62.761 persone detenute: che fare? di Stefano Anastasìa garantedetenutilazio.it, 10 giugno 2025 Basterebbe un provvedimento di indulto per le pene o i residui di pena fino a due anni per cancellare il sovraffollamento e rimettere in funzione il sistema penitenziario italiano. 16.568 persone, il 31 maggio scorso, scontavano pene o residui pena inferiori a due anni: tanti quanti sono ospitati in eccesso nelle nostre carceri. Erano 62.761 le persone detenute nelle carceri italiane il 31 maggio scorso: 11.437 in più della capienza complessiva, 16.016 in più rispetto ai posti regolamentari effettivamente disponibili (4.579 posti sono in camere, sezioni o istituti in ristrutturazione o manutenzione). Da qui il famoso indice di sovraffollamento del 134,29%, il che significa che dove ci sono cento posti, ci stanno in media 134, 135 persone. Un terzo di persone in più (in una camera, in una sezione, in un carcere), significa non solo una più difficile convivenza in ambienti spesso angusti e soffocanti (specie ora, che si va incontro al gran caldo dell’estate), ma anche meno personale e servizi a disposizione: la pianta organica (peraltro spesso lacunosa, oggi in particolare tra il personale di polizia e quello sanitario) è programmata sulla capienza regolamentare, non sulle sue violazioni, e questo significa che anche laddove, come nel caso degli educatori, la pianta organica è stata finalmente riempita, non è sufficiente a una efficace presa in carico individualizzata di tutte le persone detenute. E non parliamo delle piante organiche deficitarie, come quella della polizia, dove uno-due poliziotti, soprattutto nei turni notturni, devono far fronte alle istanze di cento, centocinquanta detenuti: se due detenuti chiedono aiuto su due piani diversi, l’agente in servizio deve lanciare la monetina per decidere da chi andare per primo, e magari era quello che se la passava meglio … Tutto ciò dovrebbe essere necessario e sufficiente a intervenire con urgenza per porvi rimedio, secondo i vincoli costituzionale per cui le pene 1) non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e 2) devono tendere alla rieducazione del condannato. La prima misura necessaria dovrebbe essere rimettere in pari il numero delle persone detenute con quelle a cui l’Amministrazione penitenziaria, le amministrazioni pubbliche concorrenti e la società civile possano effettivamente garantire un trattamento dignitoso e una offerta di sostegno e di opportunità formative e lavorative idonee a consentirne il reinserimento sociale in condizioni di autonomia e legalità. Tendenzialmente, bisognerebbe pensare a un numero chiuso in carcere, come peraltro auspicato dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura: in carcere resterebbero gli autori dei reati più gravi e la “detenzione sociale”, quella prodotta dalla carenza di politiche e servizi di sostegno sociale, formativi e di inserimento lavorativo sarebbe restituita al territorio che se ne dovrebbe far carico. Piuttosto che continuare a buttare soldi in un sistema che produce tassi di recidiva fallimentari, varrebbe la pena tornare a investire sui servizi territoriali. Nel frattempo, però, bisognerebbe avere il coraggio di assumere decisioni ineludibili, come quella dell’adozione di un provvedimento di clemenza idoneo a riportare le nostre carceri nella legalità e nella dignità delle condizioni di vita e di lavoro. Basterebbe un provvedimento di indulto per le pene o i residui di pena fino a due anni per cancellare il sovraffollamento e rimettere in funzione il sistema penitenziario italiano. 16.568 persone, il 31 maggio scorso, scontavano pene o residui pena inferiori a due anni: tanti quanti sono ospitati in eccesso nelle nostre carceri. Grazie a una importante presa di posizione del Presidente del Senato, si discute della ripresa del percorso parlamentare della proposta dell’on. Giachetti per una “liberazione anticipata speciale”, che porti fino a 75 giorni a semestre (trenta più di quanti non siano oggi) lo sconto di pena per coloro che abbiano dato prova di “partecipazione all’opera di rieducazione”. È una misura che era già stata adottata provvisoriamente nel 2013, a seguito della condanna della Corte europea per i diritti umani per il sovraffollamento strutturale del sistema penitenziario italiano, ed aveva concorso a riportare il nostro sistema detentivo entro parametri accettabili. Anche oggi avrebbe certamente un positivo effetto di decarcerazione, ma bisogna ricordare che non fu l’unico provvedimento che contribuì a ridurre le presenze in carcere tra il 2013 e il 2015, quando - con gli stessi numeri di oggi - eravamo sotto monitoraggio del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa: ricordo, per esempio, le sentenze della Corte costituzionale che smontarono pezzo per pezzo gli aggravamenti alla legge sulle droghe introdotti dalla cd. legge Fini-Giovanardi e i moniti del Presidente della Repubblica Napolitano e della Corte costituzionale, con la sentenza 278/2013, per la riduzione delle presenze in carcere, che certo influirono sul margine discrezionale di applicazione delle norme da parte di tutti gli operatori del settore, dal poliziotto in servizio di prevenzione sul territorio al magistrato di sorveglianza chiamato ad approvare un’alternativa al carcere. Quel contesto oggi non c’è, e al contrario c’è un’enfasi retorica sul carcere come unica pena “certa” che ispira gran parte della legislazione più recente. E c’è un clima in carcere che ha fomentato negli ultimi anni una continua conflittualità tra detenuti e polizia, che si placa solo quando la contesa diventa tra gruppi di detenuti per chi deve gestire un traffico illecito all’interno del carcere: a chi si applicherà la liberazione anticipata per buona condotta se i procedimenti disciplinari nel 2024 sono stati 35.693 e la violazione di norme penali denunciate all’autorità giudiziaria 15.294? E con quali tempi, visto che una liberazione anticipata, speciale o no che sia, deve essere sempre approvata dalla magistratura di sorveglianza, a tal punto sovraccarica di procedimenti da aver lasciato maturare un arretrato di circa 100mila richieste di ammissione alle alternative al carcere da parte di altrettanti “liberi sospesi”, condannati a una pena inferiore a quattro anni e che hanno chiesto di poterla scontare in esecuzione penale esterna? Si faccia, dunque, la liberazione anticipata speciale, ma non si pensi così di risolvere rapidamente ed efficacemente il problema del sovraffollamento nelle carceri italiane. L’alternativa è sempre la stessa: un carcere bulimico, che ingloba ogni forma di devianza e di marginalità sociale, o il carcere dell’extrema ratio, che si limita alla reclusione degli autori dei reati più gravi o compiuti in associazione criminale. Un sistema penitenziario per 70, 80 o centomila detenuti, con i relativi spazi e il personale necessario, o uno per 30-40mila detenuti e strutture di accoglienza sul territorio per la prevenzione e il recupero degli autori di reati minori e senza una propria rete di relazioni e sostegno sociale che gli consenta di scontare la pena in alternativa al carcere. Anche se si è orientati verso la prima soluzione, come mi sembra che sia negli indirizzi del Governo, oltre che molti soldi, ci vorrà il suo tempo per vedere realizzato un piano edilizio e assunzionale così imponente: cinque, dieci, venti anni, sulla base delle esperienze passate (la Corte dei conti ha recentemente richiamato il Governo in carica e i suoi predecessori alla mancata attuazione del piano straordinario previsto dal Governo Berlusconi nel 2010!). E intanto che si fa? L’amnistia e l’indulto sono gli unici strumenti straordinari, rapidi ed efficaci previsti dalla Costituzione, che richiedono il consenso di maggioranza e opposizione, come fu nel 2006, quando il Presidente del Consiglio Romano Prodi e il leader dell’opposizione Silvio Berlusconi votarono concordemente un indulto di tre anni, con lo strabiliante risultato di dimezzare la recidiva tra i suoi beneficiari. Azzerato il sovraffollamento, maggioranza e opposizioni potranno tornare a dividersi sul futuro, ma almeno avranno guadagnato il tempo per realizzarlo e avranno posto termine a questa costante violazione della Costituzione che si sta consumando nelle nostre carceri. Reinserire i detenuti? Imprenditori sociali, lavoro, nuove carceri di Elisabetta Soglio Corriere della Sera, 10 giugno 2025 L’idea di “Spazio aperto”, il presidente Martellucci “Privati e Fondazioni bancarie agiscano insieme”. Sistema di contratti nazionali e giustizia riparativa. Il punto di partenza: 62mila detenuti stipati dove potrebbero starcene 45mila al massimo, un record di suicidi in carcere che supera se stesso di anno in anno, un sistema di pene che genera continuamente nuovi crimini anziché cittadini recuperati. Proposte di soluzione? “La nostra è semplice: nuove carceri, costruite nel rispetto dei parametri migliori per chi ci vive; lavoro sicuro e retribuito per chi sconta una pena, a norma di contratto nazionale, e con una parte di stipendio girata alle vittime del reato come forma di giustizia riparativa; il tutto con l’istituzione di una figura nuova che chiameremo imprenditore sociale”. Funzionerebbe? “Tutte le analisi e i dati esistenti lo dicono in modo concorde: condizioni di pena dignitose e reinserimento lavorativo abbattono la recidiva, cioè il ritorno al crimine, in misura che non lascia dubbi”. Non senza dibattito con punti di vista a volte anche sensibilmente diversi tra interlocutori pur appartenenti alla stessa maggioranza politica attuale quali il presidente del Senato Ignazio La Russa, il presidente di Regione Lombardia Attilio Fontana, il viceministro della giustizia Francesco Paolo Sisto. Eppure voi dite che basterebbe guardare i dati… “È il nostro metodo. Spazio aperto è nata nel 2019 come realtà apolitica e apartitica. Individuiamo una tematica quindi la analizziamo partendo dai fatti, per passare a proposte di soluzioni con un gruppo di lavoro multidisciplinare. In questo caso abbiamo anche messo a confronto i sistemi di Paesi diversi”. Risultato? “Le cifre sul sovraffollamento sono in aggiornamento costante, ma diciamo che il tasso medio supera del 119 per cento i posti oggi disponibili. Contemporaneamente il tasso medio di recidiva è passato da 1,9 reati per detenuto nel 2008 a 2,4 reati per detenuto oggi. Questo in un contesto fatto di carceri che nel 50% dei casi risalgono a prima degli anni Ottanta e non rispettano gli standard minimi di vivibilità, né per le persone detenute né per gli agenti”. Quindi? “La nostra idea è costruire nuove strutture, ovviamente a norma e pensate per un massimo di 200 persone. Prevedendo al loro interno la presenza di una azienda che dia loro lavoro. Vero e retribuito. Questo da parte dello Stato ma a opera di una figura che abbiamo chiamato imprenditore sociale”. Che sarebbe? “Un binomio formato da un privato e da una Fondazione bancaria”. E cosa farebbero? “Parteciperebbero a un avviso pubblico con un progetto, a seguito del quale potrebbero ottenere un terreno su cui realizzare la struttura di cui parlavo, con un credito di imposta a fronte della realizzazione e soprattutto dell’attività lavorativa offerta alle persone detenute”. Qualcuno non direbbe che è la privatizzazione della pena? “Eh no, su questo non ci devono essere equivoci: la gestione generale resterebbe totalmente in capo all’amministrazione penitenziaria e quindi allo Stato”. E il fronte lavoro? “Contratti nazionali. Il che garantirebbe stipendi in linea con quelli reali e non le cifre irrisorie che lo Stato può attualmente permettersi per i detenuti lavoranti all’interno di un carcere. Con una retribuzione così suddivisa: un quinto a chi ha subito il reato, un quinto come contribuito alle spese di detenzione, un quinto al mantenimento dei parenti fuori, un quinto accantonato per il fine pena e un quinto per la persona detenuta. Il tutto su base volontaria”. Nel vostro progetto quante strutture del genere avreste in mente? “Il mio sogno sarebbe realizzarne una in ogni regione”. E in quanto tempo? “Questo dipenderebbe molto dalla situazione dei vari contesti. Diciamo che in assenza di ostacoli, se si partisse oggi, una struttura di questo tipo potrebbe essere costruita e resa operativa in tre anni”. Apprendistato per detenuti dopo il Decreto Sicurezza di Laura Ferrari eclavoro.it, 10 giugno 2025 Il D.Lgs. 48/2025, noto come Decreto Sicurezza, introduce significative modifiche in materia di sicurezza pubblica, tutela del personale in servizio e ordinamento penitenziario. Tra le novità più rilevanti in materia di lavoro, spicca l’estensione dell’apprendistato professionalizzante ai detenuti, con l’obiettivo di favorire il loro reinserimento sociale e lavorativo. Nello specifico, l’articolo 36 modifica l’articolo 47, D.Lgs. 81/2015, in materia di apprendistato professionalizzante, aggiornando il primo periodo del comma 4. Viene prevista la possibilità di stipulare contratti di apprendistato professionalizzante senza limiti di età, anche nei confronti dei condannati e degli internati ammessi alle misure alternative alla detenzione e dei detenuti assegnati al lavoro all’esterno. La rinnovata formulazione prevede infatti che: “Ai fini della loro qualificazione o riqualificazione professionale è possibile assumere in apprendistato professionalizzante, senza limiti di età, i lavoratori beneficiari di indennità di mobilità o di un trattamento di disoccupazione, i condannati e gli internati ammessi alle misure alternative alla detenzione e i detenuti assegnati al lavoro all’esterno ai sensi dell’articolo 21 della legge 26 luglio 1975, n. 354. A decorrere dal 1° gennaio 2022, ai fini della loro qualificazione o riqualificazione professionale, è possibile assumere in apprendistato professionalizzante, senza limiti di età, anche i lavoratori beneficiari del trattamento straordinario di integrazione salariale di cui all’articolo 22-ter del decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 148. Per essi trovano applicazione, in deroga alle previsioni di cui all’articolo 42, comma 4, le disposizioni in materia di licenziamenti individuali, nonché, per i lavoratori beneficiari di indennità di mobilità, il regime contributivo agevolato di cui all’articolo 25, comma 9, della legge n. 223 del 1991, e l’incentivo di cui all’articolo 8, comma 4, della medesima legge”. Viene, pertanto, ampliata la platea dei beneficiari dell’apprendistato professionalizzante senza limiti di età, cui possono accedere non solo i lavoratori beneficiari di indennità di mobilità o di trattamento di disoccupazione, ma anche: i condannati e gli internati ammessi alle misure alternative alla detenzione; i detenuti assegnati al lavoro all’esterno ai sensi dell’articolo 21, L. 354/1975. Questa modifica rappresenta un passo avanti significativo nel tentativo di favorire il reinserimento sociale e lavorativo di persone che si trovano in un percorso di esecuzione penale. L’apprendistato di riqualificazione, pur condividendo l’impianto normativo fondamentale dell’apprendistato professionalizzante ordinario, se ne discosta per taluni