Carceri, è tempo di agire. E affermare l’impronunciabile: indulto e amnistia di Stefano Anastasia Il Manifesto, 12 giugno 2025 L’appello dei giuristi a conclusione del convegno promosso con Luigi Manconi e Paolo Ciani ospitato dalla vice presidente del Senato Anna Rossomando. Intervento conclusivo dell’incontro promosso con Luigi Manconi e Paolo Ciani e svoltosi mercoledì 11 giugno presso la Biblioteca del Senato, con i contributi di Donatella Di Cesare, Luciano Eusebi, Andrea Pugiotto e del Presidente della Conferenza episcopale italiana, Matteo Zuppi, ospiti della Vice Presidente del Senato Anna Rossomando. Quando, nell’ottobre scorso, con Luigi Manconi ci siamo decisi a redigere e indirizzare a tutti i parlamentari, di tutte le forze politiche, un appello per un provvedimento di clemenza, avevamo sotto gli occhi le immagini e le sofferenze di una lunga estate calda, quella dello scorso anno, in cui il numero delle persone detenute continuava a crescere, mentre il personale di polizia era costretto a turni di sedici, venti, ventiquattro ore, per garantire di notte almeno un posto di guardia per ogni sezione, ogni 100, 150, 200 detenuti. Il caldo, soffocante come quello che sta per arrivare, faceva (e fa) a pugni con la ferrea chiusura delle camere detentive. Si moltiplicavano i gesti disperati di singoli e le proteste collettive di molti. Non era difficile prevedere un aggravamento progressivo della situazione, e così ci siamo permessi, insieme a molti e diversi compagni di strada, di diversa esperienza, cultura e formazione, da Giovanni Fiandaca a Franco Corleone, da Mauro Palma a Clemente Mastella, da Rita Bernardini a monsignor Paglia e a Dacia Maraini (solo per citarne alcuni), di pronunciare quelle parole che sembrano impronunciabili, ma che pure sono nella nostra Costituzione democratica, non come residuo di un potere assoluto, ma come strumento di una politica della giustizia che sappia rimettere in equilibrio la bilancia, quando vada fuori asse e diventi essa stessa strumento di ingiustizia: amnistia e indulto, diciamolo pure senza vergogna, come etimologia vuole: “dimenticanza” di reati minori e “perdono” di una parte di pena. Il nostro Paese, nella prima Repubblica, ne fece forse un uso finanche eccessivo, ma riuscì, in questo modo, a sottrarre all’algida contabilità delle pene due trasformazioni epocali: da società (prevalentemente) agricola a società (prevalentemente) industriale e poi a società “dei servizi” nell’economia globalizzata. I problemi di convivenza, quelli che interessano la giustizia e, duramente quella penale, trovavano altre declinazioni e altre forme di composizione. Non è più quel tempo, lo sappiamo, e per questo è diventato difficile pronunciare quelle parole e la loro premessa: la clemenza, quella inclinazione che infrange la rigidità di un’astratta rettitudine per avvicinarsi alla realtà della vita umana e delle sue sofferenze, quella clemenza che, scompaginando il giudicato, dà conferma alla speranza dei condannati e alle sue aspettative. Se riusciamo a liberarci dall’interdetto che impedisce di dare un senso all’appello giubilare alla clemenza di Papa Francesco, non è difficile prefigurare quel che sarebbe necessario: basterebbe un provvedimento di indulto per le pene o i residui di pena fino a due anni per cancellare il sovraffollamento e rimettere in funzione il sistema penitenziario italiano. 16.568 persone, il 31 maggio scorso, scontavano pene o residui pena inferiori a due anni: tanti quanti sono ospitati in eccesso nelle nostre carceri. Tutti gli operatori della giustizia penale e del sistema penitenziario sanno che questa è l’unica soluzione disponibile ed immediatamente efficace per risolvere il problema del sovraffollamento. Il fatto che l’articolo 79 della Costituzione richieda una maggioranza speciale per l’approvazione di una legge di amnistia e di indulto (quorum che pure meriterebbe di essere rivisto, come giustamente ci ricorda Andrea Pugiotto), lungi dal costituire un impedimento assoluto alla sua approvazione, spinge a una condivisione di responsabilità tra le forze politiche, di maggioranza e di opposizione, per l’adozione di un provvedimento necessario a restituire condizioni di vita e di lavoro dignitose nelle nostre carceri. Condivisione che ci fu nel 2006, quando il Presidente del Consiglio dei ministri Romano Prodi e il leader dell’opposizione Silvio Berlusconi si assunsero la comune responsabilità di votare a favore dell’ultimo provvedimento di clemenza adottato in Italia, allora come oggi necessario al rispetto ai principi dell’articolo 27 della Costituzione. Contrariamente a una errata opinione, molto e autorevolmente diffusa, quel provvedimento ha dato risultati assai positivi, non solo decongestionando gli istituti di pena e consentendovi - seppure solo per un certo periodo - condizioni accettabili di vita e di lavoro, ma anche nella riduzione della recidiva: secondo la ricerca commissionata dal Ministero della giustizia all’Università di Torino nel 2006, degli oltre 27mila detenuti scarcerati nei mesi immediatamente successivi all’approvazione dell’indulto, solo il 35% era rientrato in carcere cinque anni dopo, a fronte di un dato generale che vede intorno al 67% la percentuale di recidiva registrata tra quanti scontano interamente la propria pena in carcere. Se un limite c’è stato nell’indulto del 2006, esso va individuato nel non aver previsto una contemporanea amnistia per i reati minori, che avrebbe consentito di prolungare nel tempo il suo effetto deflattivo. E’ quindi fondatamente prevedibile che un provvedimento di clemenza - pur limitato a due anni di indulto e corredato da un’amnistia per reati che non siano punibili, nel massimo, a pene superiori a quelle che è già possibile scontare in alternativa al carcere - possa non solo porre termine alla gravissima situazione di sovraffollamento esistente e alle intollerabili condizioni di vita e di lavoro in carcere, ma dare tempo alle misure programmate dal Governo (a prescindere dal fatto che le si condividano o meno, e io non le condivido) di potersi dispiegare e mettersi alla prova del criterio dell’efficacia. Per questo, lasciamo all’attenzione dei parlamentari una ipotesi di proposta che prevede la concessione di due anni di indulto, revocabile se chi ne ha usufruito commette, entro cinque anni dalla data di entrata in vigore della legge, un delitto non colposo per il quale riporti una nuova condanna a pena detentiva non inferiore a due anni, e di un’amnistia condizionata (sottoposta cioè alla condizione che il condannato, nei cinque anni successivi alla data di entrata in vigore della legge, dia prove effettive e costanti di buona condotta) per i reati punibili nel massimo fino a quattro anni di reclusione. Tanto sarebbe necessario e sufficiente per porre fine a un sovraffollamento ormai fuori controllo. Azzerato il sovraffollamento, maggioranza e opposizioni potranno tornare a dividersi sul futuro, ma almeno avranno guadagnato il tempo per realizzarlo, ponendo fine alla dissipazione di vite e diritti che si sta consumando nelle nostre carceri. Zuppi: “Un gesto di clemenza nel Giubileo. Porterebbe anche più sicurezza” di Angelo Picariello Avvenire, 12 giugno 2025 “La clemenza non è una brutta parola, non è buonismo, ma è funzionale all’esigenza della sicurezza molto più di un modello basato sull’implacabilità della giustizia”. All’incontro “Diritto e clemenza. Che fare per il carcere?” nella sala capitolare del Senato del chiostro di Santa Maria sopra Minerva, la riflessione del cardinale Matteo Zuppi richiama tutti, non solo la politica, a fare di più, molto di più, per un’emergenza che interroga la società italiana. Sono stati 91 i suicidi fra i detenuti lo scorso anno, ma ben 1500 i tentativi, spia di un malessere diffuso, preoccupante e crescente. “Facciamo molto poco - prosegue il cardinale, citando dati della diocesi di Bologna - un terzo dei detenuti potrebbe uscire per lavorare se solo trovasse un domicilio a cui poter fare riferimento”. Zuppi ricorda il titolo di un incontro tenutosi al Cnel di recente, con un titolo ambizioso (“Recidiva zero”): una prospettiva, attingendo alle statistiche, che va ricollegata alla possibilità di offrire a tutti un’alternativa alla pena detentiva. “Invece cresce il problema della malattia psichiatrica, fa riflettere che gran parte dei suicidi riguardi persone giovani o vicine al fine pena”, prosegue Zuppi, a conferma di un’assenza di prospettive che si registra negli istituti di pena, contraddicendo il dettato costituzionale e l’obiettivo del reinserimento che la pena dovrebbe avere. Il dato di partenza che rende tutto più complicato è quello del sovraffollamento, calcolato attualmente nella misura del 34% della capienza massima tollerabile. Zuppi si augura che venga presa in esame sul serio la proposta di un gesto di clemenza che era stata avanzata da papa Francesco in occasione del Giubileo. All’incontro, promosso dal deputato del Pd Paolo Ciani, di Demos, su iniziativa di Luigi Manconi, presidente dell’associazione A buon diritto, e di Stefano Anastasia, garante dei detenuti di Lazio e Umbria, è stato quest’ultimo a dettagliare una proposta scaturita dall’appello del 18 ottobre scorso (sottoscritto, fra gli altri, dal costituzionalista Michele Ainis, dal magistrato Gherardo Colombo, da monsignor Vincenzo Paglia, dai giornalisti Mattia Feltri, Gaia Tortora e Daria Bignardi, dalla scrittrice Dacia Maraini, dall’attore Alessandro Bergonzoni, dal sindaco di Benevento Clemente Mastella, dalla radicale Rita Bernardini, per citare solo alcuni nomi): “Si tratterebbe - spiega Anastasia - di dar vita a un indulto che elimini le pene o i residui di pena inferiori a 2 anni, che sarebbe in grado di liberare circa 16.500 detenuti, pari - grosso modo - al numero di reclusi che eccede attualmente la capienza massima”. A garanzia della sicurezza viene anche prevista la revoca del beneficio nel caso ci si renda colpevoli nei 5 anni successivi di un reato punito con almeno 2 anni. “La modifica dell’articolo 79, concepita in piena era Tangentopoli sull’onda giustizialista, richiede per l’adozione di una misura di questo tipo una maggioranza “dolomitica”, difficilissima da scalare, pari ai due terzi. Paradossalmente è più facile cambiare l’articolo della Costituzione che adottare un provvedimento di clemenza”, lamenta Andrea Pugiotto, ordinario di Diritto costituzionale a Ferrara. “Ma, contrariamente a quel che si sostiene, l’ultima volta che una misura di questo tipo fu adottata, nel 2006, grazie a un accordo fra Prodi e Berlusconi, i risultati furono positivi, con una recidiva pari al 37% mentre chi conclude in carcere la sua pena per intero mediamente cade nella recidiva nel 67% dei casi”. Anche per Zuppi l’aumento dei giorni di liberazione anticipata “cambierebbe molto” per l’obiettivo di “decongestionare le carceri affollate e anche il presidente del Senato - ricorda - si è esposto perché si possa arrivare a fare 70-75 giorni di liberazione anticipata per un periodo di due anni retroattivo. Voglio riproporre ciò che ha chiesto papa Francesco ai governi affinché nell’anno del Giubileo si assumano iniziative che restituiscano speranza, forme di amnistia, di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in se stesse e nella società, la clemenza. Percorsi di reinserimento nella comunità, a cui corrisponde un concreto impegno nell’osservanza delle leggi”. La situazione allarmante richiede maggiore coraggio: “Siamo in presenza di un numero di suicidi assolutamente sconcertante. E l’impressione è quella di un atteggiamento cinico. Manca una riflessione chiara rispetto al fatto che la pena detentiva deve essere l’extrema ratio”, ha detto la senatrice Anna Rossomando nell’introduzione. “Occorre guardare la realtà - dice Ciani nelle conclusioni - andando oltre i comodi schemi di un populismo che non intende farci i conti, ignorando i fondamenti dei principi umanitari della nostra Costituzione, nell’illusione di garantire più sicurezza, di fatto generando solo più insicurezza, per tutti”. Ignazio La Russa: “Carceri, più sconti ai detenuti” di Alessandro De Angelis La Stampa, 12 giugno 2025 Il presidente del Senato: “Chi commette reati deve stare in cella, ma con dignità”. Palazzo Madama, stanza del presidente. Appena ci accomodiamo di fronte a Ignazio La Russa, lo sguardo cade sullo scaffale dove c’è una foto di Silvio Berlusconi, e vicino due piccoli mezzi busti di Mao e Lenin oltre a quelli di De Gasperi e Giulio Cesare: “Scusi, ma lei che c’azzecca?”. Risposta, accompagnata da una risata: “Perché, con quello del Duce che era di mio padre io che ci azzecco?”