Il carcere oggi è abbandonato a se stesso di Piero Colaprico La Repubblica, 11 giugno 2025 Papa Francesco fino alla vigilia della sua morte ha speso parole di umanità e saggezza per i carcerati. Ma quanti decenni ancora dovremo aspettare affinché si metta mano a una situazione che appare oggi non più rimandabile? In Italia c’è una brigata che non tramonta mai, è quella dei politici che vanno in galera. Ma al di là di questa constatazione (molto poco allegra) su quanto siano specchiati o non specchiati i nostri amministratori pubblici, a volte il carcere li aiuta a comprendere una realtà che forse, stando tra i velluti del palazzo, hanno scordato. Com’è successo all’ex sindaco di Roma, Gianni Alemanno. Dalla cella di Rebibbia ha mandato una lettera a Carlo Nordio, Ministro della giustizia del Governo Meloni: “Le stiamo scrivendo perché vogliamo - a firmare sono il politico e lo scrivano del reparto G8 - sensibilizzare le istituzioni e l’opinione pubblica sull’attuale situazione carceraria, che a noi, e non solo a noi, appare insostenibile e contraria ai dettati costituzionali”. E quindi, “le vogliamo indicare quelle che secondo noi sono le priorità per far fronte al sovraffollamento degli istituti di pena e, in particolare, alla situazione tragica delle morti, dei suicidi, dell’assistenza sanitaria inadeguata, di tutti gli ultrasettantenni in carcere, dell’affettività negata, della mancata scindibilità dei cumuli e dell’accesso limitato al lavoro in aziende private attraverso l’art. 21 dell’ordinamento penitenziario e del principio di progressività trattamentale”. Scusate se con la missiva di Alemanno ci fermiamo qui e di Nordio ne facciamo a meno. Vorremmo ricordare sia ad Alemanno, sia a Nordio, sia ai vari parlamentari una circostanza che non farebbero fatica a trovare negli archivi, alcuni persino nella loro memoria. Nel 1992 cambiò con l’inchiesta Tangentopoli la storia politica del Paese: vennero arrestati, almeno qui a Milano, rappresentanti di tutti (tutti) i partiti, per varie corruzioni. All’uscita s’imbattevano nei cronisti in cerca di notizie, emozioni, impressioni. E moltissimi ex detenuti eccellenti, dopo aver riempito le pagine con verbali che hanno messo a tappeto la Prima Repubblica, dal segretario del partito all’alto funzionario, tutti, proprio tutti, ci ripetevano: “Nel carcere abbiamo trovato persone magnifiche, ma va cambiato, non è degno di un Paese civile”. Dunque, 1992, 2002, 2012, 2022: quanti decenni ci sono voluti perché nel mondo del carcere tutto restasse immobile? Le parole di Alemanno, per quanto condivisibili da parte di chi conosce la Costituzione, non sono inedite. Però noi abbiamo avuto Papa Francesco che, sino alla vigilia della sua morte, ha speso parole di umanità e saggezza per i carcerati. E abbiamo un Parlamento che non riesce ad affrontare il tema. Tempo perso - Così, mentre si parla a vanvera nei talk show, e si scrivono sui giornali colonne piene di banalità buoniste o cattiviste, ecco il richiamo potente che ci arriva dalla cronaca. Ci viene raccontata la storia nera di Emanuele De Maria: aveva ucciso una giovane prostituta, dal Sud è stato trasferito nel carcere di Bollate, per scontare la sua pena, ma domenica 11 maggio si è lanciato dalle terrazze del Duomo di Milano, morendo tra la folla in una giornata di festa. Era stato ammesso al lavoro esterno al carcere. Ma non era cambiato molto. Ha ucciso una collega di lavoro e ferito gravemente un altro collega. E dove gli era stato permesso di lavorare? In un albergo. Sulla carta, è tutto regolare: via libera da parte dell’area educativa del carcere di Bollate e via libera dalla magistratura di sorveglianza. Ma - insistiamo - qual è stato il percorso di riabilitazione per un uomo che ha ucciso una donna e ne ucciderà un’altra? Chi ha avuto l’idea di metterlo in un luogo come un hotel, dove passa tanta gente? Il tema non sarebbe soltanto indagare su una tragedia come questa, ma anche stabilire un concetto: più il carcere viene abbandonato a se stesso, più diventa inutile stupirsi. Invece, dilaga la finzione. Il forcaiolo di qua, il garantista di là. Ma è tempo perso. È pestare acqua nello stesso mortaio. E noi non abbiamo più parole da dire, nemmeno ad Alemanno. Il Garante dei detenuti del Lazio: necessario indulto per condanne e residui pena fino 2 anni Il Sole 24 Ore, 11 giugno 2025 La misura potrebbe risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri. In Italia sono 16.568 i detenuti che al 31 maggio scorso sono in cella per scontare condanne o residui di pena inferiori a due anni: tanti quanti sono ospitati in eccesso nelle nostre carceri. A sottolinearlo è il Garante dei diritti dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia, secondo il quale “basterebbe un provvedimento di indulto” per queste persone a cancellare il sovraffollamento e rimettere in funzione il sistema penitenziario italiano. In totale negli istituti penitenziari italiani a fine maggio erano 62.761 le persone recluse, 11.437 in più della capienza complessiva, 16.016 in più rispetto ai posti regolamentari effettivamente disponibili (4.579 posti sono in camere, sezioni o istituti in ristrutturazione o manutenzione). “Da qui il famoso indice di sovraffollamento del 134,29% - spiega Anastasia -il che significa che in cento posti vivono in media 134 -135 persone”. “Un terzo di persone in più - aggiunge - significa non solo una più difficile convivenza in ambienti spesso angusti e soffocanti (specie ora, che si va incontro al gran caldo dell’estate), ma anche meno personale e servizi a disposizione”. “In alcuni casi uno-due poliziotti, soprattutto nei turni notturni, devono far fronte alle istanze di cento, centocinquanta detenuti”. Dunque, secondo Anastasia “la prima misura necessaria dovrebbe essere rimettere in pari il numero delle persone detenute con quelle a cui l’Amministrazione penitenziaria, le amministrazioni pubbliche concorrenti e la società civile possano effettivamente garantire un trattamento dignitoso e una offerta di sostegno e di opportunità formative e lavorative idonee a consentirne il reinserimento sociale in condizioni di autonomia e legalità”. “Tendenzialmente, bisognerebbe pensare a un numero chiuso in carcere, come peraltro auspicato dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura”. Intanto, secondo il Garante, “l’amnistia e l’indulto sono gli unici strumenti straordinari, rapidi ed efficaci previsti dalla Costituzione, che richiedono il consenso di maggioranza e opposizione, come fu nel 2006, quando il Presidente del Consiglio Romano Prodi e il leader dell’opposizione Silvio Berlusconi votarono concordemente un indulto di tre anni, con lo strabiliante risultato di dimezzare la recidiva tra i suoi beneficiari. Azzerato il sovraffollamento, maggioranza e opposizioni potranno tornare a dividersi sul futuro, ma almeno avranno guadagnato il tempo per realizzarlo e avranno posto termine a questa costante violazione della Costituzione che si sta consumando nelle nostre carceri”. Fuori i tossicodipendenti dalle celle. La mossa di Nordio contro il sovraffollamento di Felice Manti Il Giornale, 11 giugno 2025 Il Guardasigilli: la loro disintossicazione parte del processo di rieducazione. L’appello di Zuppi (Cei): la speranza per loro è il lavoro. Contro il sovraffollamento nelle carceri “serve approccio “organico e una prospettiva di lunga durata”, che passa anche dalla rieducazione dei detenuti tossicodipendenti attraverso la disintossicazione fuori dalle celle. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio è intervenuto dal palco dell’evento della Corte dei Conti sul sistema carcerario, presentando il piano carceri. È un “sistema complesso, con problemi cronicizzati”, ha precisato il Guardasigilli, convinto che “le osservazioni contenute nella relazione della Corte dei conti sono evidentemente condivisibili, nella misura in cui esse si appuntano sul fatto che: molti interventi edilizi ancora attendono di essere realizzati; che occorrono nuovi posti detentivi contro il sovraffollamento”. Come ha già diverse volte evidenziato Nordio, la popolazione carceraria attuale è composta per un 30% di detenuti in attesa di giudizio, un altro 30% di extracomunitari e un 20% di tossicodipendenti che non possono più stare in carcere, “la cui disintossicazione” anzi “andrebbe svolta al di fuori dei circuiti carcerari”, in modo da trasformarsi in sede di esecuzione penale “nella prima forma di rieducazione del condannato, con evidenti vantaggi per la riduzione dell’annoso problema del sovraffollamento carcerario”. Ma dal carcere si esce soprattutto con il lavoro. Per Le stime del Dap solo l’1% dei detenuti che lavora è recidivo. Come ricorda il presidente della Cei Matteo Zuppi solo un detenuto su quattro lavora ed è “troppo poco”, ha detto il cardinale in visita nel carcere di Ascoli Piceno al convegno sul tema “Giustizia e speranza, carcere e territorio”, visto che la speranza per loro “passa attraverso mezzi fondamentali come lo studio, il lavoro, la qualificazione e la capacità di integrarsi nella società grazie alle competenze acquisite”. Ingiuste detenzioni: vite massacrate e indennizzi dimezzati di Valentina Stella Il Dubbio, 11 giugno 2025 Oggi alla Camera la presentazione di “Innocenti. Il libro bianco dell’ingiusta detenzione in Italia”, curato da Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone. “Se si prendessero per mano l’una con l’altra, le persone arrestate o condannate ingiustamente in Italia negli ultimi trent’anni formerebbero una catena umana capace di coprire la distanza tra Roma e Napoli. Ogni otto ore una di loro viene arrestata da innocente. Per risarcirle lo Stato ha già speso quasi 1 miliardo di euro, al ritmo di 57 euro al minuto”. Questo è un dato di fatto, insieme a tanti altri dati di fatto contenuti nell’opera, allo stesso tempo scientifica e divulgativa, “Innocenti - Il libro bianco dell’ingiusta detenzione in Italia”, curato dai giornalisti Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone (Giappichelli Editore, pagine 144, euro 18). I due autori, fondatori dell’associazione Errorigiudiziari.com, combinano numeri, analisi e storie vere in un linguaggio giornalistico, ma al tempo stesso rigoroso. Un’indagine che non esisteva nel nostro panorama. Nell’immaginario collettivo se si è arrestati ingiustamente si viene sempre risarciti. Ma non è così, raccontano Lattanzi e Maimone. Ogni anno viene respinta la metà delle domande di indennizzo: “Avere una riparazione è divenuta ormai una sorta di lancio della monetina”. E se arriverà l’indennizzo, bisognerà comunque pagare l’imposta di registro. Ma vediamo perché accade questo, grazie alle storie raccontate nel libro. “C. D. G., arrestato nel veneziano per una rapina mai commessa e assolto con formula piena, sia in primo grado che in appello, dopo 420 giorni in carcere e 30 agli arresti domiciliari. Perso il lavoro e costretto a vendere la casa perché non riusciva più a pagare il mutuo, gli è stato negato l’indennizzo: secondo i giudici, parlando al telefono con il cugino (vero autore della rapina, a sua insaputa) aveva fatto riferimento a un paio di jeans che però agli inquirenti era parso sospettosamente criptico”. Inoltre le ordinanze con cui le Corti d’appello determinano le somme per una ingiusta detenzione sono quasi sempre impugnate dall’Avvocatura dello Stato per ottenere il ricalcolo (al ribasso) dell’entità. Pochi sanno inoltre che - ormai da diversi anni - c’è un nuovo elemento di cui bisogna tenere conto quando si parla di riparazione per ingiusta detenzione: la colpa lieve. Raccontano Lattanzi e Maimone insieme all’avvocato Riccardo Radi di Roma: “G. M., arrestato con l’accusa di associazione per delinquere di stampo mafioso, era rimasto in carcere per 1.196 giorni. La prova regina nei suoi confronti avrebbe dovuto essere un’intercettazione telefonica in cui si parlava di lui come di “U Giusto”, ma quello non era mai stato il suo soprannome. Una volta assolto, si è visto decurtare l’importo dell’indennizzo per ingiusta detenzione del 30%. Il motivo? Aveva avuto tre contatti telefonici con persone effettivamente appartenenti alle cosche. E a nulla era servito spiegare che il paese in cui G. M. vive è ad alta densità mafiosa e che era quasi impossibile non avere contatti con persone poco raccomandabili”. Altro caso è quello di A. C., finito in carcere con l’accusa di rapina, detenzione e porto abusivo di arma: “Durante l’interrogatorio di garanzia che si è svolto a distanza di un anno dai fatti contestati, si è limitato a protestare la propria innocenza spiegando che non poteva ricordare nei dettagli dove fosse e cosa facesse tanto tempo prima, sottolineando il problema di cui soffre: è sordo, circostanza che lo porta anche a essere particolarmente stringato nelle sue dichiarazioni. Ma non c’è stato niente da fare: è rimasto in cella 201 giorni più altri 93 giorni agli arresti domiciliari. Una volta riconosciuta la sua estraneità a ogni accusa, si è visto tagliare l’importo dell’indennizzo per ingiusta detenzione del 58%: “Non ha fornito un alibi, limitandosi solo a dichiararsi innocente”. Un altro interessantissimo capitolo è quello in cui Lattanzi e Maimone tracciano, attraverso la lettura e l’analisi di circa 600 ordinanze di riparazione per ingiusta detenzione relativa al 2018, anno in cui si è registrato uno dei numeri più alti di indennizzi, l’identikit delle vittime tipo: maschio, italiano del Sud, 25- 40 anni, in carcere un mese per rapina, furto o estorsione. Assolto dopo tre anni e risarcito dopo altri mille giorni. È il profilo della vittima- tipo di ingiusta detenzione in Italia. Dallo studio dei dati, i due giornalisti poi fotografano come il problema si concentri soprattutto nelle città del Sud: negli ultimi 10 anni, per esempio, Napoli ha fatto registrare poco meno di mille casi (965). La solo Calabria, nello stesso periodo, ha assorbito un terzo dell’intera somma destinata ai risarcimenti a livella nazionale (oltre 103 milioni di euro degli oltre 319 stanziati dallo Stato). Tra le prime tre cause per ingiusta detenzione ci sono le intercettazioni, spesso trascritte male e interpretate peggio. E anche qui i due giornalisti hanno storie incredibili e paradossali da raccontare come quella di un allevatore di suini di Agrigento rimasto 100 giorni in ingiusta detenzione per una telefonata in cui pronunciava questa frase: “Quando mi porti quei maialini?”. Il fatto è che stava parlando con un macellaio. Eppure anche qui gli inquirenti hanno pensato che si stesse riferendo a partite di droga. Un altro pregio del testo è quello di dedicare un capitolo ad una analisi di quello che accade negli altri Paesi. Leggendolo, scopriamo che in Danimarca vengono indennizzati anche soli 10 minuti di fermo di polizia, con 130 euro); in Francia viene accolto l’87% delle domande di risarcimento; in Finlandia qualunque carcerazione ingiusta superiore alle 24 ore fa scattare un indennizzo automatico. Insomma, grazie agli autori arriviamo alla conclusione che il sistema italiano resta tra i più problematici nel garantire un bilanciamento tra giustizia e diritti individuali. Il libro verrà presentato oggi alla Camera dei deputati con la partecipazione del vice ministro della giustizia, Francesco Paolo Sisto, il deputato di FI Enrico Costa, il presidente dell’Ucpi Francesco Petrelli. Saranno presenti gli autori. La registrazione sarà disponibile su Radio radicale. “La pena così non rieduca, è nostro compito contenere il potere punitivo” di Antonio Alizzi Il Dubbio, 11 giugno 2025 Il giurista argentino critica la funzione repressiva della giustizia penale e chiede un cambio di paradigma. “Il carcere colpisce i più deboli. La pena va contenuta, non trasformata in idolo”. Intervista a Eugenio Raul Zaffaroni, professore emerito di diritto penale e criminologia all’Università di Buenos Aires, già giudice presso la Corte suprema argentina e la Corte interamericana dei Diritti umani. Professore, nella sua ultima lectio magistralis in Italia ha menzionato che la pena deve essere vista non solo come un atto punitivo, ma come un possibile strumento di trasformazione dell’individuo. Potrebbe spiegare come si inserisce il concetto di “dialogo interno ed esterno all’io” nel sistema penale attuale? Nell’esperienza latinoamericana osservo che la popolazione carceraria è composta quasi interamente da uomini, solo il 5% sono donne, il che conferma indirettamente il modello patriarcale. Di questi uomini, c’è una minoranza molto ridotta di quelli che potremmo chiamare “criminali”, cioè assassini, stupratori, eccetera, alcuni più vicini al manicomio che alla prigione. Il restante 90%, ovvero la grande maggioranza, è condannato o processato per reati di sopravvivenza, contro la proprietà, anche senza violenza, o per spaccio al dettaglio di sostanze tossiche proibite. Più della metà non è condannata, ma in custodia cautelare. Sono i cosiddetti “detenuti senza condanna”. Nelle condizioni delle nostre carceri sovraffollate e in alcune controllate internamente da bande di detenuti della criminalità organizzata, il cambiamento di soggettività che ciò produce è esattamente l’opposto di quello postulato dalle leggi di esecuzione penale che, in questo senso, sembrano deliranti: il ragazzo entra dicendo “ho rubato” ed esce dicendo “sono un ladro” e con una stigmatizzazione che implica un’incapacità lavorativa. La selettività del potere punitivo fa sì che la polizia faccia la cosa più facile, ovvero mettere in prigione questi giovani stereotipati dei quartieri marginali, senza istruzione e senza specializzazione lavorativa, e non altri che commettono reati molto più gravi. Nessuno di loro può commettere una frode fiscale astronomica tramite triangolazione con Hong Kong. In generale, possiamo dire che, sebbene abbiano commesso dei reati, non sono in carcere tanto per i reati commessi, quanto per la loro vulnerabilità al potere poliziesco e repressivo, perché sono portatori di stereotipi che assomigliano a uniformi da ladruncoli o simili. Cosa si può fare? Offrire loro la possibilità di aumentare il loro livello di invulnerabilità al potere repressivo. È ovvio che se uno di loro esce di prigione come tecnico elettronico avrà una percezione di sé diversa e, quindi, sarà più invulnerabile al potere penale. Nel contesto della sua riflessione sul diritto positivo e sulla giurisprudenza come atto di governo, come vede l’evoluzione del concetto di pena in un sistema giuridico sempre più globalizzato? Non smette di sorprendermi che i politici continuino a inventare scopi e funzioni della pena senza vedere quelli che realmente svolge, ovvero reprimere i più vulnerabili in ogni società, secondo i peggiori pregiudizi: negli Stati Uniti gli afroamericani costituiscono oltre il 50% dei detenuti, in America Latina sono i ricchi di melanina, in Europa gli extracomunitari, in Cina non saprei. È un fenomeno strutturale, non accidentale, le forze dell’ordine fanno la cosa più facile, non sto teorizzando sulla base delle lotte di classe o cose simili, rispetto le riflessioni dei marxisti, ma questo accade in tutto il mondo e persino mia nonna lo sa. In questo modo, e seguendo ciò che disse nel XIX secolo un giurista brasiliano, Tobías Barreto, la pena e la guerra sono due fenomeni di potere politico: chi ha potere reprime penalmente e fa le guerre. Per questo motivo, ritengo che gli internazionalisti