da complessi sistemi di calcolo automatizzato, a partire da un’immensa mole di tracce che essi lasciano online nel corso delle loro attività. Frammenti di esistenza che acquistano coerenza nei trend evidenziati dagli “analytics”, dettagliate statistiche in grado di raccogliere ogni respiro digitale del cittadino- utente. Con un’aggravante, anzi, due, che sono i punti deboli - e oscuri - dell’opinione di rete. Il primo è l’eterodirezione. In nessuna altra epoca storica il cittadino ha avuto più informazioni e strumenti di conoscenza a disposizione. Gli internauti mostrano “appetito onnivoro” per notizie politiche diffuse attraverso canali multimediali, con accresciute possibilità anche di creare nuovi contenuti. Tuttavia la catena intellettuale che vede il cittadino autorità suprema nel connettere dati, informazioni e conoscenza rischia di venire meno per la progressiva incapacità di gestire la mole di dati della nuova infosfera. Sono gli algoritmi elettronici a selezionare e diffondere i contenuti online, attraverso una serie di regole e procedure spesso opache e mutevoli nel corso del tempo, agendo da formidabili costruttori di una “agenda setting automatizzata e applicata alla quasi totalità della nostra vita digitale”. Di fatto, le procedure degli algoritmi finiscono per ridurre drasticamente la nostra capacità di capire, e orientare, “il mondo sociale che la Silicon Valley sta creando”. Ciò che in rete è visibile o non visibile dipende da chi definisce le regole del web. E ciò che non è visibile, nel nuovo mondo digitale, rischia di non esistere. L’intima logica dei search della principale, e tendenzialmente universale, piattaforma di certificazione e diffusione delle informazioni in rete non è di competenza del cittadino, per quanto intimamente legata ai suoi comportamenti. Google assegna valore alle pagine web sulla base delle misure quali-quantitative come il numero delle visite degli utenti o l’autorevolezza istituzionale, ma anche valutando le abitudini e le preferenze degli utenti che l’algoritmo fedelmente riporta. Basta preferire un candidato alla Casa Bianca per vedere comparire un maggior numero di notizie o spot elettorali sul suo conto. Secondo un effetto di inscatolamento del nostro mondo informativo, di costruzione di mondi di vita a nostra immagine e somiglianza, offrendo ad ognuno ciò che gli interessa. Una conseguenza del modellamento sulla base delle preferenze degli utenti è anche la crescente polarizzazione delle opinioni in rete, che non ci aiuta a confrontarci con chi ha identità o posizioni diverse dalla nostra. È il pericolo della formazione delle echo chambers, le “camere dell’eco” che rinforzano la segregazione ideologica. Il risultato è una crescente autoreferenzialità dei processi di formazione dell’opinione pubblica via web. Inizialmente sembrava che la rete potesse rinvigorire l’agorà pubblica. I weblog, ad esempio, si sono diffusi nei primi anni Duemila come veicolo di discussione comunitaria su temi di interesse pubblico, secondo un modello che enfatizzava l’autogestione dei cittadini. Ognuno avrebbe potuto creare il suo diario online - su vari temi dalla cucina alla politica - a bassissimi costi di gestione, per avviare “una rete di relazioni intellettuali dirette e navigabili, risultato dall’apporto gratuito, aperto e verificabile delle conoscenze e delle opinioni di molte persone su argomenti pressoché generali e in tempo pressoché reale “9. Uno spazio dunque di riflessione condivisa. La partecipazione dei cittadini in rete faceva intravedere strade per “innovare la democrazia” in direzione dell’ideale deliberativo, con micropubblici impegnati in tutti gli aspetti del processo decisionale, dalla raccolta delle informazioni alla decisione finale. Tuttavia, col passare degli anni, tali esperienze sono state sopraffatte dai meccanismi di formazione dell’opinione dei larghissimi pubblici che si sono affacciati online attraverso i social network. La massificazione dell’interazione social, piuttosto che promuovere la formazione di microcomunità proiettate verso l’esterno, ha finito col ricacciare il singolo utente nella sfera familistica e localistica più congeniale alla sua vita privata. Ribaltando la direzione di un plurisecolare processo storico, la visibilità pubblica che i social consentono è stata messa al servizio delle proprie abitudini, ambizioni, pulsioni private. Per decenni, aveva retto - e si era rafforzata - una linea di demarcazione tra le opinioni sulla cosa pubblica che si guadagnavano, pur tra molti contrasti, uno spazio di discussione pubblico, e quelle private, che restavano relegate in un ambito di circolazione circoscritto, e, spesso, gelosamente custodito. La novità più dirompente è che, oltre ad essere in ampia misura eterodiretta, l’opinione resa pubblica attraverso i social è un’opinione privata. La privatizzazione - il secondo elemento che caratterizza l’opinione pubblica online - è un fenomeno di cui ancora facciamo fatica a cogliere la portata. Come sia stato possibile che la