Indulto e amnistia, un convegno per le carceri di Luigi Manconi e Marica Fantauzzi La Repubblica, 13 giugno 2025 Il cardinale Matteo Maria Zuppi, nella sua riflessione durante il convegno Diritto e Clemenza: che fare per il carcere? che si è tenuto mercoledì scorso presso la Biblioteca del Senato, ha citato le parole di Giacomo Spinelli, compagno di cella di Emanuele De Maria - suicidatosi a Milano subito dopo aver commesso il femminicidio di Chamila Wijesuriya e il ferimento di Hani Fouad Abdelghaffar Nasra. “La verità - scrive Spinelli sul manifesto - è che bisogna fare di più, non di meno, creare più normalità e curare; non chiudere e voltare la testa dall’altra parte. Emanuele andava verso il traguardo, poi qualcosa si è inceppato, qualcosa è andato storto, nessuno di noi è del tutto innocente per quello che è successo e sarebbe ora di capire che la salute mentale viene prima di ogni cosa, prima che altri uomini ed altre donne vengano uccise, o si uccidano da soli”. Quel fatto di cronaca aveva creato un fitto dibattito, anche tra gli operatori del diritto, poiché l’uomo - detenuto nel carcere di Bollate - era stato considerato perfettamente in grado di svolgere il proprio lavoro all’esterno e, di conseguenza, di avviare un processo di integrazione nella società. L’epilogo tragico di quella storia imporrebbe incredulità e dolore. Eppure, Zuppi decide di riprenderla in mano, davanti a una platea di oltre un centinaio di persone, chiedendosi se non sia il caso di far proprie le riflessioni di quel compagno di cella. Perché, se la cieca rabbia davanti all’indicibile è diritto sacrosanto del singolo, dovere dello Stato è agire anche lì dove sembra imporsi solo la violenza. Nessuna giustizia è possibile - conclude Zuppi - senza riparazione. Ma si può riparare se il luogo deputato all’espiazione della pena è strutturalmente violento tanto da essere mortifero? Cesare Beccaria, citato dal professor Luciano Eusebi durante il convegno, parlava dell’assurdità della pena di morte. “Per contrastare un omicidio - diceva Beccaria - noi diamo l’esempio del fare un omicidio nei confronti di una persona ormai inoffensiva, un omicidio premeditato”. E che cosa aveva capito Beccaria, si chiede Eusebi? Che agire così va in direzione opposta alla prevenzione. Perché, se il messaggio “è consolidare il consenso attorno al valore della vita dell’altro, l’esempio della pena di morte fa decadere nella società proprio quel valore fondamentale della vita. E tutte le volte che noi applichiamo pene che sono in contrasto con i valori che attraverso quelle pene si vorrebbero affermare, noi facciamo un’operazione del tutto contraria alla prevenzione”. Credere e, soprattutto, far credere, che la nostra sicurezza dipenda dall’entità e dalla crudeltà della pena inflitta è un errore che si continua a commettere. Lo stesso Paolo Borsellino - ricorda Eusebi - diceva: se voi pensate che la prevenzione dipenda dall’intimidazione, allora dovreste mettere un carabiniere a fianco di ogni persona. La prevenzione, piuttosto, dipende dal consenso e dalla motivazione. Al 30 aprile di quest’anno le persone detenute erano 62.445, a fronte di una capienza di 51.280 posti. 58 carceri su 189 (dati provenienti dall’ultimo rapporto di Antigone) hanno un tasso di sovraffollamento superiore al 150%. Solo negli ultimi sessanta giorni sono entrate negli istituti penitenziari 300 persone in più. 35, infine, sono i detenuti che da gennaio si sono tolti la vita. Che genere di motivazione e che possibile consenso si può costruire all’interno di queste celle congestionate, dolenti e inascoltate? Nessuna motivazione e nessun consenso. E, di conseguenza, nessuna rieducazione. “Infliggere dolore nel presente - ha affermato la filosofa Donatella Di Cesare - non aggiusta il passato e molto spesso vieta il futuro. Le riforme del buon punire non hanno fatto che consolidare l’economia del castigo che oggi viene inserita nel nuovo dispositivo di governo e proficuamente utilizzata. Il castigo ormai non solo reitera l’infrazione, ma consente la separazione tra la città e il suo fuori. Occorre - ha proseguito Di Cesare - operare perché il legame non si spezzi del tutto, perché la separazione già in atto non si compia, perché quel microcosmo non vada definitivamente alla deriva”. Ma per ricomporre il legame bisogna fare in fretta tramite l’adozione di azioni radicali, che sono già state utilizzate in passato ma che da più di trent’anni si ha timore non solo di approvare, anche solo di nominare. Amnistia e indulto. Parole pronunciate da Papa Francesco prima di morire, rese possibili dall’accordo tra Romano Prodi e Silvio Berlusconi nel 2006, e chieste a gran voce oggi da centinaia di persone tra operatori del diritto, associazioni e lavoratori che a titolo diverso operano all’interno delle nostre carceri. L’ultima relazione è stata quella di Andrea Pugiotto, docente di Diritto costituzionale all’Università di Ferrara, che a conclusione del suo intervento, si è rivolto direttamente ai parlamentari: “Mi rivolgo a chi è presente oggi qui, è solo una questione di tempo. Senza una inversione di tendenza ci troveremo a breve nelle stesse condizioni che costarono all’Italia nel 2013 la vergogna di una condanna dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per un sovraffollamento carcerario strutturale e sistemico. La clemenza collettiva - conclude Pugiotto - è prerogativa del Parlamento: non fate cadere quest’appello a voi rivolto”. La Lega stoppa La Russa: “Pene certe, no a soluzioni tampone” di Niccolò Carratelli La Stampa, 13 giugno 2025 Bongiorno: “Servono nuovi penitenziari”. Il Pd: occorrono fatti, non parole che illudono i detenuti. L’apertura di Ignazio La Russa sul sovraffollamento del le carceri italiane non trova grande seguito nella maggioranza e non illude le opposizioni. Il presidente del Senato, intervistato da questo giornale, ha rilanciato la necessità di una riflessione in Parlamento e dentro al centrodestra sull’obiettivo di “assicurare una condizione di vita civile ai detenuti”, perché “l’esigenza di alleggerire le carceri c’è”. Nessuna ipotesi di amnistia o indulto, ma il riferimento alla proposta di Roberto Giachetti di Italia viva sulla “liberazione anticipata speciale”, cioè aumentare la premialità per la buona condotta e garantire così una riduzione della pena più cospicua. Una sollecitazione accolta con una certa freddezza a destra, soprattutto dalle parti della Lega. “Da penalista comprendo benissimo il grave problema del sovraffollamento nelle carceri, ma tutte le misure tampone adottate fino ad oggi non lo hanno risolto - avverte Giulia Bongiorno, presidente della commissione Giustizia del Senato -. Per la Lega la strada resta quella di puntare sulle nuove strutture carcerarie. La polverizzazione delle sanzioni si ritorce contro la funzione della pena”. E Jacopo Morrone, responsabile Giustizia del partito, ribadisce che “garantire la certezza della pena è un’assoluta necessità. Eventuali soluzioni clemenziali usate come tampone non verrebbero comprese dagli italiani - aggiunge - che le interpreterebbero come provvedimenti svuota-carceri”. Più morbido il giudizio tra gli addetti ai lavori di Fratelli d’Italia, per ovvie ragioni di rispetto nei confronti di uno dei fondatori del partito. “Quella di La Russa è una riflessione da cui è possibile partire, indica una strada interessante per meritare la liberazione anticipata”, dice Andrea Pellicini, componente della commissione Giustizia. Maggioranza divisa - Più che disponibili a lavorare sul disegno di legge Giachetti sono gli alleati di Forza Italia: “Noi siamo pronti”, conferma Raffaele Nevi, portavoce del partito azzurro, che aveva ipotizzato un potenziamento del regime di semilibertà, con un emendamento del senatore Pierantonio Zanettin. Lo stesso Giachetti dà atto a La Russa di essersi impegnato “in modo serio” per affrontare l’emergenza del sovraffollamento nelle carceri: “Spero che il suo tentativo di moral suasion abbia successo”, dice il deputato renziano. Molto più scettico Walter Verini del Pd, che accusa il governo di “non avere mosso un dito contro il sovraffollamento. È il governo del “delmastrismo” elevato a potenza - attacca. Occorrono fatti immediati, non parole che rischiano di creare pericolose illusioni nella popolazione carceraria”. Stesse perplessità da parte di Ada Lopreiato, capogruppo M5s in commissione Giustizia al Senato: “A un anno di distanza dall’inutile decreto carceri, il presidente del Senato ammette che il suo governo non ha risolto alcun problema - sottolinea -. Il ministro Nordio va avanti come se nulla fosse, con annunci ripetitivi e del tutto fumosi”. E Angelo Bonelli di Avs ricorda a La Russa che “il suo partito ha votato contro tutte le proposte dell’opposizione sul tema carceri. La Russa fa il finto liberale - conclude - ma la realtà è che con il governo Meloni sono stati introdotti 48 nuovi reati”. Zanettin (FI): “Liberazione anticipata? Il centrodestra faccia una sua proposta” di Simona Musco Il Dubbio, 13 giugno 2025 “I 37 suicidi in carceri dall’inizio dell’anno, di cui tre solo nelle ultime ore, sono un dato drammatico che interpella la nostra coscienza e impone di agire. Va individuato uno strumento deflattivo per rispondere a questa assoluta emergenza e per ridurre l’ormai insostenibile affollamento carcerario. La salute mentale e fisica dei detenuti è affidata allo Stato, che ha il dovere di prendersene cura. Così come esiste il dovere di garantire la dignità e la rieducazione di chi è stato privato della libertà. Non possiamo assolutamente correre il rischio di considerare come inevitabile il tragico fenomeno dei suicidi all’interno degli istituti penitenziari”. A dichiararlo, nel giorno più nero per le carceri dall’inizio dell’anno, è il senatore e capogruppo di Forza Italia in Commissione Giustizia a Palazzo Madama, Pierantonio Zanettin. Senatore Zanettin, il tema delle carceri non è più rinviabile. È arrivato finalmente il momento di intervenire con misure concrete? È un tema sul quale Forza Italia è già intervenuta altre volte. Sicuramente, il dato di tre suicidi in poche ore è drammatico, un dato che ci interroga e che ci fa capire come la situazione nelle carceri sia ormai insostenibile. Eravamo già ben consapevoli del problema relativo al sovraffollamento, però adesso, con l’arrivo della stagione calda, che come sappiamo rende la situazione dei detenuti ancora più complicata, non è più possibile rinviare una riflessione. Già un mesetto fa avevo ricordato ai miei colleghi di maggioranza che sarebbe stato bello omaggiare Papa Francesco, che chiedeva un atto di clemenza per i detenuti, raccogliendo il suo messaggio. E anche Papa Leone XIV sembra voler continuare l’opera di attenzione e di vicinanza iniziata da Francesco nei confronti dei reclusi. Credo che di fronte ad una situazione come quella attuale sarebbe intelligente che il Parlamento e il governo mostrassero un’apertura a gesti che alleggeriscano il carico degli istituti di pena. C’è già una proposta sulla liberazione anticipata, quella del deputato di Italia Viva, Roberto Giachetti… Io voglio che ci sia una proposta del centrodestra. Introdurre misure deflattive sarebbe l’ideale. Fino adesso, però, tutte le volte che ci abbiamo provato non abbiamo trovato terreno fertile. Prima di buttare giù un testo è dunque necessario creare un clima tale da rendere realizzabile un’idea del genere. E le ultime notizie potrebbero rappresentare lo spunto per aprire una discussione su questo fronte. Dal carcere di Vigevano è arrivata una denuncia molto pesante al nostro giornale: si parla di condizioni igienico-sanitarie disumane, distribuzione anomala di farmaci e presunte ritorsioni verso i detenuti che hanno denunciato. Il Parlamento ha intenzione di fare qualcosa? Non ho avuto modo di fare verifiche sulla situazione, però certamente nel nostro Paese ci sono anche carceri in cui si vive in condizioni disumane. Lo scorso anno, Forza Italia ha visitato tanti istituti, io per esempio ne ho visitati due, Ancona e Vicenza, dove abbiamo verificato condizioni più che dignitose nel trattamento dei detenuti. Ma sono consapevole che ci sono in altre parti in Italia sicuramente situazioni meno adeguate. Sono necessari investimenti, ma le risorse sono poche. Abbiamo ripetuto tante volte che secondo la Costituzione chi commette dei delitti deve essere privato della libertà, ma non della dignità, ma forse questo è uno slogan che abbiamo tante volte declinato e non attuato. Ci sono dei modelli dai quali partire per mettere in atto questo principio? Vicenza ed Ancona, come ho detto, sono strutture in cui credo che si faccia davvero rieducazione e che potrebbero rappresentare un modello di partenza. Per quanto riguarda i detenuti, sicuramente anche lì ci sono tanti problemi, criticità, però non si ha l’impressione che ci sia una situazione fuori controllo. Continuare ad aumentare il numero di reati non è un’altra causa di sovraffollamento? Sì, però c’è da dire che i reati aumentano per rispondere a dei problemi di sicurezza e ordine pubblico, che vanno garantiti. Perché abbiamo anche tante situazioni in cui ci sono persone che delinquono e dopo mezza giornata sono di nuovo in libertà. Ci sono reati che allarmano dal punto di vista sociale e a questo allarme è giusto rispondere. Spesso la soluzione proposta dal governo e dal ministro è quella di costruire nuove carceri. Ma ciò, ammesso che sia la soluzione, richiede tempo e questo confligge con la logica dell’emergenza... Certamente, abbiamo anche delle contingenze. Credo che il problema vero sia costruire più carceri e più moderne, più rispettose dei diritti dei detenuti e, nel frattempo, cercare una soluzione, magari pensando a misure alternative per i detenuti a fine pena. Negli ultimi giorni ci sono stati dei casi particolari: un uomo finito in carcere a 94 anni - ora si trova ai domiciliari - e un detenuto 87enne di Rebibbia per il quale il Riesame ha rigettato l’ennesima richiesta di differimento della pena per motivi di salute. Sono situazioni che uno Stato di diritto può tollerare? Quelle sono situazioni paradossali che non dovrebbero esistere. Bisogna fare più attenzione a questi casi. Dobbiamo aspettarci un testo sul carcere da parte di Forza Italia? Ci possiamo anche pensare, però dobbiamo capire se c’è una sensibilità comune all’interno della maggioranza su questo tema. Io, ad esempio, avevo presentato degli emendamenti al decreto carcere l’anno scorso, che poi abbiamo dovuto ritirare. Oggi, però, c’è anche l’apertura del presidente del Senato Ignazio La Russa. Non è un buon segnale? Si è di certo aperto un varco per lavorare su questo punto. Tre suicidi in due giorni: nelle carceri ora è strage di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 giugno 2025 Sono 37 i detenuti che si sono tolti la vita da inizio anno. Il tasso di sovraffollamento è oltre il 134%. A rischio soprattutto malati psichiatrici e tossicodipendenti. Tre suicidi in carcere in poche ore: è un conto atroce, che racconta un’emergenza soffocata dal sovraffollamento e dall’assenza di cure. A denunciarlo è il sindacato di Polizia penitenziaria (S.PP.), cui il segretario Aldo Di Giacomo affida numeri e volti di questo dramma: un detenuto della sezione psichiatrica di Santa Maria Capua Vetere, un altro a Sassari per sospetta overdose, un terzo a Campobasso, trovato impiccato. Tre carceri diverse, tre storie spezzate in 48 ore. Come emerge dagli aggiornamenti di Ristretti Orizzonti, salgono così a 37 i suicidi dall’inizio dell’anno, e cresce il peso di malati psichici e tossicodipendenti, categorie in gravissimo pericolo dentro le mura di tutti gli istituti penitenziari. In Campania, denuncia Di Giacomo, le vittime sono già cinque: due a Poggioreale, una a Secondigliano, un’altra alla Rems di San Nicola Baronia e l’ultima a Santa Maria Capua Vetere. “È la prova - spiega - della sottovalutazione totale della salute mentale dei detenuti, che per un terzo soffrono di malattie psichiche e per un altro terzo di dipendenze. Nel frattempo mancano risorse, personale sanitario e agenti preparati: chi prova ad aiutare viene minacciato e se ne va”. Non basta. Le celle traboccano oltre il 130 per cento della capienza regolamentare; lo Stato spende quasi 150 euro al giorno per ciascun detenuto, senza garantire cure né un sostegno psicologico. Eppure il ministro Nordio sembra alternare proposte non fattibili - ex caserme militari, celle-container - a un’incapacità di costruire nuove carceri. “Ottanta milioni per 380 posti-cella - prosegue il sindacalista - quando ogni mese entrano circa gli stessi detenuti. È uno spreco che non risolve nulla”. A queste