profili, allo scopo di adattare l’istituto alle esigenze di soggetti con caratteristiche e necessità formative differenziate rispetto ai destinatari tradizionali. La novità normativa amplia gli strumenti di reinserimento lavorativo a favore di categorie soggettive caratterizzate da peculiari condizioni di svantaggio nell’accesso al mercato del lavoro, potenziando la funzione rieducativa della pena attraverso la valorizzazione del lavoro quale elemento essenziale del trattamento penitenziario e attivando, di fatto, un percorso di politica attiva nei confronti dei soggetti svantaggiati. Sempre in questa direzione, il Decreto Sicurezza introduce anche ulteriori incentivi per le imprese che assumono detenuti. In particolare, è previsto uno sgravio contributivo del 95%, ex D.M. 148/2014, sui contributi Inps dovuti per l’assunzione di detenuti e internati, applicabile sia alle aziende pubbliche sia a quelle private. Lo speciale abbattimento del 95% dei contributi Inps dovuti per l’assunzione di tali soggetti, valevole sia sulla quota a carico del datore di lavoro sia su quella a carico del lavoratore, viene esteso anche alle attività produttive e di servizi organizzate da imprese pubbliche e private diverse dalle cooperative di tipo B all’esterno degli istituti penitenziari, prima limitato alle sole attività effettuate all’interno degli stessi (articolo 2, L. 193/2000). Tale riduzione, ricordiamo, è applicabile: per i detenuti e internati che hanno beneficiato della semilibertà o del lavoro esterno ai sensi dell’articolo 2, L. 354/1975, anche per i 18 mesi successivi alla cessazione dello stato detentivo del lavoratore, assunto mentre lo stesso era ammesso alla semilibertà o al lavoro all’esterno; per i detenuti e internati che non hanno beneficiato della semilibertà o del lavoro esterno, fino ai 24 mesi successivi alla cessazione dello stato detentivo del lavoratore, assunto mentre era ristretto. L’incentivo è cumulabile, richiamando alla memoria i chiarimenti della circolare Inps n. 27/2019, con altri incentivi di natura economica e agevolazioni contributive e ciò amplia significativamente l’attrattività della misura per i potenziali datori di lavoro. Il Garante nazionale senza avvocato. Michele Passione ha rimesso il mandato in tutti i processi di Mauro Palma, Emilia Rossi e Daniela de Robert Ristretti Orizzonti, 10 giugno 2025 Lo storico avvocato del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale lascia dopo anni d’intenso lavoro ogni suo incarico. L’avvocato Michele Passione, che ha assicurato in questi anni la presenza del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale nel maggiore numero di procedimenti riguardanti i riferiti episodi di maltrattamenti o torture da parte delle Forze di polizia nei luoghi di detenzione o custodia, ha presentato la rinuncia al proprio mandato in tutte tali diverse situazioni. Rischia di restare così azzerata la presenza del Garante nazionale nel processo per i fatti di Santa Maria Capua Vetere, San Gimignano, Firenze-Sollicciano, Reggio Emilia, Verona, solo per citarne alcuni. Nominato a suo tempo dall’allora Collegio del Garante nazionale, da noi costituito, e confermato da quello attuale, l’avvocato Passione è stato negli anni un interlocutore essenziale nell’individuazione di situazioni oggetto di approfondimento, accertamento e, qualora accertate, di conseguenze sanzionatorie appropriate. Sulla lotta all’impunità il precedente Collegio aveva centrato un aspetto essenziale del proprio mandato, volto a far luce sugli episodi oscuri in luoghi troppo spesso tenuti distanti da sguardi esterni, a individuarne i responsabili e affidarli alla giustizia e, al contempo, a dare il dovuto riconoscimento a quella gran parte del personale che opera correttamente e con crescente difficoltà. La professionalità dell’avvocato Passione e la sua costante collaborazione sono state essenziali anche per gli approfondimenti tematici della nuova Istituzione di garanzia, allora nella prima fase della propria operatività. La sua decisione odierna è il punto di arrivo della crescente difficoltà progressivamente riscontrata nell’ottenere effettività e riconoscimento al suo lavoro da parte dell’attuale gestione e può rischiare di essere letta nei termini di una diminuita attenzione agli aspetti di puntuale individuazione e sanzione di comportamenti inaccettabili e offensivi della dignità delle persone ristrette da parte di chi ha istituzionalmente la responsabilità della loro custodia e tutela. Un’attenzione che deve costituire invece la centralità dell’azione di un organismo di prevenzione, la cui effettiva indipendenza dovrebbe non essere mai messa in dubbio, né dalla storia dei singoli componenti né dall’attualità della direzione dell’azione e neppure dal far venir meno alcuni presidi di puntuale presenza faticosamente costruiti negli anni passati. Il Decreto Sicurezza è solo l’inizio della virata autoritaria di Nadia Urbinati* Il Domani, 10 giugno 2025 La prima e più diretta evidenza della virata autoritaria di un Governo eletto democraticamente sta nel rafforzamento del potere esecutivo e, soprattutto, delle competenze in materia di “ordine pubblico”. Il ministero dell’Interno è la sua residenza ufficiale. La destra che conosciamo è nata come reazione contro i movimenti politici e sindacali di massa, in sostanza contro la democratizzazione delle vecchie società liberali. La destra è reattiva, nella concezione della politica e nella pratica del governo. Ha un criterio chiaro di reazione: il dissenso, soprattutto se organizzato in movimento collettivo; la libertà di espressione di chi obietta, questiona, contesta. Vecchia o nuova, arcaica o digitale, la destra ripete puntualmente questo schema. Non riesce a non essere repressiva. Ha un’allergia non stagionale verso chi ha una mente autonoma, chi ricerca la giustizia sociale e crede che siamo tutti, uomini e donne, uguali nella dignità e nella libertà di scelta. La Costituzione serve a proteggere questo bene pubblico primario. Non è forse questa la condizione perché ci sia democrazia? Se non contesto, come si può generare opposizione e quindi contendere l’esistente maggioranza? Alla destra, tutto questo non piace. Nonostante il corpo politico che mette in mostra non sia composto di esemplari di una specie superiore di umanità, la destra ha un’istintiva preferenza per una concezione gerarchica che meglio si adatta alla vita di caserma che alla vita civile. Immagina la cittadinanza come un insieme di irregimentati che si muovono a comando, come vediamo nelle lugubri manifestazioni di fascisti. A che servono le libertà fondamentali sancite dalla Costituzione? Le libertà per la destra sono poteri di chi ha potere; sono quel che la maggioranza concede a chi è minoranza. Non diritti di libertà, ma privilegi. Ed è verso coloro che non hanno potere che la destra ha un’idea della sicurezza come aumento delle pene e come porte spalancate del carcere. Il cosiddetto decreto sulla sicurezza da poco diventato legge mette chi gestisce l’ordine pubblico in una condizione quasi di privilegio, non solo perché le forze dell’ordine hanno in dotazione bodycam e quindi ci sorvegliano permanentemente quando siamo in luoghi affollati, come le stazioni o le piazze. A giudicare dal giro di vite, con l’aggiunta di nuovi reati, una recrudescenza degli esistenti, e con la trasformazione di diversi di essi da amministrativi a penali, sembra che l’Italia sia sull’orlo di una guerra civile, con organizzazioni terroristiche che mettono a ferro e fuoco il paese. Poi ci si accorge che il pretesto di combattere il terrorismo serve a dare carta bianca alla polizia segreta, che molto può fare senza impunità. Nella versione originaria del decreto, il governo imponeva alle amministrazioni pubbliche, anche alle università, l’obbligo di rispondere alla richiesta di collaborazione da parte dei servizi segreti, in deroga alla normativa privacy. Questo succede in tutti i paesi dove la destra regna. Repressione, controllo permanente, arbitrio: l’obiettivo è far sentire tutti deboli e subalterni. Inibire la forza della volontà e renderci “zitti e buoni” come cantavano i Maneskin. Una società conformista, con cittadini indaffarati a occuparsi degli affari propri. La logica delle normative liberticide è quella di incutere timore, di farci sentire insicuri delle nostre decisioni, che forse possono essere considerate non lecite, perché se il poliziotto che ti chiede i documenti mentre dormicchi in treno decide che rispondi in maniera brusca o mostri un atteggiamento non velocemente cooperativo, che ti succede? È questo il clima che il governo di destra ama che si instauri. Un clima di insicurezza. La nuova normativa ha l’obiettivo di umiliare e pre-reprimere. Reprimere il pensiero, ancora prima che la volontà di agire. Da cittadini che devono diffidare sempre dei poteri costituiti, a cittadini che si devono concedere, mente e azioni, ai poteri costituiti. Da cittadini che monitorano e controllano a cittadini che sono monitorati e controllati. È riduttivo pensare che questa legge sulla sicurezza si accanisca solo con i deboli. Certamente fa questo: immigrati naturalizzati che possono avere la cittadinanza revocata; incarcerati (tra questi le donne incinte e madri che allattano) che sono assolutamente privati della libertà di contestare, anche passivamente; affittuari di case che non se ne vanno ad affitto scaduto. I poveretti e i deboli. Ma l’obiettivo è quello di mostrare il volto cattivo dello stato a tutti noi. Nessuno escluso. *Politologa Anm: “No alla riforma della giustizia” di Roberta Lisi collettiva.it, 10 giugno 2025 Nuova giornata di protesta del sindacato delle toghe. Iniziative a Roma, Bari e Milano. Il Governo ha deciso: la riforma della giustizia targata Nordio deve marciare a passo di carica. Occorre fare presto, questa l’intenzione. L’obiettivo è la divisione delle carriere tra magistratura requirente e magistratura giudicante, il raddoppio del Csm e l’istituzione di un’Alta corte disciplinare per poter mettere sotto controllo la magistratura e l’attività giudiziaria. L’Associazione nazionale dei magistrati ha deciso di rispondere all’accelerazione aprendosi al confronto con il mondo dell’avvocatura, dell’Università, degli intellettuali della cittadinanza tutta per spiegare la pericolosità della cosiddetta riforma, la torsione autoritaria e verticistica che ne scaturirebbe, rompendo l’equilibrio che i padri e le madri costituenti ottant’anni fa misero nero su bianco. “Prendiamo atto di questa accelerazione sulla riforma costituzionale dell’ordinamento giudiziario, che secondo noi rappresenta qualcosa di diverso rispetto alle prassi parlamentari. Per questo abbiamo deciso di organizzare tre appuntamenti di confronto, discussione e dibattito aperti alla cittadinanza nella giornata del 10 giugno”. A dirlo è stato il presidente dell’Anm Cesare Parodi nella sua relazione introduttiva al Comitato direttivo centrale. “Non si tratterà solo di eventi tra magistrati - ha aggiunto Parodi - ma momenti di confronto aperti, cui parteciperanno rappresentanti del mondo accademico, dell’avvocatura e della cultura. L’obiettivo è coinvolgere i cittadini in una riflessione più ampia che non riguarda soltanto la riforma, ma anche il ruolo della magistratura”. Il filo conduttore dei tre appuntamenti del 10 giugno in realtà è una domanda: “Riformare la magistratura per non riformare la giustizia?”. A Roma ci si vedrà alle 16 nell’aula Europa della Corte d’appello, sarà presente il segretario generale dell’Anm Rocco Maruotti. È prevista l’introduzione della presidente della Giunta Anm di Roma Daniela Rinaldi, quindi i saluti del presidente della Corte d’appello Giuseppe Meliadò e del procuratore generale Giuseppe Amato. Fra gli interventi quelli del giornalista Lirio Abbate, dello scrittore Giancarlo De Cataldo, del regista Andrea Segre e dei professori Roberta Calvano, Filippo Donati, Agostino Giovagnoli, Enrico Mezzetti e Roberto Zaccaria. Modererà la giornalista di Repubblica Conchita Sannino. A Bari, invece, l’appuntamento è alle ore 15, nell’Aula Corte di assise, Palazzo di Giustizia, ed è prevista la presenza vicepresidente dell’Associazione nazionale magistrati Marcello De Chiara. L’incontro sarà introdotto da Antonella Cafagna, presidente della Giunta Distrettuale Anm. Poi numerosi gli interventi: Pietro Grasso, presidente della Fondazione Scintille di futuro, Marco Travaglio, direttore de Il Fatto Quotidiano, Peter Gomez, direttore de IlFattoQuotidiano.it, Cinzia Sciuto, direttrice di Micromega, Giannicola Sinisi, ex magistrato e scrittore, quindi i professori di diritto costituzionale Francesco Perchinunno e Nicola Grasso. Modererà la giornalista Annamaria Minunno. Infine a Milano, insieme al presidente dell’Anm Cesare Parodi alle 16, nell’Aula magna Galli-Alessandrini, dopo i saluti del presidente della Giunta milanese dell’Anm Maurizio Ascione, sono previsti gli interventi dei professori Gian Luigi Gatta ed Enrico Grosso, del presidente Unione nazionale Camere civili Alberto Del Noce e del segretario dell’Associazione nazionale forense Giampaolo Di Marco. Modererà la giornalista del Sole 24 Ore Raffaella Calandra. Rocco Maruotti, segretario dell’Anm, sempre intervenendo al Comitato direttivo ha sottolineato e motivato la scelta di apertura: “Abbiamo deciso di far parlare soprattutto gli altri”. Già gli altri, questa riforma riguarda tutti i cittadini e le cittadine che non avranno nessun beneficio dalle nuove norme, perché non risolvono ne la lentezza del processo ne la mancanza di risposte. Non ci sarà affatto più giustizia. E allora è bene che a parlarne non siano solo i magistrati e le magistrate perché non riguarda solo loro. E il Governo non si smentisce, così come ha fatto con il Ddl sicurezza poi trasformato in decreto pur di sottrarre al confronto parlamentare il testo. Così accelera sulla riforma della giustizia in Senato che esaminerà il testo dal 18 giugno, continuando a dimostrare una spiccata tendenza all’autoritarismo e alla non sopportazione del confronto e del dissenso. Dice Alessio Festi, responsabile legalità della Cgil nazionale: “L’accelerazione della riforma costituzionale del sistema giudiziario dimostra, ancora una volta, le forzature continue da parte del Governo, dopo la scelta gravissima di approvare, in spregio a Parlamento e Costituzione il Dl Sicurezza. Lo ripetiamo siamo vicini alla mobilitazione di magistrate e magistrati, per difendere la loro autonomia, l’equilibrio dei poteri, l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Il sistema giudiziario non ha bisogno di controriforme ma di investimenti, a partire dalle assunzioni e dal superamento della forte precarietà presente” L’Anm ora ammette: “Il correntismo è vivo”. Ma non dà soluzioni di Valentina Stella Il Dubbio, 10 giugno 2025 Dopo lo scandalo Palamara, le toghe provano a mostrarsi cambiate. Ma le divisioni interne restano profonde. L’Anm lo ammette: le degenerazioni correntizie esistono ancora. Lo hanno detto, benché in modi diversi, gli stessi gruppi associativi durante la riunione del “parlamentino” del sindacato delle toghe che si è