separazione tra sfera privata e sfera pubblica, l’architrave della liberaldemocrazia, sia stata spazzata via in pochi anni, è l’interrogativo più inquietante del nuovo ecosistema digitale. Tanto più che lo tsunami è avvenuto con l’acquiescenza e, in moltissimi casi, l’entusiastico contributo degli utenti. Siamo noi ad aver reso pubblica la nostra vita privata, adeguandoci ai vari protocolli che le multinazionali social imponevano. La separazione tra le due sfere è stata di cruciale rilevanza per lo sviluppo dell’Occidente. Ora sembra cadere in modo ineluttabile, a mano a mano che appartenenze e relazioni tradizionali diventano più fragili. In rete la relazione tra vita pubblica e privata si ribalta rispetto al passato. Le prime analisi empiriche delle percezioni degli utenti di Facebook in Italia mostrano ad esempio che, mentre prima vivevamo in privato scegliendo quali parti di noi mostrare in pubblico, oggi viviamo in pubblico scegliendo le poche parti della nostra vita da mantenere private. Al web affidiamo la nostra intimità, ogni aspetto serio e frivolo della quotidianità. In uno spazio di “confortevole solitudine”, dove per fare e disfare un’amicizia basta un click. Del resto ciò riguarda anche i personaggi pubblici. Dell’ex vicepresidente del Consiglio, Matteo Salvini, sappiamo cosa mangia su base quotidiana. L’agenda politica è scandita dai suoi post sui social network e dalle foto delle sue felpe, più o meno militarizzate. E anche l’ex partner Elisa Isoardi ha messo fine alla relazione col ministro via Instagram, accompagnando poche parole di commiato a una foto che ritraeva la coppia a letto. Tutto è risucchiato nel pubblico. Il pubblico, però, della vita privata. Col che veniamo al secondo risvolto - addirittura più inquietante - della privatizzazione delle opinioni: il controllo economico del processo - delle sue forme e del suo utilizzo - da parte delle stesse aziende che lo hanno tecnologicamente promosso. Non attraverso princìpi etici o politici, ma sulla base di criteri - algoritmi - dettati dalle logiche di marketing e di profitto decise a Menlo Park o a Mountain View. Come, agli albori del liberalismo, opinione pubblica aveva un doppio significato di regolamentazione pubblica delle opinioni pubblicamente espresse, così - paradossalmente - anche la privatizzazione dei circuiti dell’opinione in rete assume una doppia valenza. Le opinioni si ri-privatizzano, tornano cioè a rappresentare prevalentemente la nostra dimensione privata. E, al tempo stesso, questo processo è organizzato - orientato, permeato - dalle grandi multinazionali del web, che ne detengono l’oligopolio economico e tecnologico. Le big tech accumulano, infatti, dati per guidare i comportamenti di massa, utilizzando la loro posizione dominante al fine della standardizzazione: “i monopoli tecnologici puntano a modellare l’umanità a loro piacimento, più di qualsiasi gruppo di aziende abbia mai fatto prima”. La potenza computazionale delle corporation è tale da sbaragliare gli Stati, in uno degli ambiti che era stato di loro competenza e ne aveva alimentato la legittimità. Il controllo sui dati della collettività diventa “pratica tecnologica di pertinenza diretta delle imprese e degli imprenditori, che si trovano a sostituirsi alle istituzioni pubbliche proprio per la loro capacità di gestire messaggi globali”. *Estratto de “Il principe digitale”, pubblicato da Laterza “Mai tanto potere nelle mani dei privati: oramai siamo alla censura 2.0” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 16 giugno 2025 I social network sono davvero degli spazi liberi sui quali far circolare le opinioni? Più volte molti esperti hanno rilevato che il sistema studiato da Facebook è poco trasparente. E in questa opacità è possibile bloccare temporaneamente o per sempre la pagina di qualche utente considerato “indisciplinato”. Regole poco chiare, ai più sconosciute, basate sulla cooperazione tra i filtri dell’Intelligenza artificiale e controllori umani posti a valle della catena di verifica. I controllori umani danno la precedenza agli algoritmi per setacciare le pubblicazioni e solo dopo che un contenuto è ritenuto inappropriato viene inviato un alert ad un team di moderatori per la decisione finale sulla rimozione o meno di un post e sulla permanenza o meno del titolare del profilo. Gli “abitanti” delle piattaforme devono dunque sottostare alle regole di chi le ha ideate e costruite. Sul rischio di censura sui social abbiamo parlato con il professor Salvatore Sica, ordinario di Diritto privato nell’Università di Salerno. Professor Sica, i social network sono davvero una prateria in cui chiunque può muoversi liberamente? Proprio così. I social sono purtroppo diventati una prateria e c’è un oggettivo problema di apposizione di regole, ma, soprattutto, di effettività delle regole che vengono applicate. Basta anche po’ di comune esperienza giudiziaria in questa materia per rendersi conto che c’è una difficoltà spesso ad individuare l’autore del post. A seguire l’individuazione del