Carceri, la manzoniana esperienza del cuore umano che manca di Valter Vecellio huffingtonpost.it, 14 giugno 2025 Il bollettino di Ristretti Orizzonti contribuisce a renderci più consapevoli e responsabili di una realtà che si tende a ignorare, rimuovere, cancellare dal nostro “orizzonte” perché scomoda e fastidiosa. L’Associazione “Granello di senape Padova - Ristretti Orizzonti” pubblica meritoriamente un bollettino quotidiano sulla situazione e la realtà carceraria. Ecco i titoli di un giorno qualunque, un giorno come tanti. 1) Carceri, occorre agire e affermare l’impronunciabile: indulto e amnistia. Appello di giuristi. 2) “La clemenza non è una brutta parola, non è buonismo, ma è funzionale all’esigenza della sicurezza molto più di un modello basato sull’implacabilità della giustizia”: la riflessione del cardinale Matteo Zuppi richiama tutti, non solo la politica, a fare di più per un’emergenza che interroga la società italiana. Sono stati 91 i suicidi fra i detenuti lo scorso anno, ma ben 1500 i tentativi, spia di un malessere diffuso, preoccupante e crescente. “Facciamo molto poco: un terzo dei detenuti potrebbe uscire per lavorare se solo trovasse un domicilio a cui poter fare riferimento”. 3) Il presidente del Senato Ignazio La Russa: “Chi commette reati deve stare in cella, ma con dignità”. 4) Un uomo si toglie la vita, era detenuto nel reparto psichiatrico del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Il Garante campano dei detenuti avverte: “Questa calda estate e il sovraffollamento stanno già rendendo impossibile la vita nei nostri istituti penitenziari”. 5) Un detenuto di 60 anni, originario della Campania, si è tolto la vita all’interno della sua cella nel carcere di Campobasso. Inutili i tentativi di rianimarlo. 6) In corso le indagini sul detenuto trovato senza vita nella sua cella nel carcere di Bancali a Sassari. Il caso a due mesi di distanza da un’altra tragica morte avvenuta il 21 aprile: un giovane olbiese ha perso la vita in modo tragico, inalando una bomboletta di gas. La vittima aveva solo 24 anni. 7) Arriva la risposta del Ministro di Grazia e Giustizia Carlo Nordio all’interrogazione sul decesso nel carcere di Avellino l’8 febbraio di un detenuto ritrovato all’interno della struttura privo di vita. 8) Lettera aperta dei detenuti della casa di reclusione di Vigevano: presenza di zecche, feci nelle celle, acqua fredda e sporca, materassi e lenzuola sudici, bagni intasati, impianti non funzionanti, pillole consegnate senza confezione: un grido di allarme senza filtri nella lettera firmata da quasi cinquanta detenuti. La missiva collettiva è stata indirizzata al ministero della Giustizia, al Garante nazionale, alle associazioni per i diritti umani. 9) R.C. racconta la sua detenzione nel penitenziario fiorentino di Sollicciano: “Frutta e verdura al limite del marcio, le grida sono assordanti e il caldo insopportabile”. R.C., 94 anni, si dimenticherà dei sei giorni passati in una cella di Sollicciano. Giovedì scorso è stato prelevato da alcuni agenti di polizia da casa sua e trasferito al penitenziario fiorentino. È finito dietro le sbarre per una bancarotta fraudolenta avvenuta tredici anni fa. Una condanna arrivata in primo grado a quattro anni e otto mesi, contro la quale era stato fatto appello nel 2021. La corte d’appello, però, l’anno scorso ha confermato la pena. Nessun ricorso in Cassazione e la pena è diventata definitiva. 10) Disabilità e superficialità giudiziaria: la denuncia di Marco Bongi in un libro-verità. Non si tratta di malagiustizia, almeno non nel senso classico del termine. Ma quello narrato da Marco Bongi, di Mappano, nel suo nuovo libro, “Giustizia cieca. Ricordi e pensieri di un non vedente troppo idealista”, è uno di quei casi in cui la giustizia ha inciampato: nella fretta, nella superficialità, in quel bisogno cronico di trovare in fretta un colpevole, un nome da dare in pasto all’opinione pubblica. Un errore che, come spesso accade, si ripercuote su chi è già fragile, su chi porta sulle spalle il peso di una disabilità e su chi ha osato credere ancora nei valori profondi delle istituzioni. Chissà se oltre alle varie rassegne stampa che Camera e Senato assicurano ai parlamentari è compreso anche il bollettino di “Ristretti Orizzonti”. Di certo verrà compulsato dal ministro della Giustizia e dai suoi collaboratori. Lettura istruttiva e utilissima. Ogni giorno contribuisce a renderci più consapevoli e responsabili di una realtà che si tende a ignorare, rimuovere, cancellare dal nostro “orizzonte” perché scomoda e fastidiosa. Ci ricorda, tra le tante cose, che uno dei presupposti per una buona amministrazione della giustizia è la certezza della pena che viene comminata, ma anche la rapidità di applicazione. Non ha molto senso far scontare una pena a qualcuno dopo anni che il reato, se non è di sangue, si è consumato. C’è poi un punto cruciale: il magistrato, pur laureato col massimo dei voti dovrebbe, all’atto del difficile compito del giudicare, dell’applicare la legge e cercare di fare giustizia, avere quella che per Manzoni “è l’esperienza del cuore umano”. Non si tratta di buonismo, di tolleranza come qualcuno potrebbe sostenere. Piuttosto buon senso (e senso buono). Un paio di esempi, piccoli, di non piccolo significato. Che senso ha incarcerare un uomo di 94 anni per scontare una bancarotta risalente a 15 anni fa? Presentata istanza di differimento della pena per motivi di salute e l’applicazione della detenzione domiciliare, l’istanza inizialmente viene respinta dal giudice di sorveglianza. Cambiato il giudice, sono stati concessi i domiciliari. Alfredo Cospito, l’anarchico condannato a 23 anni per un attentato contro i carabinieri: tanti, considerando che non ci sono stati morti o feriti. Sconta il regime speciale del 41 bis. Ma ha senso negargli libri come i Vangeli apocrifi o romanzi di fantascienza? Costituisce un pericolo essersi opposti per mesi a che potesse tenere la foto dei genitori, entrambi deceduti, appesa alla cella? Da qui gli interrogativi e i dubbi sul giudicare, l’applicare la legge, il cercare di fare giustizia, la manzoniana “esperienza del cuore umano” che si vorrebbe da un giudice. “Fare una passeggiata nelle carceri”, come auspicava Calamandrei di Adriano Sofri Il Foglio, 14 giugno 2025 Il dramma inascoltato dei detenuti è stato al centro dell’incontro a Palazzo Strozzi. Il Gabinetto Vieusseux sta dentro Palazzo Strozzi, come un gioiello discreto dentro lo scrigno più sontuoso. Mercoledì: all’ordine del giorno c’è il progetto che i magistrati alla vigilia dell’entrata in servizio trascorrano un periodo in carcere. Suona come un carnevale, è un’idea perfino ovvia. Nel 1534 Thomas More fu imprigionato nella Torre di Londra: obiezione di coscienza. Alla vigilia dell’impiccagione scrisse: “Siamo tutti imprigionati nella prigione del mondo, condannati e soggetti alla morte […] Così, quando la prigione viene amata come se non fosse una prigione, in un modo o nell’altro la morte ci porta fuori da essa”. Sono parole capaci di risonare ai carcerati più indotti. A quelli che, magari giovani, magari con una pena breve o senza pena, provvedono da sé, e s’impiccano, un termosifone per patibolo. “In un modo o nell’altro la morte ci porta fuori da essa”. Di recente un giudice del tribunale di sorveglianza di Firenze aveva negato l’accesso ai cosiddetti benefici carcerari a un detenuto che aveva tentato di impiccarsi e non c’era riuscito: la prossima volta impara. Nel 1948 Piero Calamandrei, intervenendo in Parlamento, disse: “Bisogna vedere, bisogna starci, per rendersene conto. Ho conosciuto a Firenze un magistrato di eccezionale valore - Pasquale Saraceno - che i fascisti assassinarono nei giorni della liberazione, il quale aveva chiesto ai suoi superiori il permesso di andare sotto falso nome per qualche mese in un reclusorio, confuso coi carcerati, perché soltanto in questo modo avrebbe capito qual è la condizione materiale e psicologica dei reclusi. Vedere! Questo è il punto essenziale”. Più passa il tempo più Calamandrei viene citato - a salve. (Anche dai magistrati che, osserverà Francesca Scopelliti, vanno in pensione e diventano di colpo più saggi). Del carcere si possono usare ogni volta di nuovo le stesse citazioni, con la sola accortezza di postillare con un: “Anzi, oggi è ancora peggio”. Sentite: “Se oggi è diventato un episodio ordinario di cronaca nera, che lascia indifferenti i lettori, il fatto di detenuti che soccombono alle sevizie inflitte nel carcere, si deve ringraziare ancora quel celebre art. 16 del Codice del 1930, che garantendo praticamente l’impunità agli agenti di pubblica sicurezza ‘per fatti compiuti in servizio e relativi all’uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica’, costituiva una specie di tacita istigazione alla tortura”. Questo scriveva Calamandrei nel 1949, e non poteva figurarsi che nel 2025 una legge sveltina avrebbe surclassato quelle norme di impunità agli agenti per fatti compiuti in servizio (e fuori!). Calamandrei aveva un barlume di speranza in più: “Se nel 1904 - al tempo di Filippo Turati - gli uomini politici che avessero esperienza della prigionia si potevano contare nella Camera italiana sulle dita di una mano, oggi nel Parlamento della Repubblica essi sono centinaia; solo nel Senato siedono diverse diecine di senatori che hanno scontato più di cinque anni per condanna del Tribunale speciale. Mai come ora è stata presente nella nostra vita parlamentare la cupa esperienza dolorante della prigionia vissuta…”. Era il 27 ottobre 1948. Il 28 ottobre il ministro di Grazia e Giustizia, il liberale Giuseppe Grassi, gli rispose: “Ella, onorevole Calamandrei, mi ha invitato a fare una passeggiata insieme nelle carceri; ci verrò volentieri, ma un’inchiesta mi pare francamente esagerata”. L’inchiesta avrebbe riguardato “i metodi di investigazione adoprati dalla polizia per ottenere la confessione degli arrestati, sulle condizioni dei detenuti, sui metodi adoprati dal personale carcerario per mantener la disciplina tra i reclusi”. Dunque adesso è chiaro che non è uno scherzo. In tanti hanno via via ripreso l’auspicio. Così Bernardo Petralia, che era a capo del Dap a Capodanno del 2022: “A ogni magistrato farebbe bene una settimana in carcere”. A febbraio non era più a capo. Intanto è già evidente una differenza fra due modi di immaginare il passaggio carcerario dei magistrati. In uno, entrano in carcere nella loro veste, frequentano gli spazi dei detenuti, parlano con loro e con gli agenti, e la sera rincasano. Il secondo modo è di entrare in carcere e viverci alla maniera dei detenuti, compresa la notte. La notte è la verità della galera. È l’esperienza ripetuta del terrore di essere sepolti vivi. “La notte si dorme, e c’è silenzio”. Niente di più falso, si stenta a dormire, ci s’impasticca e il rumore irrompe a tradimento. Di gente che sta male, che ha paura, che ha gli incubi, che è oppressa dal buio pesto o dal neon perenne. “Voglio morire!” “Fai domandina!”. Di gente che muore, che tenta di morire, che finge di dormire mentre il vicino - vicinissimo, crisi degli alloggi, diceva Calamandrei - è andato a tentoni alla turca, forse per pisciare forse per appendersi. Questo secondo modo è ulteriormente diviso: che si stia a tempo pieno, ma restando magistrati riconosciuti come tali, o che, come desiderava quel gran giudice Saraceno, da detenuti confusi con gli altri. Bisogna avere la faccia di Robert Redford, direte. Ma no, vanno bene anche facce qualunque. L’iniziativa è dell’Associazione degli amici di Leonardo Sciascia, e della Fondazione Enzo Tortora animata da Francesca Scopelliti. Simona Viola legge quello che Sciascia aveva scritto sul Corriere nel 1983, nemmeno tre mesi dopo l’infame arresto di Tortora: “Un rimedio… sarebbe quello di far fare a ogni magistrato, una volta superate le prove d’esame e vinto il concorso, almeno tre giorni di carcere tra i comuni detenuti. Sarebbe indelebile esperienza, da suscitare acuta riflessione e doloroso rovello ogni volta che si sta per firmare un mandato di cattura o per stilare una sentenza”. Ci saranno altri incontri, il prossimo a fine mese a San Vittore. Firenze ha i titoli per ospitare il primo. Sono suoi i nomi che hanno segnato l’impegno per l’umanizzazione delle carceri italiane: Mario Gozzini, Sandro Margara, per dire di quelli che non ci sono più e di cui fui amico. E i presenti di oggi. Emilio Santoro, filosofia del diritto, si occupa da sempre di carcere. Una settimana o due da trascorrere in galera, dice, offrono una preziosa selezione per merito dei futuri magistrati. C’è il presidente del tribunale di sorveglianza, Marcello Bortolato. Avevo annotato qui una sua intervista, a proposito della scuola francese che “spedisce” i futuri giudici in galera. “Anche da noi, quando presidente della Scuola Superiore era Valerio Onida, i giovani magistrati in tirocinio erano tenuti a frequentare degli stage penitenziari. Poi, per alcune ingiustificate polemiche che sono sorte anche all’interno della magistratura, non se ne è fatto più nulla… Molti magistrati del penale, ben più di quelli che si possa immaginare, non hanno mai fatto ingresso in un carcere se non nella piccola saletta degli interrogatori. I cancelli raramente sono stati oltrepassati, anche solo per curiosità”. Mi aveva colpito quel: “Anche solo per curiosità”. Ribadisce il favore allo spirito della legge proposta. Perplesso sui 15 giorni per tutti, sulla notte, e sul rischio che includere nella formazione la letteratura su giustizia e carcere la trasformi in una specie di materia dell’obbligo. C’è Fausto Giunta, docente di Diritto penale. Dice con calma cose sconvolgenti. Che nel carcere la pena deve tendere all’umanità e alla rieducazione, e l’ascoltatore pensa: “Ma ci sta ripetendo l’articolo 27 della Costituzione?” - e lui continua, sempre con quella calma, macché, è tutta una balla. C’è un abisso, dice, fra il mondo asettico e astratto, incorporale, del giudice che condanna, e il mondo dei birri cui viene trasmesso il condannato ridivenuto corpo e basta. Questo sa chiunque conosca la galera, e fa sì che la differenza fra chi ci arriva innocente e chi colpevole tenda a ridursi fino quasi ad annullarsi. Anche dopo gli augurabili giorni di galera, l’abitudine, le migliaia di anni inflitti, immunizzano il giudice dallo scandalo. Il suo è un penalismo personalista e liberale - libertario, direi. Ha quel genere di intransigenza che è degli scettici che non cessano di essere utopisti: utopisti per pessimismo, forse. Pensa a un’educazione alla giustizia che riconosca il limite, e la distinzione fra sanzione della colpa e rispetto per la persona. “La visita di un istituto penitenziario dovrebbe rientrare tra le prime esperienze dello studente di giurisprudenza”, dice. Ci sono gli avvocati penalisti, naturalmente, Laura Antonelli, Eriberto Rosso. Conosciamo i tribunali in ogni meandro, in ogni recesso, ignoriamo il carcere. Filippo Donati, costituzionalista, perora con più convinzione la causa della letteratura carceraria, a nutrire la conoscenza del mondo carcerario, cioè del mondo. E c’è Benedetto Della Vedova, per un nutrito gruppo di parlamentari che hanno sottoscritto il progetto della legge. Evoca il manzoniano-sciasciano buon senso contro il senso comune. Insiste sull’intento non punitivo: preoccupazione fondata, in una temperie castigatrice. Eppure non solo chi intraprenda la carriera di giudicare (quella: e chi sono io…?) ma un ordinario cittadino e cittadina, dovrebbe sentire come un privilegio la possibilità di visitare la gabbia dei propri simili e rimirarcisi. Come fanno da anni le scolaresche padovane col carcere Due Palazzi grazie a Ristretti Orizzonti. E anche quando ci si vada ben al riparo, nell’atteggiamento con cui si andava allo zoo, può venirne la lezione che la schiena di un gorilla sa impartire a chi gli fa le smorfie oltre il vetro blindato. Nel programma fiorentino, come in quello prossimo, non figura una sola, un solo detenuto. (Io sono venuto perché sì, e i promotori sono miei amici). Una distrazione strana. Anche della letteratura sul carcere, una parte decisiva è letteratura del carcere. Me, per esempio, dovranno leggermi. Dell’utilità di pernottare in carcere aveva parlato con più vibrante energia Emilio Santoro. Mentre tornava al suo posto gli ho chiesto: “Ma poi alla fine sei riuscito a trascorrere una notte in galera?”