Processi per tortura, “il Garante dei reclusi non starà a guardare” di Eleonora Martini Il Manifesto, 15 giugno 2025 Parla Mario Serio, componente del collegio in quota M5S, dopo le dimissioni dell’avvocato Passione, storico legale dell’istituzione. “Addolorato sul piano personale e per i riflessi negativi che la vicenda sta provocando sulla figura del Garante nazionale”. Dopo le dimissioni dell’avvocato Michele Passione, storico legale dell’autorità di garanzia dei diritti delle persone private di libertà, la voce del professor Mario Serio - che nel collegio siede in quota M5S - si leva in perfetta solitudine. Ha avuto modo di parlarne con il presidente Turrini Vita? Certo, fin da subito. Avevo anche proposto all’avv. Passione, per cui nutro una grande stima professionale, di rimanere almeno fino a che non avremmo avuto un sostituto. Ma evidentemente ha avuto le sue ragioni per non accettare. E dopo la sua lettera di dimissioni ho chiesto al presidente di riprendere contatto con Passione per cercare una soluzione sia sul piano umano che processuale. Mi sembrava ben disposto ma che io sappia non lo ha ancora fatto. Uno dei problemi sollevati dall’avvocato, evidenti anche in questo caso, è che il vostro collegio non parla mai con un’unica voce? Addirittura l’avvocata Irma Conti, in quota Lega, ha utilizzato il vostro sito ufficiale per salutare personalmente la facente funzione Lina Di Domenico, sul cui nome c’è stata una lunga querelle, quando è stata sostituita al vertice del Dap dall’attuale capo De Michele... Quello fu un gesto che lasciò sorpresi gli altri componenti, ma in generale la collegialità non implica il venir meno della soggettività ideologica. In particolare nel nostro collegio il pluralismo deriva dalla diversa biografia, storia politica e origine delle nomine. Ma le dimissioni del legale dell’istituzione, dopo dieci anni, non richiederebbe una risposta del Presidente? Non mi permetto di fare il suo interprete ma credo che voglia attendere che la notizia si raffreddi. Personalmente credo che la vicenda vada chiarita con un messaggio pubblico, ma se questo non può avvenire a livello collegiale ognuno dei componenti credo possa dare il proprio contributo di chiarezza a livello personale. Allora chiariamo: il Garante nazionale continuerà a costituirsi in giudizio contro le forze di polizia accusate di maltrattamenti e tortura? Lo dico esplicitamente: non solo non è mutato l’atteggiamento del collegio rispetto a quella grande conquista che è la costituzione di parte civile del Garante in procedimenti per tortura o trattamenti inumani o degradanti in tutti i luoghi di privazione della libertà. Non soltanto questa è una conquista irretrattabile, ma se anche malevolmente volessimo attribuire al Garante questa volontà, non sarebbe possibile. Non sarebbe possibile per i processi in atto, ma lo sarebbe per quelli satellite da essi scaturiti. Quelli per i quali l’avvocato Passione non ha ricevuto la delega... Non ho motivo di dubitare che l’orientamento del collegio continuerà ad essere lo stesso. Non è pensabile che il Garante resti con le mani in mano di fronte a episodi denunciati come torture o violenze a carico di detenuti, migranti o internati in una Rems, anche in attesa dell’accertamento giudiziario. Non si può tornare indietro, anche perché non vi è più alcun dubbio che la giurisprudenza consideri il Garante come portatore di un interesse esponenziale, collettivo. Il Garante non abbandonerà le persone ristrette. È una promessa, ma intanto Passione denuncia l’impossibilità di esercitare la difesa dei diritti dei reclusi... Lasciamo da parte l’aspetto professionale che riguarda i rapporti tra difensore e cliente, che devono essere coperti da segreto professionale. Ma l’avv. Passione pone un quesito a cui noi abbiamo l’obbligo morale di rispondere, e cioè se continueremo sulla stessa linea finora tracciata in difesa dei diritti delle persone private della libertà. E la mia è una risposta categorica: sì. Mi batterò perché questa posizione trovi ascolto nel Collegio ma sono abbastanza ottimista. Quotidianamente riceviamo segnalazioni a cui diamo risposte immediate. Abbiamo svolto e programmato decine di visite nelle carceri, nei Cpr e nelle Rems. Perché non siete mai andati nel Cpr in Albania? Avevamo programmato una visita proprio per la prossima settimana poi è sopraggiunto un importante convegno sulla “Recidiva zero” (organizzato dal Dap, ndr). Ma noi seguiamo un ordine cronologico: prima i luoghi che da più tempo non hanno ricevuto nostre visite, poi quelli più affollati - e in Albania ci sono poche persone - e poi quelli da cui abbiamo ricevuto più segnalazioni. Ma le visite non si fanno a sorpresa? Avremmo fatto una prima visita annunciata, puramente ricognitiva per rispetto dell’opinione pubblica, cui farà seguito sicuramente una visita ispettiva non annunciata. Dopo le vostre visite, quali interventi chiedete subito al governo? Me li dica per titoli... Salute mentale, proposta Giachetti per alleviare il sovraffollamento carcerario, e diritto di comunicazione con l’esterno per i trattenuti nei Cpr. Persone che non hanno colpe penali. “Reinserire i detenuti? Con lavoro e accordi sociali” di Elisabetta Soglio Corriere della Sera, 15 giugno 2025 Il presidente di Spazio aperto Marco Martellucci: “Privati e Fondazioni bancarie agiscano insieme”. Sistema di contratti nazionali e giustizia riparativa. Il punto di partenza: 62mila detenuti stipati dove potrebbero starcene 45mila al massimo, un record di suicidi in carcere che supera se stesso di anno in anno, un sistema di pene che genera continuamente nuovi crimini anziché cittadini recuperati. Proposte di soluzione? “La nostra è semplice: nuove carceri, costruite nel rispetto dei parametri migliori per chi ci vive; lavoro sicuro e retribuito per chi sconta una pena, a norma di contratto nazionale, e con una parte di stipendio girata alle vittime del reato come forma di giustizia riparativa; il tutto con l’istituzione di una figura nuova che chiameremo imprenditore sociale”. Funzionerebbe? “Tutte le analisi e i dati esistenti lo dicono in modo concorde: condizioni di pena dignitose e reinserimento lavorativo abbattono la recidiva, cioè il ritorno al crimine, in misura che non lascia dubbi”. Eppure voi dite che basterebbe guardare i dati... “È il nostro metodo. Spazio aperto è nata nel 2019 come realtà apolitica e apartitica. Individuiamo una tematica quindi la analizziamo partendo dai fatti, per passare a proposte di soluzioni con un gruppo di lavoro multidisciplinare. In questo caso abbiamo anche messo a confronto i sistemi di Paesi diversi”. Risultato? “Le cifre sul sovraffollamento sono in aggiornamento costante, ma diciamo che il tasso medio supera del 119 per cento i posti oggi disponibili. Contemporaneamente il tasso medio di recidiva è passato da 1,9 reati per detenuto nel 2008 a 2,4 reati per detenuto oggi. Questo in un contesto fatto di carceri che nel 50% dei risalgono a prima degli Anni Ottanta e non rispettano gli standard minimi di vivibilità, né per le persone detenute né per gli agenti”. Quindi? “La nostra idea è costruire nuove strutture, ovviamente a norma e pensate per un massimo di 200 persone. Prevedendo al loro interno la presenza di una azienda che dia loro lavoro. Vero e retribuito. Questo da parte dello Stato ma a opera di una figura che abbiamo chiamato imprenditore sociale”. Che sarebbe? “Un binomio formato da un privato e da una Fondazione bancaria”. E cosa farebbero? “Parteciperebbero a un avviso pubblico con un progetto, a seguito del quale potrebbero ottenere un terreno su cui realizzare la struttura di cui parlavo, con un credito di imposta a fronte della realizzazione e soprattutto dell’attività lavorativa offerta alle persone detenute”. Qualcuno non direbbe che è la privatizzazione della pena? “Eh no, su questo non ci devono essere equivoci: la gestione generale resterebbe totalmente in capo all’amministrazione penitenziaria e quindi allo Stato”. E il fronte lavoro? “Contratti nazionali. Il che garantirebbe stipendi in linea con quelli reali e non le cifre irrisorie che lo Stato può attualmente permettersi per i detenuti lavoranti all’interno di un carcere. Con una retribuzione così suddivisa: un quinto a chi ha subito il reato, un quinto come contribuito alle spese di detenzione, un quinto al mantenimento dei parenti fuori, un quinto accantonato per il fine pena e un quinto per la persona detenuta. Il tutto su base volontaria”. Nel vostro progetto quante strutture del genere avreste in mente? “Il mio sogno sarebbe realizzarne una in ogni regione”. E in quanto tempo? “Questo dipenderebbe molto dalla situazione dei vari contesti. Diciamo che in assenza di ostacoli, se si partisse oggi, una struttura di questo tipo potrebbe essere costruita e resa operativa in tre anni”. “Cosa dice la nuova legge?”, le detenute e le loro paure di Anita Fallani Il Domani, 15 giugno 2025 Le lettere dal carcere di Torino di un gruppo di ristrette con cui chiedono lumi sulle nuove norme. Ora chi risponde alle loro richieste rischia l’istigazione alla disobbedienza delle leggi: “Pene aumentate”. “Attendiamo risposte riguardo il nuovo Decreto Sicurezza, dateci delle delucidazioni perché noi qua ne sappiamo ben poco” dice una detenuta della casa circondariale di Torino Lorusso Cotugno, conosciuta come ‘Le Vallette’, in una lettera indirizzata al comitato Mamme in piazza per la libertà di dissenso che da qualche anno intrattiene rapporti epistolari con le persone incarcerate nella sezione femminile del penitenziario torinese. Proprio a causa dell’approvazione del decreto sicurezza, rispondere tramite lettera scritta alla richiesta di maggiori informazioni da parte di una detenuta mette i destinatari della lettera in seria difficoltà. Il decreto tramutato ormai in legge, infatti, ripristina e rinnova il reato di istigazione alla disobbedienza delle leggi, un reato che per come è scritto potrebbe configurarsi anche qualora una persona tenti di dare dei consigli alla popolazione detenuta sui comportamenti da tenere per non incorrere in nuove denunce. Le destinatarie della lettera sono il collettivo Mamme in piazza per la libertà di dissenso, un collettivo che si è costituito nel 2020 quando “i nostri figli hanno subito episodi di repressione a Torino e abbiamo sentito la necessità di incontrarci e trasformare la nostra rabbia in azione, in denuncia sociale” ha detto a Domani Nicoletta Salvi, una delle militanti del collettivo. Reato di scrittura - Nel corso degli anni, dimostrare solidarietà alla vittime della repressione torinese ha significato per il collettivo interfacciarsi con la sezione femminile del carcere torinese dato che “nei primi anni della nostra attività, militanti NoTav come Nicoletta Dosio e Dana Lauriolo sono state rinchiuse alla Vallette. Abbiamo fatto presidi con cadenza settimanale davanti al penitenziario per raccontare la loro storia e gli episodi repressivi della città. Leggevamo le lettere che ci mandavano dalle celle. Poi, la cosa si è allargata, abbiamo conosciuto anche le concelline. Non abbiamo più smesso di scriverci con le detenute” ha spiegato Salvi di Mamme in piazza per la libertà di dissenso. Tra le lettere recapitate a Maggio, ci sono dei passaggi di vita quotidiana e di ordinaria repressione. Una detenuta scrive: “l’ispettore dice che fa la cose di legge ma non è vero è una dittatrice. Le assistenti nuove di notte ci puntano la pila negli occhi fino a quando non ci svegliamo o addirittura ci chiamano per svegliarci. La vita qua è invivibile, ogni cosa che ci dicono è una minaccia. Siamo rimaste una decina di detenute che lottiamo, le altre hanno paura o sono infami”. Un’altra scrive “ho dovuto fare uno sciopero della fame per lavorare, di 9 giorni e mezzo e ho perso 5 chili e 200 grammi. Ero arrivata a 54 di glicemia. Mi volevano mettere sotto le telecamere in cella liscia”. La cella liscia è una prassi formalmente vietata dal regolamento penitenziario e da enti sovranazionali ma consolidata in alcuni istituti di pena tra cui il Lorusso Cotugno di Torino. Si tratta di unacella priva di qualsiasi arredo che viene utilizzata come forma di contenimento ambientale per persone con problematiche psichiatriche. Per la polizia penitenziaria la cella liscia sembra essere la risposta più adeguata per trattare tentativi di suicidio, atti di autolesionismo, proteste non violente anche se per chi opera da tempo delle carceri la cella liscia è lo strumento giusto per peggiorare una situazione già fortemente compromessa dato che là dentro “ci sei solo tu, un letto imbullonato al pavimento e il tuo tempo eterno. Non hai il controllo di niente una volta rinchiuso lì, neanche dell’accensione o spegnimento delle luci” ha spiegato Susanna Ronconi, referente della campagna Madri fuori un’iniziativa attiva da diversi anni che si propone di difendere i diritti delle detenute e dei loro figli. Istigazione a disobbedire - Anche il collettivo delle Mamme ha aderito alla campagna Madri fuori e lo scorso 11 maggio in occasione della festa della mamma, il collettivo è riuscito a far recapitare alle detenute alcuni depliant esplicativi del Decreto sicurezza grazie all’ingresso nella struttura di alcune consigliere regionali, le uniche figure istituzionali che assieme ai deputati non hanno bisogno di permessi per accedere alle carceri. I depliant sono stati distribuiti prima dall’approvazione definitiva del decreto in Senato. Oggi diffondere volantini interpretativi in carcere o nei Cpr sui contenuti della legge e provare, ad esempio, a spiegare cosa si intenda per reato di resistenza passiva (uno dei nuovi 14 reati introdotti dal decreto) potrebbe essere passibile di denuncia per ‘istigazione alla disobbedienza delle leggi’. Come ha spiegato l’avvocata e ex garante nazionale dei diritti dei detenuti Emilia Rossi, sono decenni che nessuno viene giudicato colpevole di questo reato ma il Governo Meloni ha voluto ricordare la sua esistenza nel Decreto Sicurezza e ha previsto un’aggiunta all’articolo 415 che lo regola. Il comma aggiunto recita: “La pena è aumentata se il fatto è commesso all’interno di un istituto penitenziario ovvero a mezzo di scritti o comunicazioni dirette a persone detenute”. “C’è un problema però: il concetto stesso di istigazione alla disobbedienza delle leggi è estremamente vago, potrebbe significare che è perseguibile chi promuove forme di boicottaggio o chi fa disobbedienza civile. I volontari nelle carceri e chi intrattiene rapporti epistolari con i detenuti si trovano in una posizione davvero difficile perché la norma è scritta in maniera così vaga che anche solo provare a spiegare cosa da ora in poi è consentito fare e cosa no rischia di essere passibile di denuncia. Eviterei quindi di dare o fornire qualsiasi consiglio, mi limiterei, al massimo, a dare delle informazioni esplicative super partes del decreto sicurezza” ha detto l’avvocata Emilia Rossi. Per i detenuti e le detenute capire quali dei loro comportamenti possono essere passibili di denuncia, però, è molto importante dato che proprio il la nuova legge repressiva