siano stati molto più umili dei penalisti e abbiano smesso di discutere se la guerra sia giusta o ingiusta, costruendo invece il diritto internazionale umanitario, che si occupa di evitare gli aspetti più crudeli delle guerre e la cui agenzia esecutiva è la Croce Rossa internazionale. È ora che noi penalisti facciamo lo stesso, perché la pena ha così tante funzioni, in quanto fatto di potere politico, che nessuno le conosce tutte, ma ciò che sappiamo con certezza è che, se non limitiamo il potere penale, esso trabocca come puro potere di polizia e finiamo nel genocidio, attraverso le Ss, la Gestapo, il Kgb o gli eserciti degradati a poliziotti. Il nostro compito non è quello di legittimare il potere punitivo, ma di contenerlo razionalmente. Riguardo all’attualità, come potrebbe il sistema penale affrontare la grave situazione delle carceri sovraffollate e delle condizioni di detenzione? Amnistia e/ o indulto rappresentano valide soluzioni? Lasciando da parte la minoranza “patibolare”, il resto è facile da risolvere. Innanzitutto, non si tratta di distribuire allegramente la custodia cautelare, perché tutte le detenzioni preventivi sono deterioranti e generano recidivi e recidivi. I media devono smettere di minacciare i giudici. Se un giudice rilascia un piccolo truffatore e questi arriva a casa e uccide la moglie, i media accusano il giudice di essere responsabile, no? Ognuno si assuma le proprie responsabilità, i media le loro e i giudici le loro. Le carceri non possono essere piene di piccoli ladri invece che di grandi truffatori che nascondono i loro profitti astronomici in paradisi fiscali che nessuno elimina e che tutti sappiamo dove si trovano. Ogni Stato ha carceri con una certa capienza. Ebbene, non si può superare tale capienza con ladruncoli di poco conto. Non sono necessari indulti o amnistie, ma sostituire la privazione della libertà con misure non privative nei casi di minore aggressività. Tuttavia, ogni Stato non può avere più detenuti di quelli che può ospitare in condizioni minime di sicurezza della vita, integrità fisica e dignità umana. In che misura ritiene che la giustizia riparativa possa essere efficace nella riduzione della recidiva? Quali sono i limiti di questa forma di giustizia e come può essere integrata con il sistema penale tradizionale? La nostra civiltà ha riscoperto l’acqua calda: la riparazione era il metodo normale per le infrazioni minori in America prima dell’arrivo di Colombo e lo è ancora oggi in molti paesi africani, dove è il consiglio degli anziani a decidere. Si tratta di quella che oggi viene chiamata “deviazione dal processo penale”, si passa a una forma reale di risoluzione del conflitto, cioè si toglie il conflitto dal penale e lo si trasferisce alla forma di risoluzione del diritto privato. Se si vuole davvero reintegrare la vittima nella risoluzione del conflitto, e non usarla semplicemente per promuovere odio e vendetta, questa è la strada da seguire, cioè tornare all’antico. In Italia il dibattito sulla separazione delle carriere tra magistratura e politica è molto acceso. Alcuni temono che il pm finisca sotto il controllo della politica... Bisogna evitare che qualsiasi organo si sottometta al governo in carica, ma all’interno dello stesso organo nessuno potrà evitare le opinioni politiche, perché tutti gli esseri umani hanno delle ideologie. Decreto sicurezza: vince la carta della paura di Claudio Geymonat riforma.it, 11 giugno 2025 Il provvedimento, ora diventato legge, inasprisce alcune pene e introduce nuovi reati, come “rassicurazione” in un clima di inquietudine sociale: rischia di farne le spese chi e? piu? debole. Il Senato ha approvato la conversione in legge del cosiddetto “Decreto Sicurezza”, la Camera lo aveva fatto il 29 maggio, per cui la norma ora è legge. Il testo è stato duramente contestato dalle opposizioni, da associazioni ed esperti di diritto per l’introduzione di numerose nuove tipologie di reato e per l’aumento delle pene per altri reati. Ne abbiamo parlato con Marco Bouchard, ex magistrato, già presidente della seconda Sezione penale presso il Tribunale di Firenze e sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Torino, presidente della Rete Dafne Italia, rete nazionale per l’assistenza alle vittime di reato. Intanto la formula. Decreto legge invece di iter “normale”, Parlamento svilito ancora una volta, ormai abbondano i casi ma è sempre un brutto esempio di mancata discussione? “È risaputo che in tutte le democrazie il processo di formazione di leggi generali è sempre più prerogativa del potere esecutivo. L’esempio della presidenza Trump è eclatante. Mi preoccupa molto di più, oggi, la tendenza ad approvare leggi o atti con forza di legge voluti dalla maggioranza politica anche contro elementari principi costituzionali. In questo caso, a esempio, mancavano del tutto i requisiti della straordinarietà e urgenza e l’eventuale dichiarazione di incostituzionalità non potrà sanare gli effetti nefasti che nel frattempo si sono prodotti”. Il Decreto si occupa soltanto di aumentare il numero dei reati, eppure l’Italia paga multe costantemente all’Unione Europea per le carceri sovraffollate. Contraddizione al solo scopo di lanciare al proprio elettorato un messaggio securitario? “Qualunque governo di destra (e, con qualche timidezza e imbarazzo, buona parte dei governi di centrosinistra) utilizza la carta della paura per rassicurare le inquietudini sociali, promettendo pene severe ai trasgressori di ogni sorta. Questo decreto - ormai convertito in legge - contiene però un segnale importante diretto non tanto alla popolazione ma alle forze dell’ordine. Le norme prevedono aggravamenti di pena per i reati commessi in loro danno, maggiori poteri nell’esercizio delle attività repressive e la tutela legale (l’avvocato pagato dallo Stato) quando poliziotti o carabinieri siano incriminati per reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni”. Molti nuovi reati, l’impressione è che si puniscano le categorie più disagiate: accattonaggio, chi occupa case, senza dare risposte strutturali (piano case, lotta alle povertà). È così? “Questo decreto sicurezza (ora convertito in legge) è un bell’esempio di come le leggi penali vengono utilizzate non per rassicurare le persone che intendono rispettarle ma per promuovere nella cittadinanza delle emozioni e dei sentimenti negativi. A esempio, l’aggravamento di pena per le truffe agli anziani non ha alcun effetto dissuasivo verso i truffatori; al contrario, attraverso la propaganda governativa, si alimenta solo la paura tra gli anziani che, diversamente, dovrebbero essere sostenuti incrementando la loro socialità. L’aumento di pena per l’accattonaggio non protegge in nulla i minori che possono essere utilizzati dai famigliari ma alimenta il disgusto del cittadino “normale” verso quelle persone e quei gruppi umani che sempre più spesso vediamo aggirarsi nelle nostre grandi città alla ricerca di un obolo. L’abrogazione del rinvio obbligatorio della pena per le donne incinte o per le madri di prole inferiore a un anno è stata definita una scelta di politica criminale contro le borseggiatrici. Non c’era bisogno di questa norma odiosa per un fenomeno che riguarda poche decine di persone. In realtà lo scopo è di alimentare lo stigma sociale verso la popolazione rom anche a prezzo di devastare l’infanzia degli innocenti. Il risultato certo, di cui i nostri governanti sono perfettamente consapevoli, sarà un ulteriore incremento annuale della popolazione carceraria. A partire dall’insediamento dell’attuale governo si è passati in meno di tre anni da 56.000 a 62.000 detenuti, a fronte di un calo del 25% dei reati nell’ultimo decennio (Censis)”. Viene punita la resistenza passiva, un concetto su cui le chiese, a esempio le battiste americane, hanno fondato parte delle loro proteste in risposta alla violenza. La “resistenza passiva” di Martin Luther King a esempio non significava rinunciare alla propria posizione né accettare passivamente l’ingiustizia, ma resistere in modo non violento per ottenere il cambiamento… “Questa è la parte più simbolica quanto la meno efficace di tutto il pacchetto. E, forse, la più incostituzionale. Dal punto di vista giuridico il reato di resistenza passiva è una contraddizione in termini perché la resistenza - per essere considerata reato (almeno finora) - è necessariamente costituita da violenza o da minaccia. Se mancano questi elementi non si capisce quale sia e dove stia l’offesa. È la parte più simbolica perché rivela l’anima nera di un governo che non tollera il dissenso, la disobbedienza e la protesta; non sa comprendere la natura profondamente democratica della contestazione pubblica. È la meno efficace perché contiene una sfida alla democrazia che verrà certamente raccolta e il dissenso, la disobbedienza e la protesta non faranno che aumentare. Mi sembra una vera a propria regressione quando agli inizi dell’età moderna vagabondi, mendicanti, streghe ed eretici venivano variamente espulsi, messi alla gogna, eliminati. Cambiano le tecniche ma non gli obiettivi”. La nuova norma per le detenute madri è compatibile, secondo lei, con i principi costituzionali di tutela della maternità e dell’infanzia (art. 31 Cost.)? “Al di là della questione di legittimità costituzionale non riesco a capire come mai un governo che si fa alfiere del diritto alla vita del concepito, della genitorialità biologica, dei ruoli famigliari tradizionali e della maternità possa aver partorito una norma così ingiusta e odiosa. L’unica spiegazione che mi posso dare è che considera quelle donne, quei concepiti e quei bambini candidati alla carcerazione come figli di un dio minore o, addirittura, meno umani degli altri, tanto che un esponente della maggioranza ha affermato che il carcere per loro potrebbe essere meglio della vita libera. Dobbiamo, purtroppo, prendere atto che queste disposizioni segnano la fine, in Italia, del principio del “best interest of the child”. Anzi: come temo, la disapplicazione di questo principio solo per alcuni gruppi umani e la creazione di gerarchie sociali sempre più nette tra sommersi e salvati”. L’Anm oscura un magistrato e scoppia il caos: “Censura fascista” di Ermes Antonucci Il Foglio, 11 giugno 2025 Scontro al “parlamentino” dell’Associazione nazionale magistrati: il presidente Parodi fa oscurare il video dell’intervento di un componente del direttivo critico con la giunta. Alla faccia della libertà di espressione. Tanto gridarono al bavaglio che alla fine i magistrati finirono per mettersi il bavaglio da soli. Ha del surreale lo scontro andato in scena lo scorso fine settimana alla riunione del Comitato direttivo centrale (Cdc) dell’Associazione nazionale magistrati (il cosiddetto “parlamentino delle toghe”), tra urla, liti e denunce di “censura fascista”. Tutto ha preso origine da un intervento tenuto nella precedente riunione del Cdc dal magistrato di Milano Stefano Ammendola. Il 24 maggio Ammendola, esponente di Magistratura indipendente (la stessa del presidente dell’Anm Cesare Parodi), aveva preso la parola e davanti ai colleghi aveva avanzato critiche al comportamento tenuto dalla giunta esecutiva centrale, l’organo “esecutivo” dell’Anm guidato dal presidente Parodi e dal segretario Rocco Maruotti. In particolare, Ammendola (ma non era l’unico) aveva lamentato come la giunta dell’Anm avesse preso diverse posizioni pubbliche senza che in precedenza si fosse tenuto un confronto interno al Cdc. “Ai sensi dello statuto, il Cdc, l’organo democraticamente eletto, è organo deliberante permanente, mentre la giunta esecutiva centrale attua le deliberazioni del Cdc. Da tre mesi tutto questo non avviene: i comunicati della giunta non passano dal Cdc, non vengono né discussi né ratificati”, aveva sottolineato Ammendola. Il pm milanese aveva anche fatto alcuni esempi, come le critiche mosse dall’Anm al decreto sicurezza. “Non penso che l’Anm debba esprimersi sugli atti aventi forza di legge che siamo chiamati ad applicare, siamo magistrati”, aveva premesso Ammendola, facendo capire di non condividere le “stroncature” avanzate dall’Anm contro il provvedimento: “Il decreto contiene misure importantissime, come la tutela delle forze dell’ordine e il reato di occupazione abusiva degli immobili, strumento del racket della criminalità organizzata”. “Nel comunicato dell’Anm si avanzano persino profili di illegittimità costituzionale come un manifesto”, aveva detto Ammendola, prima di raccontare un fatto a dir poco increscioso (che poi ha scatenato la querelle). Ammendola aveva infatti informato i colleghi di aver ricevuto alcuni giorni prima una telefonata molto dura da parte di un componente della giunta dell’Anm, Sergio Rossetti, giudice a Milano ed esponente della corrente di sinistra Magistratura democratica: “Sono stato insultato, mi ha definito idiota e mi ha detto: ‘Noi ti delegittimeremo, ti denigreremo’”. La registrazione della riunione era stata pubblicata, come sempre accade, sul sito di Radio Radicale. Poche ore dopo però Rossetti, sentitosi toccato nell’orgoglio o addirittura diffamato, ha scritto un’e-mail al presidente Parodi chiedendo di oscurare l’intervento di Ammendola. Detto fatto: il presidente dell’Anm si è rivolto a Radio Radicale e l’intervento di Ammendola è stato secretato. Alla faccia della libertà di espressione. Questo avveniva il 24 maggio. Lo scorso fine settimana l’imbavagliato Ammendola ha giustamente sollevato la questione con parole molto chiare (“Da due settimane sto subendo una censura di matrice fascista”), ottenendo la solidarietà di alcuni - pochi - colleghi che dichiarano di non aver mai visto accadere nulla di simile. Oltre al bavaglio, però, il pm milanese ha dovuto subire anche la beffa: anziché affrontare il tema pubblicamente, il Cdc, tra grida, schiamazzi e richiami all’ordine, ha votato in favore della trattazione in via riservata (e quindi senza diretta streaming) della vicenda. Insomma, anche la discussione sul bavaglio è stata imbavagliata. Di fronte a una decisione simile, Ammendola ha deciso di abbandonare i lavori. Alla fine, il presidente Parodi ha disposto la pubblicazione dell’intervento di Ammendola che era stato oscurato, cosa effettivamente avvenuta ieri sul sito di Radio Radicale. Insomma, nell’Anm non tira una bella aria per la libertà di espressione e di critica. Dopo questa fase concitata della riunione, i magistrati sono tornati a discutere della riforma costituzionale della separazione delle carriere, accusando il governo di voler limitare l’autonomia delle toghe. I paradossi. L’avvocatura si unisca alla protesta dei magistrati di Edmondo Bruti Liberati La Stampa, 11 giugno 2025 Sulla separazione delle carriere tra giudici e pm sono note le differenti posizioni; rimango fermamente convinto delle ragioni contrarie. Ma anche chi si schiera, nel bilanciamento tra i pro e i contro, per la separazione deve misurarsi con il fatto che il Ddl governativo S 1353 ha un oggetto molto più ampio: “Norme in materia di ordinamento giurisdizionale”. Il risultato sarebbe il drastico ridimensionamento del Consiglio superiore della magistratura. Quanto avviene in alcuni Paesi europei (per non dire degli Stati Uniti) ci mostra che la proclamazione del principio di indipendenza della magistratura è cosa vana, se non sostenuta da organismi che ne garantiscano la effettività. Possono essere istituti diversamente configurati (Consigli superiori della magistratura, Consigli di giustizia o altro), ma devono essere dotati di poteri reali. Il nostro Csm viene spezzettato in due organi non comunicanti, gli si sottrae la competenza disciplinare e si affida alla sorte la scelta dei componenti. Nulla a che vedere con la ritenuta valenza garantistica della separazione delle carriere. Al di là del rischio futuro di una qualche sottoposizione del pm all’esecutivo, già oggi hic et nunc è drasticamente ridimensionato il sistema di garanzia della indipendenza della magistratura tutta, giudici non meno che pm. Lo sottolineano gli studiosi di diritto costituzionale e di ordinamento giudiziario, professori la gran parte dei quali esercita anche l’avvocatura. Due Csm separati, ma l’attività di gestione richiede coordinamento degli interventi su giudici e pm. Il sistema disciplinare, sempre perfettibile, contrariamente a quanto sostenuto in polemiche che non si confrontano con i dati, non è per nulla lassista; riesce a perseguire e anche in tempi ragionevolmente rapidi le violazioni commesse. L’Alta corte, separata dal Csm e non prevista per le altre magistrature, è strutturata con aspetti di incongruenza (il procuratore generale della Cassazione procede anche contro i giudici) e di inefficienza. Affidare al sorteggio la composizione sia del Csm sia dell’Alta corte è del tutto irrazionale. Altro è la competenza giuridica, altro è la gestione di una istituzione complessa come la magistratura. I difetti dell’associazionismo dei magistrati devono essere contrastati; l’Associazione nazionale dei magistrati e le sue correnti, che hanno mostrato di saper reagire, sono esperienze radicate nella magistratura italiana. Questa realtà non può essere azzerata: il sorteggio può portare a esiti perversi. Di qui l’appello agli avvocati tutti, quelli contrari e quelli favorevoli alla separazione, perché si esprimano contro questi aspetti, che sono il nucleo più rilevante della revisione costituzionale proposta. Non sono solo i magistrati e l’Anm ad avanzare questi rilievi. La relazione di minoranza del Csm, redatta da un componente laico, professore di diritto costituzionale e avvocato, espresso dai partiti di governo, si è espressa contro i due Csm e in favore di un organo con due sezioni distinte, ha rilevato la irrazionalità del sorteggio e ha indicato non poche incongruità nella disciplina dell’Alta corte e, prima ancora, la irrazionalità della limitazione alla magistratura ordinaria. Il costituente ha previsto per la revisione un particolare percorso di riflessione. Nel sistema bicamerale tuttora vigente è “normale” che una Camera modifichi un testo approvato dall’altra. I regolamenti parlamentari, quando vi è la volontà politica, consentono passaggi tra le due Camere rapidi. Talora fin troppo rapidi come avvenuto con la “blindatura” del decreto-legge sicurezza. L’avvocatura, che ha protestato insieme alla magistratura contro questo strappo, si unisca ora alle tante voci critiche sulla ben più grave “blindatura” di una revisione costituzionale, che precluderebbe anche modifiche su aspetti oggetto di censure diffuse e che nulla hanno a che vedere con la separazione delle carriere. Gratteri: “Violenza giovanile fuori controllo, la Camorra recluta i bambini” di Marco Figueroa scuolalink.it, 11 giugno 2025 Gratteri denuncia a Napoli una violenza giovanile fuori controllo: bambini soli di notte, famiglie assenti e reclutamento nella criminalità organizzata. Il procuratore Nicola Gratteri lancia un allarme sulla violenza giovanile fuori controllo a Napoli. Bambini soli per strada nelle ore notturne diventano facili bersagli della criminalità organizzata. Una denuncia che punta il dito contro l’assenza delle famiglie, il degrado sociale e i limiti dell’approccio repressivo, invocando anche l’uso strategico della tecnologia Gratteri: una generazione sola nelle strade - “Dove sono i genitori?”, si chiede il procuratore Gratteri, denunciando un fenomeno sempre più diffuso: minori lasciati