. “Macché”, ha risposto, desolato. Alla fine, Francesca mi ha chiesto con che stato d’animo avessi seguito l’incontro. Glielo dico ora. Lo stato d’animo dell’unica persona in sala che aveva trascorso almeno una notte in galera. Del gorilla che dà la schiena alla bambina. Se mi lasciassero andare in galera, da detenuto, un mese all’anno del tempo che forse mi resta, ci andrei di corsa, come si dice. “Tossicodipendenti fuori dalle celle” dice Nordio. Ma è allarme su micro-carceri private di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 giugno 2025 Il ministro ha rilanciato l’idea, ma c’è il rischio che si possano bypassare le comunità accreditate. La proposta delle associazioni: implementare il sistema già esistente. Intervenendo sul palco dell’evento della Corte dei Conti dedicato al sistema carcerario, il ministro della Giustizia Nordio ha rilanciato l’idea di un’alternativa al carcere per i detenuti tossicodipendenti. In realtà, qualcosa era già stato inserito nel decreto “carcere” approvato lo scorso 7 agosto, con l’istituzione di un albo delle strutture residenziali affidato al ministero. Solo che quell’elenco esiste da decenni a livello regionale, con regole chiare, professionalità consolidate e oltre trent’anni di esperienza. E allora: di quale registro parla il ministro Nordio? Quali nuove strutture avrebbero in mente? Una sorta di rete parallela rispetto alle comunità già accreditate? Con quali criteri di selezione? Restano punti oscuri, e intanto associazioni come Antigone temono che si apra la strada a micro-carceri gestiti da privati, simili ai famigerati centri di permanenza e rimpatrio. Viene in aiuto un documento inviato, a ridosso dell’approvazione del decreto “carcere”, dal Coordinamento nazionale comunità accoglienti (Cnca), che conta 240 organizzazioni associate e prende in carico ogni anno 45mila persone, tra cui anche detenuti tossicodipendenti o destinatari di una misura alternativa. Tra i vari aspetti critici, il Cnca indica l’articolo 8, intitolato “Disposizioni in materia di strutture residenziali per l’accoglienza e il reinserimento sociale dei detenuti”, il quale stabilisce che il ministero della Giustizia curi un elenco delle strutture idonee ad accogliere e a favorire il rientro in società delle persone detenute. Lo scopo dichiarato è di semplificare l’accesso alle misure penali di comunità e di rendere più efficace il reinserimento degli adulti ristretti. Le strutture incluse in questo registro dovrebbero offrire assistenza, percorsi di riqualificazione professionale e opportunità di reinserimento socio-lavorativo, anche per chi convive con dipendenze o disturbi psichici, a patto che non richiedano un ambiente di riabilitazione sanitario-specialistico. Qui nasce il primo dubbio del Cnca: quali strutture entrano in gioco? Per chi soffre di dipendenza o di problemi di salute mentale, esistono già servizi del Servizio sanitario nazionale e, quando gestiti da enti privati, comunità accreditate che rispettano requisiti tecnici e di personale fissati dalle regioni. La vera domanda è dunque questa: le “strutture” del decreto si sovrappongono alla rete attuale o ne rappresentano un’alternativa? Se si punta a un sistema parallelo, fuori dai processi di accreditamento, si metterebbe a rischio l’attuale equilibrio pubblico-privato, che assicura interventi socio-sanitari specialistici. Nella peggiore delle ipotesi, si troverebbe spazio per poli con numeri di ospiti più alti, fuori dal controllo regionale e gestiti da privati, senza certezze su obiettivi né metodi di custodia. Il timore è appunto di ritrovarsi di fronte a una riedizione dei Centri di permanenza per il rimpatrio, estesa a tutti i detenuti. In altre parole, si sta davvero aprendo la porta a micro-carceri private? La proposta delle comunità - In realtà, partendo proprio dalle esperienze delle comunità già esistenti, la soluzione più pragmatica è implementare il sistema di servizi già esistente, alleggerire la burocrazia e velocizzare le pratiche dei magistrati di sorveglianza. Ma non solo. Vale la pena riprendere proprio il documento del Coordinamento nazionale delle comunità accoglienti inviato lo scorso anno al Guardasigilli, il quale traccia una road map in tre direttrici per facilitare l’accoglienza dei detenuti tossicodipendenti. Il primo passo è limitare i nuovi ingressi in carcere, riconoscendo che molte tensioni sociali - dalle sostanze stupefacenti ai rave party, dagli “eco vandali” ai reati minori - finiscono per scaricarsi nel penale. Il Cnca chiede una revisione delle norme sulle droghe e una stretta sugli allarmi sociali usati a fini propagandistici, troppo spesso tradotti in nuovi reati o in inasprimenti di pena. Così si alleggerirebbe il sistema giudiziario e si eviterebbe l’effetto diseducativo di sanzioni sproporzionate. Su questa linea, il Coordinamento spinge per forme di giustizia riparativa di comunità e per potenziare misure alternative - messa alla prova, lavori di pubblica utilità - con priorità per le persone più fragili. Per snellire l’emergenza, il Cnca propone un indulto condizionato in appello all’articolo 79 della Costituzione e l’utilizzo degli housing sociali gestiti dalla rete. Le “Case Territoriali di Reinserimento Sociale” (disegnate dalla proposta di legge Camera 1064) diventerebbero nodi chiave per programmi di reinserimento lavorativo e formativo, oltre che spazi di giustizia riparativa. Il ruolo del terzo settore - Con oltre quarant’anni di esperienza, il Cnca ha chiesto la semplificazione delle procedure - in particolare per chi è in attesa di giudizio - e fondi adeguati per i percorsi socio-lavorativi abbinati alle cure. Serve una norma che sciolga il nodo dei migranti senza permesso, permettendo anche a loro di seguire un percorso di pena e cura. I principi che sostengono il lavoro delle comunità accreditate si fondano innanzitutto sulla volontarietà: ogni percorso di cura nasce da una libera scelta, validata dalla certificazione del SerD. Chi accede a una misura alternativa mantiene gli stessi diritti di chi vive fuori dal circuito penitenziario e trova un progetto costruito sul proprio profilo, grazie a una fase preliminare di osservazione condivisa fra servizi e comunità. La residenzialità, pensata per durare fino a 36 mesi, può concludersi in anticipo e lasciare spazio a un affidamento territoriale, mentre chi non ha una dimora stabile ottiene una residenza “fittizia” che garantisce l’accesso al medico di base, a tirocini e opportunità di lavoro. È chiaro poi che le comunità non svolgono funzioni detentive: il loro staff si dedica esclusivamente alla cura e al supporto, mentre eventuali percorsi di giustizia riparativa restano volontari, gestiti da operatori esterni. In ogni fase, la rete territoriale - dai servizi sanitari agli enti del terzo settore - assicura un coordinamento continuo. Infine, spetta a ciascuna comunità decidere quanti posti riservare ai detenuti, calibrando così la propria offerta sulle esigenze del territorio. Quindi, apertura alle intenzioni sicuramente positive del ministro della Giustizia, ma nel contempo - come ha scritto Antigone nel suo ultimo rapporto - un’attenzione a non creare un modello di privatizzazione dell’esecuzione penale. Se è del tutto condivisibile la previsione di un sostegno economico a soggetti privati che accolgano persone in esecuzione penale fornendo loro un alloggio, ben diverso è l’affidamento a tali soggetti del compito del reinserimento sociale. La Russa apre sugli sconti di pena di Mauro Palma La Stampa, 14 giugno 2025 Finalmente anche per il presidente del Senato certezza e fissità non sono sinonimi quando si discute dell’esecuzione penale. Nel rispondere su cosa fare per una situazione penitenziaria a livello di insostenibilità, infatti, egli riafferma la prima e però apre alla seconda. L’esecuzione penale del resto ha bisogno dell’una e dell’altra, cioè di modulare con regole certe un percorso di graduale, quindi non fisso, ritorno positivo alla società esterna. Dunque, il presidente La Russa afferma il suo appoggio alla proposta di intervento, anche retroattivo, sul tempo della pena, con un ampliamento della cosiddetta “liberazione anticipata”: non tragga in inganno questa denominazione perché si tratta solo di una riduzione di giorni di carcere, data dal magistrato a coloro che abbiano mostrato una positiva partecipazione al percorso di trattamento. Nulla c’entra però la “buona condotta” che il presidente evoca come parametro per concederla e che introdurrebbe un criterio di ordine che rischia di aumentare il potere amministrativo delle direzioni. Questo è però un elemento che egli affida al dibattito che il Parlamento sperabilmente riavvierà. Resta però lo stridore di questa apertura con la continua introduzione di nuovi reati e con la trasformazione in reati sanzionati con il carcere di comportamenti che prima costituivano infrazioni disciplinari - vale per tutti il reato di introduzione dei telefonini che non ha prodotto alcuna riduzione del loro numero all’interno del carcere, ma solo ulteriori aggravi detentivi. Per poi giungere ai 14 reati che la nuova legge di conversione del decreto “sicurezza” ha introdotto: inclusa la resistenza agli ordini quale rivolta, sia in carcere sia nei centri per migranti. Un sistema di aumento della penalità e della detenzione mitigato discrezionalmente per i buoni rischierebbe di incidere ben poco sul piano dell’effettività del provvedimento, aggiungendolo a quelli inutili che La Russa elenca pur non ammettendone il fallimento: dal decreto estivo dello scorso anno all’ipotesi di qualche modulo prefabbricato per alloggiarvi poche centinaia di detenuti e pomposamente illustrato come piano carceri. Occorre però dare fiducia alla sua apertura a partire proprio dalla retroattività della misura di cui discute, che porterebbe a escludere tali derive interpretative. “Impossibile difendere i detenuti”. Se ne va l’avvocato Michele Passione di Eleonora Martini Il Manifesto, 14 giugno 2025 Garante nazionale dei diritti delle persone private di libertà Mauro Palma: “Senza lo storico legale, il collegio sparisce dai processi per tortura”. Ha assicurato, ininterrottamente dal 2016, la presenza del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà nei procedimenti contro esponenti delle Forze di polizia accusati di maltrattamenti o torture nei luoghi di detenzione o custodia. L’avvocato Michele Passione, che ha permesso all’autorità di costituirsi parte civile in molti processi, era stato nominato da Mauro Palma, presidente del primo collegio indipendente di garanzia di cui l’Italia si era dotata, ma aveva continuato senza alcun problema a rappresentare anche l’istituzione quando a presiederla c’era il defunto Maurizio D’Ettore, ex deputato di Fd’I. Eppure con l’attuale collegio presieduto dal magistrato Riccardo Turrini Vita non riesce proprio a lavorare. Perciò si è dimesso da ogni suo incarico. “Ho difeso un’istituzione di garanzia che è funzionalmente preposta alla tutela dei diritti dei reclusi, ma non posso continuare a farlo se manca cooperazione e se mi sento a disagio per il modus operandi del collegio”, spiega Passione che, tra le altre cose, è stato tra coloro che hanno elaborato la legge sulla Giustizia riparativa e ha fatto parte degli Stati generali dell’Esecuzione penale convocati dieci anni fa dall’allora Guardasigilli Orlando. Malgrado le dimissioni fossero state trasmesse lunedì scorso, per giorni l’avvocato ha preferito non pubblicizzare la sua decisione. Ma la notizia ha preoccupato gli ex Garanti Mauro Palma, Emilia Rossi e Daniela de Robert secondo i quali, senza lo storico avvocato ora “rischia di restare azzerata la presenza del Garante nazionale nel processo per i fatti di Santa Maria Capua Vetere, San Gimignano, Firenze-Sollicciano, Reggio Emilia, Verona, solo per citarne alcuni”. E le sue dimissioni, scrive l’ex Collegio, possono essere lette come il segno “di una diminuita attenzione agli aspetti di puntuale individuazione e sanzione di comportamenti inaccettabili e offensivi della dignità delle persone ristrette da parte di chi ha istituzionalmente la responsabilità della loro custodia e tutela”. La decisione è stata ponderata accuratamente nei mesi, riferisce al manifesto l’avvocato Passione che risultava ancora difensore del collegio presieduto da Palma. “Avevo fatto presente al presidente Turrini Vita che senza la delega rinnovata non potevo lavorare ad una serie di processi satellite scaturiti da quelli in corso per i fatti del Santa Maria Capua Vetere, di Verona o di Reggio Emilia. Mi ha assicurato che avrebbero proceduto immediatamente al rinnovo, ma così non è stato”. Senza la nomina conferita in fase di indagini non si può partecipare, per esempio, all’incidente probatorio. “Non ho mai avuto risposta ai tanti report inviati, agli aggiornamenti sulle scadenze e così via”. Peraltro, aggiunge Passione, “lo stesso Turrini si era meravigliato che io non avessi mai avuto neanche il fondo spese per le copie degli atti, motivo per il quale avevo dovuto attingere alla cortesia degli altri difensori”. Recentemente l’avvocato aveva segnalato che il 20 giugno è stata fissata l’udienza preliminare per i 14 agenti accusati di maltrattamenti nel carcere di Cuneo: “Non ne sapevano nulla e non ho avuto alcuna indicazione”. E ancora: “Avevo chiesto un incontro per chiarire una serie di situazioni processuali secondo me a rischio. La risposta mi è arrivata dagli altri due componenti del collegio che però rimandavano ciascuno a date diverse. Attendevo un’indicazione dal presidente ma non c’è stata. La sensazione è che davvero non ci sia alcun interesse”. Ma “il vero problema - precisa Passione - credo sia il fatto che il Garante da due anni non relaziona al parlamento sullo stato delle carceri e che, per esempio, non sia ancora andato a visitare il famigerato Cpr in Albania. Perché compito del Garante è verificare con sistematicità lo stato dei luoghi dove legittimamente viene operata una restrizione della libertà personale”. Le dimissioni di Passione preoccupano Pd, Avs e Azione. “È un’altra grave responsabilità di questo governo”, segnala il senatore dem Verini annunciando un’interrogazione parlamentare: “L’ufficio del Garante - afferma - vive in una sorta di torpore, svolgendo una attività di carattere burocratico, venendo meno, nella sostanza, ad un ruolo incisivo e consono al ruolo del Garante stesso” mentre Ilaria Cucchi (Avs) esorta il ministro Nordio a “riferire subito in Aula”. Detenzioni, suicidi e rimpatri. I cittadini tunisini nelle carceri italiane di Luna Casarotti* napolimonitor.it, 14 giugno 2025 Al 31 maggio, i detenuti in Italia erano 62.722, a fronte di una capienza regolamentare di 51.285 posti, con un tasso di sovraffollamento del 134,29 per cento (4.579 posti sono tra l’altro indisponibili per inagibilità). Le condizioni disumane delle persone che vivono in detenzione sono ormai note a tutti: celle sovraffollate, mancanza di accesso regolare alle cure mediche e psicologiche, assenza di mediatori culturali. Per i detenuti stranieri, le barriere linguistiche e giuridiche aumentano l’isolamento e la vulnerabilità. Nel 2024 sono morte duecento quarantotto persone in carcere, per suicidio, malattia, overdose, incuria o violenza. In molti casi, si tratta di morti annunciate, frutto di una sanità penitenziaria al collasso e di una gestione che disattende le norme costituzionali e internazionali in materia di diritti umani. Tra queste morti, novantuno riguardano detenuti che si sono tolti la vita, superando il precedente picco del 2022 (ottantaquattro suicidi). Dietro queste cifre si cela una realtà di disperazione, isolamento e abbandono che colpisce le persone rinchiuse dietro le sbarre. Tra le vittime, almeno quaranta erano detenuti stranieri, dieci dei quali di origine tunisina, una comunità particolarmente vulnerabile nel sistema penitenziario italiano. Nei primi sei mesi del 2025, quattro cittadini tunisini sono morti in carcere. Secondo dati raccolti e confermati dall’ex deputato tunisino Majdi Karbai, i quattordici tunisini morti in carcere nell’ultimo anno e mezzo erano per lo più giovani arrestati per reati minori, intrappolati in strutture sovraffollate e fatiscenti. Un caso emblematico è quello di un giovane di ventisette anni deceduto nel carcere di Piacenza, la cui morte, come tante altre, resta avvolta nel silenzio e nella mancata trasparenza, alimentando dubbi e sospetti tra i familiari. Per gli islamici praticanti, ma anche per chi non riesce a professare la propria fede in maniera piena anche in un paese straniero (cosa tutt’altro che scontata), il suicidio è un atto assai grave, profondamente inaccettabile. Il Corano, d’altronde, come altri testi sacri, condanna apertamente l’autosottrazione della vita: “O voi che credete, non uccidete voi stessi. In verità, Allah è misericordioso verso di voi” (Sura An-Nisa 4:29). “E non gettatevi con le vostre mani nella distruzione” (Sura Al-Baqara 2:195). Se la violenza istituzionale all’interno degli istituti non risparmia nessuno, è vero che le comunità migranti sono spesso le più vulnerabili, dal momento che molti detenuti non hanno alcuna possibilità di far valere le proprie ragioni nell’unico modo possibile agli altri: quello giudiziario. Nel 2023, nel carcere di Reggio Emilia, un detenuto tunisino è stato incappucciato, denudato e picchiato a lungo da dieci agenti penitenziari. Nonostante la presenza di immagini video inequivocabili, il processo di primo grado si è concluso a febbraio 2025 con condanne per abuso d’autorità e percosse aggravate, ma non per tortura. Le parti civili, tra cui l’associazione Yairaiha di cui chi scrive fa parte, e la Procura della Repubblica, hanno fatto ricorso in appello. Diverso l’esito del caso San Gimignano, dove, con sentenza definitiva nel 2025, la Corte d’Appello di Firenze ha riconosciuto la tortura inflitta nel 2018 da quindici agenti a un detenuto tunisino. È una delle rare sentenze in cui la legge italiana sulla tortura, approvata nel 2017, è stata applicata in modo pieno. Le carceri, tuttavia, non sono l’unico volto della detenzione in Italia. I Centri di permanenza per il rimpatrio (CPR), di cui questo giornale si è spesso occupato (per esempio qui e qui), rappresentano una zona grigia e opaca dove i diritti fondamentali vengono sistematicamente annientati. Si tratta di luoghi disumani assimilabili a veri e propri lager amministrativi, dove le persone sono trattenute senza aver commesso reati. Le condizioni sono degradanti, con limitatissimo accesso a cure mediche, supporto legale o mediazione linguistica, in attesa del rimpatrio. Negli ultimi anni, l’Italia ha siglato con la Tunisia un accordo di cooperazione che prevede due voli charter settimanali di rimpatrio. Ogni volo può trasportare da venti a quaranta persone, ciascuna accompagnata da agenti di scorta. Si tratta di operazioni silenziose, spesso eseguite all’alba, senza un’adeguata informazione giuridica e in assenza di un effettivo diritto alla difesa. Nel 2023, il sessantasei per cento dei voli di rimpatrio (settanta su centosei) sono stati destinati alla Tunisia, per un totale di 2.006 cittadini tunisini deportati, su un totale di 2.506 persone rimpatriate. Dal