ha introdotto un reato ad hoc per loro, il reato di ‘resistenza passiva’. Si tratta di un reato inedito per il codice penale italiano e intende criminalizzare tutte quelle forme di resistenza che la popolazione ha adottato come metodo di espressione non violenta nel corso degli anni. L’ultimo rapporto pubblicato il 30 giugno del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà nazionale raccoglie diversi dati sulle modalità di protesta non violenta adottate dalla popolazione carceraria, atti che da ora in poi potrebbero comportare per il detenuto o detenuta un aumento di pena fino a 8 anni. Tra gennaio e maggio 2025, dice il report, 1.018 persone hanno rifiutato il vitto o le terapie, 2.407 sono quelle che hanno fatto uno sciopero della fame o della sete, 1.137 quelli che hanno organizzato atti turbativi dell’ordine o della sicurezza, 105 gli episodi collettivi di rifiuto a rientrare in cella, 161 quelli in cui i detenuti hanno percosso le inferriate (la cosiddetta ‘battitura’). I motivi che spingono loro a protestare sono molteplici, ne parla una detenuta del carcere di Torino in una delle lettere recapitate al collettivo Mamme in piazza per la libertà di dissenso: “Fanno gli abbinamenti in cella come dice l’ispettore, senza logica e a suo piacimento. Non guarda chi vuole stare insieme in cella. Ci sono persone che stanno male con le concelline e non le cambia, poi sclerano e finiscono con i rapporti disciplinari”. Il che può avere conseguenze gravi: “Finisce che ti danno una nota di demerito che ti porta a non poter chiedere la liberazione anticipata. Ora, con questo decreto sicurezza, finiranno anche per scontare altri anni di carcere per via del nuovo reato di resistenza passiva”. Prove di pax (marittima) Nordio-Anm: “Basta pregiudizi ideologici” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 15 giugno 2025 A un convengo promosso da MI a Milano Marittima il Guardasigilli ha detto “no allo scontro di civiltà” con Parodi, che si è augurato “confronto e non conflitto”. Si è tenuto oggi il convegno sulla Giustizia promosso da Magistratura Indipendente dal titolo “La riforma costituzionale: evoluzione o involuzione? Proposte e prospettive”, un’occasione di confronto tra giuristi, magistrati, accademici e rappresentanti delle istituzioni sul disegno di riforma costituzionale attualmente in discussione. Tra gli ospiti di rilievo, il Ministro della Giustizia Carlo Nordio, il Presidente emerito della Camera Luciano Violante e il Presidente ANM Cesare Parodi, i quali - pur da prospettive differenti - hanno concordato sulla necessità di un confronto istituzionale serio, razionale e rispettoso. “Per l’amor di Dio, non facciamone uno scontro di civiltà - ha sottolineato il Ministro Nordio - Mi auguro che si arrivi con toni non solo pacati ma raziocinanti, non dico amichevoli, ma certamente di attenzione imparziale verso le esigenze della politica, della giustizia e dei cittadini”. Nel corso dei lavori, anche Parodi e Violante hanno evidenziato come la riforma debba essere affrontata senza pregiudizi ideologici, in un clima di confronto democratico e istituzionale, richiamando il senso di responsabilità delle diverse componenti coinvolte. “Il conflitto è necessario in democrazia, ma tra le parti politiche, non tra le istituzioni - ha ammonito Luciano Violante, invitando ad evitare contrapposizioni tra i poteri dello Stato e a favorire un riequilibrio costruttivo. “Io credo si debba passare dal concetto di conflitto a quello del confronto - ha aggiunto Cesare Parodi - Poteri dello Stato che confliggono rischiano di perdere credibilità. Ognuno deve regolarsi nel proprio ambito. Serve buona volontà, e noi sicuramente l’abbiamo. Io accetto le critiche, ma gli attacchi feriscono il magistrato nella sua professionalità”. Tra i temi affrontati durante il convegno: “Il nuovo asse costituzionale: riforma o rivalsa?”, “Il nuovo Consiglio superiore della magistratura e l’Alta Corte disciplinare”, e “La riforma costituzionale vista dai giovani magistrati”. Finisce al Csm il caso del pm che ha attaccato la riforma costituzionale in tribunale di Ermes Antonucci Il Foglio, 15 giugno 2025 I consiglieri laici di centrodestra al Csm hanno chiesto l’apertura di una pratica sulle critiche mosse dal pm torinese Toso contro la riforma Nordio per valutare eventuali profili disciplinari. È finito dritto al Consiglio superiore della magistratura il caso, raccontato ieri su queste pagine, del pm torinese Paolo Toso, che durante la requisitoria di un processo avrebbe attaccato la riforma costituzionale sulla separazione delle carriere in discussione in Parlamento. “Questo è un caso che rende preoccupante il progetto di separazione delle carriere dei magistrati. È stata l’autonomia del giudice a permetterci di operare un vaglio critico degli elementi che ci sono stati forniti”, avrebbe detto Toso di fronte ai giudici del tribunale di Torino. In seguito alla pubblicazione dell’articolo, i consiglieri laici del Csm Enrico Aimi, Isabella Bertolini, Daniela Bianchini, Claudia Eccher e Felice Giuffrè hanno depositato al comitato di presidenza di Palazzo Bachelet la richiesta di apertura di una pratica nei confronti del sostituto procuratore di Torino, affinché siano eventuali profili di incompatibilità funzionale o responsabilità disciplinare a carico del magistrato. Nel documento, i laici di centrodestra sottolineano come le affermazioni di Toso, “totalmente scollegate dai fatti oggetto del processo, rappresentino una presa di posizione politica impropria, espressa in un contesto - l’aula di giustizia - che richiede il massimo equilibrio e imparzialità”. “La libertà di espressione è un diritto sacrosanto - dichiarano i firmatari - ma non può travalicare il principio costituzionale della separazione dei poteri. Un magistrato non può utilizzare l’aula di tribunale per esprimere giudizi su un progetto di riforma costituzionale in discussione, pena la compromissione della credibilità e dell’indipendenza della funzione giudiziaria”. Di conseguenza, i consiglieri “invitano il Consiglio superiore della magistratura, in qualità di garante dell’autonomia e dell’imparzialità della magistratura, a verificare la veridicità dei fatti riportati e, se confermati, a valutare eventuali profili di incompatibilità funzionale o responsabilità disciplinare a carico del magistrato”. “Mi sembra una vicenda abbastanza grave. Ormai si usano anche gli atti giudiziari, in questo caso una requisitoria, ma domani potrebbe essere persino una sentenza, per criticare una riforma in discussione in Parlamento”, dichiara al Foglio la consigliera laica Isabella Bertolini. “Le frasi pronunciate dal dott. Toso, da voi riportate, sembrano voler mettere in discussione il solito tema dell’autonomia dei magistrati. Il pm di Torino sembra sostenere che ha potuto svolgere l’indagine perché oggi gode ancora di autonomia. Ma la proposta di riforma è molto chiara sul mantenimento delle garanzie per tutti i magistrati, inclusi i pm, che avranno un Csm tutto loro”, aggiunge Bertolini. Le affermazioni di Toso hanno scosso il Csm, ma non soltanto nella sua componente laica. Per Bernadette Nicotra, togata al Csm per il gruppo di Magistratura indipendente, le parole del pm di Torino “sollevano forti perplessità e preoccupazioni sul piano istituzionale: dichiarazioni di tal tenore, peraltro rese nel contesto di un procedimento penale, finiscono per alimentare, anche al di là delle intenzioni personali, la percezione di una magistratura orientata ideologicamente e non sufficientemente ancorata ai princìpi di imparzialità e terzietà che ne devono contraddistinguere l’azione”. Secondo la togata di Mi, “pur nel pieno rispetto del diritto costituzionalmente garantito alla libertà di espressione è essenziale che i magistrati, nell’esercizio delle loro funzioni, preservino un rigoroso equilibrio istituzionale. L’aula di giustizia non può né deve diventare un’arena per valutazioni o giudizi su progetti di riforma costituzionale ancora in discussione, pena il rischio di trasformare un luogo di giurisdizione in spazio di confronto politico, con tutte le implicazioni che ciò comporta in termini di credibilità e fiducia dei cittadini nel sistema giudiziario”. Intanto ieri pomeriggio l’Ansa, che per prima, mercoledì, aveva attribuito le affermazioni a Toso, ha pubblicato un’agenzia singolare (a 48 ore di distanza), né di formale rettifica della precedente agenzia, né di precisazione da parte di Toso, in cui si sostiene che quest’ultimo non avrebbe mosso alcuna critica alla riforma costituzionale. Una sorta di autosmentita (anche se l’agenzia era stata da noi verificata), che non fa altro che aumentare la curiosità su quanto avviene nelle aule di giustizia di Torino, e anche in certe redazioni. La fuga silenziosa dalle Corti d’Appello. Carichi insostenibili e “ansia” da Pnrr di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 15 giugno 2025 Se non ci sono domande per fare il presidente di sezione in Corte, la situazione per i posti di consiglieri è drammatica: gli ultimi bandi stanno andando quasi tutti deserti, anche in uffici di un certo prestigio. Sono il “buco nero” della giustizia italiana da dove chi può scappa quanto prima. Parliamo delle Corti d’appello, uffici giudiziari in passato molto ambiti ed in cui i magistrati arrivavano a fine carriera, dopo aver svolto almeno trent’anni di servizio in primo grado. Adesso, invece, sono posti da cui fuggire in tutti modi: cercando un incarico fuori ruolo al ministero della Giustizia o in qualche Commissione parlamentare, andando in pensione appena si hanno i requisiti, tornando alla originaria funzione in primo grado. La fuga dalla Corti è un tema di cui nessuno parla. Il dibattito sulla giustizia è, come noto, monopolizzato da mesi esclusivamente sulla separazione delle carriere fra pm e giudici. La stessa Associazione nazionale magistrati, fra uno sciopero ed un sit-in di protesta, non sembra essere particolarmente interessata a ciò che sta accadendo nelle Corti d’appello. Un timido segnale c’è stato questa settimana durante il plenum del Csm quando Maurizio Carbone, togato progressista, ha affermato che non ci sono più domande per fare il presidente di sezione nelle Corti. Ed ha citato un paio di uffici dove c’erano due domande per due posti, rendendo così obbligata la scelta finale del Csm non essendo possibile effettuare alcuna comparazione. Ma se non ci sono domande per fare il presidente di sezione in Corte, la situazione per i posti di consiglieri è drammatica. Gli ultimi bandi stanno andando quasi tutti deserti, anche in uffici di un certo prestigio. Come si è giunti a questa situazione? Al momento si possono azzardare delle ipotesi. Ad esempio, la clausola capestro che è stata sottoscritta con l’Europa per ricevere gli agognati fondi del Pnrr e quindi l’abbattimento dell’arretrato pari al 40 percento. Un numero, è ormai chiaro a chiunque frequenti le aule di giustizia, che è difficilissimo raggiungere entro la prossima estate. Il governo per correre ai ripari, utilizzando altri fondi del Pnrr, ha deciso allora di istituire una maxi task force di 500 magistrati per smaltire i processi, effettuando udienze solo da remoto. La classica mossa da “ultima spiaggia” che arriva a mettere in soffitta il giudice naturale, facendo decidere cause a magistrati che si trovano a mille chilometri di distanza. Per non mancare l’obiettivo, e dover restituire i soldi a Bruxelles, è partito un produttivismo sfrenato con nefasti effetti sulla qualità delle sentenze. Se un magistrato deve scrivere sentenze come se si trovasse in una catena di montaggio, quale può essere il loro livello? La pressione allo smaltimento per raggiungere gli obiettivi del Pnrr ha un altro effetto surreale: la spinta alla conformazione. Per evitare che la Cassazione possa riformare una sentenza, e dunque che la stessa torni indietro finendo per essere assegnata al collega, il magistrato in appello è sempre più “appiattito” all’indirizzo della Corte, in una sorta di cultura del precedente che può valere per gli ordinamenti di Common law ma non per quello italiano. Ciliegina sulla torta sono poi le convalide dei provvedimenti dei trattenimenti dei richiedenti asilo. Il governo nei mesi scorsi ha spostato questa competenza, in maniera del tutto irrituale, dalle Sezioni protezione internazionale dei tribunali alle Corti d’appello. Le Sezioni erano organizzate per gestire le convalide e gli erano stati raddoppiati gli organici. Gli organici delle Corti sono invece rimasti gli stessi pur a fronte di una funzione in più. La motivazione è stata che i magistrati delle Sezioni protezione internazionale, fortemente “ideologizzati”, avrebbero ostacolato il protocollo Albania. Il risultato è stato che Corti d’appello come quella di Roma, preso atto dell’impossibilità di gestire con i numeri attuali anche le convalide, hanno applicato in secondo grado giudici che erano in servizio presso la Sezione protezione internazionale del tribunale. Oltre a discutere di separazione delle carriere, sarebbe opportuno che si avviasse, nell’interesse di tutti i cittadini, una riflessione su come far funzionare le Corti d’appello. Cascina Spiotta, la sparatoria 50 anni fa: la casa dei misteri, il giornale clandestino e i terroristi fantasmi di Andrea Galli Corriere della Sera, 15 giugno 2025 Attesa in aula per gli uomini storici delle Brigate rosse. Il processo sulla sparatoria che costò la vita a Margherita Cagol e al maresciallo Giovanni D’Alfonso. Da Maraschi a Bonisoli, le domande dei magistrati. Le testimonianze dei residenti e i giovani del dancing ancora senza identità: l’agitazione dei “vecchi” della colonna genovese. Dei tre brigatisti di sicuro presenti nella cascina Spiotta il 5 giugno 1975, una fu uccisa nello scontro a fuoco con i carabinieri (la trentina Margherita “Mara” Cagol, moglie del capo delle Brigate Rosse Renato Curcio. Cagol, 30 anni, morì come morì il maresciallo Giovanni D’Alfonso, abruzzese, papà di tre bambini); un secondo terrorista, soltanto di recente, addirittura a cinquant’anni di distanza da quei fatti in località Arzello, una frazione del piccolo paese Melazzo, in provincia di Alessandria, bellissimi luoghi, di gran pace, valli e torrenti, ha ammesso d’esserci stato (Lauro Azzolini, 81 anni d’età); un terzo brigatista, il lodigiano Massimo Maraschi, 72 anni, avrebbe dovuto raggiungere la cascina, e quindi i compagni Cagol e Azzolini, dopo il sequestro, il giorno prima (il 4 giugno) dell’imprenditore del vino Vittorio Vallarino Gancia. Maraschi commise però un errore dietro l’altro, finì catturato, sempre dai carabinieri, e si dichiarò prigioniero politico, il che non evitò comunque al commando dei terroristi - terroristi ora alla sbarra in Corte d’Assise ad Alessandria - di completare il rapimento trasferendo Vallarino Gancia proprio alla Spiotta. Facoltà di non rispondere - Martedì 17 giugno 2025 nella nuova udienza del processo sui misteri che da allora permangono, a cominciare da chi assassinò D’Alfonso, è messo in calendario, a disposizione dei magistrati, l’arrivo sia di Maraschi