. Poi però il faccione di Donald Trump sul canale all-news ci riporta all’attualità: “Non voglio esprimere un giudizio - dice - perché non ho tutti gli elementi per poterlo fare. Sicuramente è qualcosa di rilevante su cui bisogna riflettere”. Mi risponda però su questo: Trump per voi è un modello? “No, Trump non è un modello. È il capo di un paese con cui l’Italia ha da sempre avuto ottimi rapporti e con cui vuole e deve continuare ad avere ottimi rapporti. E quindi va rispettato in quanto leader di un paese amico”. A proposito di carceri in Italia, lei ha aperto alla proposta di Roberto Giacchetti sulla “liberazione anticipata speciale” per affrontare il tema del sovraffollamento... “Sì, perché accanto alla assoluta necessità di garantire la certezza della pena c’è anche un altro obbligo, previsto anche dalla nostra Costituzione, che è quello di assicurare una condizione di vita civile ai detenuti. Questo non ha nulla a che fare con indulti o amnistie, alle quali rimango contrario. Ma l’esigenza di alleggerire le carceri c’è”. Sta auspicando una riflessione in Senato? “La auspico, collegata al proposito del governo Meloni di avviare un piano carceri che potrà realizzarsi in due o tre anni”. Alla Camera però la maggioranza ha bocciato quella proposta... “Perché evidentemente non era congeniale. Bisogna tuttavia ammettere che da allora il problema non si è risolto e l’estate poi è sempre un periodo complicato dal punto di vista carcerario. Per questo credo che ci possa essere una riflessione serena”. Che cosa intende quando dice che “non era congeniale” e quale può essere il punto di caduta? “Credo che l’attuale modo con cui viene valutata la liberazione anticipata, ovvero 45 giorni ogni sei mesi per chi non ha commesso atti di indisciplina, debba essere un po’ modificata. A mio giudizio deve essere contemplato il criterio della “buona condotta”, nel senso che ci vuole qualcosa in più del non avere fatto niente di male. Spetta al Parlamento e non a me trovare un plus per far sì che si tratti di un premio che potrebbe essere aumentato dai 45 ai 70 giorni, anche retroattivamente. In modo che chi deve scontare l’ultimo periodo non lo sconti in carcere ma esca un po’ prima”. Parla a titolo personale o è una riflessione condivisa? “Lo dico a titolo personale. Il mio partito e il centrodestra si sono riservati una valutazione nel merito”. Le cito la dichiarazione che fece Andrea Delmastro: “Vedere come non li lasciamo respirare dietro un vetro oscurato di un mezzo della polizia penitenziaria provoca in me un’intima gioia”... “Delmastro in quella occasione usò una metafora per i boss al 41-bis. Si riferiva alla mafia in generale e non alle persone: era un no alla criminalità organizzata. Io voglio che chi commette i reati stia in carcere con dignità e credo che tutto il centrodestra sia d’accordo con me”. Scusi, però: una delle cause del sovraffollamento è l’aumento del numero dei reati, che sembra essere una specialità del governo... “Lei sbaglia: l’aumento del numero dei reati voluto dal governo non è causa di sovraffollamento, ma un principio di sicurezza per i cittadini. Se ci sono comportamenti che sono riprovevoli e che creano insicurezza, è giusta sia la sanzione che la detenzione. Il rimedio non è non punire, ma far si che il condannato sconti la pena in condizioni civili. Guai se pensassimo che la soluzione è non colpire chi per esempio fa la truffa agli anziani, occupa case o attacca le forze dell’ordine”. Blocco stradale fino a due anni, resistenza passiva fino a otto anni come il sequestro di persona. Col decreto sicurezza avrebbero arrestato anche voi del Msi negli anni Settanta…. “E infatti quando nel 1970 a Milano fu bloccato corso Vittorio Emanuele ci furono diversi arresti di giovani del Msi. Il reato, quindi, esisteva già allora. Questa legge, in realtà, non colpisce indiscriminatamente ma prevede pene detentive solo se il sit-in è commesso con violenza o minaccia o se la conseguenza di questa azione danneggia terzi, come ad esempio bloccare un treno o la circolazione stradale”. Testamento biologico. Conferma l’obiettivo di portare una legge in Aula a luglio? “Il mio obiettivo era questo. E sono orgoglioso, dopo essermi speso, che sia stata fissata una data in cui il tema si comincerà ad affrontare in aula al Senato. Sono altresì fiducioso che si possa approvare un testo entro la fine della legislatura”. Se viene presentata come una legge del “governo” però, la discussione diventa difficile... “La legge non è mai del Governo quando arriva in Parlamento e non lo è in questo caso. Le Camere possono modificarla come vogliono. Una legge è una legge. E da presidente del Senato ho molto lavorato perché si favorisse questa discussione. Ci sono dei temi, come le carceri e il fine vita su cui occorre un confronto sereno, sganciato dalla polemica politica e su cui mi piacerebbe un voto unitario”. Qualcuno in maggioranza però frena… “Se qualcuno pensava di buttare la palla lontano, Giorgia Meloni ha detto che bisogna lavorare per una giusta legge così come richiesto dalla Corte Costituzionale. Giorgia non è una che fa finta di decidere per non decidere. È stato molto importante il vertice di centrodestra in cui si è deciso il via libera, molto più importante di ciò che è stato scritto”. C’è chi vorrebbe escludere il Servizio sanitario nazionale dalla procedura del “fine vita”. C’è chi mette paletti stringenti sulle cure palliative. Quale è la cornice possibile? “Questi sono veramente argomenti su cui deve decidere liberamente il Parlamento. Quello che a me interessava è che questo tema andasse all’attenzione del Parlamento. Per quel che mi riguarda conta il principio: garantire la possibilità di scelta a chi è nella condizione terminale e senza speranza. Bisogna trovare dei limiti, evitare abusi e fughe in avanti, ma questa scelta, non “il suicidio”, è un’altra cosa”. Un’ultima domanda. Si è davvero riaperta la discussione sul terzo mandato? Antonio Tajani non è affatto d’accordo... “La cosa interessante in questo dibattito è che è stato auspicato un unico criterio a livello nazionale. È giusto dire che il “terzo mandato”, se ritenuto possibile, non può essere a macchia di leopardo: una regione sì, una regione no e una regione forse. Mi sembra condivisibile che il governo abbia detto che ci penserà se l’input viene dalle Regioni”. “Il reato di femminicidio non risolve nulla e affida al diritto una funzione morale” di Valentina Stella Il Dubbio, 12 giugno 2025 L’audizione al Senato del professor Vittorio Manes: “Pericoloso affidare alla legge un compito promozionale di valori culturali che non gli è proprio”. Proseguite ieri in commissione Giustizia del Senato le audizioni sul disegno di legge che introduce una nuova fattispecie penale, rubricata come “femminicidio”, sanzionata con l’ergastolo. Ha esordito Maria Monteleone, già alla guida del pool antiviolenza alla Procura di Roma. Secondo l’ex pm “la previsione normativa non ha solo un valore simbolico e culturale ma può svolgere una adeguata e necessaria efficacia preventiva”. E ha tirato in ballo anche il Pontefice: “come ha ricordato Papa Leone nell’omelia dell’8 giugno: “Penso anche - con molto dolore - a quando una relazione viene infestata dalla volontà di dominare sull’altro, un atteggiamento che spesso sfocia nella violenza, come purtroppo dimostrano i numerosi e recenti casi di femminicidio”. A prescindere dalle convinzioni religiose il fenomeno è grave e va posto al centro dell’attenzione” ha concluso l’ex magistrata requirente. Molto critico invece il professore avvocato Vittorio Manes: “Mi pare che si continui ad affidare sempre di più al diritto penale un compito di pedagogia sociale, addirittura morale, attraverso l’introduzione di fattispecie di reato che vogliono soprattutto veicolare un messaggio. Affidare al diritto penale un compito promozionale di valori culturali che non gli è proprio è sempre pericoloso, e non aiuterà certo ad assicurare maggior protezione alle potenziali vittime”. Inoltre secondo l’Ordinario di Diritto Penale nell’Università di Bologna esistono diverse “perplessità di ordine sostanziale, relative alla forte frizione e tensione che questa tecnica di tipizzazione del reato sottende anzitutto con il principio di uguaglianza”. Per Manes “in qualche modo si legittima una discriminazione punitiva rispetto a talune categorie di persone e non ad altre”. Ricordiamo che il nuovo articolo 577 bis cp prevedrebbe: “Chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna o per reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà o, comunque, l’espressione della sua personalità, è punito con l’ergastolo”. Tuttavia per il giurista “la perplessità maggiore concerne la tipizzazione di questo reato, che mi pare in notevole contrasto con i principi fondamentali che devono guidare le scelte di politica criminale del legislatore: il principio di tassatività e il principio di determinatezza. La tipizzazione del femminicidio, nella attuale proposta, evoca un fatto commesso come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna, o per reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà, o comunque l’espressione della sua personalità. Concetti che sono assolutamente indeterminati, ambigui e quindi molto distanti da quei canoni che anche la nostra Corte costituzionale, penso alla recentissima sentenza 98/2021, ha indicato e imposto come corretti canoni di legislazione in materia penale”. Ma soprattutto i concetti utilizzati sono “carenti di tassatività anche sotto il profilo processuale: si fa riferimento a concetti insuscettibili di prova in giudizio, quasi dei postulati, come tali sempre apodittici ed autoassertivi. Quando potremo dire di essere di fronte ad un atto omicidiario commesso come atto di discriminazione o di odio? Probabilmente sempre. O forse no, a seconda dell’intuizione dell’interprete. Si tratta di concetti così ambigui che sembrano ricordare molto da vicino il reato di plagio che fu giudicato incostituzionale dalla Corte nel 1981 proprio perché il concetto a cui faceva riferimento non era suscettibile di verifica empirica, e di essere provato in giudizio”. “Ma qual è il rischio maggiore dietro questa tecnica legislativa?” si è chiesto infine Manes. “Delegare indirettamente e surrettiziamente al giudice la verifica di questi concetti: sarà il giudice che dovrà, attraverso un accertamento puramente intuizionistico, se non emotivo, verificare in concreto la presenza o meno di questa gravissima fattispecie del femminicidio. Questo creerà non solo una grave disparità di trattamento a seconda della valutazione del giudice, ma anche una notevolissima sovraesposizione del giudice stesso. A fronte di fatti di questa rilevanza, come si sa, è molto forte l’attenzione mediatica e l’orizzonte di attesa nella collettività reclama sempre condanne esemplari e pene draconiane. E ogni volta che il giudice negherà la ricorrenza della più grave fattispecie del 577 bis, o dell’aggravante prevista secondo identici requisiti per diversi reati, ciò verrà visto come una sorta di denegata giustizia e si considererà il giudice come responsabile”, ha concluso Manes. Giustizia, Sisto: “Avanti con stabilizzazione dell’Ufficio per il Processo di Luca Romano Il Giornale, 12 giugno 2025 Il viceministro della Giustizia è intervenuto nel corso della tavola rotonda “Giustizia ed efficienza dello Stato”, nell’ambito all’evento “Italia 2035, strategie per un futuro di crescita e stabilità”. “Giustizia ed efficienza devono procedere di pari passo, il ministero è impegnato per assicurare una giustizia più rapida ed efficiente, con strutture migliori, senza compromettere le garanzie e i diritti dei cittadini. Questo impegno non si limita soltanto a interventi normativi, ma comprende anche azioni logistiche”. Lo ha dichiarato Francesco Paolo Sisto, viceministro della Giustizia, intervenuto nel corso della tavola rotonda “Giustizia ed efficienza dello Stato”, nell’ambito all’evento “Italia 2035, strategie per un futuro di crescita e stabilità”, promosso da Forbes a Roma nella sala Trilussa della Cassa di previdenza dei Geometri, presieduta da Diego Buono. “Stiamo rispettando gli obiettivi fissati dal Pnrr e siamo ottimisti per il futuro. Grazie all’Ufficio del Processo, abbiamo già fatto significativi passi avanti, riducendo del 40% i tempi dei procedimenti civili e del 25% quelli penali, risultato ottenuto grazie all’impegno dei giovani operatori degli UPP, per i quali prevediamo un piano di stabilizzazione tra le 4.500 e le 5.000 unità. Inoltre, stiamo valutando l’introduzione di bonus per agevolare la partecipazione a ulteriori concorsi pubblici, così da trattenere all’interno del sistema giustizia queste preziose professionalità. Sul fronte del sovraffollamento carcerario, prevediamo interventi mirati nell’edilizia penitenziaria, con l’ampliamento delle strutture e la ristrutturazione di quelle esistenti. È previsto anche un importante investimento sui percorsi di trattamento e sulle opportunità di lavoro per i detenuti, considerando che la recidiva scende intorno al 2% per chi partecipa a queste attività. Infine, sarà attuato un ampio piano di assunzioni per rafforzare ulteriormente i servizi offerti”. Il dibattito è stato introdotto da Alfonso Celotto, professore ordinario di Diritto costituzionale dell’Università Roma Tre: “I problemi della giustizia in Italia attengono sicuramente a problemi organizzativi interni come il tema della separazione delle carriere di cui si sta discutendo il disegno di legge di riforma costituzionale e poi problemi di efficienza. I cittadini vogliono sentenze in tempi rapidi, giuste e rispettose dei crismi del diritto di difesa. Bisogna lavorare su questi versanti. Dobbiamo puntare all’efficienza diminuendo, da una parte, l’impatto del contenzioso e il numero delle cause. In Italia contiamo 5 milioni di sentenze l’anno. La Cassazione fa circa 100mila sentenze l’anno. Occorrono metodi alternativi di risoluzione a quelli giudiziari e dare tempi certi. Una giustizia che funzione è al centro del sistema democratico del nostro Paese”. Secondo Tommaso Miele, presidente aggiunto Corte dei conti: “Le principali criticità del sistema giudiziario italiano sono sotto gli occhi di tutti. Non si può certamente dire che la Giustizia in Italia funzioni. Non solo per i tempi lunghissimi, motivo per cui già essere sottoposto a un processo è una pena, soprattutto se si considerano tutti gli effetti collaterali. Molte volte si è sottoposti ancora prima al processo mediatico che rappresenta già di per sé una condanna che comporta l’esclusione dai rapporti sociali e dalle relazioni familiari per i colletti bianchi. Tutte le persone sono uguali davanti alla Giustizia e accertate le responsabilità occorre essere molto severi. Però è bene ricordare che in Italia vige sempre il principio di non colpevolezza fino a condanna definitiva. Per questo occorre una rivoluzione culturale per giungere all’umanizzazione della Giustizia”. Punta il dito sulla complessità eccessiva del sistema giudiziario Franco Massi, segretario generale Corte dei conti: “La macchina del Sistema Paese Italia è complicata ed è facile lasciarsi andare a giudizi un po’ troppo affrettati. C’è chi definisce la Pubblica Amministrazione ‘quella catena di trasmissione che traduce le regole di convivenza sociale fissate dal decisore politico in effetti concreti sui cittadini e sulle imprese’. È ovvio che se questa catena non gira le regole di convivenza