canto suo, la Tunisia promuove quella che definisce “politica di ritorno volontario”, ma la realtà è più sfumata. Secondo il Ministero dell’Interno tunisino e secondo fonti stampa, 3.400 migranti irregolari sono stati rimpatriati volontariamente nel 2025. Numerose Ong denunciano tuttavia che molti di questi rimpatri avvengono sotto pressione, senza un vero consenso informato né assistenza giuridica, e con la minaccia di detenzione per chi rifiuta il ritorno. Emblematico, in questo contesto, è il caso di Wissem Ben Abdel Latif, giovane tunisino di ventisei anni morto il 28 novembre 2021 dopo essere stato legato mani e piedi per oltre cento ore in un letto dell’ospedale San Camillo di Roma, dove era stato ricoverato per disagio psichico dopo un periodo nel Cpr di Ponte Galeria. Wissem era arrivato a Lampedusa a ottobre, con il sogno di raggiungere lo zio in Francia. Durante la sua detenzione, aveva iniziato a manifestare segnali evidenti di sofferenza mentale, ignorati dalle autorità. Nonostante una sentenza del giudice di pace che il 24 novembre aveva disposto la revoca del trattenimento, Wissem non fu mai informato della sua liberazione. Morì pochi giorni dopo, sedato e immobilizzato, senza che nessuno lo assistesse o tutelasse. La sua morte è una ferita aperta che chiama in causa l’intero sistema di gestione della detenzione migrante in Italia. La totale assenza dello stato tunisino in queste vicende aggrava ulteriormente il quadro: né il ministero degli esteri né le rappresentanze consolari si costituiscono parte civile, né offrono assistenza concreta ai familiari delle vittime. È lasciato alle associazioni e ai comitati di lotta il compito di affiancare le famiglie, portare avanti battaglie legali e tenere viva la memoria delle persone uccise dal silenzio e dall’abbandono; chi sopravvive, intanto, dopo essere partito con il sogno di aiutare i propri familiari in patria, non di rado è costretto a tornare al proprio paese sopportando un fardello di vergogna e senso di colpa. La realtà dei rimpatri è quindi fortemente legata alle tragedie delle morti in mare, dei suicidi in carcere, delle torture nei centri di detenzione amministrativa, seguendo il filo rosso di una politica che punta alla rimozione del problema e all’invisibilità delle sue vittime. Ma ogni deportazione lascia una traccia nei corpi, nelle memorie, nelle storie spezzate. Queste morti, infatti, non sono inevitabili: sono il prodotto di scelte politiche, di inazione, di un sistema che criminalizza la povertà e la provenienza. Chi si toglie la vita, spesso non lo fa per scelta, ma per disperazione e invisibilità. Chi muore per incuria o per le botte, è vittima di uno Stato che ha smesso di guardare ai diritti come fondamento della giustizia. *Yairaiha ets El haqq ma ydi’s and Rabbi Man yadus ala karamat ghayrih, sa ya thur yawman bi qadarih ???? ???? ?? ????? ??????? ???? ? ????? ??? ? ??????? ??? ????? ?????? ???? ?? ???? ?????? ??????? ????? ? Un sogno era nella mia mente, ma la realtà mi ha svegliato. Cerco di volare con le mie ali, ma il vento mi ha spezzato. Vivo in un mondo duro, e la felicità mi ha dimenticato. Balti “7elma” (???? Sogno) La giudice Marro: “Con il decreto Sicurezza le carceri collasseranno” di Giulia Casula fanpage.it, 14 giugno 2025 Ora che il decreto Sicurezza è legge, il governo accelera sulle riforme, in particolare su quella della giustizia, che vorrebbe chiudere in vista dei prossimi appuntamenti elettorali. Tuttavia dubbi e criticità permangono. Ne abbiamo parlato con la giudice e presidente di Unicost Rossella Marro. Ora che il decreto Sicurezza è legge, il governo può tornare sul dossier riforme, o meglio sulle due superstiti, premierato e giustizia, dopo la stangata della Consulta sull’Autonomia differenziata. Il disegno di legge sulla separazione delle carriere dovrebbe arrivare in Aula la prossima settimana, come deciso dalla maggioranza che ha tutta l’impressione di voler procedere spedita. L’iter infatti, trattandosi di una riforma costituzionale, sarà piuttosto lungo: è previsto un duplice passaggio in entrambe le camere e un referendum laddove (come è probabile che accada) il testo non incontri nell’ultima deliberazione l’ok di due terzi dei componenti di ciascun ramo del Parlamento. In vista dei prossimi appuntamenti elettorali - le Regionali in autunno e poi le politiche - il governo punta a portare a casa almeno uno dei tre progetti cardine del suo programma elettorale. Con la giudice Rossella Marro, presidente di Unicost (correnti di centro della magistratura), abbiamo parlato delle criticità del dl Sicurezza, che la giudice non esclude possa finire davanti alla Corte costituzionale, e dei rischi legati alla previsione di due percorsi separati per pubblici ministeri e giudici. Partiamo dal decreto Sicurezza. Oltre duecento giuristi ne hanno rilevato i profili di incostituzionalità, sia per il metodo (la decretazione d’urgenza) che per i contenuti, definendolo l’espressione di una preoccupante “deriva autoritaria”. Lei è d’accordo? Il dl rischia di finire davanti alla Consulta? Il dl sicurezza presenta numerosi aspetti critici, sotto il profilo tecnico giuridico, che sono stati evidenziati dallo stesso csm nel parere. Tra tutti, la sproporzione di alcune sanzioni penali previste. È vero che le scelte di politica criminale spettano al legislatore ma non sono esenti da limiti, che sono propriamente quelli costituzionali e in particolare i principi di eguaglianza za e proporzionalità che rendono effettiva la funzione rieducatrice della pena. Una sanzione sproporzionata è avvertita come ingiusta e non può dispiegare la tipica funzione di rieducazione assegnata dall’art. 27 della Costituzione. Assolutamente nuova, poi, la previsione di una risposta penale per la mera resistenza passiva in contesti certamente “complessi” ma in forte frizione con il principio di materialità e offensività che governano il sistema penale costituzionale. In definitiva, non possono escludersi rimessioni alla corte costituzionale. Il decreto introduce nuovi reati e aggravanti, cioè più pene e più carcere, infrangendo le promesse di una depenalizzazione massiccia. Qual è il suo giudizio? Il mio giudizio è che la sanzione penale non è la panacea di tutti i mali e che la politica continua ad addossare sulla magistratura le inefficienze del sistema di prevenzione dei reati, sul quale invece andrebbe investito di più. Una seria operazione di depenalizzazione di ipotesi che possono essere contrastate in via amministrativa o comunque non penale si impone, essendo indispensabile liberare risorse umane e materiali per una più efficace e tempestiva risposta di giustizia per fatti più allarmanti che purtroppo continuiamo a veder accadere. Se pensiamo che l’unico importante intervento di depenalizzazione ha riguardato l’eliminazione dell’abuso di ufficio che sanziona il “sopruso” del pubblico amministratore, il sistema risulta ancor più incoerente. Il ministro Piantedosi sostiene che non ci saranno delle ricadute sul sistema penitenziario, (già al collasso). È così? No, non è così. L’aumento del numero dei reati e l’aumento delle pene per i reati preesistenti sono circostanze destinate necessariamente ad aggravare ulteriormente la già critica situazione carceraria. Peraltro, proprio il dl sicurezza limita in diversi casi l’accesso alle misure alternative alla detenzione. Così si allontana sempre di più la piena attuazione del principio costituzionale della finalità rieducativa della pena e di conseguenza il contenimento del rischio di recidiva nel reato. Veniamo alla riforma della giustizia, che dovrebbe arrivare a breve in Aula. Il governo accelera su un provvedimento molto criticato, soprattutto per quel che riguarda una delle sue modifiche più consistenti, la separazione delle carriere tra pm e giudici. La critica principale è quella di voler asservire i pm, che fanno le indagini, al potere esecutivo. Lei cosa ne pensa? Ritengo che separare il pm dal giudice con la creazione di un csm per i soli pm (oggi nell’unico csm esistente la componente dei pm è presente in proporzione nettamente inferiore a quella dei giudici) renderà i pm molto più forti dei giudici, in contrasto con i proclami della riforma. Un Pm così forte non potrebbe trovare giustificazione e sarebbe naturale il passaggio alla sottoposizione dello stesso al potere esecutivo. Le esperienze dei paesi stranieri ci insegnano questo. Chi la difende però, sostiene che in questo modo, senza “salti” tra una carriera e l’altra, si assicurerà maggiore professionalità, nonché imparzialità di chi giudica… Sotto questo profilo la riforma è inutile perché con le attuali previsioni normative la percentuale dei cambi funzione è ridotta all’osso. Peraltro, le statistiche delle assoluzioni evidenziano l’assoluta autonomia di giudizio e professionalità dei giudici. Un’altra modifica importante riguarda i due Csm separati e formati a sorteggio. Per la maggioranza si tratta di una soluzione alle nomine ripartite in base alle correnti che attraversano la magistratura. Lei è presidente di una di queste, quindi le chiedo: è d’accordo? È una modifica utile o no? Il sorteggio puro dei componenti togati (a differenza dei laici per i quali il sorteggio è temperato) rappresenta una mortificazione delle diverse sensibilità culturali presenti in magistratura e che dovrebbero trovare albergo nell’organo di governo autonomo: neanche l’amministratore di condomino viene designato per sorteggio, figuriamoci i membri di un organo di rilevanza costituzionale. Il csm non si occupa solo di nomine ma di tante altre cose, come ad esempio pareri sulle leggi, circolari sul funzionamento degli uffici, rispetto alle quali il diverso sentire che si compone proprio in seno al plenum ha un valore insopprimibile. Fare luce sul dolore delle famiglie delle vittime di mafia di don Luigi Ciotti Il Manifesto, 14 giugno 2025 Una grande mobilitazione toccherà diverse città, e avrà un momento culminante in una fiaccolata a Napoli insieme a centinaia di loro. Esiste un diritto alla verità, ed esiste un diritto alla giustizia. Perché verità e giustizia sono due pilastri sui quali poggia la convivenza umana. Quale società può funzionare senza fiducia fra le persone? La fiducia che nasce dal sapere che esistono delle regole e delle responsabilità reciproche, e se quelle regole vengono violate da parte di alcuni, spezzando il vincolo di corresponsabilità, tutti gli altri saranno pronti a ricucire la ferita, senza abbandonare le vittime al loro destino. Purtroppo questo non accade per molte vittime della criminalità organizzata e i loro famigliari. L’80% delle famiglie che ha subito un lutto per mano mafiosa ancora non conosce la verità: i fatti, le ragioni, i colpevoli di quella violenza. Parliamo di padri, madri, mariti, mogli, figli e figlie, fratelli e sorelle che insieme all’assenza prematura e straziante della persona amata, patiscono un’assenza prolungata di verità e giustizia. Incontrando le loro storie di sofferenza, fatica e frustrazione, appare chiaro che verità e giustizia non sono “accessori” della vita umana, ma la condizione affinché una vita possa dirsi libera e dignitosa. Né sono soltanto un’esigenza individuale, ma un patrimonio collettivo che serve a innervare di vita le strutture altrimenti astratte della democrazia. Per questo vogliamo che le voci dei famigliari delle vittime innocenti della criminalità organizzata siano oggi più ascoltate, e le porteremo nelle piazze d’Italia con una grande mobilitazione che il 16 giugno toccherà diverse città, e avrà un momento culminante in una fiaccolata a Napoli insieme a centinaia di loro. Sarà una richiesta simbolica di fare luce: luce nella coscienza civile del Paese come dentro ognuno di noi, e luce su tante storie non riconosciute, perché ancora manca un elenco ufficiale delle vittime della violenza criminale mafiosa, a livello pubblico. Fedeli allo spirito di ogni nostra iniziativa dedicata alla memoria, non saremo lì per celebrare in morte coloro che l’Italia non ha saputo proteggere in vita. Scenderemo invece nelle strade per dimostrarci noi più vivi! Più attenti, consapevoli e determinati a cambiare questo stato di cose. “Fame di verità e giustizia” non è soltanto uno slogan. È una piattaforma di richieste chiare alla politica, e sollecitazioni rivolte anche a tutti i cittadini e le cittadine. Perché vediamo troppe coscienze assopite, troppi silenzi, troppe prudenze, troppa assuefazione alle “mezze verità” o “verità di comodo”, nel nostro Paese. La verità va cercata fino in fondo, e la giustizia garantita in modo equo ed efficace. Ecco perché proporremo: che il Diritto alla Verità entri nella Costituzione italiana come diritto fondamentale; il riconoscimento dello status di vittima di mafia anche per chi è stato ucciso prima del 1961; l’equiparazione delle vittime del dovere e delle mafie a quelle del terrorismo; di riflettere su meccanismi come prescrizioni e decadenze, che spesso vanificano i percorsi giudiziari. Un altro punto importante è la richiesta di integrare nel sistema italiano le direttive europee di tutela delle vittime e dei loro famigliari, che prevedono di riconoscere veri diritti, non ambigui “benefici”. Infine, l’appello a non dimenticare le vittime dei reati violenti della cosiddetta “criminalità comune”. Chi subisce un reato non va solo consolato ma soccorso! E rassicurato del fatto che la società sta dalla sua parte: cioè dalla parte del bene e di chi lo compie. Oggi più che mai, è necessario trasformare la memoria del passato in un’etica del presente, e in scelte legislative concrete che di quest’etica rappresentino il braccio operativo. Vi aspettiamo il 16 giugno a Torino, Milano, Bologna, Cesena, Roma, Firenze, Napoli, Foggia e Vibo Valentia. Taser, arresto alla George Floyd, morte: sequenza all’americana a Pescara di Francesco Blasi vocididentro.it, 14 giugno 2025 Un giorno, forse, una verità giudiziaria calerà il sipario sulla vicenda della morte a Pescara di Riccardo Zappone. Ma nessuna sentenza potrà mai sviscerare il contesto culturale in cui i fatti sono avvenuti: la cronaca rimarrà per sempre sospesa in un eterno presente irrisolto e l’inquietudine per la certezza mancata lascerà tutto aperto a beneficio di dibattiti da bar che vedranno scendere in campo i fautori di legge e ordine senza avvertenze e postille contrapposti agli obiettori tout court della violenza, tanto più quando questa emana dallo Stato. La storia è nota: uscito malconcio da una rissa in un’officina meccanica dopo un diverbio con il titolare e due familiari di questi, viene immobilizzato dalla polizia e muore in ospedale, ma dopo essere stato portato in Questura dove era arrivato in pessime condizioni. L’ambulanza viene però richiesta per medicare una sanguinante ferita alla testa. Si è conclusa così, a trent’anni, la vita di Riccardo Zappone. Era la mattina del 3 giugno scorso, lo scenario strada Piana nel quartiere San Donato, lo stesso in cui sorge il carcere di Pescara. Il caso del giovane, che abitava nella vicina San Giovanni Teatino, è stato coperto con una certa ampiezza dalla cronaca locale, spinto dalla presenza della controversa pistola elettrica, il taser, che gli agenti avevano usato per sparare due scariche. Secondo alcune fonti, Zappone aveva assunto cocaina prima delle sue ultime ore in questo mondo. Il riserbo che di solito scatta dopo la morte di una persona passata nella custodia delle forze dell’ordine salta praticamente subito: l’autopsia del medico legale esclude senza mezzi termini la pistola elettrica dalle cause del decesso poiché sarebbe stato un trauma toracico ad aver levato il respiro a Zappone. Alcuni fotogrammi di un video girato col telefono cellulare da una passante ritraggono uno dei tre agenti con un ginocchio sul petto o sulla schiena (la qualità del video non aiuta a capire) del giovane che si dimenava per non essere ammanettato. A questo punto sembra, ma le immagini ancora non sono chiare, che venga azionata la pistola elettrica per la seconda volta. Questo caso sprigiona violenza in ogni fase dei fatti. Dalla rissa nell’officina fino all’intervento dei tutori dell’ordine, alla scelta di condurre in ufficio anziché all’ospedale un uomo ferito nel corso di una colluttazione, sottoposto per lunghi minuti a stress da immobilizzazione con il contorno di scariche elettriche e per giunta sotto l’effetto di droga. In questo tragico episodio si respira a pieni polmoni la confusione tra ordine e disordine nel ripristino della quiete privata e pubblica, nell’officina della rissa quanto in strada. La distinzione è scomparsa giacché i mezzi sono identici: violenza preventiva in fiduciosa attesa di una verità posteriore e postdatata; postuma, in questo caso. La Giustizia non allontanerà mai il sospetto che la forma è ormai divenuta consapevole sostanza: a scagionarla provvederà in automatico il proclamato obiettivo della restaurazione della norma da ottenere con procedure che ancorché sospette devono convincere tutti sulla sua valenza di Bene assoluto e indiscutibile. L’atmosfera della vicenda è resa tossica dalla importazione acritica - e per questo entusiastica, presso molti - di costumi di polizia metabolizzati da oltreoceano dopo una promozione martellante operata dalla propaganda cinematografica, delle “serie televisive” e dai media che ci porgono notizie dagli Stati Uniti. La morte lenta e violenta di George Floyd ora non è l’eccezione, ma la regola assorbita a rilascio lento dalle nostre menti. Il circo della violenza a fini di Bene rischiava di perdere il suo mordente se somministrato, sempre più stancamente con un noioso deja vue, via satellite: è invece impareggiabile il gusto di vederlo finalmente replicato dietro l’angolo di casa nostra in una attesa, sebbene più casereccia e provinciale, riedizione