sia di un altro vecchio brigatista, Franco Bonisoli, 70 anni, già membro della direzione strategica e del comitato esecutivo delle Brigate Rosse, originario della provincia di Reggio Emilia come Azzolini. In una precedente circostanza, interrogato dai carabinieri del Ros di Torino che hanno condotto le indagini coordinati dai pm Emilio Gatti e Ciro Santoriello, Maraschi si era avvalso della facoltà di non rispondere. Adesso egli parlerà, magari sulla spinta della scelta di Azzolini, che in aula, con una certa sorpresa degli astanti, ha reso dichiarazioni nient’affatto scontate? E nel caso, sempre Maraschi, che cosa potrebbe decidere di rivelare? Le fonti di prova - D’altra parte, se vogliamo ascoltare Guido Salvini, già storico giudice istruttore, specialista anche delle stagioni giudiziarie degli estremismi di destra come di sinistra, in fase di commento al termine dell’intervento di Azzolini, “ora ci sono molti dettagli sulla morte della Cagol, ma su quello che successe prima, ovvero su chi ha sparato a D’Alfonso, si sorvola”. Salvini, in questo processo, è difensore di parte civile (i figli del maresciallo, che quando venne assassinato aveva 35 anni) insieme agli avvocati Nicola Brigida e Sergio Favretto, il quale ha registrato un elemento quantomeno oggettivo: “Non dimentichiamo che le ammissioni di Azzolini arrivano dopo prove inconfutabili come le impronte digitali e le intercettazioni”. Qui il riferimento è all’impianto dell’accusa che ha miscelato accertamenti classici, tradizionali, al portentoso contributo della tecnologia maneggiata dagli esperti del Ris dei carabinieri, il Reparto investigazioni scientifiche. Dopodiché, adesso introduciamo Mario Moretti, 79 anni, uno dei componenti del nucleo storico delle Brigate Rosse, a capo dell’organizzazione del sequestro e dell’uccisione di Aldo Moro, in regime di semilibertà già dal lontano 1997. Il 1997, una vita fa. La reale lista dei presenti - Ebbene, come si legge nelle carte giudiziarie dell’inchiesta sulla cascina Spiotta, nel libro-intervista dal titolo “Brigate Rosse. Una storia italiana” Moretti rispondeva alle domande delle note giornaliste Carla Mosca e Rossana Rossanda: “Chiedevano le due giornaliste “Come muore Margherita? Come mai lei e un altro erano soli a custodire l’ostaggio, senza che qualcuno sorvegliasse gli accessi alla cascina?” e Moretti rispondeva sulle cause che portavano al fallimento del sequestro tra cui il “... pasticcio...” di un compagno del gruppo di appoggio, riferendosi quindi a Maraschi Massimo. Moretti testualmente citava nella sua risposta “... Margherita ci avvertì subito e valutammo la cosa assieme. Ma lei era certa che la polizia non potesse fare alcun collegamento fra le macchine e non sarebbe arrivata alla cascina Spiotta; si sentiva sicura”. Moretti, con le sue parole, confermava che nel casolare erano rimasti soltanto due custodi del sequestrato sebbene ne fossero previsti tre (Maraschi) e che Margherita Cagol si sentiva sicura e certa che i carabinieri non potevano associare la cascina Spiotta al rapimento di Vallarino Gancia”. Ma davvero oltre a Cagol, Azzolini e, nei piani, Maraschi nessun altro - nessuno - stava quel giorno come i giorni precedenti in quella maledetta cascina? Per la cronaca, la struttura è, diciamo, rinata, grazie all’acquisto da parte di una coppia di cittadini stranieri del Nord Europa, che hanno riqualificato l’immobile, e vi trascorrono molto tempo durante l’anno ospitando amici per piacevoli soggiorni. Ma proseguiamo. Bisogna chiarire, è stato detto, le modalità dell’omicidio del carabiniere D’Alfonso. Dall’altra parte, con richiesta ovviamente legittima, bisognerebbe al contempo accertare, prima o poi, anche come venne uccisa Margherita Cagol. In quel suo intervento in aula, al processo, Azzolini ha resocontato quanto segue. Ascoltiamolo di nuovo: “Mara e io avremmo dovuto controllare a turno l’unico viottolo d’accesso alla cascina ma d’improvviso sentimmo dei colpi forti alla porta e guardando dalla finestra ci accorgemmo della presenza di un carabiniere. A entrambi ci cadde il mondo addosso e ci prese il panico (…) Si decise di usare le due piccole SRCM (le bombe, ndr), quelle considerate di addestramento, lanciate senza mira alcuna avrebbero prodotto una esplosione tale da disorientare gli stessi CC (i carabinieri, ndr), e così avere lo spazio necessario per aprirci la fuga verso le nostre auto che erano appena fuori (…) Ma tutto precipitò (…) La carreggiata era sbarrata dall’auto dei CC, io e Mara ci urtammo finendo la corsa sotto il tiro di un altro carabiniere che era spuntato all’improvviso (…) Mara era già sul prato, notai che sanguinava da un braccio, le chiesi se era ferita (…) Mi misi a correre verso il bosco convinto che Mara mi avrebbe seguito. Raggiunto il bosco mi accorsi che lei non c’era. L’ultima immagine che ho di Mara, che non dimenticherò mai, è di lei ancora viva che si era arresa con entrambe le braccia alzate, disarmata, e urlava di non sparare… Ho continuato a correre senza guardarmi indietro fino a raggiungere una zona distante”. Sul giornale clandestino - Davide Steccanella è l’avvocato difensore di Azzolini. In una intervista esclusiva al quotidiano il Giornale, gli è stata posta questa osservazione: “Le impronte, secondo gli ultimi rilievi dei carabinieri del Ris, appartengono a Mario Lupo, uno degli alias adoperati proprio da Lauro Azzolini in quel periodo”. Replica di Steccanella: “Si tratta di un documento che, come ha già affermato lo stesso Curcio, ha girato per tutte le colonne delle Brigate Rosse, interessate a comprendere le circostanze in cui è stata uccisa la cofondatrice dell’organizzazione armata, Margherita Cagol. Non è un documento privato dato dal brigatista fuggitivo al marito Curcio per vedovanza, è un documento che tutte le Brigate Rosse hanno letto e pure pubblicato su un giornale clandestino. Quindi su quel foglio che come dice lo stesso Curcio ha girato le varie brigate possano comparire impronte di ex brigatisti mi sembra più normale”. E ancora, all’interrogativo “La sentenza a carico di Azzolini è andata perduta nell’alluvione di Alessandria. Quindi, come afferma anche lei, la gip l’ha revocata senza leggerla?”, il legale ha così commentato: “Si tratta di una situazione surreale, che in tanti anni di carriera non mi era mai capitata. Si è revocata una sentenza di merito, pronunciata in nome del popolo italiano, senza neanche averla letta. Sono allibito. Io ho fatto ricorso in Cassazione, che dovrà dire se nel nostro Paese è possibile a distanza di quasi 50 anni cancellare la sentenza di proscioglimento di un cittadino senza neppure averla letta. Peraltro non sembrerebbe essere perduta solo la sentenza, ma l’intero fascicolo dell’istruttoria ai tempi fatta dal giudice istruttore quindi anche con le eventuali prove favorevoli all’imputato che era stato assolto. Non si capisce quindi se si vorrebbe fare oggi secondo processo che l’imputato dovrebbe affrontare solo con la nuova prova d’accusa, perché quelle a sé favorevoli si sono perse insieme alla sentenza. Mi sembra una situazione paradossale, io non posso che fare il mio mestiere, cioè chiedere alla Suprema Corte di valutare se questo è possibile, non solo dal punto di vista giuridico ma anche del buon senso”. La colonna genovese - Un (ulteriore) esercizio doveroso è quello di risentire le testimonianze dei residenti con dimora intorno alla Spiotta. Una settantenne all’epoca era addetta a manovrare il passaggio a livello del treno in una zona a meno di un chilometro dalla cascina. Risentita dai carabinieri del Ros, questa donna ha raccontato di quattro giovani tra i 25 e i 28 anni incontrati in un dancing a Vallerana, una frazione di Alice Bel Colle, sempre in provincia di Alessandria, a venti minuti di macchina da Arzello. Lei era in compagnia di una cugina e del suo fidanzato; con quei quattro sconosciuti “non ci siamo formalmente presentati ma per circa un’ora abbiamo scambiato quattro chiacchiere. Ci dissero soltanto che erano di Genova”. Questo avveniva “di domenica nel mese di aprile”. Il mese di aprile prima del maggio e del giugno 1975, quello della sparatoria. Si congedarono, la donna tornò ad Arzello e “all’altezza della stradina che porta alla cascina Spiotta giunse un’autovettura (…) A bordo c’erano i quattro ragazzi (…) Non ci degnarono di un saluto e io commentai con mia cugina la loro maleducazione”. Non erano affatto cattive maniere: non volevano rimanere impressi a gente del posto. Attentati e omicidi: la colonna genovese delle Brigate Rosse è stata centrale nella campagna di attacco allo Stato democratico. Fra gli uomini che vi hanno militato, figure famose del mondo accademico ligure, grandi pensatori, grandi teste. E anche personaggi abili a galleggiare, a immergersi, a riemergere, a star lì, a osservare, ascoltare. Personaggi all’apparenza privi di ruoli di comando - Arrivati fin qui, andando in conclusione, veicoliamo una percezione, assunta attraverso certi interventi sui social network, certe telefonate che ci hanno riportato, una specie di tentativo di far controinformazione: fra quelli delle Brigate Rosse - galassia assai ampia, caratterizzata ancora, a detta degli esperti dell’argomento, da più d’un cono d’ombra - nulla come le ipotesi su altri brigatisti presenti alla cascina Spiotta e, nel caso, legati alla colonna genovese, genera turbamento. Addirittura preoccupazione. Perché? Non si sa. Per ora. I patriarchi delle BR ci regaleranno mai qualche informazione inedita? Che cosa temono? E che cosa teme qualcuno in Liguria al cui riguardo delle voci - voci, sì, soltanto voci, quindi dal peso relativo, certo, ci mancherebbe il contrario - ci dicono vivere nella totale agitazione da quand’è iniziato il processo? Sta come un pazzo, aggiungono. Piemonte. “Carceri allo stremo: sovraffollamento e degrado”, l’allarme dell’associazione Coscioni torinoggi.it, 15 giugno 2025 Le relazioni delle Asl rivelano condizioni sanitarie e strutturali gravissime in quasi tutti gli istituti. Nelle carceri piemontesi regna il sovraffollamento, con strutture spesso in condizioni igienico-sanitarie e architettoniche al limite dell’inabitabilità. È quanto emerge dalle relazioni delle Aziende Sanitarie Locali, pubblicate dall’Associazione Luca Coscioni nell’ambito di un’indagine condotta a livello nazionale. I dati aggiornati al 31 luglio 2024 rivelano un tasso di sovraffollamento del 109% nella regione, con 4.186 uomini e 160 donne detenuti. La situazione, definita “drammatica” dalla stessa associazione, si riflette in un sistema penitenziario sempre più distante dal rispetto della dignità umana e del diritto alla salute. L’inchiesta, frutto di un accesso civico avviato nel dicembre 2023, svela carenze strutturali e igieniche che interessano quasi tutti gli istituti regionali. Le criticità istituto per istituto - Torino presenta forse il quadro più preoccupante, con locali inagibili, infiltrazioni, muffe e la totale assenza di accessi per disabili. Una sezione è stata ritenuta potenzialmente inabitabile per motivi igienico-sanitari. Non va meglio ad Alessandria, dove la presenza di scarafaggi e il consumo dei pasti in cella senza aerazione forzata sollevano gravi preoccupazioni. A Cuneo, Saluzzo e Fossano, le Asl parlano di degrado generalizzato, pareti scrostate, carenze igieniche e usura degli impianti. Ad Alba, una parte della struttura è chiusa da anni a seguito di un focolaio di legionellosi, mentre ad Asti persistono muffe e guasti ai servizi igienici. Anche nelle situazioni migliori, come a Novara o Verbania, il sovraffollamento è una costante: a Novara 171 detenuti su 158 posti regolamentari. A Vercelli si contano 303 detenuti su 227 posti effettivi, e si registrano gravi criticità a cucine e servizi igienici. L’impegno dell’associazione e le richieste - L’associazione Luca Coscioni annuncia che proseguirà nelle azioni legali contro la negligenza dell’amministrazione penitenziaria e il mancato rispetto delle raccomandazioni sanitarie da parte del Ministero della Giustizia. Rimarca inoltre l’importanza di Freedom Leaks, la piattaforma anonima lanciata nel 2024 per denunciare violazioni del diritto alla salute nelle carceri italiane. “In molti casi si rischia l’inabitabilità”, si legge nella nota ufficiale, sottolineando come il problema sia aggravato dalla mancanza di interventi anche di ordinaria amministrazione. Abruzzo. Regione e Centro giustizia minorile insieme per la tutela psico-fisica dei minori assistiti ilpescara.it, 15 giugno 2025 Approvato lo schema, ora manca solo la sottoscrizione. Lo scopo è offrire un’assistenza a 360 gradi per i ragazzi assistiti dai Servizi minorili della giustizia in Abruzzo: sia di quelli privati o limitati della libertà personale, sia di quelli sottoposti a procedimento penale. Garantire la tutela psico-fisica dei minori e dei giovani adulti assistiti dai Servizi minorili della giustizia in Abruzzo, sia di quelli privati o limitati della libertà personale, sia di quelli sottoposti a procedimento penale. Questo lo scopo dell’accordo tra la Regione Abruzzo e il Centro per la giustizia minorile per Lazio, Abruzzo e Molise, il cui schema è stato approvato dalla giunta regionale su proposta dell’assessore alla Salute Nicoletta Verì. Il documento sarà ora sottoscritto dalla dirigente del competente servizio del dipartimento Sanità e dal dirigente del Centro per la giustizia minorile. Nell’atto viene definito un preciso modello organizzativo, nel quale sono coinvolte le Asl, i servizi sociali territoriali e quelli della giustizia minorile, che interagiscono ognuno per quanto di competenza, spiega l’assessorato, in azioni volte ad assicurare gli interventi di salute nei confronti dei minori e quelli di supporto alle famiglie di origine. Destinatari dell’intervento sono i minori presi in carico dal Centro di prima accoglienza (Cpa) e dall’Istituto penale per i minorenni (Ipm) dell’Aquila, dalle Comunità socio-educative e da quelle terapeutiche sul territorio. I pilastri principali su cui si muove l’intesa sono due: la costituzione di equipe multidisciplinari, composte da professionisti socio-sanitari, come medici, psicologi, infermieri; la presa in carico interistituzionale, in cui le Asl e i servizi della giustizia minorile si occupano (entro 24 ore) di garantire la visita medica per la valutazione dei minori che fanno ingresso nelle strutture e provvedere ai loro bisogni di salute (attraverso la propria organizzazione territoriale e ospedaliera), compresa l’assistenza farmaceutica. “Con questo accordo - spiega Verì - andiamo non solo a recepire quelle che sono le linee guida nazionali su questa tematica, ma provvediamo anche a riordinare le competenze dei diversi attori coinvolti nei processi, identificando e codificando ruoli e competenze. E’ nostro preciso dovere assicurare assistenza e supporto ai minori destinatari di misure restrittive della libertà o sottoposti a procedimento penale, mettendo a loro disposizione i servizi del sistema sanitario regionale e quelli delle politiche sociali”. L’intesa avrà durata quinquennale e il monitoraggio sulla