denunce si aggiunge il richiamo delle Camere Penali, raccolto dal presidente Francesco Petrelli: “La tragedia era prevedibile, i numeri sono impietosi. Gli interventi finora ipotizzati dal governo non bastano: servono provvedimenti legislativi urgenti, deflattivi e concreti”. Parole nette, che mettono in luce la distanza tra le promesse della maggioranza e i fatti sul terreno. A Campobasso, intanto, l’Ordine degli Psicologi del Molise accredita i numeri del Consiglio Nazionale: oltre 35 suicidi da inizio anno, più di 800 tentativi e migliaia di atti di autolesionismo, in un sistema che ospita 64 mila persone su 47 mila posti. “La psicologia penitenziaria è presidio indispensabile - avverte Alessandra Ruberto - non solo per curare, ma per prevenire, sostenere relazioni e promuovere percorsi di rieducazione”. E poi la voce di Antigone Molise, che registra 91 suicidi nel 2024 e già decine nei primi mesi del 2025. “Un cittadino si toglie la vita alle nostre spalle - sbotta Vincenzo Boncristiano - è uno spettacolo indegno per un Paese civile. Le nuove carceri costerebbero oltre 1,3 miliardi e non risolverebbero il sovraffollamento: servono misure alternative, in linea con l’articolo 27 della Costituzione”. A Napoli, infine, Samuele Ciambriello, garante campano dei detenuti, ricorda: “Morire di pena non è un destino. Morire di carcere e in carcere responsabilizza tutti noi che siamo liberi: società civile, politica, amministrazione penitenziaria, terzo settore e volontariato”. Ritornando ai numeri del sovraffollamento, basta considerare l’allarme lanciato dal garante Stefano Anastasìa, che indica amnistia e indulto come unica via per riportare le carceri alla legalità. Al 31 maggio scorso i detenuti erano 62.761: 11.437 in più rispetto alla capienza teorica e 16.016 in eccesso rispetto ai posti regolamentari effettivamente disponibili (4.579 fuori uso per ristrutturazioni o manutenzioni). Ne deriva un tasso di sovraffollamento del 134,3% - dove dovrebbero esserci cento persone, ce ne sono in media 134-135. Un terzo in più significa non solo una convivenza resa ancora più difficile in ambienti angusti e soffocanti (soprattutto con l’afa estiva), ma anche personale e servizi inadeguati. Le piante organiche - spesso carenti, in particolare tra polizia penitenziaria e personale sanitario - sono programmate sulla capienza ufficiale, non su quella reale. Così, anche quando (come nel caso degli educatori) i posti previsti vengono coperti, manca comunque il margine necessario per un’efficace presa in carico individualizzata. E nelle piante organiche più deficitarie, come quella della polizia, uno-due agenti in turno notturno devono far fronte alle richieste di cento, centocinquanta detenuti. Dietro le sbarre si consuma un’onda nera che racconta l’incapacità di tutelare la dignità umana. Le soluzioni esistono: completare la riforma Orlando del 2018, offrire percorsi veri di reinserimento e approvare la liberazione anticipata speciale proposta da Roberto Giachetti di Italia Viva e Rita Bernardini di Nessuno Tocchi Caino, sostenuta anche dal presidente del Senato Ignazio La Russa. La soluzione è applicare l’articolo 27 della Costituzione. Meno carcere, più misure alternative, percorsi di recupero seri. Mentre il guardasigilli naviga a vista, le vite continuano a spegnersi. L’ultima, un sessantenne senza nome, ha scelto l’impiccagione a Campobasso. Per lui nessun “piano container”, solo un lenzuolo. Abbiamo tolto ai detenuti italiani anche il diritto a coltivare la speranza di Mario Serio* Il Dubbio, 13 giugno 2025 Ogni rinuncia alla vita da parte di chi ne può disporre interpella un numero crescente di coscienze, da quelle degli appartenenti al nucleo familiare ad altre che abitano il contesto lavorativo, fino ad estendersi a quelle riguardanti l’intero tessuto sociale di riferimento della persona. Ma tale rinuncia, quando avviene in una condizione di privazione della libertà, impone una considerazione supplementare e ben più drammatica. E ciò perché è intuitivo ed immediato il collegamento che si è soliti instaurare tra il tragico evento e la condizione privativa della libertà. È evidente, infatti, che quest’ultima rimodelli gli aspetti fisici e psicologici della persona costretta, ristretta, internata, trattenuta, la cui intera vita soffre della limitazione. A questa limitazione corrisponde gradualmente ma inesorabilmente una perdita della percezione di sé come soggetto pienamente titolare di diritti e meritevole del riconoscimento di dignità e rispetto. Sopravviene un inevitabile sentimento di assuefazione non solo alla situazione privativa ma anche alle concrete, sovente terribili, condizioni in cui essa viene attuata. Si finisce con l’abituarsi alle negative percezioni sensoriali (caldo o freddo eccessivi, odori sgradevoli, mancanza d’igiene), ma anche a quelle forme più sottili ed insidiose di riconformazione della personalità, quali il diniego di affettività, la mancanza di attività ricreative o occupazionali, la carenza di cure sanitarie, l’insufficiente assistenza psicologica. L’aggregazione in una sola persona di disagi materiali e stati d’animo ben più afflittivi di quanto la semplice espiazione del venir meno dello “status libertatis” determina, come precipitato prevedibile, la perdita della speranza, sotto vari profili: la speranza del miglioramento delle condizioni, la speranza di ricevere attenzione e rispetto, la speranza dell’avvio di itinerari di formazione lavorativa, la speranza della mitigazione dell’entità e della durata della pena correlata a comportamenti ineccepibili, la speranza della eliminazione dei fattori ostativi alle espressioni affettive più intime, la speranza di spazi detentivi più ampi, la speranza di un incremento del personale penitenziario, la speranza preminente della realizzazione delle finalità rieducative della pena. La delusione di queste speranze non può non agire come propellente per il deterioramento di situazioni di debolezza psicologica o addirittura trasformarsi in causa scatenante il sorgere di nuovi disturbi. L’incapacità di dominio, del tutto spiegabile con la mancanza protratta di libertà, dell’uno o delle altre, l’assenza di percezione istituzionale di questi stati d’animo, la maturata certezza della loro immutabilità, il sentimento d’abbandono del mondo esterno, e di quello istituzionale in particolare, isolatamente o in concorso tra loro ben possono convertirsi in circostanze induttive della rinuncia ad una vita che appare irreparabilmente indegna di essere vissuta. Il sovraffollamento è certamente uno, giammai l’unico, dei momenti che possono influire sullo scoramento e la rassegnazione fatali. I rimodernamenti strutturali e le espansioni edilizie di lungo periodo, e, pertanto, incompatibili con l’urgenza del momento, vengono generalmente considerati dall’attuale popolazione carceraria come interventi chimerici che accrescono frustrazione, delusione, rabbia. Sugli altri elementi prima enunciati (civilizzazione delle condizioni detentive, adeguata assistenza sanitaria e psicologica, previsioni legislative attenuative della durata della pena, prospettive di provvedimenti clemenza, ridisegno degli organici della polizia penitenziaria ormai costretta a ritmi di impegno insostenibili) è indilazionabile una riflessione pubblica, politica ed istituzionale, che abbatta barriere e spenga l’intransigenza e la contrapposizione tra posizioni diverse e, soprattutto, senza indugio individui misure immediatamente adottabili, come da anni ed instancabilmente il Garante nazionale delle persone private della libertà auspica. Ogni ulteriore vita perduta a cagione di ritardi, incertezze, divisioni, petizioni di principio peserà sulle coscienze degli inerti, dei recalcitranti, degli insensibili. Ma è impensabile che nel nostro Stato democratico l’ideale della speranza più volte evocato dal Presidente della Repubblica non venga effettivamente coltivato. È il caso di dire speranzosamente e senza retorica circa i suicidi nei luoghi di privazione della libertà: non uno di più. *Componente collegio Garante nazionale detenuti Quei “nonni” che vivono sepolti dietro le sbarre: il caso di Antonio Russo di Giovanni Alemanno e Fabio Falbo Il Dubbio, 13 giugno 2025 Riceviamo e pubblichiamo da Giovanni Alemanno e Fabio Falbo nel rispetto dell’ordinamento penitenziario. Al Ministro della Giustizia Dott. Carlo Nordio, Al Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Roma Dott. ssa Marina Finiti. Signor Ministro, Egregio Presidente, ci rivolgiamo a voi per raccontare un caso sentano di una realtà che grida giustizia e de interroga profondamente la nostra coscienza civile e costituzionale: quella delle persone detenute ultrasettantenni, i cosiddetti ‘ nonnetti’ rinchiusi nelle carceri italiane, come nel nostro reparto G8 di Rebibbia, dove ci sono cinque detenuti oltre o prossimi agli ottant’anni. Negli scorsi giorni è stata diffusa la notizia di un ex-imprenditore di 94 anni, Renato Cacciapuoti, tradotto nel Carcere di Sollicciano per reati fiscali commessi quindici anni prima e, per fortuna, assegnato alla detenzione domiciliare dopo cinque giorni di tinti! in carcere. Noi vogliamo aggiungere alla vostra attenzione il caso esemplare di Antonio Russo (87 anni), che il 4 giugno scorso si è visto rigettare dal Tribunale di sorveglianza di Roma l’ennesima istanza di differimento pena avanzata per la sua età e per le sue precarie condizioni di salute. Antonio Russo è in carcere dal 2022 per una condanna definitiva a 12 anni di reclusione per un omicidio commesso nell’anno 2018. Si tratta di una triste storia di violenza cominciata dopo che Antonio Russo aveva sposato Rosa Ruffo, una vedova con cinque figli a carico e da cui ha avuto un ulteriore figlio. Russo ha fatto da padre a questi sei giovani che ha sostenuto economicamente con il proprio lavoro di “parchettista”, essendone ricambiato da tutti con rispetto e affetto. Da tutti meno che dal più giovane dei suoi figliastri, Giuliano Lacopo, tossicodipendente dedito alla violenza, che, per estorcere soldi e proprietà, ha per anni aggredito e picchiato sia Antonio Russo che sua moglie Rosa Ruffo. La situazione si fece talmente grave da provocare la morte per disperazione della signora, costretta a fuggire dalla sua abitazione. Ebbene, dopo questo tragico evento, Antonio Russo ha reagito all’ennesima aggressione del giovane, accoltellandolo a morte mentre veniva picchiato selvaggiamente. La situazione di disperazione e di sostanziale legittima difesa in cui è maturato quel gesto, emerge dal fatto che nel giudizio i fratelli e sorelle di Giuliano Lacopo non si sono costituiti parte civile, perché loro stessi subivano abusi e minacce di ogni genere. Anche il vicinato e il quartiere in cui Antonio Russo abitava, gli hanno sempre dimostrato solidarietà e vicinanza, proprio perché testimoni della violenza da lui subita per anni. A dimostrare la mancanza di pericolosità sociale di Antonio Russo c’è anche il fatto che, dopo essersi consegnato alle Forze dell’Ordine il 30 aprile 2018 e aver scontato tre mesi di galera, è stato posto agli arresti domiciliari per 3 mesi e poi in libertà condizionale per quasi quattro anni fino alla sentenza di Cassazione del 30 settembre 2022. Senza creare, in tutto questo tempo a piede libero, alcun problema di sicurezza e anzi mantenendo un comportamento esemplare. Oltre a queste circostanze, nel corso dei tre anni di detenzione fino a ora sopportati le condizioni di salute di Antonio Russo sono nettamente peggiorate, come è stato certificato dalle autorità sanitarie competenti, per l’insorgere delle patologie di ipertensione arteriosa, cardiopatia ipertensiva, episodi di orctena extrasistolica, esofagite, artrosi, insufficienza venosa con problemi agli arti inferiori, patologie per le quali il carcere offre possibilità di cura molto incerte e precarie, anche per la nota carenza di scorte per la traduzione dei detenuti nelle strutture ospedaliere esterne. Ma nel rigetto depositato il 4 giugno 2025 dal Tribunale di sorveglianza di Roma si legge che: “nella relazione sanitaria del 14/04/2025 della ASL Roma 2 si dà atto che le condizioni cliniche del Russo, affetto dalle patologie sopra elencate, sono ‘ discrete’, essendogli garantite in carcere le cure di cui necessita, assumendo egli regolarmente le terapie prescrittegli” e per questo motivo, oltre che per una “pericolosità sociale che non deve comunque essere sottovalutata”, viene rigettata la richiesta della detenzione domiciliare ad una persona di 87 anni. Questo, nonostante la Corte costituzionale con sentenza 56/ 2021 abbia stabilito che i condannati che hanno più di settant’anni possono beneficiare della detenzione domiciliare perché “è illegittimo il divieto assoluto alla misura alternativa prevista dall’art. 47 ter primo comma c. p., in quanto la magistratura di sorveglianza dovrà valutare la residua pericolosità del reo e, la maggiore sofferenza che la detenzione in carcere potrebbe determinare agli anziani. La preclusione assoluta alla misura alternativa è in contrasto con i principi di rieducazione e umanità della pena che, invece, favoriscono la detenzione domiciliare per gli anziani”. Quale funzione rieducativa può avere la pena per chi ha 90 anni? Quale pericolosità sociale può rappresentare un uomo che fatica a camminare, che ha bisogno di assistenza per le proprie cure quotidiane? La nostra Costituzione, all’articolo 27, afferma che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. Ma come può esserci rieducazione quando la pena diventa solo afflizione per una persona al termine della sua vita? Quando il carcere si trasforma in un luogo di sofferenza fisica e psicologica, incapace di garantire cure adeguate, assistenza, umanità? È giusto ignorare che l’età avanzata, da sola, costituisce una condizione di fragilità e vulnerabilità? Il legislatore ha già riconosciuto, in via teorica, la presunzione relativa di incompatibilità tra carcere e età avanzata, prevedendo misure alternative per gli ultrasettantenni. Ma nella pratica, tutto è affidato alla discrezionalità del giudice, generando disparità e ingiustizie. Non si tratta di negare la giustizia, ma di renderla umana, proporzionata, costituzionale. Facciamo appello a Voi, Signor ministro ed Egregio Presidente, perché nessun altro “nonnetto”, a cominciare da Antonio Russo, debba morire solo, malato e dimenticato in una cella. Perché la Costituzione non resti lettera morta, ma viva nei volti e nelle storie di chi oggi chiede solo un po’ di umanità. “Riportatemi in carcere, così almeno mi si spengono le voci” di ??Alessandro Trocino Corriere della Sera, 13 giugno 2025 Chiusi i manicomi, in cella rimangono molte persone con gravi disagi psichici. Nella terza puntata della serie “Voci dal carcere” raccontiamo la salute mentale nei penitenziari italiani. C’è Damiano - e anzi, c’era, perché si è suicidato - che vedeva Satana e ingeriva sostanze caustiche perché si ricordava una preghiera che diceva: “Gesù, lavaci con il fuoco”. C’era Mohammed Andrea, che aveva “il chiasso dentro” e lo ha messo a tacere. C’era Giacomo, che aveva un disturbo borderline di personalità e che si è infilato una lametta in gola a San Vittore. C’era Matteo, che aveva un disturbo bipolare e aveva minacciato il suicidio se lo avessero messo in isolamento, infatti lo hanno messo in isolamento e si è impiccato. E poi ci sono ancora migliaia di detenuti che hanno una qualche forma di disagio psichico e che stanno chiusi in cella. Che ne è di loro? Per capirlo basta guardare i dati dell’ultimo rapporto di Antigone: quattro detenuti su dieci fa uso di sedativi o ipnotici, due su dieci di stabilizzanti dell’umore, antipsicotici e antidepressivi. Le diagnosi psichiatriche gravi riguardano il 13,7 per cento dei detenuti. Parlare di carcere significa parlare di tossicodipendenza e di disagio psichico, di abuso di psicofarmaci e sofferenza. Il quadro normativo è complesso. Proviamo a riassumerlo. La distinzione fondamentale è tra i cosiddetti “folli rei” e i “rei folli”. I primi - i “folli rei” - sono quelli che hanno commesso un crimine ma non sono considerati imputabili, perché incapaci di intendere o di volere o per vizio parziale di mente. Prima venivano mandati nei manicomi criminali, poi negli Opg, gli ospedali psichiatrici giudiziari, chiusi nel 2014 con la legge 81. Ora sono sottoposti alla misura di sicurezza della libertà vigilata, con percorsi di cura territoriali o comunitari. In via residuale, nei reali casi di pericolosità, finiscono nelle Rems, le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza: ce ne sono 30, con 600 pazienti (100 dei quali a Castiglione delle Stiviere). I secondi - i “rei folli” - sono persone che hanno commesso un crimine e che, una volta in carcere, si scopre che sono affetti da una patologia psichiatrica, preesistente e non diagnosticata oppure sopravvenuta o slatentizzata. Per loro - che sono tantissimi - ci sono due strade: restano in carcere, in sezioni speciali; oppure, attraverso la detenzione domiciliare (ottenuta grazie a una sentenza della Corte costituzione), possono andare in comunità o a casa, affidati al Dipartimento di salute mentale. La terza via, forse la più battuta, è quella che li lascia dove sono: in cella, a urlare e spaccare tutto, oppure sedati, ridotti a zombie da un abuso di psicofarmaci usati con funzione di controllo e di neutralizzazione. Michele Miravalle, di Antigone, è preoccupato soprattutto dalla zona grigia: “Persone che non stanno così male da ottenere di uscire dal carcere, ma che hanno comunque un grave disagio psichico. Spesso finiscono nelle sezioni speciali, in isolamento, che sono i reparti peggiori, quelli più a rischio suicidio. Oppure stanno in cella con altri, e finiscono magari come il diciottenne del Marassi, che è stato torturato dai compagni per due giorni, approfittando della sua fragilità psichica. L’altra strategia è l’uso massiccio di psicofarmaci, che diventa contenzione psicologica e annienta le persone. Spesso c’è tensione tra gli agenti, che premono sui sanitari per prescrivere questi psicofarmaci senza reali motivi terapeutici ma solo a fini disciplinari, come anestetizzanti. I dati peggiori, su questo, sono negli istituti per i minori”. Antonella Calcaterra è una combattiva avvocata milanese, che si occupa da anni di questi temi: “Il sistema normativo, grazie anche agli interventi della Corte costituzionale, è piuttosto buono. Il problema è che mancano risorse. Si fanno le leggi, ma non ci si mettono i soldi. Per la salute mentale si spende in Italia il 3 per cento del budget sanitario, contro il 20-30 per cento di altri Paesi. Mancano le strutture territoriali, i servizi, il welfare, le reti di accoglienza”. E poi c’è il caso delle doppie diagnosi. Si tratta di persone che hanno problemi psichiatrici e contemporaneamente una qualche forma di dipendenza. Sono moltissime e per loro i problemi aumentano: “C’è un ragazzino di 20 anni a San Vittore, in carcere per un reato modesto, che ha un disturbo borderline severo ed è tossicodipendente. Per un mese ci siamo scambiati mail a ripetizioni con San Vittore, il centro di salute mentale e le altre strutture. Ognuno diceva che non competeva a lui, ma agli altri. Alla fine grazie alla Casa della Carità, benemerita, è riuscito a uscire. Ma si è fatto un mese di carcere che non doveva fare e adesso, dopo sei mesi, ancora non c’è un progetto terapeutico vero. La verità è che viviamo di volontariato, di terzo settore, di associazioni sconosciute e che fanno quello che dovrebbe fare lo Stato”. Anna Viola, educatrice di San Vittore, ribalta il punto di vista: “La situazione in carcere è drammatica, ma fuori anche. Penso ad Eric, del Ghana. Sentiva le voci, il jinn, come lo chiamano loro, un’entità soprannaturale maligna che li spinge a fare del male. Faceva una terapia antipsicotica, con una puntura al mese, che lo faceva stare meglio. Lo hanno scarcerato, è stato preso in carico dal servizio di etnopsichiatria. Ma gli sono scaduti i documenti e gli hanno tolto la terapia. Era in dormitorio e lo hanno cacciato perché non aveva più il permesso di soggiorno. Gli è tornato il Jinn. È finita che ha spaccato tutto e ha detto: “Portatemi in carcere che almeno mi spegne le voci”. Anna ha visto di tutto in cella: “Gente che parlava con i pappagalli, persone che erano lì perché spaccavano solo le macchine di un certo colore. Uno che è entrato e ha distrutto quattro celle in un’ora. Ragazzi che si tagliano o si sballano con la bomboletta del gas. Certi agenti li ammiro, non capisco come facciano a sopportare, se ne rimangono lì per ore mentre gli tirano feci, gli urlano di tutto, li insultano. Uno diceva di essere il figlio di Berlusconi: secondo lei, dovrei stare in cella?”. Lei prova ad aiutarli: “Ma sono da sola, sono l’unica educatrice, e sono anche in attesa del contratto. Ci parlo, ci gioco a carte, a un due tre stella, mi diverto anche. A uno gli ho detto: ma perché non ti leggi un libro della biblioteca. È tornato e mi fa: com’è questo? Era il Vangelo. Gli ho detto: bello, il protagonista muore, ma c’è un finale scoppiettante, leggilo”. Una volta le persone con disagio psichico avevano diritto a stare fuori dalle celle due ore supplementari: “Poi è arrivata una circolare, e tutti dentro. Non era di questo governo. Ma se ora in via Arenula scoprono che hanno diritto ancora a due ore d’aria, si preoccupano: non sarà un’overdose di ossigeno?”. Anche Miravalle, come Calcaterra, è convinto che non ci sia bisogno di interventi legislativi: “Vedo però un’applicazione molto timida e conservativa delle misure da parte dei magistrati di sorveglianza. C’è una regressione culturale, sia i magistrati sia gli operatori sono più orientati al controllo che alla cura. Sono i germogli di una controriforma. Hanno ucciso Franco Basaglia. Servirebbe più dialogo con i servizi territoriali sanitari. Mancano strutture specializzate e il sistema delle comunità è al collasso. Tra l’altro, queste ultime sono al 99 per cento dei privati. Che quindi possono decidere chi accogliere e fino a quando. Servirebbe un intervento dello Stato”. In questi giorni è citatissima Goliarda Sapienza, grazie al film di Mario Martone “Fuori”. La citazione migliore, per noi, è questa: “Il carcere è sempre stato e sempre sarà la febbre che rivela la malattia del corpo sociale”. Fa il paio con quella di Franca Ongaro Basaglia, che suona particolarmente rivoluzionaria in tempi di criminalizzazione della resistenza passiva. Scriveva: “Cosa ha annientato il malato? L’autorità. Per riabilitarlo occorre abituarlo a ribellarsi. Dato però che il nostro sistema sociale non è interessato alla riabilitazione del malato mentale, in quanto non ha lavoro neanche per i sani, bisogna riformare anche la società”. Si dimette l’avvocato del Garante: “C’è il rischio che le vittime di tortura restino senza giustizia” di Thomas Mackinson Il Fatto Quotidiano, 13 giugno 2025 L’avvocato Michele Passione lascia l’incarico dopo dieci anni di battaglie nelle aule e nelle carceri: “Silenzio istituzionale, visite svuotate di senso”. A rischio i processi per tortura. “Se non entri nei luoghi della detenzione, se non guardi, non puoi nemmeno vedere cosa sta succedendo. Io mandavo report, segnalavo, ma nessuno rispondeva. Quando il Garante smette di ascoltare, è finita”. Così Michele Passione, avvocato storico del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, ha annunciato le sue dimissioni. Una decisione amara e radicale, che arriva dopo oltre dieci anni di attività e impegno nei principali processi per maltrattamenti e torture in carcere: da San Gimignano a Reggio Emilia, da Santa Maria Capua Vetere a Verona. “Io vado in carcere da trent’anni”, dice. Ma ora lascia, denunciando un clima cambiato, la perdita di “sintonia” con l’attuale collegio del Garante, scelto dal governo Meloni, e soprattutto il silenzio assordante che accompagna la scomparsa della relazione al Parlamento: lettere rimaste senza risposta, relazioni ignorate, nomine riassegnate all’insaputa del diretto interessato. Il risultato, avverte, è un pericoloso arretramento dell’impegno civile: meno controlli, meno denunce, meno processi. E più impunità. Avvocato Passione, perché ha deciso di dimettersi? È una scelta che ho maturato dopo mesi di assenza di risposte, di mancanza di interlocuzione. Ho inviato relazioni, segnalazioni, documentazione processuale: non ho ricevuto nulla. A un certo punto ho pensato che fosse meglio lasciare. Se non c’è più una sintonia sul mandato, è giusto che quella storia la scriva qualcun altro. A cosa serve l’avvocato del Garante? A salvaguardare diritti fondamentali innanzitutto, ma anche a ottenere sentenze fondamentali. A San Gimignano, il tribunale ha riconosciuto per la prima volta la tortura come reato autonomo del pubblico ufficiale. Una decisione di 200 pagine. Altre volte l’esito è stato deludente, come a Reggio. Ma in ogni caso, se non c’è un difensore, se non si resiste alle eccezioni, il processo rischia di deragliare. ?? Quali segnali le hanno fatto capire che non c’era più sintonia? Con il vecchio collegio si lavorava con convinzione: nomine tempestive, partecipazione agli incidenti probatori, visite a sorpresa nei luoghi di detenzione. Con il nuovo collegio tutto questo si è affievolito. Le visite si sono rarefatte, le nomine sono arrivate tardi o non sono arrivate affatto. E soprattutto non si fanno più le visite vere, quelle senza preavviso, con équipe di giuristi, psicologi e medici che controllano davvero le condizioni di detenzione. In passato entravamo in carcere alle nove del mattino e uscivamo a mezzanotte. E invece ora? Si racconta di numerosissime visite nel giro di pochi mesi: ma così non si vede nulla. In più, il Garante dovrebbe parlare con una voce sola. Invece escono comunicati singoli, prese di posizione individuali. Per me questo non è compatibile con il ruolo di un’istituzione di garanzia. Il Garante sapeva che l’incarico stava per essere riassegnato... Non solo lo sapeva: me lo ha detto, ma solo per via indiretta. Dopo che per mesi mi era stato detto il contrario. Non è questione di stile, ma di metodo. Oltre che di cortesia personale. Qualcuno ha cercato di farla desistere dalla decisione? No. Un componente ha risposto con cortesia, ma nessuna richiesta formale di rivedere la decisione è mai arrivata. Nessuno del collegio, né tantomeno il presidente, ha cercato un confronto vero. Anche questo è stato un segnale. Le sue dimissioni potrebbero compromettere i processi in corso? Spero di no. Ma sono processi complessi, delicati. Servono persone competenti, presenti. A Santa Maria Capua Vetere abbiamo fatto udienze dalle 8 di mattina alle 6 di sera, anche oltre. Se non si seguono con attenzione, se non ci si costituisce parte civile, il rischio è che finisca tutto in assoluzioni o prescrizioni. Già a Reggio Emilia abbiamo visto derubricare la tortura ad abuso di autorità. E parliamo di un detenuto preso a calci, lasciato nudo in cella, con un cappuccio in testa. Ha incontrato anche difficoltà pratiche nell’esercizio della difesa? Sì. Perfino per avere atti che il Garante possedeva mi è stato risposto di rivolgermi al Dap. È paradossale: il controllore che rinvia al controllato. Quasi a voler scoraggiare, ostacolare, rendere impossibile il nostro lavoro nei processi più delicati. Il collegio oggi appare più frammentato? Sì, non c’è più unitarietà. Ognuno sembra andare per conto suo. C’è chi prende posizione individualmente, chi firma dichiarazioni a titolo personale su carta intestata dell’Autorità. Ma un garante che parla con tre voci dissonanti non può funzionare. Serve una linea comune, se si vuole incidere. Vede una connessione col recente “decreto sicurezza”? Sì, è l’aria che tira. Ho partecipato alle audizioni in Parlamento e ho detto con chiarezza quello che penso. Altri, anche all’interno del Garante, sono stati molto più accomodanti. Il decreto sicurezza dedica la metà degli articoli alle forze dell’ordine, garantendo coperture e immunità, mentre criminalizza il dissenso. Io mi aspettavo una voce più ferma. Non l’ho vista. Ci sono altri segnali che dovrebbero allarmare? Non si fanno più relazioni al Parlamento, ed è un fatto gravissimo. La relazione del Garante era uno strumento di trasparenza, di controllo democratico e di pressione istituzionale. Dal cambio di collegio quella relazione è scomparsa. Nessuna rendicontazione, nessun confronto pubblico. È il segno di un arretramento culturale, prima ancora che giuridico. Il nuovo presidente del Garante viene dal Dap. È un problema? Parliamo di un’autorità di garanzia, che dovrebbe vigilare su chi gestisce le carceri oltre ad avere giurisdizione anche su CPR, RSA, SPDC, aeroporti. Ma in particolare sul carcere. Il Garante attuale proviene da quella stessa amministrazione. Il rischio è a monte della scelta che individua una persona che si porta fisiologicamente dietro una storia e non la può dismettere in un momento. Il problema è però quello che rivela il passare del tempo, e cioè che non c’è l’attenzione che lo svolgimento di questo lavoro secondo me merita. C’è chi parla di un disimpegno consapevole: si vuole lasciar morire i processi più scomodi? Non posso dirlo. Ma se si pensa che chi li ha seguiti fin qui non sia più adatto, lo si cambia. Non si lascia tutto in sospeso. Io l’ho fatto gratis, con passione e competenza. Ho scritto e studiato la tortura prima che fosse reato. Per questo, almeno, mi sarei aspettato trasparenza. A questo punto, cosa si aspetta? Mi aspetto che il Garante ritrovi la rotta. Che qualcuno segua quei processi con la stessa attenzione. Perché altrimenti è tutta fatica sprecata. E le vittime restano senza giustizia. Io ho fatto la mia parte. Ora tocca ad altri. Carceri, detenuti e Garanti. Storie edificanti come un girotondo di carnevale di Adriano Sofri Il Foglio, 13 giugno 2025 Domani riferirò di un incontro notevole avvenuto mercoledì al Gabinetto Vieusseux fiorentino, sulla proposta di legge che raccomanda ai magistrati di trascorrere un periodo in galera prima di prendere servizio. Se volete arrivare a domani già preparati, e senza il rischio di pensare che sia tutto uno scherzo, potete ascoltare la registrazione dell’incontro su Radio Radicale. Nel frattempo, metto insieme tre o quattro notizie utili a fare il punto, e a sollecitare uno stato d’animo appropriato al problema. Era di martedì la notizia su un signore di 94 anni, giudicato autore tredici anni prima del fallimento di un’impresa editoriale, condannato per bancarotta, e messo in carcere, in quella sentina ripugnante che è Sollicciano, e solo dopo un po’ di pubblico sbigottimento e di indignazione è stato spostato nel meno brutale Solliccianino, e di qui agli arresti domiciliari. Infatti ha una casa, e dei famigliari affezionati ed esterrefatti. In galera è rimasto 6 giorni - cioè, soprattutto, 5 notti. La vera galera è notturna. E’ una storia edificante come un girotondo di carnevale: gli agenti di polizia che vanno a prelevare un signore vetusto a casa sua e lo riportano a casa sua una settimana dopo, fatto ancora più esperto della vita e del mondo. Infatti ha raccontato il suo soggiorno con altri quattro in una cella, con un unico cesso, e ha detto di vergognarsi del sistema carcerario italiano. So immaginare con quanta premura sia stato trattato dai suoi improvvisi compagni e dagli agenti penitenziari. Qui si intravvede un caso in cui il desiderio che un magistrato vada in galera, e precisamente a Sollicciano, non riguarda la sua formazione culturale morale e professionale, ma una punta, una puntura aguzza, di giustizia. Era di ieri poi la notizia, che ho letto sul Fatto, delle dimissioni del legale storico del Garante nazionale dei detenuti, Michele Passione, legate all’”aria che tira”, certi esiti processuali (Reggio Emilia, dove la tortura che più canonica non si può è stata derubricata ad abuso di autorità e lesioni gravi), un innovativo contesto legale che “garantisce ogni tipo di tutela alle forze dell’ordine e criminalizza il dissenso”, una subordinazione del Garante al Dap, dal quale dovrebbe al contrario garantire sé il suo prossimo. Sempre di ieri era il conto dei suicidi della vigilia: 3 (tre). Nell’anno scorso: 91. Quelli contati. (1500 quelli tentati…). Il conto veniva intanto discusso a Roma col cardinale Zuppi, secondo il quale un atto di clemenza, in tempo di giubileo, non sarebbe buonismo - sarebbe solo buono - e gioverebbe alla sicurezza. C’era un’altra notizia tristissima ieri. Quella di un carabiniere, il brigadiere Carlo Legrottaglie, all’ultimo giorno di servizio, ucciso da un rapinatore a Francavilla Fontana. Dei due autori della tentata rapina uno è poi stato ucciso e l’altro catturato. Chi volesse fare della commovente morte del carabiniere un’occasione per esibire la propria cattiveria sulla galera gli farebbe un gran torto. A domani. Il carcere, Garlasco, il kitsch di Andrea Granata ilpomeriggio.it, 13 giugno 2025 Proprio nei giorni in cui ovunque impazzava la vicenda del delitto di Garlasco, con copertura mediatica davvero impressionante, nel silenzio quasi generale lo scorso 28 maggio veniva pubblicato “La Battitura, strage in carcere”. Si tratta di un podcast in sei episodi del Tg1 per RaiPlay Sound scritto e condotto da due valenti giornalisti, Perla Di Poppa e Alessio Zucchini. La vicenda