liberi di vagare per le strade di Napoli di notte, spesso a dieci anni o anche meno. Secondo il magistrato, la mancanza di controllo familiare e l’indifferenza sociale hanno creato un terreno fertile per la crescita della violenza minorile. Bambini che vivono in strada, senza figure adulte di riferimento, finiscono per diventare vittime predestinate del reclutamento criminale, in particolare da parte della Camorra. Un sistema di abbandono che condanna in partenza intere fasce di giovani. Per Gratteri, alla base del problema vi è una crisi profonda della famiglia e del sistema educativo. “I ragazzi girano armati e usano i coltelli alla minima provocazione”, denuncia, sottolineando che non si tratta più di casi isolati ma di un modello comportamentale diffuso, che affonda le sue radici nella marginalità e nel disagio sociale. Le famiglie, quando presenti, sono spesso disfunzionali: genitori assenti, detenuti, uccisi o incapaci di esercitare il ruolo educativo. Il risultato è una generazione che cresce senza regole, senza affetto e senza alternative, dove l’unica strada percorribile sembra quella della criminalità organizzata. Gratteri riconosce il forte impegno delle istituzioni nel contenere l’emergenza. “Non ho mai visto tanta presenza delle forze dell’ordine”, afferma, riferendosi al dispiegamento di Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza nelle aree più critiche della città, in particolare nel centro storico e nei quartieri a rischio. Tuttavia, lo stesso procuratore avverte che la presenza fisica degli agenti non può essere l’unica risposta. Il controllo del territorio, infatti, risulta sempre più difficile da garantire, soprattutto di fronte a fenomeni che nascono e si alimentano nel degrado sociale e familiare. “Non basta più il presidio umano, servono più telecamere”, sostiene Gratteri, indicando nella videosorveglianza una possibile risposta concreta alla violenza minorile. Secondo il magistrato, dotare il territorio di sistemi tecnologici di controllo capillari può rappresentare un deterrente, ma anche un supporto operativo per le indagini e la prevenzione. Resta però aperta la sfida culturale: senza un cambiamento profondo nel ruolo educativo della famiglia e della comunità, nessun sistema di sicurezza potrà davvero arginare il fenomeno. La violenza giovanile è lo specchio di una crisi sociale che va affrontata alla radice, con interventi coordinati su educazione, inclusione e tutela dei minori. Detenzione di stupefacenti, gli indici sintomatici dello spaccio di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 11 giugno 2025 La Cassazione, sentenza n. 21859 depositata oggi, ha accolto il ricorso di un uomo considerando illogiche le inferenze della Corte di appello. Pronti i chiarimenti della Cassazione sulla destinazione per uso personale o a fini di spaccio della droga portata con sè in strada ed emersa durante un controllo. La Terza sezione penale, sentenza n. 21859 depositata oggi segnalata per il “Massimario”, accogliendo il ricorso dell’imputato, condannato per spaccio dalla Corte di appello di Palermo, ha affermato che la “mera detenzione di tre dosi di cocaina, suddivisa in sette bustine, in orario notturno e in una nota piazza di spaccio è elemento muto rispetto alla prova della destinazione allo spaccio, trattandosi di una condotta del tutto compatibile con l’uso personale”. Poco prima di mezzanotte, durante un servizio in abiti civili mirato alla repressione del narcotraffico, alcuni agenti di polizia giudiziaria procedettero al controllo dell’imputato che a quel punto gli consegnò spontaneamente un involucro contenente sette confezioni di cocaina, per un totale di 0,88 gr. lordi, con una percentuale di purezza del 70,41%, da cui erano ricavabili 2,96 dosi medie. Sostanza che teneva nella tasca della tuta. Per la Corte di merito la destinazione allo spaccio era desumibile dai seguenti elementi: la “rilevante” quantità; la suddivisione in dosi ma anche le “circostanze di tempo e di luogo”; il fatto cioè di trovarsi di notte in una “nota piazza di spaccio”; nonché le precedenti condanne. Di diverso avviso la Suprema corte che parla di motivazione “manifestamente illogica”. In materia di stupefacenti, ricorda la Cassazione, la prova della destinazione a uso non esclusivamente personale della droga, prova - ribadisce la Corte - che incombe sull’organo della pubblica accusa, può essere desunta da una serie di indici sintomatici, quali: la quantità dello stupefacente (n. 11025/2013), elemento che acquista maggiore rilevanza indiziaria al crescere del numero delle dosi ricavabili (n. 46610/2014); l’essere tossicodipendente; le condizioni economiche; le modalità di custodia e frazionamento; il ritrovamento di altre sostanze e/o di mezzi idonei al taglio e al confezionamento, e ancora il “luogo e le modalità di custodia” (n. 36755/2004). Non è peraltro necessario - aggiunge la Corte - che, nel singolo caso, sia accertata la sussistenza di tutti gli indici sintomatici sopra citati, purché tuttavia la destinazione “sia appurata, oltre ogni ragionevole dubbio, sulla base di uno o più elementi chiaramente indicativi della finalità di spaccio”. Valutazione che compete al giudice di merito che terrà conto di tutte le circostanze “oggettive e soggettive del fatto”. Infine, la sentenza chiarisce che la prova dell’uso personale, come quella della sua destinazione allo spaccio, “può essere desunta da qualsiasi elemento o dato indiziario che, con rigore, univocità e certezza, consenta di inferirne la sussistenza attraverso un procedimento logico adeguatamente fondato su corrette massime di esperienza”. E allora, tornando al caso specifico, per il giudice di legittimità, autorizzato a sindacare il giudizio di merito “soltanto sotto il profilo della mancanza o della manifesta illogicità della motivazione”, dagli indizi riportati, anche se “unitariamente considerati”, non si può inferire la destinazione allo spaccio, “considerando che il quantitativo sequestrato, pur suddiviso in sette confezioni, pari a nemmeno tre dosi, è del tutto minimale e che, durante il servizio di appostamento precedente al controllo, l’imputato non è stato visto avere alcuna interazione con terzi, così come del tutto neutri sono le circostanze di tempo e di luogo e i precedenti penali dell’imputato”. La sentenza è stata così annullata senza rinvio perché il fatto non sussiste mancando un elemento costitutivo del reato, vale a dire la destinazione a terzi della sostanza stupefacente. Firenze. 94enne in cella per reati fiscali: “Concessi i domiciliari, ma è deperito” di Valentina Marotta e Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 11 giugno 2025 Cambia il giudice, l’anziano esce dal carcere. Il figlio: “Mio padre deperito in cella”. Il garante aveva fatto appello a Nordio. È stato scarcerato martedì pomeriggio l’uomo di 94 anni detenuto a Sollicciano, che potrà scontare la pena per bancarotta fraudolenta - risalente a circa 15 anni fa - ai domiciliari. Il suo avvocato aveva presentato istanza di differimento della pena per motivi di salute o in alternativa l’applicazione della detenzione domiciliare, misura destinata per legge agli ultrasettantenni. L’istanza era stata però respinta dal giudice di sorveglianza Claudio Caretto. Nelle ultime ore, per migliorare le sue condizioni detentive, l’uomo era stato trasferito nel carcere Mario Gozzini, adiacente a Sollicciano. È così cambiato il giudice di sorveglianza, non più Caretto ma Elisabetta Pioli, che ieri ha concesso gli arresti domiciliari. Ad attendere l’uomo fuori dal carcere c’erano i figli: “In pochi giorni ho trovato mio padre deperito - il primo commento di uno dei figli - a quasi 94 anni, con evidenti fragilità fisiche e cognitive, non avrebbe mai dovuto vivere nemmeno un giorno in una cella sovraffollata e in condizioni che non sono compatibili con la sua età e il suo stato di salute”. “Questa vicenda - continua- ha messo in evidenza in modo brutale lo stato delle carceri italiane e le contraddizioni del nostro sistema giudiziario. Mio padre, incensurato e privo di pericolo sociale, è stato detenuto in condizioni estreme, in un ambiente non attrezzato né fisicamente né umanamente per una persona della sua età. Purtroppo, questa vicenda lascia dietro di sé anche una profonda amarezza. Sollicciano, come molte altre carceri italiane, rappresenta oggi un luogo dove la dignità umana è messa a dura prova, non solo per chi è detenuto ma anche per chi ci lavora. Le condizioni igieniche, l’assistenza sanitaria, gli spazi e le risorse disponibili non sono in grado di rispondere a una detenzione giusta e rispettosa. E ancora più grave è quando a essere colpiti sono soggetti fragili e anziani come mio padre. Sconfortante è vedere che tra i magistrati c’è chi interpreta la legge in modo rigido, punitivo e cieco alla realtà, arrivando a decisioni che appaiono più vicine a una forma di accanimento che a un’effettiva funzione rieducativa o riparativa della pena”. Il garante regionale dei detenuti Giuseppe Fanfani si era appellato, ieri mattina, al ministro della Giustizia: “Siamo di fronte a una cosa inumana, indegna di un Paese sedicente civile. Non avrei mai creduto di vedere in oltre 50 anni di avvocatura un 94enne in carcere. Sostenere che un 94enne sia pericoloso socialmente è un assurdo. Ritenerlo compatibile con il carcere è inconcepibile”. Questo è un sistema malato che non ammette umanità”. Soddisfatta per la scarcerazione Fatima Ben Hijji, presidente di Pantagruel, che sin dall’inizio si era attivata in supporto di una pena più umana: “Una persona anziana e con malattie certificate non poteva vivere dentro il carcere. Ho incontrato l’uomo e l’ho visto provato, sono felice che possa scontare la pena a casa”. “Mi auguro che questa vicenda possa contribuire a far riflettere sul senso della detenzione nel nostro Paese - conclude il figlio dell’uomo - sulla condizione delle carceri e sulla necessità di una riforma profonda che le trasformi in luoghi capaci di rieducare, non di annientare. Mio padre oggi è a casa. Ma resta il pensiero, amaro, per tutte le persone che continuano a vivere in quelle condizioni per anni, spesso nel silenzio e nell’indifferenza generale. Lecce. Non ha un alloggio per i domiciliari, 82enne resta in carcere di Stefania Congedo norbaonline.it, 11 giugno 2025 L’82enne, domenica scorsa, ha ucciso nel sonno la moglie Amalia. Litigavano perché lei rifiutava le cure per il diabete. Resta in carcere Luigi Quarta l’82enne che domenica scorsa a Lecce ha ucciso nel sonno la moglie Amalia Quarta di un anno di più anziana. Il gip Stefano Sala al termine dell’interrogatorio di convalida ha confermato la custodia cautelare in carcere. Un ricorso alla detenzione carceraria dettato unicamente dal fatto che la casa dove è avvenuto il delitto è sotto sequestro e non avendo figli o parenti non ci sono al momento luoghi idonei per disporre gli arresti domiciliari come in prima istanza aveva chiesto anche il pm per via dell’età. In queste ore si sta cercando la disponibilità di un istituto. Nel corso dell’interrogatorio di garanzia alla presenza del proprio legale Augusto Pastorelli, l’anziano ha confermato quanto raccontato già ai carabinieri. Lamentando come fosse diventato gravoso accudire la moglie e convincerla ogni giorno a seguire la terapia per il diabete a cui lui era l’unico a provvedere. Una malattia che aveva cambiato anche il carattere della donna rendendola come dichiarato aggressiva e suscettibile. Da qui i continui litigi. L’83enne avrebbe anche riferito di essersi rivolto in passato anche ai servizi sociali per chiedere aiuto, e di essersi recato in Questura ma le sue lamentele a suo dire non sarebbero state ascoltate. Vigevano (Pv). La lettera dei detenuti: “Trattati come bestiame” Il Giorno, 11 giugno 2025 Grido d’allarme nero su bianco dai reclusi nella Quinta Sezione. Appello alla direzione dell’istituto, al ministro Nordio e al Garante. I detenuti della Quinta sezione del carcere di Vigevano lanciano un grido d’allarme, denunciando una “situazione insostenibile” nell’istituto di pena. In una lettera di reclamo indirizzata a numerose autorità - dalla Direzione del carcere al ministro della Giustizia passando per Garanti dei diritti dei detenuti e associazioni umanitarie - chiedono il rispetto della dignità umana e l’applicazione della Costituzione e del regolamento penitenziario. Lo rende noto Guendalina Chiesi, vicepresidente dell’associazione Quei Bravi Ragazzi Family, dopo un colloquio con due suoi assistiti, detenuti nel carcere di Vigevano da cui ha appreso della lettera depositata ieri - Chiesi ha annunciato che si recherà in Procura - in cui gli oltre 45 firmatari, contattati a loro dire dalla Direzione del carcere, denunciano che nella loro sezione, a regime chiuso, vige una “sorta di isolamento mascherato”, dove “i criteri di passaggio alle sezioni a regime aperto sono del tutto incomprensibili”. Le condizioni descritte sono allarmanti: “Assenza di arredi essenziali come tavoli, sedie, ventilatori e televisori, mancanza di accesso a opportunità lavorative, di studio e ricreative nonostante queste siano previste dalla legge. Non stiamo chiedendo di essere viziati, ma di scontare la nostra pena con dignità e nel rispetto di quanto previsto dalla legge, senza essere trattati come bestiame”, dichiarano i detenuti. Le denunce si estendono all’area sanitaria, dove i detenuti lamentano di non essere chiamati per le visite e di dover ricorrere a proteste estenuanti per ottenere assistenza. “Dobbiamo sperare di non avere un malore”, affermano sottolineando la grave carenza di controlli medici, che invece dovrebbero essere quotidiani. La Direzione del carcere è inoltre accusata di “indifferenza fuori dal comune” e di applicare un regolamento “da regime”. E ancora: i detenuti segnalano la presenza di zecche nei materassi e nei vestiti, acqua fredda e lurida, feci nelle stanze e lenzuola macchiate di sporco. Le celle vengono lasciate in condizioni “da schifo”. I farmaci vengono consegnati nelle mani dei detenuti senza involucro né scatola. Tra le altre problematiche, l’assenza di personale qualificato; la carenza di beni di prima necessità come asciugamani e servizi di barbiere; difficoltà nell’ottenere farmaci, con ritardi di settimane anche per un semplice mal di testa e l’incertezza sulla tipologia di farmaco somministrato; ostacoli alle chiamate per le visite familiari e agli avvocati, con moduli e permessi spesso negati limitando di fatto il diritto alla difesa; gravi carenze strutturali come bagni intasati, finestre rotte, perdite d’acqua ovunque e un impianto luminoso non funzionante da oltre un anno; mancanza di frigoriferi e freezer, che compromette la corretta conservazione degli alimenti. Forlì. Istituzione del Garante dei detenuti. “Sentiamo le associazioni coinvolte” Il Resto del Carlino, 11 giugno 2025 Stavolta il centrodestra ha presentato una propria mozione, che è passata. Ma non senza polemiche: l’opposizione è uscita dall’aula (come era accaduto a parti invertite). “Così è inutile”. In Consiglio comunale si è tornati a parlare del garante dei carcerati. Nella precedente seduta la maggioranza, uscendo dall’aula, aveva vanificato la richiesta del centrosinistra di istituirlo; ieri il centrodestra ha votato una propria mozione che rinvia il tema alla commissione Welfare, con l’impegno di sentire le associazioni coinvolte alla Rocca. Ma la polemica non si è placata: stavolta è l’opposizione che è uscita dall’aula al momento di votare. “Una mozione inutile - attacca la capogruppo di Alleanza Verdi e Sinistra, Diana Scirri - anche perché per convocare una commissione basta un quinto dei suoi componenti. Oltretutto lo avevamo detto all’inizio del mandato che il tema della struttura penitenziaria fosse uno di quelli da approfondire in seno alla terza commissione”. Il dubbio, sollevato apertamente dai consiglieri dem, “è che la nostra mozione sia stata bocciata per ordine di partito, perché Fratelli d’Italia non vuole il garante”. Un tema tribolato quello del garante, infatti, già nel 2017, come hanno sottolineato più esponenti della maggioranza, il Movimento 5 Stelle aveva presentato una mozione simile all’allora maggioranza dem, “che dopo 8 mesi di discussione - ha ricordato il capogruppo di Fratelli d’Italia, Fabrizio Ragni -, l’ha bocciata”. Due consigli fa, la discussione non si tenne, perché i consiglieri di maggioranza abbandonarono l’aula, tutti tranne Damiano Bartolini, facendo così decadere il numero legale. Nella discussione è intervenuto anche il presidente della terza commissione, il forzista Alberto Gentili, che ha ricordato come la figura del garante a livello comunale sia facoltativa, mentre è obbligatoria a livello regionale. Alla conta dei voti, con accuse reciproche di voler politicizzare questa mozione, la stessa è passata con i voti (14) di maggioranza, mentre i 12 componenti dell’opposizione non hanno partecipato al voto. “Ci impegniamo comunque a firmare la convocazione della commissione - hanno chiosato i consiglieri dell’opposizione - e a partecipare ai lavori, ma questa mozione non ha senso perché chiede al consiglio di impegnarsi da solo a convocare una commissione, una cosa senza senso”. Milano. Giustizia riparativa, il valore del rapporto tra vittime e autori di reato di Silvia Donnini sky.it, 11 giugno 2025 Le carceri italiane affrontano oggi una fase complessa, tra sovraffollamenti e allarmante aumento dei suicidi da parte dei detenuti. Negli istituti penitenziari, però, nascono anche progetti positivi, come il Gruppo della Trasgressione che, instaurando un dialogo tra detenuti e familiari delle vittime, favorisce il processo di riparazione. Ne hanno parlato a Live In Milano 2025 Angelo Juri Aparo, psicoterapeuta, Paolo Setti Carraro, familiare di vittima di mafia, e Francesco Cajani, pubblico ministero. Le carceri in Italia affrontano oggi una fase molto complessa. Al grande problema del sovraffollamento, si aggiungono le condizioni degradanti nelle celle e, soprattutto, l’allarmante aumento dei suicidi da parte dei detenuti. All’interno degli istituti penitenziari, però, prendono forma anche progetti positivi, capaci di donare speranza favorendo il processo di riparazione e il reinserimento sociale. È il caso del Gruppo della Trasgressione che, nato 28 anni fa, ha l’obiettivo di far sì che “il detenuto, invece che parlare con lo psicologo in un colloquio finalizzato alla sua uscita, parli con altri detenuti della sua storia, di quello che sente, di quello che vive”, ha spiegato a Live In Milano 2025 Angelo Juri Aparo, psicoterapeuta e fondatore del Gruppo stesso. Oltre ad Aparo, a prendere parte all’evento di Sky Tg24, in particolare al panel “Giustizia riparativa”, sono stati Paolo Setti Carraro, medico e familiare di una vittima di mafia che da anni frequenta il Gruppo, e Francesco Cajani, pubblico ministero a Milano e membro del comitato scientifico de Lo Strappo - Quattro chiacchiere sul crimine. Ad accompagnare l’incontro anche Andrea Spinelli, il primo illustratore giudiziario italiano che, con il suo tratto grafico, ha rappresentato molti dei più importanti processi negli ultimi anni a Milano. Il Gruppo della Trasgressione Fondato dallo psicoterapeuta Angelo Juri Aparo, il Gruppo della Trasgressione è nato “dopo diciotto anni che facevo lo psicologo del Ministero della Giustizia in carcere a San Vittore”, ha