sociale non vengono tradotte in maniera efficace sul tessuto economico e sociale del Paese. In questo la Corte dei conti ha un ruolo, è una magistratura che deve svolgere una funzione maieutica, cioè, spiegare alla Pubblica amministrazione qual è il miglior modo per investire i soldi pubblici. La Corte ha anche l’onere di andare a controllare il rispetto delle indicazioni fornite, quindi una funzione sindacatoria”. Sulla riforma della giustizia si è espresso infine Fulvio Baldi, sostituto procuratore Corte di Cassazione: “Non risolve nessun problema, ormai si è creato un muro contro muro tra magistratura e politica. Il dialogo sta scemando e si stanno perdendo di vista alcuni obiettivi. Abbiamo bisogno di una riforma della Giustizia che miri a un’efficienza maggiore e a maggiori garanzie. Solo incrociando efficienza e garanzia si raggiunge la qualità della Giustizia. Credo che questa Riforma non vada verso la giusta direzione: l’obbligatorietà dell’azione penale non è toccata, così come l’autonomia e l’indipendenza della Magistratura. L’utente ha bisogno di un Pubblico Ministero preparato, onesto, equilibrato, professionale e la Riforma nulla aggiunge a questa esigenza. Anche il sorteggio è molto mortificante per la categoria. Non si capisce, ad esempio, come un potere dello Stato non possa scegliere il proprio amministratore presso il Consiglio Superiore della Magistratura”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Suicida in carcere Luzmil Toci, uccise la moglie di Raffaele Sardo La Repubblica, 12 giugno 2025 Il 31enne si è tolto la vita intorno alle 13 nel reparto psichiatrico del carcere. Poco dopo le 13 di ieri, Luzmil Toci, 31 anni, detenuto nel reparto psichiatrico del carcere di Santa Maria Capua Vetere, si è tolto la vita. L’uomo era stato condannato per il femminicidio della moglie 24enne, Eleonora Toci, avvenuto lo scorso 9 ottobre a San Felice a Cancello, nel Casertano. La donna fu uccisa nel sonno dal marito. La storia di Eleonora Toci è quella di un sogno infranto. La giovane madre, era arrivata in Italia dall’Albania qualche mese prima per ricongiungersi con il marito, Luzmil, già stabilitosi nel comune campano, dove lavorava saltuariamente come bracciante agricolo. Sperava di garantire un futuro migliore ai loro due figli, di 4 e 6 anni. Tuttavia, la mattina del 9 ottobre 2024, mentre dormiva nel letto con il marito, fu stata strangolata a mani nude. I piccoli erano nella stessa stanza. Il primo a denunciare l’omicidio fu il figlio maggiore. Rispondendo al cellulare della madre, il bambino disse alla zia: “Papà ha fatto un danno, ha ucciso la mamma”. La donna avviò immediatamente una videochiamata, e fu proprio il piccolo a mostrare il corpo senza vita della madre riverso sul letto. Nel frattempo, Luzmil Toci si era allontanato dalla casa, raggiungendo il fratello in stato confusionale. Ai carabinieri, intervenuti poco dopo su segnalazione della cognata, l’uomo confessò subito: “Ho ucciso mia moglie”. Tuttavia, non fornì alcun movente. Gli investigatori della Procura di Santa Maria Capua Vetere, guidati dal procuratore Pierpaolo Bruni, non trovarono segnalazioni di violenze domestiche o liti precedenti tra la coppia. Durante l’interrogatorio, reso ancora più complesso dalla necessità di un interprete, l’uomo continuò a dichiarare di non sapere perché aveva compiuto il gesto. Venne fuori che l’uomo soffrisse di depressione e che fosse stato in cura in Albania e in Italia, presso il centro di salute mentale di Marcianise. Dopo la condanna, Luzmil Toci era stato trasferito nella sezione psichiatrica del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Oggi, poco dopo le 13, ha deciso di porre fine alla propria vita. La sua morte riaccende il dibattito sulla gestione dei detenuti con problemi psichici e sulle misure di prevenzione nei confronti di chi manifesta segnali di grave disagio. I due bambini, testimoni di questa doppia tragedia, sono stati affidati agli zii. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Il Garante: “Nuovo suicidio in carcere, la politica si interroghi” Corriere del Mezzogiorno, 12 giugno 2025 La condizione carceraria in Campania resta tra quelle più allarmanti e preoccupanti. Ieri un altro detenuto si è tolto la vita. Un uomo di 31 anni, di origini balcaniche, si è suicidato nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. L’uomo, detenuto per il femminicidio della moglie, avvenuto il 9 ottobre 2024 a San Felice a Cancello davanti ai due figli di 6 e 4 anni, era ricoverato nell’articolazione psichiatrica dell’istituto. Il Garante campano dei detenuti, Samuele Ciambriello, ha avvertito: “Questa calda estate e il sovraffollamento stanno già rendendo impossibile la vita nei nostri istituti penitenziari - ha detto Ciambriello. Ora con quest’ultimo suicidio sono già 36 i detenuti che si sono tolti la vita in Italia, più 78 sono morti per altre cause da accertare. In Campania dall’inizio dell’anno siamo a 5 suicidi: due a Poggioreale, uno a Secondigliano, uno a Santa Maria Capua Vetere e uno nella R.E.M.S. di San Nicola Baronia. “Morire di pena non è un destino. Morire di carcere e in carcere responsabilizza tutti noi che siamo liberi - ha sottolineato -: società civile, politica, amministrazione penitenziaria, terzo settore e volontariato. Purtroppo siamo abituati alle morti in carcere, ci colpiscono nell’immediato ma in particolare la politica e l’amministrazione penitenziaria non si interrogano mai sul perché accadono. Dobbiamo fare tutti di più”. Campobasso. Detenuto di 60 anni italiano si toglie la vita nel carcere di via Cavour primonumero.it, 12 giugno 2025 Un detenuto di 60 anni, originario della Campania, si è tolto la vita nella notte tra l’11 e il 12 giugno all’interno della sua cella nel carcere di via Cavour, a Campobasso. A ritrovarlo senza vita sono stati gli agenti della Polizia Penitenziaria durante i controlli all’alba. Inutili i tentativi di rianimarlo: per l’uomo non c’era più nulla da fare. L’episodio ha scosso profondamente l’ambiente carcerario molisano, storicamente poco segnato da questo tipo di eventi. Si tratta infatti del primo suicidio nel carcere del capoluogo dopo molto tempo, mentre a livello nazionale il fenomeno continua ad assumere contorni sempre più drammatici: con questo caso salgono a 38 i suicidi nelle carceri italiane dall’inizio del 2025. A confermare la notizia è il sindacato S.PP. (Sindacato di Polizia Penitenziaria). Il segretario generale Aldo Di Giacomo ha diffuso una nota: “È un detenuto di 60 anni circa di origine campana ad essersi impiccato nelle prime ore della mattina nell’istituto di Campobasso. All’origine del gesto sembrerebbe esserci una grave depressione a seguito della morte della madre e della poca vicinanza dei familiari”. Una storia di solitudine e fragilità, come purtroppo accade spesso tra le mura delle carceri italiane, dove l’assistenza psicologica e il supporto umano faticano a reggere l’urto di condizioni detentive spesso troppo difficili e poco umane. L’episodio riaccende il dibattito sulle condizioni delle persone ristrette e sulla necessità, ormai urgente, di investire su prevenzione, ascolto e strutture adeguate a supportare chi vive situazioni di profondo disagio. Il carcere di Campobasso, finora considerato tra quelli meno problematici sul piano della gestione, si trova ora a fare i conti con una tragedia che colpisce l’intera comunità penitenziaria, sollevando interrogativi e richieste di maggiore attenzione. Il segretario del sindacato S.PP. Aldo Di Giacomo lancia l’allarme inoltre, dopo i suicidi di detenuti a Santa Maria Capua Vetere, Sassari e Campobasso: “Sanità penitenziaria allo stremo, sovraffollamento fuori controllo. Servono strutture, personale e un piano serio per l’edilizia carceraria”. Sono infatti tre i suicidi in carcere in meno di 24 ore, tre tragedie che raccontano un sistema penitenziario sempre più al collasso. Da Santa Maria Capua Vetere a Sassari, fino a Campobasso, cresce il bilancio di un’emergenza silenziosa: sono 38 i suicidi registrati nelle carceri italiane dall’inizio dell’anno, una media di 6 al mese. Tra le categorie più esposte ci sono detenuti affetti da patologie psichiatriche e persone straniere. “La popolazione carceraria è composta per un terzo da malati psichici e per un altro terzo da detenuti che fanno uso o hanno fatto uso di sostanze - afferma Di Giacomo - ma a fronte di questo quadro gravissimo, le risorse per la sanità penitenziaria sono ampiamente insufficienti”. Solo in Campania, riferisce il sindacalista, si contano già cinque suicidi: due nel carcere di Poggioreale, uno a Secondigliano, uno a Santa Maria Capua Vetere e uno nella REMS di San Nicola Baronia. Ma è l’intero Paese a dover fare i conti con il collasso dei servizi e la fuga del personale sanitario, sempre più spesso vittima di aggressioni e minacce. Il problema, denuncia Di Giacomo, è strutturale. “Il sovraffollamento in alcuni istituti supera il 130% della capienza reale, l’assistenza psicologica è quasi inesistente, e la risposta del Governo è un susseguirsi di annunci: prima la ristrutturazione delle ex caserme, poi le celle-container, oggi l’ammissione che costruire nuove carceri non è più possibile”. Un piano serio di edilizia penitenziaria, sostiene il sindacato, è ormai improrogabile. “Le celle-container costerebbero oltre 80 milioni di euro per garantire appena 380 posti, quanto il flusso mensile di nuovi ingressi - prosegue Di Giacomo -. Quei fondi dovrebbero essere impiegati per ristrutturare gli istituti più vetusti e assumere nuovo personale. La verità è che si brancola nel buio e il Ministro Nordio sembra non rendersene conto”. Secondo il segretario S.PP., la prevenzione dei suicidi passa da investimenti concreti in edilizia, in personale e in assistenza. “Se davvero vogliamo fermare questa scia di morte, servono azioni strutturali, non soluzioni estemporanee. Non possiamo più permetterci di aspettare il prossimo nome da aggiungere alla lista”. Sassari. Detenuto morto in carcere a Bancali, indagini sulle cause di Maria Verderame sassarioggi.it, 12 giugno 2025 Sono in corso le indagini sul detenuto trovato senza vita nella sua cella nel carcere di Bancali a Sassari. Il corpo dell’uomo, di nazionalità italiana, è stato scoperto questa mattina, come ha reso noto il Sappe, sindacato autonomo di polizia penitenziaria. Il caso a solo due mesi di distanza dall’altra tragica morte avvenuta il 21 aprile scorso, dove un giovane olbiese ha perso la vita in modo tragico, inalando una bomboletta di gas. La vittima aveva solo 24 anni. Nel penitenziario sassarese le vittime continuano a crescere. Uno dei casi più noti è la morte di Erik Masala, la cui famiglia non crede al suicidio. La sua scomparsa è avvenuta nel 2023 e l’uomo era un papà di soli 26 anni. Come ha confermato il Sappe, nel penitenziario sassarese è in crescita il disagio dei detenuti, ma anche del personale. Antonio Cannas, delegato del Sappe per la Sardegna, ha definito ogni decesso in carcere come una sconfitta per lo Stato. Il segretario generale Donato Capece ha parlato di “dramma evitabile” e ha puntato il dito contro l’inerzia istituzionale: le criticità del sistema penitenziario sono note da tempo, ma le soluzioni proposte vengono sistematicamente ignorate. Come riscontrato dal sindacato, le problematiche delle morti nel carcere di Bancali sono legate sia al sovraffollamento che alle fragili condizioni psichiatriche di tantissimi detenuti. Un grave problema è quello della soppressione della sanità penitenziaria interna, che aggrava la loro salute. Oltre alle morti sono in crescita le aggressioni agli agenti, che non riescono più a gestire la situazione. Avellino. Detenuto morto a Bellizzi, il ministro Nordio risponde all’interrogazione in Parlamento irpinianews.it, 12 giugno 2025 Arriva la risposta del Ministro di Grazia e Giustizia Carlo Nordio all’interrogazione del parlamentare Soumahoro sul decesso nel carcere “Antimo Graziano” di Avellino, avvenuto l’8 febbraio scorso del detenuto Ciro Pettirosso, 36 anni, originario di Napoli, ritrovato all’interno della struttura privo di vita. Il decesso del giovane detenuto aveva immediatamente allertato le autorità competenti, che hanno avviato le indagini per fare luce su quanto accaduto. Così il Guardasigilli ha rilevato come “prendendo spunto dal decesso nella Casa circondariale di Avellino di un detenuto lo scorso 8 febbraio, chiede di “far piena luce su quanto accaduto e su eventuali gravi inadempienze del personale in servizio presso la casa circondariale di Avellino” nonché se non si intenda intraprendere iniziative straordinarie e urgenti al fine di porre rimedio al problema del sovraffollamento e alle gravi problematiche che affliggono le carceri italiane”. Il caso Pettirosso “Sulla specifica vicenda giudiziaria, è stata acquisita, tramite il dipartimento degli affari di giustizia, la relazione dell’autorità giudiziaria competente trasmessa con nota del procuratore della Repubblica presso il tribunale di Avellino, che si riporta nei limiti dell’osservanza del segreto istruttorio: “…quale PM titolare del procedimento penale (…) R.N.R. scaturito dalla primigenia informativa della Polizia Penitenziaria operante, rileva quanto segue: l’8 febbraio 2025 ricevevo dalla P.G. procedente (Polizia Penitenziaria c/o C.C. Bellizzi - Avellino) la NDR relativa all’avvenuto decesso del detenuto P.C. (….). In particolare, l’uomo in data 7 febbraio 2025 veniva colto da malore mentre era in camera con altri detenuti. Allertati i soccorsi veniva preso in cura dai sanitari/infermieri dell’istituto che somministravano terapia farmacologica. Tuttavia, nonostante l’intervento anche del personale del 118, alle successive ore 16:14 il P. (…..) decedeva. La P.G. nell’immediatezza dei fatti eseguiva una perquisizione all’interno, della stanza/camera occupata dal de cuius e da altri detenuti - tutti successivamente escussi in merito alla vicenda. Inviavo quindi il medico legale (…), nominandolo C.T. PM, in loco per i primi accertamenti da espletarsi, facendo poi traslare