racconta della più grave strage in carcere dell’età repubblicana avvenuta nel penitenziario di Modena in seguito ad una rivolta scoppiata nel marzo 2020. Detonatore della rivolta fu il mix dei primi contagi in carcere da Covid 19 e le conseguenti restrizioni a visite e permessi. Tredici detenuti, tredici persone affidate allo Stato persero la vita. Di fronte alla semi-clandestinità in cui è stata relegata la vicenda, sembra irreale sentire ovunque e da chiunque pronunciare frasi come “è meglio un colpevole libero piuttosto che un innocente in carcere” o l’evocazione della condanna solo “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Neanche un briciolo dell’amore per la giustizia di cui settimane sentiamo gli effluvi tra una pausa per gli acquisti e l’altra riesce ad uscire dagli studi televisivi per dedicarsi ai luoghi dove si svolgono gli esiti di quella giustizia: le carceri. Come dicono gli autori del podcast di tutto quello che accade in carcere non interessa a nessuno mentre sulla vicenda di Garlasco assistiamo al trionfo di quella cosa che Kundera definiva kitsch, la volontà dell’uomo di rendere ideale ciò che invece e? reale, specchiandosi compiaciuto di questo abbellimento. Il carcere, forse la sua promiscuità, è evidentemente qualcosa che non si è ancora riusciti ad idealizzare, qualcosa che resta il male o come avrebbe detto Kundera la merda, la negazione del kitsch e di ogni mondo ideale. Ci piacciano o meno i plastici di casa Poggi ed i pittoreschi personaggi che popolano i talk show dobbiamo prendere atto che questa oggi è l’informazione, un qualcosa che vive per compiacere i suoi fruitori, per farli sentire migliori, aspiranti costruttori di un mondo migliore. Noi nel frattempo godiamoci questa informazione che da contro canto ai potenti è diventata essa stessa un potere. Un potere accogliente che gigioneggiando tra i buoni sentimenti il circense e la dispensa di indulgenze e l’impegno sociale realizza fatturati da Big Pharma. Damiano Aliprandi, chi ha premuto il pulsante? di Claudio Bottan vocididentro.it, 13 giugno 2025 Nel giro di qualche giorno abbiamo avuto notizia dell’epurazione da parte di Meta nei confronti di due giornalisti. Mariano Giustino, una firma di Radio Radicale, corrispondente dalla Turchia, collaboratore di diversi quotidiani e settimanali, “in particolare dopo due post, uno sull’uso del caos da parte di Hamas, l’altro sulla gogna in Turchia per i sindaci oppositori” scrive il diretto interessato. Stessa sorte per Damiano Aliprandi de Il Dubbio, uno dei più preparati, vivaci e indipendenti scrittori di giustizia e carceri a detta di molti addetti ai lavori. Per quanto riguarda Mariano Giustino, Meta ci ha ripensato. “Cari amici, i miei account sono stati ripristinati! La piattaforma Meta è tornata sui suoi passi e ha deciso di ripristinare i miei account Facebook e Instagram, grazie alla pressione di tutti voi - scrive oggi Giustino-. Ringrazio di cuore tutti coloro che mi hanno sostenuto e hanno fatto sentire la loro voce, non in mia difesa, ma in difesa della libertà di informazione. Non è una vittoria perché come ho precisato questa censura non riguarda solo me, riguarda la libertà di informazione e di espressione, riguarda tutti”. Ora bisogna tenere alta l’attenzione, e la pressione, sulla vicenda di Damiano Aliprandi, “in castigo” da un paio di settimane. “Chi ha deciso di oscurarlo da Facebook? Chi ha premuto il pulsante che ha fatto sparire un giornalista vero, una voce scomoda, da una piattaforma che si spaccia per libera ma che risponde a logiche opache, algoritmi anonimi e centri di potere senza volto?” - sono le domande che si pone la redazione de Il Dubbio riguardo al collega-. Questa non è una semplice sospensione dell’account: è un atto di censura arbitraria. È il segno evidente che ci troviamo di fronte a colossi digitali - aziende private, fuori da ogni controllo democratico - che decidono chi può parlare e chi no. Nessuna legge, nessuna trasparenza, nessun contraddittorio. Un sistema che fa impallidire il vecchio conflitto di interessi di berlusconiana memoria: qui non parliamo più di media tradizionali, ma di piattaforme che governano l’informazione globale, che influenzano l’opinione pubblica e gestiscono flussi economici enormi senza dover rendere conto a nessuno”. “Chi ha paura di Damiano Aliprandi che parla del Dossier Mafia appalti in tv a Far West e pochi giorni dopo viene spento sulle piattaforme di Meta?” - si chiede Simona Giannetti, avvocato radicale. Quanto potere hanno ‘le cavallette’, forse anche dei bot creati ad arte da certa propaganda contro la verità?”. Non si fanno attendere le social-risposte di quanti vorrebbero Damiano Aliprandi in galera per il semplice fatto di averne censurato i deliranti commenti, un esercizio di stile scambiato per affronto personale e limitazione di una pseudo libertà di espressione. Intanto si moltiplicano gli attestati di stima per uno tra i giornalisti più attivi, nonché profondo conoscitore delle dinamiche che riguardano gli istituti penitenziari e la giustizia, oltre ad essere un “fastidioso” analista dei meccanismi che ruotano intorno ai processi sulla mafia e che, forse proprio per questo, è inviso a molti. Una penna libera, che con le sue analisi quotidiane - spesso affidate a Facebook - apre uno squarcio sulla cortina di fumo che avvolge un sistema opaco e autoreferenziale qual è il carcere. “Ci pensiamo noi a condividere gli articoli puntuali e precisi di Damiano Aliprandi” - scrive, su Facebook, la leader radicale Rita Bernardini. “Che questa ennesima censura sia il risultato di una malintesa applicazione di normative, di richieste specifiche di governi stranieri, di un algoritmo, magari abilmente manipolato da agenti di questi regimi, o da operatori dei suddetti social, riteniamo responsabilità di Meta garantire sulle sue piattaforme la libertà di informazione e di espressione di ogni giornalista o cittadino che non violi la legge” scriveva il Cdr di Radio Radicale. Una considerazione che noi di Voci di dentro facciamo nostra e condividiamo in nome della sacrosanta libertà di espressione, un diritto che difendiamo quotidianamente con i laboratori all’interno degli istituti penitenziari, e anche fuori, pubblicando una rivista libera e senza padroni. Spese legali risarcite agli assolti, ora il fondo di via Arenula funziona di Errico Novi Il Dubbio, 13 giugno 2025 Gli ultimi dati sull’istituto sollecitato dal Cnf, introdotto grazie a Costa e potenziato da Nordio: nel 2025 domande in aumento di oltre il 30% rispetto a due anni fa. “I Coa possono aiutarci a crescere ancora”. È un bel risultato. Un tassello nella costruzione dello Stato di diritto. Il fondo per il ristoro delle spese legali agli assolti comincia finalmente a suscitare interesse, a essere utilizzato più diffusamente. Nel 2025 cresce, fino a sfiorare il migliaio, il numero delle istanze proposte: in tutto 919, più del doppio rispetto alle domande presentate nel 2022, cioè nel primo esercizio di vigenza dell’istituto, quando si registrarono appena 362 richieste. L’opportunità riguarda gli imputati prosciolti con formula ampiamente liberatoria, come recita la norma (articolo 1, commi da 1015 a 1020, della Manovra per il 2021, cioè la legge 178 del 2020). È il ministero della Giustizia, interpellato dal Dubbio, a fornire gli ultimi dati. Che dimostrano quanto la previsione introdotta cinque anni fa rispondesse a un principio sacrosanto, a un’aspettativa reale. E, va detto, la “tenuta” del fondo è anche uno dei meriti da riconoscere a Carlo Nordio, a fronte degli “atti mancati” nella politica giudiziaria dell’attuale governo, in particolare sul carcere. Al guardasigilli va dato atto di aver investito sul ristoro delle spese legali agli innocenti fin dal proprio insediamento: la dotazione della “riserva”, all’inizio, era di 8 milioni, ma con la prima legge di Bilancio del governo Meloni, il ministro ha preteso e ottenuto che lo stanziamento fosse innalzato a 15 milioni. Il limitato utilizzo delle risorse, riscontrato anche nel 2023 e nel 2024, aveva fatto temere che la voce potesse essere persino soppressa, o comunque drasticamente ridimensionata. Alla fine c’è stata sì una riduzione, da 15 a circa 12 milioni, ma è niente rispetto alla parte del “tesoretto” rimasta inutilizzata anche l’anno scorso, quando sono stati erogati poco più di 3 milioni e 600mila euro. Adesso la marcia è più spedita, fanno sapere, soddisfatti, da via Arenula. I numeri lo dicono. Rispetto al 2023, le istanze presentate sono cresciute di oltre il 30%: da 703 (diventate 783 nel 2024) ora ammontano, come detto, a 919. Non si conosce l’importo che, per l’anno in corso, sarà effettivamente erogato, dal momento che il vaglio delle domande è agli inizi. Ma è interessante, spiegano dagli uffici di Nordio, che “nel corso degli anni le somme effettivamente erogate sono cresciute insieme alle domande di accesso al fondo” e che anzi, “gli importi erogati sono aumentati in maniera ancora più evidente rispetto al numero delle istanze: le somme versate nel 2024, 3 milioni e 617mila euro, risultano pari a circa il 400% di quanto erogato nel primo anno di vigenza del fondo, quando ammontarono a un po’ meno di 951mila euro”. Altrettanto significativo, fa notare ancora il ministero della Giustizia, il balzo in avanti compiuto dalla percentuale di domande accolte: all’esordio, sempre nel 2022, furono esattamente il 50%, 182 su 362. Si è passati al 72% delle istanze ammesse nel 2023 (506 su 703) e all’80% delle pratiche andate in porto nel 2024 (627 su 683). Da qui la ragionevole aspettativa che, per il 2025, ci si possa attestare attorno alle 800 istanze accolte, in modo da avvicinarsi a un impiego del fondo pari a circa 5 milioni. “La crescita degli importi erogati è correlata a una crescita della qualità delle istanze presentate”, spiegano da via Arenula “dovuta a una serie di fattori: la pubblicazione e l’aggiornamento di dettagliate schede informative sul sito del ministero, l’introduzione di un canale di contatto specifico da parte di Equitalia Giustizia e l’attivazione del cosiddetto soccorso istruttorio”. Via Arenula punta ovviamente a una progressione continua nell’uso delle risorse destinate a risarcire gli imputati assolti. Dagli uffici del guardasigilli aggiungono: “Si possono intraprendere ulteriori misure, per favorire un’ancora maggiore partecipazione al fondo: innanzitutto, promuovere una modifica normativa sui criteri di accesso”, in modo da “ritenere ammissibili tutti i pagamenti digitali o tracciabili e non solo i bonifici. Ancora, consentire la presentazione della domanda da parte dell’avvocato per conto dell’imputato assolto, come avviene, ad esempio, per la legge Pinto, semplificare la documentazione giurisdizionale e di spesa richiesta”, fino a “pubblicizzare il fondo con gli attori istituzionali coinvolti, con gli Ordini professionali e, eventualmente, con gli organi di stampa”. Il Dubbio ha fatto la propria parte, fin dalla nascita dell’istituto. Ha segnalato alcuni “bug” del regolamento, come la preclusione per i giovani che, pur maggiorenni, non dispongono di reddito propri e pagano il difensore grazie all’intervento dei familiari: il Gabinetto di Nordio è stato prontissimo, va riconosciuto, nell’eliminare quel paradosso. L’introduzione del fondo, bisogna ricordarlo, si deve all’iniziativa dell’allora responsabile Giustizia di Azione, e oggi deputato di FI, Enrico Costa. Fu lui a convincere addirittura il guardasigilli M5S Alfonso Bonafede a istituire un risarcimento, seppur entro un massimale di circa 10mila euro, per chi è inghiottito, da innocente, nella macchina del processo penale. Non si può dimenticare, d’altronde, come l’idea, in origine, provenga dal Consiglio nazionale forense che, prima ancora del vittorioso tentativo di Costa, aveva affidato a diversi parlamentari la propria proposta di legge, in cui si prevedeva il recupero di tutte le spese legali sostenute da chi, davanti a un giudice penale, non sarebbe dovuto mai comparire. Ce n’è voluto per affermare un principio in realtà sacrosanto. E merito a chi, come Costa e Nordio, ci ha creduto e continua a crederci. Magistrati fuori ruolo, il Csm insiste prima della stretta della Cartabia di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 13 giugno 2025 Mentre gli uffici giudiziari sono in sofferenza e l’arretrato minaccia gli obiettivi del Pnrr l’ultima nomina riguarda una giudice in servizio alla Corte d’appello di Napoli. Ancora magistrati collocati fuori ruolo. A un ritmo ormai divenuto incessante, il Consiglio superiore della magistratura anche questa settimana ha disposto il collocamento fuori ruolo di una toga. Si tratta della giudice napoletana Allegra Migliorini, attualmente in servizio presso la Corte d’appello del capoluogo campano. La giudice nelle prossime settimane andrà a ricoprire l’incarico di direttore dell’Ufficio I della Direzione generale degli affari internazionali e della cooperazione giudiziaria del Dipartimento per gli affari di giustizia (Dag) di via Arenula. La pratica, come da prassi, si è limitata al solo rispetto dei parametri previsti, e che quindi non ci siano scoperture superiori al 20 percento nell’ufficio, senza entrare nel merito del curriculum della diretta interessata e senza, soprattutto, interloquire sull’arretrato che nella Corte d’appello di Napoli è a livelli allarmanti. Arretrato, va ricordato, che rischia di impedire il raggiungimento degli obiettivi del Pnrr con l’abbattimento dei tempi di definizione dei processi del 40 percento entro il prossimo anno. “Si tratta di una scelta a dir poco sorprendente: i fuori ruolo che stiano autorizzando in questi mesi vengono per la maggior parte da Napoli e Roma, uffici notoriamente in crisi severa”, ha commentato il togato indipendente Andrea Mirenda. Qualcuno, malignando, ha fatto notare che questa rincorsa spasmodica al fuori ruolo sia determinata dalla voglia “saturare” tutti i posti disponibili prima che scatti la tagliola prevista dalla Cartabia. Con il decreto legislativo numero 45 del 2024, attuativo della legge Cartabia, sono state infatti ristrette per i magistrati le possibilità di andare fuori ruolo, fissando il loro numero massimo complessivo in 180 invece che in 200 come è attualmente. Il numero di 180, che andrà a regime dal prossimo primo gennaio, considerando la tendenza attuale di collocamento fuori ruolo, sarà raggiunto entro pochi mesi. Ecco quindi la “rincorsa” del Csm per fare affidamento al vecchio regime che prevede, come detto, 20 posti in più. Il Csm, per la cronaca, per avere più posti disponibili aveva anche diramato nei mesi scorsi una circolare con una interpretazione estensiva della riforma Cartabia prevedendo deroghe in casi di incarichi internazionali che comportino “l’esercizio di funzioni giudiziarie all’estero” o “il coordinamento e/o di supporto all’attività giurisdizionale svolta a livello internazionale”. In quel caso non ci sarebbero paletti di alcun tipo. L’affollamento di magistrati fuori ruolo, non è una novità, stride con tutto ciò che accade negli uffici giudiziari. È sufficiente a tal proposito leggere il “Rapporto sul monitoraggio continuo degli obiettivi Pnrr”, elaborato dalla Direzione generale di statistica del ministero della Giustizia. Si registra, si legge nel Rapporto, una riduzione del disposition time medio nei tre gradi di giudizio civile, passato da 2.512 giorni nel 2019 a 2.008 nel 2024 (- 20%). Nel dettaglio, per quanto riguarda i tribunali, si è giunti a 488 giorni nel 2024 (- 12,2% rispetto al 2019), ma in crescita rispetto al 2023 a causa dell’aumento delle iscrizioni (+ 12,4%). Il Dubbio, in esclusiva, aveva annunciato nelle scorse settimane la task force predisposta dal ministero della Giustizia di 500 magistrati per lo smaltimento dell’arretrato e rispettare gli obblighi contratti con Bruxelles. “Appare evidente - scrissero nel 2021 a piazza Indipendenza - la sproporzione tra l’ambizioso obiettivo indicato nel Pnrr ossia di ridurre di circa il 40 per cento i tempi dei processi civili e abbattere l’arretrato, e quelle che dovrebbero essere le sole nuove risorse umane immesse nel sistema giustizia, anche sprovviste di pregresse esperienze professionali, assunti con contratti a termine”. Parole che hanno un suono beffardo alla luce dei tanti magistrati fuori ruolo successivamente autorizzati dallo stesso Csm. Ma come se non bastasse in questo quadro a tinte fosche, c’è il grande tema della riapertura degli uffici giudiziari, che erano stati chiusi da Mario Monti, e la creazione di nuovi. È di questi giorni la notizia che verrà istituita una Corte d’appello a Verona che dovrebbe seguire la creazione