raccontato a Live In Milano 2025. “È nato fondamentalmente perché i detenuti che parlavano con me parlavano chiaramente e comprensibilmente con lo scopo di ottenere da me una relazione che, mescolata con altre relazioni, doveva essere utile alla concessione del permesso della misura alternativa. Il detenuto che parlava con me parlava con uno scopo, che era quello di essere riconosciuto compatibile con la misura alternativa. Ma questo mi impediva di capire, di sentire quello che era effettivamente la vita del detenuto”, ha spiegato Aparo. Quindi il Gruppo della trasgressione è nato “per fare in modo che il detenuto parlasse con altri detenuti della sua storia, di quello che sente, di quello che vive. E in effetti, dialogando con gli altri detenuti, veniva fuori più facilmente quello che la persona sente, i suoi fallimenti, le sue speranze, i suoi conflitti”. Negli anni il Gruppo si è allargato, aprendosi a studenti, cittadini e familiari delle vittime. È il caso di Paolo Setti Carraro, fratello di Emanuela Setti Carraro che morì nella strage di via Carini a Palermo del 3 settembre del 1982, insieme al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e la scorta. “La sintesi della mia vita, delle mie esperienze di vita è che, quando un dramma di queste dimensioni colpisce una famiglia, colpisce gli elementi della famiglia in maniera molto diversa, perché siamo persone diverse. Quello che è successo a me è che, rispetto a mia madre e mio padre che avevano una visione e avrebbero voluto quasi santificare Emanuela, io ne apprezzavo di più gli aspetti umani, le fragilità, i dubbi, gli errori”, ha raccontato a Live In. “Questo mi ha portato a una separazione rispetto alla famiglia e a un accantonamento della elaborazione del lutto che è durato tantissimo, è durato più di 30 anni. Quando i miei sono scomparsi, quando io ho finito una parte estremamente impegnativa della mia vita come chirurgo, ho sentito il bisogno di fare una scelta di vita. E a questo punto ho cominciato, insieme con una decina di altri familiari, un percorso con psicologi e mediatori penali per elaborare”, ha spiegato Setti Carraro. Durante il percorso, “ognuno ha avuto l’opportunità di raccontarsi e siamo arrivati a un punto in cui abbiamo sentito l’esigenza di fare un salto, di andare dall’altra parte - ognuno con il suo carico di dolore - a incontrare gli altri, a incontrare persone detenute con il loro carico di dolore, frutto dei loro errori, frutto della detenzione. E siamo partiti da poli molto lontani”, ha detto commosso. “Il percorso è stato quello di cercare di incontrarsi, di avvicinarsi a metà strada: persone con pari dignità umana. Non abbiamo mai chiesto a nessuno l’articolo, il crimine, abbiamo visto soltanto persone desiderose di rileggere la loro esperienza e di emanciparsi, di rileggere la loro vita, non come giustificazione ma come processo di presa di coscienza, di responsabilizzazione rispetto ai loro passati”. La giustizia riparativa Durante il panel si è parlato anche di giustizia riparativa e dei progetti per avvicinare gli studenti al mondo carcerario. “Anche prima di diventare magistrato ho sempre pensato che il carcere dovesse essere utile anche per chi sta fuori, non solo per chi recluso sta dentro”, ha detto Francesco Cajani intervenendo nel corso del panel. “Se il carcere è un pezzo di società civile, è un’istituzione che deve essere utile. Mi veniva naturale accompagnare dei ragazzi in carcere, anche perché il carcere della nostra città sta in centro”, ha aggiunto. Il magistrato ha poi raccontato la sua esperienza a contatto con il Gruppo della Trasgressione. “Ormai più di 20 anni fa ho conosciuto, portando dei giovani 18-19 anni in carcere, il Gruppo della trasgressione. Lì è iniziato quell’incontro. Noi abbiamo cercato di fare quell’esperimento: i ragazzi entravano e a un certo punto - per citare Don Tonino Bello - non vedevano il mostro, vedevano il nostro, cioè quella carne, quella parte del tessuto sociale. Ogni tanto ricordo quel patto che ho fatto con Yuri che ho definito il ‘patto dei macellai’. Da una parte io portavo della carne fresca, giovane e lui sul banco del Gruppo della Trasgressione aveva la carne meno giovane, ma sempre disposta a farsi tagliare a pezzetti. Questo è il lavoro del gruppo”, ha spiegato Cajani. L’incontro tra studente e detenuto “assume una funzione, un ruolo”, ha detto il magistrato. “Dopo due o tre anni qualche detenuto ha chiesto il primo permesso, non per riuscire ad andare dalle loro famiglie, ma per andare nelle scuole. In classe i detenuti hanno fatto molto di più in tre ore di tutto quello che il corpo docenti aveva fatto in tre anni. Poi c’è stato il viaggio che ci hanno proposto i familiari delle vittime, che a loro volta cercano lo sguardo dell’altro in un’ottica della giustizia riparativa”, ha aggiunto Cajani. La storia di Vincenzo, membro del Gruppo della Trasgressione Durante il panel è stata trasmessa anche l’intervista a Vincenzo, detenuto nel carcere di Opera che da 14 anni partecipa al Gruppo della Trasgressione. “Per me questi incontri rappresentano una crescita evolutiva del pensiero della persona e del detenuto stesso, che serve per ricucire quello ‘strappo’ che ogni detenuto avrebbe rotto, il patto sociale con la società”, ha raccontato Vincenzo. Che valore ha quindi l’incontro tra un detenuto e una persona che ha subito il reato? “Quando le persone vengono a conoscere ‘chi ha fatto il danno’ è proprio perché è il dolore che accomuna entrambi, sia il carnefice che la vittima. Senza di questo vivrebbero male sia l’uno che l’altro. È ovvio che per chi ha subito reato il dolore è molto più grave, però aiuta a far riflettere chi ha commesso reato affinché non lo commetta più”, ha precisato il detenuto aggiungendo che “chi ha subito il reato vuole far capire al detenuto che c’è qualcosa che si può salvare sempre, anche in chi commette il reato”. Il Gruppo della Trasgressione “serve a far capire che bisogna scegliere l’opposto di quello che si è scelto quando si è arrivati in galera, è ovvio. Si può scegliere se si vuole”, ha concluso Vincenzo. Si può scegliere, se si vuole? Commentando le parole di Vincenzo sulla possibilità di scegliere, Aparo ha sottolineato che “si può scegliere tra quello che gli occhi sono in grado di vedere e la mente è in grado di pensare. Diversamente, come si fa a scegliere quello di cui non si ha idea?”. Poi ha precisato: “Questo è un tema centrale. Tutte le persone o quasi tutte le persone che finiscono in carcere ci arrivano dopo una vita vissuta secondo uno stile deviante, e lo stile deviante in verità non viene scelto. Ciò che si sceglie, lo si sceglie all’interno di un’atmosfera mentale che la persona però non sceglie di avere. Questo è il concetto. Noi scegliamo questo o quello, ma non scegliamo l’atmosfera mentale, le emozioni che proviamo. Le emozioni che proviamo nella nostra mente vengono su dall’amore che riceviamo, dalle condizioni che viviamo”. In questo senso, il Gruppo della Trasgressione “aiuta a scegliere, perché progressivamente allarga gli orizzonti della mente e delle emozioni: più sono ampi questi orizzonti, maggiore sarà la gamma delle scelte possibili”, ha rimarcato lo psicoterapeuta. Il contributo dei familiari delle vittime Nella sua intervista Vincenzo ha detto: “Il dolore accomuna entrambi, sia il carnefice che la vittima. È ovvio che per chi ha subito reato il dolore è molto più grave, però aiuta a far riflettere chi ha commesso reato affinché non lo commetta più”. Qual è quindi il contributo che i familiari delle vittime possono offrire al cambiamento e alla società? Secondo Paolo Setti Carraro, “il cambiamento, l’evoluzione, l’emancipazione è reciproca”. L’incontro con i detenuti è “un processo che innesca delle reazioni, che innesca dei pensieri, delle riflessioni, delle emozioni e la crescita è reciproca. Entrare in carcere significa essere riusciti finalmente a lasciare andare il rancore, essere testimoni di un cambiamento possibile per i familiari delle vittime. Significa anche guardare alla possibilità di restituire alla società dei cittadini”, spiega Carraro. “Noi non abbiamo obiettivi, non abbiamo lezioni da insegnare, non abbiamo principi da far sposare. Funzioniamo come una via di mezzo tra il lievito e il catalizzatore. Siamo in grado di interagire con delle persone, veniamo riconosciuti come vittime. Il riconoscimento è importante”. Il dialogo tra familiari delle vittime e detenuti è quindi “un confronto tra persone di pari dignità: persone, non individui. La persona, al di là dell’individuo biologico, è dotata di emozioni e di pensiero. Lo scambio di emozioni e di pensieri arricchisce tutti”. Poi conclude: “Ogni giorno, all’uscita dal carcere, siamo tutti più ricchi. Chi rimane all’interno del carcere ha occasioni, desideri o voglia di riflettere, di pensieri, di confrontarsi e di arricchirsi. Questo credo che sia il senso principale della presenza di familiari delle vittime all’interno del carcere, perché la nostra sicurezza dipenda dalla qualità delle persone che escono dal carcere e non dal numero delle carceri o dagli spazi all’interno del carcere”. La giustizia tradizione e la giustizia riparativa, le differenze Durante l’incontro si è affrontato anche il tema della differenza tra la giustizia tradizionale e la giustizia riparativa. Cos’è che le distingue? “È lo sguardo”, risponde Cajani. “La giustizia tradizionale ha queste categorie, cioè una responsabilità per un fatto: una persona viene condannata per quel fatto, per quel reato, e quella persona può stare in carcere e non dire niente, non pensare nulla, non guardare nulla. Lo sguardo alla giustizia riparativa è uno sguardo diverso, è una responsabilità verso qualcun altro”, spiega il magistrato. “Non basta, per fare la giustizia riparativa, mettere un tavolo e un detenuto da una parte. C’è un lavoro”, sottolinea. E ricordando l’arrivo del gruppo dei familiari delle vittime in carcere, Cajani ha aggiunto: “Quando i familiari hanno bussato alla porta del gruppo nel 2016, hanno fatto un lavoro grandioso: dare il nome a quel dolore”. La principale differenza tra giustizia riparativa e tradizionale sta nel fatto che “la giustizia tradizionale è capace, nel bene e nel male, di aggiungere al dolore inflitto, il dolore della pena. La giustizia riparativa fa sì invece che il dolore di detenuti e familiari delle vittime siano messi insieme per cercare di riparare, di rimarginare quella ferita del tessuto sociale”. Ascoli. Il cardinale Zuppi: “Rieducazione possibile dando lavoro ai detenuti” di Flavio Nardini Il Resto del Carlino, 11 giugno 2025 Convegno sul tema della speranza: “Guai a dimenticare i suicidi, l’obiettivo è recidiva zero”. Il garante dei diritti della persona delle Marche: “Sovraffollamento e carenza di personale”. “La speranza è attraversare le difficoltà perché ovunque e per ognuno c’è un diritto alla luce e a un futuro diverso”. Con queste parole il cardinale Matteo Maria Zuppi, arcivescovo metropolita di Bologna e presidente della Conferenza Episcopale Italiana, ha chiuso ieri nel carcere di Marino del Tronto il convegno sul tema ‘Giustizia e speranza, carcere e territorio’, un momento di riflessione sulla realtà carceraria, organizzato dalla Diocesi di Ascoli, San Benedetto del Tronto, Ripatransone e Montalto. L’ospite d’onore era proprio il cardinale, che ha pazientemente atteso gli interventi di tutti i relatori, prima di sviluppare il suo momento di riflessione. “Siete molto diversi e non è scontato mettersi insieme per parlare - ha detto Zuppi rivolgendosi a chi lo aveva preceduto e agli interventi con opposte visioni, dal Garante dei diritti della persona delle Marche Giancarlo Giulianelli al direttore del Dipartimento salute mentale territoriale Angelomarco Barioglio, passando per Rosa D’Arca dell’associazione “Volontari in carcere” al vescovo Palmieri, fino al sindaco Marco Fioravanti e l’assessore regionale Filippo Saltamartini -. Il dibattito così si fa più interessante senza scadere nelle ideologie. Chi entra qui a volte perde la speranza, ma la deve trovare. Il territorio fa la differenza”. La parola d’ordine della mattinata è stata rieducazione. Un concetto difficile pensando alle condizioni delle nostre carceri: “C’è ignavia nel sistema penitenziario delle Marche che soffre di sovraffollamento nelle carceri e un insufficiente numero di agenti e personale sanitario - la sentenza del garante Giancarlo Giulianelli - Nelle Marche sono detenute 967 persone a fronte di una capienza complessiva di 840. A questo si aggiunge la carenza di personale. È importante il lavoro per la rieducazione, una scelta che un detenuto può cogliere per cambiare la propria vita. C’è un progetto per poter inserire i detenuti nei cantieri del terremoto dopo un corso di formazione e ci sono imprese pronte ad accoglierli”. Il lavoro come fattore chiave è stato portato ad esempio anche da Zuppi, che ha indicato come carcere modello quello di Bologna dove “c’è una fabbrica dentro. È stata fatta da quattro imprenditori che si sono uniti e così chi dimostra di saper lavorare dentro, una volta fuori, sarà assunto. Ma non è facile come sembra. La speranza ha un prezzo, bisogna investirci nella speranza. Purtroppo, solo il 24% dei carcerati italiani è impegnato in attività lavorative. È troppo poco, come sono pochi gli educatori impegnati negli istituti di pena. Su questo dobbiamo fare tutti di più, in special modo i Ministeri di Giustizia e della Salute che devono comunicare fra loro di più e meglio”. Giorgio Rocchi, direttore della Caritas di Ascoli, ha introdotto i vari interventi, ricordando il motto della polizia penitenziaria: “Despondere spem munus nostrum, che significa ‘Garantire la speranza è il nostro compito”. Speranza, quella di cui ha parlato il vescovo Gianpiero Palmieri: “Perché ci sono tanti motivi per averla anche qui, in un posto con tante problematiche. Questo non deve essere solo un luogo di espiazione, ma di riparazione”. La direttrice del carcere, Daniela Valentini, ha evidenziato “il percorso fatto da alcuni detenuti che hanno colto opportunità, non bisogna demordere”. Secondo il sindaco Marco Fioravanti la speranza “può nascere nei luoghi di dolore”, mentre l’assessore Filippo Saltamartini ha parlato della sua passata esperienza in polizia: “Mettere una persona dietro le sbarre è stata un’esperienza traumatica che ancora porto dentro, ma dobbiamo saper distinguere tra il male e chi vuole essere rieducato”. Gli ha fatto eco il direttore dell’Ast, Antonello Maraldo: “Ricordo ancora la mia prima visita in un carcere durante una gita universitaria. Non si scorda facilmente”. Il direttore del Dipartimento salute mentale territoriale Angelomarco Barioglio si è poi soffermato sui problemi dell’Atsm (Articolazione per la Tutela della Salute Mentale): “La difficoltà di queste strutture è crescente. Ad Ascoli ci sono problemi gravi e questo rende difficile poter garantire l’opera terapeutica ai pazienti del carcere dove ci sono molti soggetti con patologie psichiatriche: causa principale l’insufficienza del personale e delle risorse. Purtroppo abbiamo avuto episodi sempre più frequenti di aggressioni ad agenti della polizia penitenziaria e a sanitari. Auspichiamo quindi attenzione e collaborazione dai Ministeri della Giustizia e della Sanità, prima che la situazione degeneri”. Un pericolo messo in evidenza anche dal garante Giulianelli: “Prima o poi rischiamo di piangere qualcuno”. Rosa D’Arca, dell’associazione “Volontari in carcere”, si è soffermata sull’esperienza dei volontari, e di quanto sia importante questo ruolo per chi è dietro le sbarre: “L’apertura del Giubileo nel carcere di Rebibbia da parte di Papa Francesco è stato un momento potentissimo. Il volontario diventa punto di riferimento, l’ascolto presuppone la sospensione del giudizio”. “Il giudizio va sospeso, sì - ha aggiunto Zuppi - ma non per questo bisogna dimenticare cosa è stato fatto in precedenza. Semmai bisogna rendere possibile che quanto successo non diventi l’ultima parola. L’obiettivo ambizioso deve essere la recidiva zero, dobbiamo fare di tutto”. Sul fenomeno dei suicidi il cardinale ha rimarcato: “Sono come i morti sul lavoro, ci colpiscono nell’immediato, ma poi tendiamo a dimenticarcene, ci abituiamo, ma sono talmente in aumento che non possiamo non interrogarci sul perché accadono”. Rimini. Carcere in condizioni “inidonee”, lavori per tre milioni di euro riminitoday.it, 11 giugno 2025 Complessivamente la Casa circondariale, a maggio 2024, contava 152 persone detenute, il 53% stranieri, su una capienza regolamentare di 118 e tollerabile di 165, con un ulteriore aumento nella stagione estiva. La prima sezione della casa circondariale di Rimini versa in condizioni “inidonee”, tra umidità, muri scrostati e celle anguste, alcune delle quali con il bagno senza aerazione, tanto che diversi detenuti “preferiscono esservi reclusi”. Infatti le condizioni non confortevoli e il pessimo stato di manutenzione determinano “un risarcimento nei termini di diminuzione di un giorno di pena su 10 scontati”. È la situazione che riporta la parlamentare di Fratelli d’Italia Domenica Spinelli in una interrogazione al ministro della Giustizia, Carlo Nordio, sui Casetti di Rimini. Nella quale la parlamentare chiede conto dei lavori di ristrutturazione della sezione, definita dall’Ausl Romagna “pericolosa per la salute”, una “situazione non risolvibile con ordinaria manutenzione”. Complessivamente la casa circondariale, a maggio 2024, contava 152 persone detenute, il 53% stranieri, su una capienza regolamentare di 118 e tollerabile di 165, con un ulteriore aumento nella stagione estiva. C’è “la necessità di migliorare lo stato della casa circondariale - conclude Spinelli - per ragioni di tutela della salute, della dignità delle persone, per garantire la sicurezza ed evitare disordini”. Così come di “un potenziamento dell’organico della Polizia penitenziaria”. “Il sistema carcerario rappresenta una priorità di questo governo”, risponde il guardasigilli, con uno stanziamento di oltre 250 milioni di euro per recuperare 7.000 posti. La casa circondariale di Rimini, entra nel merito, è stata sottoposta, nel corso degli anni, a diversi interventi di ristrutturazione, che hanno consentito di adeguare tutte le sezioni, fatta eccezione per la prima, che ha una capienza di 23 posti. Nel programma di edilizia penitenziaria 2024 è stato inserito un intervento specifico di “manutenzione straordinaria” da un milione di euro: è stata ultimata la progettazione esecutiva ed è in corso l’attività di verifica. Inoltre, per assicurare l’esecuzione di ulteriori interventi edilizi, è stato firmato, il 5 dicembre 2024, un “accordo tra pubbliche amministrazioni per la realizzazione di interventi di miglioramento della casa circondariale di Rimini”, stanziando un importo complessivo di 1,8 milioni di euro. A cui si aggiungono i “lavori di manutenzione straordinaria alle coperture della caserma agenti”, per 365.000 euro. “In questo caso i lavori sono stati affidati all’impresa il 23 agosto 2024 - dice il ministro Nordio - hanno avuto inizio il 2 settembre e il loro termine di ultimazione è stato previsto in complessivi 120 giorni”, decorrenti dal 19 febbraio scorso per una perizia di variante da 40.500 euro. Intanto nel corso del 2023 sono stati installati nuovi impianti di videosorveglianza per 241.000 euro. Per quanto