tenuta a Roma lo scorso fine settimana. La confessione collettiva ha monopolizzato quasi tutto il dibattito della due giorni: “La degenerazione correntizia, unitamente alla deriva carrieristica, è ciò che avvelena i nostri rapporti, che ci fa perdere di credibilità all’esterno. Si ha degenerazione correntizia tutte le volte che l’appartenenza ad un gruppo soppianta il criterio meritocratico. È sotto gli occhi di tutti che accanto a nomine sacrosante ce ne sono alcune che gridano vendetta”, ha dichiarato senza giri di parole l’esponente di Magistratura indipendente Giuseppe Tango. Ma lo stesso concetto è stato chiaramente espresso anche nei documenti che avevano presentato le altre correnti. Si legge in quello di AreaDg: “È innegabile che il settore delle nomine offra numerosissimi esempi di tale fenomeno”, ossia quello delle degenerazioni correntizie nell’esercizio delle funzioni del Csm. In particolare, sul nuovo Testo Unico sulla dirigenza, approvato a dicembre: “Assistiamo oggi alle prime applicazioni di tale delibera, e dunque è ancora presto per dire se, ed in quale modo, essa inciderà sul sistema delle nomine e sul fenomeno del correntismo”. Anche Magistratura democratica, nel suo documento, ha evidenziato come occorra “monitorarne l’applicazione e verificare i risultati, sia in relazione al tipo di dirigenza che avrà prodotto, sia in relazione all’effettivo superamento delle degenerazioni, così da stimolare correttivi e ripensamenti, se opportuni, o continuare sul percorso intrapreso a seconda dei frutti raccolti”. Ma non basta perché “la vigilanza dell’Anm e il controllo sociale della base deve essere costante e riguardare ogni aspetto del governo autonomo, partendo dalle realtà territoriali”, cioè i Consigli giudiziari chiamati ad assicurare più “trasparenza e pubblicità”. Addirittura Unicost, la corrente che fu dello scomunicato Luca Palamara, ha proposto l’istituzione di una “apposita commissione denominata “Commissione per il rinnovamento dell’impegno associativo e istituzionale”“. Idea respinta dalle altre correnti. Durante il pomeriggio di sabato, tutti i gruppi associativi, tranne quello dei CentoUno, hanno deciso di mettersi a tavolino e produrre un documento unico che è stato poi partorito la domenica mattina, per cui la cura è apparsa più blanda rispetto alla diagnosi fatta il giorno precedente. La necessità è stata sempre la stessa: non appare divisi, soprattutto su un tema che potrebbe essere visto come un autogol. “Riteniamo che la magistratura non sia rimasta inerte, avendo intrapreso un percorso di rinnovamento”, si scrive nel documento approvato a maggioranza, ciononostante “siamo consapevoli che il cammino è ancora lungo”. Non hanno partecipato al documento i rappresentanti del gruppo dei CentoUno, Andrea Reale e Natalia Ceccarelli, che hanno presentato una mozione contro il correntismo, respinta con 17 voti contrari e 2 favorevoli. “Quello approvato dagli altri gruppi è un documento della Restaurazione e totalmente negazionista, perché non cita neanche il Csm e l’occupazione correntizia dell’organo di governo autonomo. Non indica alcuna efficace proposta di autoriforma per evitare che il fenomeno si perpetui. Confonde responsabilità di singoli, inidonee a fare carriera da soli, alle responsabilità collettive dei gruppi, che spingono i loro verso le più fulgide carriere, a prescindere dal merito. Soltanto il sorteggio per i componenti del Csm e la rotazione negli incarichi direttivi possono tentare di debellare il Sistema, ancora purtroppo esistente, dentro il Consiglio superiore”. Chiaramente tutte queste prese di posizione sono state assunte per lanciare un messaggio alla politica: “Anche noi magistrati siamo in grado di effettuare una riflessione interna sul correntismo e siamo capaci pure di proporre delle soluzioni, diverse però da quelle pensate dalla maggioranza parlamentare e dal governo, come l’Alta Corte disciplinare, che è solo punitiva”. Tuttavia, per una eterogenesi dei fini, quello che però è venuto fuori è una presa d’atto del fatto che la magistratura ha sì iniziato un percorso di cambiamento dopo lo scandalo dell’Hotel Champagne, ma ancora c’è molto da fare. Tutta la discussione del Comitato direttivo centrale dell’Anm, da un punto di vista quantomeno esterno, non giova all’immagine delle toghe, proprio in un momento in cui dovrebbero apparire senza macchia agli occhi dei cittadini in vista del referendum costituzionale sulla separazione delle carriere. Tanto è vero che lo stesso segretario generale, Rocco Maruotti, ad un certo punto ha cercato di salvare l’apparenza: “Bisognerebbe fare un’azione di igiene del linguaggio. Parlare di degenerazione correntizia, consapevoli che l’Anm si è sforzata in questi anni di recuperare fiducia, non ci fa gioco”. Altresì per il vice segretario Stefano Celli sarebbe meglio “se riuscissimo ad evitare, almeno come primo messaggio, di essere noi stessi a dire che “non siamo una cosa cattiva”. Dire “non siamo così cattivi come ci dipingono” è un modo per far venire il dubbio anche a quelli che non ce l’hanno”. Una generazione alla deriva di Marilicia Salvia Corriere del Mezzogiorno, 10 giugno 2025 Il luogo in cui stiamo nudi, inermi, letteralmente immersi nella metafora del patto sociale, quella manifestazione di fiducia che ci consegna agli altri in un rapporto alla pari. Per quanto possa essere azzardato accumunare un femminicidio a un delitto maturato probabilmente per dissidi legati allo spaccio, due storie protagonisti quattro ragazzi figli dell’affollata cinta metropolitana di Napoli, difficile prendersela con il caso - che ci hanno portato abbondantemente oltre il limite dell’allarme. Storie al limite in un contesto di violenza mai tanto quotidiana, tra serial killer di escort, figli che uccidono il padre, cadaveri di madre e bimba nascosti tra i rovi di un parco meraviglioso della Capitale. Ma il contesto non può distrarci dal nostro dovere di cercare e trovare risposte. Risposte nuove, perché non è più vero che si tratta di lottare contro il solo degrado sociale o i mille rivoli della camorra, che pure c’entra, eccome, con la sua capacità di minare le menti e armare le mani. Risposte diverse, perché quelle messe in campo finora hanno ampiamente mostrato i propri limiti. Non si risolve nulla aumentando i reati per aumentare il numero dei ragazzi in carcere, come ha fatto il decreto Caivano. Specie se al carcere non dai gli strumenti per fronteggiare il sovraffollamento e potenziare il percorso di recupero. Non si va lontano immaginando di rendere punibili i minori già a 12 anni. O semplicemente introducendo a scuola corsi di affettività che nessuno sa a chi affidare, o anche decidendo di togliere il cellulare durante le ore di lezione in classe, come è sacrosanto che sia. Quello che serve è una presa in carico vera, seria, definitiva della questione minorile. È un passo che deve fare la politica, certamente nel Paese ma anche, per le sue specificità, in questo territorio, in questa regione. È arrivato il momento di lanciare un piano complessivo per la tutela dei giovani, per favorire la loro crescita sana, per intercettare al più presto i loro disagi anche psichici, per aiutarli a rialzarsi dopo una caduta. Questi giovani che vivono e agiscono sempre più d’istinto, come ha notato il garante campano per i detenuti Samuele Ciambriello, uno che il pianeta della devianza lo conosce bene. I giovani che sono in Campania la principale forza, essendo questa la regione più giovane d’Italia, sono anche la platea più fragile, quella più esposta a rischi in una società che tenta da qualche anno di saltare dall’arretratezza al futuro senza passaggi intermedi. Alla politica finora distratta - o fin troppo presente in un’unica realtà territoriale elevata a modello, ma alla resa dei conti molto poco cambiata - a questa politica che si avvia tra mille incertezze alla sfida delle Regionali tocca la responsabilità di compiere scelte una buona volta lontane dalla strada della demagogia e delle promesse a buon mercato. Sarebbe interessante, ma soprattutto importante che la campagna elettorale si concentrasse su questi temi, che sull’ascolto e l’attenzione da dare ai ragazzi, e anche alle loro famiglie, senza milioni di distinguo e di ostacoli burocratici, si aprisse un dibattito franco, pragmatico, sulla scorta (anche) di quanto chiesto dall’arcivescovo Battaglia ai funerali di Martina. Non si tratta di inventare nulla, di fare la gara a chi la dice più originale. Basterebbe ascoltare gli esperti, quelli che ogni giorno tra i ragazzi a rischio si sporcano le mani,per capire quanto bisogno ci sia di maestri di strada, perché agli adolescenti che a scuola non ci vanno la mattina è difficile arrivare attraverso scuole aperte fino al tramonto. Per capire che servono campi sportivi e consultori, e centri antiviolenza che non siano solo sportelli buoni a convincere le donne a denunciare, perché dopo la denuncia c’è tanta paura e poca forza per combattere battaglie in solitudine. Che servono assistenti sociali, tanti, motivati, a loro volta assistiti da una rete che funziona, perché non basta intercettare un disagio se poi non si trova la soluzione per superarlo. E che per tutto questo ci vogliono molti soldi, ma che i soldi spesi nei servizi sociali moltiplicano il loro valore: molto di più di quelli spesi per una sagra, come ha detto il procuratore Gratteri poche settimane fa, e in fretta abbiamo dimenticato. Come al solito, fino alla prossima, sconvolgente tragedia. Che tempi, signora mia. Ndrine e morti senza giustizia di Claudio Dionesalvi Il Manifesto, 10 giugno 2025 Calabria, giugno 1980, due agguati a dieci giorni di distanza: i bersagli sono Giuseppe Valarioti e Giovanni Losardo, esponenti del Pci contro i clan. Killer e i mandanti mai individuati. Due calabresi furono uccisi dalla ‘ndrangheta, 45 anni fa. Morirono con gli sguardi rivolti allo stesso mare, il Tirreno, a poca distanza l’uno dall’altro, ma a latitudini leggermente diverse: Giuseppe Valarioti l’11 giugno 1980, a Nicotera, nel Vibonese; Giovanni Losardo a Cetraro, in provincia di Cosenza, 11 giorni dopo. La loro tragica fine evoca un altro omicidio di stampo politico-mafioso, avvenuto poco tempo dopo, ma in un contesto storico e sociale analogo: il 30 aprile 1982 perderà la vita il deputato comunista Pio La Torre, assassinato da Cosa Nostra in Sicilia. Chi ha conosciuto Giuseppe e Giovanni ne ricorda i tratti comuni: entrambi garbati e gentili nelle relazioni umane; i loro toni pacati mutavano nell’agone politico, quando nelle piazze sferzavano senza alcun timore i boss e i loro compari annidati nelle istituzioni. Si accorsero d’essere finiti nel mirino, eppure non si lasciarono intimorire dai segnali inequivocabili degli imminenti agguati: una macchina che li seguiva insistente, uno sguardo truce di troppo, una frase sibillina e acida mormorata proprio nei luoghi a loro congeniali, quelle stanze istituzionali che in teoria avrebbero dovuto proteggerli. Oltre alla militanza, avevano in comune la passione civile, la voglia di lottare per un radicale mutamento della società, nella terra in cui vivevano. Contro la ‘ndrangheta usavano l’arma della parola. Giovanni lavorava nel tribunale di Paola; da consigliere comunale del Pci denunciò gli intrecci fra apparato politico e malavita nelle concessioni edilizie e non solo. Giuseppe insegnava Storia e Filosofia nei licei. I suoi ex alunni e alunne lo descrivono come un docente innamorato della scuola e delle materie umanistiche. Anch’egli iscritto al Partito comunista italiano, nei comizi in piazza ostacolava gli interessi sporchi delle ‘ndrine sulle produzioni agricole nella piana di Gioia Tauro, rivelando le alleanze strategiche che stavano costruendo per incunearsi nelle istituzioni locali. L’11 giugno di 45 anni fa Valarioti era a cena con i compagni, festeggiavano una difficile vittoria alle urne. La campagna elettorale era stata caratterizzata da continue intimidazioni: l’auto bruciata al candidato Pci al consiglio provinciale Giuseppe Lavorato, l’incendio appiccato alla sezione cittadina del partito, minacce nei confronti degli esponenti comunisti. A freddarlo per strada fu, all’uscita dal ristorante La Pergola a Nicotera, una sventagliata di lupara, nessuno ha pagato per la sua morte. La notte del 21 giugno, in località S. Maria di Mare nel Comune di Cetraro, a morire è Losardo: stava rientrando a casa dopo una seduta del consiglio comunale di Cetraro (che quella sera perse la maggioranza). Era a bordo della sua auto quando venne affiancato dai killer su una moto: spararono con un fucile, Losardo provò a salvarsi dietro un guardrail ma gli spararono altri colpi di pistola. Abbandonato esanime per strada, morì il giorno seguente presso l’Ospedale di Paola. Anche questo omicidio è rimasto senza autori. Giuseppe e Giovanni avevano sviluppato un’analisi critica della storia del fenomeno mafioso, consapevoli che le organizzazioni criminali puntano da sempre a un obiettivo preciso: l’accumulazione originaria di capitali indispensabili a mutarsi in borghesia, per potere investire in settori come l’edilizia e i servizi. “Giannino” e “Peppe” sapevano bene che la malavita può innervare la classe dominante solo dove l’apparato politico è consustanziale alle mafie. Negli anni in cui vivono e militano nel partito, compresero che in Calabria la mafia aveva ormai cambiato forma, strumentazione e campo d’azione, stringendo nuove alleanze con settori profondi dello Stato e col neofascismo. Non a caso, questi due comunisti avranno identico destino anche dopo la morte: non si conoscono ancora i nomi e i volti dei loro mandanti e assassini. Ma non sono stati cancellati dalla memoria collettiva. A Losardo è dedicato un laboratorio sperimentale che ha istituito un premio internazionale di giornalismo; a Valarioti la Casa del popolo di Rosarno. Ad entrambi sono intitolate piazze e vie. Oltre alle già numerose pubblicazioni e iniziative commemorative, negli ultimi anni è cresciuta l’attenzione intorno a queste due storie umane e politiche. Alcuni giornalisti e film maker calabresi, attingendo preziose informazioni dagli storici compagni e compagne di Losardo e Valarioti, in collaborazione con i loro cari, hanno realizzato documentari sulle rispettive biografie. Il primo, prodotto da Ugly Films con la regia di Giulia Zanfino, si intitola Chi ha ucciso Giovanni Losardo? e sta compiendo un tour nelle scuole e in tutti i luoghi che coltivano la conoscenza e lo studio della storia. È una lucida e dinamica inchiesta sul contesto in cui maturò l’omicidio, che lascia allo spettatore il compito di trarre le conclusioni. Il secondo, dal titolo Medma non si piega, dedicato a Valarioti, è scritto e diretto dal giornalista e film maker Gianluca Palma, in collaborazione con Giulia Zanfino e Mauro Nigro. È stato prodotto in collaborazione con l’Anpi, comitato area metropolitana Reggio Calabria, partner di Ugly, nonché col sostegno di comuni, associazioni e sindacati. A questo progetto ha lavorato anche Daniele Sorrentino (Hacienda-D) per la post produzione audio e le musiche. Una ricostruzione autentica della vita del