del tribunale della Pedemontana. “L’apertura di questo nuovo tribunale, l’ottavo in Veneto, creerà solo problemi in quanto non ci sono magistrati e tantomeno amministrativi”, aveva affermato nei mesi scorsi in un colloquio con il Dubbio Alessandro Moscatelli, presidente del Coa di Vicenza. L’organico di tale ufficio giudiziario è stato fissato in 28 magistrati giudicanti con 84 amministrativi e in 10 pm con 36 amministrativi. Numeri difficili da recuperare considerando la situazione degli uffici giudiziari del Veneto, da sempre in grande affanno “Questo progetto non ha basi giuridiche né organizzative. Anzi, rischia di frammentare il sistema giudiziario, aggravando le criticità esistenti: carenza di organico, scarsità di risorse, dispersione delle competenze”, è quanto si sente dire a Vicenza fra gli addetti ai lavori. “Invece di rafforzare il tribunale di Vicenza, sede naturale e centrale della giustizia per tutta la provincia, si propone un ritorno al passato inefficiente e dispendioso”, hanno aggiunto gli oppositori della nuova struttura, fra cui anche l’Anm locale. Sarebbe allora opportuno un cambio di passo, favorendo per le toghe la giurisdizione e non invece le attività amministrative. I magistrati ora attaccano la riforma costituzionale nelle requisitorie. Alla faccia della separazione dei poteri di Ermes Antonucci Il Foglio, 13 giugno 2025 Il pm di Torino Paolo Toso durante la requisitoria finale di un processo definisce “preoccupante” la riforma in discussione in Parlamento. Una palese esondazione nel campo della politica. Per Nordio e Csm tutto normale? Pur di contrastare la riforma della separazione delle carriere ora i magistrati usano persino le requisitorie. Ha dell’incredibile quanto avvenuto mercoledì al tribunale di Torino, durante il processo a carico di due agenti di polizia accusati di arresto illegale. Durante la requisitoria, il pubblico ministero Paolo Toso ha chiesto la condanna per i due imputati e poi ha attaccato la riforma costituzionale in esame al Parlamento: “Questo è un caso che rende preoccupante il progetto di separazione delle carriere dei magistrati. È stata l’autonomia del giudizio a permetterci di operare un vaglio critico degli elementi che ci sono stati forniti”, ha detto Toso. Una palese esondazione nel campo della politica, alla faccia del principio di separazione dei poteri e dei doveri di equilibrio e riserbo in capo ai magistrati. Toso ha argomentato la sua affermazione spiegando che quando la procura del capoluogo piemontese cominciò a occuparsi della vicenda il fascicolo, aperto sulla base dei rapporti degli stessi agenti, era a carico di due giovani, il primo dei quali denunciato per resistenza a pubblico ufficiale e il secondo per inosservanza dei provvedimenti dell’autorità. La possibilità di procedere a “un vaglio critico”, ha evidenziato Toso, ha consentito di approfondire la questione e di verificare le anomalie contenute nella documentazione. Cosa c’entri il “vaglio critico” del pm con la riforma della separazione delle carriere è un mistero. Quest’ultima prevede infatti la separazione dei percorsi professionali dei pubblici ministeri e dei giudici, mantenendo tutte le garanzie di autonomia e indipendenza per entrambe le categorie, anche attraverso l’istituzione di due Consigli superiori della magistratura, costituiti per due terzi proprio da rappresentanti delle toghe. Insomma, anche dopo l’eventuale approvazione finale della riforma (e probabile referendum confermativo), i pubblici ministeri italiani potranno continuare a procedere a un “vaglio critico” di qualsiasi questione, anche quelle che riguardano le condotte degli agenti delle forze dell’ordine, ambito che non viene minimamente toccato dal provvedimento in discussione in Parlamento. Le parole del pm torinese Toso, comunque, risultano paradossali non tanto per la loro inconsistenza sul piano tecnico-giuridico, ma per la loro pesante valenza politica. La requisitoria dovrebbe servire al pubblico ministero per riassumere i fatti, le prove e le argomentazioni a sostegno dell’accusa, e a formulare le proprie conclusioni sull’eventuale applicazione di una sanzione penale. Vedere una requisitoria essere usata per fini di critica politica, peraltro nei confronti di provvedimenti ancora sotto esame del Parlamento, fa rigirare nella tomba Montesquieu, oltre a far sorgere la domanda se per il ministro della Giustizia Carlo Nordio e il Csm si sia di fronte a un fatto normale (e chissà cosa ne penserà anche l’Associazione nazionale magistrati). C’è da dire che a Torino sembra essere diffusa tra i pm una concezione piuttosto singolare della requisitoria. Lo scorso aprile su queste pagine abbiamo raccontato la particolare requisitoria tenuta dal pm Gianfranco Colace al termine del processo “Sanitopoli”: il pm nella sua requisitoria non solo ha risposto indirettamente a un’interrogazione parlamentare presentata dopo una nostra inchiesta sull’operato della polizia giudiziaria torinese (scambiando evidentemente l’aula di giustizia per il Parlamento), ma ha anche chiesto la condanna di tre imputati affermando: “Chiedo la condanna anche se so che la Corte non potrà che assolvere”. Alla fine gli imputati sono stati effettivamente assolti. Ma se il pm Colace sapeva che la Corte non poteva far altro che assolvere (come poi è avvenuto) ciò significa che era consapevole della debolezza delle proprie accuse, e quindi avrebbe dovuto chiedere lui stesso l’assoluzione. Resta il mistero di un modo di procedere così singolare. Colace, per la cronaca, è stato sanzionato lo scorso marzo dal Csm con il trasferimento di sede e di funzioni, e con la perdita di un anno di anzianità (sanzione non ancora esecutiva), per aver usato a processo circa 500 intercettazioni realizzate nei confronti dell’allora senatore Stefano Esposito senza autorizzazione del Parlamento, dunque in violazione della Costituzione e della legge. Insomma, alla procura di Torino il principio costituzionale di separazione dei poteri sembra non essere molto chiaro. L’uso di una requisitoria da parte di un pm per criticare la riforma costituzionale costituisce l’apice di un fenomeno che meriterebbe l’attenzione delle istituzioni. Lasciamo perdere Brusca, parliamo dell’inutilità del sistema penale di Vincenzo Scalia* L’Unità, 13 giugno 2025 La liberazione di Giovanni Brusca, esponente di spicco di Cosa Nostra, reo confesso della strage di Capaci e della morte del magistrato Rocco Chinnici, oltre che dell’uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo, avvenuta il 5 giugno scorso, ha conquistato la ribalta mediatica. I soliti fautori del carcere come misura regolatrice dei conflitti sociali, hanno utilizzato la liberazione di Brusca per attizzare quella parte dell’opinione pubblica che ritiene troppo lassista il sistema penale italiano. In realtà, la liberazione di Giovanni Brusca, parla di noi, delle paure contemporanee regolate attraverso la domanda di sicurezza e la produzione di outputs repressivi da parte degli attori politici, oltre a evidenziare le contraddizioni del sistema penale. In particolare, sono tre gli aspetti che vale la pena di sottolineare. Il primo aspetto riguarda quello la funzione e la durata della pena. Ogni volta che qualcuno, che sia un boss mafioso o un ladro di polli, termina di scontare la sentenza inflittagli, si innesca nella società un meccanismo di reazione che tradisce insicurezza, paure, ma anche sgomento per la rottura di un equilibrio che si pensava consolidato. Tra il pubblico sono in molti a pensare che la giustizia penale funzioni come una serie televisiva poliziesca, in cui il colpevole viene rinchiuso e rimosso per sempre dalla società. Viceversa, come sottolineava il compianto Massimo Pavarini, ci si dimentica che la pena costituisce, per molti dei detenuti, una condizione temporanea, e che, una volta estinto il proprio debito con la giustizia, una persona torna ad essere un libero cittadino, da riaccogliere all’interno del consesso sociale. Se è vero che Brusca non appartiene alla folta schiera dei detenuti che scontano reati relativi al cosiddetto “penale quotidiano”, allora bisogna compiere uno sforzo di laicizzazione del dibattito pubblico, e confrontarsi col secondo elemento che affiora dalla vicenda. Ci si riferisce alla questione dei “pentiti”. Sin dai tempi della repressione delle formazioni armate, l’opinione pubblica italiana, si è rifugiata nella categoria cattolica del pentitismo per definire i collaboratori di giustizia. La figura del pentito rientra invece all’interno della sfera religiosa, e riguarda l’interiorità degli individui coinvolti nella vicenda penale. E’ proprio questo il punto che ha sottolineato Maria Falcone, la sorella del magistrato. Si può rimanere sgomenti, ma è il prezzo da pagare in cambio dell’accertamento dei fatti che la collaborazione ha consentito. Si può essere d’accordo, e provare sgomento, per il fatto che l’autore di circa 200 omicidi sia in libertà. In questo caso, e questo è il terzo aspetto su cui bisogna riflettere, dobbiamo porci la domanda: Davvero la pena costituisce lo strumento migliore per governare, in modo equo, le contraddizioni di una società? La situazione delle carceri italiane, alcune misure specifiche, ci fanno rispondere negativamente. Basta pensare al 41 bis, applicato su discrezione dei magistrati, più volte censurato dalle istituzioni internazionali per il proprio carattere vessatorio. Ad esempio, pensare che Alfredo Cospito, che ha commesso reati molto meno gravi di quelli di Brusca, languisca al 41 bis, suscita più di una perplessità. Come la suscita il 4 bis, ovvero il cosiddetto ergastolo ostativo, vero e proprio ricatto morale, anche in questo caso applicato a discrezione, nei confronti di chi viene ritenuto latore di informazione importanti ai fini delle indagini. Se scaviamo ancora più a fondo nei meandri del sistema penale, le iniquità sono ancora più profonde. Per esempio, il 40% dei detenuti si trova rinchiuso in attesa di giudizio. La metà di loro verrà assolta, ma a prezzo di una reputazione danneggiata e di una rete affettiva e relazionale lesionata a volte irreparabilmente. Senza dimenticare le condizioni igienico-sanitarie, il sovraffollamento che il nuovo DDL 1660 rischia di aggravare, il triste rosario di suicidi. Il sistema penale, a pensarci bene, rappresenta un ‘immensa messinscena, attraverso la quale pensiamo di esorcizzare le nostre contraddizioni, senza che mai vengono risolte. Gli attori principali di questa messinscena, i detenuti, lungi dal diventare divi, vivono sulla nostra pelle questo esorcismo. Invece di partecipare alla squallida gara del “cosa farei a Brusca”, sarebbe il caso di riflettere sull’inutilità del sistema penale. Lasciando Brusca coi suoi sensi di colpa e con l’onere di pentirsi autenticamente per sua scelta. *Professore di Sociologia della Devianza - Università di Firenze “La giustizia mediatica crea mostri: il mio caso non ha insegnato nulla” di Valentina Stella Il Dubbio, 13 giugno 2025 Intervista a Raffaele Sollecito, che dice: “Servirebbe una maggiore attenzione prima di innamorarsi di una tesi accusatoria che poi si potrebbe rivelare fallace ma intanto avrebbe prodotto degli effetti devastanti sull’innocente”. Raffaele Sollecito sa bene cosa sia un processo mediatico violento e una ingiusta detenzione. Quattro anni di carcerazione preventiva, sei mesi in isolamento, dipinto come uno mostro sulla stampa. Ma era innocente. Non aveva ucciso lui Meredith Kercher nel 2007. Chi meglio di lui può affrontare le questioni di questa intervista? Cosa ne pensa di quanto sta accadendo con l’indagine Garlasco bis? Innanzitutto vorrei dire che sono contento che sia stato riaperto il caso perché sono sicuro che Alberto Stasi sia innocente. Per il resto, sinceramente non mi sorprende per niente quello che sta succedendo adesso. Si è scatenato un circo mediatico enorme che non fa bene alla serenità degli investigatori, alla famiglia della vittima e al nuovo indagato. Il mio caso non ha insegnato nulla. Oggi come allora si fa un processo sui giornali e si emette già una sentenza, a causa di materiale coperto da segreto che esce dalla procura o dalla polizia giudiziaria. Non esiste infatti una realtà soprannaturale che prende le carte dai loro uffici e le trasporta nelle redazioni. Oggi come allora si costruiscono dei mostri: Alberto Stasi, io, ora Andrea Sempio. A fare notizia purtroppo non sono mai le cose belle, bensì quelle brutte. Crede che Andrea Sempio sia innocente? Non spetta a me dirlo. Però immagino cosa stia passando. A questo ragazzo, a questo giovane uomo, stanno comunque rovinando la vita a prescindere da come finirà questa vicenda. Hanno scatenato una bomba che coinvolge tante persone senza immaginare le conseguenze sul piano personale e professionale. E poi c’è una cosa che non capisco. Cosa? Con tutto il rispetto per loro, non ho mai compreso in generale perché le famiglie delle vittime credano senza alcun dubbio alla tesi delle procure. Capisco il loro dolore, capisco che stanno male, ma io per primo, nei loro panni, non darei tutto per oro colato. Per questa nuova inchiesta i cittadini hanno meno fiducia nella giustizia... Processi mediatici come quello che ha riguardato me ma anche la strage di Erba, il delitto di Chiara Poggi, la morte di Yara Gambirasio sono stati tali anche per una fragilità nei protocolli scientifici che ha messo in dubbio le indagini e i processi successivi. Ricordiamoci che è solo dal 2009 che i carabinieri si sono adeguati ai protocolli scientifici internazionali. Se la mia difesa e i miei consulenti non si fossero accorti che la scena del crimine di Perugia era stata contaminata io sarei potuto essere vittima di un enorme errore giudiziario. E credo che lo sia pure Alberto Stasi. Ho sempre creduto nella sua innocenza. Gli ho anche scritto una lettera in carcere ma non so se l’abbia ricevuta. Il problema è che gli inquirenti si fissano su una teoria e fanno sì che tutto combaci con quella essa. Che ne pensa della proposta di legge “Sciascia Tortora” presentata da varie forze politiche (+Europa. Pd, FI, Avs, Noi moderati) che prevede tra l’altro che il periodo formativo dei magistrati in carcere includa anche il pernotto? La condivido pienamente. Un magistrato dovrebbe rendersi conto di quella che è la vita carceraria e delle conseguenze a cui potrebbe andare incontro un detenuto. La conoscenza non deve essere solo teorica, ma anche esperienziale. Che ne sanno di cosa sia realmente la privazione della libertà personale? I magistrati sono così onnipotenti tuttavia allo stesso tempo non sanno quello che accadrà dopo che avranno esercitato quell’immenso potere, perché sono totalmente distanti dall’effettiva realtà carceraria. Alcuni di loro pensano che i detenuti siano oggetti pericolosi da rinchiudere in un armadio, in realtà sono esseri viventi. Avere a che fare con i detenuti sarebbe un gesto di umanità, di umiltà e una grande e buona palestra educativa per capire effettivamente cosa significhi stare dietro le sbarre. Secondo lei così ci sarebbero pure meno ingiuste detenzioni? Certo, e anche forse una maggiore attenzione prima di innamorarsi di una tesi accusatoria che poi si potrebbe rivelare fallace ma intanto avrebbe prodotto degli effetti devastanti sull’innocente, come è capitato a me che sono rimasto in carcere da non colpevole per quattro anni. Nei giorni scorsi su questo giornale presentando il libro “Innocenti - Il libro bianco dell’ingiusta detenzione in Italia”, curato dai giornalisti Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone abbiamo ricordato alcuni casi in cui lo Stato, con motivazioni poco condivisibili, non ha accolto la domanda di indennizzo per ingiusta detenzione a molte persone. Anche a lei è capitato... Una vera e propria assurdità. I magistrati, in sintesi, mi hanno detto che non meritavo un risarcimento perché avrei deviato io le indagini degli inquirenti. Questo non è mai successo, anzi sono stati loro a violare i miei diritti, ad esempio impedendomi di parlare con i miei avvocati. Per questo il pm fu anche censurato dal Csm. Però alla fine io non devo essere risarcito. Lo Stato non si assume la responsabilità del suo sbaglio, perché in fondo i magistrati vogliono sempre avere ragione. Avellino. Detenuto morto a Bellizzi: al ministro Nordio gli atti di indagine di Katiuscia Guarino Il Mattino, 13 giugno 2025 Tra le ipotesi al vaglio degli investigatori sul decesso del detenuto: il malore improvviso, ma anche eventuali negligenze o circostanze esterne che possano aver influito sul tragico epilogo. Interviene il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, sul caso del detenuto