la salma del (…..) presso l’A.O.S.G. Moscati di Avellino”. Continua la relazione della Procura: “Il 10 febbraio 2025 - previo avviso a tutte le parti interessate - conferivo incarico al già nominato CT.PM. alla presenza dell’avv.to (…), legale di fiducia del de cuius, richiedendo al consulente di accertare, previo esame autoptico sulla salma del P. (…) nonché lettura/studio della documentazione sanitaria relativa alla malattia dallo stesso patita, le cause ed i mezzi che avevano cagionato la morte dell’uomo; di verificare inoltre l’operato del personale infermieristico/sanitario del Carcere di Bellizzi-Avellino che avevano avuto in cura il (….) dal 14 dicembre 2024 (data entrata in Istituto) alla data del suo decesso (7 febbraio 2025). Nell’occasione il legale di fiducia del de cuius riferiva che i familiari del (…) avevano nominato quale C.T. - di parte il Prof. (…). Le operazioni peritali sulla salma del P(…) venivano effettuate in data 11 febbraio 2025 alle ore 09:30. Si è in attesa della Relazione di Consulenza da parte del C. T. PM al quale veniva concesso per espletare il suddetto incarico un periodo congruo”. E continua la nota della Procura di Avellino: “Delegavo infine il personale della Polizia Penitenziaria per acquisire ulteriori elementi circa la vicenda che ci occupa”. E ha continuato il Guardasigilli: “Pertanto le cause del decesso del detenuto sono in corso di accertamento. Per un ulteriore riscontro ai quesiti posti nell’atto di sindacato ispettivo, in particolare con riferimento alla dinamica dell’accaduto, ed in generale sulle condizioni delle carceri italiane, è stato richiesto un contributo informativo al Dap, trattandosi di aspetti di esclusiva competenza di questa articolazione, che ha riferito quanto segue. Il decesso menzionato dall’onorevole interrogante, verificatosi il 7 febbraio 2025 presso la Casa circondariale di Avellino, concerne il detenuto di media sicurezza P.C. ristretto presso la sezione circondariale ordinaria. Alle ore 15:35 circa, l’agente addetto alla vigilanza del primo piano, dopo aver effettuato la chiusura delle camere di pernottamento insieme ad altro collega in affiancamento, sentiva delle urla provenire dalla camera di pernottamento n. 15; giunti sul posto, gli operatori notavano il detenuto P.C. privo di sensi, che non rispondeva ai compagni; pertanto, avvisavano immediatamente l’infermeria. Nel frattempo, il personale, con il supporto dei compagni di camera e dei detenuti lavoranti del piano, provvedeva a condurre il ristretto fuori dalla camera e ad adagiarlo a terra in corrispondenza della rotonda; atteso che il detenuto era diabetico, si provvedeva a effettuare la misurazione della glicemia, che risultava bassa. Il detenuto veniva poi condotto in infermeria, dove gli venivano praticati i primi soccorsi; giungeva anche il personale del 118 che, tuttavia, alle ore 16:14 ne constatava il decesso “per arresto cardio-circolatorio in paziente con diabete di tipo 1”. La direzione penitenziaria contattava il pubblico ministero di turno che disponeva l’intervento del medico legale; veniva esperito l’esame cadaverico e disposta l’autopsia. Del decesso veniva data comunicazione telefonica ai familiari. La direzione generale dei detenuti e del trattamento, il 14 febbraio 2025, ha dato incarico al Provveditorato regionale di Napoli di procedere ad approfondita indagine volta a ricostruire cause, circostanze e modalità dell’evento. Allo stato, si è in attesa di ricevere i relativi esiti”. Infine: “Per completezza, si evidenzia che il detenuto P.C. aveva fatto ingresso presso la casa circondariale di Avellino il 14 dicembre 2024, a seguito di sfollamento dalla Casa circondariale di Napoli Poggioreale disposto dal Provveditorato regionale di Napoli. Il ristretto aveva effettuato periodici colloqui con il padre, la madre, la sorella e i figli. Pertanto, allo stato e in attesa anche degli esiti del procedimento penale, l’Amministrazione avrà cura di monitorare gli sviluppi della vicenda processuale, per adottare eventuali provvedimenti di competenza”. Sul sistema sanitario nelle carceri il Ministro Nordio ha chiarito: “In ordine alla lamentata inadeguatezza del sistema sanitario interno alle carceri, va evidenziato che, seppure la problematica relativa all’assistenza sanitaria all’interno degli istituti di reclusione esuli totalmente dalle prerogative del Ministro della giustizia - in virtù del Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 1° aprile 2008, che ha previsto il trasferimento definitivo al Sistema sanitario nazionale, e quindi alle singole Regioni, della competenza in ordine all’assistenza sanitaria in favore delle persone detenute - questa Amministrazione, al fine di garantire percorsi di cura, il più possibile appropriati e celeri, si è da sempre adoperata nei limiti dell’attuale assetto normativo ed operativo in materia di assistenza sanitaria in carcere. La strategia perseguita dal Ministero interrogato in questo delicato frangente storico è costituita dal potenziamento della sinergia fra il sistema della giustizia, le aziende sanitarie e gli enti locali, al fine di garantire un sempre maggiore innalzamento del livello di presidi e misure in questo ambito”. Vigevano (Pv). La denuncia choc: “Viviamo tra feci, zecche e acqua lurida” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 giugno 2025 Lettera aperta dei detenuti, che sarebbero stati scoraggiati dal proseguire con la segnalazione. Partono gli esposti alla magistratura. Presenza di zecche, feci nelle celle, acqua fredda e sporca, materassi e lenzuola sudici, bagni intasati, impianti non funzionanti, pillole consegnate senza confezione. È un grido di allarme senza filtri quello che arriva dalla quinta sezione della Casa di reclusione di Vigevano. Una lettera firmata da quasi cinquanta detenuti è diventata il termometro di un luogo dove la pena si trasforma in martirio quotidiano. La missiva collettiva è stata indirizzata al ministero della Giustizia, al Garante nazionale, alle associazioni per i diritti umani e all’avvocata Guendalina Chiesi, che si batte per la tutela dei diritti dei detenuti con l’associazione “Quei Bravi Ragazzi Family”. Il contenuto della lettera è un catalogo dell’orrore: zecche nei materassi, acqua lurida che esce dai rubinetti, lenzuola sporche e condizioni igieniche “inaccettabili”. Ma c’è di più, molto di più. Secondo la denuncia collettiva, i farmaci verrebbero distribuiti senza alcuna confezione, compresse anonime consegnate direttamente nelle mani dei detenuti senza indicazioni sul principio attivo o sulla posologia. Un protocollo sanitario che farebbe rabbrividire qualsiasi medico, ma che evidentemente nella quinta sezione di Vigevano rappresenta la normalità. Bagni intasati, perdite d’acqua, finestre rotte: la struttura cade letteralmente a pezzi mentre i detenuti aspettano settimane per un banale antidolorifico. Le visite mediche? Un miraggio. Per ottenere cure minime, i reclusi sono costretti a inscenare proteste, come se il diritto alla salute fosse un privilegio da conquistare sul campo. Come detto, a raccogliere le loro denunce è l’avvocata Guendalina Chiesi, vicepresidente dell’associazione “Quei Bravi Ragazzi Family”, che ha già presentato istanza urgente di ispezione igienico-sanitaria. Ma sarebbe accaduto di peggio. Secondo le segnalazioni raccolte dall’associazione, il giorno dopo la consegna della lettera la Comandante dell’istituto avrebbe convocato singolarmente i firmatari. Non per un confronto sui contenuti né per approfondire le denunce, ma - come riferito - con l’intento di scoraggiare la diffusione del documento all’esterno del carcere. “Mi è stato negato l’accesso a una copia della lettera a me indirizzata con la motivazione che non fosse ancora autorizzata la riproduzione”, denuncia l’avvocata Chiesi, che a sua volta ha chiesto chiarimenti formali. E chiosa: “È un fatto gravissimo: hanno letto una comunicazione riservata tra avvocato e assistiti, violando il segreto professionale. Siamo di fronte a un attacco ai diritti fondamentali”. La violazione, se commessa, è duplice e gravissima. Da un lato, l’apertura arbitraria di corrispondenza indirizzata anche a un legale, dall’altro le pressioni sui detenuti per indurli al silenzio. Configurerebbe non solo l’abuso d’ufficio, ma anche la violenza privata nei confronti di persone già private della libertà. In questo scenario di sopraffazione emerge un dettaglio significativo: alcuni agenti penitenziari hanno espresso in forma riservata la loro solidarietà all’associazione e ai detenuti, riconoscendo le gravi criticità strutturali e organizzative della sezione. Un segnale importante che dimostra come la battaglia per il rispetto dei diritti fondamentali non sia una crociata contro il personale penitenziario, ma una richiesta di giustizia condivisa da tutti coloro che credono nella legalità. “Le carceri sono luoghi sotto la custodia dello Stato, dove dovrebbe regnare la legalità”, tuona Nadia Di Rocco, presidente dell’associazione “Quei Bravi Ragazzi Family”. “Invece, proprio lì, assistiamo alla sistematica violazione dei diritti umani e a presunte ritorsioni verso chi tenta di denunciare queste condizioni disumane. La nostra preoccupazione è altissima”. L’avvocata Chiesi non si è limitata alle parole. Come detto, oltre a presentare un’istanza urgente di ispezione al magistrato di Sorveglianza per verificare la situazione all’interno della quinta sezione, ha depositato una formale denuncia presso la Procura della Repubblica di Pavia. Oltre a denunciare tutte le presunte violazioni igieniche e sanitarie, l’atto ricostruisce anche le presunte pressioni subite dai firmatari: convocazioni individuali ordinate dalla Comandante, non per un confronto, ma per disincentivare la circolazione della lettera. Quella che potrebbe suonare come semplice curiosità istituzionale diventa, nella denuncia, violenza privata e violazione del segreto professionale. Il tutto in un contesto dove l’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e l’articolo 32 della Costituzione - che tutela la salute - appaiono ignorati. Nel chiudere la denuncia, l’avvocata Chiesi e la presidente Di Rocco invitano il pubblico ministero a intervenire prontamente su quattro fronti. Innanzitutto, va disposta un’ispezione approfondita della Casa di Reclusione di Vigevano, con occhi puntati sulla Sezione 5ª, per valutare condizioni igieniche, strutturali e impiantistiche. In secondo luogo, si richiede l’audizione diretta dei detenuti firmatari e l’acquisizione della lettera collettiva, per preservare l’integrità della loro testimonianza. Terzo punto, la Procura dovrà verificare i protocolli sanitari adottati: come vengono distribuiti i farmaci, quali garanzie offrono le dotazioni igieniche e se le procedure rispettano le norme vigenti. Infine, si chiede di ascoltare la Comandante dell’istituto in merito alle convocazioni individuali dei firmatari, per chiarire le ragioni di quella linea di intervento. A corredo della denuncia è allegata copia dell’istanza urgente per ispezione igienico-sanitaria ex art. 69, comma 5, L. 354/1975, depositata nella stessa data al magistrato di Sorveglianza di Pavia, con copia per conoscenza al direttore della Casa di Reclusione di Vigevano, all’Asl competente e al Garante regionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Dietro questo fatto di cronaca c’è una questione che va al cuore della nostra democrazia. Il diritto alla salute non si ferma davanti alle sbarre di una cella. L’articolo 32 della Costituzione non prevede eccezioni per i detenuti, così come l’articolo 3 che garantisce la pari dignità sociale di tutti i cittadini. “Il rispetto della dignità dei detenuti è un principio costituzionalmente garantito e non negoziabile”, ribadisce l’associazione “Quei Bravi Ragazzi Family”. Una posizione che dovrebbe essere ovvia in uno Stato di diritto, ma che evidentemente ha bisogno di essere riaffermata davanti a situazioni come quella di Vigevano. Ora la palla passa alla magistratura. Il magistrato di Sorveglianza di Pavia dovrà decidere se disporre l’ispezione urgente richiesta, mentre la Procura valuterà se aprire un fascicolo d’indagine sui fatti denunciati. Due binari paralleli per una vicenda che mette alla prova la tenuta del sistema giudiziario italiano. Nel frattempo, nella quinta sezione della Casa di Reclusione di Vigevano, 45 detenuti aspettano di sapere se il loro grido d’aiuto è stato ascoltato o se dovranno continuare a convivere con le zecche, le feci e i farmaci anonimi. Aspettano di sapere se in Italia denunciare le violazioni dei propri diritti è ancora possibile senza subire eventuali ritorsioni. La risposta delle istituzioni dirà molto sulla natura del nostro Stato di diritto. E sulla distanza che separa la Costituzione dalla realtà delle celle. Firenze. “Cinque in cella, un solo bagno. Ho provato vergogna per il nostro sistema carcerario” di Pietro Mecarozzi La Nazione, 12 giugno 2025 Renato Cacciapuoti racconta la sua detenzione nel penitenziario fiorentino. “Frutta e verdura al limite del marcio, le grida sono assordanti e il caldo insopportabile”. Difficilmente Renato Cacciapuoti, 94 anni, si dimenticherà dei sei giorni passati in una cella di Sollicciano. Giovedì scorso è stato prelevato da alcuni agenti di polizia da casa sua e trasferito al penitenziario fiorentino. È finito dietro le sbarre per una bancarotta fraudolenta, dopo il crac dell’Editoriale Olimpia, avvenuta tredici anni fa. Una condanna arrivata in primo grado a quattro anni e otto mesi, contro la quale era stato fatto appello nel 2021. La corte d’appello, però, l’anno scorso ha confermato la pena. Nessun ricorso in Cassazione e la pena è diventata definitiva. Cacciapuoti, cosa ha provato? “Vergogna, soprattutto per le condizioni in cui si trovano così tante persone”. Dentro Sollicciano che situazione ha trovato? “Caos, urla continue, si sentono le grida, tutti i giorni e tutto il giorno, dei detenuti che chiedono di poter parlare con le guardie. Il cibo è scadente, la frutta e la verdura al limite