giovane Giuseppe che si racconta con la sua stessa voce attraverso audio inediti concessi dalla famiglia Valarioti e da Bruno Caridi. Colloqui in videochiamata a detenuto 41-bis: “Rispetto della Convenzione dei diritti dell’uomo” di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 10 giugno 2025 Moglie lontana e figli in altre carceri: il magistrato del Tribunale di sorveglianza di Milano ha accolto il reclamo di un detenuto del carcere di Opera. “Il rispetto della Costituzione e della Convenzione dei diritti dell’uomo rende necessario riconoscere” anche “al detenuto sottoposto al 41 bis il diritto di effettuare colloqui in videochiamata con i propri familiari in sostituzione dei colloqui in presenza, secondo modalità individuate dall’Amministrazione penitenziaria e nei limiti derivanti dal numero di postazioni”: il magistrato del Tribunale di sorveglianza di Milano accoglie così il reclamo di un detenuto al 41 bis, che lamentava che il carcere di Opera non gli consentisse di videochiamare (una volta autorizzato) la moglie in Sicilia che non vede da anni, e i due figli reclusi in altri penitenziari italiani. Opera, chiedendo il rigetto del reclamo del detenuto “orientato alla tutela di un mero interesse personale non attinente alla violazione di diritti soggettivi”, sollevava “controindicazioni di natura organizzativa, poiché per i colloqui visivi in videochiamata sono impiegate le medesime salette che vengono utilizzate per le udienze penali in videoconferenza, considerato l’elevato numero di detenuti e il numero contenuto di salette”. I colloqui visivi da remoto, introdotti durante la pandemia Covid, dal 2022 sono poi rimasti possibili per i detenuti sottoposti a circuiti di media e di alta sicurezza. Il Dap utilizza una rete intranet (non pubblica) che garantisce la massima sicurezza, scongiura intrusioni di terzi non ammessi dai giudici, registra e può essere interrotta. Sulla base di queste coordinate, valuta la giudice Beatrice Secchi, resta “la necessità di realizzare un corretto bilanciamento fra le esigenze proprie del regime 41 bis e quella di garantire l’effettività del diritto a conservare i legami familiari attraverso la fruizione dei colloqui”. Il detenuto affermava di non avere colloqui visivi con la moglie da molti anni, sia per la difficoltà della donna a spostarsi dalla Sicilia profonda, sia per problemi economici, e con i due figli perché entrambi detenuti. La giudice ricorda che il diritto del detenuto al colloquio con i familiari trova nella Costituzione garanzia ricavabile dagli articoli 29, 30 e 31, e dall’articolo 8 nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo; mentre le assai più onerose restrizioni del 41 bis “sono costituzionalmente legittime solo se funzionali non già ad assicurare un surplus di punizione per gli autori di reati di speciale gravità, bensì esclusivamente a contenere la persistente pericolosità di singoli detenuti”, sempre che non risultino “sproporzionate o tali da vanificare del tutto la funzione rieducativa della pena”. Su questi parametri, il diritto ai colloqui visivi in videochiamata “deve essere riconosciuto non solo nei casi in cui il familiare non possa effettuare il colloquio in presenza per “età o malattia”, ma anche per differenti motivazioni pure facilmente documentabili: non c’è alcun ragionevole motivo per imporre al familiare di compiere lunghi viaggi per recarsi, ogni volta, nell’istituto penitenziario ove si trova il detenuto, spesso attraversando l’Italia e sostenendo costi non irrisori”. E per quanto riguarda i figli, “pacificamente il diritto ad effettuare colloqui in videochiamata deve essere riconosciuto quando anche il familiare risulti detenuto, sempre che ovviamente il colloquio in presenza sia stato autorizzato”. Il Dap ci riprova, altro no della Cassazione: il lettore Cd al 41 bis è un diritto di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 giugno 2025 Ancora una volta, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha provato a opporsi all’utilizzo del lettore Cd da parte di un detenuto al 41 bis. E ancora una volta, la Corte di Cassazione ha detto no. Nella sentenza n. 20637/ 2025, depositata il 24 aprile e da poco disponibile, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso del ministero della Giustizia, confermando la decisione del tribunale di Sorveglianza di Roma che aveva autorizzato Saverio Faccilongo, detenuto in regime di carcere duro nella casa circondariale di Viterbo, ad acquistare un lettore Cd e dei Cd musicali originali contrassegnati Siae. A difendere il detenuto è stata l’avvocata Francesca Vianello Accorretti, che ha presentato memoria chiedendo il rigetto del ricorso. Il caso parte da lontano: nel 2021, il magistrato di Sorveglianza di Viterbo aveva respinto la richiesta di Faccilongo, adducendo presunti rischi per la sicurezza - il solito argomento del “veicolo di comunicazioni esterne”. Il tribunale di Sorveglianza di Roma, nel 2023, aveva confermato quel diniego, salvo poi vedersi annullare l’ordinanza dalla Prima Sezione penale della Cassazione con sentenza n. 20698/ 24. In quell’occasione, la Suprema Corte aveva chiarito un punto che il Dap finge regolarmente di ignorare: l’ascolto di musica tramite Cd rientra tra quei “piccoli gesti di normalità quotidiana” riconosciuti dalla Corte costituzionale come parte dei diritti residui della persona detenuta, anche al 41 bis. La Cassazione aveva quindi rimandato gli atti al tribunale di Sorveglianza, chiedendo una sola cosa: verificare se la gestione di un lettore Cd e dei supporti musicali comportasse per l’Amministrazione penitenziaria adempimenti insostenibili in termini di risorse. Il Tribunale ha risposto: no, non comporta nulla di irragionevole. Anche perché - lo dice nero su bianco - altri detenuti in regime differenziato già avevano avuto accesso agli stessi strumenti. E soprattutto, la direzione del carcere di Viterbo non ha mai fornito spiegazioni su particolari difficoltà logistiche o operative. Il reclamo di Faccilongo è stato dunque accolto: il Tribunale ha autorizzato l’acquisto tramite l’impresa di mantenimento dell’istituto (cioè un soggetto fiduciario del Dap) e ha persino previsto misure prudenziali - come la consegna al mattino e la riconsegna alla sera - per evitare obiezioni ulteriori. E qui entra in scena l’ennesimo ricorso dell’Avvocatura dello Stato per conto del ministero della Giustizia. Due i motivi: primo, il diritto all’ascolto di musica tramite Cd non sarebbe un “diritto” vero e proprio, quindi il tribunale di Sorveglianza non avrebbe potuto occuparsene; secondo, anche ammesso che lo sia, non può essere la magistratura a imporsi sull’Amministrazione penitenziaria, dettandole compiti e oneri aggiuntivi. La Cassazione chiarisce che il tema della legittimazione del reclamo è stato già risolto nella sentenza precedente: ascoltare musica con Cd è un diritto residuale della persona detenuta, non un capriccio. La magistratura di sorveglianza non solo ha il potere, ma ha il dovere di verificare se il diniego dell’Amministrazione si basi su ragioni effettive o solo su automatismi securitari. E non c’è stato alcuno sconfinamento di poteri: il Tribunale non ha imposto nulla di più di quanto fosse già previsto. Ha solo rilevato che il Dap non aveva dimostrato l’inesigibilità dei controlli. E ha tratto informazioni da procedimenti analoghi già esaminati, legittimamente, per colmare i vuoti lasciati dalla Direzione del carcere. È la stessa Suprema Corte a ricordare il principio: il diritto può essere limitato, ma solo se la limitazione è proporzionata e necessaria. E qui non lo era. Perché l’Amministrazione penitenziaria può certamente subordinare l’uso del lettore Cd a cautele e verifiche, ma non può negarlo in blocco e senza argomentazioni, contando sull’automatismo del 41 bis come giustificazione sufficiente a tutto. Il ricorso del Dap viene quindi rigettato. Senza condanna alle spese, solo per via della natura pubblica della parte soccombente. Ma con un segnale netto: i diritti residuali non sono concessioni graziose, sono parte del minimo garantito anche nel carcere speciale. Puglia. La rieducazione del condannato attraverso esperienze educative consiglio.puglia.it, 10 giugno 2025 La testimonianza di realtà progettuali in Commissione criminalità. La rieducazione del condannato attraverso esperienze educative, che pongono al centro l’essere umano e non l’aspetto punitivo della pena, come possibilità di reintegrazione nella società. Questo il tema che è stato approfondito durante la seduta della Commissione regionale di studio e d’inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata in Puglia, presieduta da Luigi Caroli, a cui hanno parteciperanno il magistrato Giannicola Sinisi, don Riccardo Agresti ed il Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà Pietro Rossi. A testimonianza di un’opera diocesana di rieducazione sociale è intervenuto il magistrato Giannicola Sinisi, in qualità di volontario e con un’esperienza già di sei anni, del progetto “Senza Sbarre”, di reinserimento di detenuti ed ex detenuti nelle carceri pugliesi e italiane, ammessi a programmi alternativi alla detenzione, all’interno di un progetto di rieducazione e inclusione sociale, attraverso l’accoglienza residenziale e semi-residenziale. Questo progetto è nato nel 2018 grazie alla Diocesi di Andria e del suo parroco, don Riccardo Agresti, nella masseria San Vittore, della stessa proprietà della diocesi, che è stata restaurata e riadattata a laboratorio agricolo e artigianale grazie al finanziamento di 200 mila euro da parte della Caritas Italiana nel 2017 provenienti dai fondi dell’8xmille. Il dott. Sinisi ha posto delle domande su cui è opportuno fare delle riflessioni, soprattutto quando ci si chiede su come il carcere dovrebbe essere inteso oggi, visto che ormai i tempi sono maturi per una discussione seria, in considerazione delle condizioni di sovraffollamento esistenti. Ed inoltre, ci si chiede se un luogo di segregazione sociale può mai diventare un luogo di reinserimento sociale. È chiaro che sono contraddizioni logiche che impongono una riflessione seria. Ed è per questo che bisogna trovare un luogo di incontro, che certamente non potrà essere il carcere. E poi ci sono anche le famiglie dei detenuti, a cui bisogna anche pensare ed il carcere non può essere il luogo della riconciliazione. Ecco perché bisogna sforzarsi di capire se c’è un’alternativa al carcere e questa è possibile ed esiste ed è la Masseria San Vittore di Andria, dove sono stati ospitati 150 detenuti e sono state svolte oltre 20 mila giornate di accoglienza, realizzate con i proventi del lavoro effettuato in sede. Bisogna quindi interrogarsi su cosa fare nei confronti di chi ha sbagliato e realizzare spazi che siano un’autentica alternativa al carcere che aiuta a rimettere in carreggiata la loro vita. Si tratta di una realtà dove è possibile conoscere un nuovo mondo che consente agli uomini di avere una seconda possibilità per tracciare una nuova strada nella propria vita. Ritrovare, quindi, il senso profondo della vita in chi ha perso la speranza, attraverso il senso profondo del lavoro e della comunità. Don Riccardo Agresti si è detto felice di entrare finalmente nelle sedi istituzionali con cui è opportuno dialogare per mettere in atto una realtà che è ormai abbastanza chiara e consolidata. Esiste una misura alternativa al carcere - ha evidenziato don Riccardo - con uno specifico che rivoluziona ciò che noi non vediamo, secondo cui la via più facile sembra spesso essere quella di punire e invece è la privazione della libertà. Il progetto “Senza sbarre” è stato illustrato da don Riccardo, ricordando a tutti che nasce all’interno di un territorio di Andria con Sinisi sindaco di Andria, il cui fine era di entrare all’interno dei ragazzi per comprendere le cause. Non si può parlare più di progetto sperimentale, ci sono i fattori di riscatto, di ricostituzione e di riconciliazione per far rientrare i ragazzi all’interno della società. C’è una sinergia con le istituzioni sul territorio, ma soprattutto di giustizia. Il progetto da sostenere è secondo don Riccardo quello della società cooperativa sociale denominata “A mano libera”, dove i detenuti e ex detenuti sono impiegati nella produzione di pasta fresca e taralli, autosostenendosi e senza pagare nessuna retta, con la produzione di circa 8000 chili di taralli al mese. Il ricavato dalla vendita dei taralli, la cui commercializzazione ora avviene in maniera autonoma dalle stessa Cooperativa, viene reinvestito per dare possibilità ad altre persone di riscattarsi e tracciare una nuova strada, oltre le sbarre. “Tutto ruota intorno ad un solo progetto che è l’uomo, a cui cerchiamo di togliere la rabbia - ha concluso don Riccardo - chiedendo, inoltre il supporto delle istituzioni affinché si possa sviluppare il sogno che chi viene a lavorare con noi possa percepire uno stipendio pieno”. A totale conferma dell’importanza del progetto sostenuto da don Riccardo Agresti e dal dott. Sinisi, è intervenuto il Garante regionale dei detenuti Pietro Rossi, secondo cui è un’esperienza che allarga il cuore, con l’auspicio che queste esperienze si possano moltiplicare nel tempo. Il Garante regionale ha promosso l’approvazione di un ordine del giorno da parte del Consiglio regionale, affinché ci sia un impegno ad assumere iniziative che vadano nella direzione di migliorare le condizioni sociali dei detenuti. Assumendosi l’impegno di sostenete progetti di tale importanza, sono intervenuti i consiglieri Sergio Clemente, Renato Perrini e Ruggiero Mennea. Quest’ultimo, anche in funzione di consigliere delegato al welfare, si è detto pronto a prevedere nell’ambito del Piano triennale delle politiche sociali, forme di sostegno per l’avvio di realtà progettuali in forma di cooperazione sociale. In conclusione dei lavori, il presidente Caroli si è fatto carico di visitare la sede operativa in cui si svolge questo tipo di esperienza rieducativa, tale da essere attenzionata al fine di poterla esportare in altri territori pugliesi. Firenze. A 94 anni detenuto a Sollicciano e il giudice nega ogni pena alternativa di Valentina Marotta e Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 10 giugno 2025 L’imprenditore condannato per bancarotta. I medici del carcere: “Salute a rischio”. In cella a 94 anni, già da quattro giorni, e in condizioni di salute precarie. È la storia di un detenuto fiorentino a Sollicciano per un reato di bancarotta fraudolenta di circa 15 anni fa. Una condanna arrivata in primo grado a quattro anni e otto mesi, contro la quale era stato fatto appello nel 2021. La corte d’appello, però, ha confermato la pena. “La sua salute è a rischio”, dicono i medici del carcere. In cella a 94 anni, già da quattro giorni, e in condizioni di salute precarie. Claudicante, cammina appoggiandosi a un bastone e attraverso l’aiuto di un altro recluso. È la storia di R.C., detenuto fiorentino a Sollicciano per un reato di bancarotta fraudolenta per il crac di un’azienda avvenuto circa quindici anni fa. Una condanna arrivata in primo grado a quattro anni e otto mesi, contro la quale era stato