napoletano, Ciro Pettirosso, trovato morto nel carcere di Avellino. Il guardasigilli ha risposto all’interrogazione del parlamentare Aboubakar Soumahoro. È stata “acquisita, tramite il Dipartimento degli Affari di Giustizia, la relazione dell’autorità giudiziaria competente, trasmessa con nota del Procuratore della Repubblica presso il tribunale di Avellino”, precisa Nordio. Il 36enne fu rinvenuto senza vita nella sua cella lo scorso 7 febbraio. “Le cause del decesso del detenuto sono in corso di accertamento”, sottolinea Nordio. E aggiunge che è stato richiesto un “contributo informativo al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap)”. Ciò per rispondere alle domande relative alla dinamica dei fatti e allo stato generale delle carceri. In riferimento alla vicenda di Pettirosso, il parlamentare aveva chiesto nell’interrogazione presentata lo scorso 12 febbraio di “far piena luce su quanto accaduto e su eventuali gravi inadempienze del personale in servizio presso la casa circondariale di Avellino”. Nordio ha sottolineato che “in attesa degli esiti del procedimento penale, l’Amministrazione avrà cura di monitorare gli sviluppi della vicenda processuale, per adottare eventuali provvedimenti di competenza”. Inoltre, la Direzione generale dei detenuti e del trattamento, lo scorso 14 febbraio, “ha dato incarico al Provveditorato regionale di Napoli di procedere ad approfondita indagine volta a ricostruire cause, circostanze e modalità dell’evento. Si è in attesa di ricevere i relativi esiti”. Tra le ipotesi al vaglio degli investigatori sul decesso del detenuto: il malore improvviso, ma anche eventuali negligenze o circostanze esterne che possano aver influito sul tragico epilogo. La famiglia del detenuto punta il dito contro la gestione sanitaria del carcere di Bellizzi Irpino. Secondo quanto dichiarato dal fratello Francesco, Ciro Pettirosso sarebbe morto “a causa dell’incapacità del personale medico presente all’interno del carcere” che avrebbe “sottovalutato la sua condizione. Ciro era affetto da una grave forma di diabete. Non faceva uso di sostanze stupefacenti”, ma avrebbe “ricevuto una somministrazione errata di insulina”. Relativamente al sistema sanitario, il ministro Nordio precisa che “seppure la problematica relativa all’assistenza sanitaria all’interno degli istituti di reclusione esuli totalmente dalle prerogative del ministro della Giustizia l’amministrazione, al fine di garantire percorsi di cura il più possibile appropriati e celeri, si è da sempre adoperata potenziando la sinergia fra il sistema della giustizia, le aziende sanitarie e gli enti locali”. Sulle criticità del carcere, il ministero ha messo in campo delle specifiche misure “per cercare di risolvere difficoltà e problematiche risalenti nel tempo”. C’è inoltre un monitoraggio nel carcere di Avellino su camere e spazi di detenzione. Presso la casa circondariale di Bellizzi Irpino sono presenti 553 detenuti (34 donne e 519 uomini), rispetto a una capienza pari a 500 posti, rilevandosi una percentuale di affollamento pari al 119,44 per cento. Ad Avellino “ogni detenuto risulta avere a disposizione uno spazio di vivibilità superiore ai tre metri quadrati”, scrive Nordio. Intanto, il sottosegretario Ostellari rispondendo all’interrogazione della senatrice del Pd, Valeria Valente, presentata nell’Aula del Senato, annuncia che l’Icam di Avellino non verrà chiuso. “Non ha spiegato - evidenzia Valente - le ragioni del comportamento quantomeno ondivago del ministero della Giustizia, che nei mesi scorsi ha trasferito alcune detenute dall’istituto campano a quelli del Nord Italia, senza motivo. Gli istituti a custodia attenuta per le detenute madri in Italia sono troppo pochi, bisognerebbe incrementare il loro numero e riuscire a dislocarli su tutto il territorio nazionale”. Torino. Casa di Carità avvia al lavoro i detenuti, “ritorno alla vita” di Marina Lomunno vocetempo.it, 13 giugno 2025 Martedì 10 giugno a Palazzo Barolo un convegno promosso dalla Fondazione Casa di Carità Arti e Mestieri, legata alla diocesi torinese, ha affrontato il tema “Tras-Formare la Pena, formazione per la rieducazione e il reinserimento lavorativo”. La testimonianza di un ex detenuto avviato al lavoro. Atef, 48 anni tunisino, è un esempio di come la formazione professionale sia indispensabile per la rieducazione e il reinserimento socio-lavorativo dei detenuti. Atef, avviato al lavoro in un’impresa di pulizie, grazie ad un corso di formazione professionale erogato dalla Fondazione Casa di Carità Arti e Mestieri nella Casa Circondariale di Biella, ha raccontato la sua storia di “ritorno” alla vita (ora è assunto con contratto a tempo indeterminato) martedì 10 giugno a Palazzo Barolo, durante il convegno promosso dalla Fondazione, ente di formazione professionale legato alla Diocesi di Torino, sul tema “Tras Formare la Pena, formazione per la rieducazione e il reinserimento lavorativo”. Una mattinata di confronto ad alto livello nazionale e locale con tutti gli attori - tra cui Regione e Comune, presente il vicesindaco Michela Favaro, Amministrazione penitenziaria, Ministero del Lavoro e Politiche sociali, Cnel, Compagnia di San Paolo, che finanzia alcuni progetti di reinserimento nelle carceri del Piemonte, imprese tra cui Comau che collabora con la Casa di Carità al progetto “Dimittendi” del Comune di Torino per favorire con l’inserimento al lavoro i reclusi a fine pena. E poi i direttori della Casa circondariale di Torino “Lorusso e Cutugno” Elena Lombardi Vallauri e del penitenziario di Cuneo Domenico Minervini. La relazione introduttiva è stata affidata a Italo Fiorin della scuola di Alta formazione dell’Università Lumsa di Roma che ha richiamato al bisogno di avviare in carcere processi “di umanizzazione, dare spazio ai sogni di vita nuova”. Dal 1974 la Casa di Carità è presente nei penitenziari piemontesi con percorsi di formazione professionale, accompagnamento al lavoro e innovazione sociale. Negli ultimi 10 anni ha formato oltre 5 mila detenuti e inseriti in azienda più di mille. Dal 2020 nelle province di Cuneo, Vercelli, Biella, Novara e Verbania coordina gli sportelli lavoro per le persone ristrette. “Lavoriamo in appoggio alle Istituzioni preposte con l’obiettivo di dare una seconda opportunità a chi si trova in carcere perché ci sia una reale opportunità di cambiamento come chiede l’articolo 27 della Costituzione”, ha detto il presidente Paolo Monferino. “Valorizzare le presenze dietro le sbarre, fare in modo che la pena sia un tempo per rieducarsi è una medicina per porre limite al male”, ha sottolineato anche il Vescovo ausiliare mons. Alessandro Giraudo. Milano. Al Carcere di Opera “Il lavoro apre le porte: opportunità economica e sociale” di Aurelio Biassoni lombardiaquotidiano.com, 13 giugno 2025 Iniziativa promossa dal Difensore regionale che riveste anche il ruolo di Garante dei detenuti, insieme al Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. Una iniziativa per evidenziare e promuovere il lavoro delle persone sottoposte a provvedimento dell’Autorità giudiziaria sia all’interno degli istituti penitenziari sia all’esterno, con particolare attenzione alle possibili sinergie tra il mondo carcerario, imprese e terzo settore, in un’ottica di inclusione, responsabilità sociale e prevenzione della recidiva. È quella che si terrà martedì 17 giugno a partire dalle ore 10 presso il teatro della Casa di Reclusione di Opera a Milano intitolata “Il lavoro apre le porte: opportunità economica e sociale”, promossa dal Difensore regionale della Lombardia Gianalberico De Vecchi, che riveste anche il ruolo di Garante regionale dei detenuti, insieme al Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia. “Dobbiamo favorire il reinserimento socio-lavorativo dei detenuti - spiega il Garante regionale Gianalberico De Vecchi - con un aumento degli investimenti e delle iniziative mirate a favorire l’accesso di detenuti ed ex detenuti alla formazione professionale, condizione indispensabile per facilitare in modo qualificato il loro inserimento nel mondo del lavoro. Ricordo che le imprese che assumono detenuti o ex detenuti possono godere di sgravi fiscali e contributivi significativi, rendendo l’assunzione più vantaggiosa”. Insieme al Difensore De Vecchi, ad aprire i lavori sarà la Direttrice della Casa di reclusione di Opera Stefania D’Agostino: sono quindi previsti i saluti istituzionali del Presidente del Consiglio regionale Federico Romani, del Presidente della Giunta regionale Attilio Fontana, del Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria Maria Milano Franco D’Aragona, della Presidente della Commissione speciale regionale sulla situazione carceraria Alessia Villa e del Vice Presidente della Commissione Luca Paladini, e di Carlo Lio, già Garante regionale dei detenuti. Seguiranno gli interventi di Teresa Mazzotta, Direttrice UIEPE a Milano; Giorgio Treglia, avvocato giuslavorista e professore a contratto presso l’Università degli Studi di Milano; Maurizio Del Conte, Presidente di AFOL Metropolitana e professore ordinario di Diritto del lavoro presso l’Università Bocconi; Don David Riboldi, Cappellano della Casa Circondariale di Busto Arsizio; Anna Bonanomi, Presidente de “La Valle di Ezechiele”; Lorenzo Belverato del laboratorio di panificazione “Buoni dentro”; Riccardo Bettiga, Garante regionale per la tutela dei minori e delle fragilità; Elisabetta Ponzone della Cooperativa Officina dell’Abitare; Federica Della Casa della Cooperativa sociale “Opera in Fiore”. Catania. Confindustria e Seconda Chance insieme per il reinserimento lavorativo dei detenuti cataniatoday.it, 13 giugno 2025 La collaborazione si concentra su individui selezionati dalle direzioni carcerarie, valutati come pienamente riabilitati e in linea con i requisiti indicati dalle aziende. Confindustria Catania ha deciso di supportare la Fondazione Seconda Chance, organizzazione nata nel 2022 per promuovere opportunità lavorative per detenuti ed ex detenuti. L’obiettivo è duplice: fornire alle aziende strumenti concreti per favorire il reinserimento sociale e lavorativo di persone che, dopo aver scontato una pena, sono pronte a ripartire, e sensibilizzare gli imprenditori sui benefici previsti dalla Legge Smuraglia, che offre incentivi economici e fiscali per le aziende che assumono queste persone. La collaborazione si concentra su individui selezionati dalle direzioni carcerarie, valutati come pienamente riabilitati e in linea con i requisiti indicati dalle aziende. Finora, Seconda Chance ha facilitato oltre 500 assunzioni, principalmente nei settori della ristorazione, dell’edilizia e della logistica. Tra le imprese che hanno già aderito figurano grandi realtà nazionali e internazionali come Nestlé, Decathlon, Autostrade per l’Italia e Technogym, dimostrando che il reinserimento non è solo una sfida etica, ma un’opportunità concreta per il mondo produttivo. “Il lavoro è uno strumento fondamentale per il reinserimento sociale”, dichiara Cristina Busi Ferruzzi, presidente di Confindustria Catania. “Come imprenditori, abbiamo la responsabilità di promuovere un modello di sviluppo che includa anche chi si trova ai margini della società. La collaborazione con Seconda Chance offre a tutti noi l’opportunità di fare la nostra parte, trasformando il reinserimento lavorativo in un motore di crescita per l’intera comunità. Invito con forza i colleghi imprenditori a partecipare attivamente a questa iniziativa, che non è solo un gesto di solidarietà, ma un investimento nel capitale umano e nella coesione sociale del nostro territorio. Sono convinta che le imprese possano contribuire attivamente alla costruzione di una società più equa e inclusiva”. “Il lavoro non è solo un diritto: è inclusione e integrazione”, afferma Fabrizio Fronterrè, presidente del gruppo giovani imprenditori di Confindustria Catania. “Supportare iniziative come questa significa investire nella dignità delle persone e nel progresso della nostra società. Lo Stato, con la Legge Smuraglia, offre alle aziende un valido supporto per trasformare un impegno sociale in una scelta sostenibile anche economicamente. È nostro dovere come imprenditori fornire massima visibilità a questi strumenti, dimostrando come anche chi ha vissuto esperienze difficili possa diventare una risorsa preziosa per il tessuto produttivo”. Maurizio Nicita, responsabile in Sicilia di Seconda Chance, sottolinea l’impatto sociale del progetto: “Abbattere la recidiva non è solo una questione di giustizia, ma di civiltà. La formazione professionale e l’accesso a un lavoro legale sono le chiavi per il reinserimento di chi ha concluso il proprio percorso detentivo. Questa collaborazione con Confindustria Catania rappresenta un passo importante per creare un dialogo strutturato tra il mondo delle carceri e quello imprenditoriale, aprendo nuove possibilità per chi chiede soltanto una seconda opportunità”. Per ulteriori informazioni: https://www.secondachance.net/. Milano. Storie di riscatto: la seconda occasione di “Genny lo zio” di Serena Curci e Carlo Coi The Post Internazionale, 13 giugno 2025 Il contrabbando di sigarette. Lo spaccio di droga. Poi la galera e la redenzione. Oggi Gennaro Speria, noto a Rozzano come “Genny Lo Zio”, è l’anima di Area 51, onlus in cui ex detenuti aiutano gli indigenti del quartiere. “Questo è Area 51 per me: un passato di errori e un futuro per riscattarsi”. Così Gennaro Speria, conosciuto a Rozzano come “Genny Lo Zio”, racconta la storia della sua associazione, nata nel 2016 con l’obiettivo di supportare gli abitanti del quartiere dell’hinterland milanese. Ogni giorno centinaia di persone si recano nella sua struttura per ottenere forniture alimentari e beni di prima necessità che sono offerti da associazioni e volontari presenti sul territorio: molti cittadini in coda sono i cosiddetti “nuovi poveri”, ovvero lavoratori precari, disoccupati o immigrati messi in ginocchio dalla crisi economica acutizzata dalla pandemia di Covid-19. A supportare Speria ci sono soprattutto ex detenuti - tra cui tanti giovani che hanno intrapreso il percorso di messa alla prova - con la speranza di poter ricominciare da zero una volta terminata la propria pena. Per Genny Lo Zio, la fiducia nei loro confronti è una vera e propria missione ereditata dal suo trascorso personale. La storia di Speria inizia nel difficile quartiere di Casavatore, a pochi passi da Secondigliano, in un periodo in cui le guerre tra le bande criminali divampavano per le strade della periferia napoletana. “Non ho mai frequentato le scuole perché non vedevo nessun futuro per me”, racconta a TPI il 52enne, conosciuto anche come “Barabba”, un appellativo tagliente che fa riferimento al suo passato nella criminalità. “Ho iniziato a contrabbandare sigarette all’età di 9 anni e da lì in poi l’ascesa negli inferi è stata breve: lo spaccio di droga è diventata la mia più grande fonte di reddito”. La vita di Speria evolve e cambia faccia, proprio come la Camorra che, a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, diventa imprenditrice e assolda giovani leve per far lievitare il business della droga. “Sembrava quasi di essere in coda al supermercato: le strade di Secondigliano pullulavano di spacciatori e di tossici alla costante ricerca di roba da iniettarsi in vena”, ricorda Genny. “Pian piano le tecniche di spaccio si affinarono: per un periodo lavorai come cameriere, ma sui vassoi non portavo solo cibo e drink, ma soprattutto parecchie bustine”. E per Genny il passo dalle piazze di spaccio al carcere è stato breve: 20 anni in cui, tra le quattro mura della sua cella, ha potuto riavvolgere il nastro della sua vita, prendendo consapevolezza, per la prima volta, di come la violenza non fosse un’alleata ma l’ostacolo più grande per una vita migliore. “All’inizio - dice oggi - vivevo il carcere come una lotta tra leoni: dovevo essere il più forte e ho pensato, a suon di pugni, di guadagnarmi il rispetto degli altri detenuti. Poi gli anni passavano veloci e io invecchiavo tra le sbarre. Mi sono chiesto a cosa fosse servita questa violenza: avevo guadagnato il rispetto di quelle persone o il loro timore?”