riguarda l’assistenza sanitaria, continua il ministro, il presidio psicologico è attivo sulle 24 ore, nell’arco di quasi tutta la settimana. E l’Ausl Romagna si è impegnata ad assicurare sei ore di presenza dello psichiatra ogni settimana, suddivisi in due ingressi. L’attenzione sul tema dell’assistenza sanitaria nazionale anche psichiatrica è “generale”, rimarca. In particolare con due progetti: “Integrando mediazione 2024” da un milione di euro, per incrementare l’assunzione di mediatori culturali in favore dei detenuti stranieri; “Integrando osservazione 2024” da quattro milioni per l’incremento delle assunzioni di esperti dell’ordinamento penitenziari. Oltre a un’integrazione di cinque milioni per le spese di osservazione psicologica dei detenuti. I progetti e i finanziamenti in corso in Emilia-Romagna, conclude Nordio, “non riguardano esclusivamente la casa circondariale di Rimini, ma sono finalizzati alla creazione di nuovi posti detentivi nell’ambito dell’intero distretto”: alla casa circondariale di Bologna, con un nuovo padiglione da 150 posti a cura del ministero delle Infrastrutture e alla casa circondariale di Forlì con un nuovo istituto penitenziario da 250 posti. Allo stato, risultano essere in corso, anche le procedure di riappalto dei lavori della casa circondariale di Ferrara, con la previsione di un nuovo padiglione da 80 posti, finanziato dal Pnrr, la cui ultimazione è prevista entro il 2026. Sul fronte del personale, infine, in Emilia-Romagna, per il ruolo di funzionari giuridico-pedagogici, a fronte di un organico previsto di 59 unità, ne sono presenti 57, con una pianta organica “pressoché completa”. Pavia. Due cani insieme ai detenuti: “Con loro addio ai brutti pensieri” di Manuela Marziani Il Giorno, 11 giugno 2025 “Il cane ti distrae e ti fa dimenticare i brutti pensieri”. Un detenuto di Torre del Gallo sintetizza così che cosa significhi per lui partecipare a “Qua la zampa”, progetto nato nel 2020 per promuovere lo sviluppo di approcci integrati al problema della detenzione attraverso la relazione con gli animali. “L’idea è portare i cani in carcere - spiega Angela Gregorini, assessore al Benessere aninale che ha lavorato con Giampaolo Anfosso che ha la delega alla Partecipazione e alla Sanità - affinché i detenuti se ne prendano cura, diano un senso alla loro permanenza in carcere e imparino le responsabilità”. Due i cani coinvolti, Asia e Stella, provenienti dall’abbandono, da quattro anni residenti nel carcere di Pavia. All’inizio avevano uno spazio apposito attrezzato e i detenuti provvedevano al mantenimento e alle cure. Dall’anno scorso vivono nello stesso ambiente dei reclusi condividendo con loro abitudini e orari. Stella inoltre è stata già certificata nel 2022 come idonea alla pet therapy per cui entra anche in area psichiatrica con le educatrici. “Abbracciare il cane è troppo bello”, sussurra un detenuto. “A Voghera dove sono stata direttore - sottolinea Stefania Mussio, che dirige Torre del Gallo - abbiamo inaugurato quattro postazioni per accudire altrettanti cani del canile comunale. Quando sono stata trasferita a Lodi, abbiamo adottato due Labrador poi andati a una famiglia. A Pavia ho trovato un’iniziativa già in corso”. Prendendosi cura dei cani, l’équipe di lavoro ha riscontrato miglioramenti dei detenuti coinvolti nella comunicazione con lo staff medico, nel tono dell’umore, nell’alleanza terapeutica e un’emergente curiosità nel sostegno terapeutico alternativo che contribuisce ad aumentare la motivazione al cambiamento. Milano. Studenti in scena nel carcere di Bollate, il musical “è senza barriere” di Andrea Ceredani Avvenire, 11 giugno 2025 I ragazzi dell’istituto milanese Leone XIII (dove aveva studiato anche Acutis) hanno portato tra i detenuti lo spettacolo “The Greatest Showman”. “Occasione per toccare i cuori e cambiare le vite”. Sul palco cantano e ballano 55 attori tra i 14 e i 19 anni: è il loro Greatest show, tratto dal quasi omonimo musical che nel 2017 ha girato i cinema di tutto il mondo. Dietro le quinte si muovono con loro almeno altrettanti tra aiutanti, costumisti, tecnici e registi. Sulle loro teste, seguendo il ritmo della musica, danza affacciato alla finestra un detenuto. Di fronte agli interpreti, si trova una platea di centinaia di persone recluse nel carcere di Bollate, entusiaste di trascorrere, dopo anni, una serata all’aria aperta. Per alcuni, è la prima in assoluto. Altri piangono per l’emozione. Tutti applaudono e si alzano in piedi durante gli inchini finali. Padre Vitangelo Denora, presidente dell’istituto gesuita Leone XIII (lo stesso dove aveva studiato il beato Carlo Acutis), ha definito “un incontro di vita e speranza” quello tra i suoi alunni e i detenuti della casa circondariale di Bollate, che giovedì scorso ha ospitato il musical studentesco The Greatest Showman. “In questa cornice - racconta il religioso ad Avvenire, mentre ancora il pubblico applaude i giovani attori - si tocca l’umanità ferita e nuda. Quando ci si incontra senza barriere, come oggi, succede qualcosa di sacro e meraviglioso. Queste cose cambiano un po’ il mondo e la nostra storia”. Prima dell’apertura del sipario, alcuni detenuti hanno aiutato gli attori e la troupe a organizzare il palco provvisorio. Durante lo spettacolo, poi, il pubblico ha pianto, riso e ballato. “Era come averli sul palco con noi - commenta il protagonista Paolo, dopo l’ultimo inchino -. Ci siamo sentiti accolti dal momento in cui siamo entrati: tutti i carcerati erano solari, avevano voglia di partecipare. È stato il pubblico più partecipativo che abbiamo avuto”. Secondo la giovane attrice Cecilia, solo un musical come The Greatest Showman avrebbe potuto creare un legame tanto stretto con un pubblico di detenuti: “Diversità, inclusione, discriminazione. In questo spettacolo c’è tutto - commenta -. Si tratta di una storia da cui loro si sono sentiti molto rappresentati. Portare un messaggio così grande dentro a un carcere è stato molto emozionante per me”. A parlare con il pubblico, pare che le intenzioni degli studenti non siano cadute nel vuoto. “Guardando loro che recitavano - commenta Giacomo (nome di fantasia) - ci siamo resi conto che dentro al carcere viviamo una “non realtà”. Alcune scene hanno colpito i detenuti più di altre: “Quando ho visto la città che urlava “mostri” ai personaggi in scena - racconta Cristiano (nome di fantasia) - ho pensato a quanto tempo è passato da quando vivevo in società e ho immaginato il distacco che ormai c’è tra le persone che vivono fuori e noi, che abbiamo vissuto dentro così a lungo. Anche noi ci sentiamo mostri”. È per colmare questa distanza, tra la vita che scorre fuori e quella che si ferma dentro al carcere, che Bollate organizza queste serate: “Il nostro compito è dare un’opportunità a tutti - conclude l’educatrice Catia Bianchi - e spesso, più di tante parole, a cambiare la vita delle persone è un libro o, appunto, uno spettacolo teatrale”. Il mondo del carcere nel libro del magistrato Giordano di Giuseppe Muolo romasette.it, 11 giugno 2025 Il romanzo “Mio giudice” presentato a San Saturnino. L’autore: “L’emergenza più grave è il sovraffollamento”. La voce dell’ex detenuto Rocca: “La fiducia, primo gradino verso la libertà”. Il magistrato Franco Scala viene colpito da una grave forma di maculopatia degenerativa. Sasha Iannitto conduce invece una vita costellata da esperienze detentive, intramezzate a periodi di libertà. Le loro strade si intrecciano. Due mondi agli antipodi, due modelli di vita, l’uno cresciuto nella devianza e l’altro nella legalità, imparano a confrontarsi e a coesistere. Un giudice dal volto umano e un reo in cerca di riscatto viaggiano, così, all’interno di una varia umanità, tra periferie e quartieri della Roma bene, tribunali e carceri, crimine e legalità, malavita e istituzioni. Un percorso in cui fede e disabilità si confrontano con le difficoltà della vita. È la trama del romanzo “Mio giudice” (Mursia) di Alessandro Giordano, magistrato di sorveglianza, che è stato presentato ieri, 10 giugno, nella parrocchia di San Saturnino Martire, nel quartiere Trieste. “Perché loro e non io?”, il tema dell’incontro, ispirato alle parole di Papa Francesco. “Il libro è nato dalle lettere e dagli incontri con le persone in carcere - ha spiegato Giordano -. Molte di loro provengono da realtà difficili, di deprivazione e di povertà. Sono emerse tante storie di umanità che ho trasfuso in una forma romanzata per non far riconoscere i protagonisti. È un romanzo che parla dell’importanza di ascoltare e tendere la mano. Ho visto numerosi detenuti che hanno trovato la forza di affrontare la vita con uno sguardo diverso grazie alla vicinanza di educatori e cappellani”. Dalle pagine emergono anche le difficili condizioni degli istituti penitenziari. “Le emergenze più gravi sono costituite dal sovraffollamento - ha sottolineato l’autore -. Mancano gli spazi per le attività rieducative e formative. C’è tanto volontariato, così come tanto impegno da parte delle forze di polizia, ma le strutture vecchie, il personale insufficiente e il numero eccessivo dei detenuti rendono la vita veramente difficile”. Lo sa bene Fabio Rocca, ex detenuto, che ha portato la sua testimonianza. “Dormivamo in sei persone in stanze pensate per quattro - ha raccontato -. Usavamo il bagno per fare tutto, anche per cucinare, per leggere, per lavare i panni. Poi manca l’ascolto. Ci sono persone come me che passano gli anni nella più completa solitudine. Non ricevevo visite, né colloqui. In tanti mi hanno voltato le spalle. Il Signore mi ha dato la grazia di resistere”. Fabio oggi è libero. “È possibile migliorare se hai la fortuna e l’intraprendenza di afferrare le poche cose che il carcere ti offre - ha aggiunto -. Ho preso due diplomi, ho partecipato a un corso di scrittura e di lettura espressiva, e a uno spettacolo teatrale. Sono queste le gioie della vita, quelle che ti danno le scosse di adrenalina pulita. La fiducia è il primo gradino verso la libertà”. La presentazione è cominciata con i saluti del parroco, don Ricardo Reyes, che ha definito la presentazione del romanzo come “un’occasione per tutti per prendere sempre più consapevolezza delle difficoltà all’interno del carcere”. All’incontro, che è stato moderato da Roberto Monteforte, giornalista e volontario a Rebibbia, è intervenuto anche Stefano Ricca, già direttore penitenziario. “Il libro descrive perfettamente la situazione in Italia - ha detto -. È impossibile parlare di rieducazione laddove si ammassano corpi in uno spazio limitato. Mancano le aule per l’istruzione, per i laboratori e per le visite delle famiglie. Questa è una delle tragedie del sistema penitenziario. Il carcere dovrebbe essere l’indice di civiltà di un Paese. Ma sembra non interessare a nessuno”. “Usciamo dalle nostre gabbie interiori”: la verità libera i detenuti di Giorgio Paolucci Avvenire, 11 giugno 2025 “Il Sinodo è arrivato anche tra queste mura. Quando papa Francesco l’ha indetto, ho chiesto ai miei amici detenuti cosa si aspettano dalla Chiesa e quale contributo vogliono portare. Ci vediamo qui ogni settimana: oggi è l’incontro numero 142, è una ricchezza per tutti noi”. Padre Gabriele mi accoglie nella cappella della Casa circondariale “Ettore Scalas” di Cagliari Uta, mezz’ora di auto dalla città, un carcere scomodo da raggiungere sia per chi ci lavora sia per i parenti che arrivano in visita. Uno dei tanti costruiti lontano dai centri abitati in ossequio alla logica securitaria che vuole tenere alla larga un mondo che invece ha bisogno più che mai di stringere rapporti con chi vive “fuori”. Nel 2021 è nato un gruppo sinodale formato da una trentina di ristretti (la composizione è variabile perché ogni tanto, per fortuna, qualcuno torna in libertà), diventato un luogo di confronto e amicizia che porta ossigeno alle menti e ai cuori: “Così i detenuti vivono l’esperienza di una Chiesa che si fa vicina, dove anche loro possono essere protagonisti mettendo in comune le fatiche e testimoniando il desiderio di cambiamento - spiega il sacerdote, arrivato qui 9 anni fa dopo 8 di missione in Brasile -. All’inizio non è stato facile imparare ad ascoltarsi e a valorizzare l’esperienza degli altri, c’era sempre in agguato la tentazione di affermare ognuno la propria idea. Nel tempo hanno capito che il cammino sinodale riguarda anche loro e che il rapporto con “l’altro” è qualcosa di necessario. Partecipano anche alcuni musulmani: stimano chi prega Dio, apprezzano la possibilità di confrontarsi con quanti vivono un’esperienza religiosa, confrontano le pagine della Bibbia con alcune sure del Corano. Tra gli italiani, molti hanno ricevuto un’educazione cristiana ma è quasi sempre un ricordo che si perde nel passato. Qui trovano la possibilità di verificare se la fede aiuta a vivere anche nella condizione carceraria. Alcuni diventano veri samaritani e aiutano i “nuovi giunti” (quelli appena arrivati) che spesso rimangono disorientati in un ambiente sconosciuto e a volte ostile. E capita che alcuni siano testimoni del Vangelo verso i compagni”. È accaduto così a Salvatore, che si è lasciato alle spalle una vita affettiva disordinata e segnata dalle dipendenze, fino a una serie di gravi reati che l’hanno portato in cella. “Dopo un’esperienza disastrosa nel carcere di Badu ‘e Carros, dove cocaina e alcol circolavano senza problemi e rischiavano di peggiorare la mia situazione, l’arrivo qui a Uta ha segnato una svolta nella mia detenzione. Sono grato a ispettori, assistenti, educatori che hanno aiutato il mio percorso, e a quelli che chiamo “volontari dal volto coperto”, le persone meravigliose che ci regalano tempo e attenzione facendo trasparire nei loro gesti il volto di Gesù, quel Gesù conosciuto da bambino ma smarrito nella mia esistenza incasinata”. L’amicizia con i volontari e la partecipazione al gruppo sinodale ha acceso la luce nel buio di Salvatore, che è diventato testimone “contagioso” del suo cambiamento con i compagni di detenzione. Con uno di loro, in carcere con l’accusa di femminicidio, è nata un’amicizia che si è rivelata decisiva. “Mi sono ricordato di una frase del Vangelo di Giovanni - “la verità vi farà liberi” -, e una sera gli ho detto: “se sei innocente porta avanti la tua causa finché vivi, ma se sei colpevole devi trovare pace nel cuore, e puoi farlo solo se dici la verità e riconosci la tua colpa. Prega, chiedi a Dio di indicarti la strada”. Il giorno dopo mi ha abbracciato piangendo: aveva deciso di andare dal magistrato per confessare il reato sempre negato. Mi ha detto: “grazie a te sono uscito dalla gabbia in cui mi ero rinchiuso”. Ma io so che non è stato merito mio: il Signore mi ha usato come strumento per farsi presente al mio compagno”. Anche per Giovanni la partecipazione al gruppo sinodale è diventata una tappa decisiva del cambiamento. Condannato per abusi su un minore, si è sempre proclamato innocente e vittima di una vendetta da parte di alcuni parenti, in questi anni è diventato l’angelo custode del suo compagno di cella colpito dal morbo di Parkinson, assistendolo giorno e notte in ogni necessità. “La mia condanna è ingiusta, sto ancora combattendo per fare emergere la verità e ottenere giustizia, e per anni mi sono domandato: se non ho mai fatto del male a nessuno, che ci faccio qui? Nel rapporto con il mio concellino (il compagno di cella, ndr) mi sono convinto che l’unico motivo per cui sono in carcere è essere al servizio di quella persona, fargli vedere che Dio si manifesta in ogni circostanza. Ti sembro strano, vero? Ma nulla accade senza una ragione”. Storie di contraddizioni mai sanate e di vite cambiate, come tante altre raccontate negli incontri del gruppo sinodale, dove si capisce che l’uomo non è il suo errore e che anche nella detenzione si può fare l’esperienza della libertà. “Potrebbe suonare come un paradosso - osserva padre Gabriele -, ma su questo tema hanno scritto perfino una canzone. Dice: “Siamo qui ma in fondo liberi dentro, liberi di viaggiare ogni volta con la mente, liberi di volare con la fantasia, di sentirci ancora uomini liberi”. Vicente, che recentemente si è aggiunto al gruppo, nota: “Mi piace partecipare perché si parte dalla vita concreta, non da princìpi astratti. Qui incontriamo chi guarda con amore le nostre ferite, e diventiamo capaci di guardare le ferite degli altri. Però vorremmo essere accolti, così anche quando torniamo liberi, nelle parrocchie e nelle comunità cristiane”. Un episodio emblematico dello spirito che anima il gruppo si ritrova nella lettera scritta mesi fa ai genitori di Filippo Turetta, il giovane reo confesso dell’omicidio di Giulia Cecchettin: “Conosciamo il vostro dolore. Con le nostre famiglie abbiamo percorso sino in fondo tutte le stazioni del vostro Calvario (...). Siate vicini a Filippo, non abbandonatelo un solo istante, non giudicatelo. Dategli speranza quando andrete a trovarlo. Non manchi il sorriso sul vostro volto e la forza calorosa di un abbraccio. Mentre le corti e i sinedri discutono su quali e quante leggi occorra ancora promulgare per assecondare l’onda emotiva nazionale, nel vostro sorriso e nel vostro abbraccio Filippo riconoscerà la legge che davvero ha violato: le legge dell’amore per il nostro prossimo che ha nell’amore coniugale l’elevazione più alta che conduce a Dio (...). Siamo vicini al grande dolore della famiglia di Giulia, che comprendiamo e che ci tocca nel profondo del cuore”. Seguendo il consiglio dell’arcivescovo di Cagliari, Giuseppe Baturi, la lettera venne inviata a papa Francesco, che nella sua risposta al gruppo sinodale scriveva: “Mi ha fatto bene percepire la vostra vicinanza con i sofferenti. Solo la forza di Dio, la misericordia, può guarire certe ferite. E dove alla violenza si risponde con il perdono, la vicinanza e la compassione, là anche il cuore di chi ha sbagliato può essere vinto dall’amore che sconfigge ogni forma di male. E così, tra le vittime e tra i colpevoli, Dio suscita autentici testimoni e operatori di misericordia”. Recentemente un magistrato di sorveglianza ha menzionato la partecipazione al cammino sinodale come uno degli elementi che hanno portato all’ordinanza di scarcerazione di un detenuto. Padre Gabriele legge l’episodio come “il riconoscimento da parte delle istituzioni del ruolo educativo svolto dalla Chiesa all’interno del sistema carcerario. È un merito civile che si aggiunge al contributo che queste persone offrono al rinnovamento della Chiesa. Abbiamo bisogno di loro, dalle periferie si capisce di più che Gesù è vicino a chi soffre”. La mafia teme più la scuola della giustizia di Alex Corlazzoli scarpdetenis.it, 11 giugno 2025 Raccontare chi ha lottato contro la criminalità organizzata è un dovere civico. Come scriveva Gesualdo Bufalino: “Se un giorno la mafia sarà sconfitta sarà debellata da un esercito di maestri”. “Il film I cento passi è ricco di contenuti e immagini caratterizzati da emozioni negative come rabbia, odio, disprezzo, paura ed angoscia. La proposta del maestro ci sembra piuttosto audace quindi a nostro parere, solo un confronto con tutte le parti guidato dalla competenza di uno psicologo, potrebbe esserci d’aiuto per valutare l’opportunità o meno di fare visionare a bambini di dieci anni questa pellicola”. Così mi scriveva qualche tempo fa un genitore di fronte alla proposta di vedere in una classe quinta della primaria, l’opera dedicata a Peppino Impastato. A lui