fatto appello nel 2021. La corte d’appello, però, l’anno scorso ha confermato la pena. Nessun ricorso in Cassazione e la pena diventa definitiva. E così, giovedì scorso, arriva la polizia a casa dell’uomo per eseguire un ordine di carcerazione. Suona il cellulare del suo avvocato, dall’altra parte c’è il figlio del signore che dice: “Stanno portando via mio padre”. “Prima di quel giorno, quell’ordine di carcerazione non era stato notificato ai difensori” spiega l’avvocato Luca Bellezza che assiste l’anziano. A quel punto il legale fa istanza di differimento pena per motivi di salute o in alternativa l’applicazione della detenzione domiciliare, misura destinata per legge agli ultrasettantenni. Il giudice di Sorveglianza Claudio Caretto chiede una relazione ai medici della casa circondariale. Per i sanitari, il detenuto pur essendo in buon stato di salute è un soggetto fragile. Nel contesto carcere, “la combinazione di fattori biologici, psicologici e socio ambientali possono esporre il detenuto a maggiore vulnerabilità, rispetto ad eventi negativi per la salute”. C’è il rischio di un rapido declino delle funzioni fisiologiche. E pertanto i medici auspicano l’adozione di misure alternative e sollecitano una perizia per dichiarare l’incompatibilità con il regime carcerario Nonostante questo, il giudice Caretto respinge l’istanza: non ci sono i requisiti di urgenza, alla luce delle condizioni di salute attestate dei medici. Quindi per il momento deve restare in carcere. Ora la parola passa al tribunale di sorveglianza, in veste collegiale, che potrà confermare o ribaltare la decisione. “Ho incontrato il mio assistito nelle ultime ore - ha detto l’avvocato Bellezza - e ho visto un uomo che ha 94 anni, per fortuna combattivo e con uno stato d’animo tenace, ma non si sa per quanto potrà reggere, è urgente una misura alternativa”. “Non è possibile tenere in carcere una persona di 94 anni perché non rappresenta più un pericolo per la società” ha detto il garante regionale dei detenuti Giuseppe Fanfani. Parole simili da Fatima Benhijji, presidente di Pantagruel: “Una persona anziana e con malattie certificate non può vivere dentro il carcere, tanto meno a Sollicciano. Lo Stato intervenga”. Parole simili da don Vincenzo Russo, responsabile area carcere della diocesi: “A Vicofaro si dice che i migranti non possono stare nella comunità di don Biancalani per le condizioni igienico sanitarie, e invece nel degrado e nella sporcizia di Sollicciano può stare un povero anziano di 94 anni?”. “Non capisco perché sia in carcere. Abbiamo visto l’uomo che non sembra lucido mentalmente”, conclude Emilio Santoro di Altrodiritto. Firenze. Promesse e porte chiuse di Stefano Fabbri Corriere Fiorentino, 10 giugno 2025 C’è davvero da chiedersi se possa ancora sorprendere anche l’ultimo episodio accaduto a Sollicciano, dove due detenuti hanno incendiato le suppellettili della loro cella causando anche l’intossicazione da fumo di un agente. Quella del carcere fiorentino è una situazione difficile per chi è recluso e per chi ci lavora, nonostante la dedizione e l’impegno di chi è stato chiamato a cercare di salvare il salvabile. In una situazione diversa dare fuoco a un materasso perché non si hanno sigarette - una delle poche “trasgressioni” possibili dentro al muro di cinta - potrebbe far inarcare il sopracciglio, configurare un’esagerazione, un pretesto. E forse è così, in un quadro in cui di esagerato e pretestuoso c’è soprattutto il modo in cui le parole vengono spese per annunciare e promettere, a vuoto. È trascorso poco più di un mese dalla visita del sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro, all’uscita dal carcere aveva parlato di 10 milioni per migliorarne la situazione strutturale, ma secondo il parlamentare Pd Federico Gianassi la cifra era curiosamente identica a quella annunciata un anno prima dall’altro sottosegretario, Andrea Ostellari. Delmastro aveva poi indicato nella fine di maggio il termine entro il quale ci sarebbe stato finalmente un direttore stabile del carcere. Non è per mettere fretta, ma abbiamo fatto in tempo a lasciarci alle spalle la ricorrenza del 2 giugno e ad archiviarne la prima decade senza che nulla sia accaduto. Apparentemente nulla di gravissimo in un Paese ormai aduso agli annunci che restano tali e a promesse per le quali c’è sempre una spiegazione più o meno valida sul perché non siano state rispettate. Ma se si parla di carcere, cioè delle condizioni di vita di condannati e operatori, spesso accomunati da una sorte similmente grama, la faccenda non si può prendere con la stessa rassegnazione. Il rischio è che tutto appaia “risolvibile” solo attraverso una scorciatoia, cedendo alla tentazione di lasciare chiuse quelle porte e, anzi, immaginare di comprimere il disagio con la proibizione di manifestarlo. Prevedere, come nel decreto sicurezza, la punizione anche per forme di resistenza passiva, quale deterrenza è capace di esercitare in chi può trovare egualmente rischioso ma di maggiore efficacia dar fuoco a una cella? E, siccome una tentazione tira l’altra, tanto vale lasciare le cose come stanno: porte chiuse tra l’esterno e l’interno del carcere, dove tutto può accadere lontano dagli occhi, e quindi anche dal cuore, con tanti saluti alla Costituzione laddove si afferma che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. Anzi: meglio ancora se si buttano via le chiavi. Mentre sarebbe proprio ora il momento di non farlo e di girarle invece nelle serrature arrugginite per aprire a soluzioni ragionevoli e credibili. Genova. CESP: “Violenze nel carcere di Marassi, i detenuti proteggono i docenti” cobas-scuola.it, 10 giugno 2025 I detenuti della Casa Circondariale di Genova - Marassi il 4 giugno hanno messo a ferro e fuoco un’intera sezione dell’istituto penitenziario per protestare contro l’assoluta mancanza di intervento dell’amministrazione che ha permesso il protrarsi, sembra per ben tre giorni, di una brutale violenza ai danni di un giovane adulto recluso, di 18 anni. I docenti e le docenti della Rete delle scuole ristrette sono venuti a conoscenza dei fatti accaduti dagli organi di stampa, ma hanno potuto, immediatamente dopo, confrontarsi con i colleghi/e che insegnano nell’istituto penitenziario e sono parte della Rete. Pur rimanendo colpiti dalla vicenda in sé, i/le docenti non sono meravigliati per quanto accaduto, perché in quest’ultimo anno episodi del genere si stanno verificando in maniera diffusa nelle carceri italiane, tanto negli istituti minorili, quanto in quelli per adulti. La rivolta di Genova, infatti, non è l’unica avvenuta nell’ultima settimana (è solo l’unica di cui si ha notizia) e gli insegnanti interni agli istituti, che proprio per il ruolo svolto costituiscono un naturale “Osservatorio del disagio dei reclusi”, sono testimoni diretti di rivolte interne che coinvolgono intere sezioni, ma che non vengono neppure riportate all’esterno, nonostante si stiano insistentemente ripetendo. Una cosa i colleghi e le colleghe del Marassi ci hanno tenuto a sottolineare, ovvero che i detenuti hanno favorito la fuoriuscita dei docenti presenti in quel momento, in totale sicurezza, predisponendo un cordone che ha permesso loro di non entrare in contatto con i rivoltosi, così come hanno confermato di non aver assistito ad aggressioni nei confronti degli agenti, con alcuni dei quali, nel corso di quest’anno, hanno invece notato l’instaurarsi di un rapporto più disteso e quasi amichevole, forse anche dovuto al fatto che molti sono giovani o coetanei dei ristretti (e hanno affermato che proprio tale rapporto ha evitato conseguenze più gravi in quella tragica situazione). Risulta, invece, almeno per le notizie arrivate alla Rete, che i docenti presenti al momento dei tafferugli, non siano stati contattati, successivamente dall’Amministrazione, né come testimoni diretti dell’accaduto, né come personale a stretto contatto con i detenuti e l’area educativa. In realtà i docenti della Rete, in questi mesi, hanno avuto già modo di confrontarsi sulla difficile situazione e sull’aria di assoluta costrizione delle attività che si sta diffondendo sempre di più e l’ultimo confronto al proposito è stato quello del Salone Internazionale del Libro di Torino, nel maggio scorso, al quale la Rete ha partecipato con più appuntamenti e nel seminario del CESP “Cultura & Carcere. Biblioteche innovative: un modello che si diffonde”, docenti, dirigenti scolastici, funzionari giuridico-pedagogici, docenti universitari, garanti ed esperti si sono incontrati e hanno tratteggiato un potente chiaro-scuro della situazione interna agli istituti penitenziari. Già in quel contesto la situazione rappresentata ha evidenziato uno scenario difficile, con eventi simili a quelli descritti, nervosismo e chiusure nella media-sicurezza, spazi prossimi alla totale chiusura nell’alta sicurezza (pur tra qualche eccezione). In realtà, oltre alla già nota chiusura progressiva degli spazi, si deve affrontare, in molte situazioni, anche la riduzione degli orari normalmente destinati a queste e, così, ogni spazio di relazione, ogni tentativo di costruzione educativa, viene di fatto ostacolato, ridotto, marginalizzato o annullato. Le attività culturali che dovrebbero essere il centro del percorso di reinserimento, rischiano di diventare poco più che parentesi residuali, prossime allo smantellamento. A questo si aggiunge la crescente tensione quotidiana, con gli eventi critici che si moltiplicano e non sono più solo episodi isolati, ma sintomi di un malessere continuo che non può più essere ignorato. Anche per il personale della polizia penitenziaria la situazione è al limite: si parla di ferie ridotte a una sola settimana e il clima che si respira è quello di un logoramento generale e di rabbia. Per questo crediamo che ci si debba muovere ora, alzando la nostra voce collettiva, prima che davvero venga tolto del tutto lo spazio di agire. Il rischio non è solo quello di essere messi in un “angolo”, anche come scuola in carcere, ma che venga definitivamente meno l’idea stessa di carcere come luogo di possibilità, di cambiamento, di relazione, al centro di ogni nostra azione. Per i docenti della Rete, istruzione e cultura non sono soltanto uno slogan con il quale fare “vetrina”, ma un “modus operandi” nella concretezza delle previste e dovute attività trattamentali. “Il reinserimento sociale delle persone in esecuzione penale è procedimento complesso che richiede una risposta multidimensionale e non è possibile senza un cambiamento culturale intra ed extramurale. Ciò costituisce uno degli obiettivi del Programma nazionale 2022-2024 - Innovazione sociale dei servizi di reinserimento delle persone in esecuzione penale: cultura, sviluppo e coesione sociale, tuttora in atto [nota DAP ndr]. Segnaliamo, inoltre, la recente emanazione del decreto del Ministro della Giustizia, che nel porre in evidenza la prioritaria necessità di interventi culturali in ambito penitenziario, ha sottolineato l’importanza dello svolgimento di attività teatrali in carcere, quale strumento di riabilitazione e reinserimento, fondamentale per il cambiamento personale, culturale e sociale nel suo complesso.” (da “Lettera alla Rete e al Cesp” al Salone del Libro di Torino) CESP-Centro Studi Scuola Pubblica Rete delle Scuole Ristrette Compagnia #SIneNOmine associazione Teodelapio Spoleto ICS-ETS Istituto Cooperazione e Sviluppo-Alessandria Libreria sociale “il Dono” - Aversa Sulmona (Aq). Dietro le sbarre altri 40 detenuti. Nuovo padiglione verso il sold out di Andrea D’Aurelio ondatv.tv, 10 giugno 2025 Quaranta detenuti sono arrivati nel weekend nel carcere di massima sicurezza di Sulmona per riempire il nuovo padiglione entrato in funzione lo scorso marzo. Lo scorso sabato sono stati accolti infatti 25 nuovi reclusi e gli altri 15 domenica scorsa. Entro fine mese tutte le celle della nuova struttura saranno occupate. La realizzazione del nuovo padiglione era partita nel 2015. La struttura si prepara quindi ad ospitare fino a 265 detenuti che andranno ad aggiungersi ai 462 già presenti nell’istituto penitenziario. Nei mesi scorsi il garante, Monia Scalera, aveva chiesto di utilizzare il nuovo padiglione per effettuare i lavori a scaglioni nella vecchia struttura che necessita di messa in sicurezza e ammodernamento alla luce delle criticità più volte sollevate dai detenuti e dalle organizzazioni sindacali. Resta il problema della carenza di organico. A fronte di un possibile incremento di 265 reclusi sono stati inviati, nei mesi scorsi, 27 nuovi agenti nel carcere peligno che, negli ultimi tempi, è stato alle prese con aggressioni e traffico di droga e telefoni cellulari dietro le sbarre. Solo nei giorni scorsi gli agenti di polizia penitenziaria avevano trovato altri quattro dispositivi nelle camere detentive del nuovo padiglione. Per contenere il fenomeno, il Ministero ha deciso di dare lo stop alle telefonate e schermare l’intera struttura entro l’anno. Livorno. Teatro in carcere: i detenuti della Gorgona danno vita a “La città invisibile” di Gianmarco Lotti La Repubblica, 10 giugno 2025 In scena i detenuti del carcere al largo di Livorno, il progetto ideato da Gianfranco Pedullà. Una seconda opportunità, l’occasione per mettere in scena sé stessi, la propria creatività, con uno spettacolo teatrale. In mezzo al mare al largo di Livorno c’è la Gorgona e sull’isola c’è una casa di reclusione, che ancora oggi ospita qualche decina di detenuti. Domenica 29, lunedì 30 giugno e martedì 1 luglio il carcere diventerà un palcoscenico e i detenuti si trasformeranno in attori grazie al progetto “Il Teatro del Mare”, ideato e diretto da Gianfranco Pedullà, regista teatrale da sempre attivo per portare il teatro dietro alle sbarre. Stavolta si parla - anche - di Italo Calvino. All’interno della casa di reclusione alla Gorgona tra fine giugno e inizio luglio debutterà in prima nazionale “La città invisibile”, che arriva dopo il successo della “Trilogia del mare” (formata da “Ulisse”, “Metamorfosi” e “Una Tempesta”) che aveva portato oltre tremila spettatori sull’isola. Il Teatro del Mare torna dunque a rendere i detenuti della casa di reclusione protagonisti di un approfondito percorso artistico e umano. Lo spettacolo è il frutto di un laboratorio teatrale e musicale condotto da Gianfranco Pedullà, Francesco Giorgi e Chiara Migliorini, con la partecipazione attiva dei detenuti. Il testo è nato da un percorso di scrittura che ha trovato ispirazione nell’opera “Le città invisibili” di Italo Calvino e nelle carte dei tarocchi. Ma soprattutto è stato una sorta di itinerario introspettivo coordinato da Chiara Migliorini e basato su domande, conversazioni e suggestioni che hanno messo in relazione i partecipanti con lo spazio dell’isola, tirando fuori ricordi, sogni, desideri, paure e timori. “L’Isola di Gorgona, con la sua natura incontaminata e la sua storia, diventa così simbolo di rinascita e speranza, dimostrando come l’arte possa abbattere le barriere e costruire ponti tra mondi apparentemente distanti” sono le parole degli organizzatori. Il nuovo capitolo è definito come “un viaggio poetico e simbolico che esplora