a misura d’italiano. Un essere umano che resiste non va giammai circondato e arrestato in piedi dopo una baruffa, ma messo a terra e schiacciato fino alla passività che può subentrare anche con la morte. Un atto intermedio e di per sé poco interessante come è l’arresto viene così dilatato in una umiliazione pre-giudiziaria a spettacolare gratificazione della platea plaudente. Nella panoplia della nuova polizia non poteva mancare la pistola elettrica. I segni della nuova età a stelle e strisce della performance poliziottesca nazionale devono essere visibili, così come le uniformi di ordinanza di una volta, uguali pressoché per tutti gli agenti in servizio, dagli uffici alla strada, lasciano ora il posto ad accessori specializzati e intimidanti come stivaloni anfibi da guerra e baschi da corpi speciali in luogo dei cappelli con visiera. E la tuta mimetica si avvicina a grandi passi dall’orizzonte. Ora l’agente non lavora più in qualità di pacificatore tra i suoi concittadini, ma scende in battaglia su uno scenario brulicante di nemici che non esiteranno a muovergli guerra guerreggiata. I segni alzano sempre più l’asticella dello scontro violento, di tutte le forze in campo. A nulla è servita l’esperienza fallimentare della Gran Bretagna, dove l’aggiunta della pistola al tradizionale e iconico manganello, decisa per contrastare gli atti di terrorismo nelle grandi città ma poi estesa a tutti i posti di polizia in ogni angolo della nazione, ha avuto l’effetto di decuplicare le sfide violente, fai-da-te e individuali, alle forze dell’ordine. La militarizzazione di tutti i corpi di polizia, smantellata per legge a più riprese a partire dagli anni Settanta per chiudere la stagione rosso sangue delle truppe di Scelba, ritorna prepotente sotto altre spoglie anche con la progressiva scomparsa dei vigili urbani, una volta impiegati comunali in divisa addetti alle notifiche di atti e alle multe per divieto di sosta. Al loro posto si è materializzata la “polizia locale” con funzioni giudiziarie sotto coordinamento nazionale, una filiazione per partenogenesi politica che incrementa uomini e mezzi per militarizzare ulteriormente i nostri territori già primi in Europa per densità di divise e uniformi. La stagione attuale, con un governo di destra in sella, è quanto mai prima propizia per il cortocircuito permanente tra finzione cinetelevisiva e realtà della cronaca. Il decreto-legge “Sicurezza” è risposta pedestre e insensibile ai disagi che scavano la società come un tumore; di fatto il farmaco è parimenti cancerogeno, forse perché il rimedio deve per forza essere peggiore del male, secondo un disegno che conduce direttamente a uno stato di polizia. Lazio. L’Università come riscatto per le persone detenute di Eleonora Mattia huffingtonpost.it, 14 giugno 2025 Nel Lazio ci sono 326 detenuti iscritti a un corso di laurea. Un dato che accende una speranza a beneficio di tutta la società e che abbiamo il dovere di sostenere. Ho sempre pensato che lo stato di salute di una società civile si evince da quanto essa si prenda cura delle sue componenti più vulnerabili, accogliendole e non rimuovendole. In tal senso le carceri sono un ambito d’intervento essenziale, non solo per le emergenze già tristemente note come i suicidi, il sovraffollamento e altre condizioni di disagio, ma ancora per la proposta di percorsi di recupero e reinserimento sociale, che possano dimostrare che lo Stato vuole davvero continuare a investire sul reintegro delle persone detenute. Di recente, in un convegno intitolato “L’Università in carcere: lo studio come riscatto” che ho promosso presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università Roma Tre, una delle tante testimonianze delle operatrici e degli operatori faceva notare come nella parola “riscatto” ci sia tutta l’essenza del destino di una persona detenuta, una parola dove una semplice lettera, la “s” può fare la differenza e cambiare le sorti di una persona trasformandone la condizione svantaggiosa di “ricatto” a una più promettente di “riscatto”. Questo è il potere riabilitante che può avere un percorso di formazione e istruzioni su una persona detenuta. Dal confronto svoltosi nell’ateneo romano è emerso che nel Lazio ci sono 326 detenuti iscritti a un corso di laurea. Un dato che accende una speranza a beneficio di tutta la società e che abbiamo il dovere di sostenere. La sfida collettiva che possiamo assumerci è aumentare a un milione di euro le risorse destinate alla legge regionale 7 del 2007 per la tutela dei diritti delle persone detenute, invertendo la tendenza che oggi registra una riduzione del 42% dei fondi regionali, passati dai 950mila euro stanziati nel 2022 ai 550mila per il 2025. Ma non è solo una questione di risorse economiche. Diverse le misure necessarie per garantire la continuità e la qualità dei percorsi di studio. Come segnala infatti l’ultima Relazione del Garante per i diritti delle persone detenute del Lazio relativa al 2023, la principale difficoltà è garantire continuità dei percorsi formativi, spesso condizionati dai trasferimenti dei detenuti; servono inoltre ambienti idonei, come aule studio e biblioteche e la presenza di tutor che possano seguire gli studenti. La Regione Lazio inoltre potrebbe prevedere apposite borse di studio, da concedere agli studenti, i cui criteri di assegnazione potrebbero essere legati ad esempio al superamento degli esami o al conseguimento dei titoli di studio, onde evitare quella distribuzione, a pioggia, che costituisce non solo uno sperpero di denaro pubblico, ma è soprattutto diseducativa. Tra i prossimi passi, incentivare la creazione di poli universitari nei luoghi di detenzione. Perché se da un lato c’è la forma mentis dello “scarto” sociale, del rimosso, dall’altro c’è al lavoro, nonostante le difficoltà, un mondo ricco di professionalità, competenze e umanità, che mette cuore e testa nel costruire un orizzonte di speranza. Milano. “Scelti con scrupolo i detenuti che lavorano all’esterno” di Giampiero Rossi Corriere della Sera, 14 giugno 2025 A un mese dalla vicenda di Emanuele De Maria, il detenuto in semilibertà che ha ucciso la collega Chamila Wijesuriya e ne ha ferito gravemente un altro, spiega perché il “modello Bollate” è ancora valido. “Vanno a lavorare all’esterno persone nelle quali è stata riposta fiducia, non in modo aleatorio ma attraverso un percorso lungo, articolato e partecipato che è ciò che rende questo istituto unico in Italia”. Giorgio Leggieri è dal 2021 direttore del carcere di Bollate, un ambiente dove il visitatore può circolare liberamente tra i reparti con cancelli e celle aperte, faticando a distinguere chi è detenuto da chi non lo è. Leggieri accetta di parlare a distanza di un mese dalla drammatica vicenda che ha avuto per protagonista Emanuele De Maria, che lavorava in un hotel milanese in regime di semilibertà mentre scontava una condanna a 14 anni per femminicidio. E che, la mattina del 10 maggio, ha ucciso la collega Chamila Wijesuriya, ferito gravemente un altro, Hani Nasr, e il giorno dopo si è ucciso gettandosi dalle terrazze del Duomo. Un episodio terribile, che ha innescato dubbi e polemiche sul modello Bollate. Direttore, innanzitutto, perché non è intervenuto subito, di fronte alle strumentalizzazioni di chi vorrebbe “buttare via la chiave”? “Per una questione di opportunità. Subito dopo una tragedia simile non ha senso intervenire con numeri e dati, perché non c’è cifra che tenga di fronte alla vita umana e al dolore delle persone, almeno in quel momento non possono stare sullo stesso piano”. Ma qual è stato l’impatto di quelle notizie qui, all’interno del carcere? “Sul piano emotivo sono notizie dirompenti, perché all’esterno vanno persone sulle quali si è riposta fiducia, non in modo aleatorio ma dopo un lungo lavoro. Un fatto del genere mette ogni volta tutto in discussione, innesca un effetto a cascata su tutta la comunità di Bollate, che rischia sempre una chiusura, una regressione. È come una risacca che travolge tutti”. Come si arriva alla decisione di concedere il lavoro esterno a un detenuto? “È un percorso, complesso, al quale partecipano tante persone, tante professionalità, costantemente monitorato, c’è una continua circolazione di informazioni, non si tratta di procedure burocratiche ma di cognizione di causa, non ci sono né superficialità né buonismo, ma soltanto un sano pragmatismo fondato su equilibrio e oggettività. Insomma, un lavoro faticoso anche per gli stessi detenuti, magari abituati alla deresponsabilizzazione e infantilizzazione in alti istituti, che qui si trovano persino disorientati nel dover compiere scelte e assumersi responsabilità. Il lavoro si svolge prima dentro il carcere e sa come ci si accede? Attraverso bandi. E questa è una sfida non da poco per chi, magari, non sa come sia fatto un curriculum e non si è mai misurato davvero”. E i risultati? “Torna a delinquere il 5% di chi lavora all’esterno e l’1,2% in cinque anni ha commesso un reato durante i benefici. Viceversa è recidivo il 69% di chi sconta la pena solo in carcere. Ma questo non fa rumore”. Ma allora perché il modello Bollate non viene ricreato altrove? “Perché questo istituto è nato, così e continua a crescere a vivere così da 25 anni, ci sono persone che sono cresciute con il “trattamento avanzato” e altre che sono arrivate qui respirando il clima che conduce tutti ad agire per un obiettivo chiaro: orientare verso la società civile”. Vigevano (Pv). Incertezza sul futuro del carcere: l’interrogazione dei deputati Pd di Umberto Zanichelli informatorevigevanese.it, 14 giugno 2025 Si ipotizza la chiusura della sezione femminile sostituita da una di detenuti al 41-bis. Un futuro tutto da capire. È quello della casa di reclusione di Vigevano, struttura che oggi ospita 360 detenuti contro i 226 posti disponibili a fronte di 200 agenti della polizia penitenziaria in servizio rispetto ai 315 previsti dalla pianta organica. Da qualche tempo si rincorrono voci circa la possibile chiusura della sezione femminile che sarebbe sostituita da una con detenuti al regime del 41-b, vale a dire il regime di detenzione che prevede l’isolamento dei detenuti in celle singole e controllate 24 ore su 24. Una preoccupazione che ha spinto Silvia Roggia, deputato del Partito Democratico e segretaria regionale lombarda del Pd lombardo a presentare una interrogazione firmata anche dai deputati Cuperlo, Forattini, Girelli, Guerini, Quartapelle e Peluffo con la quale si evidenza la situazione. “Secondo fonti qualificate - si legge nel documento - si apprende che sarebbe imminente il trasferimento delle detenute del carcere di Vigevano in altri istituti di massima sicurezza. La conseguenza sarebbe la creazione di una sezione destinata ai detenuti sottoposti al regime previsto dal 41-bis. La scelta avrebbe come riflesso una drastica riorganizzazione del personale della polizia penitenziaria che correrebbe il rischio di esuberi e trasferimenti non volontari, oltre a rilevanti impatti sul tessuto sociale e lavorativo del territorio. Parliamo di famiglie - si legge ancora - che a Vigevano hanno costruito il proprio progetto di vita sulla base della stabilità occupazionale fornita dalla struttura e che invece dovranno subire una decisione calata dall’alto, senza alcuna comunicazione formale e che nei fatti sarebbe inaccettabile. E non meno grave è il fatto che i 12 milioni e mezzo di euro, a suo tempo stanziati per la realizzazione del nuovo padiglione, al momento risultino sospesi senza alcuna spiegazione”. Roma. Tribunale di sorveglianza Roma, Coa: “La libertà può attendere” Il Sole 24 Ore, 14 giugno 2025 Il Presidente Nesta scrive al Ministro Nordio: “Situazione drammatica, misure alternative ferme, detenuti languono in carcere per mancanza di personale”. “Gravissime carenze d’organico al Tribunale di Sorveglianza di Roma”. La denuncia arriva dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma, che fa proprio l’allarme lanciato dal Presidente dell’ufficio, la dottoressa Marina Finiti. In pianta organica infatti mancano ben 22 unità amministrative sulle 77 previste. Scendendo nel dettaglio sono in servizio solo 2 cancellieri su 14 e 3 direttori amministrativi su 6. Una situazione di criticità “insostenibile” che ha spinto il Presidente del COA Paolo Nesta a scrivere al Ministro Nordio per sollecitare interventi urgenti. “La situazione è drammatica - spiega Nesta - parliamo di un ufficio giudiziario deputato a vigilare su tutte quelle misure che incidono sulla libertà personale. E attraverso i colleghi, in particolare i Consiglieri Lepri e Comi, ci giungono molte segnalazioni di casi in cui detenuti che avrebbero diritto a fruire di misure alternative alla detenzione, languono in carcere per mancanza di personale che possa occuparsi della loro vicenda”. “Una condizione gravissima - conclude Nesta - specialmente in un contesto in cui spesso si lancia l’allarme sul sovraffollamento carcerario. Per questa ragione ho scritto al Ministro per chiedere unitamente alla Presidente Finiti di intraprendere tutte le azioni necessarie a porre termine a questa drammatica ingiustizia, intollerabile in uno Stato che pretende di definirsi di diritto”. Bologna. La visita di Extrema Ratio alla Dozza con Casini, Giachetti e Mulè: “Agire subito” Il Dubbio, 14 giugno 2025 Una delegazione dell’associazione Extrema Ratio ha visitato ieri la Casa circondariale della Dozza di Bologna, accompagnata dal vicepresidente della Camera Giorgio Mulè, dal senatore Pierferdinando Casini, dal deputato Roberto Giachetti e dalla Camera penale di Bologna “Franco Bricola”. Sovraffollamento, carenza cronica di personale e condizioni materiali inadeguate: la struttura ospita attualmente 757 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di poco più di 450 posti. Gli educatori sono soltanto 9, molte celle presentano materassi da sostituire, impianti doccia malfunzionanti e pareti segnate da muffa. Anche il corpo di polizia penitenziaria opera in forte carenza d’organico. È emersa con chiarezza una realtà che purtroppo rappresenta la regola nel sistema penitenziario italiano. Extrema Ratio lancia quindi un appello: “Serve un cambio di passo urgente e trasversale. La dignità della pena non è tema da affidare alla contesa ideologica. Non è questione di destra o sinistra, di laici o cattolici, di progressisti o conservatori. È un principio fondativo dello Stato democratico, che impone a tutti, istituzioni e società civile, di agire con responsabilità. Non a caso”, si legge ancora nella nota diffusa dal direttivo di Extrema Ratio, “l’associazione ha deciso invitare e coinvolgere tre autorevoli parlamentari, provenienti sia dalle fila dell’opposizione che della maggioranza, esponenti di culture politiche diverse ma dalla condivisa e nota sensibilità garantista, a vedere, in prima persona, le condizioni disumane in cui versano i detenuti. In un contesto penitenziario segnato da povertà, disagio psichico e dipendenze, i principi costituzionali di umanità della pena e di funzione rieducativa, sanciti dall’art. 27 della Costituzione, rischiano di rimanere lettera morta e la denuncia non basta più: servono proposte concrete”. E il comunicato ricorda “la liberazione anticipata speciale, rilanciata dall’Onorevole Giachetti e apertamente sostenuta dal Presidente del Senato Ignazio La Russa, anche grazie all’impegno di Rita Bernardini. Una misura che, pur non risolvendo da sola i problemi del sistema, rappresenta un primo passo concreto verso la riduzione del sovraffollamento e il ripristino di condizioni rispettose della dignità umana. Non c’è più tempo. È ora di trovare almeno una soluzione a breve termine”. Roma. “Così offriamo una seconda chance a detenuti che vogliono voltare pagina” di Giovanni Longo Piazza San Pietro, 14 giugno 2025 Il lavoro oltre le sbarre per rinascere e non ricadere nel baratro. Un progetto sulle orme di papa Francesco. Nel cuore di Papa Francesco i detenuti hanno sempre avuto un posto speciale. “Perché è toccato a loro e non a me?” ripeteva quando visitava un carcere. Durante il suo pontificato non si contano le iniziative finalizzate alla inclusione di chi vive dietro le sbarre, l’ultima in ordine di tempo prima della scomparsa, la donazione di 200mila curo dal suo conto personale destinati al pastificio dell’istituto per minori Casal di Marmo di Roma: lavoro come leva per il riscatto di chi ha sta pagando o ha già pagato il suo conto con la giustizia. Insomma, una “Seconda Chance”, nome dell’associazione che si propone di mettere in connessione aziende ed amministrazioni penitenziarie e di far conoscere alle imprese la legge Smuraglia (193/2000), norma che offre agevolazioni a chi assume detenuti ammessi al lavoro esterno. Trai vari progetti in corso, quello in collaborazione con McDonald’s ed il penitenziario di Rebibbia: “Abbiamo voluto impegnarci concretamente per dare una seconda possibilità a chi si è perso, ha avuto un percorso di vita travagliato e die si trova di fronte a un bivio: rientrare nel baratro o uscire dal tunnel”, racconta Domenico Di Carluccio, MDC Fast Food, Licenziatario McDonald’s. “Nella cacca dei valori di McDonald’s l’inclusione è molto sentita. Con questo progetto sostanzialmente andiamo nelle carceri insieme all’associazione Seconda Chance, conosciamo detenuti che stanno per uscire e che si apprestano a ripartire. Con l’aiuto del personale degli istituti, cerchiamo di selezionare profili che riteniamo possano trovarsi bene nei nostri ristoranti, aiutandoli a iniziare una seconda vita fuori dal carcere”. I numeri di questo progetto cominciano ad essere importanti: Seconda Chance ed i Licenziatari McDonald’s collaborano ad o con circa 30 penitenziari ed hanno formulato 50 proposte di lavoro su 40 ristoranti (fonte Seconda Chance). Il progetto è partito da circa un anno, e