si erano aggregati altre mamme e papà preoccupati per i contenuti dell’opera del regista Marco Tullio Giordana. Il 21 marzo di ogni anno, l’associazione Libera con il ministero dell’istruzione, promuove la Giornata della Memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie. Un’iniziativa istituita dal Parlamento, su proposta di don Luigi Ciotti, dal 2017. Una di quelle manifestazioni che vanno benedette, soprattutto in un momento storico come questo dove a qualcuno fa paura parlare di mafia, far conoscere le tragiche storie di giornalisti, magistrati, forze dell’ordine, preti, sindacalisti, bambini, amministratori ammazzati dalla criminalità organizzata. Rimozione della memoria - C’è in atto una pericolosa rimozione della memoria che parte proprio - per assurdo - dalla famiglia e dalla scuola. Basta prendere in mano un sussidiario di geografia di quinta primaria per rendersene conto: le pagine dedicate alla Sicilia ignorano completamente Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, nei libri delle medie diventano poco più di una riga. Non parliamo di altri nomi che sono ai più sconosciuti: Beppe Fava, Mauro Rostagno, don Beppe Puglisi, don Beppe Diana, Emanuele Basile, Rocco Chinnici, Gaetano Costa e potrei continuare con una lunga lista. C’è una responsabilità individuale dei docenti e dei dirigenti - prima di quella collettiva - con la quale dobbiamo fare i conti. L’eco delle stragi di mafia del 1992 sembra essersi quasi sopito grazie all’oblio e alla complicità dell’ignoranza di una politica ossessionata dal gender, che se la prende con Walter Veltroni per aver raccontato nel libro La più bella del mondo (dedicato alla Costituzione) la storia di Pio La Torre. Da bambino per andare a scuola metteva le uniche scarpe che aveva, quelle della zia. Per fortuna, ad andare in soccorso a questo clima, c’è il prezioso lavoro dell’editoria che non smette di pubblicare libri dedicati ai ragazzi che raccontano la vita di chi ha lottato contro la mafia. Mille vittime di mafia - Di fronte a questo scempio, abbiamo bisogno di un processo di coscientizzazione che parta dai sindaci delle nostre città. Ogni paese, ogni frazione, ogni città dovrebbe, coinvolgendo le scuole, intitolare una via, una piazza, un parco, un parcheggio, una scuola, un’aula, a una delle oltre mille vittime di mafia dal dopoguerra ad oggi. Raccontare questa storia del nostro Paese è un dovere civico, anche perché la criminalità organizzata non è stata sconfitta ma continua a operare in ogni regione d’Italia. Conoscere le mafie non è una questione d’educazione civica ma è fare storia, geografia, diritto, matematica, economia, letteratura. Scriveva Gesualdo Bufalino: “Se un giorno sarà sconfitta, sarà debellata da un esercito di maestri”. E qualche anno più tardi, Antonino Caponnetto, l’erede dello storico pool antimafia cui avevano fatto parte Falcone e Borsellino diceva: “La mafia teme la scuola più della giustizia, l’istruzione toglie erba sotto i piedi della cultura mafiosa”. Dopo il referendum. Ora un quesito per tutti: come si ritrova il senso della politica? di Danilo Paolini Avvenire, 11 giugno 2025 Da qualunque prospettiva si osservi l’esito del voto c’è poco da stare allegri e molto da apprendere. È ora che la disaffezione degli italiani alla partecipazione democratica venga presa in esame. Poco meno di un terzo degli aventi diritto ha dunque scelto di votare per i cinque referendum in materia di leggi sul lavoro e di cittadinanza. Era la soglia minima di affluenza, il 30%, individuata alla vigilia dai promotori, soprattutto dai partiti del cosiddetto “campo stretto” (Pd, M5s e Avs) per poter dire di non avere del tutto fallito il bersaglio. Circa 13 milioni i voti per il Sì ed è stato sottolineato che sono 700mila in più di quelli che, alle ultime elezioni politiche, hanno consentito a Giorgia Meloni di essere incaricata dal presidente della Repubblica di formare il Governo in carica. Allo stesso tempo la percentuale è talmente distante dall’agognato quorum del 50% più uno degli aventi diritto al voto (in cui probabilmente nessuno dei protagonisti ha mai creduto veramente) da far rivendicare alla maggioranza di centrodestra, che aveva in larga parte suggerito agli elettori di starsene a casa, al mare o ai monti piuttosto di recarsi ai seggi, una vittoria politica e una disfatta del fronte avversario. A cose fatte e a urne chiuse, poi, addosso a Elly Schlein e soci è caduta la pioggia gelida delle critiche amiche: quelle dell’area riformista dem, di Calenda e di Renzi. Certo è che, da qualunque prospettiva si osservi l’esito di questi referendum, c’è poco da stare allegri e molto da apprendere. A patto di avere la volontà, innanzi tutto politica, di volerlo fare. Si può senz’altro pensare di cambiare le regole, come del resto si è già cominciato a teorizzare: alzare il numero minimo delle firme necessarie per proporre un referendum abrogativo (la soglia fissata in Costituzione è di 500mila) perché con la raccolta on line tutto è diventato più facile; abbassare il quorum necessario per rendere valido il risultato; parametrarlo all’affluenza delle ultime elezioni; miscelare il tutto... Ma, a parte il fatto che per i quesiti sul lavoro la Cgil ha raccolto ben quattro milioni di firme (non soltanto digitali), siamo proprio sicuri che il problema sia nelle regole e non, piuttosto, nella disaffezione degli italiani alla partecipazione democratica? Soprattutto alla partecipazione “dal basso”, in cui si decide se mantenere o cancellare determinate norme di legge? E abbassare il quorum non sarebbe come arrendersi, prendere atto cioè che a votare vanno in pochi e andranno sempre in pochi, forse ancora meno di oggi? Non è come allargare la porta perché non si riesce a fare gol? È vero infatti che astenersi è un’opzione del tutto legittima, tuttavia ci piacerebbe davvero poter credere che il 70% dei non votanti di domenica e lunedì l’abbia esercitata come critica alla formulazione dei quesiti o in dissenso rispetto ai temi scelti, piuttosto che per indifferenza, sfiducia, paura o volontà di far fallire l’iniziativa. Una motivazione, quest’ultima, che si è letta chiaramente nelle dichiarazioni pre e post voto di esponenti di primissimo piano del Governo e della maggioranza, sarebbe ingenuo credere che in un quadro politico polarizzato come il nostro i militanti/sostenitori più convinti del centrodestra non abbiano seguito quelle indicazioni. Quanto all’indifferenza e alla sfiducia, le si può scorgere nell’affluenza sotto la media nazionale in alcune zone del Paese più duramente toccate dalla precarietà del lavoro e dalla sua insicurezza: evidentemente il messaggio semplificato “meno precarietà e più sicurezza” veicolato dalla Cgil non ha sfondato. Così come non è riuscita a convincere l’informazione sulla proposta di dimezzare i tempi per la cittadinanza di stranieri adulti, maggiorenni e già in possesso di tutti gli altri requisiti di legge per diventare italiani: i No espressi da chi è andato a votare, più numerosi che per gli altri quesiti, testimoniano una paura e un’ostilità che preoccupano, alimentate non di rado da fantasmi agitati per propaganda. Ma un Paese che voglia confrontarsi serenamente su temi concreti avrebbe bisogno di un Parlamento che torni a essere luogo di autentico confronto e di decisioni anche condivise. Sarebbe possibile, come ha dimostrato l’occasione mancata l’anno scorso alla Camera sullo Ius Scholae. Sarebbe onorevole, molto di più che puntare in primo luogo all’affondamento dell’avversario. E potrebbe essere la molla per restituire anche ai cittadini la voglia di partecipare. Quell’odioso teatrino sui nostri diritti di Flavia Perina La Stampa, 11 giugno 2025 Il vertice di maggioranza sul fine vita di ieri ha fatto notizia per due cose che non c’entrano niente col tema, e cioè la lite tra Lega e Forza Italia e in materia di terzo mandato e pace fiscale: non è che l’ultimo segnale di un’agenda dei diritti che resta ostinatamente irrilevante, dimenticabile, chiusa malgrado tutto, comprese le dichiarazioni di intenti dei leader. Si sa, ad esempio, che Antonio Tajani è favorevole allo Ius Culturae, cioè la cittadinanza ai bambini di origine straniera che hanno fatto due cicli scolastici in Italia. E però quell’orientamento resta lì, nel limbo dei desideri espressi ad alta voce, senza nessuno che lo prenda sul serio (pure Giorgia Meloni, in altre ere, era d’accordo, ma ora che governa figuriamoci). Sul diritto dei malati a rifiutare una vita non più dignitosa, insostenibile, la Lega ha persino legiferato in Veneto, la sua roccaforte, ma poi non se ne è fatto niente perché con un gioco d’aula si è preferito affossare una legge che sembrava già fatta. Stesso copione per l’adozione da parte di coppie dello stesso sesso, che in teoria è citata da tutti come alternativa alla fecondazione eterologa (per le donne) o all’utero in affitto (per gli uomini), ma senza che si faccia un tentativo in quella direzione, e nemmeno un dibattito serio. Non è un problema che riguardi solo la destra. Durante la sua lunga stagione a Palazzo Chigi anche la sinistra si è ritratta da questi argomenti assai concreti, preferendo cavalcare una generica sensibilità “woke” che conservava il profumo del progressismo senza averne la sostanza: governare le evoluzioni della società trovando soluzioni nuove a problemi nuovi. L’insuccesso clamoroso del referendum sulla cittadinanza, forse il più attuale tra quelli proposti agli italiani, conferma la confusione che c’è anche da quella parte e la trasversalità dell’Italia reazionaria. Il “modello Orban” non è prerogativa dei soli elettori della destra, e non sono solo i leader della destra ad avere paura della fascia di elettorato ostile a ogni avanzamento dei diritti sociali e individuali. Grazie al cielo abbiamo fatto in altri tempi la legge sul divorzio, la riforma del diritto di famiglia e la 194. Oggi la politica metterebbe in un eterno stand by pure quelle, col terrore di perdere il consenso del generico benpensantismo di una parte dell’elettorato. E già siamo fortunati ad aver conservato quei tre caposaldi, senza i passi indietro che pure sono stati tentati (ad esempio con il disegno di legge di Simone Pillon, agli esordi del primo governo di Giuseppe Conte, con il pieno sostegno del Movimento Cinque Stelle). Ma stare fermi già concretizza un arretramento. Non c’è molto tempo per mettere mano a un serio progetto di integrazione delle seconde generazioni prima che il modello dell’esclusione diffonda rancore, revanchismo, addirittura odio verso una patria d’adozione che ti tiene ai margini. Non c’è molto tempo per arginare la fuga collettiva dei giovani italiani verso orizzonti che appaiono più aperti nel riconoscimento delle libertà individuali, oltre che più remunerativi. E tuttavia, la parola d’ordine resta fare melina. Vertici che non portano a niente, dichiarazioni di principio senza conseguenze, leggi scritte e disfatte, una generale logica del vorrei ma non posso che è il contrario del coraggio politico ostentato in ogni occasione e della propensione all’estremismo che gli osservatori annotano con preoccupazione. Ma dove, ma quando? Estremismo, per il governo, sarebbe dire un no senza appello a questi nuovi diritti: non ci interessano. Estremismo, per l’opposizione, sarebbe farne campo di battaglia, produrre proposte di legge e cavalcarle. L’agenda dei diritti così irrimediabilmente chiusa, irrilevante, dimenticabile, e al tempo stesso teoricamente viva nei palazzi della politica, alla fine dimostra soprattutto una cosa: la renitenza di tutti a uscire dalle rispettive comfort zone e misurarsi con la categoria del conflitto su cose serie, rischiandone le conseguenze. Fine vita, ora il Governo apre: verso una proposta unitaria di Francesco Grignetti La Stampa, 11 giugno 2025 Nel corso della riunione convocata a palazzo Chigi sarebbe emersa l’ipotesi di creare un comitato etico nazionale. Dopo lo stallo registrato nei mesi scorsi qualcosa sembra muoversi sul fronte del fine vita. Secondo quanto si apprende da fonti parlamentari, infatti, nel corso della riunione convocata a palazzo Chigi dalla premier Giorgia Meloni per discutere del tema, sarebbe emersa l’ipotesi di dar vita a un comitato etico nazionale, i cui componenti vengano nominati attraverso un Dpcm, che abbia voce in capitolo sul coinvolgimento del Servizio sanitario nazionale (Ssn) sui casi di fine vita e sulla necessità di garantire le cure palliative in tutto il territorio nazionale. Al vertice che si è tenuto all’ora di pranzo nella sede del governo assieme a Meloni erano presenti i due vicepremier, e segretari di FI e Lega, Antonio Tajani e Matteo Salvini, il leader di Noi moderati Maurizio Lupi e anche i ministri della Giustizia, della Famiglia e della Salute, Carlo Nordio, Eugenia Roccella e Orazio Schillaci. Starà adesso alla maggioranza in Parlamento, viene riferito dalle stesse fonti, tradurre le ipotesi di lavoro in un testo base da esaminare nelle commissioni Giustizia e Affari sociali di palazzo Madama. Il comitato ristretto, come annunciato dal presidente della 10/ma commissione del Senato, Francesco Zaffini (FdI), tornerà a riunirsi martedì prossimo, mentre il provvedimento è atteso in Aula il 17 luglio. Quella emersa dal vertice di maggioranza, conferma sempre Zaffini, è una “pista da percorrere data al massimo livello a palazzo Chigi e su quella lavoreremo per arrivare in Aula con un testo massimamente condiviso”. La volontà del centrodestra di andare avanti compatti sul dossier è ribadita anche da Tajani. La legge sul fine vita, spiega il ministro degli Esteri dopo il confronto a Chigi, “va fatta rispettando le indicazioni della Consulta. Mi sembra ci sia un intendimento comune. La maggioranza è unita su questo”. “Non esiste il diritto al suicidio e noi siamo per le cure palliative”, sottolinea quindi il leader di FI, ribadendo che “andremo avanti con la proposta unitaria del centrodestra, stanno lavorando gli uffici per affinare le cose”. A rispedire al mittente l’impostazione immaginata dalla maggioranza sono tuttavia Pd e M5S. “Oggi scopriamo che su un tema che dovrebbe essere lasciato alla libertà di coscienza dei parlamentari vuole mettere le mani il governo: grazie ad un accordo di maggioranza arriverebbe in Senato un testo blindato che non sarà modificato - attacca il presidente dei senatori dem Francesco Boccia -. Siamo di fronte ad una scelta intollerabile, in una logica da Stato apostolico che promuove addirittura un Comitato etico nazionale promosso da Palazzo Chigi. Questa destra ha in mente una sorta di regime teocratico: prima l’idea del premierato, ora la verità spirituale di maggioranza, che vuole controllare in modo autoritario ogni aspetto della vita pubblica e privata. Ma dove siamo arrivati?”. Sulla stessa linea anche il capogruppo pentastellato Stefano Patuanelli: “Troviamo delle regole comuni per intervenire sul tema perché sentirsele imporre dal governo è inaccettabile. Faremo una battaglia parlamentare perché non possiamo subire nuovamente l’umiliazione del potere esecutivo”. Secondo i partecipanti al vertice, a Chigi non sarebbe invece stato affrontato il discorso delle prossime elezioni regionali con annesso nodo legato al terzo mandato dei governatori. “Non ne abbiamo parlato” ammettono sia Salvini sia Tajani, con quest’ultimo che però ribadisce in modo netto la chiusura di FI: “Noi siamo contrari al terzo mandato, è la nostra posizione, poi siamo pronti a dialogare e ascoltare sempre tutti. Gli altri devono però anche ascoltare le nostre ragioni. Sono incrostazioni di potentati che rischiano di essere dannosi per i cittadini”. Secondo il titolare della Farnesina, peraltro, riaprire adesso il discorso “diventa una cosa piuttosto complicata, non si può fare alla vigilia del voto. E poi lo devi fare per i sindaci”. Nei giorni scorsi Fratelli d’Italia aveva dato la disponibilità a discutere del tema, mentre chi da sempre spinge per togliere il vincolo dei due mandati è la Lega, con Salvini che tornerà a ribadirlo domani in occasione del Consiglio federale convocato nel primo pomeriggio alla Camera. Fine vita, l’idea di un Comitato etico per “dribblare” il Servizio sanitario di Francesca Spasiano Il Dubbio, 11 giugno 2025 Dopo il vertice di maggioranza che si è tenuto ieri a Palazzo Chigi, spunta l’ipotesi di un coordinamento nazionale per le richieste di suicidio assistito. Un’idea ci sarebbe, per superare il nodo più “pesante” emerso sul fine vita: affidare tutto a un comitato etico nazionale, nominato attraverso un Dpcm, in modo che non siano le singole asl a gestire le richieste. Il nodo in questione riguarda proprio il ruolo del servizio sanitario nazionale, che Fratelli d’Italia vorrebbe escludere del tutto: metterlo nero su bianco sarebbe complicato, e infatti il centrodestra non ha ancora trovato la quadra sul punto. C’è chi non cede, chi resta scettico. E l’ostacolo piomberà, ancora una volta, sul tavolo del Comitato ristretto delle commissioni Affari sociali e Giustizia a Palazzo Madama, che dovrebbe riunirsi di nuovo martedì prossimo. “Salvo problemi relativi al numero dei partecipanti, perché si tratta di commissioni riunite”, precisa il meloniano Francesco Zaffini, presidente della decima Commissione. L’incontro, comunque, dovrebbe segnare la svolta: i due relatori Pierantonio Zanettin di Forza Italia e Ignazio Zullo di FdI potrebbero arrivare al Comitato con un testo, dopo mesi di fumate nere. Perché la proposta va scritta, ma l’accordo c’è. Almeno sembra: qualunque cosa abbia in mente la maggioranza, a dettare la linea è il governo, con la riunione che si è tenuta ieri a Palazzo Chigi. C’erano i vicepremier Antonio Tajani e Matteo Salvini, il capo politico di Noi moderati Maurizio Lupi, il ministro della Giustizia Carlo Nordio e - pare - la ministra della Famiglia Eugenia Roccella e il sottosegretario Alfredo Mantovano. I leader del centrodestra concordano su un fatto: la legge sul suicidio assistito va fatta e arriverà in aula al Senato come previsto, il 17 luglio. Il testo dovrà seguire le indicazioni della Corte Costituzionale, spiega Tajani. Che parla di “intendimento comune” : “Non esiste il diritto al suicidio, noi siamo per le cure palliative - dice - andremo avanti con una proposta unitaria del centrodestra” . Quale sia la posizione della Lega sul tema non è dato saperlo, e lo stesso Salvini, lasciando la sede del governo, si è lasciato andare a un laconico “con calma”. La riunione era appena finita e i telefoni ancora “muti”. Poche ore dopo sarebbero filtrate le ipotesi emerse al vertice di maggioranza, tra cui, appunto, l’istituzione di un comitato etico nazionale a cui spetterebbe la decisione nei percorsi di fine vita. “Una proposta che già i partiti e i gruppi conoscevano da tempo”, commenta Zanettin, e sulla quale “mi pare che ci sia stata una larga condivisione” . Il numero stimato dei casi da esaminare sarebbe al momento considerato compatibile con un organo che agisce su base nazionale, dunque, ma è prematuro parlare delle figure professionali che dovranno farne parte e che saranno selezionate probabilmente dalla presidenza del Consiglio dei ministri. L’idea del senatore azzurro è quella “di dar vita a un testo asciutto, che cerchi di coniugare le sentenze della Corte con i principi etici ai quali anche il centrodestra si ispira”. Senza entrare nei dettagli. Solo così, per