sua applicazione è affidato all’Osservatorio permanente sulla sanità penitenziaria (ora integrato anche con i rappresentanti del dipartimento Lavoro e sociale della regione) organismo regionale costituito nel 2008, che tra le sue competenze annovera anche quelle sulla giustizia minorile. Per la garante dei detenuti, Monia Scalera, “il protocollo d’intesa rappresenta un passo avanti importante nella tutela concreta dei diritti dei minori sottoposti a misure restrittive. Garantire loro un accesso tempestivo e adeguato ai servizi sanitari e psicosociali non è solo un obbligo normativo, ma un imperativo etico. Solo attraverso un approccio realmente integrato e multidisciplinare - conclude - possiamo favorire percorsi di recupero e reinserimento efficaci, nel pieno rispetto della loro dignità”. Parma. Detenuto 34enne muore dopo una caduta in carcere: si attende l’autopsia sul corpo di Christian Donelli parmatoday.it, 15 giugno 2025 È stato aperto un fascicolo d’indagine presso la Procura della Repubblica. Verrà effettuata nei prossimi giorni l’autopsia sul corpo di C.A., il 34enne originario del Burkina Faso - in un primo momento era emerso che si trattasse di un cittadino bengalese - morto all’Ospedale Maggiore di Parma nella giornata di giovedì 12 giugno dopo il ricovero, in seguito ad una caduta avvenuta all’interno di una cella del carcere di via Burla di Parma. L’uomo, che secondo le prime informazioni, aveva problemi di tossicodipendenza avrebbe avuto un malore, in seguito al quale sarebbe caduto a terra mentre si trovava all’interno della sua cella. Nel frattempo, come da prassi, è stato aperto un fascicolo d’indagine sulla morte presso la Procura della Repubblica di Parma. L’esame autoptico dovrà stabilire con certezza la causa della morte. L’episodio, avvenuto all’interno del penitenziario, sarebbe stato provocato da un malore, in particolare da un’emorragia celebrale. Campobasso. Suicidio nel carcere, Di Giacomo (Spp): “È emergenza nel sistema penitenziario” quotidianomolise.com, 15 giugno 2025 Dopo la morte di un detenuto con problemi psichiatrici, Di Giacomo chiede interventi urgenti: “Servono più psicologi, meno sovraffollamento e sicurezza per tutti”. Dopo il suicidio del detenuto italiano di circa 60 anni, con problemi psichiatrici che si è tolto la vita il 12 giugno nel carcere di Campobasso, Aldo Di Giacomo, segretario generale del Sindacato di Polizia Penitenziaria, ha tenuto una conferenza stampa questa mattina, sabato 14 giugno, davanti al penitenziario molisano, per lanciare un grido d’allarme: “È un dramma quotidiano - ha dichiarato Di Giacomo - che ormai caratterizza la vita carceraria in Italia. Anche in Molise, considerata finora una regione relativamente tranquilla, emergono segnali preoccupanti: risse tra bande, traffici illeciti, carenze di organico e adesso anche i suicidi”. Durante la conferenza, Di Giacomo ha evidenziato come il carcere sia diventato “un ambiente invivibile”, non solo per i detenuti, ma anche per il personale. Ha denunciato l’aumento esponenziale delle aggressioni agli agenti penitenziari, la difficoltà nel reclutare medici e psicologi, e il numero crescente di poliziotti che abbandonano il servizio o cambiano lavoro. “L’ultimo caso di suicidio a Campobasso non si verificava dagli anni ‘80. Non possiamo ignorare i segnali. Quel detenuto era fragile, segnato da lutti e dall’isolamento. Un supporto psicologico adeguato forse non avrebbe cambiato il finale, ma poteva fare la differenza,” ha detto il segretario. Di Giacomo ha ribadito la necessità di interventi urgenti e strutturali: più personale, soprattutto psicologi e assistenti sociali, ma anche misure legislative per alleggerire la pressione del sistema. Tra le proposte avanzate: provvedimenti deflattivi, a partire dai detenuti per reati minori; differenziazione dei circuiti detentivi, per separare detenuti comuni da esponenti della criminalità organizzata; maggiore attenzione alla sicurezza, anche esterna, visto che molte organizzazioni riescono a gestire traffici e minacciare testimoni anche dal carcere. “Il carcere non è solo un problema interno: è una questione di sicurezza nazionale”, ha concluso Di Giacomo, ricordando l’episodio recente di un commerciante minacciato da un detenuto e poi vittima di un incendio doloso. Il sindacato chiede al Ministero della Giustizia un cambio di passo immediato. “Non si può continuare a gestire il sistema penitenziario in emergenza permanente. Senza risorse, il rischio è che le carceri diventino focolai di violenza e insicurezza, dentro e fuori dalle mura”. Udine. Visita al carcere per riportare l’attenzione sulla salute e la dignità delle persone detenute friulisera.it, 15 giugno 2025 Venerdì pomeriggio una delegazione composta da rappresentanti dell’Associazione Luca Coscioni, dei Radicali di Udine e dell’associazione Oikos Ets ha fatto accesso alla Casa Circondariale di Udine per una visita di osservazione e ascolto, con l’obiettivo di verificare le condizioni di vita delle persone detenute e avviare un confronto costruttivo con l’amministrazione penitenziaria. Dalla delegazione è stato apprezzato lo stato di avanzamento lavori di ristrutturazione di vari spazi, di cui il precedente garante, on. Corleone, si era fatto attivatore con l’amministrazione penitenziaria, in un lavoro importante i cui frutti sulle condizioni di lavoro e di vita si stanno palesando per chi ne può già beneficiare. La visita si colloca infatti nel solco del dialogo con l’amministrazione penitenziaria, già avviato da tempo dalle associazioni impegnate a sostegno delle persone ristrette, insieme al Garante dei detenuti di Udine, che lo scorso 30 maggio, nella sua relazione annuale, ha evidenziato diverse criticità. Il carcere di Udine, a fronte di una capienza regolamentare di 95 posti, ospita attualmente 176 detenuti, con evidenti conseguenze sul piano della vivibilità e della gestione quotidiana. Al centro della visita, le condizioni sanitarie, considerate particolarmente critiche: si segnalano difficoltà di accesso alle cure, ritardi diagnostici, carenze strutturali e di personale, nonché l’impossibilità di garantire la continuità terapeutica. Una situazione che, in alcuni casi, compromette seriamente la salute fisica e mentale dei detenuti. Rimane altresì urgente affrontare con maggiore efficacia la gestione dei casi di dipendenza e l’accesso a terapie sostitutive, spesso rese difficili dalla mancanza di risorse e strutture adeguate. Le condizioni igieniche in alcune sezioni, come la cosiddetta “prima comune”, appaiono particolarmente problematiche, soprattutto per i detenuti privi di riferimenti familiari. Preoccupano inoltre le condizioni in cui versano coloro che, per problematiche relazionali o comportamentali, vengono collocati nella sezione “ex art. 32”. Colpisce infine la composizione della popolazione detenuta, con una netta prevalenza di persone di origine straniera - circa il 60% - in controtendenza rispetto alla media nazionale. A questo quadro si aggiunge la quasi totale assenza di attività lavorative interne, che aggrava ulteriormente la marginalità delle persone recluse. Dichiara Raffaella Barbieri dell’Associazione Luca Coscioni: “La nostra associazione da anni si batte per dare voce ai detenuti e alle detenute affinché lo Stato garantisca loro i diritti fondamentali. Le realtà documentate dalle relazioni del Collegio dei Garanti nazionali, regionali e locali per i diritti delle persone prive di libertà parla di un sistema carcere il cui sovraffollamento ha portato l’Italia a essere condannata dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo per trattamenti inumani e degradanti in violazione dell’art.3 della CEDU. Anche per questo abbiamo diffidato 102 ASL italiane ad adempiere al proprio ruolo di erogazione dei servizi igienico-sanitari all’interno delle strutture carcerarie. Ad agosto 2024 abbiamo diffidato l’Azienda sanitaria universitaria Friuli Centrale (ASUFC), in merito al servizio svolto nel carcere di Udine. A dicembre abbiamo presentato richiesta di accesso agli atti, ma a distanza di quasi un anno non abbiamo ancora ricevuto risposta.” A cui si unisce il rappresentante dei Radicali, Italiani, Nicholas Garufi: ““Il nostro paese registra tra i peggiori dati in Europa per quanto riguarda il sovraffollamento carcerario e condizioni di vita detentiva, il 2024 ha presentato il più alto numero di suicidi in carcere della storia della Repubblica, non solo tra i detenuti, ma anche tra gli agenti della polizia penitenziaria. Radicali italiani non starà in silenzio e continuerà a denunciare le condizioni inaccettabili dei nostri istituti penitenziari e pretendere che vengano rispettati i principi costituzionali e che si garantisca il rispetto della dignità umana in carcere.” Sottolinea per Oikos Ets, il presidente Giovanni Tonutti: “Se da un lato si può constatare un miglioramento della struttura di accoglienza, dovuta soprattutto ai lavori di ristrutturazione in fase di conclusione, è molto preoccupante l’aspetto qualitativo della vita all’interno del carcere. Ad oggi sono presenti 176 persone a fronte di una capienza di 95, gli agenti di polizia penitenziaria sono un terzo di quanto previsto per il numero di detenuti presenti. Questo comporta elevati straordinari del personale disponibile che continua a calare di numero a causa di pensionamenti che non vengono rimpiazzati. La sezione 1 al primo piano è decisamente avvilente, celle sovraffollate e totale carenza di spazi comuni. Si riscontrano poi gravi carenze in merito all’assistenza sanitaria e alle cure e difatti preoccupa la mancanza di un presidio sanitario interno. Sembra inoltre totalmente carente la possibilità di poter realizzare diagnosi di disagi psichiatrici.” Conclude Tonutti: “Se la Legge in Italia prevede che il carcere debba avere una funzione rieducativa, a Udine siamo ancora fermi al puro contenimento. Senza dubbio le speranze di miglioramento ci sono e sono legate a diversi progetti in avvio, sia di formazione sia di ascolto, oltre che di ricerca di inserimento lavorativo per chi si avvicina al fine pena o si trova in condizione di semilibertà. La costruzione, quasi terminata di un campo da calcio interno e di una sala teatro lasciano sperare che anche a Udine fra qualche tempo si possa cominciare a vivere di speranza per una detenzione più dignitosa”. La visita è nata, infatti, dalla volontà condivisa delle tre realtà promotrici di mantenere alta l’attenzione pubblica sulla condizione carceraria, nella convinzione che dignità, salute e inclusione debbano essere garantite a tutti, anche a chi vive in condizioni di restrizione della libertà personale. Avellino. Il Garante campano dei detenuti ha visitato l’Icam di Lauro Ristretti Orizzonti, 15 giugno 2025 Ciambriello: “Tre bambine e un nascituro in carcere senza colpe”. L’Icam di Lauro è stato chiuso il 24 febbraio 2025 e tre detenute sono state trasferite, una all’Icam di Milano, due all’Icam di Venezia. A fine maggio, poi, è stato riaperto. In un’interrogazione del senatore Ivan Scalfarotto, il Ministro Nordio rispondeva che il Ministero della Giustizia non aveva emesso alcun decreto di chiusura o diversa destinazione dell’Icam di Lauro, ribadendo quanto già comunicato al garante Ciambriello il 20 marzo in una audizione al ministero della giustizia. Due giorni fa, il Sottosegretario alla Giustizia Ostellari, rispondendo ad un’interrogazione della Senatrice Valeria Valente, ribadiva che non c’era mai stato alcun decreto di chiusura di Lauro. Al termine della visita a Lauro, il Garante campano, Samuele Ciambriello, dichiara: “ Resta quindi ancora un mistero doloroso capire chi, perché e quanti abbiano deciso di chiudere l’Icam di Lauro a fine febbraio l’unico Istituto che copriva il centro-sud. Oggi all’Icam c’erano 4 donne, di cui una incinta all’ ottavo mese, dovrà partorire a metà luglio, e un’altra detenuta con il figlio arriverà in questi giorni. Insieme alle loro madri c’erano 3 bambine, una di 13 mesi, una di 18 e la più grande di 3 anni: bambine e nascituro senza colpe. Nella fredda realtà dei muri di cemento e filo spinato, esiste un angolo dimenticato dalla società: le madri detenute insieme ai loro figli. È un mondo di contrasti acuti, dove l’amore materno sfida le barriere dell’incarcerazione. Nel nostro mondo caotico, dove la giustizia deve bilanciare pene e redenzione, non dobbiamo dimenticare che dietro ad ogni sentenza ci sono vite che si intrecciano in un destino comune. Ogni volta che ci confrontiamo con il tema delle madri detenute con i loro figli, ci rendiamo conto che non si tratta semplicemente di una storia da raccontare. È un appello vibrante alla nostra compassione, una richiesta di vedere al di là delle apparenze e di riconoscere il valore incommensurabile di ogni legame materno”. Rimini. “Troppi detenuti: in carcere situazione al limite” di Lorenzo Muccioli Il Resto del Carlino, 15 giugno 2025 In occasione dell’Open Day, cominciato ieri e in programma anche oggi al Palas di Rimini, l’Osservatorio delle camere penali italiane. In occasione dell’Open Day, cominciato ieri e in programma anche oggi al Palas di Rimini, l’Osservatorio delle camere penali italiane ha organizzato una visita al carcere ‘Casetti’. I partecipanti, accolti dalla comandante Aurelia Panzeca e dalla responsabile dell’area educativa Laura Ungaro, hanno visitato le diverse sezioni dell’istituto penitenziario Casetti. Tra i presenti vi erano alcuni membri dell’Osservatorio carcere, tra cui gli avvocati Gianpaolo Catanzariti, responsabile dell’Osservatorio, Maria Brucale, Massimiliano Chiuchiolo, Lorenzo Parachini e Ninfa Renzini, nonché i membri della Camera penale locale, tra cui gli avvocati Enrico Amati, presidente della Camera penale di Rimini, Annalisa Calvano e Sonia Raimondi, responsabili della commissione carcere. L’obiettivo della visita è “stato verificare le condizioni dell’istituto penitenziario di Rimini. Le condizioni dell’istituto riminese riflettono lo stato di criticità di molte carceri italiane, a partire dal problema del sovraffollamento, che nel carcere di Rimini raggiunge il 144% con la presenza di 170 detenuti su 118 posti disponibili e che si prevede, come ogni anno, nel periodo estivo i numeri di presenze siano destinati ad aumentare raggiungendo livelli intollerabili”. “Si conferma - aggiungono i penalisti - la grave carenza di personale e la criticità di alcuni ambienti. In particolare, la prima sezione si presenta in condizioni di forte vetustà; si riscontrano tracce di umidità su pareti e soffitti dei locali destinati alle docce”. Bologna. Una Rete di aiuto per il Pratello: via al bando per i volontari di Federica Nannetti Corriere di Bologna, 15 giugno 2025 Nasce il coordinamento per portare attività e laboratori nel carcere minorile. Un precedente esiste già, dal 2023, per il carcere della Dozza: da allora diverse associazioni si sono messe in rete per condividere, insieme alle istituzioni penitenziaria e del Comune, progetti, attività e percorsi per le persone detenute, anche di reinserimento sociale e lavorativo. Ora lo stesso succederà