giudice competente e ovviamente anche la legge applicabile. A mio avviso, esiste una necessità di garantire più che nuove regole di poter applicare quelle che già ci sono. Pochi giorni fa il profilo Facebook, seguitissimo, del giornalista del Dubbio Damiano Aliprandi è stato bloccato. Aliprandi si occupa di carcere, condizione di vita dei detenuti e di mafia. Le piattaforme social possono oscurare qualcuno, se schiere di segnalatori si mettono all’opera? È la parte più inquietante di questo tema. A una sostanziale libertà di offesa, di linguaggio d’odio e alla incapacità di intervenire del giudice statale corrisponde il più delle volte una possibilità di intervento censorio nella gestione della piattaforma. In realtà la gran parte di questi interventi sono frutto più che delle segnalazioni dell’incrocio algoritmico di parole chiave. Qualche anno fa ci fu l’oscuramento del canale YouTube della “Fondazione Einaudi” perché venne usata una espressione di contrarietà all’obbligo vaccinale, durante la pandemia, all’interno di un ragionamento molto più articolato. Si trattò di una sorta di caso di scuola sul potere enorme conferito ai privati di essere i giudici finali, gli arbitri finali. Rispetto alla vicenda di Aliprandi, che non conosco nello specifico, posso immaginare che questo giornalista, al quale va la mia solidarietà, sia stato oggetto di una serie di segnalazioni. Occorrerebbe verificare in concreto la natura e il contenuto dei post censurati, ma in ogni caso resta il tema di fondo, quello sì inquietante, che mai tanto potere è stato attribuito a privati, incluso quello di esercitare unilateralmente la censura. In questo quadro si inserisce una ulteriore riflessione. Quale? Nel caso di oscuramento di un profilo, è difficile conoscere con esattezza le motivazioni perché non viene notificato alcun provvedimento, ma si adotta una prassi che farebbe impallidire ogni norma applicabile alla giustizia ordinaria, che farebbe gridare al colpo di Stato. Insomma, si applica direttamente la sanzione, senza alcun tipo di procedimento. Una vera e propria contraddizione rispetto all’idea secondo la quale sui social le opinioni si muovono sempre in maniera libera? Non c’è dubbio. Siamo di fronte ai due corni del problema: da un lato una libertà, una “License to kill” che è attribuita a certi leoni da tastiera, dall’altro invece una improvvisa attività censoria, opaca e non giustificata il più delle volte. In questo contesto gli Stati sono meno potenti dei signori delle piattaforme on line che decidono se censurare o meno qualcuno in casi di opinioni non gradite? Questo è il macro-tema che fa da sfondo e che tante volte, in passato, ho avuto modo di affrontare. Forse, oggi, c’è un dato leggermente più preoccupante perché abbiamo la maggiore democrazia al mondo, gli Stati Uniti, che mi pare abbia una governance molto connessa ai privati delle Big tech. Una combinazione di classe di governance molto particolare con la presenza di padroni oligopolisti della tecnologia. Secondo me, è una convergenza a dir poco preoccupante. Le piattaforme social stanno anche rimodellando il concetto di democrazia? Lo hanno già ampiamente rimodellato, tanto è vero che abbiamo una nuova classe dirigente che o è molto attenta ai profili social o addirittura confonde l’attività politica con quella dell’influencer. È uno scenario molto particolare, dove anche la politica ha cambiato il linguaggio. Ci sarebbe bisogno innanzitutto di uno scatto etico e culturale, nonché pedagogico. Da tempo sostengo che la Chiesa dovrebbe essere in prima fila per la funzione educativa che svolge. La Chiesa, come le altre agenzie educative, dovrebbe essere in prima fila in una stagione tutta rivolta alla rieducazione, ai rapporti autentici tra le persone e alla disintossicazione dall’uso smodato e non consapevole dei social. “Politica succube del consenso, con i barconi di migranti andiamo pure noi alla deriva” di Domenico Agasso La Stampa, 16 giugno 2025 Il fondatore del Gruppo Abele e di Libera, don Luigi Ciotti: “La mia parrocchia è la strada. Una volta la polizia a Torino mi prese per spacciatore. Il Papa? Bene i richiami alla pace”. Don Ciotti, fondatore del Gruppo Abele e di Libera, lei è conosciuto da tutti per il suo impegno civile, ma com’era il bambino Luigi? “Il ricordo più vivo di quel periodo risale al 23 maggio 1953, quando una tempesta violentissima si abbatté su Torino, spezzando la guglia della Mole Antonelliana. E scoperchiando il tetto della “baracca” di servizio dove allora abitavo insieme alla mia famiglia, dentro il cantiere del Politecnico. Mia madre mi strinse forte a sé insieme alle mie sorelle, mentre le lamiere volavano via. Quel gesto di soccorso istintivo, con le sue braccia a rappresentare la forma più basilare di protezione, mi è tornato alla memoria tante volte, di fronte a persone alle prese con tempeste ancora peggiori, reali o esistenziali”. Ricorda il momento in cui ha sentito la chiamata al sacerdozio? “Ricordo soprattutto quando sacerdote lo diventai, consacrato