del marcio. L’unico spazio esterno accessibile, durante le visite, è un cortile di cemento di pochi metri quadrati”. In che condizioni sono le celle e la struttura? “I vetri sono tutti rotti o mal funzionanti e le finestre aperte a ogni ora del giorno. Nelle celle c’è un unico bagno in condizioni disastrose. Non c’è l’aria condizionata e ora che le temperature si alzano la situazione diventava al limite del sopportabile”. Condivideva la cella con altri detenuti? “Si con altri quattro detenuti, eravamo in cinque, con un solo bagno e senza bidet. Vi lascio immaginare le condizioni di igiene. L’unico modo per lavarsi è farsi la doccia, che è dentro il bagno, quindi ogni volta il pavimento si allaga completamente. Ho girato per giorni con le pantofole bagnate. Quasi tutti fumano dentro le celle”. È riuscito a dormire in quelle cinque notti? “Poco, anche a causa dei miei problemi fisici. I letti erano l’unica cosa decente e almeno le lenzuola mi venivano cambiate. Non so se avviene per tutti, ma almeno il letto era accettabile”. Che trattamento le hanno riservato dentro all’istituto? “La polizia penitenziaria e tutte le persone che vivono il carcere con continuità si sono subito resi conto che c’era qualcosa fuori dalla norma. Sono stati tutti comprensivi e gentili nei miei confronti, nei limiti del loro potere e delle loro responsabilità, questo è chiaro. La situazione e il contesto sono quello che sono”. La vita carceraria non deve essere stata facile... “Nei sei giorni e le cinque notti che sono stato lì dentro, non ho potuto chiamare nessuno perché anche solo per registrare il numero di telefono di un parente ci vogliono settimane. Più volte ho fatto la fila nella speranza di poter chiamare i miei figli, solo per sentirmi dire che il loro numero non era ancora registrato. Ho poi scoperto che loro dal primo giorno cercavano di contattarmi. Sono riuscito a contattare e vedere il mio avvocato solo sabato, dopo tre giorni. Per vedere i miei familiari ce ne sono voluti quattro, invece, di giorni. Prima di quegli incontri a me non era nemmeno ben chiaro perché fossi lì. Alla mia età la memoria purtroppo non c’è più”. Bologna. Detenuto in isolamento all’Ipm del Pratello, esposto del Garante Corriere di Bologna, 12 giugno 2025 Il Garante per i detenuti dell’Emilia-Romagna Roberto Cavalieri aveva denunciato la condizione di un detenuto del Pratello tenuto in isolamento per cinque giorni in una cella senza materasso e finestre. Ora ha presentato un esposto alla Procura minorile e alla magistratura di sorveglianza. Isolamento scattato dopo i disordini di Pasqua: “Ora mi auguro che ci sia un’indagine - l’auspicio - anche su eventuali responsabilità, e mi auguro che non si ripetano questi fatti”. Risposte Cavalieri le ha ricevute dalla direzione nei giorni scorsi: “Ho fatto un nuovo sopralluogo, quella cella non è più utilizzabile, purtroppo non è stato fatto prima”. La coordinatrice del comitato minori in commissione Antimafia, senatrice Pd Enza Rando, interrogherà il ministro Nordio sul Pratello. Verona. Studiare in carcere, a Montorio il primo orientamento universitario per detenuti di Elisa Innocenti univrmagazine.it, 12 giugno 2025 L’incontro, promosso dall’ateneo, si è tenuto lunedì 9 giugno nella Casa circondariale. Progettare un futuro diverso, anche dal carcere è possibile. Lo dimostra l’iniziativa che si è svolta lunedì 9 giugno alla casa circondariale di Montorio, dove, per la prima volta, si è tenuto un evento di orientamento universitario rivolto a persone detenute. Dalle 15 alle 17, circa 35-40 detenuti, diplomati o prossimi al diploma, hanno avuto l’opportunità di conoscere l’offerta formativa dell’università di Verona e i servizi dedicati al diritto allo studio, grazie al progetto “Università in carcere”, promosso, nell’ambito dell’Accordo-Quadro di collaborazione con la casa circondariale di Montorio, in collaborazione con il Cpia, il Centro provinciale per l’istruzione degli adulti di Verona, e con il supporto dello staff dell’Ufficio orientamento dell’ateneo. L’incontro vuole essere un ponte tra il carcere, scuola e l’università, tra il presente e un possibile nuovo inizio. I partecipanti hanno potuto scoprire come accedere ai corsi di laurea e usufruire di strumenti come il prestito bibliotecario, il tutorato in carcere e il counselling per l’orientamento. “Con questa iniziativa - ha dichiarato il magnifico rettore Pier Francesco Nocini - manteniamo l’impegno preso nei mesi scorsi con la firma dell’accordo con la casa circondariale di Montorio: l’università di Verona, insieme ai suoi servizi, entra concretamente all’interno del carcere. Questo evento di orientamento, organizzato per la prima volta appositamente per le persone detenute, ci consente di presentare un’offerta formativa che comprende anche percorsi professionalizzanti pensati per rispondere alle loro esigenze. Il nostro obiettivo è promuovere il benessere e favorire il reinserimento sociale delle detenute e dei detenuti, attraverso l’accesso all’istruzione e alla formazione”. “Si tratta di un passo importante per rendere effettivo e concreto il diritto allo studio anche in contesti di privazione della libertà personale”, ha sottolineato Ivan Salvadori, docente di Diritto penale in ateneo, referente del rettore per i rapporti con la Cnupp, la conferenza nazionale dei delegati dei rettori per i Poli universitari penitenziari, e fra i promotori dell’iniziativa. Presente anche Massimiliano Badino, referente del rettore per l’Orientamento. Ma non è tutto: dal 12 al 14 giugno, Verona sarà rappresentata anche alla Conferenza nazionale dei delegati dei rettori per i Poli universitari penitenziari, in programma all’università di Catania. L’ateneo scaligero, recentemente entrato a far parte della rete nazionale Cnupp-Crui, conferma così il proprio impegno concreto per garantire l’accesso all’istruzione anche in condizioni di detenzione. Investire sull’educazione in carcere non è solo un atto di civiltà: è una scelta che può fare la differenza nella vita delle persone e nella società di domani. Agrigento. “Viaggiare su un filo d’olio”: il progetto che trasforma detenuti in maestri dell’olio di Elio Di Bella agrigentoggi.it, 12 giugno 2025 Un progetto dal forte valore simbolico e sociale vede la luce ad Agrigento: si chiama “Viaggiare su un filo d’olio” ed è nato all’interno della Casa Circondariale “Pasquale Di Lorenzo” di Agrigento, grazie alla collaborazione con l’azienda agricola Val Paradiso, punto di riferimento dell’olivicoltura biologica siciliana. Dietro questo nome poetico si cela un percorso concreto di formazione, riscatto e rinascita. I protagonisti sono i detenuti, che nel corso degli ultimi mesi hanno potuto mettere le mani nella terra, curare gli ulivi, raccoglierne i frutti e contribuire in prima persona alla nascita di un olio extravergine dal significato profondo. Si chiama “La Rupe”, come l’altura su cui sorge il carcere, e rappresenta il primo risultato tangibile di un progetto che unisce agricoltura sociale, dignità del lavoro e opportunità di reinserimento. L’olio d’oliva è più di un prodotto agricolo. È parte della cultura mediterranea, simbolo di pace, cura, nutrimento e condivisione. In Sicilia, dove gli ulivi crescono rigogliosi da secoli, la coltivazione dell’olio rappresenta anche una tradizione familiare, un sapere tramandato, una passione che affonda le radici nel paesaggio stesso. Nel contesto di un carcere, coltivare ulivi assume un valore ancora più intenso. È un modo per restituire tempo e senso a giornate altrimenti scandite dall’ozio e dall’attesa. Il contatto con la natura diventa un percorso educativo, che insegna la pazienza, la responsabilità e il rispetto. Il progetto “Viaggiare su un filo d’olio” è stato avviato nell’autunno 2024 grazie alla sinergia tra la direzione del carcere, guidata dalla Dott.ssa Anna Puci, e l’azienda Val Paradiso, fondata nel 1980 a Naro, dalla famiglia Carlino. A sostenere e seguire l’iniziativa anche il Dott. Giuseppe Di Miceli, responsabile dell’area trattamentale, e il tecnico agrario Giovanni Alati, con il supporto dell’agronomo Matteo Vetro. Il progetto nasce con l’obiettivo di offrire ai detenuti una concreta opportunità formativa e professionale, trasformando un’area incolta all’interno del penitenziario in un uliveto produttivo. Attraverso la formazione sul campo e l’affiancamento degli esperti di Val Paradiso, i partecipanti hanno acquisito competenze agricole e lavorative spendibili anche al di fuori del contesto carcerario. La famiglia Carlino, a capo dell’azienda Val Paradiso, ha accolto con entusiasmo questa sfida. Da sempre impegnata nella produzione di olio extravergine di oliva biologico, l’azienda ha messo a disposizione conoscenze tecniche, attrezzature e personale qualificato. “Il contatto con la terra, in un contesto di privazione, può diventare una lezione di libertà. E l’agricoltura è la miglior maestra”, afferma Massimo Carlino, esperto assaggiatore d’olio e rappresentante dell’impresa. Dalle mani dei detenuti è nato un prodotto autentico: l’olio “La Rupe”, frutto di una raccolta completamente manuale, molitura a freddo, e confezionamento curato in ogni dettaglio. L’olio, non destinato alla vendita, sarà donato in beneficenza a istituzioni locali, veicolando un messaggio potente: anche dietro le sbarre può germogliare qualcosa di prezioso. Il progetto sarà ufficialmente presentato lunedì 16 giugno 2025 alle ore 10 presso la sede della Casa Circondariale. L’evento, condotto dal giornalista Adalberto Catanzaro, vedrà la partecipazione di tutti i protagonisti dell’iniziativa e sarà l’occasione per raccontare i risultati raggiunti, raccogliere testimonianze e svelare le novità previste per il futuro. Tra le novità annunciate per l’edizione 2025, l’inserimento di un modulo formativo avanzato. I detenuti seguiranno un percorso completo che, oltre al lavoro agricolo, includerà nozioni di packaging, promozione digitale, branding e storytelling del prodotto. L’olio “La Rupe” diventerà così anche una palestra per lo sviluppo di competenze creative e commerciali, aprendo nuove strade di inserimento. La mattinata si concluderà con una degustazione guidata dell’olio “La Rupe”, accompagnata da pane locale. Un gesto semplice ma ricco di significato, che racconta una storia di umanità, riscatto e comunità. Torino. Creatività inclusiva: la moda unisce detenute e persone con disabilità visiva di Virginia Platini futura.news, 12 giugno 2025 Isolamento, separazione dal resto della società, pregiudizi: sono i punti di contatto, secondo l’Unione italiana ciechi e ipovedenti, dell’esperienza delle persone con disabilità e di chi è detenuto in carcere. Due mondi “in apparenza lontani - ha dichiarato il presidente di Uici Torino Gianni Laiolo - ma con alcuni aspetti in comune”, che si sono incontrati grazie al progetto Creatività inclusiva, promosso da Uici con il contributo della fondazione Crt. Per tre mesi, da aprile a maggio 2025, donne detenute nella casa circondariale Lorusso e Cotugno e donne cieche e ipovedenti hanno lavorato insieme a una collezione di abiti sartoriali, coordinate dalla stilista Aythya. A partecipare sono state le donne coinvolte nel laboratorio Arione del progetto Lei - una realtà ideata dalla Fondazione Casa di Carità Arti e Mestieri e da Essere Umani per favorire la crescita sociale e lavorativa fuori e dentro il carcere - raggiunte all’interno dell’istituto di detenzione da un gruppo di donne con disabilità visiva. Gli elementi che, invece, richiedevano l’uso di attrezzature o di tecniche più avanzate sono stati realizzati dalla sartoria Il Gelso, gestita dalla cooperativa Patchanka. Parte integrante dell’iniziativa sono stati anche alcuni studenti di Servizio sociale ed Educazione professionale dell’Università di Torino. Il progetto si è concluso il 5 giugno 2025 con una sfilata all’interno del Lorusso e Cotugno dove, grazie a una passerella modificata con accorgimenti tattili, hanno potuto essere protagoniste tutte le donne coinvolte. Il laboratorio orafo Forma e Materia, che impiega persone con disabilità, ha fornito per l’occasione alcuni gioielli, e l’associazione Mana, che si occupa di make up therapy, ha realizzato il trucco di indossatrici e indossatori. Gli abiti saranno venduti in un’asta il cui ricavato andrà agli enti coinvolti. “Al di là dei ruoli e delle categorie esistono solo le persone. È stato bello notare come, fin dall’inizio del progetto le donne siano riuscite a interagire con grande naturalezza, condividendo non solo il lavoro manuale ma anche domande, riflessioni e aspetti delle loro vite”, ha commentato l’ideatrice del progetto, Alessia Dell’Antonia. Giustizia cieca: il racconto di un non vedente che ha sfidato il sistema di Emiliano Rozzino giornalelavoce.it, 12 giugno 2025 Disabilità e superficialità giudiziaria: la denuncia di Marco Bongi in un libro-verità. Non si tratta di malagiustizia, almeno non nel senso classico del termine. Ma quello narrato da Marco Bongi, di Mappano, nel suo nuovo libro, “Giustizia cieca. Ricordi e pensieri di un non vedente troppo idealista”, è uno di quei casi in cui, per dirla senza giri di parole, la giustizia ha inciampato. Ha inciampato nella fretta, nella superficialità, in quel bisogno cronico - tutto italiano - di trovare in fretta un colpevole, un nome da dare in pasto all’opinione pubblica. Un errore che, come spesso accade, si ripercuote su chi è già fragile, su chi porta sulle spalle il peso di una disabilità e su chi ha osato credere ancora nei valori profondi delle istituzioni. Marco Bongi, torinese classe 1959, cieco a causa di una grave forma di retinite pigmentosa, non ha scritto questo libro per lamentarsi. Non cerca vendetta, non grida allo scandalo. Vuole semplicemente raccontare. E lo fa con uno stile diretto, lucido, a tratti disarmante nella sua sincerità. È un libro che nasce dalla pelle, dai nervi, dalla memoria di chi ha vissuto sulla propria pelle l’inadeguatezza di un sistema troppo spesso automatico, incapace di leggere davvero le persone. La vicenda che dà il