per l’istituto minorile del Pratello: nelle settimane scorse il consiglio di quartiere Porto-Saragozza ha infatti approvato un ordine del giorno per la creazione di un coordinamento del mondo dell’associazionismo e del volontariato per attività all’interno della struttura; una proposta maturata in seguito a diverse sollecitazioni da parte delle realtà che già vi lavorano e di alcuni consiglieri comunali. “Il reportage drammatico di Antigone, i disordini dei mesi scorsi, l’apertura di una sezione per giovani adulti alla Dozza non possono lasciare indifferenti e hanno dato l’idea di cosa significhi vivere un carcere minorile”, ha sottolineato Cristian Tracà, consigli ere di quartiere che, insieme alla collega Ilaria Gamberini, più si è speso “per dare una risposta alle tante persone che hanno chiesto di fare qualcosa di più in modo coordinato e più attività per i minori”. Il coordinamento, dunque, nascerà formalmente nelle prossime settimane con l’approvazione, da parte del quartiere, di un avviso pubblico per l’avvio della programmazione e successivamente di un tavolo di lavoro; e nascerà perché è stata ed è la società civile a chiederlo. Oltre a chi ha spinto perché il coordinamento muovesse i primi passi, “in tantissimi altri ci hanno già contattato - ha aggiunto il consigliere - alcuni perché membri di associazioni già attive all’interno del carcere, altri perché pronti a farvi parte. Si è notata una sensibilità e una solerzia molto positiva e tanti, già nelle settimane passate, hanno portato abiti e vestiti da donare”. Sul tema, venerdì, è intervenuta anche l’assessora al Welfare, Matilde Madrid, che ha ribadito l’importanza di un impegno condiviso: “La recente iniziativa del quartiere Porto-Saragozza sulla nascita di un tavolo di coordinamento carcere potrà portare un’attenzione e un lavoro di raccordo tra le realtà di volontariato; realtà che necessitano non solo di coordinamento rispetto ai bisogni propri del carcere minorile ma anche di un supporto economico e da parte dell’amministrazione pubblica”. Con la presenza di “figure specializzate” e sulla base delle necessità concordate con la direzione del Pratello si potranno dunque organizzare varie attività o laboratori, specie nei mesi estivi, tra i più delicati, così come ricordato sempre dall’assessora Madrid: “Abbiamo una grandissima preoccupazione per il mese di agosto e per i fine settimana perché sono fasi più difficili da coprire con attività per i ragazzi”. Incontrare un educatore, un cappellano, qualcuno che metta a disposizione il proprio tempo “è ciò che può fare la differenza”, hanno concluso i promotori del coordinamento. Genova. Giunta Salis: “Riapriamo la consulta carcere-città per reinserire i detenuti” La Repubblica, 15 giugno 2025 L’annuncio delle assessore al Welfare, Cristina Lodi, e alla Sicurezza, Arianna Viscogliosi. “Nelle prossime settimane avvieremo il percorso per andare a rifondare la consulta carcere-città: a questo fine chiederemo il coinvolgimento, come in passato, di tutti i soggetti, istituzionali e non, interessati da questo tema”: l’assessora al Welfare del Comune di Genova, Cristina Lodi, annuncia l’organizzazione di una task force per affrontare, cambiando completamente approccio, l’emergenza carceri a Pontedecimo e a Marassi. E lo fa insieme alla sua collega, con delega alla Sicurezza, Arianna Viscogliosi. “Come amministrazione comunale siamo pronti subito ad assumerci la responsabilità di una regia forte e condivisa per ricompattare una rete esistente che chiede sostegno e maggiore iniziativa politica, venuta a mancare in questi ultimi anni - dice Lodi - fino ad arrivare ad un nuovo patto condiviso tra carcere e città. Ovviamente ci sarà un grande coinvolgimento delle figure dei Garanti comunale e regionale in materia che, in passato, non esistevano”. “Il Comune di Genova si impegna a sviluppare progetti concreti di reinserimento lavorativo per le persone detenute, perché crediamo nel valore della pena come percorso di riscatto - dice l’assessora Arianna Viscogliosi - al contempo chiediamo con forza al governo di occuparsi seriamente del sistema carcerario, affrontando il sovraffollamento e garantendo condizioni di sicurezza e dignità anche all’interno degli istituti penitenziari. Le pene alternative vanno sostenute da un sistema solido, giusto e realmente funzionante: come Comune faremo di tutto perché si vada in questa direzione”. Verona. Speranza oltre le sbarre: l’Università entra nel carcere di Montorio di Alberto Speciale montorioveronese.it, 15 giugno 2025 Tra le mura della detenzione, dove ogni giorno è una sfida, l’istruzione emerge come la via più luminosa. Nella Casa Circondariale di Verona-Montorio, per la prima volta, l’orientamento universitario apre orizzonti inattesi ai detenuti: una scommessa sulla dignità e il reinserimento sociale che apre una finestra di speranza per 40 detenuti. La vita in carcere è, per sua stessa natura, una privazione: di libertà, di orizzonti, spesso anche di speranza. Ogni giorno trascorso dietro le sbarre è una lotta contro la rassegnazione, un test di resilienza in un ambiente che raramente offre prospettive concrete per il “dopo”. Ma lunedì 9 giugno, tra le mura della Casa Circondariale di Verona-Montorio, si è accesa una luce diversa, una promessa di futuro che ha il sapore della possibilità e della rigenerazione. Per la prima volta, infatti, l’Università di Verona ha varcato la soglia del penitenziario per un evento di orientamento universitario rivolto ai detenuti. Un segnale forte e chiaro: progettare un futuro diverso, anche dalla condizione di detenzione, non è solo un sogno, ma può diventare una concreta realtà. Oltre la condanna: la fame di sapere e di futuro. Circa 35-40 detenuti, tutti già diplomati o prossimi al diploma, hanno colto al volo questa straordinaria opportunità. Dalle 15 alle 17, hanno potuto esplorare l’offerta formativa dell’Ateneo veronese e scoprire i servizi dedicati al diritto allo studio. Non si trattava di un’astratta lezione accademica, ma di un incontro concreto, un “ponte tra il carcere, la scuola e l’università, tra il presente e un possibile nuovo inizio”. Per chi vive la privazione della libertà, accedere a strumenti come il prestito bibliotecario, il tutorato in carcere e il counselling per l’orientamento, significa riappropriarsi di una dimensione di crescita personale spesso negata. L’iniziativa rientra nel progetto “Università in carcere”, promosso nell’ambito dell’Accordo-Quadro di collaborazione con la Casa Circondariale di Verona-Montorio, in sinergia con il Cpia (Centro Provinciale per l’Istruzione degli Adulti di Verona) e con il prezioso supporto dell’Ufficio Orientamento dell’Ateneo. Il diritto allo studio, anche dietro le sbarre. Il magnifico rettore Pier Francesco Nocini ha sottolineato l’impegno concreto dell’Università: “Con questa iniziativa manteniamo l’impegno preso nei mesi scorsi con la firma dell’accordo con la casa circondariale di Montorio: l’università di Verona, insieme ai suoi servizi, entra concretamente all’interno del carcere. Il nostro obiettivo è promuovere il benessere e favorire il reinserimento sociale delle detenute e dei detenuti, attraverso l’accesso all’istruzione e alla formazione”. Un concetto ribadito da Ivan Salvadori, docente di Diritto penale e referente del rettore per i Poli universitari penitenziari: “Si tratta di un passo importante per rendere effettivo e concreto il diritto allo studio anche in contesti di privazione della libertà personale”. La presenza di Massimiliano Badino, referente del rettore per l’Orientamento, ha ulteriormente rafforzato il messaggio di vicinanza e supporto. Investire nell’educazione: un atto di civiltà e sicurezza sociale. L’impegno dell’ateneo scaligero non si ferma qui. Dal 12 al 14 giugno, Verona sarà protagonista alla Conferenza nazionale dei delegati dei rettori per i Poli universitari penitenziari, a Catania. L’ingresso recente nella rete nazionale Cnupp-Crui conferma una visione chiara: l’istruzione in carcere non è un’opzione secondaria, ma un pilastro per il reinserimento. Investire sull’educazione in carcere non è solo un atto di civiltà, che riconosce la dignità intrinseca di ogni persona, ma è una scelta lungimirante per la società intera. Offrire strumenti di conoscenza e qualificazione significa ridurre il rischio di recidiva, favorire l’integrazione e costruire una comunità più sicura e inclusiva. Per i detenuti, è la possibilità di guardare al di là delle sbarre, non con la disperazione di un ritorno al passato, ma con la forza della conoscenza e la speranza di un nuovo inizio. Dietro ogni sbarra c’è una storia, dietro ogni numero di matricola c’è una persona che merita una seconda possibilità. E se l’università può entrare in carcere, forse un giorno il carcere potrà davvero diventare quello che dovrebbe essere: non un luogo di morte civile e di lenta costruzione della recidiva da esportare una volta usciti ma un laboratorio di rinascita umana. Il futuro si costruisce un libro alla volta, una lezione alla volta, una speranza alla volta. Anche (soprattutto) dietro le sbarre. Bergamo. “Gli anni della pena devono essere usati, non sprecati” di Elena Esposto primabergamo.it, 15 giugno 2025 L’incontro “Liberi di ricominciare: carcere e lavoro”, organizzato il 9 giugno nella Sala Galmozzi da Azione Bergamo, ha fatto il punto sulle tante cose che non vanno. “Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri”. Una citazione dalla paternità incerta - attribuita di volta in volta a Dostoevskij, Voltaire, Brecht o persino a un ex detenuto canadese degli Anni Sessanta - ma ancora incredibilmente attuale. L’ha ricordata Valentina Lanfranchi, garante per i diritti delle persone private della libertà del Comune di Bergamo, durante la conferenza “Liberi di ricominciare: carcere e lavoro”, tenutasi lunedì 9 giugno nella Sala Galmozzi in via Tasso, su iniziativa di Bergamo in Azione. Moderato da Simonetta Fiaccadori, l’incontro ha visto la partecipazione di Fabrizio Benzoni, deputato di Azione e segretario regionale del partito in Lombardia, Luigi Gelmi, vicepresidente dell’associazione Carcere e territorio, Giulia De Duro, della Caritas diocesana, Federico Merelli, referente della Commissione carcere della Camera penale, e Carlo Foglieni, presidente nazionale dell’Associazione italiana giovani avvocati. Un sistema al collasso - Tema centrale, la drammatica situazione del sistema carcerario. “Il sovraffollamento è solo la punta dell’iceberg - ha detto Benzoni. I detenuti vivono in condizioni incompatibili con la dignità umana, e il numero di suicidi lo dimostra. La maggior parte dei casi avviene tra i quindici e i trenta giorni dall’ingresso in carcere e coinvolge spesso giovani. Ogni volta che una persona perde la vita mentre è affidata alla responsabilità dello Stato è una sconfitta per tutta la società”. Anche il carcere di via Gleno non fa eccezione. Secondo i dati forniti dal Ministero della Giustizia (aggiornati al 10 giugno), vi sono detenute 597 persone a fronte di 319 posti disponibili. Carenza anche nel personale: mancano 32 agenti di polizia penitenziaria (189 in servizio su 221 previsti) e due educatori su sei. Un dato allarmante, considerando che circa il quaranta per cento della popolazione detenuta soffre di disturbi psichici o dipendenze. A queste difficoltà si sommano quelle strutturali. “Ho visto celle allagate e spazi talmente ridotti da costringere un detenuto a rimanere sdraiato per permettere al compagno di muoversi - ha raccontato l’avvocato Merelli -. In alcuni casi, il fornellino a gas veniva appoggiato nel bidet per mancanza di spazio”. Gorgona (Li). L’isola della speranza: la rinascita dei detenuti dalla cura delle viti di Luca Filippi La Nazione, 15 giugno 2025 Sono i detenuti a lavorare nel più piccolo vigneto e nella cantina della famiglia Frescobaldi. “In questi bicchieri le storie di uomini che cercano un riscatto pagando il conto dei loro errori passati”. “Questo non è solo un ottimo vino. Non ci sono solo i profumi e i sapori di questa isola fantastica nel cuore del Mediterraneo. In questo bicchiere ci sono le storie di uomini che, con impegno e fatica, cercano un riscatto pagando il conto dei loro errori passati. In questo vino c’è la speranza. Ed è l’ingrediente migliore”. Lamberto Frescobaldi stappa a Gorgona la prima bottiglia della vendemmia 2024 del vigneto più piccolo della famiglia, che produce vino in Toscana da settecento anni, e che annovera tenute storiche come Castel Giocondo, Nipozzano, Pomino, Calimaia, Rémole e detiene la guida di Ornellaia a Bolgheri. Una bottiglai del vino Gorgona è stata inviata anche a Papa Leone XIV. Il vigneto più piccolo (2,3 ettari), con una produzione di nicchia di 9mila bottiglie di bianco (Vermentino e Ansonica), ma doppiamente prezioso, sia per le caratteristiche del prodotto che beneficia di un microclima con inverni miti ed estati non troppo calde grazie alle brezze marine, sia per il valore sociale. Tutti i detenuti che lavorano in vigna e in cantina sono retribuiti da Frescobaldi con il contratto nazionale e acquisiscono una professionalità tale che, quando hanno terminato di scontare la pena, trovano facilmente lavoro all’esterno. Alcuni sono assunti dalla Marchesi Frescobaldi, altri trovano impiego anche in zone diverse d’Italia. La recidiva del carcere di Gorgona è molto bassa. “Questo è comunque un carcere - spiega il direttore dell’istituto di pena Giuseppe Renna - ci sono regole precise e non si può derogare. Ma l’attività all’aperto in agricoltura riesce a dare a queste persone una formazione tecnica e, la cosa più importante, il rispetto per il lavoro. Faticare per ottenere un risultato, con impegno e dedizione, è una scuola di vita fondamentale. Qui non si fa solo vino, si ricostruiscono delle persone”. E infatti basta vedere i volti dei ragazzi impegnati in questi giorni nella cura del vigneto: facce segnate dal sole e anche dal lavoro, ma ‘pulite’, sguardi che non si nascondono. Ognuno ha le sue storie alle spalle, però l’isola di Gorgona e il vino (che i detenuti non possono bere, come stabilisce il regolamento del carcere), sta restituendo dignità e voglia di ricominciare. “La prima vendemmia è stata nel 2012 - racconta Lamberto Frescobaldi - una piccola scommessa, perché non era scontato produrre il vino su quest’isola e con i detenuti. Però il progetto, era ed è bellissimo: la Marchesi Frescobaldi è fiera di aver investito tempo e risorse a Gorgona”. E ora il vino di Gorgona, davvero ottimo con profumi agrumati, rosmarino, salvia ed elicriso e una sapidità e freschezza prolungata al palato, che lo rendono ideale per una degustazione estiva, è anche un magnifico biglietto da visita per presentare ‘il saper fare’ della Toscana e di Frescobaldi al mercato internazionale, con tour di giornalisti e acquirenti e anche di istituzioni come l’ambasciatore della Corea del Sud (paese che apprezza i nostri prodotti). Un progetto che andrà avanti parecchio: la convenzione con il Ministero (presente il sottosegretario Andrea Del Mastro), è stata prolungata fino al 2049. Salerno. Il