l’identità, la memoria e il desiderio di trasformazione, offrendo una narrazione corale che intreccia le storie personali dei partecipanti con l’immaginario collettivo”. La produzione è realizzata in collaborazione con la Casa di Reclusione di Gorgona, con il Prapp di Firenze, con il contributo della Regione Toscana, e il sostegno del Teatro delle Arti e del Comune di Lastra a Signa. Come partecipare? Bisogna prenotarsi scrivendo a teatrocarcere.tparte@gmail.com. Nella richiesta bisogna includere la data scelta oltre a numero dei partecipanti, nome, cognome, dati e luogo di nascita di ciascun partecipante una foto del documento d’identità e un recapito telefonico. La prenotazione sarà considerata valida solo dopo conferma via email. Il costo è di 40 euro per ogni partecipante ed è comprensivo di trasporto in traghetto e biglietto dello spettacolo. Per i minori di 12 anni il costo è di 25 euro. Roma. Il 13 giugno al via a Rebibbia i “Giochi della Speranza” di Alessandro Pendenza gnewsonline.it, 10 giugno 2025 Venerdì 13 giugno, in occasione del Giubileo degli sportivi, si svolgerà l’edizione ‘zero’ dei Giochi della speranza, un ideale ponte tra mondo delle carceri e spirito olimpico. Confermato, quindi, l’annuncio dato durante i lavori del convegno “Lo sport dentro” sul ruolo della pratica sportiva nelle carceri, organizzato dalla Fondazione Giovanni Paolo II per lo sport, dall’Università degli studi di Roma Foro Italico, che ha ospitato l’evento, e dalla Rete Sport & Legalità. Il primo istituto coinvolto sarà Rebibbia, e vedrà gareggiare quattro squadre la cui composizione - magistrati, detenuti, personale di Polizia penitenziaria e società civile - ha lo scopo dichiarato di ridurre la frattura tra detenuto e società, facendo competere nello sport categorie profondamente connesse, solo apparentemente in contrapposizione tra loro. Lo svolgimento di una giornata ‘olimpica’ negli istituti penitenziari intende essere una concreta realizzazione dei principi costituzionali della finalità rieducativa della pena e della promozione del benessere psicofisico attraverso lo sport. Le Fiamme azzurre coordineranno con il loro personale le attività sportive che spazieranno, a seconda delle specificità di ogni istituto penitenziario, dal calcio alla pallavolo, dal tennistavolo agli scacchi. Gli atleti della Giustizia confermano, così, la loro finalità sociale di migliorare la salute fisica e mentale delle persone detenute e diffondere la cultura della legalità e del fair play. In questa occasione istituzionale di riflessione sulla centralità in ambito penitenziario del valore rieducativo dello sport, come ribadito a più riprese dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio, hanno partecipato tra gli altri Sergio Sottani, magistrato e membro di ‘Sport e legalità’, Ernesto Napolillo, direttore generale dei detenuti e del trattamento del Dap, Irene Marotta, direttrice delle Fiamme azzurre, e Teresa Mascolo, direttrice della casa circondariale Rebibbia N.C. I relatori che si sono succeduti hanno esplorato e si sono confrontati sulle potenzialità dello sport come strumento di reinserimento sociale. Nel suo intervento, il procuratore Sottani ha sottolineato come “la funzione sociale dello sport in carcere è quella di ricongiungere alla società chi tramite il reato ha rotto il legame con la società civile”. Reggio Calabria. Il concerto-racconto “Inno alla Speranza” nel carcere di Arghillà ilreggino.it, 10 giugno 2025 Il pianista e compositore italo-brasiliano Marcelo Cesena protagonista dell’iniziativa promossa dal coordinamento regionale Aiga Calabria. Si è svolto ieri mattina presso la casa circondariale di Arghillà il concerto-racconto “Inno alla Speranza” del pianista e compositore italo-brasiliano Marcelo Cesena. L’iniziativa - proposta dal coordinamento regionale Aiga Calabria (associazione italiana giovani avvocati), presieduto dall’Avv. Nancy Stilo, in collaborazione con l’Associazione di Promozione Sociale Espero, presieduta da Antonino Stilo - nasce dal desiderio condiviso di portare un messaggio di forte speranza e solidarietà alla comunità carceraria. Il concerto ha visto la partecipazione di circa 80 detenuti, operatori a vario titolo dell’istituto penitenziario, nonché dei rappresentanti delle associazioni promotrici. L’evento è stato introdotto dal Direttore dell’istituto penitenziario Dott. Rosario Tortorella che ha fortemente gradito e promosso l’iniziativa dalle associazioni per il tenore altamente significativo, sia dal punto di vista culturale che umano. Così il Direttore Tortorella: “La musica è linguaggio universale perché superando ogni barriera, linguistica e culturale, parla direttamente al cuore di ciascuno. Il linguaggio della musica, infatti, può fare breccia anche nel cuore più indurito aprendo riflessioni e ripensamenti, stimolando il discernimento in chi ha commesso degli errori in vista di un obiettivo di recupero personale e sociale. È su queste considerazioni che ho ritenuto di accogliere la proposta di questo incontro musicale che, in verità, è stato anche un incontro di grande impatto emotivo grazie anche alla narrazione di momenti di vita con la quale il pianista e compositore Marcelo Cesena ha straordinariamente voluto accompagnare la sua musica, come un dono agli spettatori detenuti. È stato davvero un grande momento ed un’importante opportunità di riflessione per le persone ristrette del Plesso penitenziario di Arghillà, che hanno mostrato di apprezzare. Ringrazio il Maestro Marcelo Cesena e, naturalmente, la Coordinatrice dell’AIGA Calabria, Avv. Nancy Stilo, nonché il Presidente dell’Associazione di Promozione Sociale Espero, Antonino Stilo, per la loro sensibilità ed attenzione al carcere, poiché queste occasioni aiutano anche gli operatori penitenziari a svolgere più efficacemente il loro mandato istituzionale” Così la Coordinatrice Stilo: “Marcelo Cesena è un pianista di fama internazionale che utilizza un format atipico e molto particolare di presentazione, mediante il racconto, dell’ispirazione e della descrizione dei singoli brani che va ad eseguire. Avendo già assistito a una sua esibizione, appresa la sua presenza nella nostra città, ho pensato che un suo concerto potesse essere un’occasione unica da far vivere alla comunità carceraria, avuto riguardo alle finalità e ai principi della rieducazione e risocializzazione dei detenuti, fortemente sostenuti dalla nostra associazione e dal nostro Osservatorio nazionale Aiga Carceri. La musica è un linguaggio universale, così come il cuore dell’uomo, ed ha il potere di unire e cambiare le persone: è questo l’evento straordinario a cui abbiamo assistito questa mattina”. Il Presidente dell’Asp Espero Antonino Stilo ha speso parole di grande sensibilità nei confronti di quanti si trovano all’interno del carcere in attesa di scontare la propria pena: “La nostra associazione è nata 15 anni fa da un gruppo di amici che avevano scelto di restare a Reggio Calabria e costruire qui il loro futuro, non tralasciando di dare un contributo concreto al cambio di rotta culturale e sociale, sottolineando, soprattutto a coloro che si trovano a vivere in una condizione di fragilità e di incertezza, quanta bellezza ci sia nel guardare la nostra terra e la nostra gente attraverso uno sguardo autentico e impegnato, lavorando con costanza e determinazione per portare fuori quanto di buono e di utile risiede nel profondo di ciascuno, anche di coloro che pur avendo commesso degli errori, continuano a tenere vivo il desiderio di poter essere guardati con dignità. Solo questa cura verso noi stessi e verso il prossimo può aiutarci a tenere viva la speranza di un futuro in cui, chi lo desidera realmente, può vivere la bellezza di una comunità civile improntata al bene comune. Un grande messaggio di speranza, infine, quello portato dall’artista alle persone detenute che ha concluso così la presentazione del suo ultimo brano: “C’è qualcosa di prezioso in noi, più grande del nostro errore che è la nostra esistenza. Nessuno può togliere in noi la speranza di desiderare qualcosa di grande, desiderare di essere felici”. L’iniziativa è stata sposata anche dalla Garante regionale dei diritti dei detenuti Avv. Giovanna Russo che per sopravvenuti impegni istituzionali non ha potuto essere presente. L’umanità dietro le sbarre. La lezione di Don Mazzolari Il Riformista, 10 giugno 2025 Il parroco cremonese dedicò la vita alla rieducazione dei detenuti. “Io non so se l’umanità arriverà a spezzare le sbarre delle sue innumerevoli prigioni, ma il sogno fa parte della mia fede nella redenzione, perché, se quelle sbarre si schiudono appena e non si spezzano, vuol dire che anche i nostri cuori si aprono solo saltuariamente alla redenzione”. Quella di Don Primo Mazzolari è stata una grande figura: sacerdote cremonese, arrestato più volte durante il fascismo, nel suo ministero pastorale non ha mancato di avere parole e gesti di prossimità nei confronti dei detenuti delle carceri di Cremona e Mantova, in particolare, ma anche di altre carceri italiane. Nel centotrentacinquesimo della sua nascita, Edb pubblica il volume “Oltre le sbarre, il fratello”, a cura di Bruno Bignami e Umberto Zanaboni con pregevole prefazione dell’arcivescovo Gian Carlo Perego, offrendo ai lettori una guida autorevole per esplorare la profonda spiritualità e umanità del sacerdote cremonese e perpetrare il suo impegno “che anche oggi vede molti segni nelle nostre chiese: segni di misericordia, segni di speranza, segni di fraternità”. Don Mazzolari nei suoi interventi e nelle sue riflessioni invita a considerare il carcere non solo come luogo di pena, ma come spazio di redenzione e di rinascita: e quanto sia attuale questo discorso è persino superfluo sottolineare. “Ma bisogna avere una grande fede e bisogna soprattutto avere misurato dentro di noi la vanità, la spaventosa inutilità di certi interventi violenti, che, purtroppo, sono ancora radicati nell’idolatria dei nostri secoli cristiani...”, osservava allargando l’orizzonte dalla durezza del carcere al più generale tema della violenza del nostro tempo. Di qui il Mazzolari pacifista: “Non ci sono guerre giuste, non ce ne sono mai state, non ce ne saranno mai. Voi le potrete giustificare come volete, come meglio credete. Fate quello che volete. Ma, se da una Missione, in cui vogliamo vedere che cosa nasconde il volto del Padre, noi abbiamo ancora dentro i piccoli idoli o delle guerre rivoluzionarie o delle guerre difensive, se per dare un po’ di respiro al mondo abbiamo bisogno di negare la fraternità, io vi dico che possiamo chiudere le nostre chiese e fare della Missione l’atto di pentimento più grande, perché all’altare il crocifisso, con quelle mani spalancate e con quel cuore aperto, non può raccogliere della gente che, a un certo momento, crede che la giustizia possa essere un fratricidio”. Tra i punti chiave, quello della giustizia riparativa come strumento per costruire ponti, invece di scavare abissi, tra chi ha sbagliato e la comunità. In questo libro Don Mazzolari non si limita a parlare della necessità di un sistema di giustizia più umano, ma ci offre esempi concreti del suo impegno pastorale. Dai suoi incontri con i detenuti nelle carceri italiane fino ai discorsi pubblici che richiamano alla responsabilità di una Chiesa che deve essere madre misericordiosa, le sue parole risuonano come un invito pressante: “La giustizia non basta. Dove si ferma la giustizia, deve continuare la misericordia”. Barre e sbarre: il rap in carcere raccontato da Kento di Raffaella Tallarico gnewsonline.it, 10 giugno 2025 “Non mi interessa formare rapper professionisti, né scoprire la nuova promessa del rap italiano. Quello che mi interessa davvero è che trovino una voce, e soprattutto il coraggio di farla sentire. E se quella voce poi la usano in musica, in un libro o semplicemente per spiegare cosa provano…è già tanto. È già tutto”. Parla dei ragazzi detenuti Francesco Carlo, in arte Kento. Da 15 anni li aiuta a creare ‘barrè, ossia le strofe rap, tenendo laboratori di scrittura e poesia. Le barre come unità di misura della musica, ma anche del tempo trascorso in carcere: centinaia gli incontri, migliaia i giovani degli istituti penali minorili coinvolti. È di giovedì scorso il suo ultimo spettacolo con i ragazzi dell’Ipm di Treviso. Per tutti loro, la prima esibizione dal vivo di fronte al pubblico “ristretto” della comunità penitenziaria. Com’è andato lo spettacolo? Benissimo. E posso dire con orgoglio che è stato un momento di grande soddisfazione, sia per i ragazzi che per tutti coloro che hanno lavorato dietro le quinte per renderlo possibile. Non si è trattato solo di una performance artistica, e questo successo non è solo dei ragazzi, che con impegno e passione hanno reso lo spettacolo speciale. La sinergia tra l’Ipm, la scuola, le istituzioni locali, le associazioni - devo citare Crisi Come Opportunità, con cui collaboro ormai da anni -, le forze dell’ordine e le istituzioni nazionali è stata determinante. Ogni parte ha contribuito con il proprio impegno e la propria expertise, creando un ambiente favorevole, dove i ragazzi si sono sentiti supportati e valorizzati. La scuola ha fornito il contesto educativo e l’accompagnamento didattico. L’Ipm ha garantito che l’evento potesse svolgersi in un ambiente sicuro e protetto. Le forze dell’ordine, con la loro presenza discreta ma fondamentale, hanno reso possibile che tutto si svolgesse in un clima di serenità e rispetto. Anche le istituzioni locali hanno giocato un ruolo importante, contribuendo con risorse, logistica e, soprattutto, con un supporto che ha permesso di far sentire i ragazzi parte di una comunità più ampia. Le associazioni che collaborano sul territorio hanno messo a disposizione la loro esperienza, creando ponti tra il mondo carcerario e quello esterno. E poi, il supporto delle istituzioni nazionali, che hanno dato una visibilità maggiore all’evento, sottolineando l’importanza di un’iniziativa che promuove la cultura e la riabilitazione attraverso la creatività. Un grande lavoro di squadra, che ha permesso ai ragazzi di vivere un’esperienza unica e significativa. Cosa ti ha colpito di più di questa esperienza? Sicuramente vedere l’evoluzione dei ragazzi durante il percorso. In un primo momento, quando abbiamo iniziato a preparare lo spettacolo, dovevo quasi “tirarli” sul palco. Erano titubanti, con qualche incertezza, quasi a voler sfuggire a quella visibilità che li faceva sentire vulnerabili. Ma, alla fine, quando sono saliti, li ho visti cambiare. Si sono sbloccati, hanno preso confidenza con il pubblico, con il palco, con il loro ruolo. Erano disinvolti, quasi come se il palco fosse diventato una seconda casa per loro, e questa trasformazione è stata davvero straordinaria. È stato un vero e proprio processo di crescita, non solo artistica, ma anche personale. Il palco non era più un luogo di paura, ma uno spazio di espressione, di potenza e di libertà. Proseguirai con il laboratorio a Treviso? Sì, per ora continuerà, e sono davvero grato che ci sia ancora spazio per portarlo avanti. Tuttavia non ci sono certezze a lungo termine. La realtà delle