si sta sviluppando molto rapidamente. “Tutto è iniziato con un passaparola tra noi licenziatari” spiega Di Carluccio. Un ospite dell’istituto per minori di Casal del Marmo, lo stesso al quale Papa Francesco ha donato i suoi ultimi averi, sta per avere la sua opportunità, ma ci vorrà ancora un po’ di tempo. È in Fase più avanzata, invece, il progetto gemello con il carcere romano di Rebibbia. “Qui abbiamo già selezionato Luigi (nome di fantasia per non renderlo identificabile, ndr), 21 anni, un ragazzo che ha perso suo padre quando era molto giovane, che ha sbagliato anche per colpe non sue, cadendo nel mondo dello spaccio e che, appunto, ha tanta voglia di voltare pagina. È stato necessario un anno intero per entrare nella Fase operativa, l’iter burocratico è complesso, ma alla fine ce l’abbiamo fatta: da poco Luigi ha iniziato a lavorare nel mio locale”. Di Carluccio racconta di essersi trovato eli fronte al bivio se raccontare oppure no ai suoi collaboratori la storia di Luigi. “È stato proprio lui a sciogliere il dubbio, dicendomi che non voleva nascondere nulla di sé ai suoi nuovi colleghi. Non potrò mai dimenticare la reazione dei miei collaboratori al suo arrivo: lo hanno fano sentire sin da subito uno della squadra. Ho visto una partecipazione emotiva talmente forte che mi ha commosso, coinvolto e spinto a proseguire nel progetto”. Del resto, McDonald’s, in un certo senso, rappresenta già una “prima chance” per tanti giovani. “C’è chi entra nel mondo del lavoro partendo con noi. Qualcuno rimane facendo carriera, altri imboccano altri percorsi con una maggiore consapevolezza e dopo avere fatto esperienza in un contesto in cui ci sono regole, policy, gerarchia aziendale. È un’esperienza molto formativa. McDonald’s è una multinazionale che gestisce uno tra i primi 10 brand al mondo, che con i suoi ristoranti è anche molto capillare e ben radicata sul territorio. Responsabilità, opportunità e, appunto, anche attenzione agli ultimi e inclusione”. Come nel caso del percorso pensato su misura per i detenuti, ma non solo. “Siamo impegnati anche in progetti con ragazzi diversamente abili, persone speciali che rappresentano un valore aggiunto per noi”. Perché l’altro aspetto è rappresentato dal segno die lasciano ragazzi più fragili e da ciò che loro trasmettono. “Risvegliano in noi imprenditori e nei nostri collaboratori un senso forte di solidarietà: la gioia di dare qualcosa e offrire una opportunità a qualcuno che avverte un bisogno e che lotta per superare una situazione di disagio non ha prezzo”. Pescara. D’Alfonso (Pd) sul carcere di San Donato: “Delocalizziamolo” ilpescara.it, 14 giugno 2025 “Lavorare sulla delocalizzazione del carcere di Pescara, raccogliendo la sfida della grande realtà metropolitana”. A sostenerlo è il deputato Pd Luciano D’Alfonso, ribadendo “i tre gravi problemi sostanziali: la carenza di personale, con 58 unità in meno e un direttore in prestito; il sovraffollamento di detenuti con un’eccedenza di 100 unità; le carenze infrastrutturali a partire da una recinzione che ha una consistenza di altezza inadeguata agli standard di sicurezza”. Delocalizzare, però, non significa prendere in considerazione, secondo il parlamentare abruzzese, solo le due città di Montesilvano e Spoltore, ma anche altri Comuni (della parte piana) della Provincia. Il parlamentare abruzzese parla di “operazione verità”, ricordando anche quanto fatto per cercare di risolvere le criticità. “Il 26 febbraio scorso ho presentato un’interrogazione a risposta scritta al ministro Nordio sulla situazione della struttura, ricevendo una risposta puntuale e che affronta vari nodi facendo riferimento al decreto Carcere sicuro 92 del 2024”, riferisce. “A determinare l’interrogazione era stato il suicidio, l’ultimo solo in ordine temporale, di un detenuto di 24 anni di nazionalità egiziana, quindi la rivolta di altri detenuti che stavano con lui per manifestare solidarietà, con un incendio e il danneggiamento di vetri blindati”. Un episodio, fa notare D’Alfonso, “che ha permesso di far emergere, anche per il Ministro Nordio, che ci sono problemi oggettivi e reali per la struttura detentiva”. Il primo fra tutti è il sovraffollamento dei detenuti, visto che c’è un’eccedenza di 100 unità con 378 detenuti a fronte di una capienza massima regolamentare di 276 posti, con una percentuale di affollamento del 155,56 per cento. “Questo significa che ogni detenuto ha 3metri quadrati di spazio disponibili”, dice il deputato. Poi aggiunge: “Sappiamo che sono in corso micro-interventi di manutenzione e siamo in attesa di una perizia di 194mila euro per la ristrutturazione del piano terra del reparto penale e di 1milione 80mila euro per l’intervento di adeguamento edile e funzionale del muro di cinta, al fine di risolvere il problema della recinzione”. Intanto, però, D’Alfonso torna sulla delocalizzazione. “Sapendo che sta per arrivare l’autonomia come Provveditorato per le esigenze gestionali della casa circondariale abruzzese con l’istituzione di un 13° Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria per l’Abruzzo e il Molise con sede a Pescara, e sapendo dunque che ci siamo sganciati dall’Umbria, perché non cogliere tale circostanza e l’occasione offerta dal cammino verso la nuova Pescara, perché non raccogliamo la sfida della delocalizzazione? Non possiamo aspettare ogni 18 mesi una rivolta, perché la detenzione in una casa circondariale deve servire per rieducare, chi va dentro non deve perdere la vita, il suicidio è un marcatore tumorale di ciò che non funziona. E anche la buona notizia dell’autonomia del Provveditorato perde di senso se poi deve assorbire e correre dietro alle emergenze ordinarie, sapendo che il sovraffollamento è il problema reale come rilevato dai sindacati e dai familiari dei detenuti. Mi chiedo: perché non cogliere la grande abbondanza delle risorse finanziarie messe in campo dal ministero della Giustizia?” Il deputato dem propone l’apertura di un dossier con i Comuni della parte piana della provincia che hanno capienza di suolo e territorio per un patto collaborativo. Pescara, in sostanza, dovrebbe trovare una convergenza collaborativa con i Comuni della provincia, così come è stato fatto per l’interporto di Manoppello, l’agroalimentare di Cepagatti e per l’aeroporto. Ragionare con i territori di confine è dunque importante, per D’Alfonso. “Questo non vuol dire Spoltore o Montesilvano, ma vuol dire la provincia di Pescara tutta intera, ragioniamo per uno scambio di convenienze, opportunità, per il territorio che ospita e per il territorio che lascia”, sottolinea. Secondo D’Alfonso, “va fatto un lavoro di riorganizzazione sapendo che Pescara e Chieti saranno il fulcro. La risposta del ministro pone spazio per aprire un dossier e trovare una misura d’intervento che sia all’altezza”. Catania. “L’università fa bene al carcere... e viceversa” di Alfio Russo unictmagazine.unict.it, 14 giugno 2025 A dirlo è Giancarlo Monina, presidente della Assemblea Nazionale dei Delegati dei Rettori per i Poli Universitari Penitenziari, che ha offerto una panoramica dei poli universitari penitenziari. “I Poli universitari penitenziari sono una realtà molto consolidata. Basta considerare che siamo partiti nel 2018, all’atto della fondazione della Conferenza nazionale universitaria dei poli penitenziari, in 22 università che si sono associate per garantire il diritto allo studio alle persone private della libertà personale e in circa sette anni si è arrivati a 47”. A dirlo, con un pizzico di orgoglio, è Giancarlo Monina, presidente della Assemblea Nazionale dei Delegati dei Rettori per i Poli Universitari Penitenziari, che è intervenuto all’Università di Catania in occasione della presentazione del Rapporto 2025 della Cnupp. “Anche se non tutti gli atenei sono già attivi, occorre evidenziare il dato della crescita, è un segnale di vitalità importante - ha spiegato -. Anche sul piano dei numeri della crescita degli iscritti e delle iscritte, ci piace anche ricordare che ci sono delle detenute iscritte. Seppur il numero delle iscritte, appena 68, è inferiore agli iscritti, ben 1.769, rapportando il tutto alla popolazione detenuta, possiamo affermare che in proporzione siamo sempre intorno al 3 per cento sia nel caso degli uomini, sia delle donne”. “Come potete pensare, il 3% non è un numero enorme, ma è un numero molto significativo perché stiamo parlando di una popolazione, di un settore poco scolarizzato e quindi anche riuscire a raggiungere quel numero è molto significativo”. Gli studenti iscritti su scala nazionale - “Su scala nazionale è tutto abbastanza proporzionale alla popolazione detenuta, anche perché al Sud non è che ci sia un numero così maggiore di detenuti e di detenute, sappiamo che il numero maggiore è in Lazio e in Lombardia e in effetti, in queste due regioni, si registra un numero maggiore di iscritti e di iscritte ai poli universitari penitenziari. Poi chiaramente c’è la Campania e la Sicilia che hanno un numero molto significativo”, ha spiegato Monina. “La Sicilia, ovviamente, ha una rete di poli universitari penitenziari destinata sicuramente a crescere perché è relativamente nuova in questa esperienza, ma è una regione che si è subito molto ben organizzata”, ha aggiunto. Cosa offriamo agli studenti-detenuti e cosa si aspettano - “Dobbiamo valutare in maniera un po’ diversa rispetto al consueto mondo universitario, quello penitenziario è un poì diverso perché occorre tenere in conto due dati che variano il nostro immaginario: uno è rappresentato dall’età media dei nostri studenti detenuti che è intorno ai 45 anni, quindi non stiamo parlando di giovanissimi che si stano formando regolarmente, ma in questo caso sono figure, persone adulte che riprendono magari gli studi dopo tanti anni o che hanno fatto il percorso di scolarizzazione all’interno del carcere”, ci tiene a sottolineare Giancarlo Monina. “L’altro dato è relativo al fatto che molti degli studenti-detenuti hanno lunghe pene da scontare e quindi la prospettiva professionale-lavorativa relativa ad un reinserimento nella società va affrontato quasi individualmente. Indubbiamente la durata della pena e l’età a volte avanzata del detenuto hanno un peso - ha aggiunto -. Poi ci sono, invece, i casi in cui le aspettative di mettere a frutto la laurea sono maggiori. Altro discorso da fare è il dare un valore anche sociale all’attività universitaria, che non è solo l’acquisizione del titolo perché in alcuni casi occorre svolgere percorsi di avvicinamento al titolo crescendo, cambiando personalità all’interno del carcere. In alcuni casi si consegue la laurea senza grosse finalità professionali, ma solo per finalità di reinserimento sociale”. “Il titolo di laurea è sempre un valore aggiunto, lo è addirittura anche per quelli che all’interno delle carceri circondano gli studenti detenuti, cioè la presenza dell’università in carcere è un volano importante, è un presidio di cultura, di diritti, di democrazia”, ci tiene a sottolineare il presidente della Cnupp. Detenuti-laureati: reinserimento sociale e abbattimento della recidiva - “Non abbiamo molti dati sui detenuti-laureati che fuori dal carcere hanno avuto modo di far valere il titolo conseguito per il semplice motivo i poli universitari penitenziari sono un’esperienza relativamente giovane e, quindi, occorre affinare alcuni processi, tra questi anche quello dell’inserimento nel job placement dei propri studenti, studenti detenuti, ex detenuti. Quindi non abbiamo un dato completo, bisognerà rinnovare la ricerca su questo”, ha spiegato Giancarlo Monina. Ma un dato però è certo: il laureato-detenuto non commette più reati. “Proprio così, si abbatte la recidiva - sottolinea -. Addirittura si parla di un passaggio dal 65%, che è la media nazionale dei soggetti recidivi senza titolo di laurea, all’1,7% di chi ha conseguito il titolo. Anche in questo caso il dato va approfondito, ma in prima battuta sono questi i dati che ci vengono restituiti”. Un sistema che coinvolge tutta la comunità accademica - “I poli universitari penitenziari richiedono, lato universitario, la presenza, non solo dei docenti, ma anche dei tutor junior e senior, ovvero anche studenti che si spendono in un qualcosa che obiettivamente non è facile. E più che rivolgere un messaggio a loro, sono proprio i docenti e soprattutto gli studenti che partecipano al sistema a dare un messaggio forte a noi. È una esperienza formativa importante per tutti, non solo all’interno del carcere, ma è formativa anche fuori dal carcere. Lo è per tutti quelli che in un modo o in un altro hanno toccato con mano questa esperienza, un’esperienza umanamente fondamentale, ma anche culturalmente, diciamo come apertura e orizzonte dell’idea di cittadinanza, dell’idea di democrazia, di partecipazione, di costruzione delle relazioni”, ha spiegato Giancarlo Monina. “Io uso questo slogan un po’ abusato forse, ovvero che l’università fa bene al carcere, ma è anche il carcere che fa bene all’università e fa molto bene anche ai docenti e alle docenti, che spesso vivono in una sorta di bolla e una esperienza del genere permette loro anche di vivere una dimensione più vera per certi versi”, ha aggiunto. Una rete in continua crescita - “Sicuramente sì, e sicuramente occorre migliorare l’efficienza di questa rete, la capacità di essere presente all’interno del carcere, perché il carcere è un luogo dove molta della dignità umana viene persa. Conosciamo tutti la situazione che purtroppo si esemplifica anche in quel drammatico dato dei suicidi, nel sovraffollamento e sappiamo che l’università può giocare invece un ruolo importante, anche come presidio di democrazia e di diritti, questo bisogna dirlo. Noi dobbiamo sfondare la porta chiusa del carcere. Il carcere diventa può diventare una risorsa per la società”, ha detto Giancarlo Monina. “Sembra un paradosso, perché noi li rinchiudiamo, perché hanno compiuto effettivamente dei reati, ci sono anche dei dati di pericolosità, di sicurezza, però è soltanto sfondando questa porta chiusa, questa barriera, che si riuscirà a reintegrare e a costruire una società più giusta, più serena, più sicura e in questo l’università deve fare la sua parte e quindi ci rivolgiamo sempre a chi gestisce la governance penitenziaria perché capisca fino in fondo questo e ci aiuti fino in fondo, consentendo l’ingresso nelle carceri”, ha aggiunto. Roma. A Rebibbia vince la speranza: grande successo per la prima olimpiade in carcere Corriere dello Sport, 14 giugno 2025 Lo sport come strumento di rinascita e riflessione: le parole del presidente del Coni Malagò e del presidente della Fondazione Giovanni Paolo II per lo Sport Daniele Pasquini. A Rebibbia vince la speranza: al termine di una giornata intensa, ricca di pathos, agonismo e riflessione, si è conclusa oggi, venerdì 13 giugno 2025, la prima edizione de I Giochi della Speranza. Lo sport come strumento di rinascita e riflessione, questo il cuore della manifestazione, organizzata dalla Fondazione Giovanni Paolo II per lo sport, dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) e dalla rete di magistrati “Sport e Legalità”, in occasione del Giubileo degli sportivi. Emozioni, incontri, sguardi che si incrociano dietro una rete, barriere che si abbassano, questa piccola olimpiade nella Casa Circondariale Rebibbia N.C. “Raffaele Cinotti” ha voluto portare lo sport, veicolo potente di rieducazione e speranza, oltre il suo perimetro competitivo, facendone strumento di riscatto, dignità e rinascita. E il risultato è stato straordinario. Malagò: “Iniziativa strepitosa, importante esserci” - La giornata è iniziata alle 8.00 con la cerimonia di apertura e i saluti di rito. Daniele Pasquini, presidente della Fondazione Giovanni Paolo II per lo Sport: “Come tutte le idee folli, quella dei Giochi della Speranza è nata in condivisione con la rete di magistrati Sport & Legalità e il DAP durante le Olimpiadi di Parigi, dove presentammo il libro “Padre Henri Didon - Un dominicano alle origini dell’olimpico”. È a lui che dobbiamo il motto olimpico “Citius Altius Fortius”. Abbiamo pensato di portare i valori olimpici là dove si fa più fatica a entrare, in carcere. La spinta definitiva è arrivata con l’apertura della Porta Santa da Papa Francesco lo scorso 26 dicembre, proprio qui a Rebibbia”. Giovanni Malagò, presidente del CONI: “Iniziativa strepitosa ed è stato importanti esserci, toccare con mano, guardare con i propri occhi, al di là di qualsiasi aspettativa. Mi è piaciuta molto l’idea di questo torneo multidisciplinare, sembra un’idea provocatoria ma è eccellente. Qui in carcere c’è grande rispetto per gli arbitri e per le regole, perché lo sport è tante cose. Il CIO è sempre stato vicino agli emarginati, agli emigrati, ai carcerati, a chi ha avuto meno fortuna. Noi siamo qui per questo e complimenti alla Fondazione Giovanni Paolo II per lo Sport che ha organizzato I Giochi della Speranza in occasione del giubileo degli sportivi, mandando in tal modo un messaggio che parte dal mondo cattolico e arriva a tutti”. A Rebibbia la prima edizione dei Giochi della Speranza - Beniamino Quintieri, presidente del Credito Sportivo: “Credo che portare lo sport tra coloro che hanno perso la libertà sia uno dei modi migliori per attuare le politiche di rieducazione del detenuto, amicizia, solidarietà, rispetto delle regole, tutti i valori che lo sport incarna. Noi come Istituto del Credito Sportivo investiamo nelle infrastrutture che permettono a più persone di fare sport e avvicinarsi a questi valori. Siamo contenti che anche nelle carceri italiane si stia prestando sempre più attenzione a questo tema. Qui a Rebibbia c’è un discreto impianto sportivo, l’auspicio è che tutti gli istituti di pena possano averne uno all’altezza, per avviare i detenuti allo sport. Investire in infrastrutture sportive