da Padre Michele Pellegrino, Arcivescovo di Torino, che mi affidò come parrocchia “la strada”. Oggi mi imbarazza essere considerato un prete diverso dagli altri e provo immensa stima per i sacerdoti alla guida di parrocchie difficili, che si caricano sulle spalle storie di vita, fatiche e bisogni enormi, sia materiali che spirituali”. C’è stato un maestro, un amico, un incontro che ha segnato la sua vita più di altri? “Gli incontri sono stati la più grande ricchezza della mia vita! Infatti non mi piace avere l’attenzione focalizzata su di me, perché è il “noi” il protagonista dell’impegno che porto avanti. Senza le persone preziose che ho incontrato lungo il cammino, non avrei realizzato nulla. E la prima di queste persone è stato un “barbone” su una panchina di corso Vittorio. Avevo 17 anni e avrei voluto aiutarlo, invece mi spronò a guardarmi intorno, per accorgermi di tanti miei coetanei che più di lui avevano bisogno di aiuto”. Ci racconta un aneddoto personale che mai ha svelato pubblicamente? “È una cosa che ho saputo io stesso solo di recente: a metà degli anni 70 stavo per essere arrestato! Un investigatore della Polizia aveva scoperto che un sacerdote si aggirava nella zona di Porta Nuova avvicinando i giovani tossicodipendenti. Sospettava che fossi uno spacciatore… Il dottor Antonio Baranello, allora Vice Dirigente della Squadra mobile, lo convinse ad approfondire le indagini prima di procedere al fermo. E per fortuna si capì che il mio scopo era esattamente il contrario! Cioè conquistare la fiducia di quei giovani per provare ad allontanarli dalle droghe. È un problema di cui oggi si parla meno ma che è ancora estremamente diffuso, in tante forme. Non solo dipendenza dalle sostanze ma anche dal cibo - nella forma dei disturbi alimentari - dal web o dal gioco d’azzardo. Per questo col Gruppo Abele continuiamo a studiare progetti innovativi per rispondere alle nuove fragilità. Anche se nessuno pensa più di arrestarci, è comunque difficile trovare i fondi e gli spazi per portarli avanti”. Che cosa significa oggi essere “anti-mafiosi”? E che cosa vuol dire essere “liberi”? “Siamo liberi se sappiamo fare scelte consapevoli e responsabili. E quando capisco che la mia libertà è strettamente legata a quella degli altri, sarò per forza contro le mafie e la mafiosità in generale, cioè l’atteggiamento di chi è pronto a calpestare vite e diritti altrui nel nome del profitto. Essere anti-mafiosi significa promuovere quei valori democratici - giustizia, solidarietà, trasparenza - che fanno da argine al dilagare della criminalità organizzata e anche di quella “legalizzata”, che è poi qualsiasi forma di gestione del potere svincolata dall’etica”. Come ha accolto l’elezione di Leone XIV? “Robert Prevost è stato chiamato in Vaticano da Papa Francesco, che lo stimava profondamente. Già questo mi dà fiducia. L’altro elemento è la scelta del nome, che si richiama a Leone XIII, iniziatore della Dottrina sociale della Chiesa. E per ora mi ha colpito il richiamo frequente al tema della pace, che è centrale nelle nostre preoccupazioni e speranze. Ma anche quello a “una Chiesa sinodale, una Chiesa che cammina”, cioè quella comunità che discute e decide collegialmente e che si apre al mondo esterno, sul modello della Chiesa “in uscita” ereditata da Francesco”. Che cosa si aspetta da Leone XIV su temi come giustizia sociale, lotta alla corruzione, accoglienza dei migranti? “Il Conclave ha eletto il successore dell’apostolo Pietro, non del Papa precedente. Ma è evidente che chi ha apprezzato Bergoglio spera in una continuità con le sue posizioni. Cioè una denuncia sempre chiara e circostanziata dell’oppressione dei poveri, della persecuzione dei migranti e delle minacce all’ambiente. Ci sono dei percorsi di riflessione e riorganizzazione inaugurati da Papa Francesco che speriamo siano portati a compimento. E c’è però una persona diversa, con il suo personale carisma, che quindi forse ci condurrà verso quelle stesse mete per altre strade”. L’Italia sembra attraversare una stagione segnata anche da chiusure e paure. Che responsabilità ha la politica? “Mi pare una politica succube del consenso, cioè più attenta a costruire un futuro per se stessa che non per il Paese. Una politica che quindi fa leva sulle preoccupazioni della gente invece di provare ad affrontarne le cause. Così i problemi restano lì, e passa l’idea che alcune situazioni - povertà crescenti, precarietà del lavoro, tagli alla sanità, sovraffollamento delle carceri, solo per citarne alcune - siano immutabili. Invece, l’avvenire è dove scegliamo di andare. Siamo noi a decidere che forma dare al nostro tempo, se quella della paura o della speranza! Dobbiamo ritrovare fiducia negli strumenti della democrazia, a partire dal voto, ed esigere una politica che sappia trasformare le situazioni critiche, non cavalcarle a fini elettorali”. Come valuta l’atteggiamento dell’Italia rispetto al Mediterraneo e alla questione migratoria? E l’Unione europea? “Stiamo andando alla deriva. Una deriva etica e politica. Insieme ai barconi lasciamo naufragare i principi che hanno ispirato la nostra Costituzione, la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e l’Unione europea… Il dovere del soccorso e dell’accoglienza dovrebbe venire prima di qualsiasi legge, come impulso primario dell’essere umano verso i suoi simili. Ma noi stiamo cancellando ogni traccia di umanità dalle leggi e dalle pratiche, quando decidiamo che una persona sofferente debba essere respinta o incarcerata, meglio se lontano dai nostri occhi, in Paesi compiacenti che per soldi accettano di fare “il lavoro sporco”: ma davvero pensiamo che questo possa lasciarci pulita la coscienza?”