carcere non deve separare gli affetti di Nicola Castorino cronachesalerno.it, 15 giugno 2025 È stato un convegno di grande interesse psico-sociale quello tenutosi presso la sede dell’Associazione Salernitani Doc di via Bottiglieri. La tematica ha riguardato “Le problematiche psicologiche e psichiatriche nel sistema penitenziario attuale”. A relazionare un’autorevole personalità del settore, il Prof. Gaetano Galderisi, membro della Commissione Nazionale presso il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e Presidente della Società Italiana di Psichiatria Penitenziaria. Dopo i saluti di Massimo Staglioli, presidente dell’Associazione Salernitani Doc, e dell’Assessore alle Politiche Sociali, dott.ssa Paola De Roberto, in rappresentanza del Comune di Salerno, i lavori sono stati aperti dall’On. le Prof. Guido Milanese il quale nel corso del suo intervento introduttivo ha voluto sottolineare la delicatezza del problema dell’affettività all’interno delle carceri e le conseguenti problematiche di carattere psicologico. “Dobbiamo evitare che il carcere diventi un luogo di perdizione”, ha affermato l’On.le Milanese. Una particolare attenzione da parte della numerosa platea intervenuta è stata rivolta per la presenza di don Luigi Merola. Nel prendere la parola don Luigi Merola ha espresso parole di pesanti critiche verso la fiction televisiva “Mare Fuori”. “Quando guardo questa fiction mi sembra di vedere un set di un’agenzia matrimoniale e non il carcere di Nisida, come si vuole rappresentare”, ha polemicamente affermato don Luigi. Ma il fulcro dell’incontro è stato certamente quello del prof. Gaetano Galderisi. Nel corso della sua relazione, attenta e precisa, ha esplicitato quelle che sono le problematiche psicologiche e psichiatriche che quotidianamente vengono affrontate all’interno delle carceri. Problematiche che non investono solo i detenuti ma anche il personale della polizia penitenziaria. “Stiamo seguendo il caso di un agente di polizia penitenziaria, il quale dopo pochi anni dall’assunzione ha iniziato a manifestare segnali di continui tentativi di suicidio”. La Corte Costituzionale - è stato rimarcato - con la sentenza n. 10/24 ha inteso dare una svolta significativa concedendo, al detenuto che ne fa richiesta, la possibilità di colloqui intimi senza il controllo di un sistema di videosorveglianza e senza la presenza del personale carcerario. Un interessante dibattito tra i presenti ha fatto seguito alla relazione del prof. Garderisi. Quando è stata la volta della dott.ssa Rita Romano - ex direttrice della Casa Circondariale di Fuorni - un velo di commozione ha preso il sopravvento con la lettura di una lettera scritta dalla direttrice del carcere di Sulmona, Armida Miserere, suicidatasi nella notte tra il 18 e il 19 aprile 2003, con un colpo di pistola alla tempia, nel suo appartamento di servizio, all’interno del carcere. I lavori sono stati conclusi dall’interessante intervento del dott. Michelangelo Russo, magistrato salernitano, ora in pensione ed editorialista di Le Cronache. Il dott. Russo ha voluto soffermare la sua attenzione sulla riforma costituzionale, esprimendo parole di forte critica verso il Governo. Napoli. La fondazione “‘A voce d’e creature” ottiene locale confiscato alla camorra di Elena Scarici Corriere del Mezzogiorno, 15 giugno 2025 Don Luigi Merola, sacerdote fortemente impegnato nella lotta alla criminalità e presidente della Fondazione “‘A voce d’e creature”, comincia una nuova avventura. Dopo un’attesa di circa 20 anni ha avuto dal Comune un altro bene confiscato alla camorra, adiacente a quello che già gestisce in via Piazzolla all’Arenaccia, la ex villa di Bambù del boss Raffaele Brancaccio, dove accoglie oltre 200 ragazzi dai 6 ai 18 anni. Il nuovo locale di 500 metri quadrati si trova in via Guglielmo Pepe, poco distante. Stesso proprietario, il boss Brancaccio, ragioniere del clan Contini. Nella nuova struttura don Luigi realizzerà un asilo-nido per circa 50 bambini da 0 a 5 anni. “Era da tempo che aspettavo - precisa - ora posso estendere l’aiuto anche ai più piccoli e andare incontro così alle esigenze delle mamme del quartiere, che avendo spesso i mariti in carcere, non possono lavorare”. Una nuova sfida attende dunque Merola che ha cominciato i lavori da pochi giorni. Il locale, un deposito che ospitava le slot machine gestite del clan, è rimasto abbandonato per tanto tempo e quindi ha bisogno di lavori importanti per circa 200.000 euro. “Per ristrutturarlo utilizzerò fondi privati - aggiunge il sacerdote -. Ho già avuto 30.000 euro dall’Acen e 50.000 da Enel cuore oltre a varie donazioni singole. Mi mancano ancora 100.000 euro ma so che come sempre li troveremo. La provvidenza non ci abbandona”. Don Luigi è impegnato come tutti i giorni a lavorare con i ragazzi. In questo periodo nel campo estivo ci sono 120 ospiti da accudire. Torino. All’Ipm Ferrante Aporti “Don Meco”, 2° Memorial di calcio di Marina Lomunno La Voce e il Tempo, 15 giugno 2025 Metti un venerdì mattina nel campo di calcio dell’Istituto penale minorile di Torino “Ferrante Aporti” un torneo tra magistrati, avvocati, allievi del Liceo Valsalice e giovani ristretti. Ecco cosa si intende quando parliamo di carcere che incontra la città, di buone prassi che incentivano l’incontro e lo scambio fra liberi e reclusi per abbattere i pregiudizi e fare in modo che l’art. 27 della Costituzione “…le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Se poi il torneo - alla seconda edizione dato il successo di quello dello scorso anno - è dedicato alla memoria di don Domenico (Meco) Ricca, salesiano per 40 anni cappellano del “Ferrante” scomparso lo scorso anno, fermamente convinto dei benefici per i ragazzi reclusi di aprire le porte del carcere alla società civile, allora gli ingredienti per una giornata speciale ci sono tutti. Ed è stato così il 2° Memorial “Don Mecu”, promosso dalla sezione di Torino dell’Aiga (Associazione italiana giovani avvocati) che - nella convinzione che lo sport possa essere occasione di riscatto, crescita e speranza - ha anche raccolto i fondi per acquistare magliette e scarpe per i ragazzi del “Ferrante” che sono scesi in campo orgogliosi nella loro divisa bianca accompagnati dal direttore dell’Ipm Giuseppe Carro, dagli educatori, dagli agenti e dal cappellano, il salesiano don Silvano Oni. E non importa se vince il torneo la squadra dei giovani avvocati - tra i tifosi anche la presidente dell’Ordine Simona Grabbi, che ha rinnovato l’impegno degli avvocati a sostenere iniziative di aggregazione nelle carceri. Quello che conta è che i liceali, accompagnati dai loro insegnanti e dal direttore don Alessandro Borsello, abbiano giocato nel rispetto delle regole con i loro coetanei reclusi, con i magistrati e gli avvocati fuori dalle aule del tribunale o delle sale colloqui, divertendosi insieme al di là dei ruoli. Al termine la consegna delle coppe, la foto di gruppo e il rinfresco offerto dall’associazione di volontari “Aporti Aperte” che opera al “Ferrante” ha reso per una volta meno amaro il ritorno in cella. E per i liceali di Valsalice l’occasione di riflettere su come “essere nati nella culla giusta”, come diceva don Ricca, non è così scontato. Vibo Valentia. Lo sport entra in carcere: al via un nuovo progetto nella Casa circondariale informacalabria.it, 15 giugno 2025 L’iniziativa offrirà ai detenuti un’opportunità di rieducazione e reinserimento sociale, attraverso l’attività fisica e percorsi formativi. “Un’opportunità concreta per riscoprire, attraverso l’attività sportiva, i valori positivi: rispetto delle regole, collaborazione, impegno e resilienza. Su questo principio è partito ufficialmente il progetto “Sport di tutti - Carceri” presso la casa circondariale di Vibo Valentia (diretta da Angela Marcello) con la Asd Libertas Serra San Bruno che, in collaborazione con altre associazioni sportive dilettantistiche, di promozione sociale e di volontariato della provincia di Vibo Valentia, hanno avviato il progetto nel mese di maggio per alcuni detenuti, “maschi e adulti”, della casa circondariale”. È ciò che si legge in una nota pubblicata da Francesco De Caria, presidente della Libertas Serra San Bruno e manager sportivo affermato a livello nazionale, sui propri social. “Con il progetto “Sport di Tutti - Carceri”, promosso dal ministro per lo Sport e i Giovani per tramite del Dipartimento per lo Sport e realizzato in collaborazione con Sport e Salute, lo sport diventa strumento per creare, all’interno degli istituti penitenziari, momenti di aggregazione, abbattere le barriere, favorire la reintegrazione sociale e mezzo di rieducazione per la popolazione detenuta sia adulta sia minorile. L’iniziativa si inserisce nell’àmbito delle attività previste dai protocolli d’intesa sottoscritti con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e con il Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità e gli obiettivi principali sono creare un’alternativa concreta in cui lo sport aiuta i soggetti fragili a riscattarsi e a migliorare la propria salute psico-fisica, creando un ponte tra carcere e società attraverso attività sportive e programmi di reintegrazione e inclusione”. Le attività e le opportunità formative - Il progetto, a Vibo Valentia, “prevede lo svolgimento delle discipline di calcio, karate e fitness, a cura di Bruno Nardo, ormai al suo quarto progetto all’interno della casa circondariale, e di Elia Donato con il tecnico Antonio Facciolo. Prevista, anche, un’attività di formazione che permetterà ai partecipanti di diventare personal trainer e che sarà gestita dai formatori del Centro Nazionale Sportivo Libertas Aps, oltre che corsi di Blsd (corsi di primo soccorso con utilizzo di defibrillatori) a cura della Prociv Augustus Vibo Valentia e da attività integrative con vari professionisti (nutrizionisti, psicologi, etc.)”. Le dichiarazioni della direttrice e del presidente Libertas - “Sin da subito abbiamo dato disponibilità e collaborazione per l’ottima riuscita di questo progetto - dichiara Angela Marcello - perché rappresenta un indubbio percorso educante che permette a queste persone di mettersi in gioco. La casa circondariale è aperta ad iniziative similari”. “Il progetto rappresenta una grande opportunità per il reintegro nella società civile dei detenuti - afferma Francesco De Caria - ed abbiamo voluto fortemente attivarlo insieme ad altri enti che sono Asd San Bruno, Asd Shanti 1985, Il Centro Regionale Sportivo Libertas Calabria e la Prociv Augustus Vibo Valentia. Spesso si tende a giudicare con troppa superficialità i detenuti che hanno sbagliato nelle loro vite - prosegue Francesco De Caria - ma è importante ridare loro il senso di quello che è bene e il valore delle norme anche attraverso lo sport”. “Un ringraziamento speciale - conclude il testo - è stato espresso anche alla dottoressa Marcello, alla dottoressa Lagana ed alla dottoressa Carone, che con tutto il personale della Polizia penitenziaria sostengono le attività del progetto”. Fatti e norme: la giustizia come opera collettiva della ragione di Vittorio Pelligra Il Sole 24 Ore, 15 giugno 2025 Habermas: la giustizia, nella sua forma più profonda, è semplicemente questo: il risultato migliore che possiamo ottenere parlando insieme, onestamente, pubblicamente, responsabilmente. Cosa rende giusta una legge? È una questione di sostanza o di procedura? Di volontà popolare, o di diritti universali? Sono questi alcuni dei temi su cui riflette Jürgen Habermas nel suo Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia (Laterza, 2013), un’opera che, in un tempo in cui le istituzioni democratiche appaiono svuotate e le procedure ridotte a formalità, rappresenta un contributo decisivo per rifondare il significato stesso che il termine “giustizia” dovrebbe avere in una società complessa. Non una giustizia che ci viene data, ma una giustizia che va conquistata, con le parole, quelle pronunciate e quelle ascoltate. Il diritto moderno - spiega Habermas - riceve la sua legittimità non tanto dalla tradizione o dalla religione, come in un passato non troppo distante, ma dall’articolazione di un discorso pubblico che può essere razionalmente giustificato. In queste parole si condensa il cuore teorico di un tentativo ambizioso: la costruzione di una teoria discorsiva del diritto e della democrazia. Un tentativo originale che si differenzia sensibilmente dal positivismo giuridico così come dal giusnaturalismo. Habermas percorre una via nuova, quella che cerca la legittimazione delle norme nell’assenso dei cittadini attraverso un processo di deliberazione pubblica e inclusiva. Perché, secondo il filosofo tedesco, la tensione tra “fatti” e “norme”, cioè tra la fattualità del diritto rappresentata da istituzioni coercitive e la sua validità, la sua accettabilità e legittimità a prescindere dalla coercitività, ebbene tale tensione non può risolversi con l’autoritarismo, ma deve radicarsi e fiorisce nel dialogo pubblico. “I soggetti giuridici privati non possono giungere a godere di eguali libertà soggettive se prima - esercitando in comune la loro autonomia politica - non avranno personalmente chiarito criteri e interessi legittimi, e non si saranno accordati circa gli aspetti rilevanti con cui trattare l’eguale in modo eguale e il diseguale in modo diseguale”. La giustizia, in questa prospettiva - ne abbiamo parlato nei Mind the Economy delle settimane scorse - appare quindi come un percorso e non un punto di partenza. È un processo intersoggettivo in cui continuamente le norme che regolano la nostra convivenza vengono negoziate, ridefinite, rilegittimate. Una delle intuizioni più potenti di Fatti e norme è la tesi della co-originarietà tra diritti umani e sovranità popolare. Non si tratta di subordinare il legislatore a un ordine morale immutabile, né di svincolare i diritti dalla deliberazione democratica. Habermas rifugge dalla contrapposizione tra giusnaturalismo e positivismo, proponendo invece un principio dinamico. È convinto, infatti, che “I due princìpi (diritti dell’uomo e sovranità popolare) [siano] co-originari. [...] I diritti umani non vanno più visti come datità morali preesistenti, bensì come diritti fondamentali ben costruiti, suscettibili (in un discorso pratico) di trovare l’approvazione di tutti i potenziali interessati”. Questa co-originarietà implica che i diritti fondamentali siano il prodotto di un discorso pratico tra cittadini ragionevoli e liberi. Non sono concessioni dall’alto, né si pongono come verità immutabili. Sono, piuttosto, conquiste discorsive, risultati, cioè, di una volontà collettiva che si riconosce nella legge. La democrazia è per Habermas molto più di una sequenza di voti o di un algoritmo decisionale. È piuttosto una forma di vita comunicativa, fondata sulla capacità di parlare, ascoltare, argomentare, dissentire. “Solo quando deriva dall’aver partecipato a una prassi comune - ossia, solo se nasce dal pubblico processo di una formazione-di-volontà poggiante sulla libera dinamica di opinioni, argomenti e prese di posizione - il voto acquista il peso istituzionale che spetta