titolo al volume non viene descritta in modo sensazionalistico, né spettacolarizzata. Non è il caso Garlasco, non è uno di quei processi che dividono l’Italia in tifoserie. Ma è proprio questo il punto: la giustizia non è solo quella dei riflettori, ma anche quella sommersa, fatta di errori quotidiani, di carte firmate senza pensarci troppo, di testimonianze travisate, di udienze in cui la complessità viene ridotta a etichette. È la giustizia che, in certi casi, rischia di diventare un meccanismo ottuso, sordo alle sfumature. “Non la definirei malagiustizia” - precisa Bongi - “ma certo è stata un’applicazione superficiale delle garanzie processuali. E quando succede, i danni sono incalcolabili, soprattutto se a farne le spese è chi già vive in una condizione di fragilità”. Il cuore del libro è tutto lì: nell’intreccio tra la vicenda giudiziaria e la disabilità visiva. Marco Bongi, infatti, è non vedente, ma è anche molto di più. Laureato in Giurisprudenza, ex insegnante in una scuola superiore torinese, informatico in una grande azienda automobilistica prima ancora, ha fondato nel 1990 l’Associazione Pro Retinopatici e Ipovedenti (A.P.R.I. Odv), che ancora oggi guida come volontario. Una vita dedicata agli altri, ai diritti, alla dignità delle persone con disabilità. Non un personaggio da cronaca nera, ma uno da prima pagina per impegno civico e coerenza. Nel racconto emerge anche il dietro le quinte della vita associativa: un crogiuolo di personalità complesse, ferite, a volte in conflitto, altre unite da uno stesso bisogno di senso. È in questo contesto che si sviluppa la storia: tra battaglie quotidiane, dinamiche interne e una certa idealizzazione della giustizia che, purtroppo, si infrange contro la realtà. Il titolo Giustizia cieca è più di un gioco di parole. È una provocazione, certo, ma anche una riflessione profonda: la giustizia dovrebbe essere cieca nel senso dell’imparzialità, ma non lo è mai davvero. Al contrario, chi è cieco davvero - come Marco - si trova troppo spesso a combattere doppiamente: contro i pregiudizi e contro l’ingiustizia. Tra le pagine si intrecciano episodi, pensieri, ricordi, riflessioni amare ma mai ciniche. Bongi non si fa sconti. Si interroga, si mette in discussione, si racconta con una sincerità che disarma. Non cerca l’applauso, cerca comprensione. “Essere idealisti è spesso un limite, ma anche una risorsa” - scrive - “perché ti permette di credere che la verità conti ancora qualcosa. Di pensare che una testimonianza onesta possa fare la differenza. Anche quando tutto sembra suggerire il contrario” Il libro è pubblicato da Gruppo Albatros Il Filo, nella collana Nuove Voci Strade, ha 104 pagine e un prezzo di copertina di 13,90 euro. Il codice ISBN è 9791223606469. Una pubblicazione che non ha la pretesa di cambiare il mondo, ma che ha il coraggio di raccontarlo per com’è, da un punto di vista che raramente trova spazio: quello di chi guarda con occhi diversi. Tra gli altri lavori di Marco Bongi ci sono Non ti posso vedere (1998), Urbs et Orbi (2001), Non mi vedo vecchio (2007), Puntini, puntini… (2008), e il Piccolo dizionario di tiflologia (2010). È anche il fondatore della rivista Occhi Aperti e collabora con numerose testate scientifiche e culturali. Tiene conferenze, partecipa a convegni, organizza da tredici anni un appuntamento nazionale sulle distrofie retiniche ereditarie. Un curriculum che parla da solo. In un’Italia che discute di giustizia con l’animo da tifoso e lo sguardo rivolto ai tribunali televisivi, Giustizia cieca ci riporta alla realtà: quella fatta di vite normali, troppo spesso travolte da un sistema che dimentica le persone. Uguaglianza nella diversità: questa è l’idea di tolleranza di Gustavo Zagrebelsky La Repubblica, 12 giugno 2025 La libertà dei singoli individui è tutelata dalla Costituzione. Ma la salvaguardia di questo principio resta fragile. E ogni celebrazione dell’odio non può essere accettata. Il rispetto dei pensieri, delle credenze e dei modi di vivere è ciò che chiamiamo tolleranza, sostanza spirituale degli ordinamenti dove si ama la libertà. Comporta uguaglianza nella diversità e, dunque, libertà. Non è solo un atteggiamento psicologico individuale nei confronti dei “diversi da sé”. È anche il contenuto di un vero diritto che plasma di sé l’intera società: il diritto a essere lasciati in pace, il right to be let alone, antidoto alla massificazione. Oggi parliamo di diritto alla privacy. Fare parte per sé stesso può essere l’aspirazione del solitario, ma anche la condizione per agire liberamente nella vita sociale. Parlare di uguaglianza e tolleranza sembra a prima vista una contraddizione. Ma non è così: il corso della vita è una continua potenziale chiamata a scelte del più diverso genere e nei più diversi ambiti, politico, religioso, culturale, professionale, familiare, eccetera. La tolleranza di tutti nei confronti di tutti garantisce l’uguaglianza, l’uguaglianza nella diversità. È l’opposto dello “stato etico”, lo stato che abbraccia una propria dottrina del bene per imporla alle vite individuali. Anche questa è uguaglianza, ma uguaglianza nella costrizione. I regimi che si autoproclamano illiberali possono anch’essi parlare di uguaglianza, ma sono intolleranti verso “i diversi”. I diversi, in tali regimi, sono i fuori-norma, gli anormali: non meritano di esistere perché minano la compattezza e la solidità della comunità, intesa come un tutto. Se sei minoranza, stai in guardia: prima o poi “verranno da te” (Bertolt Brecht). La nostra Costituzione proclama l’uguaglianza come uguale diritto di essere, pensare e agire, ciascuno secondo la propria personalità. L’articolo 3 parla di eguaglianza “senza distinzioni di…” (sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali). Perfetta formulazione: esistono tante situazioni ed esperienze diverse, preziose per i singoli ma indifferenti per gli altri. Bisogna, però, intendersi sull’indifferenza: essa riguarda i contenuti, ma non il fatto stesso che le differenze fioriscano. Occorre auspicarle e proteggerle quando sono in pericolo, perché sono frutti della libertà e, al contempo, alimentano la libertà. Se non esistessero, regnerebbe la medesima mefitica stagnazione delle società illiberali: per indolenza o per imposizione il risultato sarebbe lo stesso. Non c’è bisogno di elencare le tante e diverse forze che spingono verso il conformismo. Siamo pressati da insensati desideri di massa, insulse abitudini e stupide fantasie. L’esistenza già oggi è per gran parte programmata; con gli algoritmi e l’intelligenza artificiale lo sarà anche di più. Le deviazioni dall’ortodossia saranno sempre più difficili. Saranno un lusso riservato a oligarchie al di sopra della massa. Sarebbe piaciuta al Grande Inquisitore di Dostoevskij l’omologazione delle passioni, ottenuta carezzevolmente approfittando della pigrizia, del facile diletto e dell’ottundimento dello spirito. Pensiamo a cose come le mode, i beni superflui ma molto sognati, l’estetica dei corpi e le follie per renderli graziosi e sempre giovanili, l’atrofizzazione del pensiero, la banalità dei divertimenti e dei gusti artistici a incominciare da quelli musicali, lo scetticismo e il fatalismo che inducono al conformismo. In sintesi: declino della autenticità. Non esageriamo, viene da dire. Ma nemmeno minimizziamo. La società di massa è fiacca. La democrazia presuppone una società viva, non “di massa” ma “di tutti”. La società di massa realizza l’uguaglianza, ma l’uguaglianza alienata del “lasciarsi andare”; la società di tutti dovrebbe, sì, essere, ugualitaria ma anticonformistica. Sono un uomo di scuola. La scuola è un prezioso osservatorio. La lezione è sempre stata per me l’ora della gioia, soprattutto quando la lezione “riusciva”, cioè suscitava passioni, discussioni, contrasto di punti di vista, voglia di pensare e di agire; quando se ne usciva diversi da come vi si era entrati. Quando capita di vedere bambini e soprattutto bambine d’ogni provenienza, colore, sensibilità all’uscita di scuola vediamo quanta vitalità. Che meraviglia. Ma, subito dopo pensiamo: “poi spetta a noi, forse soprattutto a noi insegnanti, rovinarli”. Rovinare significa mortificare, tarpare le ali. Inconsapevoli, pensiamo che il nostro compito sia di predisporli a essere uguali a noi, replicando noi stessi in loro. Non è orribile? La scuola è solo un tassello, seppure importante. Ma la responsabilità è della società intera. Qui si innesta la domanda cruciale. L’uguaglianza nella diversità richiede tolleranza. Allora, tutto è tollerabile o c’è qualcosa d’intollerabile? Quanto più indifferentemente si tollera, tanto più si è amici della tolleranza? Tollerare gli intolleranti, i fanatici, i violenti? Su questa domanda si sono confrontati fior di filosofi e moralisti. Uscendo dalle discussioni astratte, si è riproposta di fronte alla crescita di partiti e movimenti neonazisti in Germania e neofascisti in altre parti d’Europa. La difficoltà consiste in questo: se opponi la tua intolleranza a quella altrui, allora cessi di essere tollerante a tua volta e scendi contraddittoriamente sul terreno del tuo avversario. Il tollerante, per restare coerente, dovrebbe, allora, offrirsi inerme all’intollerante? Al contrario: gli intolleranti è lecito, anzi doveroso, contrastarli precisamente perché si ama la tolleranza. L’ignavia, alla fine, sarebbe complicità. Certo, ciò comporta, per così dire, una sospensione della tolleranza. Ma è una sospensione in vista di un ripristino, mentre i veri intolleranti mirano non alla sospensione, ma all’abolizione. C’è, dunque, una differenza radicale. Coloro i quali si oppongono agli intolleranti non scendono affatto sul loro stesso piano. Chi, per esempio, chiede l’applicazione della legge contro i neofascisti non è affatto fascista a sua volta. Una cosa è tenere stretta la fede nella tolleranza come virtù, un’altra è disprezzarla come viltà. Ci sono, poi, coloro che rifiutano il dilemma reazione o acquiescenza. Essi credono fino in fondo alle virtù persuasive della mitezza. All’intolleranza altrui reagisci con più tolleranza tua: il rimedio non sta nel meno, ma nel più, nella convinzione o nella speranza che il bonum (la tolleranza), come dicevano gli Antichi, sia diffusivum suum e alla fine prevarrà. Questa nobile posizione morale presuppone, però, che possa almeno aprirsi un confronto basato, per l’appunto, sulla tolleranza. Sempre tentare, sapendo però che questa è la condizione che manca: il tollerante ha un bel proporre il dialogo, ma l’intollerante è tale proprio perché il dialogo lo rifiuta. Non tollerare l’intolleranza, dunque. Nello stato di diritto, però, la reazione all’intolleranza deve essere prevista e regolata dalla legge. La qualità e la misura della reazione dipendono dalla qualità e dalla natura del pericolo. Le parole, i rituali e le celebrazioni dell’odio, le organizzazioni della violenza, le spedizioni punitive richiedono misure diverse per fronteggiarle: sequestri, divieti, codice penale, scioglimenti, quando non bastano i discorsi. La legge deve essere la misura della forza legittima dello Stato. Deve autorizzare, ma anche trattenere. I casi, le forme, le misure devono commisurarsi alla violenza che si vuol combattere. Che cosa sia la proporzione non dipende dall’umore, liberale o forcaiolo, del legislatore: dipende da un giudizio di ragionevolezza, sulla quale si pronuncia, alla fine, la Corte costituzionale. Si pensi al cosiddetto “decreto sicurezza”, da poco diventato legge. L’eccesso “sicuritario” perde il carattere di misura a difesa e diventa a sua volta offesa. Di intolleranza in intolleranza si rischia una spirale senza fondo di azioni e reazioni. Si rischia di alimentare proprio ciò che si voleva combattere, cioè la violenza. Il “Rischiatutto” di Forza Italia sulla cittadinanza: smarcarsi dalla destra e sedurre i riformisti di Mauro Bazzucchi Il Dubbio, 12 giugno 2025 Antonio Tajani ha sorpreso tutti tornando alla carica con lo Ius Scholae dopo la debacle della sinistra ai referendum, ma non si tratta di una strategia nuova. Sembra un deja-vu, e per certi versi lo è: si avvicina l’estate e all’orizzonte riappare, proprio come 12 mesi fa, la polemica infinita tra Forza Italia e Lega sulla cittadinanza. L’anno scorso, nei mesi più caldi, nei quali la penuria di notizie politiche rilevanti costringe i cronisti ad arrovellarsi su questioni spesso scarne di contenuti concreti, il botta e risposta serratissimo tra Matteo Salvini e Antonio Tajani sulla proposta azzurra di rivedere in senso più flessibile alcune norme per l’accesso alla cittadinanza italiana (sintetizzate prima con la formula ius scholae e quindi con ius Italiae) ha praticamente colonizzato i media social e quelli tradizionali. Il canovaccio sembra ripetersi dopo il rilancio di Tajani e la replica del segretario del Carroccio, con lo stesso tono di animosità, ma c’è un ingrediente che rende il revival più singolare e per certi versi sorprendente. La nuova polemica, infatti, arriva all’indomani di una tornata referendaria che proprio sul quesito riguardante la concessione della cittadinanza ha avuto l’esito più imprevisto, presentando una percentuale di contrari decisamente alta, se la si considera nel perimetro di un elettorato progressista. Di fronte a ciò, la logica stringente del consenso politico avrebbe fatto pensare a un accantonamento definitivo del progetto da parte degli azzurri, che invece hanno rilanciato con forza l’idea di dare la cittadinanza ai giovani stranieri che abbiano completato un doppio ciclo di studi, per un totale di dieci anni. A prescindere dalla reale praticabilità della cosa, che appare molto remota data la netta contrarietà degli altri partiti del centrodestra e la necessità di verificare a livello parlamentare la determinazione di Tajani e dei suoi di fornire al centrosinistra un assist per sabotare la coesione della maggioranza, appare evidente che la mossa degli azzurri fa parte di un’operazione di posizionamento politico, che nella fase attuale risulta coraggiosa, andando a toccare un tema che sembra tabù. La