. Lei incontra spesso i giovani: che cosa chiedono, temono, sognano? “I giovani sono portatori di diversità, di energie e di vita. Purtroppo però oggi percepisco un grande malessere fra di loro, dovuto anche al senso di incertezza verso il domani. Tagli all’istruzione, precarizzazione del lavoro, welfare familiare azzerato: ai giovani si nega il futuro e intanto si grida allo scandalo se da quel futuro mortificato nascono comportamenti anti-sociali. Dobbiamo allora prima di tutto farci delle domande sulla società che stiamo costruendo: una società che tende a espellere i più fragili per non guardare alle proprie fragilità, alla povertà di senso e prospettive che la tiene bloccata. Ma poi anche inventarci spazi e strade per accogliere chi si sente respinto, inascoltato. Al Gruppo Abele abbiamo servizi innovativi per i giovani dipendenti dal crack o chiusi nelle proprie stanze, modelli studiati in tutta Italia che chiedono di essere replicati. Insieme alla sofferenza vanno però ascoltate anche le idee dei ragazzi, perché è necessario accoglierli nei loro percorsi inediti senza aspettarci che ricalchino i nostri stessi passi, compresi quelli sbagliati… A livello sociale e culturale, sono loro che possono fare la differenza!”. Quando la guerra diventa terrorismo di Stato il popolo è il nemico assoluto da abbattere di Massimo Cacciari La Stampa, 16 giugno 2025 Mezzo di pura eliminazione dell’avversario senza più lo scopo di risoluzione delle contese. La crisi degli equilibri internazionali e delle culture politiche che hanno comunque retto l’Occidente nel corso del secondo dopoguerra si sta ormai manifestando così radicalmente da doverci indurre a considerazioni che vanno ben oltre gli avvenimenti attuali, per quanto tragici, e il giudizio sui loro protagonisti, per quanto detestabili ci appaiano. Possono le potenze statuali che oggi si confrontano raggiungere una politica di pace? Non intendo il “pacifismo” idea regolativa, che vorrebbe metter fuori legge la guerra, bensì la concreta costruzione di una rete di patti e regole, che ogni Stato può sancire nel proprio assetto istituzionale, rendendola così positiva. Questa linea di condotta, che era emersa dopo il 1945 come l’unica perseguibile se si volevano evitare nuove catastrofi, sembra oggi respinta da tutti i principali attori. Sembra che solo dal campo di battaglia si debba attendere la decisione dei conflitti. Si prepara la guerra per farla o continuare a farla. E la guerra perde ogni retta intenzione, quella di risolvere una contesa determinata, per divenire un mezzo di pura e semplice eliminazione del nemico. Il fondamento culturale che ha permesso anche nei momenti più drammatici di non far precipitare i conflitti internazionali tra i grandi spazi politici in guerra totale sembra crollato. Questo fondamento aveva, certamente, un carattere conservatore, da “Santa Alleanza”, e non avrebbe comunque potuto reggere oltre il crollo di una delle due potenze che in essa detenevano il primato, ma nel suo assetto vi era anche dell’altro: l’idea che dopo la seconda Guerra Mondiale gli Imperi dovessero in tutti i modi evitare di trovarsi faccia a faccia, e che perciò nelle stesse guerre per interposta persona in cui si fossero trovati impegnati, essi si sarebbero regolati in forme “tollerabili” per l’altro, in base a uno ius belli in qualche modo condiviso. Sono fatti incomparabili, lo so, e tuttavia tragici prodotti della stessa crisi: mai nel faticoso, precario, sostanzialmente iniquo, ma tuttavia equilibrio della “guerra fredda” uno Stato avrebbe potuto invadere un altro fuori dal “dominio” assegnatogli o massacrare deliberatamente popolazioni civili. Gli Stati Uniti non hanno raso al suolo Saigon con dentro i suoi abitanti. Manca qualsiasi energia in grado di “contenere” la guerra all’interno di una forma che somigli al diritto. Ciò dipende senz’altro dal fatto che i contendenti sembrano protesi a un solo obbiettivo: la resa incondizionata del nemico. Richiesta che può assumere anche l’aspetto, come spesso è avvenuto, di richieste per questi irricevibili. Quando la resa incondizionata diventa il fine, ne deriva per necessità logica che prima o poi si dispieghino tutte le forze e tutti i mezzi disponibili per ottenerlo. Mettendo tra parentesi, per coltivare almeno questa speranza, il ricorso ad arsenali nucleari, rimangono altri strumenti, anch’essi