ha un effetto impattante sulla società e ha un valore non solo economico ma anche sociale”. Nel suo intervento di saluto il presidente della rete di magistrati “Sport e Legalità”, il procuratore generale di Perugia Sergio Sottani, ha sottolineato “il valore dell’attività sportiva all’interno del carcere come momento di educazione alla socialità”. E ancora: “Il rispetto delle regole sportive è uno dei modi in cui si manifesta la funzione rieducativa della pena”. Un pensiero a cui si è associato anche il fondatore della rete magistrati “Sport e Legalità”, Fabrizio Basei, gip del tribunale di Velletri: “I Giochi della Speranza rappresentano un momento di incontro tra le istituzioni, il mondo carcerario e la società civile e l’inizio di un percorso da fare insieme. Il comune obiettivo deve essere quello di creare un modello da attuare in tutti gli istituti penitenziari d’Italia affinché, attraverso lo sport e i valori olimpici, si possano trasmettere anche nelle carceri, luoghi troppo spesso dimenticati e distanti dalla società, i principi di legalità e della nostra Costituzione”. In chiusura l’intervento del nuovo capo del DAP Stefano Carmine De Michele: “Lo sport livella ed è l’insegnamento migliore che si può trarre da questa iniziativa. Giocare insieme è motivo di integrazione”. Quindi la “piccola olimpiade” ha avuto inizio, con la partecipazione di rappresentative formate da detenuti, polizia penitenziaria, magistrati ed esponenti della società civile che si sono confrontati in diverse discipline: calcio a 5, pallavolo, atletica leggera, tennis tavolo, calcio balilla e scacchi. Un momento di condivisione e integrazione che ha confermato il valore inclusivo dello sport con le quattro selezioni che si sono incontrate su un campo comune: quello del rispetto reciproco e della voglia di cambiare. Toccanti le parole di Manuel, in rappresentanza dei detenuti di Rebibbia: “Voglio ringraziare a nome di tutti i miei compagni le istituzioni, la Fondazione Giovanni Paolo II per lo Sport, il Dap e la direzione del carcere, che ci hanno consentito di vivere questa giornata all’insegna dello sport. Per noi è stato importante interagire, svagarci e vivere qualcosa di diverso. Un ringraziamento e un saluto particolare a tutti i miei compagni detenuti”. Firenze. Detenuti e avvocati si sfidano a calcio: tutti in campo per i diritti e contro i pregiudizi met.provincia.fi.it, 14 giugno 2025 Il terzo Trofeo Carcere si svolgerà martedì 17 giugno all’impianto “Pazzagli” di Ponte a Niccheri. L’iniziativa organizzata dalla Camera penale e dall’Ordine degli avvocati di Firenze in collaborazione con il Comune di Bagno a Ripoli. Il ricavato sarà devoluto al Calcit per l’acquisto dei kit di “primo ingresso”. I detenuti di Sollicciano in una metà campo, dall’altra una rosa di avvocati. Pronti a sfidarsi a calcio con una partita di pallone, ma tutti dalla stessa parte per tutelare i diritti delle persone in carcere. Tutto pronto per il fischio di inizio del terzo Trofeo Carcere promosso dalla Camera penale di Firenze, l’Ordine degli avvocati di Firenze in collaborazione con il Comune di Bagno a Ripoli, in programma martedì 17 giugno a partire dalle 17.00 all’impianto sportivo “Pazzagli” di Ponte a Niccheri (via di Belmonte 35). La partita sarà aperta dai saluti del sindaco Francesco Pignotti e dell’assessore allo sport Francesco Conti, che al termine premieranno i vincitori del Trofeo. “Conosciamo bene le condizioni del carcere di Sollicciano, che ho visitato personalmente solo pochi mesi fa - dichiara il sindaco Pignotti -. Non è un luogo dignitoso né per i detenuti né per il personale che ci lavora. Con questa iniziativa vogliamo dare il nostro piccolo contributo per tenere accesi i riflettori su quella che è una vera e propria emergenza”. “Siamo felici di ospitare il Trofeo, che dà ai detenuti l’opportunità di vivere un momento di normalità e relazione con l’esterno. Il tutto grazie allo sport, strumento di inclusione e reinserimento sociale. Diritti delle persone detenute sanciti dalla nostra stessa Costituzione”, aggiunge l’assessore Conti. Per partecipare è previsto un biglietto di 5 euro. Il ricavato sarà devoluto al Calcit Chianti Fiorentino che lo impiegherà per l’acquisto di kit per il “primo ingresso”: pacchi con beni di prima necessità consegnati alle persone detenute al momento del loro ingresso in carcere. Roma. Antonello Venditti ai giovani detenuti dell’Ipm: “Sappiate che qui avete un amico” askanews.it, 14 giugno 2025 Antonello Venditti ha incontrato le ragazze e i ragazzi dell’Istituto Penale Minorile di Roma, regalando loro una versione commovente di “Notte prima degli esami” (brano che festeggia i suoi 40 anni con il tour “Cuore 40th Anniversary”). L’incontro, moderato da Francesca Fagnani e alla presenza del Ministro della Giustizia Carlo Nordio, ha visto la partecipazione anche di una delegazione di studenti provenienti da tre istituti superiori della capitale. Il cantautore ha parlato con i giovani detenuti senza retorica, riflettendo sul valore della giustizia, del riscatto, dell’amore e della responsabilità personale. Venditti ha ricordato il ruolo fondamentale della scuola e della cultura come strumento di cambiamento e di libertà, dedicando idealmente la sua celebre “Notte prima degli esami” a tutti i ragazzi presenti, dentro e fuori il carcere: “Questa notte la dedico a voi, che vivete l’attesa, il dubbio e la speranza. Siete parte di una classe, di un gruppo: se uno cresce, crescono tutti”. Tra le domande dei giovani presenti, ha parlato di giustizia, di libertà, di dignità: “L’idea che la società civile ha di un carcere è quella che i carcerati sono carcerati e basta. La vita spirituale, la vita affettiva, sessuale e culturale di un detenuto, in questo caso giovane, è poco interessante; noi ci fermiamo spesso alla superficie. Invece l’idea che ci siano dei ragazzi e delle ragazze che qui studiano e che, paradossalmente, rendono questo carcere anche una classe, un’aula, un luogo di rieducazione e costruzione, è un’idea di speranza e di futuro che mi conforta e mi commuove”. Il cantautore ha concluso con una promessa e un sorriso: “Sappiate che qui avete un amico. Mi piacerebbe tornare, magari per un torneo di biliardino. Vi ringrazio per avermi accolto. In bocca al lupo per il vostro futuro”. Accanto al sottosegretario alla Giustizia, Andrea Ostellari, e al capo Dipartimento per la Giustizia minorile e di Comunità, Antonio Sangermano, Il Ministro Nordio, nel suo breve intervento, ha ringraziato Venditti con grande affetto, “È solo l’inizio di un percorso che porterà all’interno delle carceri l’arte, e quindi un po’ di buonumore. È proprio l’arte una delle poche cose che può salvarci dalle cattiverie del mondo e anche dai nostri errori”. “Premio Riccardo Polidoro”, per la dignità e umanità della pena di Giampaolo Catanzariti Il Riformista, 14 giugno 2025 Quest’anno sarà premiata Rita Bernardini, infaticabile paladina dei diritti dei detenuti. Il premio “Riccardo Polidoro”, istituito per la prima volta in occasione dell’Open day dello scorso anno, non può considerarsi un mero esercizio di memoria. Men che meno una ripetitiva ricorrenza. Benché il ricordo dell’uomo, del professionista, dell’appassionato e attento osservatore del mondo carcerario, quale è stato l’avv. Polidoro, meriti di essere celebrato, esso appartiene ai suoi cari, alla comunità dei penalisti, a chi lo ha conosciuto, a chi lo ha apprezzato, a chi gli ha voluto bene ed è stato generosamente ricambiato. Di meriti o stellette conquistate sul campo da ricordare, Riccardo ne aveva conseguite davvero tante. Dalla pionieristica fondazione de “Il carcere possibile” in Napoli (2003), che aveva l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica sulle condizioni indecenti del sistema carcerario, con una serie di iniziative di forte impatto sociale. Fra tutte, “detenuto per un minuto” ovvero la collocazione, in occasione della giornata “per la legalità della pena”, in Piazza dei Martiri, di una cella, aperta alle visite della cittadinanza. Sino alla promozione, attraverso una puntuale mozione congressuale (Ancona, 2006), della costituzione di uno specifico Osservatorio carcere, in seno all’Unione delle Camere Penali Italiane, che supportasse la Giunta dei penalisti, attraverso una costante opera di monitoraggio e di denuncia delle ignobili condizioni di vita dei detenuti, nella difficile battaglia, soprattutto culturale, per l’affermazione di una pena, non solo carceraria, del tutto conforme al modello disegnato in Costituzione. Istituito l’Osservatorio, Riccardo ne è diventato, dal 2015 sino alla sua prematura scomparsa (5.3.2024), il responsabile, vivace animatore di forti sollecitazioni verso gli avvocati e i cittadini, convinto, significativamente, che “prima di rieducare i detenuti, bisogna rieducare l’opinione pubblica”. Il suo impegno e la sua competenza lo hanno portato ad essere protagonista anche in sede politico-istituzionale, prima presiedendo il tavolo 16 (sul trattamento e sugli ostacoli normativi all’individualizzazione del trattamento rieducativo) degli Stati Generali dell’esecuzione penale (2015), poi quale componente della Commissione ministeriale per la riforma dell’ordinamento penitenziario presieduta dal prof. Giostra (2017). In questa veste ho avuto il privilegio della sua conoscenza e amicizia sino a condividerne, nell’ultimo quinquennio, la guida dell’Osservatorio. E allora, il senso del riconoscimento “Riccardo Polidoro”, a chi si è distinto per sensibilità e iniziativa, sta tutto nelle parole del titolo dato, appunto, al premio: “In difesa della dignità e della speranza dei detenuti”. Un premio con cui intendiamo vivificare l’esperienza di Riccardo, la sua opera, i suoi scritti, le sue azioni che non possono considerarsi, per certo, “passati”. Trasmettere, così, quel patrimonio ideale e valoriale alle nuove generazioni di penalisti che si affacciano, con rinnovato entusiasmo, all’appuntamento riminese dell’Open day. Come affermato dal padre italiano della non violenza, il filosofo Aldo Capitini, la compresenza “è qualche cosa di più della somma dei presenti; è sempre un’unità che cerca sé stessa, come un astro staccato da una galassia che intraprenda a ruotare in un’orbita… Su ogni assemblea passa il soffio della compresenza”. È proprio su ogni iniziativa, su ogni pensiero, su ogni documento dell’Osservatorio che si avverte il passaggio del “soffio” vitale di questa compresenza. Il senso del premio “Polidoro” è proprio questo. Alimentare l’impegno, la passione, l’azione di quanti avvertono il dovere civile di ribellarsi dinanzi alle drammatiche condizioni di vita nelle carceri italiane. Di occuparsi, e non solo preoccuparsi, del diffuso degrado. Di dare pubblica voce, speranza e dignità a quella massa informe e ignorata di detenuti, privati, per una barbarica regola sociale, non solo della voce, ma anche della possibilità di comunicare il proprio disagio attraverso l’uso non violento del corpo, per come deciso dal cinico “decreto Sicurezza” da poco convertito in legge, che punisce, con una sanzione ostativa, ogni ipotesi di resistenza passiva, ogni rifiuto del cibo o medicine, unico strumento di protesta pacifica dinanzi ad un potere cieco e disumano. Sollecitare l’impegno civile di chi non intende accucciarsi tra le comode pieghe dell’indifferenza collettiva, dinanzi ad un sovraffollamento terrificante, all’infamante scia di suicidi e di morti nelle nostre prigioni. Quest’anno sarà conferito a Rita Bernardini, infaticabile paladina dei diritti dei detenuti, storica radicale che ha dato voce e corpo, sacrificando il proprio con scioperi della fame per il dialogo e la non violenza, invocando, così, condizioni più umane nelle carceri. Sino a quando non diverrà patrimonio comune l’idea che la più efficace prevenzione al crimine passa attraverso un carcere “nuovo” e non certo attraverso la costruzione di nuove carceri, il premio “Riccardo Polidoro” avrà davvero un senso. Il diritto penale d’autore: la logica amico/nemico dei regimi totalitari di Alessandro Orlando* L’Unità, 14 giugno 2025 Da quasi quattro decadi a questa parte, lo sviluppo e la potenza del modello mercantile competitivo si sono ormai incrementati indefinitamente, non soltanto in campo economico, ma anche nei settori sociali e della politica. La lenta ma inesorabile decostruzione del cittadino come “soggetto cooperativo” (attore sociale consapevole dei propri diritti e doveri, homo iuridicus) e la sua trasformazione in “individuo competitivo” (atomo produttore e consumatore, homo oeconomicus) ha accompagnato contestualmente la decostruzione dei soggetti pubblici, in particolar modo dello Stato come titolare di compiti “sociali” ed erogatore di “servizi”, restringendo, se non comprimendo del tutto, il principio di eguaglianza sostanziale, cardine e fondamento delle Costituzioni del dopoguerra, in particolare di quella italiana. Alla decostruzione del soggetto sociale e all’anestetizzazione del diritto pubblico come dispositivo di normazione degli “scopi” sociali richiesti allo Stato dalle Carte costituzionali (si vedano le modifiche costituzionali che hanno inserito, dopo la crisi del 2008, in Germania, Italia e Spagna, il c.d. pareggio di bilancio, misura in sé negatoria di qualunque politica sociale prevista e sollecitata dalle Costituzioni europee) ha fatto da contraltare, nell’ambito del c.d. diritto oggettivo, l’espansione del diritto privato e del diritto amministrativo, entrambi declinati in una pratica regolatoria dei mercati e dei conflitti fra privati (si veda la sregolata espansione negli ultimi decenni del secolo scorso delle c.d. Authorities amministrative, enti aventi il compito di dirimere controversie fra l’impresa mercantile e la massa dei consumatori). Resta però, in controtendenza, un ramo del diritto pubblico di cui il modello e le regole della concorrenza portata alle estreme conseguenze tende ad accrescere la potenza: il diritto penale. È noto che quasi in tutti i paesi ad alta potenza economica, il diritto penale è diventato nei decenni il dispositivo privilegiato di controllo, di classificazione e di punizione delle masse non “integrate” nel paradigma: si registra che, dagli anni Novanta del secolo scorso a oggi, la popolazione carceraria è aumentata (con conseguente “sovraffollamento”) pressoché in tutta Europa (U.E. e non), così come è cresciuta negli USA, in Russia e in Africa (negli ultimi due casi anche per dinamiche diverse e locali). L’ingresso di nuove fattispecie di reato e l’aumento delle pene per i reati già esistenti, ispirati ad una logica meramente “punitiva” nei confronti dei diversi, dei non-meritevoli, ha consentito anche il progressivo “scivolamento” del diritto penale dal c.d. diritto penale dell’offesa al c.d. diritto penale d’autore, espressione tipica - quest’ultima - dei regimi dittatoriali e totalitari. In sintesi, il diritto penale come “braccio violento” del paradigma economico competitivo puro. La pesca “a strascico” del diritto penale del nemico ha infatti da sempre prediletto - e tuttora predilige - i tipi non integrati nel paradigma, i devianti dall’ordine governato esclusivamente dalle leggi dell’economia capitalistica di mercato, appunto i c.d. non meritevoli: migranti irregolari, piccoli spacciatori, tossicodipendenti, occupanti abusivi di immobili, contestatori di grandi opere, detenuti non addomesticabili, sex workers e in genere chi si pone (o meglio, è posto) ai margini della produzione e del consumo economici. Alla illusione autoritaria di una società pacificata, una realtà senza conflitti sociali, senza rivolte di classe, ossia la c.d. costituzione irenica, di cui ormai parlano sempre più affermati giuristi, si contrappone la massa di marginali ed emarginati di cui sopra. Nei confronti di costoro, e al fine della salvaguardia del “decoro” e della “sicurezza urbana”, sono previsti altresì, in ambito amministrativo, e in collisione frontale con le libertà personali costituzionali, gli ordini (polizieschi) di allontanamento, i divieti (polizieschi) di stazionamento e le altre misure dell’arsenale amministrativo punitivo. È il paradigma dell’ordine basato sull’economia di mercato pura che necessita del diritto autoritario “esclusivo” per la propria sopravvivenza. Contestare e opporsi è necessario, ma non basta. Non ci sarà soluzione al dispositivo penale/ amministrativo autoritario, né alternativa possibile alla logica amico/nemico, meritevole/non-meritevole, senza l’affermazione di un nuovo ordine fondato sulla preminenza della persona come soggetto giuridico sociale nei confronti dell’individuo come atomo isolato competitivo, e senza soprattutto, una nuova previsione dei compiti e degli obiettivi “sociali” dello Stato costituzionale volti a limitare gli eccessi del libero mercato, a regolamentarlo per contemperare la giusta ricerca del profitto con il dovere sacrosanto di perseguire gli scopi generali di giustizia ed equità sociale. *Avvocato, Docente di Diritto nell’Istituto Alberghiero Statale “Casini”, La Spezia Giancarlo Siani è stato ammazzato 40 anni fa ma i vivi non hanno imparato niente di Pietro Perone L’Unità, 14 giugno 2025 Della sua morte non si smetterà di parlare, ma un po’ del suo coraggio ha contagiato chi resta? Nel suo caso la risposta è no. Negli stessi luoghi dove Giancarlo ha indagato al costo della vita, i mandanti del suo omicidio continuano a regnare. Per gentile concessione dell’autore e dell’editore, pubblichiamo qui di seguito ampi stralci del sedicesimo capitolo di “Giancarlo Siani. Terra nemica”, nuovo libro inchiesta edito da San Paolo che Pietro Perone, caporedattore centrale del Mattino, ha dedicato alla vicenda del giornalista scomodo, assassinato dalla camorra il 23 settembre del 1985 all’età di 26 anni. “Terra nemica” sarà