Zanettin, “è possibile trovare una convergenza ampia in Parlamento”. L’altro nodo riguarda le cure palliative, che dovranno essere garantite ugualmente a tutti i pazienti e su tutto il territorio nazionale. Ma non è chiaro in che modo si potrà aggirare la stessa indicazione della Consulta sul ruolo del Servizio sanitario nazionale, a cui la Corte chiede di garantire pronta e concreta attuazione a quanto stabilito dalla sentenza 242 del 2019 sul caso Cappato/ Dj Fabo, che fissa quattro requisiti di accesso al suicidio assistito. Il rischio è di ritornare sempre al punto di partenza, in un rebus complicatissimo nel quale ora si inserisce un’ipotesi ulteriore: che a calare sul tavolo un testo ci pensi il governo. È ciò che è successo con il ddl Nordio, ed è ciò che preoccupa di più le opposizioni, a partire dal dem Alfredo Bazoli. Che ha parecchio a cuore il tema, relatore di un testo sul fine vita approvato solo alla Camera nella scorsa legislatura e rilanciato in questa. “Il Comitato ristretto sul fine vita per cinque mesi e mezzo si è riunito soltanto 6 o 7 volte, senza produrre nulla, tergiversando, continuando a rinviare una discussione che noi chiedevamo da mesi. Ora scopriamo che su questo tema, che deve essere lasciato alla libertà di coscienza dei parlamentari, il governo pretende di metterci le mani e che a Palazzo Chigi sarebbe stato fatto un accordo su un testo che arriverebbe blindato in Senato. Lo diciamo fin da subito: non permetteremo che il Parlamento venga espropriato delle sue facoltà e delle sue prerogative”, dice il senatore del Pd. Il quale, raggiunto al telefono, non nasconde il timore che sul fine vita “capiti ciò che è capitato con la separazione delle carriere e con il decreto sicurezza”. “Siamo di fronte ad una scelta intollerabile, siamo di fronte all’irrisione del Parlamento, alla presa in giro dell’opposizione che da mesi chiede che il Parlamento legiferi, in una logica da Stato apostolico che promuove addirittura un Comitato etico nazionale promosso da Palazzo Chigi”, tuona il presidente dei senatori del Pd Francesco Boccia. Mentre il capogruppo M5S al Senato, Stefano Patuanelli, chiede di trovare “regole comuni, perché sentirsele imporre dal governo è inaccettabile. Anche su questo faremo una battaglia parlamentare - aggiunge il pentastellato - perché non possiamo subire nuovamente l’umiliazione del potere esecutivo”. Ma bisogna aspettare: l’appuntamento è martedì prossimo a Palazzo Madama. Migranti. Quesito cittadinanza, i no degli elettori dem diventano un caso di Concetto Vecchio La Repubblica, 11 giugno 2025 Una fetta non trascurabile di elettori che alle ultime Europee avevano votato Pd ha respinto la proposta di dimezzare da dieci a cinque anni i tempi di residenza per diventare italiani. Elly Schlein si era espressa per il sì. A Firenze un elettore su quattro del Pd ha votato no al quesito sulla cittadinanza. A Bologna uno su cinque. A Genova il 22 per cento. Lo certificano i flussi analizzati in dieci grandi città dall’Istituto Cattaneo. Sorprendente? Non tanto. Non si spiega altrimenti quel 34,57 per cento di no per il quinto quesito, scheda gialla, al referendum dell’8 e 9 giugno. Un dato che in pochi si aspettavano, e che si discosta dai valori (tra il 10 e il 12 per cento di no) espressi per i rimanenti quattro quesiti sul lavoro. Però non c’è uniformità di valori. Nel centro sud i no degli elettori democratici alla cittadinanza si riducono sensibilmente: il 13 a Roma, il 14 a Napoli, il 16 a Bari, l’8 a Palermo. A Milano invece solo l’11 per cento ha scelto no. E quindi una fetta non trascurabile di elettori che alle ultime Europee avevano votato Pd ha respinto la proposta di dimezzare da dieci a cinque anni i tempi di residenza per diventare italiani. Elly Schlein si era espressa per il sì. La maggioranza degli elettori del Movimento 5 Stelle, a cui invece era stata lasciata libertà di scelta, ha votato compattamente no nelle principali città, tranne che a Napoli e a Palermo, dove si sono registrate maggioranze bulgare pro cittadinanza. Roma segna un pareggio (50 e 50) mentre Bologna, la città del Vaffaday, registra il 69% degli elettori per il no e il 31 per il sì. Nessun traballamento o distinguo nell’elettorato di Avs e Sinistra italiana: i sì vanno dall’89 al 100 per cento. “Le stime sono basate sul modello statistico, quindi affette da un certo margine di incertezza”, precisa il direttore del Cattaneo, Salvatore Vassallo. Come spiegare però questo sentimento nell’elettorato progressista? Viene da lontano, risponde Vassallo. “Sin dalla metà degli anni Novanta i sondaggi certificano una maggiore cautela verso i temi dell’immigrazione negli elettori rispetto alla classe dirigente. Questo vale sia per le categorie che si sentono sfidate dagli immigrati sia per i più anziani, colpiti anche dai fatti di cronaca”. Lorenzo Pregliasco di YouTrend, prima della consultazione, faceva notare che per il quinto quesito vigeva una sorta di voto d’opinione, con la Cgil concentrata soprattutto su quelli del lavoro. E ci sono inoltre notevoli differenze tra giovani e anziani, tra centro e periferia. Più ci si allontana dalle Ztl, anche a sinistra, più si diventa conservatori, diffidenti. È una sconfitta quindi che brucia doppiamente a sinistra. Nel fronte dei referendari è già partita la resa dei conti. Riccardo Magi, il segretario di +Europa, promotore del quesito sulla cittadinanza, ha accusato “una parte significativa del M5S che non l’ha sostenuto”. “Io ho votato sì, ma lo strumento era sbagliato”, gli ha risposto Giuseppe Conte. “Chi l’ha promosso rischia di allontanare anche la soluzione di un problema che invece va affrontato con una diversa soluzione”, ha aggiunto il leader M5S. Antonio Tajani - il leader di Forza Italia - ha così buon gioco nel rilanciare lo Ius Italiae. “La proposta è depositata alla Camera e al Senato. Conte ci dica se è favorevole ad un percorso di 10 anni di scuola frequentati con profitto per ottenere la cittadinanza italiana. Cinque anni sono insufficienti, come ha dimostrato il referendum”, ha detto il ministro degli Esteri. “Sia Tajani che Carlo Calenda propongono di approvare la soluzione che il M5s propone da anni. Vediamo se sono solo chiacchiere, come è già successo nella scorsa estate - quando gli annunci di Tajani si rivelarono diversivi da ombrellone - o se finalmente si vuole fare sul serio: le proposte - a partire dalla nostra - sono depositate in Parlamento e la maggioranza ha i mezzi per far partire subito il loro esame”, la controreplica di Giuseppe Conte. Ci sono i margini nella maggioranza? Dalla Lega alzano subito muri. “Nelle ore in cui perfino l’esigua minoranza che ha votato i referendum ha seriamente messo in discussione la cittadinanza facile, è necessario ribadire che per diventare italiani non possono essere previste scorciatoie di alcun tipo”, hanno messo le mani avanti i capigruppo di Camera e Senato Riccardo Molinari e Massimiliano Romeo. Migranti. Ricongiungimento familiare: quando il diritto diventa business di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 giugno 2025 Sei mesi per fissare un appuntamento che non arriva mai; intermediari che si appostano fuori dalle ambasciate chiedendo migliaia di euro; famiglie separate per anni nonostante abbiano tutti i documenti in regola. È il quadro che emerge dall’inchiesta condotta dal progetto “Annick. Per il diritto all’unità familiare”, che nel 2024 e nei primi mesi di quest’anno ha assistito oltre 90 persone straniere alle prese con le procedure di ricongiungimento familiare. Un diritto fondamentale, riconosciuto dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, dalla Costituzione italiana e dalle direttive europee, si è trasformato in un percorso a ostacoli, dove i tempi di legge non vengono rispettati e proliferano pratiche ai limiti della legalità. La procedura dovrebbe essere semplice: la Prefettura rilascia il nulla osta entro 90 giorni, poi l’Ambasciata italiana nel Paese d’origine concede il visto in 30 giorni. In totale, quattro mesi. Nella realtà, le attese si misurano in anni. Il problema principale riguarda la seconda fase, quella gestita dal ministero degli Affari Esteri attraverso le rappresentanze diplomatiche all’estero. Dal 2019, la gestione degli appuntamenti per il rilascio dei visti è stata affidata ad agenzie private: Vfs Global, Bls International e Almaviva. Un’esternalizzazione che doveva semplificare le procedure, ma che ha creato un sistema opaco e disfunzionale. Le testimonianze: attese lunghissime per gli appuntamenti e corruzione - “Le nostre Ambasciate e Consolati si trovano in alcuni casi a operare in contesti particolarmente complessi, soprattutto a causa della forte pressione migratoria e dell’alto numero di documenti falsi presentati dai richiedenti”, ha risposto il sottosegretario agli Esteri Giorgio Silli a un’interrogazione parlamentare dello scorso marzo. Una giustificazione che non convince chi vive il problema sulla propria pelle. F. G., cittadino pakistano, aspetta da sei mesi di fissare un appuntamento all’Ambasciata italiana di Islamabad per il figlio minorenne. Si è registrato correttamente sul sito di Bls International, ma il calendario non mostra mai disponibilità. Quando si è recato direttamente in ambasciata, ha trovato all’esterno personale non identificato che gli ha chiesto denaro per fissare l’incontro. B. S., cittadino italiano di origine burkinabè, non riesce a prenotare dal sito di Vfs Global in Costa d’Avorio per il figlio rimasto in Burkina Faso. Nessuna risposta né dall’agenzia né dall’ambasciata. Un connazionale gli ha suggerito di rivolgersi a intermediari che “in poche settimane risolvono il problema”. In Senegal la situazione è ancora più esplicita. I. D., cittadino senegalese, denuncia: “La corruzione è diventata così normale che nessuno la nasconde più. Basta leggere i commenti sulla pagina Facebook dell’Ambasciata italiana, non vengono nemmeno cancellati”. Il Pakistan rappresenta il caso più emblematico. Con circa 300 mila cittadini, è la comunità più numerosa nell’Unione europea. Le testimonianze raccolte parlano di richieste di denaro fino a 3.000 euro per ottenere un appuntamento. Gli intermediari si appostano fuori dall’ambasciata di Islamabad e dalla sede di Bls International, avvicinando i richiedenti con proposte di “aiuto” a pagamento. La cifra cresce se il nucleo familiare è numeroso, anche quando si tratta di minori. Chi non può permettersi queste somme resta in attesa, spesso per anni, indebitandosi pur di riabbracciare i propri cari. I tribunali italiani stanno riconoscendo sempre più spesso le ragioni dei ricorrenti. Il Tribunale di Roma, in un’ordinanza del gennaio 2024, ha scritto che “l’Ambasciata competente si è sostanzialmente limitata a tenere un silenzio mai motivato” e ha ordinato di fissare un appuntamento entro 15 giorni. Un’altra sentenza del luglio 2024 ha obbligato l’Ambasciata di Casablanca a fissare entro 10 giorni l’appuntamento per una madre marocchina, dopo che la piattaforma Vfs Global risultava bloccata “ogni giorno a qualunque ora”. Il riconoscimento del danno economico sta diventando sempre più frequente: una sentenza dell’aprile 2025 ha condannato il ministero degli Affari Esteri a versare 1.050 euro per tre mesi di ritardo, un’altra del maggio 2025 ha riconosciuto 6.600 euro per 22 mesi di separazione forzata, da dividere tra ministero dell’Interno e degli Esteri. Quel potere sostitutivo che non sostituisce - Quando i tempi di legge non vengono rispettati, i cittadini possono ricorrere al “potere sostitutivo”: un funzionario superiore dovrebbe intervenire per sbloccare la pratica. Anche questo strumento però si rivela inefficace. Gli uffici del ministero degli Esteri rispondono con celerità, ma solo per dichiarare la propria impotenza. Quelli delle singole ambasciate spesso non rispondono neppure alle richieste inviate via Pec dai legali. Dietro ogni pratica bloccata c’è una storia di sofferenza: padri che non vedono crescere i figli, madri separate dai bambini, coniugi che ignorano quando potranno riabbracciarsi. L’impatto psicologico è devastante, soprattutto per chi è fuggito da guerre e persecuzioni. Per molti titolari di protezione internazionale, il ricongiungimento familiare rappresenta l’unica possibilità di garantire sicurezza ai propri cari. La Dichiarazione di New York sui Rifugiati del 2016 aveva impegnato gli Stati ad ampliare queste possibilità, riconoscendo il ricongiungimento come strumento per una migrazione sicura e regolare. Le proposte: monitoraggio e ritorno alla gestione delle ambasciate - L’inchiesta si conclude con raccomandazioni precise. A breve termine: rispetto dei tempi di legge e creazione di un sistema di monitoraggio indipendente per verificare l’operato delle agenzie esterne. A medio termine, una proposta più radicale: il graduale ritorno della gestione sotto il controllo diretto delle rappresentanze diplomatiche, potenziando le risorse del ministero degli Esteri. L’esternalizzazione, nata per semplificare, ha creato più problemi di quanti ne abbia risolti. “Un sistema pubblico rafforzato è condizione indispensabile per assicurare equità di trattamento, effettività dei diritti e tutela dei legami familiari”, scrivono gli autori del progetto. Il progetto “Annick. Per il diritto all’unità familiare”, curato da Melting Pot Odv in collaborazione con Circolo Arci Pietralata, ha documentato un problema sistemico che tocca migliaia di famiglie. Ogni storia racconta della stessa violazione: il diritto all’unità familiare, riconosciuto come fondamentale, che diventa un privilegio per chi può permettersi di pagare. In un’Europa che si è costruita sui valori di uguaglianza e solidarietà, queste testimonianze rappresentano una ferita aperta. Separare le famiglie non è solo una violazione dei diritti umani: è un fallimento della nostra civiltà. Migranti. Alaa, fuggito dalla Libia e condannato in Italia come scafista a 30 anni di carcere di Paolo Valenti lavialibera.it, 11 giugno 2025 “Era meglio morire”. Il calciatore libico è stato condannato a trent’anni insieme ad altri quattro compagni perché ritenuto membro dell’equipaggio del barcone su cui nel 2015 sono morti 49 migranti. Il 12 giugno, la Cassazione si pronuncerà sulla richiesta di revisione del processo. Le lettere del giovane dal carcere diventeranno un libro. “Era preferibile per me morire che fare una vita così, fare il detenuto da innocente. Era meglio la morte naturale”. A scrivere dal carcere Ucciardone di Palermo è Alaa Faraj, negli atti giudiziari Alla F. Hamad Abdelkarim. Nato in Libia trent’anni fa, nel 2017 la giustizia italiana l’ha condannato a spenderne altrettanti in cella perché ritenuto, insieme a quattro compagni, lo “scafista” del barcone che, nella notte di Ferragosto del 2015, è stato soccorso dalla Marina italiana al largo di Lampedusa e nella cui stiva sono stati trovati i corpi di 49 persone, morte asfissiate durante la traversata. Eppure, anche Alaa e i quattro connazionali si erano messi in mare per scappare dalla guerra. “Sono stati condannati sulla base di un pregiudizio, in quanto unici libici a bordo, e con diverse violazioni dei diritti fondamentali della difesa”, dice a lavialibera l’avvocata Cinzia Pecoraro, che segue Alaa nella richiesta di revisione del processo. Il prossimo 12 giugno, sarà la Cassazione a pronunciarsi sull’istanza, dopo un primo rigetto della Corte d’appello di Messina. In Libia, Alaa studiava ingegneria e, come i compagni condannati insieme a lui, era calciatore professionista. Quando, nel 2014, nel Paese è scoppiata la guerra civile tra le forze del governo internazionalmente riconosciuto di Tripoli e quello di Tobruk sostenuto dalle milizie del generale Haftar, ha cercato di raggiungere l’Europa per continuare a studiare e giocare a pallone. Ma i canali legali non esistono, da cui la scelta di pagarsi un posto sul barcone e affrontare i rischi della traversata. Sbarcati a Catania insieme a più di 300 superstiti dopo il soccorso della Marina, Alaa e i compagni sono stati arrestati in quanto “membri dell’equipaggio” con l’accusa di favoreggiamento di ingresso illegale e omicidio plurimo. “Due testimoni sui nove sentiti, selezionati non si sa con quale criterio, hanno dichiarato che Alaa si occupava di distribuire l’acqua e mantenere l’ordine sul barcone - spiega Pecoraro -. Si tratta di testimonianze rese subito dopo lo sbarco da parte di donne sotto choc e allo stremo delle capacità fisiche e psichiche, che avevano perso familiari nel tragitto e non dormivano, mangiavano e bevevano da giorni”. Nuovi testimoni sentiti dalla difesa tempo dopo e in condizioni di maggiore lucidità hanno smentito questa versione, affermando che a bordo nessuno manteneva l’ordine né distribuiva acqua. Di qui l’istanza di revisione del processo, che però la Corte d’Appello di Messina ha respinto pur certificando lo “scarto che indubbiamente esiste tra il diritto e la pena legalmente applicata e la dimensione morale della effettiva colpevolezza” e suggerendo di chiedere la grazia al Presidente della Repubblica. “Un’abnormità dal punto di vista giuridico”, commenta Pecoraro, che contro quella sentenza ha presentato ricorso alla Cassazione. Intanto, Alaa ha già scontato un terzo della pena all’Ucciardone di Palermo, dove ha imparato l’italiano, si è diplomato una seconda volta e ha scoperto la passione per l’arte e la scrittura grazie ai laboratori proposti ai detenuti. “Forse sono l’unico pazzo al mondo ad avere questa idea, ma ho sempre cercato di vivere il carcere come un’opportunità - racconta in un video -. Qui ho scoperto che il più grande strumento di inclusività e accoglienza è la cultura”. È proprio durante un laboratorio che, nel febbraio del 2023, ha conosciuto la professoressa Alessandra Sciurba, coordinatrice della Clinica legale diritti e migrazioni dell’Università di Palermo. “Ho incontrato un ragazzo stupefacente, che non solo è riuscito a rimanere in piedi in questo incubo, ma non ha mai smesso di sperare e credere nella giustizia italiana, nel sogno di arrivare in un Paese in pace e democratico dove i diritti valgono per tutti”, ricorda la docente. Da quell’incontro è nato uno scambio di lettere, alcune delle quali verranno pubblicate nei prossimi mesi da Sellerio in un libro dal titolo Perché ero ragazzo. “Rileggendoli mi sono resa conto che quei testi sono un tesoro prezioso - dice Sciurba a lavialibera -. Compongono una storia incredibile e allo stesso tempo emblematica di come la legge che punisce il favoreggiamento dell’immigrazione irregolare sia stata scritta con la penna della propaganda, tant’è che ha colpito soprattutto le ong che fanno soccorso in mare e i poveri passeggeri che vengono trattati come capri espiatori, non certo i veri trafficanti. Quelli li conosciamo: sono Bija, Al-Kikli e Almasri, che l’Italia invita, cura nei nostri ospedali e riporta a casa con l’aereo di Stato”. Sulla vicenda di Alaa è intervenuto anche Luigi Ciotti, che ha chiesto “un supplemento di verità e giustizia per chi oggi paga un prezzo sproporzionato, inaccettabile”. Rispetto alla sentenza della Cassazione, Pecoraro ammette di avere “poche aspettative”: la Corte si è già pronunciata per altri due dei ragazzi libici condannati con Alaa, e con esito sfavorevole. L’avvocata non esclude il ricorso alla grazia presidenziale: “Non smetteremo mai di combattere per far decretare