sostanzialmente “silenziati” durante la guerra fredda, che possono essere posti in atto - uno di questi è il sistematico ricorso a strategie terroristiche, nel senso tecnico del termine. Terrorismo significa condurre la guerra al di là di ogni diritto, come non avvenisse tra eserciti, senza rispetto per convenzioni o divise, allo scopo primario di ridurre la popolazione civile dello Stato o della nazione nemici all’assoluta disperazione non solo sui propri attuali governanti, ma sulla propria stessa esistenza. La guerra terroristica di Stato sta diventando sotto i nostri occhi la norma. Ogni diritto internazionale era già stato ridotto a pezzi da invasioni di Stati sovrani, penose strumentalizzazioni di principi anche mossi da nobili intenzioni, come la “difesa di innocenti” o la “difesa preventiva”, ma sempre la volontà del più forte si era ritratta dal ricorrere alla guerra terroristica su scala totale, e cioè a trattare da nemico assoluto il popolo, donne e bambini, dello Stato o dell’autorità politica che si intende abbattere. Anche questa soglia è stata scavalcata e siamo davvero ormai dentro l’abisso. Se oggi trionfa il diritto del più forte, e cioè il non-diritto, il male affonda forse ben oltre la radicalità dei conflitti in atto e il clamoroso fallimento delle ideologie economicistico-liberiste che affidavano al business sui mercati la loro regolazione. È crollata ogni capacità di contenere l’espressione del proprio interesse riconoscendo insieme quello dell’altro. Non si può formare alcuna comunità internazionale se viene meno, all’interno di ciascuna parte, il senso di una co-appartenenza. Se nulla abbiamo in comune ab origine, mai potrà costruirsi una politica di pace. Aristotele diceva che l’essenza dell’agire politico consiste nel produrre amicizia. Non era un astratto pacifista, considerava invece ineliminabile il male della guerra. Ma riteneva che il nemico fosse l’orizzonte ultimo, non il primo ed esclusivo dell’arte della politica. È inutile nasconderlo. Nel corso della civiltà europea la forza spirituale che ha esercitato comunque un’influenza contenitrice rispetto al dilagare della guerra in quanto azione volta a negare l’esistenza del nemico, è venuta dalla cristianità, pur nelle sue diverse espressioni o confessioni e dalla Chiesa cattolica in particolare negli ultimi due secoli. È dalla cristianità che provengono le istanze più forti per stabilire un diritto alla guerra, nella guerra e per paci successive che non siano germi di nuove catastrofi. Quest’azione la si deve senz’altro al formidabile paradosso che agita la cristianità fin dalle origini: come comporre la assoluta, irrevocabile condanna di ogni violenza pronunciata dal Figlio con le esigenze di compromesso con le potenze mondane che nascono dal vivere in questo mondo, sia pure da pellegrini? Questo paradosso cessa completamente di essere avvertito e perciò cessano gli sforzi volti ad affrontarlo. Tutto avviene ut Christus non esset, come Cristo non fosse mai stato. Altro non resta che la volontà di potenza dei diversi Stati o Imperi. “Giusta” sia allora soltanto la guerra da essi dichiarata e svolta con ogni mezzo ritenuto da essi efficace. L’Apocalisse può attendere? Tutti i morti che non vediamo di Elena Loewenthal La Stampa, 16 giugno 2025 La guerra semina morti. Lo fa da sempre, quella è la sua vocazione da che mondo è mondo, o meglio dal tempo in cui l’umanità s’è inventata un tale strumento di distruzione. Che sia barbara o inevitabile, di sopraffazione o difesa, ogni guerra porta con sé la morte: di soldati, condottieri e soprattutto civili. Uomini, donne e bambini che la guerra non la fanno ma ci precipitano dentro in un giorno più o meno qualunque e da quel giorno per loro tutto cambia. Non c’è pezzo di umanità che, prima o poi, non sia stata anche vittima della guerra. E che in quella guerra muore - senza non di rado sapere né troppo né poco del perché di quella guerra e della propria morte. Sotto le bombe, nel fuoco che divora la propria casa, faccia a faccia con una mitragliatrice che spara all’impazzata. Quei morti, milioni e milioni lungo tutti i secoli di questo travagliato e confuso antropocene (le quasi innumerevoli specie diverse di dinosauri convivevano su questa terra in modo decisamente più civile) avrebbero diritto almeno ad una cosa: il ricordo. La Bibbia esprime tutto questo con due brevi parole ebraiche che suonano yad washem, cioè letteralmente “mano e nome”. I morti israeliani in quest’ultima, tremenda guerra, si chiamano Israel e Eti, Manar Shatha, Hala. A Tamra un’intera famiglia di arabi cristiani è morta sotto un missile spedito dall’Iran. Qui i morti sono presenza: volti, nomi, ricordi, lacrime. Vita che resta, case devastate, strazio e vita che va avanti, nonostante tutto. Le loro foto sono sui giornali e in rete, si parla di loro. Ci sono. Sul fronte opposto, invece, nessun morto ha un nome. Nessun morto ha un volto. Chi non c’è più è come se non ci fosse mai stato. E i morti ci sono sicuramente, sotto le bombe israeliane. Ma più