ufficialmente presentato a Trame, festival dei libri sulle mafie che si tiene ogni anno a Lamezia Terme, nella serata del 20 giugno alle 22 e 30, presso la piazzetta San Domenico. Intervengono l’autore Pietro Pierone, e poi Vittorio Di Trapani (FNSI), Michele Albanese, Nello Trocchia, Graziella Di Mambro e Mimmo Rubio. Della morte di Giancarlo, come accade per Falcone, Borsellino, Impastato, don Puglisi o don Diana, non si smetterà mai di parlare. E non solo per difendere la memoria, come è giusto che sia. Pesa sui delitti di mafia un ammasso di intrighi, reticenze e omertà che a distanza di decenni perdurano e allontanano la verità piena. Un po’ del coraggio delle vittime ha “contagiato” i vivi? Nel caso di Siani la risposta è no, almeno nei luoghi in cui lui ha combattuto. Il Comune di Torre Annunziata, a partire dal 1985, è stato sciolto tre volte per infiltrazioni mafiose. La sua Mehari, misteriosamente finita a Filicudi e restituita alla famiglia dopo sedici anni grazie a Michele Caiazzo, un ex consigliere regionale, è stata fatta sfilare in lungo e in largo per la città, come quando Siani andava a caccia di brandelli di verità, sognando un luogo libero dalla camorra e amministrato da politici degni. Durante le elezioni comunali del 2017 i voti si vendevano invece per dieci euro, come ha denunciato don Felice Paduano, uno dei preti-coraggio rimasti in trincea. Nel 2024 si sono riaperte le urne e ora la politica prova lentamente a ripartire. Non sarà facile. Il boss Valentino Gionta, ormai settantenne, è stato condannato a più ergastoli, ma non ha mai abdicato al ruolo di capomafia. Dai penitenziari di massima sicurezza riesce ugualmente a gestire gli affari: racket, droga, traffici di ogni tipo e appalti, come avveniva negli anni Ottanta, mentre figli e nipoti incutono paura e per anni hanno continuato a condizionare le scelte degli amministratori che si sono succeduti alla guida del Comune. [...] Per decenni Palazzo Fienga, il regno del clan, dopo l’omicidio Siani è stato rifugio di latitanti e deposito di armi. L’unico “successo” finora conseguito dallo Stato è stato quello di sfrattare la famiglia Gionta e altri “inquilini” affiliati alla cosca. Terrore e lutti, al pari di quando Giancarlo batteva con passione i tasti della sua Lexikon 80 dell’Olivetti, macchina da scrivere ingombrante e rumorosa, su cui il cambio del nastro d’inchiostro poteva rivelarsi un incubo, specie quando si era in ritardo con la consegna di un articolo. Il progresso tecnologico non è servito, però, a cancellare le “perversioni” di una professione in cui c’è gente che si mostra forte con i deboli, accondiscendente con i potenti. Non sono cambiate neanche le modalità di accesso all’Ordine dei giornalisti, tra “pubblicisti” ai quali basta avere scritto qualche articolo su testate “fatte in casa” e chi invece deve lavorare come uno schiavo per ottenere un tesserino professionale ma che nell’era dei social, in cui tutti possono pubblicare ciò che vogliono in tempo reale, conta fortunatamente poco, forse nulla. Non solo Roberto Saviano, il più noto fra tutti, vive da qualche decennio super scortato e in località segrete. È lungo l’elenco dei giornalisti “anonimi” minacciati, picchiati, divenuti bersaglio delle cosche e spesso ignorati, a differenza dell’autore del libro Gomorra. Un piccolo plotone di coraggiosi prosegue nel disinteresse di tanti la battaglia di Giancarlo, spesso tra i sorrisi di sufficienza e gli sguardi straniti del resto della categoria. Paolo Borrometi è da tempo considerato “nemico” dalla mafia catanese perché ha scritto che alcune società che fanno capo a un padrino figurano nel prestigioso consorzio del pomodoro di Pachino. A Marilena Natale dal 2017 hanno assegnato la scorta: è nel mirino del clan dei Casalesi, i cui crimini ha raccontato a lungo. “La camorra non uccide i giornalisti”, è stato ripetuto come un mantra subito dopo l’assassinio di Siani. Una menzogna, visto che all’epoca molti clan della Campania, tra cui Gionta e Nuvoletta, erano già affiliati alla mafia, che di cronisti ne ha ammazzati parecchi. Sconfitte, resistenza e qualche vittoria: migliaia di studenti, tutte le mattine, per circa duecento giorni all’anno, entrano in istituti scolastici intitolati a Giancarlo. Non è stato sempre così. Nora Rizzi, fino a qualche anno fa preside di una scuola di Gragnano, a quindici chilometri da Torre Annunziata, ha dovuto trasformarsi in novella Giovanna d’Arco affinché il proprio istituto si chiamasse Siani. Era il 1993, cinque anni impiegò la preside “guerriera” per vedere affissa fuori la sua scuola quella targa che rende onore al sacrificio e al coraggio di un giovane uomo. Molto è stato fatto per conservare la memoria: in campo da anni alcune associazioni e soprattutto la famiglia di Giancarlo. Lo Stato ricorda invece il cronista ucciso a “giorni alterni”: A Napoli le “Rampe Siani” sono una scalinata imbrattata e sudicia, ricoperta di bottiglie abbandonate durante la movida, panni stesi, rifiuti e motorini parcheggiati sui gradoni. Durante un colloquio con una ventina di detenuti nel carcere minorile di Nisida, l’amara constatazione che appena uno di loro conosce Siani solo grazie alla televisione e all’opera di Marco Risi: “È il personaggio di un film”, la risposta istintiva di chi associa Giancarlo alla faccia pulita dell’attore Libero De Rienzo, morto a quarantaquattro anni a causa di una dose letale di eroina. Chi è nato negli ultimi trent’anni confonde inoltre il cronista con l’artista Alessandro Siani: di cognome fa Esposito e ha voluto farsi chiamare così in onore di Giancarlo, “stella rara che alla luce del sole non scompare, ma anzi è luce pura. La sua onestà - spiega Esposito alias Siani - è la bandiera che sventola ancora forte nel vento della libertà”. L’attore non ha mai dimenticato il boato di voci che si leva il 29 settembre 1985 prima della partita Napoli-Roma. Un minuto di silenzio a sei giorni dal delitto del giornalista, giocatori sulla linea del centrocampo, poi l’urlo “Giancarlo, Giancarlo, Giancà…” Un coro assordante, gli oltre novantamila spettatori presenti allo stadio gridano e applaudono per oltre un minuto. Aveva dieci anni Alessandro, ma quel giorno gli è rimasto appuntato sul cuore. Quarant’anni dopo nel corso di una proiezione del film Fortàpasc, durante la scena in cui i due killer sparano per uccidere il cronista scoppia un applauso. Alcuni ragazzini della scuola media “Maiuri” del Vomero, che sorge a pochi metri da dove avvenne il delitto, non nascondono di fare il tifo per i camorristi nell’attimo in cui premono i grilletti. Risate perdute e pizze non mangiate insieme. Forse con Giancarlo ci saremmo conosciuti e poi persi di vista. Lui, di qualche anno più grande, avrebbe deciso di lavorare in un altro giornale, quando ancora nascevano nuove testate. Avrebbe potuto lasciare Napoli, o cambiare mestiere. Solo una volta, invece, ci siamo incrociati nel corso di una manifestazione anticamorra a Torre Annunziata: era il 1982 e qualche migliaio di studenti sfilava per le strade contro il boss Raffaele Cutolo. Lui, Siani, era alla guida della Mehari, al suo fianco un Gennaro Di Biase, cameraman filmava quei ragazzi un po’ folli, testardamente convinti che la camorra si potesse sconfiggere. E così quel collega con gli occhiali tondi l’ho dovuto conoscere meglio attraverso giornali ingialliti e verbali sgualciti, leggendo i suoi articoli e gli atti dei processi. Abbiamo “dialogato”, io e quel giornalista appena intravisto, tramite chi gli ha voluto bene. Così ogni tanto ci “sentiamo” attraverso Paolo, oppure Geppino Fiorenza, che fin dal primo giorno combatte affinché la Fondazione Siani resti un baluardo a difesa della memoria e della lotta alla criminalità. Lo ritrovo nello sguardo e nel sorriso di Gianmario, classe 1990, nipote di uno zio mai conosciuto, nel quale a volte scorgo espressioni cristallizzate nelle foto di Giancarlo pubblicate tante volte. Tra le tristi incombenze che toccano ai familiari dei morti ammazzati, c’è il ritiro degli oggetti personali recuperati sul luogo del delitto. Dal vano portaoggetti della Mehari, qualche mese dopo la morte, saltano fuori una decina di musicassette, tutte registrate con un impianto stereo casalingo. I titoli dei brani sono scritti meticolosamente con la penna, come si usava fare negli anni Ottanta. Si va da Pino Daniele, con l’ellepì Nero a metà, a Patti Smith, passando per The Blues Brothers. Unica audiocassetta originale quella di Bruce Springsteen: Born in the U.S.A., il brano dell’icona del rock, spesso male interpretato. La bandiera americana sulla copertina potrebbe far pensare a un inno patriottico, invece è l’amara costatazione dei disastri provocati dalla guerra in Vietnam, oltre cinquecentomila soldati mandati allo sbaraglio in terra nemica. Un po’ come Siani a Torre Annunziata, “soldato” di un esercito che non c’era, maledettamente lasciato solo sul fronte di un conflitto non dichiarato. “Sono nato in una città di uomini morti / Il primo calcio che ho preso è stato quando ho colpito il terreno / Sei finito come un cane che è stato picchiato troppe volte / Fino a quando spendi metà della tua vita solo a nasconderti…”. Non si può consumare la propria vita, canta “The Boss”, a cercare un rifugio. Il “riparo” che Giancarlo, a differenza di tanti altri, non ha mai cercato. Sono passati 14 anni dal referendum tradito sul nucleare e l’acqua pubblica di Mario Agostinelli Il Fatto Quotidiano, 14 giugno 2025 Quel 13 giugno 2011, segnato da una grande mobilitazione, diede un avviso chiaro sui beni comuni. Oggi Meloni-Pichetto Fratin parlano un giorno sì ed uno no di ritorno del nucleare. Mi colpisce come dallo schieramento governativo si assuma l’esito dei referendum appena svolti come una definitiva sconfitta dei quesiti posti ed una conferma della loro inattualità solo perché sancita non da un dibattito franco sui contenuti, ma dalla indebita pressione esercitata per disertare le urne. Una prova - quest’ultima - più di debolezza che di capacità di stare in un confronto in campo aperto che segni una strategia su lavoro e cittadinanza come la Cgil ha proposto in auspicabile discontinuità con tutta la politica per i prossimi anni. E che dire del tentativo di screditare lo strumento costituzionale di democrazia diretta, forse per avere mani libere sulle modifiche ai principi della nostra Carta? Più nello specifico e in relazione alle continue improvvide incursioni del ministro dell’Ambiente che ripropone l’atomo nella transizione energetica da qui al 2050, si vuole forse suffragare e giustificare un comportamento contrario al rispetto del voto popolare di un altro referendum, questa volta ampiamente accreditato dal raggiungimento del quorum: quello cioè del 2011 che ha ribadito l’esclusione del nucleare dal territorio nazionale? Avanzo qui alcune riflessioni al riguardo, proprio nell’anniversario di quel 13 giugno di 14 anni fa, segnato da una grande mobilitazione popolare, caratterizzata dalla centralità dei temi dell’acqua e dell’energia scossi anche dall’incidente catastrofico alla centrale di Fukushima qualche mese prima della prova elettorale. Un avviso chiaro quello del 2011 di come i beni comuni siano assai cari ai cittadini e meno ai governi, se si pensa alla scarsa considerazione mostrata verso l’acqua come risorsa pubblica e bene comune e all’improntitudine con cui il governo Meloni-Pichetto Fratin oggi parla un giorno sì ed uno no di ritorno del nucleare nel programma energetico del nostro Paese. ?Si dirà: l’emotività aveva caratterizzato il voto dopo Fukushima. Un’emotività, si continua a riportare, oggi superata da rassicurazioni verificabili. Ma… non banalizziamo! Non solo l’incidente giapponese è responsabile di oltre 65 morti con certezza e di un numero assai maggiore attribuito allo stress successivo o agli effetti di danni radiologici, ma rimane oggi una ferita non rimarginabile sul territorio e nel mare circostante. La società che gestisce l’impianto sta infatti trattando e rilasciando l’acqua contaminata nell’Oceano Pacifico (già 90.000 tonnellate tra 2023 e 2024), oltre a cercare di rimuovere detriti pericolosissimi di combustibile fuso (dentro i reattori permangono 880 tonnellate di materiale estremamente pericoloso, che presenta livelli di radiazioni così elevate da essere trattate solo con robot telecomandati). Nonostante i tentativi di sminuire il rischio dalla tecnologia di fissione, rimane un ordine di grandezza dell’energia atomica incompatibile con la finestra energetica in cui si sviluppa la vita. Per di più, non ci possiamo sottrarre alle emergenze concomitanti di questa fase storica: clima, guerre e ingiustizia sociale devono far riflettere sulle ferite inferte alla natura anche da scelte politiche avventate e sulla conseguente impronta umana sulla Terra. Ce l’ha insegnato anche Francesco nella predicazione della Laudato Si’, lasciando un pegno che molti dei commentatori alla sua dipartita hanno magari provato a celebrare per poi comportarsi come se il suo messaggio non fosse arrivato al cuore delle emergenze prima citate. L’energia nucleare, anche su scala globale, non allontana certo le minacce che incombono su una tregua ed una giustizia disarmata tra gli uomini e verso la biosfera. Nel richiamo al nucleare bandito dal referendum, come giustificare l’assoluta mancanza di novità di rilievo riguardo al rischio di incidente dei reattori e allo smaltimento delle scorie radioattive, se non con una improvvida ed arrogante infrazione del risultato di un atto di democrazia diretta raggirato dalle deleghe ad un Esecutivo che non transita mai dal Parlamento? Una infrazione che si manifesta anche questa volta con decreti legge reiterati nel tempo che anticipano risoluzioni che sono allo stato attuale impugnabili di diritto. Come è possibile che governo italiano e industria francese siglino in questi giorni un accordo per il nucleare europeo in cui la Francia assume un ruolo guida nel rilancio del settore in Europa, in un contesto di rinnovato entusiasmo per l’energia atomica nell’Unione europea? Dove sta il mandato? In questo accordo sottoscritto a Bruxelles la Francia, come Paese più nuclearizzato del continente, è alla testa di un’alleanza crescente di Stati membri dell’Ue, tra cui l’Italia, che promuovono il nucleare come “mezzo per decarbonizzare la produzione elettrica”. In quella sede il governo ha annunciato l’intenzione di aderire all’alleanza nucleare in estensione avviando un iter legislativo per rilanciare la produzione nazionale. Il nuovo contratto rappresenta una dichiarazione di intenti politica, assai impegnativa, secondo cui la potente industria nucleare francese dovrebbe svolgere un “ruolo guida” nei progetti di collaborazione europea, visti anche come opportunità per riempire il portafoglio ordini nazionale. Come giustificare sul piano giuridico che siano stati presi impegni perché: “sotto l’impulso della Francia, questo ecosistema europeo possa costituire un blocco unito e coerente, se i mercati globali lo richiedono” e come accettare che “affinché si raggiunga questo obiettivo, diventi necessario avviare precocemente protocolli di cooperazione europea, al fine di proporre un’offerta di esportazione coerente e avanzata”? Naturalmente, “l’alleanza per il nucleare” ha immediatamente chiesto un accesso dell’energia atomica ai meccanismi di finanziamento europei. Quando poi l’accordo celebra i suoi fasti senza ritegno alcuno - testualmente: “Abbiamo bisogno di nuovo nucleare per inaugurare un’età dell’oro dell’energia pulita e abbondante: è l’unico modo per proteggere i bilanci delle famiglie, riprendere il controllo della nostra energia e affrontare la crisi climatica” - chi ha autorizzato il nostro governo a condividere questa prospettiva? E i referendum traditi ed i ritardi sulle rinnovabili a chi imputarle se non a una classe dirigente priva di una valorizzazione di quell’esercizio della pedagogia politica che confida nei cittadini e si colloca in comunicazione con loro, non rinchiudendosi in quelle élite che, al riparo di un populismo mal dissimulato, non esibiscono un sufficiente riguardo della rappresentanza e delle sue regole di democrazie diretta e delegata. *Ecologista, politico e sindacalista Clima e salute. Il tempo di decidere per il futuro di Enrico Giovannini Avvenire, 14 giugno 2025 Sempre più evidenze scientifiche documentano il crescente impatto dei cambiamenti climatici in atto sul nostro organismo e sulla sicurezza alimentare. E impongono scelte coraggiose. Ammetto di essere un po’ sotto choc, pur occupandomi di questi temi da tempo. Infatti, questa settimana, nel corso della prima riunione della Commissione internazionale costituita dall’Organizzazione mondiale della sanità (Who) sul tema “Clima e salute” abbiamo ascoltato alcuni dei massimi esperti di cambiamento climatico e del suo impatto sulla salute umana, che hanno dipinto una situazione a tinte fosche, specialmente per il nostro continente. Il messaggio degli scienziati è inequivocabile: la crisi climatica sta accelerando anche oltre ciò che si immaginava solo pochi anni fa e l’Europa si sta riscaldando più rapidamente delle altre parti del mondo. Di conseguenza, tutti gli indicatori sanitari, dalla mortalità correlata al caldo all’ansia climatica, stanno peggiorando rapidamente. Nei 35 Paesi europei oltre 100.000 persone sono morte a causa del caldo nel biennio 2022-2023, un terzo dei decessi mondiali per tale motivo. Nel nostro continente accelerano in modo preoccupante anche la diffusione di malattie infettive e l’insicurezza alimentare. Ovviamente, tali fenomeni colpiscono soprattutto i più vulnerabili, cioè gli anziani, i poveri, i minori, alla faccia di chi dice che le politiche per la transizione ecologica possono aumentare le disuguaglianze. Il solo inquinamento atmosferico