carceri minorili è precaria e instabile, e spesso i progetti dipendono da fattori esterni che sono difficili da prevedere o da controllare. Quello che è certo è che il lavoro svolto finora ha avuto un impatto positivo, e sarebbe un peccato non poterlo proseguire e ampliare. Speri, insomma, che il modello sia replicabile... Sì. Si tratta di una buona pratica che meriterebbe di essere replicata su scala nazionale. Non è solo un progetto educativo o artistico, ma un vero e proprio modello di reinserimento e di riabilitazione. La cultura, la musica e l’arte sono strumenti potentissimi per aiutare i ragazzi a ritrovare la propria identità, a superare i propri limiti e a costruirsi una vita diversa da quella che avevano conosciuto. Per questo motivo, chiedo alle istituzioni, a tutti i livelli, di impegnarsi a favorire la diffusione di iniziative simili. Non possiamo più permetterci di ignorare l’importanza di investire in percorsi educativi e culturali all’interno degli istituti penali minorili. Se vogliamo davvero parlare di riabilitazione e di recupero, dobbiamo mettere in campo risorse e creare opportunità che possano davvero fare la differenza nella vita di questi ragazzi. Tra i tanti ragazzi detenuti che hai incontrato, c’è qualcuno la cui storia ti ha colpito in modo particolare? Le storie sono parecchie, ma vorrei raccontare quella di un ragazzo che non ho mai incontrato, eppure è stato presente più di molti altri. Si chiamava Alessandro, e stava scontando la sua pena all’interno dell’Ipm di Quartucciu, in provincia di Cagliari. Quando sono arrivato a tenere il laboratorio di rap, lui non c’era più: era morto pochi giorni prima, per un tragico incidente, durante un permesso premio. Non voglio parlare dei dettagli tecnici o giudiziari di quella morte, ma di cosa ha lasciato dietro di sé. In un primo momento, ovviamente, il laboratorio sembrava fuori luogo. Ma poi è arrivata dai ragazzi un’istanza forte: “Perché non facciamo una canzone per Alessandro?” E allora non è più stato un laboratorio, è diventato un rito. La scrittura non era più esercizio o tecnica: era memoria, dolore, rispetto. Abbiamo scritto insieme un brano che parlava di lui, senza retorica, senza mitizzarlo, ma con un affetto autentico. Da quel momento ho capito una cosa che porto sempre con me: ci sono assenze che pesano come presenze, e ci sono nomi che restano anche quando nessuno li pronuncia più. Alessandro non l’ho mai conosciuto, ma è stato uno dei ragazzi più presenti che abbia mai incontrato in un IPM. Hai mai pensato che qualche ragazzo detenuto potrebbe sfondare, se fosse fuori? Sì, certo. In ogni carcere minorile dove lavoro ci sono ragazzi con talento vero, a volte anche sorprendente. Alcuni hanno una metrica naturale, altri una voce che ti resta addosso, altri ancora riescono a raccontare il proprio vissuto con un’autenticità che spacca il foglio. Quindi sì, potenzialmente alcuni di loro, se fossero fuori, potrebbero anche sfondare. Ma non è questo il punto. Spiega... Il successo, quello commerciale, non è la misura del valore di una persona. Se un ragazzo scrive una strofa che gli permette di rileggere il suo passato e guardare avanti, allora ha già fatto un salto enorme. E se quella strofa la legge davanti agli altri, magari in aula o in un’aula bunker, allora ha vinto. Anche se nessuno lo chiama per un featuring. Per me “sfondare” non vuol dire finire in classifica. Vuol dire rompere il silenzio che spesso li circonda - o peggio ancora, li definisce. In un podcast, parlando del tuo libro “Barre. Rap, sogni e segreti in un carcere minorile”, hai detto che il rap è un genere che ha un legame forte con la sintassi, con la parola. Ecco, quale sintassi hai trovato nei ragazzi detenuti? Una sintassi viva, scomposta, meticcia. E quindi bellissima. Quando un ragazzo scrive una strofa, spesso non segue le regole della grammatica scolastica, ma costruisce una sua architettura, con cadenze, inflessioni e parole che vengono dal quartiere, dalla famiglia, dalla strada. A volte ci trovi dentro lo slang dei social, altre volte parole arabe, rom, napoletane, cagliaritane, francesi, tunisine, albanesi. È una lingua che si muove, che cambia, che scavalca i confini. E il rap è il contenitore perfetto per questo tipo di parola. Io credo che questo allargamento dell’italiano, che molti vivono come una minaccia, sia in realtà una ricchezza enorme. Nei testi dei ragazzi si sente tutto il bacino del Mediterraneo: è un italiano contaminato, ibrido, che non ha paura di mescolare. E è proprio lì che si crea qualcosa di nuovo, di potente. Non si tratta solo di slang, ma di una visione del mondo. Poi certo, la sintassi è anche struttura. E in carcere - dove spesso la vita è fatta di frammenti, traumi, discontinuità - costruire una frase intera, con un inizio e una fine, è già un gesto rivoluzionario. Un verso di rap non è solo suono: è un ordine dato al caos, è la rivendicazione di un pensiero. Di certo non è una sintassi povera, ma una sintassi in lotta, che cerca spazio, che si prende il diritto di esistere. E ogni volta che un ragazzo riesce a scrivere quello che prova, e lo fa con le sue parole - anche sbagliando, anche sporcando la lingua - ha già fatto un passo fuori. La trap va per la maggiore tra i ragazzi più giovani: ti sei mai sentito “snobbato”? In realtà no, non mi sono mai sentito davvero snobbato. Anche perché secondo me la distanza tra rap e trap non è poi così netta come spesso si racconta: cambiano i suoni, cambia il modo di usare la voce, ma l’idea di fondo è la stessa. Raccontare la propria realtà, metterla in rima, cercare un’identità attraverso la parola. Poi c’è un’altra cosa che vale più di mille definizioni: io non vado lì a fare il maestro. Entro in sezione, mi presento per quello che sono, parlo con i ragazzi, ascolto la loro musica, e soprattutto faccio sentire la mia. Non mi metto in cattedra, ma mi guadagno il rispetto sul campo. Scrivo con loro, mi metto alla pari, porto le mie rime e le metto in gioco. È così che si costruisce un dialogo vero. Alla fine, se sei autentico, lo sentono. E allora il fatto che tu venga dal rap più “classico” non conta più niente: conta che tu abbia qualcosa da dire, e il coraggio di dirlo guardandoli negli occhi. Altri progetti in cantiere dentro i penitenziari? Siamo in un periodo intenso di saggi di fine anno e di uscite di nuove canzoni, per cui c’è parecchia carne al fuoco e molti progetti in programma, che ancora non posso svelare ufficialmente. La cosa che mi preme sottolineare è che le attività non si fermano mai: l’associazione Crisi Come Opportunità promuove la pratica del “presidio culturale permanente”, per cui i ragazzi hanno ogni settimana, per 12 mesi all’anno, la possibilità di scrivere, cantare, registrare e - quando è legalmente possibile - pubblicare le canzoni ed esibirsi dal vivo. Qual è il tuo sogno, un progetto dentro le carceri che ti frulla in testa ma che, per ragioni che non dipendono da te, è difficile da realizzare? Il mio sogno, che purtroppo oggi sembra quasi impossibile da realizzare, è quello di portare i ragazzi detenuti in tour per tutta Italia. Immagino un viaggio che attraversa città diverse, dove questi ragazzi possano salire su palchi importanti e far sentire le loro voci, le loro storie e le loro emozioni. Non si tratterebbe solo di un’esibizione musicale, ma di un momento di incontro, di condivisione e di riconoscimento. Un’opportunità per loro di mettersi in gioco, di confrontarsi con altre realtà e di far vedere che anche in un contesto di detenzione, dove a volte sembra che le possibilità siano limitate, ci sono talenti, creatività e potenzialità straordinarie. Purtroppo, ci sono tante difficoltà che rendono difficile questa idea. Le barriere legate alla detenzione sono enormi, sia pratiche che burocratiche, e spesso non dipendono dalla buona volontà di chi lavora per cercare di cambiare le cose. C’è un sistema che non sempre permette di superare queste barriere, sia in termini di logistica che di autorizzazioni. Ma al di là di queste difficoltà, c’è la consapevolezza che un progetto come questo potrebbe fare davvero la differenza nella vita di questi ragazzi. Non sarebbe solo un’opportunità di crescita artistica, ma anche un potente messaggio di speranza e di cambiamento, che mostrerebbe a tutti che, nonostante tutto, è possibile ricostruire un futuro, anche partendo da una situazione difficile come la detenzione. Come ti sei trovato con la comunità penitenziaria? La situazione in Italia è molto variabile, e ogni carcere ha le sue peculiarità, anche all’interno della stessa categoria, come gli istituti penali minorili. Quello che posso dire con certezza è che chi lavora in questi contesti si trova spesso a combattere con una burocrazia farraginosa e con difficoltà di ogni tipo. La gestione delle attività e dei laboratori, per esempio, è spesso ostacolata da questioni logistiche e autorizzative che non dipendono da chi cerca di lavorare sul campo. Non è raro che progetti che potrebbero portare grandi benefici ai ragazzi vengano rallentati o bloccati da procedure che non tengono conto della specificità del lavoro che facciamo. Nonostante queste difficoltà, il rapporto con la comunità penitenziaria è, in generale, ottimo. Il personale di polizia, la direzione e gli educatori sono professionisti che, nella maggior parte dei casi, si impegnano quotidianamente con passione e dedizione. È importante riconoscere che senza il loro contributo, niente di ciò che faccio sarebbe possibile. In questi anni ho avuto modo di instaurare un rapporto di fiducia reciproca con molte di queste persone, e credo che insieme stiamo costruendo un ambiente dove la collaborazione diventa sempre più fondamentale. È cambiato qualcosa nel corso del tempo nel rapporto con ciascuna di queste ‘categoriè che lavora nei penitenziari? Sicuramente c’è più apertura verso attività come quelle che propongo, perché si è compreso che la cultura, la musica, la poesia possono diventare strumenti di riabilitazione e di crescita personale per i ragazzi. Per quanto riguarda il personale di polizia, il mio rapporto è stato sempre improntato sul rispetto e sulla comprensione reciproca. La loro funzione è quella di garantire la sicurezza, e io capisco che il loro ruolo è fondamentale, ma allo stesso tempo cerco sempre di far comprendere loro che l’educazione e l’inclusione possono essere alleati nella gestione di una struttura come quella penitenziaria. Con la direzione, spesso, ci sono stati momenti di confronto, ma anche una buona collaborazione, soprattutto quando si parla di progetti che possano favorire il recupero dei detenuti minorenni. Per quanto riguarda gli educatori, il legame è sempre stato più stretto, poiché condividiamo un obiettivo comune: aiutare i ragazzi a crescere, a migliorare e a prepararsi per un futuro che, in molti casi, è ancora tutto da costruire. In generale, penso che la comunità penitenziaria in Italia, pur con tutte le sue difficoltà, stia cercando di evolversi, cercando di dare spazio a pratiche che non siano solo punitive, ma anche educative e riabilitative. Ovviamente, il sistema è molto complesso e faticoso da affrontare, ma credo che ci sia una volontà crescente di migliorare, e che il nostro lavoro con i ragazzi possa davvero fare la differenza nel lungo periodo. Se i cittadini “svuotano” l’unico potere che hanno di Vitalba Azzollini* Il Domani, 10 giugno 2025 Astenersi è una libertà democratica. Ma davanti alla progressiva erosione dei diritti democratici, la graduale irrilevanza del parlamento e l’abuso dei decreti legge, esercitare la libertà di voto attraverso il non-voto significa svuotare di senso la democrazia diretta. E dimenticare il periodo storico precedente a quello in cui la Costituzione vide la luce. Il referendum dell’8 e del 9 giugno ha visto protagonisti, ancora una volta, coloro i quali non hanno votato. È una libertà democratica anche astenersi. Ma, ora che il referendum si è tenuto, può risultare più chiaro spiegare cosa significhi esercitare la libertà di voto attraverso l’inerzia, cioè il non-voto. I cittadini, durante la pandemia, hanno sperimentato la restrizione delle proprie libertà costituzionali, avvertendone forse solo in quel momento l’importanza. Alcuni di essi hanno probabilmente meno chiara la progressiva erosione dei loro diritti democratici determinata dal cattivo funzionamento delle istituzioni. Ci si riferisce alla graduale irrilevanza del parlamento, ove siedono coloro i quali i cittadini hanno votato, a causa di esecutivi la cui azione è sempre più debordante. Basti pensare all’abuso del decreto-legge. Vi si può ricorrere solo “in casi straordinari di necessità e di urgenza” (art. 77 Cost.), ma da tempo i decreti sono usati dai governi come strumenti ordinari, per soddisfare le proprie urgenze politiche. Lo si è visto da ultimo con il disegno di legge Sicurezza, trasformato in decreto-legge senza che fossero fornite le ragioni di necessità e urgenza, ma con la motivazione che ormai si era perso troppo tempo nella discussione parlamentare. Un vero e proprio “scippo” al Parlamento, con dubbi di legittimità nel metodo, oltre che nel merito, e il conseguente sbilanciamento dell’equilibrio tra poteri pubblici. Il continuo e ingiustificato utilizzo della decretazione d’urgenza fa sì che i 60 giorni entro cui può avvenire la conversione permettano a un solo ramo del Parlamento l’esame reale del provvedimento, per non parlare del ricorso alla questione di fiducia. Inoltre, il fatto che l’attività prevalente del parlamento sia quella di convertire i decreti del governo fa sì che ad esso residui un tempo marginale per svolgere la propria funzione legislativa. Con lo svilimento del ruolo dei rappresentanti dei cittadini, questi ultimi finiscono per contare sempre meno. Tornando al referendum dell’8 e del 9 giugno, quei governanti che stanno svuotando di senso la democrazia rappresentativa hanno invitato i cittadini all’inerzia nella democrazia diretta, svuotando di senso pure questa. È una scelta legittima non votare a un referendum - lo si ribadisce - e sono legittimi pure gli inviti all’astensione, formulati da esponenti di questo esecutivo, così come di altri in precedenza. Ma giocare con l’astensionismo, fino al punto di conteggiare tra le fila di chi si astiene per far fallire la consultazione anche quelli che non votano per disinteresse o pigrizia, finisce per svalutare l’autorevolezza e il ruolo delle istituzioni. Politicizzare il referendum, non affrontando nel merito i temi oggetto dei quesiti, ma invitando semplicemente all’astensione, lo trasforma in una questione di tifoserie che svilisce il significato più elevato della democrazia. E se i cittadini accolgono l’invito e non esercitano attivamente i propri diritti democratici forniscono un alibi per sopprimerli o almeno per renderne sempre più difficile l’esercizio stesso. Se le persone avessero ben chiaro il ricordo di cosa significhi non poter esercitare diritti e libertà, com’è accaduto in pandemia, forse avvertirebbero in modo palese l’importanza di una condotta attiva - andare alle urne - rispetto all’inerzia, per