. Dopo la lunga detenzione, le sbarre del carcere si aprono e il destino bussa alla porta di Genny per offrirgli un’occasione di riscatto: per puro caso conosce il titolare di una piccola officina a Rozzano che gli offre un lavoro. E così, tra macchine e motori, Speria ritrova la fiducia in se stesso e nelle sue capacità. Durante questi anni difficili, Genny ha sempre avuto un faro guida che l’ha accompagnato nei momenti più delicati: la fede. Proprio per questa ragione, pentito per le sue decisioni di vita, ha scelto di redimersi e di farlo in un modo a dir poco teatrale: ha percorso la strada che da Milano porta a Roma a piedi, imbracciando una croce in legno di oltre 40 chili. “Mi hanno dato tutti del pazzo, mi sono perso almeno quattro volte solo tra Melegnano e Pavia, ma dopo varie peripezie sono giunto alla meta”, racconta con un sorriso sghembo. La Via Crucis realizzata da Speria è stata apprezzata persino da chi ha fatto della redenzione la sua stella polare: Papa Francesco in persona. I due si sono stretti in un lungo abbraccio in Piazza San Pietro e l’ex detenuto, da vero fan, si è fatto autografare dal pontefice la croce che, ancora oggi, è appesa alle pareti di Area 51. Di ritorno da Roma, Genny si è dovuto scontrare con un’amara realtà: dopo anni, infatti, è stato costretto a chiudere la sua officina. Una volta abbassata la saracinesca, però, questo spazio ha indossato una nuova veste, diventando il cuore pulsante del quartiere. Qui, Lo Zio ha smesso di aggiustare macchine e ha iniziato a riparare i frammenti di vita di tutti coloro che, ormai, hanno perso ogni speranza. Ogni giorno gravitano attorno ad Area 51 file di persone e, ognuno di esse, è alla ricerca di un bene diverso: c’è chi cerca cibo, chi vestiario, chi semplicemente una parola di conforto o una mano tesa per uscire dal baratro in cui è sprofondato. In poco tempo Speria è diventato una figura di riferimento per molti giovani ex detenuti che sognano un futuro in cui non è la loro condanna a definirli unicamente come persona. “Il problema delle carceri è che la funzione educativa tanto decantata è solo una chimera”, spiega chi, questa esperienza, l’ha vissuta sulla propria pelle. “Quando si esce dalle sbarre si è spaesati, si cerca un supporto da parte delle istituzioni, una mano amica che spesso è assente. Ed è proprio questa mancanza a generare rabbia e frustrazione in coloro che, per paura o necessità, tornano a delinquere”. Tra le mura di Area 51 questi ragazzi - si parla di oltre 120 giovani - accolgono l’arte dell’altruismo e una realtà che per molti anni è stata negata loro: un futuro limpido è possibile anche per chi, fin dalla tenera età, si è dovuto scontrare con le sfide della vita. E così ogni giorno, affrontano il freddo invernale per offrire un pasto caldo o un maglioncino di lana a famiglie che ormai non hanno più nulla. Tra chi scarica i camion pieni di merce e chi, buste alla mano, sceglie i prodotti che andranno a riempire i frigoriferi dei cittadini di Rozzano, i ragazzi di Area 51 tornano a essere parte integrante del tessuto sociale. Una mano tesa che giunge anche da diverse personalità del mondo dello spettacolo: dal rapper Tony Effe al tour manager Emi Lo Zio, fino al duo de Le Donatella, questi sono solo alcuni dei volti che, con costanza e impegno, gravitano attorno alla piccola realtà di Genny. “Il volontariato è sempre stato parte della nostra vita: quando riconosci di avere un privilegio è giusto allargarlo a chi questa fortuna non l’ha avuta”, spiega Giulia Provvedi de Le Donatella. “E ci siamo avvicinate a Speria perché abbiamo riconosciuto in lui una genuinità innata: vive per tutte le persone che hanno bisogno di rinascere”. Provvedi ha scelto di abbattere i preconcetti che ogni individuo ha insito in sé e di andare oltre al velo di apparenze che allontana gli uni dagli altri. Lo stesso Genny, a causa del suo passato, del suo volto tatuato e del suo carattere - solo in apparenza - un po’ burbero è stato spesso tenuto a distanza o guardato con sospetto. “Oltre agli anni di carcere - spiega - ho dovuto scontare sulla mia pelle la diffidenza e i pregiudizi di molte persone che, conoscendomi, si sono dovute ricredere. Area 51 è casa per me e per i miei ragazzi. Per molti di loro sono diventato un esempio perché, quando si cade, ci si rialza sempre”. Ancona. Scarpe sequestrate dall’Agenzia delle Dogane “smarchiate” e distribuite ai detenuti viveremarche.it, 13 giugno 2025 L’impegno di collaborazione tra il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria e l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli - Direzione Territoriale Emilia-Romagna e Marche, formalizzato con il Protocollo d’Intesa firmato congiuntamente l’1 aprile scorso, trova già una prima concreta attuazione nell’attivazione di un laboratorio presso la sezione femminile della Casa Circondariale di Bologna. Nel laboratorio alcune detenute saranno incaricate di togliere il marchio contraffatto da 15 mila paia di scarpe sportive sequestrate dall’Agenzia delle dogane e dei Monopoli - Ufficio Adm Marche 1 sede di Ancona. Parte delle scarpe saranno quindi distribuite tra la popolazione detenuta degli Istituti penitenziari del distretto Emilia-Romagna e Marche. A sua volta una convenzione di prossima sottoscrizione con la Caritas diocesana di Bologna, idea tra l’altro condivisa con S.E. Cardinale Zuppi, consentirà all’organizzazione ecclesiale di distribuire le calzature alle persone in condizioni di indigenza del territorio regionale. Occorre ricordare, inoltre, che fanno parte del carico sequestrato un numero elevato di scarpe di misura adatta per persone non adulte, ciò che favorirà quindi la distribuzione anche ai tanti minori non accompagnati seguiti dai servizi sociali territoriali ed ospiti di comunità educative. A tal fine sarà contattato anche il Centro di Giustizia Minorile per verificare le necessità dei ragazzi detenuti all’Istituto Penale Minorile di Bologna e dei minori e giovani adulti seguiti dall’Ufficio di Servizio Sociale dei Minori del distretto. Nei giorni scorsi, le 15 mila paia di scarpe sono state caricate sui mezzi della Polizia Penitenziaria da un gruppo di detenuti degli Istituti penitenziari di Ancona, autorizzati al lavoro all’esterno ai sensi dell’art. 21 dell’Ordinamento Penitenziario, e trasportate dal magazzino Ufficio ADM Marche 1 sede di Ancona a quello della Casa di reclusione di Castelfranco, da dove saranno gradualmente prelevate per l’intervento di smarcatura presso il laboratorio della Dozza. Le detenute coinvolte nel progetto laboratoriale riceveranno un rimborso spese in forma di borsa lavoro, trattandosi di attività svolta in regime di lavoro di pubblica utilità ai sensi dell’art. 20 ter dell’Ordinamento Penitenziario. Dati del Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria evidenziano che nei 15 Istituti penitenziari dell’Emilia-Romagna e Marche sono ristretti, alla data del 28 maggio, 4798 detenuti dei quali 182 donne. La situazione di sovraffollamento interessa tutte le carceri di questo distretto analogamente a quelle delle altre regioni del territorio nazionale. Attualmente l’indice di sovraffollamento degli Istituti di competenza del Prap di Bologna ha raggiunto quota 136,73. Ciò vuol dire che dove ci dovrebbero essere 100 posti letto, ne sono stati collocati più di 136. Tale iniziativa e quelle a seguire che consentiranno di dare continuità al rapporto tra Amministrazione Penitenziaria e Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, nella loro valenza sociale, contribuiscono ad affrontare le problematiche di disagio sociale della popolazione detenuta e si affiancano ai numerosi progetti sviluppati nel distretto a favore delle persone detenute. Corato (Ba). Al liceo artistico Federico II la presentazione di “Parlami dentro. Oltre il carcere” coratoviva.it, 13 giugno 2025 Studenti e studentesse a confronto sul tema dell’esistenza e della resistenza in carcere, tra riflessioni personali e spunti letterari. Grande coinvolgimento e interesse ha suscitato l’incontro del 31 maggio con Marilù Ardillo, tenutosi al liceo “Federico II Stupor Mundi”, in occasione del Maggio dei libri e con il patrocinio morale del Comune di Corato. Responsabile alla comunicazione della fondazione Vincenzo Casillo di Corato e autrice del libro “Parlami dentro. Oltre il carcere” (la Meridiana edizioni), l’autrice ha dato modo alle studentesse e agli studenti di confrontarsi riguardo al tema esistenza e resistenza in carcere. Le studentesse e gli studenti delle classi seconde e quarte (in particolare 4^B e 4^F) hanno partecipato attivamente all’incontro, condotto dalla docente di lettere e referente progetto lettura della scuola Alessandra Loprieno, condividendo domande e riflessioni personali in merito. “La lettura del libro nelle classi ha messo in luce temi quasi sempre trascurati che hanno generato dibattiti e osservazioni su recenti casi di cronaca. Ciò che ha colpito sono le modalità del volume: un argomento attuale che merita e ha bisogno di attenzione, scritto in una forma letteraria classica (romanzo epistolare). Persone diverse hanno potuto condividere loro esperienze di vita, anche molto intime, con degli sconosciuti considerati dalla società eticamente “non umani”, perché detenuti. Nonostante fossero tra di loro ignoti, in maniera reciproca e incondizionata, hanno donato parte di sé, alleggerendo la solitudine della prigionia e riflettendo sul concetto di libertà. Quante volte in una condizione di libertà apparente, ci siamo sentiti oppressi nei pensieri e nel corpo? Oltre il carcere ci sono uomini e donne, ragazzi e ragazze, ognuno con la propria storia, il proprio fardello di sofferenza, ma anche di fiducia e di fede nel futuro e nell’ umanità, al di qua, questa volta, dei loro reati, dei loro errori, al di qua del carcere. Grazie alla lettura delle lettere abbiamo compreso che spesso le limitazioni fisiche della prigione si presentano in maniera invisibile e tanto più frequente nella mente e nei pensieri, dove solitudine, castighi e riflessioni negative si trasformano nei confini più rigidi delle nostre esistenze. Tra le considerazioni espresse dalle studentesse e dagli studenti, sono da citare quella in cui si associa il senso di isolamento costretto e fortissimo del protagonista di Tokyo Ghoul, una serie manga e anime, a quello di chi si trova imprigionato tra le mura della propria testa o di chi in prigione si trova fisicamente; oppure quella di critica nei confronti di una legge che anche oggi appare ingiusta e discriminante, capace di non considerare per esempio molestia ciò che effettivamente lo è; o ancora il pensiero secondo cui la scrittura, con cui si possono rendere tangibili le più intime cose, diviene valvola di sfogo e luogo sicuro in cui esistere per ciò che si è; o infine una riflessione in cui vi è la necessità di comprendere che il “mostro” assoluto non esiste e in cui vi è la richiesta di uno spazio diverso dalla prigione statica e disfunzionale per garantire una società buona e felice per ogni esistenza. A fine esperienza l’autrice ha donato a tutte le studentesse e gli studenti dei segnalibri relativi al libro realizzato e dei bigliettini apprezzatissimi con scritte delle riflessioni provenienti dalle carceri visitate. Ringraziamo dunque la prof.ssa Alessandra Loprieno, la prof.ssa Serena Petrone responsabile della sezione presidio del libro di Corato, il preside del liceo Savino Gallo, il prof. Pietro Cervellera, i professori dei dipartimenti di lettere, filosofia, diritto e religione e tutti gli studenti che hanno partecipato e collaborato per la realizzazione di questo importante evento”. Articolo scritto da Francesca Falcetta, Giorgia Servedio, Diana Tricarico (studentesse della 4^B), Claudia Stella, Giancarlo Losito, Roberta Leone e Lorenzo Tomeo (4^F) Il rischio delle riforme senza dialogo e la politica dei muri di Agostino Giovagnoli Avvenire, 13 giugno 2025 Dopo i referendum. Perché tanta paura del dialogo, del confronto, della discussione? È questa paura, infatti, che sembra prevalere nei commenti sui referendum. Ignorando il merito dei quesiti referendari, si interpretano i risultati in chiave di mera prova di forza. Per gli uni, la prevalenza degli astenuti esprime la vittoria schiacciante della maggioranza al governo; il non piccolo numero di votanti viene presentato come una mezza vittoria delle opposizioni, sempre nella stessa logica. Ma nessuno può intestarsi l’astensione come vittoria della propria parte, perché è sempre una sconfitta della democrazia e di tutti coloro che l’hanno a cuore: la partecipazione al voto ne è un pilastro essenziale, già fortemente indebolito da una crescente disaffezione che non va in nessun modo incentivata. Non si può perciò irridere chi ha scelto di andare a votare per i referendum né annettere tout court i votanti alle file dell’opposizione. Soprattutto, non si possono ignorare le questioni di cui i quesiti referendari sono espressione. La perduta centralità del lavoro è infatti un grave problema del nostro tempo, così come lo è l’incapacità di affrontare in modo non emergenziale la questione epocale dell’immigrazione. È noto che l’Italia ha un grande bisogno di immigrati e che per la loro integrazione la cittadinanza è una via obbligata. Tacere su questi grandi problemi irrisolti e continuare nella logica dei rapporti di forza svuota, passo dopo passo, la democrazia. Non accade solo in Italia. Il dramma degli uomini e delle donne che protestano pacificamente in California perché la loro vita e quella dei loro figli sta per essere stravolta dalla deportation andrebbe preso in seria considerazione. Invece, anche questo dramma viene ignorato diventando semplice materia per un ennesimo scontro di potere: tra il presidente Trump e il governatore Newson, tra potere federale e singoli Stati, tra esecutivo e magistratura. Lo scontro di potere è sempre a danno dei cittadini, della società, soprattutto dei più deboli, i cui problemi e i cui bisogni vengono strumentalizzati e azzerati, invece di essere governati e affrontati. Rientra nella logica dello scontro di potere anche il ritmo incalzante con cui in Italia vengono oggi “blindate” riforme costituzionalmente rilevanti. È stato appena approvato - comprimendo esasperatamente i tempi della discussione parlamentare - il decreto legge sicurezza, di cui sono state denunciate tante criticità: le palesi incongruenze giuridiche come l’aggravante per reati commessi in prossimità di stazioni ferroviarie; la durezza di punire fino a otto anni di prigione chi protesta pacificamente in carcere o in un Cpr (“norma anti-Gandhi”); l’inquietante articolo 31 che consente a chi governa di autorizzare la costituzione di gruppi terroristi... Non è stato possibile nessuna modifica o migliorìa proprio per la scelta di “blindarlo”, riducendo il Parlamento all’impotenza. A breve sarà inoltre presentata al Senato una riforma costituzionale di cui sono stati rilevati tanti aspetti problematici: presentata come legge per la “separazione delle carriere” tra pm e giudici, ha poco a che fare con quella richiesta da Berlusconi - si ispira piuttosto ad una vecchia proposta di Almirante -, rischia di trasformare i pubblici ministeri in “avvocati della polizia” e indebolisce l’indipendenza della magistratura. Proprio perché blindata non sarà possibile migliorarla. Nel mese di luglio è inoltre previsto che l’esame alla Camera del premierato, una legge che cambierà radicalmente l’assetto politico-istituzionale italiano e su cui sono state formulate tante osservazioni ponderate e competenti. Ma la logica è sempre la stessa: nessuna discussione, nessuna miglioria, conta vincere. Che poi tutto questo peggiori o migliori la vita del popolo italiano, non sembra avere molta importanza. Migranti. Una sentenza che è come una bandiera bianca di Nello Scavo Avvenire, 13 giugno 2025 La Cedu, l’Italia e la Libia. Roma non è stata condannata, ma è stata assolta? Il passaggio chiave della sentenza con cui i giudici di Strasburgo sembrano graziare l’Italia, in realtà mette in guardia dalle interpretazioni auto-assolutorie. Perché il garbuglio di scartoffie e segreti non permette di dimenticare cosa fin da allora in segreto faceva il nostro Paese nelle relazioni con la Libia. Se tutto fosse stato così trasparente, perché mantenere ancora oggi sotto chiave il contenuto dei rapporti e dei memorandum sempre rinnovati, fino ai silenzi di Stato sul caso Almasri, il generale riportato in tutta fretta in Libia nonostante un mandato di cattura della Corte penale internazionale? Dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo (Cedu) più che l’implicito sostegno alle politiche migratorie è arrivato un esplicito grido di impotenza giudiziaria. La Corte, ricostruendo i fatti, ricorda che “la situazione era comunque regolata da altre norme di diritto internazionale, in particolare quelle relative al salvataggio delle persone in mare, alla protezione dei rifugiati e alla responsabilità dello Stato”. Ma qui la competenza dei giudici della Cedu si ferma, e non può andare oltre. L’autorità della magistratura “è limitata a garantire il rispetto della sola Convenzione (l’accordo che regola