considerazione fatta dal gruppo dirigente forzista, in sostanza, ricalca quelle alla base di altre uscite apparentemente spiazzanti alle quali ha dato il “là” la famiglia Berlusconi su diritti civili e temi etici: inutile rincorrere meloniani e leghisti sugli argomenti più cari alla destra, perché difficilmente un elettore potrebbe ritenere plausibile sentir parlare un profilo naturalmente moderato come Tajani, alla stregua di un leader populista. Tanto vale, allora, differenziarsi in modo marcato, anche clamoroso, andando a stuzzicare la suscettibilità degli alleati, ma soprattutto approfittando della situazione di estrema sofferenza in cui l’avventura referendaria ha posto il fronte centrista dell’opposizione. È infatti a quanti avevano messo in guardia la sinistra dal rischio di un regolamento interno di conti sul jobs act e di una saldatura con la Cgil - e che non a caso hanno espresso favore solo sul quesito sulla cittadinanza - che Forza Italia conta di parlare, evidenziandone l’incompatibilità col popolo rosso- verde- giallo. Ma non c’è solo questo: nella partita serrata che nel centrodestra si sta giocando su dossier come il terzo mandato, le candidature alle Regionali, le riforme costituzionali e quelle fiscali, anche gli azzurri probabilmente considerano opportuno appoggiare sul tavolo delle trattative un tema ingombrante, indigesto, che può essere rapidamente rimosso e messo tra parentesi - come fatto alla fine della scorsa estate - in caso di necessità o in cambio di concessioni su altri fronti. Lo si è visto con Salvini, uscito dal congresso del suo partito con una richiesta di ritorno al Viminale che sembrava quanto mai pressante e che è evaporata nel giro di un mese, e ora sembra aver lasciato il passo a un altro mantra leghista, vale a dire la pace fiscale. In questo gioco di posizionamento, il botta e risposta di ieri è funzionale alle strategie di entrambi le forze politiche: “Credo che non conoscano bene la proposta di legge di Forza Italia”, osserva il ministro degli Esteri rivolgendosi al Carroccio, dopo aver già tuonato sul fatto di non dover chiedere il permesso a nessuno per presentarla, per poi aggiungere che “bisogna leggere il programma del centrodestra del 2022, perché al punto 6 si prevede esattamente questo”. Da par suo, Salvini afferma di continuare a “non capire l’insistenza” degli azzurri. “Il voto al referendum”, ha aggiunto, “lo ha dimostrato: né il centrodestra e meno ancora la Lega, ritengono che sia una priorità cambiare le regole sulla cittadinanza. È legittimo che ognuno esprima i propri pareri, ma non siamo stati eletti per accelerare la concessione della cittadinanza e non lo faremo, appunto”. Il filo repressivo del carcere tra Italia, Irlanda e Paesi baschi di Michele Gambirasi Il Manifesto, 12 giugno 2025 “C’è una visione punitiva e vendicativa del carcere. Noi dovremmo guardare a esempi virtuosi, come possono essere Olanda e Norvegia, invece che guardare a modelli come l’Ungheria”. Lo ha detto Ilaria Salis, europarlamentare eletta nelle liste di Avs che nei penitenziari ungheresi ha trascorso oltre un anno tra febbraio 2023 e giugno 2024, discutendo dell’uso repressivo del carcere, per colpire il dissenso politico e i movimenti sociali. Ne hanno parlato ieri insieme all’irlandese Kathleen Funchion, eurodeputata dello Sinn Fein, e Pernando Barrena, eletto a Bruxelles con i baschi di EH Bildu. Con loro anche attivisti, avvocati, ricercatori ed ex prigionieri politici dei tre paesi, tra cui Valerio Pascali, Valeria Verdolini presidente di Antigone Lombardia ed Emilio Scalzo del movimento No Tav. “Oggi c’è per me un forte valore emotivo, oltre che politico. Parliamo di carcere con territori che hanno vissuto la repressione e la resistenza” ha esordito Salis, che un anno fa di questi giorni raccoglieva in tutta Italia 176mila preferenze, venendo eletta e potendo quindi beneficiare dell’immunità parlamentare per sfuggire al processo sommario di Budapest. Sullo sfondo c’è infatti il voto della commissione affari giuridici dell’Eurocamera, che il 24 giugno dovrà stabilire in merito alla revoca o meno proprio della sua immunità parlamentare chiesta dall’Ungheria. “In Italia a caratterizzare le carceri è stata la logica dell’emergenza” ha detto Valerio Monteventi, attivista e scrittore italiano che ha conosciuto il carcere negli anni 80. L’ultimo esempio è l’approvazione del dl sicurezza: “Leggi repressive vengono attuate in nome della sicurezza, utilizzando i decreti-legge. Da Maroni, Minniti, Salvini fino a quelli dell’ultimo governo, anti-rave, Caivano, Cutro e l’ultimo sulla sicurezza. Il carcere è diventato l’emblema del populismo penale del nostro paese, un luogo in cui in nome della certezza della pena si sacrificano i diritti” ha spiegato. Nell’ultimo pacchetto approvato sono in particolare due le norme che colpiscono le forme di dissenso: il nuovo reato di blocco stradale, che ha nel mirino attivisti climatici, lavoratori in sciopero fuori dai luoghi di produzione e picchetti contro gli sfratti, e il nuovo reato di rivolta nelle carceri che attacca anche le forme di resistenza passiva. “Così il populismo penale è diventata forma di risoluzione dei conflitti, rendendo la detenzione sempre più centrale nella società. Andrebbe invece aperta una battaglia per l’amnistia” ha concluso Monteventi, ricordando che l’ultima amnistia per pene connesse a manifestazioni risale a oltre 50 anni fa, era il 22 maggio del 1970. Nel caso dell’Irlanda e dei Paesi baschi l’esperienza carceraria è strettamente legata alla storia dei movimenti indipendentisti dei paesi. Se in Irlanda gli scioperi della fame dei detenuti del 1981, preceduti dalle proteste del 1976 e del 1980, diedero un impulso decisivo all’opinione pubblica globale circa quanto stava accadendo, aprendo la strada al processo di pace culminato nel 1998, nei Paesi baschi la questione dei prigionieri politici è una contesa ancora aperta, anche a causa dell’assenza di un processo di pace simile a quello avuto nel Regno Unito. Sono ancora 133 i prigionieri politici legati all’Eta, il movimento per l’indipendenza dei Paesi baschi che ha dichiarato il cessate il fuoco quasi 15 anni fa, il 20 ottobre del 2011. “Se invece che leggi ad hoc fossero applicati i normali standard legali, i prigionieri politici baschi sarebbero liberi” ha detto Bego Atxa, legale dell’associazione Sare, che si batte per la fine della strategia della “dispersione”, che distribuisce i detenuti in varie prigioni talvolta anche molto distanti dalle famiglie, e l’abolizione delle leggi che permettono ergastolo e pene detentive prolungate. L’ultimo caso in ordine di tempo è quello di Iratxe Sorzabal, ex leader dell’Eta, condannata a 24 anni di carcere nel 2022 per un attacco a Gijón nel 1996. La sentenza è fondata su un documento di autoincriminazione, che l’8 maggio 2025 la Corte suprema spagnola ha riconosciuto, nel corso di un altro processo, come “privo di valore” perché ottenuto nel 2001 sotto tortura. Sempre meno aiuti, sempre più guerre: in 10 anni i profughi sono raddoppiati di Paolo Lambruschi Avvenire, 12 giugno 2025 È una crescita inarrestabile quella dei profughi nel mondo, in fuga da guerre e violenze. Sono più che raddoppiati negli ultimi 10 anni mentre sono retrocessi ai livelli del 2015 gli aiuti umanitari dopo i tagli decisi soprattutto dagli Stati Uniti di Donald Trump seguiti dai Paesi del G7. Lo rivela il nuovo rapporto annuale Global Trends diramato oggi dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati che, una volta di più, ribalta la percezione dei Paesi ricchi di essere invasi. Infatti, il 73% dei rifugiati del mondo, una quota sproporzionata secondo l’agenzia del Palazzo di vetro, vengono ospitati nei Paesi a basso e medio reddito e la maggior parte, il 67%, rimane negli Stati limitrofi ai conflitti. Ma proprio i continui tagli agli aiuti umanitari mentre il numero di persone costrette a fuggire a causa di guerre, violenze e persecuzioni in tutto il mondo è insostenibilmente alto, avverte il report, rischiano di provocare ulteriori movimenti forzati verso Europa e Italia. Crescono anche i rimpatri, ma non sempre è una buona notizia. Secondo Global Trends, alla fine di aprile c’erano 122,1 milioni di sfollati con la forza, rispetto ai 120 milioni dello stesso periodo del 2024. Il 40% sono bambini. Da un decennio gli aumenti sono continui e il numero di profughi è raddoppiato. Gli sfollati all’interno del proprio Paese a causa di un conflitto sono cresciuti bruscamente di 6,3 milioni fino a 73,5 milioni alla fine del 2024, e i rifugiati in fuga dai loro Paesi sono 42,7 milioni di persone, tra i quali i 5.9 milioni di palestinesi sotto il mandato Unrwa. Con 14,3 milioni di rifugiati e sfollati interni, il Sudan rappresenta ora la maggiore crisi di sfollati e rifugiati al mondo, prendendo il posto della Siria (13,5 milioni), seguita da Afghanistan (10,3) e Ucraina (8,8 milioni). In forte aumento i profughi nel Sahel centrale (più 3.5 millioni) con una crescita del 90% in cinque anni. Mentre ad Haiti le violenze delle gang hanno triplicato gli sfollati, passati da 300 mila a un milione nel 202. I principali fattori che determinano la fuga rimangono i grandi conflitti come quello in Sudan, Myanmar e Ucraina e l’incapacità della politica di fermare i combattimenti. Il rapporto rileva che, contrariamente alla percezione diffusa nelle regioni più ricche, il 67% dei rifugiati rimane nei Paesi limitrofi e i Paesi a basso e medio reddito ospitano il 73% dei rifugiati del mondo. Questi Paesi rappresentano il 9% della popolazione mondiale e solo lo 0,6% del prodotto interno globale, eppure ospitano il 19% dei rifugiati. Ad esempio vi sono popolazioni di rifugiati molto numerose in Ciad, Repubblica Democratica del Congo, Etiopia, Sudan e Uganda. Il 60% delle persone costrette a fuggire non lascia mai il proprio Paese. In proporzione alla popolazione il Libano con un rifugiato ogni 8 abitanti è il paese più accogliente seguito dall’isola di Aruba (1 su 9) e, appunto, dal Ciad (1 su 16). “Viviamo in un periodo di intensa volatilità nelle relazioni internazionali - ha commentato Filippo Grandi, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati - con la guerra moderna che crea un panorama fragile e straziante, segnato da un’acuta sofferenza. Dobbiamo raddoppiare gli sforzi per cercare la pace e trovare soluzioni durature per i rifugiati e le altre persone costrette a fuggire dalle loro case”. L’evaporazione dei finanziamenti umanitari, tornati ai livelli del 2015, sta rendendo la situazione insostenibile per i più vulnerabili. Le donne rimangono senza protezione, i bambini senza scuole, intere comunità senza acqua e cibo. L’unico elemento positivo è rappresentato dalla ripresa dei ritorni a casa, in particolare in Siria, ha dichiarato l’Agenzia dell’Onu per i Rifugiati. “Anche a fronte di tagli devastanti, negli ultimi sei mesi abbiamo visto barlumi di speranza - ha aggiunto Grandi. -. Dopo oltre un decennio di esilio, quasi due milioni di siriani sono riusciti a tornare a casa. Il Paese rimane fragile e le persone hanno bisogno del nostro aiuto per ricostruire nuovamente le loro vite”. Sembra una buona notizia che 9,8 milioni di persone siano tornate a casa nel 2024, fra loro 1,6 milioni di rifugiati (il numero più alto da più di due decenni) e 8,2 milioni di sfollati interni (il secondo numero più alto di sempre). Ma a parte i siriani, una parte di questi ritorni sono avvenuti in un clima politico o di sicurezza sfavorevole. Ad esempio, un gran numero di afghani è stato costretto a tornare in patria nel 2024 in condizioni disperate. In Repubblica Democratica del Congo, Myanmar e Sud Sudan si sono verificati nuovi e significativi flussi di persone in fuga contemporaneamente al ritorno di rifugiati e sfollati interni. “Stiamo attraversando un periodo storico particolarmente complesso - ha affermato Chiara Cardoletti, rappresentante dell’Unhcr in Italia, Santa Sede e San Marino - in cui la diffusione dei conflitti mette a nudo la vulnerabilità umana, spesso soffocata da scetticismo e indifferenza. In questo tempo il dolore degli altri può sembrarci distante, ma in realtà ci tocca da vicino. Viviamo in un mondo dove ciò che accade altrove ha conseguenze anche su di noi. Quando le emergenze umanitarie ricevono risposte inadeguate, le conseguenze non si limitano ad aumentare le sofferenze umane, ma generano anche una maggiore instabilità. Tagliare gli aiuti rischia di spingere più persone alla disperazione, innescando ulteriori fughe - anche verso Europa e Italia - e aggravando crisi che diventeranno ancor più difficili da affrontare in futuro. Si tratta di un circolo vizioso che dobbiamo urgentemente cercare di spezzare”. Il rapporto Global Trends chiede di continuare a finanziare i programmi che salvano vite umane, assistono i rifugiati e gli sfollati interni che tornano a casa e rafforzano le infrastrutture di base e i servizi sociali nelle comunità ospitanti, come investimento essenziale per la sicurezza regionale e globale. Stati Uniti. L’invasione immaginaria di migranti clandestini di Emilio Minervini Il Dubbio, 12 giugno 2025 Trump ha inviato i marines in California per arginare la presunta invasione di clandestini. Ma qualcosa non torna. Sarebbe stato l’ordine, dato dal capo del gabinetto della Casa Bianca, Stephen Miller, agli agenti federali di arrestare più persone possibile in assenza di condanne penali, a innescare le proteste di Los Angeles. Proteste pacifiche che non hanno fatto che aumentare con l’invio, da parte della Casa Bianca, prima della guardia nazionale e dei marines poi, in un domino dagli esiti incerti e pericolosi. Atti per i quali, come riportato negli scorsi giorni, il governatore della California, Gary Newsom, ha avanzato due diverse cause all’amministrazione Trump, una per l’invio della guardia nazionale e una per lo stanziamento dei marines. “Quando Donald Trump ha invocato l’autorità generale per dispiegare la guardia nazionale, ha fatto applicare quell’ordine a tutti gli stati di questa