forte di tutto, laggiù a Teheran, più dell’unico diritto rimasto ai morti, più della assoluta e incontrovertibile verità che la guerra miete morti, più di tutto a Teheran vince la propaganda. E la propaganda non vuole morti, non li riconosce, fa come se la guerra non esistesse. Esiste solo il nemico, che non potrà fare a meno di perdere questa guerra anche nel caso in cui la vincesse. È solo il nemico a cadere in questa guerra, pretende la propaganda di un regime dove le vittime di guerra non sono ammesse e se ci sono - e ci sono sicuramente - stanno dietro una impenetrabile cortina di mistificazione. Solo il nemico, come quella presunta pilota israeliana abbattuta e sbandierata dalla comunicazione della repubblica islamica che in realtà era soldatessa cilena che sorride in una foto di repertorio. I morti iraniani sono sepolti sotto le macerie della guerra ma prima ancora sotto la reticenza di un regime che si prende gioco della verità - anche quella più dolorosa e insopportabile dei morti in guerra. Che non sono ammessi, non hanno spazio né volto né nome, non sono neanche dei numeri. C’è qualcosa di indegno in questa rimozione che va contro ogni basilare principio di rispetto per la vita. Come se tutte quelle vite spazzate dalla guerra non avessero avuto alcun senso, né prima quando c’erano né ora che non ci sono più. Medio Oriente. Da Marzabotto a Monte Sole, marcia per la pace: “Salvate Gaza, fermate Netanyahu” di Paolo Foschini Corriere della Sera, 16 giugno 2025 Non contro il popolo israeliano ma contro il governo di Israele: mentre i missili continuano a piovere tra Teheran e Tel Aviv almeno ottomila persone da mezza Italia si sono ritrovate a Marzabotto per marciare fino a Monte Sole, i luoghi dell’eccidio nazifascista del 1944, per chiedere di fermare la strage di Gaza. Almeno ottomila. Possono sembrare pochi paragonati agli ormai milioni sotto le bombe tra Iran e Israele, Yemen e Gaza, e domani chissà. Ma tanti invece, sotto un sole torrido, in marcia sull’asfalto per chilometri, pensando che di questi tempi perfino tra chi invoca la pace è fatica non farsi la guerra. Guerra non di bombe ma di sigle, distinguo, se-sfilano-loro-non-veniamo-noi. Non questa volta però. La manifestazione “Save Gaza”, idea lanciata il 25 aprile scorso per una marcia da Marzabotto a Monte Sole, in poche settimane ha raccolto adesioni a decine e alla fine è diventata realtà attorno a un punto fermo comune: manifestazione per Gaza, per il popolo palestinese ma non non contro il popolo israeliano. Ma contro il governo di Netanyahu, questo sì, senza se e senza ma. Con tanta gente, decine di sindaci e forse centinaia di associazioni, oltre a Cgil, Fiom, Pd bolognese. Marzabotto e in particolare Monte Sole, tuttora sede della comunità monastica fondata dal padre costituente Giovanni Dossetti, sono i luoghi in cui il nazifascismo portò a termine nel 1944 uno di quegli eccidi che ogni tanto si citano ma che si dovrebbero conoscere di più. Luoghi scelti non a caso per questa iniziativa. Così adesso c’è lo striscione dell’Anpi Venezia: “Marzabotto ricorda Gaza, non c’è futuro senza memoria”. Ci sono le religiose dossettiane come suor Teresa: “Siamo qui per la pace e per i morti piccoli di Gaza”. Gente da Ancona, da Milano, dal Piemonte, dalla Toscana. C’è Alberto Zucchero del Portico della Pace, tra i promotori principali, che parla di “grido di allarme” facendo eco alla sirena antiaerea attivata da Alessandro Bergonzoni che dice “la politica chieda scusa per tutto quello che non è stato fatto, io invece chiedo scusa ai bimbi e ai palestinesi perché li stiamo curando dopo aver finanziato le bombe che li hanno feriti”. Non c’è Elly Schlein. C’è il sindaco di Bologna Matteo Lepore: “Le istituzioni nazionali e internazionali ascoltino il grido di Monte sole - dice - mentre da qui deve partire un grande movimento unito per la pace. Chi oggi non c’è avrà occasione per esserci domani. Bisogna mobilitarsi nelle piazze, nelle scuole e nelle Università. A Bologna continueremo a farlo”. C’è Yassine Lafram, presidente dell’Unione comunità islamiche italiane: “Voi che siete qui - dice al microfono - riappropriatevi della vostra umanità. Siate ambasciatori di pace, di diritto internazionale, di giustizia”. Ringrazia il sindaco di Bologna che aveva messo la bandiera palestinese su Palazzo d’Accursio, per poi toglierla dopo avere esposto anche quella di Israele in segno di riconciliazione con la comunità ebraica bolognese e lasciare sulla sede del Comune lo striscione che c’è tuttora: “Fermate il governo israeliano - Save Gaza”. Non è stata l’unica manifestazione per la pace in Italia. Tra le altre per esempio quella di Buccinasco, a sudovest di Milano, promossa dal Comitato Ponti di Pace che riunisce a sua volta decine di associazioni e gruppi, da Caritas Ambrosiana a numerose realtà del Terzo settore. Venezuela. Alberto Trentini in carcere da 7 mesi: a che punto è il lavoro per liberare il cooperante di Estefano Tamburrini Il Fatto Quotidiano, 16 giugno 2025 L’operatore umanitario