il perimetro di intervento della Cedu, ndr), non comprendendo il rispetto di altri trattati internazionali o di obblighi derivanti da fonti diverse dalla Convenzione”. Come dire che se crimini contro i diritti umani sono stati commessi, per casi come questo bisogna semmai tentare la strada della Corte penale internazionale o della Corte internazionale di Giustizia, ammesso che vi siano le condizioni per accedervi. In sintesi, la Corte ribadito “che la sua autorità è limitata a garantire il rispetto della sola Convenzione - si legge in una nota da Strasburgo -, non comprendendo il rispetto di altri trattati internazionali o di obblighi derivanti da fonti diverse”. Abbastanza per comprendere come l’Italia non sia stata assolta in senso pieno. E che semmai ora il rischio per le autorità di Roma, Malta o per gli organismi di Bruxelles che hanno cooperato - e cooperano - con la cosiddetta Guardia costiera libica, sia quello di venire trascinati davanti ad altri tribunali internazionali. I fatti risalgono all’alba del 6 novembre di otto anni fa. Al governo c’era il centrosinistra puntellato fra l’altro dal “Nuovo Centrodestra” di Angelino Alfano agli Esteri, Paolo Gentiloni premier, Marco Minniti agli Interni, Roberta Pinotti alla Difesa. A quel tempo nessuno poteva immaginare cosa sarebbe stato scoperto due anni dopo. La Libia dichiarava una sua zona di ricerca e soccorso (Sar), poi ritirata e infine ripresentata perché all’agenzia Onu per la navigazione si accorsero, tra le varie defaillance, che le mappe erano state disegnate al contrario. Tempo dopo Avvenire scoprirà che non erano stati i libici a preparare il progetto della loro “Sar”, ma l’Italia con fondi europei. Ma in quel 2017 c’erano stati almeno altri due episodi controversi, finora mai del tutto chiariti dalle autorità italiane. A maggio una delegazione libica era giunta segretamente nel nostro Paese. Ufficialmente, per partecipare a una iniziativa promossa dall’Oim, l’agenzia Onu per le migrazioni. I componenti furono scelti da Tripoli e approvati dalle autorità italiane che ne concessero il visto. Tra loro c’era Abdurhaman al Milad, nome di guerra “Bija”, da tempo noto anche alle autorità italiane che in un dossier del “Centro Alti Studi del Ministero della Difesa”, lo avevano indicato come il boss del traffico di esseri umani, armi e petrolio di contrabbando, specialmente nell’area di Zawyah, dove ha sede il più grande stabilimento petrolifero. Dopo il viaggio in Italia (ancora non sono noti gli incontri svolti tra la Sicilia e Roma) le partenze dalla Libia crollarono, senza alcuno sviluppo positivo nel trattamento dei migranti reclusi nei campi di prigionia. E nell’autunno del 2017 partì per le coste tripoline la prima cospicua spedizione di milioni di euro italiani alle “municipalità” libiche, espressione diretta dei clan. Niente che possa far chiudere il capitolo Libia nell’archivio delle impunità di Stato. Migranti. “Incolpevole per le violenze libiche”, la Cedu salva l’Italia di Giansandro Merli Il Manifesto, 13 giugno 2025 La Corte dichiara irricevibile il ricorso di alcuni sopravvissuti a un violento respingimento. “Così la Convenzione potrebbe veder compromesso, attraverso l’azione degli Stati, il suo potere di proteggere i diritti fondamentali”, dichiara l’avvocata Loredana Leo. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha dichiarato irricevibile il ricorso di alcuni sopravvissuti a un violento respingimento in Libia avvenuto in acque internazionali il 6 novembre 2017. Ieri i giudici hanno affermato all’unanimità che, viste le circostanze, l’Italia non aveva giurisdizione. È la prima decisione sui “respingimenti per procura”, quelli subappaltati alla “guardia costiera libica” nell’ambito del memorandum Roma-Tripoli del febbraio di otto anni fa (governo Gentiloni, al Viminale Minniti). Nove mesi dopo, circa 130 migranti che viaggiavano su un gommone in pericolo hanno chiesto aiuto al centro di coordinamento dei soccorsi di Roma. Questo ha diffuso l’allarme. Il barcone è stato raggiunto prima dalla motovedetta libica Ras Jadir e poi dalla Sea-Watch 3. Durante l’intervento, in cui l’unità nordafricana ha usato violenza contro i naufraghi e praticato manovre pericolose, è scoppiato il caos. Il bilancio, per Sea-Watch, è stato di 59 persone salvate dalla nave umanitaria, 20 morti, 47 migranti riportati in Tripolitania. Dodici sopravvissuti hanno poi accusato l’Italia davanti alla Cedu di essere di fatto responsabile del crimine. Ma la Corte ha escluso che la Convezione europea dei diritti dell’uomo, di cui è istituzione di garanzia, permetta di stabilire una “giurisdizione extraterritoriale”. Questa impostazione riguarda il caso specifico - i giudici sottolineano che Roma non aveva il pieno controllo della situazione, tanto che l’elicottero italiano giunto sul posto non era riuscito a fermare le violenze dei libici - ma ovviamente ha implicazioni più generali. “Mentre il modello Italia-Libia viene riprodotto altrove e diventa la norma, la pronuncia della Corte avrebbe potuto costituire un precedente significativo, chiarendo che la protezione dei diritti umani da parte dello Stato non può essere elusa attraverso politiche di esternalizzazione”, afferma in un comunicato l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, che ha assistito i ricorrenti. Paradossalmente la sentenza rileva che la Libia non è un porto sicuro, che in quel paese i migranti rischiano torture e invita gli Stati a rispettare gli obblighi che derivano dal diritto internazionale. Ma oltre le raccomandazioni non resta niente: la Cedu specifica di non avere competenza sulle violazioni di convenzioni e trattati, come quelli che regolano il diritto del mare, diversi dalla Convenzione europea. “Il nostro equipaggio era lì e ha testimoniato la violenza di quel respingimento e ha visto annegare decine di persone - accusa la portavoce di Sea-Watch Giorgia Linardi - L’appalto della violenza alla Libia per aggirare le responsabilità europee viene legittimato per via di una pura questione giurisdizionale, che non cancella la gravissima violazione del diritto internazionale”. “La Corte afferma che esiste una chiara lacuna giuridica nell’applicazione della Convenzione, che non le consente di intervenire nonostante la chiara violazione delle convenzioni internazionali riconosciute nelle conclusioni”, dichiara l’avvocata Loredana Leo, impegnata nel caso. Che lancia l’allarme: “In questa interpretazione la Convenzione potrebbe veder compromesso, attraverso l’azione degli Stati, il suo potere di proteggere i diritti fondamentali”. Proprio contro la Corte e la Convenzione è in corso un’azione lanciata da Italia e Danimarca che ha raccolto l’appoggio di altri nove paesi Ue, per ultimi Ungheria e Germania. Insieme propongono di ridiscutere la Convenzione, ritenuta troppo garantista verso i cittadini stranieri, e intanto fanno pressioni sulla Corte affinché sia più favorevole agli Stati in materia di immigrazione. È stata pubblicata il 23 maggio scorso, ma era stata fatta trapelare il 13 maggio. Una settimana prima che i giudici europei discutessero in camera di consiglio il caso. Un segno dei tempi. E del clima. Nel mondo le persone sfollate forzatamente sono 122,1 milioni e a ospitarle sono Paesi a medio e basso reddito di Marika Ikonomu Il Domani, 13 giugno 2025 Il 67 per cento delle persone in fuga rimane nei paesi limitrofi. Sono i dati del report annuale dell’Unhcr aggiornati ad aprile 2025. Alla crescita del numero degli sfollati, non corrisponde però un aumento delle risorse che consentano di rispondere ai bisogni di chi è costretto a partire. La percezione delle regioni più ricche del mondo è di accogliere la maggioranza dei rifugiati. Ma sono i paesi a basso e medio reddito a ospitare il 73 per cento dei rifugiati del mondo e il 67 per cento delle persone in fuga rimane nei paesi limitrofi. È il rapporto annuale Global Trends dell’Unhcr, l’agenzia dell’Onu per i rifugiati, a pubblicare questi dati, aggiornati ad aprile 2025. In questa data si contavano 122,1 milioni di persone sfollate con la forza. Oltre due milioni in più rispetto allo stesso periodo del 2024, quando avevano raggiunto i 120 milioni. Un numero che è in aumento ogni anno da dieci anni e, si legge nel rapporto, “i principali fattori che determinano la fuga rimangono i grandi conflitti” come tra gli altri - quello in Sudan, Myanmar, Gaza, la violenza ad Haiti, la Repubblica democratica del Congo e l’Ucraina “e la continua incapacità politica di fermare i combattimenti”. Oltre la metà sono sfollati all’interno del proprio paese a causa di un conflitto e anche questo dato è aumentato “bruscamente”: 6,3 milioni in più fino, raggiungendo alla fine del 2024 73,5 milioni di persone. Sono poi 31 milioni i rifugiati sotto il mandato dell’Unhcr, 8,4 i richiedenti asilo, 5,9 i palestinesi rifugiati sotto il mandato dell’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, e 5,9 milioni di altre persone bisognose di protezione internazionale. Al di là della sopravvivenza quotidiana e di questioni di salute fisica, la salute mentale delle persone rifugiate è spesso trascurata, evidenzia il rapporto. “L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms)”, si legge, “stima che 970 milioni di persone convivono con problemi di salute mentale in tutto il mondo (una persona su otto)”. L’82 per cento delle persone che soffre questi disturbi vive in paesi a basso e medio reddito. Anche se sono diffusi in tutto il mondo, nei paesi ad alto così come a basso reddito, “i rifugiati e gli altri sfollati spesso subiscono molteplici fattori di stress che incidono sulla loro salute mentale e sul loro benessere”, evidenzia l’Unhcr. E i fattori di stress possono verificarsi prima, durante o dopo il viaggio, e “possono includere abusi, violenza, perdite significative, difficoltà economiche e incertezza per il futuro”. Oltre 8,2 milioni di sfollati interni hanno fatto ritorno nel 2024 e si tratta del secondo dato più alto di sempre. A questo si aggiungono gli 1,6 milioni di rifugiati, per un totale di rientri di 9,8 milioni di persone. “Ma in assenza di pace e stabilità nel loro paese, molti sfollati interni rimangono intrappolati in cicli di ritorni seguiti da nuovi spostamenti e i conflitti diventano più prolungati”, denuncia il rapporto. Per l’Alto commissario dell’Unhcr, Filippo Grandi, “negli ultimi sei mesi abbiamo visto alcuni barlumi di speranza”: quasi due milioni di siriani, dopo un decennio di esilio, sono riusciti a tornare nel loro paese, che tuttavia - sottolinea Grandi - “rimane fragile e le persone hanno bisogno del nostro aiuto per ricostruire nuovamente le loro vite”. O, ancora, un gran numero di afghani sono stati costretti a tornare nel loro paese nel 2024, “arrivando a casa in condizioni disperate”. Alla crescita del numero degli sfollati in tutto il mondo, non corrisponde però un aumento delle risorse che consentano di rispondere ai bisogni di chi è costretto a fuggire. “L’Unhcr e la più ampia comunità umanitaria stanno affrontando tagli dannosi ai finanziamenti, che avranno un grave impatto su milioni di persone a livello globale”, scrive l’agenzia, precisando che i fondi sono tornati al livello del 2015, a causa dei tagli brutali ai sussidi e ai continui tagli agli aiuti umanitari. Una situazione che per l’Unhcr è “insostenibile” e amplifica la vulnerabilità dei rifugiati e delle persone in fuga: “Donne senza protezione, bambini senza scuole, intere comunità senza acqua e cibo”. “Quando le emergenze umanitarie ricevono risposte inadeguate, le conseguenze non si limitano ad aumentare le sofferenze umane, ma generano anche una maggiore instabilità”, ha detto Chiara Cardoletti, rappresentante dell’agenzia in Italia, Santa Sede e San Marino. Cardoletti ha sottolineato come la decisione di “tagliare gli aiuti rischia di spingere più persone alla disperazione, innescando ulteriori fughe e aggravando crisi che diventeranno ancora più difficili da affrontare in futuro. Si tratta di un circolo vizioso che dobbiamo urgentemente cercare di spezzare”. Così come per la questione climatica, sono i paesi a basso reddito - scrive l’agenzia - che “continuano a ospitare una quota sproporzionata di rifugiati nel mondo, sia in termini di popolazione che di risorse disponibili”. Il 19 per cento dei rifugiati viene ospitato da questi paesi, che rappresentano il 9 per cento della popolazione mondiale, ma solo lo 0,6 del prodotto interno loro. Tra questi, il Ciad, la Repubblica Democratica del Congo, Etiopia, Sudan e Uganda. Irlanda del Nord. Terza notte di caccia agli stranieri di Luigi Ippolito Corriere della Sera, 13 giugno 2025 E c’è chi mette bandiere britanniche alle finestre per evitare attacchi. Continuano i disordini in Irlanda del Nord, con epicentro a Ballymena: bande di incappucciati hanno dato l’assalto alle case degli stranieri, dopo l’arresto di due 14enni di origine romena per il tentato stupro di una ragazzina. È caccia agli stranieri in Irlanda del Nord: sono ormai quattro giorni che si susseguono disordini nella provincia britannica, con epicentro a Ballymena, cittadina di 30 mila abitanti a una quarantina di chilometri da Belfast. Bande di incappucciati hanno dato l’assalto alle case degli immigrati, sfasciando finestre e appiccando il fuoco, al grido di “dove sono gli stranieri?”. Giornate di scontri che hanno visto decine di feriti e battaglie con la polizia a colpi di mattoni, molotov e cannoni ad acqua. Gli incidenti, seppure in maniera sporadica, si sono estesi anche ad altri centri, inclusa Belfast, tanto che è stato sospeso il servizio ferroviario tra il capoluogo e Derry. A Ballymena i residenti hanno cominciato a esporre alle finestre l’Union Jack, la bandiera britannica, per segnalare la propria nazionalità (o il patriottismo) ed evitare così di essere attaccati. Nel mirino sono finiti soprattutto gli immigrati dall’Est Europa, quali cechi, slovacchi, bulgari o polacchi: la polizia ha parlato di “teppismo razzista” e la premier dell’Irlanda del Nord, la cattolica Michelle O’Neill, ha descritto gli incidenti come “puro razzismo”, col premier britannico Keir Starmer che ha condannato gli “attacchi insensati”, mentre invece ha sollevato polemiche l’uscita del deputato protestante locale, che ha addossato la responsabilità ultima alla “immigrazione incontrollata”. Tutto è cominciato lunedì dopo l’arresto di due 14enni di origine romena (probabilmente rom) accusati di tentato stupro ai danni di una ragazzina: una pacifica marcia di protesta è presto degenerata in violenza. I residenti locali lamentano di essere diventati ormai una “discarica” di immigrati e richiedenti asilo, e imputano agli stranieri (soprattutto rom, molto presenti nella zona) l’aumento di criminalità e insicurezza. Il quartiere di Ballymena dove sono scoppiati gli incidenti ha ormai una maggioranza di residenti stranieri, la metà dei quali si identifica come rom. La cittadina stessa è invece tradizionalmente bianca, working class e protestante: proprio quei perdenti e dimenticati, finiti in fondo alla scala socio-economica, che si sentono per di più traditi in un’Irlanda del Nord ormai guidata dai cattolici eredi dell’Ira (tra i fautori dei disordini, non a caso, sono stati segnalati legami con le formazioni paramilitari protestanti). L’area ha subìto negli ultimi anni una rapida deindustrializzazione, che ha visto la chiusura di molte fabbriche che davano lavoro alla gente del posto e quelle rimaste ricorrere a manodopera straniera a basso costo. Sconvolgimenti che hanno generato un rancore profondo che si sfoga contro gli stranieri. Sembra ormai una costante nelle isole britanniche. Qualcosa di simile era accaduto alla fine del 2023, a Dublino, quando l’accoltellamento di tre bambini di una scuola elementare da parte di un immigrato aveva scatenato violente proteste xenofobe che avevano messo a ferro e fuoco il centro della capitale irlandese: dal fondo di un Paese che si era sempre presentato come aperto e accogliente era emerso un magma di risentimento nei confronti dei rapidi cambiamenti demografici degli ultimi anni. Peggio ancora, nell’estate scorsa, numerose città dell’Inghilterra del Nord erano state sconvolte da disordini etnici seguiti alla barbara uccisione a Southport di tre bambine da parte di un giovane di origini ruandesi: una tragedia che aveva fatto da innesco al disagio sociale di regioni lasciate ai margini dello sviluppo economico e che, dalla Brexit in poi, hanno visto inascoltate le loro grida di protesta. Se la violenza, specialmente quella con motivazioni razziali, resta indifendibile, questo non vuol dire che la frustrazione che la sta generando non sia reale.