provoca 7 milioni di morti all’anno in tutto il mondo, di cui mezzo milione nel nostro continente, 300.000 nell’Unione europea e circa 60.000 in Italia (per ulteriori approfondimenti si veda qui). Ogni Paese dovrebbe seriamente domandarsi come prepararsi ad affrontare un presente e soprattutto un futuro così complicato e drammatico. Di questo si è parlato il 13 giugno nel corso dell’incontro “Costituzione: nuovi orizzonti per il nostro Paese” svoltosi presso la Camera dei deputati, organizzato dall’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile (ASviS), dal think thank italiano per il clima “Ecco” e da Globe Italia. Il titolo può sembrare decisamente lontano dalle questioni affrontate dalla Commissione della Who, ma non è così. Infatti, la modifica della Costituzione, proposta dall’ASviS fin dal 2016, intervenuta all’inizio del 2022 ma ancora poco conosciuta al grande pubblico, ha riguardato sia l’articolo 9, che ora recita “è compito della Repubblica tutelare l’ambiente, gli ecosistemi e la biodiversità, anche nell’interesse delle future generazioni”, sia l’articolo 41, che indica come l’attività economica non possa svolgersi recando danno all’ambiente e alla salute. Si tratta di una modifica che mette l’Italia all’avanguardia internazionale, almeno sul piano dei princìpi, su una tematica, quella della giustizia intergenerazionale e dello sviluppo sostenibile, che riguarda in realtà tutti i Paesi del mondo, soprattutto quelli in cui gli squilibri, anche demografici, tra generazioni stanno esplodendo e il conflitto tra gli interessi degli attuali viventi e quelli di chi verrà sta assumendo dimensioni senza precedenti. Questi nuovi princìpi devono ora trasformarsi in politiche concrete (comprese quelle climatiche e quelle della salute), ed è su come cogliere le nuove prospettive aperte dalla riforma della Costituzione che si è incentrato il dibattito di ieri. Il governo, anche in questo caso su proposta dell’ASviS, ha inserito in un disegno di legge (AS n. 1192) approvato per ora dal Senato, sia la previsione che “le leggi della Repubblica promuovono l’equità intergenerazionale, anche nell’interesse delle future generazioni”, sia l’introduzione di una preventiva Valutazione dell’impatto generazionale (Vig) delle nuove leggi “in relazione agli effetti ambientali o sociali indotti dai provvedimenti, ricadenti sui giovani e sulle generazioni future, con particolare attenzione all’equità intergenerazionale”. Sperando in una rapida conclusione dell’iter legislativo, bisogna domandarsi già oggi come la Valutazione dovrà essere svolta dal Governo e il ruolo che dovrà avere il Parlamento per assicurare la costituzionalità delle nuove leggi. Dalla risposta a queste domande si capirà se si tratta di un’ennesima “ammuina” della politica per evitare cambiamenti reali del modo di compiere le scelte da cui dipende il nostro futuro o se il nostro Paese intende veramente “cambiare registro”, coerentemente con quanto le giovani generazioni (ma non solo) chiedono insistentemente e con quello che ci dice la scienza. Un passo importante sarebbe anche l’approvazione di una legge per il clima, sulla falsariga di quelle approvate a livello europeo e in vari Paesi che ne fanno parte, la quale dovrebbe definire la governance del processo di decarbonizzazione, fissando gli elementi minimi di garanzia di rispetto degli obiettivi climatici, come l’adozione di un carbon budget, l’allineamento delle politiche agli scenari scientifici e agli impegni internazionali, e l’istituzione di un consiglio scientifico in grado di valutare in maniera indipendente l’efficacia della strategia e la coerenza del processo legislativo. Come direbbero gli anglosassoni, non si tratta di “scienza missilistica”, ma di dotarsi di strumenti per affrontare in modo serio quanto la riforma della Costituzione, votata all’unanimità da tutte le forze politiche, ci impone di fare per affrontare le sfide drammatiche che abbiamo di fronte. Sarebbe il modo migliore per prendersi cura non solo della “casa comune” di cui parlava papa Francesco (cioè del nostro Pianeta) ma anche di chi in quella casa abita, cioè noi, e di chi ci abiterà in futuro. Dopotutto, non dovrebbe essere questo il compito della politica? Migranti. Appello alla Federazione nazionale degli ordini dei medici e chirurghi sui Cpr Il Manifesto, 14 giugno 2025 La detenzione amministrativa presenta enormi criticità in materia di rispetto della dignità delle persone e dei loro diritti, incluso il diritto alla salute. La stessa World Health Organization (Who) ne ha denunciato gli effetti in quanto pratica patogena e psicopatogena. Sempre maggiori evidenze descrivono i Cpr come contesti di degrado igienico-sanitario, sofferenza fisica e mentale ed abbandono sociale, caratterizzati da un continuum di violenza auto- ed etero-inflitta sui corpi delle persone recluse. Le stesse evidenze, a distanza di 25 anni dalla loro istituzione, confermano che questi luoghi sistematicamente, da sempre, dovunque e a prescindere dal singolo gestore, sono profondamente patogeni e mettono a rischio la salute e la vita delle persone che vi vengono detenute. La Società Italiana di Medicina delle Migrazioni (Simm) da più di trent’anni lavora ogni giorno per cercare di assicurare l’accesso alle cure e il diritto alla salute delle persone migranti in Italia, a prescindere da provenienza e status giuridico, come sancito dall’Articolo 32 della Costituzione. Nel corso del tempo si è spesso occupata di advocacy presso i decisori politici e istituzionali per far sì che il dettato costituzionale si traduca in reale diritto alla salute per le persone migranti. Sulla base di quanto espresso, la Simm si rivolge alla Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici e Chirurghi (Fnomceo) per una sollecita e chiara presa di posizione affinché: - si proceda nell’immediato alla chiusura dei CPR e all’apertura di un dibattito a livello europeo per l’abolizione della detenzione amministrativa, in quanto realtà patogene per le persone migranti, di cui violano i diritti fondamentali e mettono a rischio la salute e la vita; - si dichiari che nessun professionista della salute che operi in rispetto dell’articolo 32 della Costituzione e del Codice di Deontologia Medica possa fornire e tantomeno essere costretto a fornire le proprie prestazioni professionali in tali luoghi funzionalmente alla loro operatività (ad esempio tramite la sottoscrizione di valutazioni di idoneità alla reclusione nei CPR, richieste dalle autorità di polizia), in Italia e all’estero, in quanto privi delle tutele essenziali per le persone detenute e contrari all’etica professionale della cura. Tale posizione è stata tra l’altro avvalorata proprio da una analoga dichiarazione della FNOMCeO sull’inammissibilità dell’utilizzo del personale sanitario per le pratiche di selezione delle persone migranti destinate ai centri di detenzione in Albania. I professionisti e le professioniste della SIMM, nonché tutti coloro che vorranno sostenere e rilanciare questo appello, sono mossi dal principio umanitario della tutela della vita e della salute delle persone come priorità rispetto a ogni sovrastruttura burocratica e/o securitaria, un principio che si sostanzia nel proposito ippocratico: “in qualsiasi casa andrò, io vi entrerò per il sollievo dei malati, e mi asterrò da ogni offesa e danno volontario”. Appello della Società Italiana di Medicina delle Migrazioni (SIMM) Supportato dai seguenti esperti in ambito medico-scientifico: Vittorio Agnoletto, Membro del direttivo nazionale di Medicina Democratica Cristina Cattaneo, Prof. di Medicina Legale, Università degli Studi di Milano Gavino Maciocco, Prof. di Igiene e sanità pubblica, Università di Firenze Monica Minardi, Presidente di Medici Senza Frontiere (MSF) Italia Chiara Montaldo, Responsabile Unità Medica di MSF Italia Migranti. Il commissario Ue Brunner: cambiare la base giuridica della Cedu di Giansandro Merli Il Manifesto, 14 giugno 2025 Immigrazione Si allarga il fronte contro la Corte di Strasburgo. “Dobbiamo creare la base giuridica affinché la Corte possa giudicare in modo diverso”. Il fronte contro la Corte europea dei diritti dell’uomo si allarga ogni giorno: ieri lo ha raggiunto il Commissario Ue per gli Affari interni Magnus Brunner, che ha lanciato il suo affondo durante il consiglio dei ministri dell’Interno Ue. Agli Stati e ora anche alle istituzioni comunitarie non piacciono le sentenze sui cittadini stranieri, ritenute troppo garantiste. A torto perché la Corte da tempo adotta orientamenti restrittivi sui diritti fondamentali dei migranti, come mostra anche la decisione che giovedì scorso ha escluso responsabilità italiane nei respingimenti subappaltati alle milizie libiche. Ma è troppo poco in una Ue in mano alle destre, estreme o moderate (a cui liberali e centro-sinistra si accodano volentieri). Un mese fa i governi di Italia e Danimarca hanno iniziato a raccogliere le firme per una lettera, poi pubblicata il 23 maggio, utile ad aprire il dibattito per la revisione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dare indicazioni ai giudici su alcune decisioni da evitare. La Corte è l’organo di garanzia della Convenzione, alla base del Consiglio d’Europa che riunisce 46 Stati. Ai primi firmatari - Austria, Belgio, Polonia, Repubblica Ceca, Lituania, Lettonia, Estonia - si sono aggiunti Ungheria e Germania. Ieri anche la Svezia ha espresso condivisione. Si tratta di paesi governati da forze politiche diverse, ma unite nel chiedere, di fatto, un diritto differenziale per i cittadini stranieri. Il presidente del Consiglio d’Europa Alain Berset ha prima difeso la Corte - “il rispetto della sua indipendenza e imparzialità è il nostro fondamento” - poi, più recentemente in un’intervista al Times, ha dichiarato: “Stiamo assistendo a un mondo in cui le cose cambiano rapidamente. Abbiamo bisogno di adattamento. Dobbiamo discutere delle regole che vogliamo avere, e non ci sono tabù”. Non ci si può abituare alle bombe di Raffaella Romagnolo La Stampa, 14 giugno 2025 La prima cosa che ho pensato ieri mattina al risveglio, la reazione immediata del mio cervello quando, dal Medio Oriente, è arrivata sullo schermo del mio smartphone appena acceso la notizia di una nuova guerra, è stata: “Ovvio”. Intendiamoci: so poco di queste faccende, giusto quel che conosce una cittadina minimamente informata circa quanto che sta accadendo nel pezzo di mondo dove vive. So che Israele e Iran stanno su fronti contrapposti, hanno cioè interessi in conflitto. Che Iran e Hamas sono vicini. Che gli Stati Uniti c’entrano. Che l’Iran è sotto sanzioni. Che esiste una vicenda annosa, serissima, paurosissima, che ha a che fare con le armi nucleari. Che ci sono stati altri scontri lo scorso anno, l’eliminazione di un importante capo militare, il lancio di missili e droni. Ma non credo sia solo per questo sapere minimo che, appena sveglia e un po’ intontita come sempre prima del caffè, all’annuncio della nuova guerra ho pensato: “Ovvio”. Poi ho accantonato la questione, dato da mangiare ai gatti, lavato la faccia, fatto colazione e le solite cose di casa. Quindi mi sono messa al tavolo, ho acceso il computer, e solo a quel punto, a mente lucida, sono tornata sulla notizia e mi sono chiesta: “Ma ovvio cosa? La guerra?”. Dal 24 febbraio 2022, inizio delle operazioni militari contro l’Ucraina, vivo, viviamo dentro un flusso costante di immagini, video e informazioni belliche. Tre anni, tre mesi e qualche giorno, ininterrottamente. Dopo il 7 ottobre 2023, l’attacco di Hamas e la successiva reazione di Israele, il flusso si è fatto ancora più consistente, guerra e ancora guerra, ondate successive che hanno sommerso le prime pagine dei giornali, gli approfondimenti interni, i programmi radiofonici, i telegiornali, la programmazione pomeridiana e serale, i talk-show, il web tutto, i social, i podcast, le newsletter, ovunque, a qualunque ora. Tre anni, tre mesi e qualche giorno così, con le bombe sotto gli occhi, i palazzi sbriciolati, le trincee e i cunicoli sotterranei, gli ospedali sventrati dagli ordigni, gli ospedali senza anestetici, senza corrente elettrica, i profughi, le bare, i sudari, i bambini affamati, orfani, i bambini morti, lo scambio di prigionieri, gli aiuti che arrivano e non arrivano, tutti gli orrori, e allora penso: non è che mi ci sono abituata? Non è che mi sono così assuefatta alla guerra che il mio cervello appena sveglio, indifeso diciamo, all’ennesima sollecitazione risponde, come i cani di Pavlov, “ovvio”? Non è che la guerra, in questi tre anni, è diventata la mia chiave per interpretare il mondo e quel che accade? Non l’ho mai vissuta, la guerra, come la stragrande maggioranza di chi sta leggendo queste righe. Italiani, europei che l’hanno provata non ce ne sono quasi più (con la vistosa, dolorosa eccezione di chi è stato coinvolto negli scontri balcanici). Della guerra patita c’è, tra noi, solo memoria storica. Se va bene. Non c’è il ricordo vivo di carne e sangue. È anche per questo che il mio cervello appena sveglio risponde “ovvio” e dà la guerra per scontata? Perché non l’ho, non l’abbiamo provata? Ed è ragionevole, ci conviene reagire così? Mi arrabbio. Possibile, mi chiedo, che ogni generazione debba imparare tutto daccapo? Sulla propria pelle? Gli umani hanno desideri, visioni, interessi divergenti. Lo sperimentiamo, questo sì, tutti. Devo fare gli esempi banali della riunione di condominio, della precedenza all’incrocio, della lite in fila alle Poste, delle beghe per l’eredità? Degli scioperi? Dei dazi? Il conflitto è una caratteristica dell’umano, siamo fatti così. Avere allora una risposta automatica e irriflessa al conflitto - guerra! ovvio! - mi spaventa. Significa che, d’istinto, appena sveglia, se non ci sto attenta, se non mi sorveglio, non vedo, non cerco e non so immaginare alternative. Brutta china. Medio Oriente. Netanyahu e la dottrina della forza: l’incubo atomica e i tempi forzati di Davide Frattini Corriere della Sera, 14 giugno 2025 Il leader israeliano, che ha ordinato l’attacco all’Iran nelle scorse ore, segue la linea di Begin: niente armi distruttive ai nemici. Il principio è chiaro: “Chi è più forte, sopravvive”. La “dottrina Begin” decolla il pomeriggio del 7 giugno di 44 anni fa, quando 14 jet volano verso la periferia di Bagdad e demoliscono il reattore nucleare voluto dal dittatore Saddam Hussein. Prende il nome dal politico combattente che per primo porta la destra al potere in Israele e per primo firma la pace con un Paese arabo, l’Egitto. La dottrina stabilisce che la nazione non permetterà a nessuno tra i nemici (i tanti in Medio Oriente) di ottenere armi per la distruzione di massa. Stabilisce, soprattutto, che lo Stato ebraico “agirà da solo”, senza aspettare il soccorso degli alleati, “quando l’esistenza del suo popolo è in pericolo”. Successe anche durante la Guerra dei Sei giorni del 1967 o nel raid in Siria del 2007 per smantellare le ambizioni atomiche del regime di Assad. Sta succedendo in queste ore con le ondate di bombardamenti sull’Iran: i piloti israeliani hanno percorso i 2.000 chilometri verso Teheran senza quel supporto americano che gli analisti e gli stessi generali consideravano essenziale. Da solo ha deciso Benjamin Netanyahu, perché Israel Katz è il ministro della Difesa che si è scelto per evitare ogni concorrenza politica ed Eyal Zamir guida lo Stato Maggiore da pochi mesi. Ha deciso da solo anche se i generali lavoravano al piano da anni e Bibi, com’è soprannominato, ci pensava assiduamente dal 2009, quando è tornato al potere fino a diventare il premier più longevo nella Storia del Paese. Sapeva - ha avvertito gli israeliani in un discorso - che l’attacco preventivo si sarebbe trasformato rapidamente in conflitto con la rappresaglia iraniana. La notte delle città accesa dai traccianti e dalle esplosioni, le fiamme sui grattacieli di Tel Aviv, i boati nelle strade... “In ogni generazione si levano contro di noi per distruggerci”, recitano i bambini e i genitori alla cena che apre la Pasqua ebraica. Una visione che Netanyahu ha ereditato più cupa dal padre Benzion, studioso per tutta la sua lunga vita (è morto a 102 anni) dell’Inquisizione e delle persecuzioni contro gli ebrei. Il primo ministro ha scelto di forzare la mano all’amico Donald Trump (o almeno di allontanarne quella che cercava di trattenerlo per la giacca) e di forzare i tempi per fermare l’orologio che in una piazza di Teheran tiene il conto da qui al 2040, data massima fissata dagli ayatollah per la distruzione di Israele. L’offensiva contro il regime islamico segue “la dottrina Begin”. Eppure Netanyahu sembra superarla e voler applicare a tutte le relazioni, anche interne al Paese, il motto pubblicato su una copertina che Time gli dedicò: “Chi è forte sopravvive”. Per lui la vittoria contro Hamas deve essere “totale”, nonostante i terroristi fondamentalisti siano stati decimati e non siano considerati più in grado di commettere mattanze come il 7 ottobre 2023, 1.200 israeliani uccisi. Deve andare avanti la guerra che non finisce mentre i palestinesi ammazzati a Gaza superano i 55 mila e la popolazione affamata rischia ogni giorno la vita per accaparrarsi uno dei pasti distribuiti da un gruppo americano, nel caos organizzativo previsto dalle Nazioni Unite ormai escluse dagli aiuti umanitari. Per lui anche le “concessioni” possono trasformarsi in una minaccia esistenziale: da qui il suo no a uno Stato palestinese, la volontà di rioccupare i 363 chilometri della Striscia e pure di tenersi una volta per tutte la Cisgiordania. Un espansionismo che, anche quando non è territoriale, vuole proiettare forza e ostinazione. Un espansionismo che - avvertiva già nel 1967 lo scrittore Amos Oz - sarebbe diventato “eterna annessione”. E in questi due anni guerra permanente.