alle decisioni di ogni co-legislatore”. In questa visione, la sovranità popolare non si esaurisce nell’atto elettorale, ma si esercita in una molteplicità di pratiche discorsive: nel dibattito parlamentare, nella partecipazione civica, nella protesta argomentata, nell’opinione pubblica informata. La giustizia, allora, non si trova solo nella coerenza delle norme, quanto nella possibilità che queste emergano da un processo comunicativo inclusivo e trasparente. Ma come garantire, in una società pluralistica e complessa, che questo dialogo sia possibile? Habermas affida questa funzione alle istituzioni: esse non sono solo strumenti di comando, ma “architetture della comunicazione”. “Le aspettative gravanti sulla politica deliberativa - scrive ancora Habermas - possono essere soddisfatte solo attraverso una sorta di divisione del lavoro, vale a dire attraverso una interazione, o gioco di scambio, tra le comunicazioni informali di massa e i processi consultivi e decisionali giuridicamente istituzionalizzati nello Stato”. Parlamenti, tribunali, media pubblici, piattaforme civiche sono tutti strumenti necessari per rendere reale la partecipazione discorsiva. La giustizia richiede spazi aperti, regole condivise, tempo per il confronto. In assenza di queste condizioni, la deliberazione degenera in manipolazione, e la democrazia diventa facciata. “Soltanto una cittadinanza riflessiva - che collega ragionevolmente deliberazione, inclusione e decisione - può produrre diritto legittimo a partire dall’anarchia delle opinioni soggettive”. Nel cuore dell’architettura teorica di Fatti e norme, il capitolo secondo rappresenta il crocevia dove si incontrano scuole, maestri e paradigmi. “Sociologie del diritto e filosofie della giustizia” è il luogo nel quale Habermas esplora alcuni tra i territori più contesi del pensiero moderno provando ad unire l’astrazione delle idee normative con la descrizione dei fatti sociali. Il discorso prende le mosse con una diagnosi secondo cui la modernità ha separato le due anime del diritto. Le sociologie, con il loro “disincantamento”, ci raccontano cosa fa il diritto, ma hanno smesso di chiedersi cosa dovrebbe essere. Le filosofie della giustizia, al contrario, sognano un diritto giusto, ma ignorano le forme concrete che la giustizia acquisisce nel corpo nelle istituzioni, i suoi conflitti, i compromessi. È come se il diritto fosse diventato orfano: la sociologia gli ha tolto la voce morale, la filosofia gli ha tolto il corpo sociale. Habermas rifiuta questa scissione e reclama una nuova alleanza: una teoria capace di restituire al diritto la sua doppia anima, fattuale e normativa. Nella prima parte del capitolo le grandi “sociologie del diritto” vengono passate in rassegna. La posizione di Max Weber lo affascina e, al tempo stesso, lo inquieta. Il diritto moderno, in lui, appare come razionalità formale al servizio di una burocrazia impersonale. L’efficienza diventa destino, e la giustizia si dissolve in procedure. “Weber - scrive Habermas - strumentalizza così completamente il diritto moderno al dominio funzionale e burocratico dell’apparato statale, da non poter più prendere in considerazione l’autonoma funzione d’integrazione sociale che gli è propria”. Con Durkheim, invece, il diritto diventa un insieme di meccanismi di integrazione. Ma Habermas fa notare come questa visione tenda a trasformare la norma giuridica in un semplice riflesso dell’ordine sociale. Il diritto non è più uno spazio di libertà, ma un processo di adattamento. Infine, incontriamo l’analisi della posizione di Niklas Luhmann che teorizza il diritto come sistema autoreferenziale. Una macchina che comunica con sé stessa, del tutto svincolata dalla voce dei cittadini. È la distopia perfetta del formalismo: legittimità senza legame, coerenza senza coscienza. Habermas, reagisce. Egli vuole riaprire il “sistema” al “mondo della vita”. Il diritto deve restare dialogico, non diventare “un sistema chiuso al dissenso”. Non si tratta di rispolverare essenze eterne, ma di ripensare la giustizia come risultato di un discorso pratico tra soggetti liberi. “Questa resurrezione del diritto naturale ha fatto crollare i ponti di collegamento tra i due universi di discorso. Tanto che vediamo ripresentarsi, all’interno del discorso normativo, persino quella domanda sull’impotenza del ‘dover essere’ che già aveva spinto Hegel a studiare Adam Smith e Ricardo al fine d’includere anche i conflitti mercantili della società borghese quale momento effettivo dell’idea etica. Anche l’interesse di John Rawls per le condizioni che potrebbero indurre all’accettazione politica della sua teoria della giustizia - scrive ancora Habermas - segnala il ritorno d’un problema rimosso. Il problema è sempre lo stesso: come sia possibile realizzare il progetto razionale di una società giusta, che non si contrapponga soltanto in maniera astratta e velleitaria all’ottusa realtà”. Ora, però, non c’è più nessuna fiducia nella dialettica ragione/rivoluzione messa in scena da Hegel e Marx nei termini d’una filosofia della storia: l’unica via praticamente percorribile, e moralmente ragionevole, resta quella riformistica, sprovvista di garanzie a priori”. Habermas riconosce che la normatività non può essere imposta dall’alto, ma neanche lasciata cadere nel relativismo. La chiave è il discorso: la giustizia nasce solo quando le norme possono trovare l’assenso di tutti gli interessati. Una democrazia non vive senza questo scambio continuo tra il “noi” e l’”io”, tra il potere e la parola. Alla fine del capitolo, Habermas presenta la sua proposta: un modello che ricostruisce normativamente il senso del diritto moderno. Non come “comando del sovrano”, né come “specchio della società”, ma come medium che istituzionalizza i risultati di un discorso pubblico. Habermas non inventa un altro mondo: ricostruisce, dà forma e coerenza a ciò che, nelle migliori esperienze democratiche, è già presente. La sua filosofia è un atto di fedeltà e insieme di speranza. È l’invito a un atto umile e difficile: parlare insieme. Costruire il diritto come forma della ragione pubblica, come dispositivo che trasforma le promesse in istituzioni. Perché la giustizia non ci viene incontro, va cercata, voluta, discussa. E se possibile, votata. In questo senso la democrazia, allora, non è il potere della maggioranza, ma il potere del discorso. E la giustizia, nella sua forma più profonda, è semplicemente questo: il risultato migliore che possiamo ottenere parlando insieme, onestamente, pubblicamente, responsabilmente. Perché sul fine vita la dignità è scegliere di Vito Mancuso La Stampa, 15 giugno 2025 La questione del fine vita si determina considerando con onestà intellettuale “il fine” della vita. È cioè il fine, inteso come scopo, a disciplinare la fine, intesa come cessazione, quando si tratta della vita. E qual è il fine della vita? Lo chiedo ai politici che devono dare finalmente una legge a questo Paese che l’attende da anni: ministri, onorevoli, senatori qual è, secondo voi, il fine della vita? Perché siamo qui? Perché la natura ci ha generati, nell’attesa prima o poi di degenerarci? Quando si tratta della questione più importante di tutte che è il senso o il non-senso, e quale senso e quale non-senso, del nostro essere qui, ci ritroviamo così diversi tra noi, persino all’interno della propria famiglia. Il vostro compito, però, è di dare una legge ai cittadini italiani in modo che essa possa essere davvero la legge di tutti, in modo che davvero cioè, come stabilisce una delle tre massime fondamentali del diritto romano, a ciascuno sia concesso ciò che gli spetta: “Unicuique suum”, “A ognuno il suo”. Occorre quindi che voi stabiliate un senso della vita che possa essere accettato da tutti per giungere a pensare una legge sulla fine della vita che allo stesso modo possa essere la legge di tutti, nella quale cioè tutti i cittadini italiani possano riconoscere l’equa volontà dello Stato di dare a ognuno “il suo”, cioè di trattarlo nell’ultimo decisivo momento della sua esistenza in modo conforme al suo credo, ai suoi valori, alla sua dignità, alla sua condizione. Torno quindi a porre la questione: qual è, secondo voi, il fine della vita? Guardandola quale ogni giorno si dispiega davanti agli occhi di tutti noi, io penso che non sia possibile individuare nella vita una logica univoca che si impone necessariamente a tutti e che poi possa costituire la base dell’etica e del diritto. Basta infatti porre questa domanda per renderci conto della nostra incapacità: è giusta la vita? Lo chiedo a voi che detenete il potere e che siete chiamati a dare una legge sul fine-vita a questo nostro Paese: è giusta la vita verso i viventi? Oppure è ingiusta, e persino tirannica? Oppure a volte è giusta e a volte no, con il risultato di essere arbitraria, caotica, capricciosa, e quindi di non contenere nessun punto fermo in base a cui costruire una norma del nostro comportamento verso di essa? È stata giusta la vita verso Daniele Pieroni che dal 2008 soffriva del morbo di Parkinson e che grazie alla legge della regione Toscana ha potuto scegliere di smettere di soffrire? E se la vita non è sempre giusta verso i viventi, perché tutti i viventi dovrebbero “sempre” esserlo verso di lei? Se la vita talora non li rispetta, perché i viventi dovrebbero essere tenuti “sempre” a rispettarla? Qui entrano in gioco le nostre visioni del mondo. Per alcuni le sofferenze che provengono dalla vita non costituiscono in nessun modo un motivo per andarsene da essa, ma, esattamente al contrario, invitano a rimanervi e ad accettarle in quanto occasione di purificazione, di espiazione, di sacrificio per il bene di altri. Sono sentimenti nobilissimi, e se qualcuno pensasse che lo Stato non si può permettere di investire risorse e posti letto negli ospedali per permettere a chi lo desidera di vivere la propria fine in questo modo, sarebbe completamente da condannare in quanto irrispettoso della libertà altrui. Lo stesso, però, vale per chi volesse costringere a questa accettazione della sofferenza anche coloro che hanno una visione del mondo e di se stessi completamente diversa, tale da non rintracciare nelle sofferenze nessun disegno e nessuno scopo. Voi cosa ne pensate, senatori e onorevoli? Quale idea avete della sofferenza e del suo senso? Cosa fareste se dovesse capitare a voi di vivere per anni in condizioni sempre più disabilitanti, fino a dipendere totalmente dagli altri e dalle macchine? Vorreste avere la possibilità di scegliere se dire “ancora” e quella contraria ma complementare di dire “basta”? Io sono giunto alla conclusione che una cosa si imponga: il rispetto della visione altrui. Vi sono infatti mille elementi per negare un senso alla vita, e mille altri per riconoscerlo. Anche la Bibbia presenta elementi in una direzione e nell’altra. Scrive un libro biblico a proposito degli esseri umani: “Essi di per sé sono bestie, infatti la sorte degli uomini e quella delle bestie è la stessa: come muoiono queste, così muoiono quelli; c’è un soffio vitale per tutti” (Qoelet 3,18-19). Scrive un altro libro biblico sempre a proposito degli esseri umani: “Dio li rivestì di una forza pari alla sua e a sua immagine li formò. In ogni vivente infuse il timore dell’uomo perché dominasse sulle bestie e sugli uccelli… Pose davanti a loro la scienza e diede loro in eredità la legge della vita” (Siracide 17,3-4 e 11). Qui al contrario la differenza tra gli esseri umani e gli altri viventi è immensa e consiste nel fatto che gli esseri umani hanno ricevuto in eredità “la legge della vita”. Quale? La libertà. È infatti sulla base della libertà che lo stesso autore biblico, che si chiamava Gesù ben Sira e che visse circa due secoli prima di Gesù, giunge a dichiarare poco dopo: “Meglio la morte che una vita amara, il riposo eterno che una malattia cronica” (Siracide 30,17). Sempre stando alla Bibbia, in essa non c’è mai una condanna del suicidio. In diversi luoghi si narrano casi di suicidio, ma mai il testo sacro prende una netta posizione di condanna, neppure nel caso di Giuda. L’hanno osservato nel Novecento i maggiori teologi contemporanei, tra cui Karl Barth, Dietrich Bonhoeffer, Hans Küng. Scrive Barth: “Il suicidio non viene mai esplicitamente vietato nella Bibbia”, il che, aggiunge, è “un fatto veramente seccante per tutti quelli che volessero comprenderla e servirsene in senso morale!”. Anzi un suicida, per l’esattezza Sansone, viene perfino ricordato dal Nuovo Testamento tra i padri della fede. Nel discorso della montagna Gesù disse: “Non giudicare”. Se c’è una situazione nella quale hanno senso queste sagge parole, questa riguarda il momento in cui un essere umano sceglie di porre fine alla sua vita. Tra i grandi filosofi vi è chi condanna il suicidio (Platone, Aristotele, Kant, Hegel) e chi no (Epicuro, Seneca, Montaigne, Nietzsche). Dopo aver dedicato la vita a studiare la natura per afferrarne la logica, Darwin giunse a scrivere in una lettera a Hooker del 1870: “Non posso guardare all’universo come al risultato di un cieco caso. Tuttavia non posso vedere nessuna prova di un disegno benevolo”. Ecco, ancora una volta, il principio-contraddizione: né caso né disegno, ovvero un po’ l’uno e un po’ altro, ovvero ancora una volta la libertà che ci spinge a pensare e poi a scegliere. Il fine della vita è la base su cui legiferare degnamente a proposito del fine-vita e l’unico fine che appare dal contrasto tra le diverse prospettive è la libertà. La mancanza di un fine univoco che si imponga a tutti i viventi con la medesima chiarezza indica che il fine principale per il quale ognuno di noi è al mondo è l’esercizio responsabile della propria libertà. Il che significa autodeterminazione. A maggior ragione quando si tratta della propria esistenza. Il senso dell’esistenza umana consiste in un continuo esercizio della libertà. E in questa prospettiva ricordo a voi parlamentari le seguenti parole del cardinal Martini: “È importante riconoscere che la prosecuzione della vita umana fisica non è di per sé il principio primo e assoluto. Sopra di esso sta quello della dignità umana, dignità che nella visione cristiana e di molte religioni comporta una apertura alla vita eterna che Dio promette all’uomo. Possiamo dire che sta qui la definitiva dignità della persona… La vita fisica va dunque rispettata e difesa, ma non è il valore supremo e assoluto”. Qual è invece il valore supremo e assoluto? È la dignità della vita che si compie come libertà di poter decidere di sé. Vi prego, quindi: agite in coscienza e date a tutti i cittadini italiani una legge che rispetti la loro libertà. Nel tempo della paura e delle guerre, l’altro non è mai il nemico di Mauro Magatti Avvenire, 15 giugno 2025 In una società sempre più frammentata, è aumentata l’intolleranza e ogni cambiamento viene visto come una minaccia. Attrezziamoci per un mondo nuovo, sapendo però che il mondo con ci appartiene. Il periodo storico successivo alle tragedie della prima parte del XX secolo ci aveva fatto credere che l’umanità si fosse finalmente emancipata dalla necessità di ricercare nel volto dell’altro