nazione”, ha scritto Newsom in un post sui social. “La democrazia è sotto attacco proprio davanti ai vostri occhi, il momento che temevamo è arrivato. È tempo che tutti noi ci opponiamo”, ha concluso il governatore della California. “Immigrati clandestini e manifestanti criminali violenti hanno trascorso gli ultimi giorni ad attaccare le forze dell’ordine, sventolare bandiere straniere, incendiare auto e scatenare uno stato di totale anarchia”, ha dichiarato in una nota la portavoce della Casa Bianca, Abigail Jackson, “Chiunque minimizzi questo comportamento o ne chieda il motivo è un idiota o un propagandista del Partito Democratico”. E pensare che uno dei mentori del presidente Trump, l’ex presidente ed ex governatore della California, Ronald Reagan, nel 1986 firmò l’Immigration Reform and Control Act, con l’obiettivo di “riprendere il controllo dei nostri confini in modo umano” e “non discriminare in alcun modo nazioni o persone in particolare”, costituendo un sistema d’immigrazione ordinato. Presupposti agli antipodi rispetto a quelli dell’amministrazione Trump. A gennaio, poco dopo l’insediamento di Trump alla Casa Bianca, membri della sua amministrazione hanno ordinato agli ufficiali dell’Ice (Immigration and Customs Enforcement) di “aumentare in modo aggressivo il numero di persone arrestate, da poche centinaia al giorno ad almeno 1.200 a 1.500”, come riportato da Forbes. L’amministrazione Trump si è posta l’obiettivo di raggiungere il milione di persone deportate entro il primo anno di governo e, secondo quanto riporta il Washington Post, avrebbe sostituito i membri apicali dell’Ice almeno tre volte fino ad ora. In base a quanto scritto dal New York Times, verso la fine dello scorso maggio, Stephen Miller ha dichiarato a Fox News che la Casa Bianca voleva che l’Ice arrestasse almeno 3mila persone al giorno. L’agenzia aveva arrestato più di 66mila persone nei primi cento giorni dell’amministrazione Trump, con una media di circa 660 arresti al giorno. Miller avrebbe anche ordinato agli ufficiali dell’Ice di effettuare arresti presso gli Home Depot, catena di bricolage e prodotti per la casa molto diffusa negli Stati Uniti, e altri luoghi simili. Sarebbe stato proprio un raid dell’Ice del 6 giungo presso un Home Depot, ad aver innescato le proteste nel capoluogo californiano. Le dichiarazioni fatte dai membri dell’amministrazione Trump sulla presenza di migranti, come rivelato da Maria Sacchetti del Washington Post, dipingono un quadro ben diverso da quello tracciato dai dati federali e statali. La California è la quarta economia mondiale, ha infatti di recente superato il Giappone, grazie anche alla presenza delle big tech con sede nella silicon valley. In California, in base alle stime offerte dall’American Immigration Council, nel 2023 gli immigrati regolari erano 10.6 milioni, di cui più della metà donne (51,2%), rappresentando il 27,3% della popolazione del golden state e creando un gettito fiscale di 168 miliardi di dollari, suddiviso in 61 miliardi di tasse dello stato e 106 miliardi in tasse federali. Tra questi ci sarebbero circa 2.6 milioni (stimati nel 2022) di irregolari, che avrebbero generato entrate fiscali per 8.5 miliardi, secondo i dati offerti dal California Budget & Policy Center. Il numero di irregolari risulta in declino rispetto al 2010 quando, in base al report di aprile 2024 dell’Office of Homeland Security Statistics, erano stimati in circa 2.9 milioni di unità, in una tendenza costante di diminuzione. Sono invece 5.6 milioni i cittadini statunitensi, residenti in California, che hanno almeno un genitore immigrato. Gli imprenditori immigrati costituiscono il 40,3% del totale nello stato dell’orso, e creano un indotto di 28.4 miliardi di dollari all’anno. Il legislatore Californiano, negli scorsi anni, ha promulgato leggi favorevoli agli immigrati irregolari, con lo scopo di facilitarne l’integrazione e la regolarizzazione, prevedendo privilegi quali la patente di guida, l’assistenza sanitaria, le tasse universitarie statali e alcuni aiuti finanziari. Privilegi che lo stesso Newsom ha iniziato a limitare, almeno nel numero di persone che possono usufruirne, per alleggerire il peso degli stessi sul bilancio dello stato. Inoltre il legislatore ha previsto che le forze dell’ordine non possono intervenire per effettuare detenzioni o espulsioni, a meno che i soggetti non abbiano commesso reati gravi. Secondo i dati del Real Time Crime Index, parte del Public Policy Institute of California, rispetto al 2023 il tasso di crimini violenti nel 2024 è diminuito del 4,6% mentre quello relativo ai crimini contro la proprietà dell’8,5%. Le rapine sono calate del 12,5% e gli omicidi del 5,9%, così come la maggior parte dei reati. Il tasso di disoccupazione ad aprile scorso era del 5,3%, superiore di un punto rispetto alla media nazionale (4,2%), ma al di sotto di altri stati quali il Nevada (5,6%) o il Michigan (5,5%). Dati che evidenziano come gli immigrati in California siano in realtà vicini, proprietari d’imprese, contribuenti e lavoratori. Immagini che stridono con la narrazione dell’amministrazione Usa, che dipinge i migranti nella loro totalità come giovani adulti maschi, inclini a crimini violenti e membri di gang. Stati Uniti. Una democrazia che viene messa in stato d’assedio di Walter Veltroni Corriere della Sera, 12 giugno 2025 La repressione delle proteste in America rischia di segnare il passaggio a un assetto più autoritario. Quello che sta avvenendo in California in queste ore, documentato da centinaia di video, ci precipita nel grande tema di questo tempo: la modificazione profonda, radicale, del potere. Trump sceglie un tema, quello dell’immigrazione, sul quale sa di godere di vasto consenso nella sua impaurita opinione pubblica, e opera una forzatura che ha a che fare con la tenuta delle istituzioni democratiche americane. Le squadre dell’Ice che girano come faine per le strade di Los Angeles o di San Francisco a caccia di immigrati da arrestare, con tanto di immediate manette ai polsi, i figli piccoli strappati dalle braccia delle madri, mogli e mariti separati dopo che gli agenti hanno spaccato a colpi di bastone i vetri delle auto dove si trovavano, le figlie che urlano a madri portate nel furgone cellulare tutto il loro amore e la loro disperazione… La risposta sono manifestazioni spesso disperate, che sfociano in violenze e saccheggi che Trump usa per accendere ancora di più il fuoco, in un gorgo assai pericoloso. Nelle modalità assolutamente brutali, disumane con le quali il presidente degli Usa sta conducendo questa operazione c’è l’avviso di un cambio di fase, di un passaggio della democrazia americana a un assetto diverso, quello che il governatore della California ha definito “un passo inequivocabile verso l’autoritarismo”. La questione immigrazione è il grimaldello ed è obiettivamente pericoloso. Pur di vedere fuori dagli Usa gli immigrati, accusati in toto e senza prove di criminalità, una parte del paese è disposta a ignorare elementari principi di umanità per appagare il proprio bisogno di rassicurazione. Quando l’economia è in crisi, quando la redistribuzione della ricchezza si blocca, quando insorgono inquietudini sul collettivo futuro ci si abbarbica a quello che si ha e si considerano gli altri, anche i più simili a sè, come il pericolo. È uno scambio: libertà per sicurezza, che connota tutte le avventure autocratiche di questo tempo. E questo baratto può apparire vantaggioso, lo dicono i risultati elettorali in tutti i Paesi occidentali, specie tra gli stati popolari. Un problema reale. Ma l’escalation, pure verbale, che Trump ha dispiegato in questi giorni serve anche a mascherare molte cose: il taglio al Medicare e Medicaid che colpisce i più poveri, l’aumento del debito pubblico e il caos prodotto dall’amministrazione nel conflitto con chiunque. A cominciare dal principale finanziatore della sua vittoria, Musk, per continuare con la farsa dei dazi e con le intimidazioni verso università e studi legali, giornali, avversari politici. O al fallimento clamoroso del guasconesco proposito di mettere fine in 24 ore a tutti i conflitti del globo. Le cose devono essere chiamate con il loro vero nome, vanno riconosciute per quello che sono. L’escalation determinata in California è sorella dell’invasione del Campidoglio e della successiva amnistia. Il segnale chiaro è che la democrazia è un fastidio, che il parlamento o un governatore sono escrescenze fastidiose per il potere narcisistico di una persona sola che vuole accentrare la decisione solo nelle sue incerte e pericolose mani. A Los Angeles si sono violati i diritti umani fondamentali e penso che questo non possa sfuggire al primo papa americano della storia. Trump sembra infatti voler provocare Leone XIV proprio su un tema cardine dell’identità cristiana, quello della solidarietà verso gli ultimi. L’immigrazione, sia chiaro, è un problema per tutte le società sviluppate, è il frutto della disperazione sociale, delle catastrofi ambientali, delle guerre che insanguinano tanta parte della terra. Ed è chiaro che anche la sinistra deve affrontare con i suoi valori questa sfida, non far finta che sia un’invenzione. Nelle società occidentali bisogna trovare un equilibrio tra accoglienza di chi fugge dalla fame e sicurezza di chi ospita. Ma non si può, è criminale farlo, identificare tout court un immigrato con un delinquente, spezzare per ragioni di propaganda, di pura propaganda, famiglie e vite, seminare panico. Le scene che provengono dalla California fanno pensare ad altre “deportazioni”, Guantanamo finisce con l’assomigliare ad altri luoghi di contenimento, nuovi gulag. La Civil War vaticinata tempo fa da un film è uscita dallo schermo e dalla finzione. Le parole “coprifuoco” e “stato d’assedio” entrano senza colpo ferire nel lessico di un grande Paese democratico come gli Usa. In questo tempo di radicalizzazione e di demolizione dei bastioni della saggezza e dell’equilibrio della democrazia, tutto, davvero tutto, sembra diventare possibile. Riconoscerlo, senza equivoci, è il modo migliore per contrastarlo, nell’interesse di tutti. Stati Uniti. Il tycoon non si è inventato niente. Guantanamo è la nostra Albania di Andrea Colombo Il Manifesto, 12 giugno 2025 Salvini oscilla tra ondate di ammirazione, emulazione e invidia. Donald è il suo eroe, fa quel che lui vorrebbe e non può. “Difende la sicurezza”, certo: spingere il Paese alla guerra civile farà dormire ai cittadini sonni tranquilli. Spari permettendo. Meloni no: alle forme ci tiene e in sostanza è questa la sola differenza fra lei e i trogloditi di Washington e via Bellerio. Ma si dia a Giorgia ciò che a Giorgia spetta: il copyright le appartiene di diritto. L’idea è sua e nel vecchio continente era piaciuta subito a tutti, senza distinzioni da XX secolo fra destra e sinistra. Trump non si è inventato niente. Poi, certo, ognuno ha il suo stile e quello europeo è più felpato e ipocrita. L’americano adora ostentare inciviltà, qui si preferisce praticarla senza farlo sapere, magari delegando i compiti più truci al primo libico che passa. Ma all’osso non c’è differenza. L’Albania è la nostra Guantanamo. Tajani, il terzo uomo, invece si smarca. Deve rosicchiare il suo spazietto e nulla si presta meglio del farsi paladino dei diritti, distribuiti però col contagocce. Data la compagnia che lo attornia, poco ci manca che sembri un Nelson Mandela azzurro. Stiamo messi così. I raid delle squadracce in divisa del presidente, con supporto dei Marines e a tanto non era arrivato neppure la buonanima di tricky Dick Nixon, rivelano però la contraddizione insormontabile del sovranismo muscolare che va tanto di moda quest’anno. La caccia grossa non può andare per il sottile. La selvaggina è indistinta. Nel mucchio delle prede finiscono tutti, inclusi i cittadini di Paesi amici e alleati, magari impegnati in safari identici a casa loro. Capita persino che il governo più amico che ci sia in Europa, purtroppo il nostro, debba scoprire dai giornali che un paio di compatrioti sono in viaggio verso le delizie di Guantanamo per imprecisabili ragioni. Alla faccia del rapporto privilegiato tra Roma e la Casa bianca. Ma non è questione di mancanza di rispetto. È che una volta impostati così i rapporti non c’è alternativa alla legge del più forte e ogni Paese deve per forza rassegnarsi al vassallaggio oppure ostentare forza e aggressività in misura pari a quelle dei presunti amici. È una diplomazia modellata sui metodi con cui si confrontano i coatti nelle periferie europee o si spartiscono e difendono i territori le bande con le bandane blu e quelle con le bandane rosse nei ghetti di Los Angeles, i Crips e i Bloods. Donald Trump può sembrare a volte pazzo ma nella sua follia c’è del metodo ed è un metodo preciso: riporre nell’armadio degli abiti frusti ogni parvenza di relazione basata su regole e dialogo per sostituirla con la ruvida brutalità dei rapporti di forza. Ma quello che governa non è un Paese come tanti: è il cuore di un occidente già traversato ovunque da venti di tempesta identici a quelli che spazzano gli Stati uniti. Se il gioco gli riuscirà, se sostituirà la civiltà delle regole con quella del ko, l’esempio sarà ripreso, magari adattato alle caratteristiche nazionali ma nella sostanza imitato e riprodotto. A tutto scapito di chi, privilegiati o meno che siano i suoi rapporti con il Bullo della Casa bianca, dalla supremazia della forza ha tutto da perdere. Come l’Italia, chiunque la governi. Non è questione di destra o sinistra e neppure soltanto di valori che, si sa, tanto pesano nella propaganda quanto poco nella politica reale. È il rendersi conto che se l’esperimento che Trump sta portando avanti a passo di carica sia all’interno del suo Paese che nelle relazioni internazionali sarà premiato, se la trasformazione radicale della politica in esercizio di forza e brutalità riuscirà a imporsi, tutta l’Europa, ma l’Italia più di molti altri, avrà solo tutto da perdere. Una rovina salutata dagli applausi ebbri di Salvini e da quelli appena dissimulati di Meloni.