dallo Stato italiano l’innocenza di questi ragazzi, ma questo non significa che siamo disposti a farli tenere in carcere altri vent’anni”. Di battaglia parla anche Alaa, che la professoressa Sciurba ha incontrato pochi giorni fa: “Mi assicura sempre che non smetterà mai di lottare per la giustizia, non solo per lui, ma anche per i 49 morti di quella notte”. Droghe. La comunità di Phoenix House ci parla di Patrizia Meringolo Il Manifesto, 11 giugno 2025 Mauro Croce, l’autore, è un professionista e un teorico di grande spessore. Una persona che sa coniugare la riflessione scientifica con l’attivismo, nel senso più profondo e politico del termine. Mi ha coinvolto perché apparteniamo alla stessa generazione, con gli stessi riferimenti teorici e gli stessi ideali, orgogliosi dei cambiamenti possibili (pensiamo alla 180…) e frustrati per le battaglie politiche senza approdi soddisfacenti. Croce descrive il suo ‘tirocinio’ a Londra, dove la comunità terapeutica di Phoenix House si proponeva come un trattamento ‘efficace’ per le tossicodipendenze. Siamo all’inizio degli anni 80, l’eroina cominciava a fare vittime di overdose e di marginalità sociale anche in Italia, dove i servizi sembravano impotenti e scarsamente attrezzati, e i professionisti apparivano accomunati allo stigma dei loro utenti. Il suo “Diario” è una vera osservazione partecipante, nella tradizione di ricerca che ha visto studi basilari sui senza fissa dimora, sui pazienti psichiatrici, su outsiders e devianti. Studi che hanno inciso profondamente sull’analisi critica dei fenomeni psicosociali e sulle modalità di intervento. Croce arriva come tirocinante nella struttura, ma condivide la vita quotidiana degli e delle utenti. Riviviamo con lui i passaggi del processo di guarigione (?) e di affrancamento dalla dipendenza, scandito dal mantra del “si deve cambiare, affrontando i propri fantasmi e soffrendo. Non si può scappare da se stessi, e per riuscirci si deve passare attraverso gli altri”. Non pare una consapevolezza critica, perché “pensare significa fuggire dal cambiamento… chi pensa, chi elabora, chi intellettualizza non va avanti”. In effetti, le contraddizioni a Phoenix House sono molte: dalle regole immotivate, con presunti effetti terapeutici (lo sostenevano, e sostengono ancora, alcune comunità pseudo-terapeutiche nostrane), alla scalata all’ordine gerarchico dei ruoli offerta agli utenti (che diventano coordinatori dei propri simili), fino, appunto, al pensiero assimilato alla ‘intellettualizzazione’ e non, per esempio, alla riflessione critica e alla crescita personale. Navigare in questo percorso non è agevole, ci sono battute di arresto, rimproveri incoerenti oppure plausi gratificanti, e ritualizzazioni dello stare insieme che portano a pensare di essere sempre vissuti dentro e “che non esista, che non sia mai esistito un fuori”. Croce illustra, alla fine, le critiche pesanti che hanno ricevuto le comunità di questo tipo. Non è un caso che anche Franca Ongaro Basaglia abbia criticato - con le istituzioni totali - le comunità terapeutiche anglosassoni, per il loro apparire una “bonifica umanitaria del manicomio” senza dialogo con il mondo circostante. C’è una riflessione importante che ho tratto dal libro: Phoenix House ha, al di là di tutto, un aspetto “seduttivo, protettivo ed empatico… da ultimo salvagente possibile per continuare a vivere”. Sviluppa un senso del noi, viene amata. Il sentirsi inclusi è così potente che alcuni scelgono di rimanervi come operatori, promossi sul campo senza preparazione professionale e senza inquadramenti giuridici (come avviene ancora oggi in certe strutture). Si può ipotizzare che abbiano sviluppato una dipendenza dalla comunità stessa, o che non saprebbero dove andare, o che siano inclusi ‘dentro’, ma non integrati ‘fuori’. Però mi domando: com’è che nei nostri interventi non riusciamo sempre a sviluppare un altrettanto forte senso del noi? certo, nella società civile lo abbiamo perso… O forse non ci poniamo abbastanza l’obiettivo di costruire comunità per tutti, e siamo permeati comunque di una cultura, pur inclusiva e progressista, ma ancora centrata sull’individuo, con poca pratica del noi. E questo è uno stimolo per una riflessione futura. La brutalità con gli alleati di Giuseppe Sarcina Corriere della Sera, 11 giugno 2025 Da Parigi a Berlino, da Roma a Londra, prende sempre più quota la convinzione che la deriva dei continenti, la distanza politica tra America ed Europa, stia per diventare un dato di fatto. Nel confronto a porte chiuse con gli alleati, i governanti trumpiani sono ancora più brutali rispetto a ciò che vediamo in pubblico. Venerdì 6 giugno: vertice della Nato a Bruxelles. A un certo punto il capo del Pentagono Pete Hegseth si rivolge così ai colleghi europei: ma perché continuate a insistere con l’Ucraina, quando c’è così tanto da fare con la Nato? Subito dopo l’Ambasciatore Usa, Matthew Whitaker, va giù piatto: guardate che ora tocca a voi sostenere il peso dell’aiuto militare a Kiev; noi abbiamo già fatto troppo. Da Parigi a Berlino, da Roma a Londra, prende sempre più quota la convinzione che la deriva dei continenti, la distanza politica tra America ed Europa, stia per diventare un dato di fatto. La prova deriva da tre indizi, tre dossier di importanza capitale: Ucraina, appunto. Poi Gaza e Iran. Fino a poche settimane fa, Donald Trump pareva ancora oscillare tra le ragioni di Kiev e gli interessi predatori di Mosca. Ma a partire dalla telefonata con Vladimir Putin, il 4 giugno scorso, si sono moltiplicati i segnali di disimpegno nei confronti dell’Ucraina. Il più importante: il presidente americano ha praticamente annunciato al mondo, come fosse il portavoce del Cremlino, la rappresaglia di Putin in risposta ai raid contro le basi aeree in territorio russo. Il 5 giugno Hegseth ha disertato la riunione del “gruppo di contatto”, cioè i fornitori di armi all’Ucraina. E il giorno dopo ha preso le distanze da Kiev nel summit di Bruxelles. Infine ieri, l’ultima protesta di Volodymyr Zelensky: gli americani avevano promesso di consegnarci subito 20 mila droni, ma li hanno invece inviati nel Medio Oriente. A quanto pare a protezione dei presidi militari Usa nella regione. Gli europei stanno provando a restare agganciati all’America. Il tentativo più concreto si consumerà tra due settimane, nel summit dei Capi di stato e di governo della Nato, all’Aja, in Olanda. Com’è noto quasi tutti i 32 partner dell’Alleanza si sono impegnati ad approvare l’aumento delle spese militari nazionali, come richiesto dagli Usa, portandole al 5% del prodotto interno lordo: 3,5% per le forze armate; l’1,5% per infrastrutture e cyber sicurezza. Il Segretario dell’Alleanza Atlantica, Mark Rutte, in questi giorni sta facendo il giro delle capitali. Il 12 giugno sarà a Roma e ripeterà alla premier Giorgia Meloni quello che ha già detto agli altri leader: se vogliamo evitare “sorprese” all’Aja, dovete tutti approvare il nuovo target di spesa. Quali “sorprese”? Sempre Rutte ha spiegato: gli americani potrebbero far fallire il vertice e spostare altrove, nell’Indo-Pacifico, le risorse finanziarie. Gli Stati Uniti e la maggioranza dei Paesi europei stanno prendendo direzioni opposte anche su Gaza. Come si è visto mercoledì 4 giugno, in una drammatica riunione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. I dieci rappresentanti a rotazione hanno presentato una mozione per chiedere il cessate il fuoco nella Striscia e l’apertura totale al flusso degli aiuti umanitari. L’iniziativa è partita dall’Algeria. Slovenia, Grecia e Danimarca si sono associate per mitigare il testo, con l’impegno di Francia e Regno Unito, due dei cinque membri permanenti del Consiglio. Ne è venuto fuori un documento equilibrato, dove si chiedeva anche il rilascio immediato degli ostaggi ad Hamas. Per ore i diplomatici francesi, britannici e sloveni hanno provato a smuovere gli americani. Niente da fare. Dorothy Shea, ambasciatrice ad interim, ha messo il veto e la risoluzione, appoggiata da 14 Paesi su 15 (cinque europei), non è passata. Era già successo sette mesi fa. Allora il massacro della popolazione civile era già evidente. Oggi è semplicemente inaccettabile. È un’opinione largamente condivisa nel mondo, come si vedrà nell’Assemblea generale straordinaria dell’Onu, convocata per il 12 giugno. Vero, l’Unione europea non è ancora compatta su possibili misure, non diciamo sanzioni, da adottare contro Israele. Diciassette Paesi hanno chiesto di “rivedere” l’accordo di associazione commerciale con Tel Aviv. Se ne dovrebbe discutere nel Consiglio dei ministri degli esteri, in calendario il 23 giugno. Difficile si possa arrivare all’unanimità necessaria per la sospensione totale, ma è possibile cancellare la clausola commerciale preferenziale: in questo caso basterebbe la maggioranza qualificata, formata da 15 Paesi che rappresentino almeno il 65% della popolazione totale. Sul piano politico vanno registrate le pesanti critiche del cancelliere tedesco Friedrich Merz al governo guidato da Benjamin Netanyahu e, quindi, sia pure indirettamente, all’atteggiamento della Casa Bianca. Giorgia Meloni non ha ancora dato indicazioni. Il governo italiano ha avuto la possibilità di inviare un segnale a Netanyahu bloccando il rinnovo automatico del memorandum di cooperazione militare con Israele che scadeva l’8 giugno. Non lo ha fatto. La premier italiana è convinta che ci sia ancora spazio politico per trovare un compromesso politico con Trump su tutti i dossier. I margini, però, sono sempre più stretti. Anche sull’Iran. Qui Trump ha iniziato una trattativa senza consultarsi non solo con gli europei, ma neanche con Israele. In realtà a sorpresa, e tra lo sconcerto dei partner occidentali, il presidente americano ha chiesto aiuto a qualcuno. Chi? Non è difficile: Putin. Sempre nel colloquio telefonico del 4 giugno, Trump ha sollecitato il leader russo a favorire il negoziato sul nucleare con Teheran. In cambio gli americani continueranno a mediare tra India e Pakistan, in un’area di comune interesse per Mosca e per Washington. Trump vuole portare a Guantanamo anche italiani e altri cittadini di Paesi alleati di Alex Horton e John Hudson* Il Foglio, 11 giugno 2025 L’amministrazione Trump si sta preparando ad avviare il trasferimento di migliaia di stranieri potenzialmente presenti illegalmente negli Stati Uniti verso la base militare statunitense di Guantanamo Bay, a Cuba, a partire da questa settimana, hanno affermato funzionari statunitensi a conoscenza della questione. I cittadini stranieri presi in considerazione provengono da diversi paesi. Tra questi, centinaia provengono da nazioni europee amiche, tra cui Gran Bretagna, Italia, Francia, Germania, Irlanda, Belgio, Paesi Bassi, Lituania, Polonia, Turchia e Ucraina, ma anche da altre parti del mondo, tra cui molti provenienti da Haiti. I funzionari hanno condiviso i piani con il Washington Post, inclusi alcuni documenti, a condizione di mantenere l’anonimato, poiché la questione è considerata estremamente delicata. Secondo i funzionari, è improbabile che l’amministrazione informi i governi di origine degli stranieri in merito agli imminenti trasferimenti verso la famigerata struttura militare, compresi stretti alleati degli Stati Uniti come Gran Bretagna, Germania e Francia. I preparativi includono lo screening medico di 9.000 persone per determinare se sono sufficientemente sane da poter essere inviate a Guantanamo, tristemente nota per essere stata la prigione di sospetti terroristi e di altre persone catturate sui campi di battaglia dopo l’11 settembre. Alcuni di questi dettagli erano già stati riportati da Politico. Non è affatto chiaro se le strutture possano ospitare 9.000 nuovi detenuti, un afflusso che rappresenterebbe un enorme incremento rispetto alle diverse centinaia di migranti trasferiti dentro e fuori dalla base all’inizio di quest’anno. Ma i funzionari dell’amministrazione Trump affermano che il piano è necessario per liberare spazio nei centri di detenzione nazionali, che sono diventati sovraffollati a seguito dell’impegno del presidente Donald Trump di attuare la più grande deportazione di migranti irregolari nella storia americana. Un documento esaminato dal Washington Post afferma che “GTMO”, l’acronimo governativo per la base, “non ha raggiunto la sua capienza massima”. A gennaio, Trump ha annunciato che avrebbe inviato fino a 30.000 migranti nella struttura. A marzo decine di migranti trattenuti nella base sono stati rimandati in strutture in Louisiana, in una mossa che i critici della repressione dell’immigrazione da parte dell’amministrazione sospettavano fosse dovuta a problemi di capienza. Il Dipartimento per la Sicurezza Interna ha rifiutato di commentare. La Casa Bianca non ha rilasciato dichiarazioni. Un funzionario della difesa ha affermato che “le missioni in corso presso la stazione navale di Guantánamo rimangono invariate e non commentiamo alcuna speculazione su future missioni”. Secondo un documento ufficiale, il DHS intende “ridurre al minimo” il tempo che i detenuti trascorrono nella base caraibica, ma la Casa Bianca potrebbe decidere di utilizzare la struttura per detenzioni a lungo termine. Si prevede che la decisione di espandere drasticamente i trasferimenti susciterebbe critiche da parte degli alleati degli Stati Uniti preoccupati per il benessere dei loro cittadini nella base militare, che è diventata un simbolo globale di tortura e abusi in seguito alle tattiche antiterrorismo perseguite da Washington dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001 contro gli Stati Uniti. Funzionari statunitensi hanno affermato che le persone sottoposte a verifica per il trasferimento si trovano negli Stati Uniti illegalmente. Molti dei paesi di origine dei detenuti hanno dichiarato agli Stati Uniti di essere disposti ad accettare i loro cittadini, ma non si sono mossi abbastanza rapidamente agli occhi del DHS, hanno affermato i funzionari. I piani, soggetti a modifiche, giungono in un momento in cui i sostenitori della linea dura in materia di immigrazione all’interno del governo Trump premono per un maggior numero di deportazioni e arresti di migranti clandestini. “Sotto la guida del presidente Trump, puntiamo a fissare l’obiettivo di almeno 3.000 arresti al giorno per l’ICE”, ha dichiarato il mese scorso a Fox News il vice capo dello staff della Casa Bianca, Stephen Miller, impegnandosi ad aumentare i numeri. Anche il capo della sicurezza di frontiera della Casa Bianca, Tom Homan, ha espresso opinioni simili. “Dobbiamo aumentare arresti e allontanamenti”, ha detto. Secondo quanto affermato da un assistente del Congresso a conoscenza della questione, il DHS ha recentemente richiesto l’ampliamento di un centro di detenzione di media sicurezza nella base da 140 a 300 detenuti. Le forze statunitensi presenti nella base hanno eretto una tendopoli all’inizio di quest’anno - 195 strutture con una capacità di oltre 3.000 persone - in previsione di un grande afflusso di detenuti. Ma ciò non si è mai verificato, poiché i voli hanno sbarcato un numero modesto di persone e la capacità delle strutture disponibili non è stata superata. Il personale della base ha smontato le tende durante la primavera. Nessuna delle tende originali è rimasta in piedi e non sono mai state utilizzate, ha dichiarato martedì un funzionario della Difesa, parlando a condizione di anonimato per discutere delle operazioni in corso. *Washington Post Trump vuole deportare 9mila migranti a Guantanamo. Tajani: “Gli italiani saranno rimpatriati” di Iacopo Luzi La Stampa, 11 giugno 2025 L’amministrazione Trump sta pianificando di aumentare drasticamente l’invio di migranti senza documenti alla base di Guantanamo. Fra di loro ci sarebbero anche cittadini europei. L’amministrazione Trump sarebbe pronta a inviare migliaia di migranti illegali negli Stati Uniti alla base militare di Guantanamo, Cuba, a partire da questo mercoledì. Si tratterebbe di almeno 9mila persone, già esaminate per il trasferimento, secondo alcuni documenti ottenuti dalla stampa americana. Fra loro ci sarebbero anche 800 europei, inclusi degli italiani. Tuttavia, fonti informate confermano a La Stampa che le autorità statunitensi avrebbero assicurato ai loro omologhi europei che, sebbene si stia valutando come procedere, questa misura non dovrebbe coinvolgere gli immigrati illegali provenienti dai paesi alleati, inclusa l’Italia. Tutto ciò avverrebbe nel rispetto e applicazione delle leggi statunitensi riguardanti l’immigrazione illegale nel paese, secondo queste fonti. La maggior parte dei paesi europei ha finora collaborato con gli Stati Uniti nel riaccogliere i propri cittadini deportati. Non è chiaro se le strutture della base di Guantanamo possano ospitare 9mila nuovi detenuti, un afflusso che rappresenterebbe un sostanziale aumento rispetto ai circa 500 migranti trasferiti dentro e fuori dalla base dall’inizio della presidenza Trump. Trump: “Se ci sarà ancora rivolta, sono pronto ad usare i poteri anti-insurrezionali” - Mentre i funzionari dell’amministrazione Trump valutano il piano, ideato negli ultimi giorni e ancora soggetto a cambiamenti, si prevede che i detenuti rimangano temporaneamente nella base prima di essere deportati nei loro paesi d’origine. Non è ancora stato stabilito quanto tempo le persone appena deportate a Guantanamo rimangano lì prima di essere rimpatriate. Come rivela il sito Politico, il primo a pubblicare la notizia, la motivazione ufficiale dei trasferimenti è liberare posti letto nei centri di detenzione sul suolo statunitense. Contemporaneamente, l’utilizzo di questa famigerata struttura, che da oltre vent’anni ospita sospetti terroristi, invierebbe anche un forte segnale volto a scoraggiare l’immigrazione illegale negli USA. La Stampa ha chiesto conferme del piano al Dipartimento di Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti e alla Casa Bianca, senza però ottenere risposta. “Il messaggio è quello di scioccare e inorridire le persone, di sconvolgere”, ha affermato un funzionario del Dipartimento di Stato a conoscenza del piano, secondo quanto riporta Politico. Le parole di Tajani - “Per ora si tratta solo di una anticipazione del Washington Post, ma le prime informazioni che abbiamo dal Dipartimento per la sicurezza nazionale ci dicono che Guantanamo sarebbe utilizzato per i clandestini di Stati che non accettano i rimpatri. Invece l’Italia ha già detto all’amministrazione americana che è disposta a riprendere gli irregolari nel pieno rispetto dei loro diritti individuali e dell’assistenza consolare. Non dovrebbero esserci quindi possibilità per gli italiani di essere portati a Guantanamo”. Lo dice il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, a ‘Non stop news’, su Rtl 102.5, commentando le indiscrezioni pubblicate dal Washington Post secondo cui potrebbero esserci degli europei e quindi anche degli italiani tra i migranti che sarebbero inviati nel carcere di massima sicurezza di Guantanamo. “Comunque domani pomeriggio ho già in agenda una telefonata con il segretario di Stato Usa Rubio e cercherò di avere ulteriori chiarimenti ma mi pare che questa sia la situazione. Non da drammatizzare perché gli italiani verrebbero ripresi in Italia. Non sappiamo quanti sono gli irregolari, non abbiamo notizie. Ma faremo di tutto perché non ci siano italiani che vengono portati a Guantanamo”, ha aggiunto.