un nemico da combattere. Che il pluralismo fosse ormai un fatto acquisito. Che chi è diverso - per cultura, genere, lingua, religione, posizione sociale, visione del mondo - potesse essere parte, a pieno titolo, della vita comune. I fatti di questi ultimi anni e giorni (dopo l’Ucraina e Gaza, l’escalation Israele-Iran, quello che sta accadendo in California e in Irlanda) ci costringono a prendere atto che le cose sono più complicate. Non stiamo andando verso un mondo più capace di inclusione, comprensione e coesistenza. Al contrario, si assiste a un lento arretramento del riconoscimento dell’altro. L’alterità, lungi dall’essere accolta, viene sempre più percepita come una minaccia. I segnali sono così numerosi e diffusi che non è più possibile ignorarli. La partner che delude le aspettative si trasforma nell’ostacolo alla nostra autorealizzazione. Fino al punto in alcuni casi di essere uccisa. Lo straniero che cerca rifugio è trattato come un invasore. Il diverso è percepito come un errore da correggere. Il Paese limitrofo diventa terreno di conquista. Al di là della scala, la dinamica è sempre la stessa: prima l’altro è allontanato, poi opacizzato, infine privato del volto e della parola. Ridotto a oggetto da classificare, a pericolo da sradicare. E, infine, a nemico da combattere. In una società sempre più frammentata, ad aumentare è l’intolleranza. Nella sfera pubblica, le posizioni si polarizzano, il linguaggio si fa bellico, le categorie si irrigidiscono. Le differenze non sono più occasione di confronto ma trincee da difendere. E a peggiorare le cose ci sono anche le piattaforme digitali che favoriscono nuove forme di tribalismo e chiusura. Viviamo in un paradigma culturale che ci induce a difendere a ogni costo la nostra/mia zolla di benessere, potere o identità. Ogni cambiamento, ogni segnale di trasformazione, ogni imprevisto viene percepito come una minaccia. Al punto che si vanno perdendo persino le competenze necessarie per gestire la relazione complessa con l’altro concreto. Stiamo scivolando lungo un piano inclinato, con un esito incerto. Tuttavia, non è troppo tardi per invertire la rotta, a condizione di prendere coscienza della situazione prima che peggiori ulteriormente, prima che la diffidenza e l’autoassoluzione rendano irreversibile il nostro isolamento. Uscire da questa deriva richiede di riconoscere che l’altro non rappresenta un ostacolo al nostro benessere, ma una condizione imprescindibile della nostra umanità. “Nessuno dovrebbe mai minacciare l’esistenza dell’altro”, ha detto ieri papa Leone al termine dell’udienza giubilare. Nessuno cresce, si realizza o diventa pienamente se stesso senza l’incontro, talvolta faticoso ma sempre trasformativo, con ciò che è diverso da sé. Nessuna società è possibile senza l’esercizio, difficile ma entusiasmante, del dialogo e dell’incontro, che rigenera il tessuto sociale e culturale. Fissati su un principio rigido di identità, perdiamo la bellezza della vita che deriva dall’incontrare, dall’ascoltare, dall’accogliere. E non certo dall’erigere barriere per difendersi dal mondo intero. “Torniamo a costruire ponti - ancora il Papa, ieri - dove oggi ci sono muri. Apriamo porte, colleghiamo mondi e ci sarà speranza”. Indubbiamente, la relazione con l’altro comporta sempre un rischio. La relazione è intrinsecamente esposta alla possibilità di ferita. Pensare di poter sterilizzare questo rischio, significa impoverire la nostra stessa vita. Che, ripiegandosi su di sé, finisce per appassire. È pertanto necessario impegnarsi attivamente per promuovere una nuova cultura della coesistenza. Non si tratta di una semplice tolleranza, che preserva lo status quo mantenendo le distanze, bensì di un’ospitalità reciproca, capace di generare legami, progetti condivisi e nuove narrazioni. Questo principio si applica tanto alle comunità locali quanto alle istituzioni globali, alle famiglie, alle scuole, alle imprese, alla politica e alle religioni. In una società in cui l’alterità diventa un problema, la cura inizia con il disarmo delle pretese assolute. È fondamentale riconoscere che il mondo non ci appartiene, ma ci è stato affidato in comune, che la nostra identità è intrinsecamente relazionale e che la libertà non consiste nel fare ciò che si vuole, ma nel saper condividere spazi, tempi, risorse e aspirazioni con gli altri. In definitiva, si tratta di scegliere che tipo di mondo vogliamo abitare: se rimanere intrappolati nella logica della zolla, ciascuno arroccato nel proprio recinto, facendo piazza pulita di tutto ciò che è fuori dai suoi schemi o se siamo disposti a costruire una nuova ecologia relazionale. Solo riconoscendo il volto dell’altro possiamo ritrovare anche il nostro. Ian Bremmer: “È tornata la legge della giungla. Non comandano i leader, solo i vincitori” di Simona Siri La Stampa, 15 giugno 2025 L’analista di Eurasia Group: “Gli Usa si ritirano da garanti dell’ordine globale, il mondo è dei forti che dettano legge”. “È un attacco molto più grande dell’ultimo. La portata è significativa, ma anche il tempismo è importante perché l’Iran in questo momento è molto debole” dice Ian Bremmer. Fondatore di Eurasia Group, la principale società di consulenza mondiale sui rischi geopolitici, è l’uomo a cui tutti si rivolgono in momenti di crisi come questo per capire e analizzare. Come si è arrivati a questa situazione? “Non facendo più da garanti all’ordine globale, gli Stati Uniti hanno facilitato il ritorno alla legge della giungla, dove i forti fanno ciò che vogliono e i deboli subiscono ciò che devono. In nessun luogo questo è più chiaro che in Medio Oriente. Gli israeliani sono di gran lunga la potenza militare e tecnologica dominante della regione e questo consente loro di agire impunemente”. Il segretario di Stato Rubio ha parlato di azione unilaterale da parte di Israele senza il coinvolgimento statunitense... “Gli Usa non vogliono essere parte attiva di questa guerra, ma Trump sapeva da lunedì che questi attacchi sarebbero avvenuti e se avesse voluto fermarli, avrebbe potuto farlo, senza contare che gli Stati Uniti forniscono armi, supporto militare e intelligence. C’è differenza tra non partecipare direttamente agli attacchi e esserne complici e sostenerli. In realtà, penso che Trump, all’inizio dei negoziati con gli iraniani, abbia espresso a Israele una ferma opposizione all’attacco. Poi, visto che i negoziati si stavano trascinando e che l’accordo che poteva strappare non era quello che voleva, si è annoiato e ha perso interesse. Trump è un leader molto concentrato su ciò che accade sul momento, ma quando qualcosa non funziona, passa a quella successiva”. Non è riuscito né a convincere Putin né Netanyahu. Non un grande risultato per chi vuole essere il peacemaker mondiale... “Putin non è stato disposto ad accettare il cessate il fuoco, ma Trump ha ottenuto tutto ciò che voleva dagli ucraini. Con i cinesi ha dovuto capitolare lui, mentre con il Messico ha ottenuto garanzie sulla sicurezza dei confini, sulle merci, sui trasporti. La lezione è che i Paesi e i leader deboli capitolano a Trump, mentre quelli che si sentono forti gli rispondono con durezza”. Quanto hanno influito i guai politici interni di Netanyahu sulla decisione di attaccare? “È vero che è sotto pressione, ma militarmente ha ottenuto successi fenomenali. Gli israeliani sostengono ciò che ha fatto a Hezbollah e quello che sta facendo all’Iran, a meno che l’Iran non sia in grado di colpire e terrorizzare i civili, cosa molto improbabile visto che ci sono stati alcuni attacchi con i droni, ma non sono andati a buon fine. Quando, dopo il 7 ottobre, Israele ha colpito l’Iran in due occasioni, gli iraniani non sono stati in grado di causare alcun danno. Alla fine quello che conta è lo squilibrio militare”. Come legge la reazione degli altri Paesi? “Francia e Germania sanno entrambi che Israele ha tutto il diritto di difendersi, i sauditi ovviamente hanno condannato gli attacchi e temono che in risposta gli iraniani impediscano al petrolio di fluire attraverso lo Stretto di Horus, il che farebbe aumentare il costo di ben oltre i cento dollari, portando a una recessione globale. Gli Stati del Golfo vogliono dimostrare pubblicamente di voler abbassare la temperatura, ma c’è ben poco che possano o vogliano fare per intervenire concretamente. La realtà è che la maggior parte del mondo si oppone a ciò che Israele sta facendo a Gaza e in Cisgiordania, ma non sono disposti a fare nulla al riguardo. I Paesi più ostili sono la Turchia - che potrebbe imporrebbe conseguenze economiche a Israele - e la Russia, che ha bisogno dei droni e delle capacità dell’Iran per continuare a combattere la guerra in Ucraina”. Lo scenario peggiore a questo punto? “Uno è che gli iraniani, sotto enorme pressione e con un programma nucleare sotterraneo che gli israeliani non possono colpire, cerchino di arrivare a una bomba nucleare il più velocemente possibile. Gli israeliani e gli americani lo scoprono e gli americani entrano direttamente nella guerra. Due, a causa dell’instabilità il regime iraniano si trasforma in un vero e proprio Saddam Hussein, con migliaia e migliaia di civili uccisi a causa della repressione”. Quello migliore? “L’Iran non può contrattaccare, il regime si indebolisce e non è più in grado di fornire supporto alla Russia né di esportare terrorismo”. Quanto è davvero vicino l’Iran alla bomba atomica? “Gli esperti dicono che potrebbe avere abbastanza uranio arricchito per creare una bomba entro poche settimane, ma questo non significa che possano poi trasformarlo in un’arma, dal momento che infrastrutture e capacità militari sono danneggiate. Detto questo non bisogna sottovalutare ciò che un regime radicale è disposto a fare quando si ritrova in una situazione disperata”. Il mondo è in fiamme. Cosa servirebbe per riportare la calma? Nuovi leader? “Non abbiamo leader. Abbiamo vincitori, e i vincitori implicano sempre dei perdenti. Implicano repressione e persone che si sentono trattate male e che, a quel punto, sono disposte a combattere”. Dagli studenti ai migranti, così i nuovi Stati Uniti restringono il vecchio mondo di Anna Foa La Stampa, 15 giugno 2025 In prospettiva solo chi ha la cittadinanza Usa potrà calpestarne il suolo. Fin dalle lontane epoche preistoriche gli esseri umani si sono spostati sulla Terra. Ma è anche vero che negli ultimi due secoli questi spostamenti si sono moltiplicati, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento in particolare, con l’urbanizzazione e le trasformazioni sociali ed economiche della società europea. Per non parlare della precedente colonizzazione delle Americhe, e per citare solo i fenomeni più macroscopici, gli ultimi decenni dell’Ottocento, oltre ad essere l’epoca della colonizzazione del continente africano ed asiatico, sono stati anche caratterizzati da grandi fenomeni migratori, come quelli che hanno portato negli Stati Uniti milioni di ebrei dell’Est Europa, di irlandesi, di italiani. Quando nel 1924 gli Stati Uniti chiusero quasi totalmente le porte agli emigranti, i grandi movimenti di popolazione sembrarono per qualche decennio rallentare, per riprendere con la Seconda guerra mondiale, con caratteristiche diverse, in gran parte forzate. Per arrivare, col dopoguerra, ai grandi spostamenti che coinvolgono polacchi e tedeschi, ebrei sopravvissuti ai campi, e poi europei ricacciati in madrepatria nell’era della decolonizzazione. Tutti questi movimenti si distinguono fra loro innanzi tutto per il fatto di essere più o meno volontari, più o meno forzati. Forza che può anche essere determinata dalla fame, dalla miseria, e non solo dalla violenza delle armi. Poi, dal livello più o meno forte dell’integrazione dei nuovi arrivati con i precedenti abitanti. E ancora, dalla violenza esercitata su di loro, come nel colonialismo, o inversamente da quella esercitata sui nuovi arrivati, come nelle migrazioni in Europa di uomini e donne del terzo mondo. Per quanto sia in ogni caso raro incontrare migranti accolti a braccia aperte nel mondo dove si stabiliscono, o inversamente nativi considerati come esseri umani di pari dignità dai loro colonizzatori, è solo negli ultimi decenni che la percezione dei migranti che si è determinata in molta parte dell’Europa ha portato all’immagine dell’invasione barbarica, della sostituzione etnica. Un tema che abbiamo molto sentito ripetere in anni recenti, malgrado le analisi economiche e demografiche che lo smentivano. Un tema nutrito di razzismo verso i non bianchi, di timore degli strati più deboli della popolazione di perdere il loro sia pur minimo ruolo e potere, di paura del diverso. Di qui la stretta sulla concessione della cittadinanza. Avevamo pensato che questa fantasia potesse col tempo essere cancellata o almeno attenuata dall’integrazione, dalla battaglia contro il razzismo, dalla memoria stessa del passato, quando a migrare e ad affrontare le immani difficoltà che questo comportava eravamo noi. In particolare, noi italiani, migranti per eccellenza. Con la memoria delle visite mediche che selezionavano i migranti all’arrivo negli Stati Uniti, accettando solo quelli sani, o delle gabbie dei minatori in Belgio, e così via. Abbiamo anche, negli ultimi decenni, chiuso gli occhi di fronte all’immane ecatombe di migranti nel Mediterraneo, preferendo rifiutare aiuto alle barche in procinto di affondare, e lasciando che il Mare Nostrum divenisse un immenso cimitero sott’acqua. Ma oggi ci troviamo di fronte ad un passo ulteriore, sull’onda di nazionalismi sempre crescenti e di chiusure sempre più strette. Il nuovo presidente degli Stati Uniti ha preso infatti tanto sul serio il suo motto sul primato degli americani, da decretare illegale addirittura il viaggio negli Stati Uniti da parte dei cittadini di numerosi Paesi del mondo. E da tentare di chiudere le prestigiose università americane agli studenti stranieri, di bloccare i più importanti scambi culturali come le borse Fullbright. Il mondo si è ristretto. Significa che, in prospettiva certo, solo chi ha la cittadinanza degli Stati Uniti può calpestarne il suolo. Che le università devono avere solo studenti che siano nati nel Paese. Che alla fine non solo i migranti, ma anche i semplici visitatori saranno lasciati fuori dai confini. Niente più Grand tour, come nell’Italia del Settecento, niente più turismo di massa, come ai nostri giorni. È un esempio che si estenderà al resto del mondo? Certo, è un processo solo iniziato, e ad opera di un personaggio come Trump che definire “strano” è solo un eufemismo. Ma è un passaggio che nessuno, nemmeno i sostenitori della “grande sostituzione” potevano prevedere. Forse si fermerà, ma per ora è cominciato, generando nei viaggiatori timori non infondati di essere fermati per strada e di vedere il loro visto trasformarsi come per magia in carta straccia. Quando non ci sono più regole, tutto diventa possibile. Succederà davvero che la paura del diverso, dello straniero, del migrante si trasformi in una chiusura ermetica dei nostri confini? E cosa comporterà per chi sarà dentro quei confini, oltre che per chi ne resterà al di fuori?