veneziano è stato arrestato il 15 novembre 2024: da allora è detenuto senza accuse nel Paese sudamericano. Sono ormai sette i mesi di prigionia di Alberto Trentini, il cooperante veneziano 45enne arrestato il 15 novembre 2024 in Venezuela e trattenuto senza accuse nel carcere El Rodeo I, vicino alla capitale Caracas. Ilfattoquotidiano.it ha raccolto l’appello lanciato dalla madre di Alberto, Armanda Colusso, alla conferenza stampa dell’11 giugno alla sede dell’Ordine dei giornalisti a Roma: “Vi prego, non stancatevi di parlare di Alberto finché non me lo porteranno a casa!”, ha chiesto (video). In quell’occasione sono stati rivolti diversi appelli a Giorgia Meloni perché si esprima sul caso di Trentini: nominarlo in pubblico “gli darebbe dignità”, ha detto l’avvocata della famiglia, Alessandra Ballerini. Finora però la premier non è intervenuta e non risulta aver avuto nuovi contatti con i familiari, dopo una telefonata avvenuta ai primi di aprile. Mobilitazione a più livelli - Prosegue nel frattempo lo sforzo del ministero degli Esteri e dell’intelligence, a cui è affidato il compito - per niente facile - di mantenere canali di dialogo tra due Stati senza normali relazioni diplomatiche, in cui i rispettivi ambasciatori esistono ma non risultano accreditati. Continua anche la mobilitazione dal basso: un digiuno a staffetta con circa duemila partecipanti ha raggiunto il centesimo giorno, e una petizione lanciata per il ritorno a casa del cooperante (firma qui) conta già oltre 106mila firme su Change.org. Lunedì alle 17 è inoltre in programma a Venezia la camminata “Uniamo la città per Alberto”, che andrà dalla basilica di San Pietro di Castello a Mestre per “ricordare che nessun muro è troppo alto, nessuna distanza troppo grande, quando a muoverci è l’amore”. ?Senza accuse - Sette mesi, 212 giorni, sono troppi in assenza di accuse. Lo sanno i servizi segreti, che indagando sul conto di Trentini hanno trovato soltanto informazioni positive, scartando ogni possibile sospetto di pericolosità. Lo sanno anche coloro che, come l’ex deputato Beppe Giulietti, hanno chiesto di lui ai residenti del Lido di Venezia, constatando l’affetto della gente verso un concittadino da sempre impegnato per il bene del proprio territorio. Lo sa persino il presidente venezuelano, Nicolás Maduro, che grazie alla prigionia di Alberto ha potuto aprire una delicata trattativa con Roma, obbligata a ripristinare i canali di dialogo da tempo interrotti con Caracas. Chi è Alberto Trentini - Alberto è andato in Venezuela per amore, e ha avuto la possibilità di servire gli ultimi - i disabili, in questo caso - attraverso l’ong Humanity & Inclusion che opera negli Stati di Amazonas, Apure e Monagas. È stato arrestato tre settimane dopo il suo arrivo, e da allora ha potuto telefonare a casa solo una volta, il 16 maggio, per rassicurare i genitori sulle proprie condizioni di salute. Eppure il cooperante non è implicato nel conflitto politico in corso in Venezuela dalle elezioni dell’estate 2024, che ha portato, secondo la ong Foro Penal, all’incarcerazione di 924 prigionieri politici, di cui 82 stranieri. La madre Armanda racconta il figlio Alberto come un “ragazzo normale, sereno e pieno di ideali”: il suo impegno umanitario ha preso il via nel 2006, con il Servizio civile universale svolto a Muisne, Ecuador. Nel corso della sua vita da cooperante è stato anche in Etiopia, Paraguay, Nepal, Grecia, Perù, Libano e Colombia, lavorando per Focsiv, Cefa, Coopi - Cooperazione internazionale, Danish Refugee Council e altre ong. Quasi vent’anni nei quali ha intrecciato passione e competenze: a livello formativo, infatti, si è laureato in Storia moderna e contemporanea all’Università Ca’ Foscari di Venezia nel 2004 (con un’esperienza Erasmus a Parigi). Nel 2013, poi ha ottenuto il diploma in Assistenza umanitaria presso la Liverpool School of Tropical Medicine e nel 2021 un master in Ingegneria sanitaria all’Università di Leeds, in Regno Unito. Orizzonti e attese - Al momento si auspica qualche passo avanti nella trattativa Roma-Caracas, con chi arriva persino a sperare nella piena normalizzazione delle attività diplomatiche. La visita consolare già ipotizzata da fonti venezuelane, però, continua a non verificarsi, né per Alberto né per gli altri detenuti stranieri tuttora reclusi nel Paese. Esistono anche altri canali di dialogo, in particolare quello aperto della Chiesa cattolica con il nunzio apostolico (il rappresentante del Vaticano) a Caracas, l’arcivescovo Alberto Ortega Martín: i familiari di Alberto sperano di poter incontrare anche l’arcivescovo di Caracas Raúl Biord Castillo che, secondo fonti venezuelane, si recherà in Italia fra qualche settimana. Rimane aperta infine l’ipotesi di un’eventuale attivazione dell’Eni, il colosso petrolifero italiano che porta avanti importanti attività in Venezuela: l’amministratore delegato, Claudio Descalzi, non ha chiuso le porte all’ipotesi di fornire alle autorità eventuali informazioni rilevanti di cui l’azienda venisse a conoscenza.