determinare l’esito referendario. Tale importanza risulterebbe ancora più chiara se avessero presente il periodo storico precedente a quello in cui la Costituzione vide la luce. Perché è vero che non votare è una libertà. Ma quella di votare, e di votare come si vuole, ha tutt’altra valenza per chi sia consapevole di cosa significhi non poterlo fare. “È l’esercizio democratico che sostanzia la nostra libertà”, ha detto il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, alle celebrazioni per l’ottantesimo anniversario della Liberazione. Forse è proprio da qui, dal valore dell’esercizio attivo dei diritti civili, che bisogna ripartire. *Giurista Riconoscere la sconfitta per ripartire di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 10 giugno 2025 Delusione referendum. Il 70% di astenuti è una conferma di come in questo paese sia in via di sparizione l’elemento base della partecipazione. La prima cosa da fare davanti a una sconfitta è riconoscerla come tale. Certo, ci sono anche dei segnali che, con qualche sforzo, possono essere interpretati positivamente, poco più di 14 milioni di elettori sono comunque andati a votare in condizioni difficili con l’ostilità e il boicottaggio del governo. Ma non si mettono in piedi cinque referendum per fare un sondaggio sulle intenzioni di voto degli italiani. Né è corretto interpretare i 12 milioni di sì al referendum (media dei quattro quesiti sul lavoro, estero escluso) come la prova dell’esistenza di una maggioranza alternativa rispetto ai 12 milioni e 300mila voti messi insieme dal centrodestra in una consultazione tutta diversa tre anni fa. Non è corretto numericamente e non lo è logicamente, visto che i promotori si erano appellati anche agli elettori di Meloni perché andassero a votare per i loro diritti di lavoratori, a prescindere dalle preferenze politiche. L’appello agli elettori di destra potrebbe avere in parte funzionato, come proverebbero i dati di affluenza di certe periferie urbane, migliori dei centri storici malgrado la sinistra da anni non tocchi palla ai margini delle città. Anche il fatto che nel quinto referendum, quello sulla cittadinanza, la percentuale di no sia quasi il triplo rispetto agli altri quesiti consiglia di conteggiare tra i votanti effettivi anche un po’ di elettori di destra, per quanto sia soprattutto la (preoccupante) conferma che l’ostilità verso i migranti è penetrata anche tra quelli di sinistra. Dunque è di una sconfitta che dobbiamo parlare. Perché i referendum abrogativi si tentano pensando di poterli vincere per rimediare a leggi sbagliate, non avendo il sindacato altro modo per ottenere il risultato e non potendo fare affidamento sui partiti di opposizione. Magari il fatto che questi partiti - tirati dentro una sfida che non avrebbero voluto - abbiano ripreso contatto con il mondo del lavoro e le assemblee sindacali durante la campagna elettorale possiamo esaltarlo come uno dei pochi lasciti positivi del referendum, ma più di tutto speriamo che duri. Oggi è soprattutto la sconfitta, l’affluenza inferiore anche alla soglia psicologica del 35% sulla quale ufficiosamente si contava, che pesa. E peserà in favore del governo, quando nei tavoli sindacali potrà dire che su appalti e subappalti la soluzione prevista in caso di vittoria del referendum, la più utile e ragionevole, è stata bocciata dagli italiani. Nascondendosi così dietro la volontà popolare, ma volendo in realtà semplicemente continuare a non disturbare le imprese, per quanti morti sul lavoro ci siano. Peserà la sconfitta tutte le volte che si proverà a ribadire il legame stretto tra lavoro povero e precarietà: i referendum non parlavano d’altro rispetto al crollo dei salari. Peserà molto sull’approccio razzista che il governo ha e continuerà ad avere nell’affrontare migranti e migrazioni. In definitiva dobbiamo ripartire ma non possiamo farlo di slancio. Non la Cgil, che è una grande organizzazione anche nel confronto con gli altri sindacati europei: porterà il segno della sconfitta e avrà bisogno di sintonizzarsi da capo, nell’attività sindacale, con la grande maggioranza dei lavoratori che non ha più fiducia nelle indicazioni dei suoi rappresentanti e nemmeno nelle forme di democrazia diretta. E non il centrosinistra che ha davanti, come tutti noi, una gigantesca questione democratica. Il 70% di astenuti è una conferma di come in questo paese sia in via di sparizione l’elemento base della partecipazione. Ed è anche peggio di una conferma, dal momento che in alcune zone, specie del sud, specie nelle aree interne, si arriva ormai a punte negative di un elettore o due ogni dieci aventi diritto. Chiaro che adesso debba aprirsi anche una riflessione sullo strumento del referendum abrogativo. Probabilmente strumentale da parte delle destre ma impossibile da respingere in toto. Detto che il referendum si protegge innanzitutto pensandoci bene prima di convocarlo ed evitando azzardi, è vero che la soglia alta del quorum pensata nel 1948 quando votava il 92% degli aventi diritto e confermata venti anni dopo quando l’affluenza era rimasta la stessa, non ha più alcun senso. Ma non sarebbe possibile nemmeno abolire del tutto una soglia di validità. Mentre è possibile studiare un meccanismo per cui l’astensione, evidentemente sempre legittima, non parta così clamorosamente in vantaggio e non possa assorbire totalmente la campagna del no. Ragionamenti da fare, a partire da una sconfitta. I “no” al 35%: cosa resta della battaglia sulla cittadinanza di Diego Motta Avvenire, 10 giugno 2025 La bocciatura del quesito referendario e il dato sul “no” fanno riflettere l’opposizione. In Parlamento giacciono 18 testi di riforma, anche se il percorso adesso appare in salita. Cosa resta di una mobilitazione? E che spazi ci sono per parlare ancora di cittadinanza? Il doppio interrogativo che segue al mancato quorum referendario non tiene banco solo tra le nuove generazioni di stranieri nati e cresciuti nel nostro Paese, che pure hanno avuto modo di farsi conoscere più e meglio di prima in questi mesi di campagna elettorale da buona parte dell’opinione pubblica. Riguarda anche una politica e un Parlamento in cui il tema aleggia da sempre e che adesso ha meno tempo per legiferare, visti i due anni scarsi che separano la consultazione che si è appena svolta dalla fine della legislatura. È evidente che l’interesse a intervenire adesso sulla situazione dei cosiddetti “nuovi italiani” è scemato, mentre forse è cresciuta la consapevolezza che si tratta di un tema assai più divisivo del previsto, se oltre un elettore su tre è andato alle urne per dire “no” al quesito voluto dal comitato promotore. Il percorso si è fatto ancora più in salita e la méta appare irraggiungibile oggi. Eppure tra Camera e Senato giacciono tuttora 18 testi depositati come proposte di riforma (13 a Montecitorio, 5 a Palazzo Madama) e la discussione non è mai iniziata. Venuto meno il possibile coup de theatre della riforma per via referendaria, cosa si può trattenere di positivo in sede parlamentare? Come abbiamo più volte segnalato su queste pagine, le proposte presentate da Forza Italia e dal Pd rimangono, su fronti diversi, le basi più vicine del confronto mai iniziato. Fi ha puntato sullo Ius Italiae, che vuole garantire la concessione della cittadinanza a bambini e ragazzi che abbiano completato un percorso di studi obbligatorio di almeno 10 anni nel nostro Paese, dopo aver limitato l’accesso allo Ius Sanguinis per i cosiddetti oriundi alla seconda generazione. Importante, in tutto questo, pare essere soprattutto la finalità di voler accorciare i tempi di risposta da parte dello Stato per chi chiede la naturalizzazione. Su questo punto, c’è l’unico tratto in comune con il Partito democratico, che invece vorrebbe partire dallo Ius Scholae già dalle scuole dell’infanzia. Da dove ripartire - “Il tema della cittadinanza esiste e non va cancellato” spiega Paolo Erminio Russo, capogruppo di Forza Italia in Commissione Affari costituzionali, “ma il referendum è stata un’arma impropria, usata male e che si è rivelata alla fine un boomerang”. Vista dalla maggioranza di governo, sorprende poco il dato del 35% circa di “no” al quesito. Si conferma infatti, forse al di sopra delle previsioni, quanto sia polarizzante il dibattito sui “nuovi italiani”, non solo per gli elettori moderati (e si sapeva) ma anche per una parte del mondo progressista (ed era meno prevedibile). Per Ouidad Bakkali, parlamentare del Pd e prima firmataria della riforma sulla cittadinanza proposta dal suo partito, “la battaglia culturale non è finita e certamente aver affrontato questa sfida in un clima securitario non ha aiutato. Però si è ricreato un fronte di associazioni, partiti e militanti che si era sgretolato nel 2017 e questo non è poco”. Secondo Russo, “il rischio che si registrasse un concreto disinteresse sull’argomento era concreto, come poi abbiamo visto. Adesso uno scenario in cui il Parlamento non legifera più sulla materia è molto realistico”. Fosse per Forza Italia, si dovrebbe ripartire dallo Ius Italiae, ma l’accento non è solo sui 10 anni di scuola necessari (due cicli scolastici completi). “Questi ragazzi hanno diritto a ad avere la cittadinanza al massimo in un anno” ribadisce Russo. Qui la sintonia con Bakkali, diventata italiana a 23 anni dopo essere arrivata dal Marocco, è evidente. Per la parlamentare democratica “è giusto insistere sulla via della semplificazione burocratica: non si possono perdere 3-4 anni per ottenere una risposta dallo Stato. Su questo - aggiunge - sono convinto si possa trovare una convergenza anche con Fratelli d’Italia”. La semina e i frutti - Le sensibilità restano distanti, ovviamente, a partire dal nodo della meritocrazia: si deve meritare di diventare italiani o si tratta semplicemente di un diritto da riconoscere? E parliamo di un diritto di sangue o di una prerogativa legata semplicemente al fatto di essere nati e cresciuti su un determinato territorio? Il sogno di “un testo equilibrato”, come lo definisce Russo, è destinato a restare tale nei prossimi mesi, soprattutto se prevarrà la logica della paura, che il referendum non ha smentito e che ha portato molte trasmisssioni tv e diversi opinionisti poco informati a fare di tutta l’erba un fascio. “Quando non era il silenzio a parlare, toccava alla disinfomazione fare la sua parte - dice Bakkali con una punta di amarezza -. Così abbiamo assistito ad attacchi frontali anche verso le seconde generazioni, un’offensiva mediatica che francamente ci saremmo risparmiati. Ma questo ci spingerà ancora di più a informare e ad affrontare i timori di una parte dell’opinione pubblica che si è espressa con il “no” e che va rispettata ovviamente. Le questioni sono ancora tutte lì e siamo convinti che la semina che abbiamo fatto a suo tempo darà frutto”. Cittadinanza, scuola e demografia sono intrecciate (e ora occorre muoversi) di Massimo Calvi Avvenire, 10 giugno 2025 In Italia nascono pochi bambini, eppure le classi delle nostre scuole sono un laboratorio da studiare per inclusione e inserimento degli stranieri: è necessario fare una riflessione culturale. Ci sono sfide, nel senso di problemi, crisi, ma anche opportunità, che per essere affrontate (e vinte) andrebbero comprese e gestite prima che sia troppo tardi. Perché viene un momento in cui gli strumenti a disposizione diventano obsoleti e inefficaci a causa dello scorrere del tempo. Prendiamo la crisi demografica: l’Italia avrebbe dovuto incominciare ad affrontarla seriamente almeno una trentina di anni fa, quando ancora le misure “classiche” di intervento sarebbero state in grado di sortire qualche effetto. Oggi, purtroppo, se si parla di fare qualcosa per rimuovere gli ostacoli al desiderio di figli, il contesto culturale richiede la capacità di inventare veramente qualcosa di nuovo. In questo periodo si sta discutendo se sia giusto lasciare che debbano trascorrere 10-13 anni prima che una persona adulta inserita nel contesto nazionale, con la capacità di parlare un buon italiano e una presenza attiva nel mondo del lavoro, possa diventare cittadina a tutti gli effetti. Mentre ci accapigliamo attorno a questo argomento, oggetto di un referendum (a proposito: si vota domani e lunedì), rischiamo di non accorgerci che il tempo scorre e stiamo probabilmente guardando nella direzione sbagliata. Tutti. Cioè i buoi, come si sarebbe detto una volta, stanno già scappando. A cosa ci riferiamo? Guardiamo un paio di numeri, tra quelli che il rettore della Bocconi, Francesco Billari, ha fornito mercoledì durante l’audizione alla Commissione parlamentare di inchiesta sugli effetti della transizione demografica: in Italia le persone sotto i 35 anni in possesso di una laurea sono il 24%; pochi se si fa un confronto col gruppo dei Paesi avanzati dell’area Ocse, dove la media è addirittura del 50%. Significa che siamo una nazione con un “capitale umano” - sì, è un brutto termine, ma non è questo, ora, il punto - che merita qualche attenzione. Nei contesti sviluppati le competenze sono importanti, sia a livello personale che in termini di sistema e di comunità, soprattutto se la demografia mostra segni di declino, il Paese invecchia, la popolazione attiva si riduce e la produttività non eccelle. Non si tratta di sminuire il valore del lavoro manuale, della capacità di fare, o di quei mestieri fondamentali che si possono svolgere anche senza un titolo di studio elevato, ma una nazione con pochi laureati è una nazione complessivamente più povera, anche perché significa che molti giovani hanno abbandonato precocemente gli studi o non sono riusciti ad esprimere tutto il proprio potenziale. Le nazioni con più laureati, oltretutto, hanno maggiori capacità di attrarre “cervelli” dall’estero, accentuando il problema dove si studia meno, come si vede con i tanti laureati italiani che espatriano ogni anno: dal 2013 al 2023 ben 300.804 cittadini italiani con un titolo universitario hanno lasciato definitivamente il Paese per trasferirsi all’estero. In questo senso si può intuire come guardare al tema della cittadinanza concentrandosi sul perimetro, sul confine, sul “recinto”, cioè su chi è dentro o è fuori, e sui tempi di ingresso in questo “spazio”, rischia di non far cogliere come invece la vera fonte di preoccupazione dovrebbe essere un’altra: provare cioè ad alzare l’asticella delle ambizioni culturali, impegnarsi per elevare le conoscenze e le competenze dei giovani, degli italiani e di quelli con origini lontane, e investire risorse economiche ed energie mentali per fare in modo che tutti i ragazzi e le ragazze che vivono qui studino di più, non lascino i banchi troppo presto e possano arrivare più lontano rispetto a ora. Una buona integrazione passa anche da una scuola che include e prima di premiare il merito riesce a far sbocciare i talenti di ciascuno. In Italia nascono pochi bambini, 370mila lo scorso anno, tra questi il 14% è considerato straniero e deve aspettare almeno 18 anni, una vita, per incominciare a chiedere di diventare italiano. Bambini e ragazzi nati in Italia, compagni di banco e di studio di cittadini italiani. Accorciare i tempi di questo passaggio può essere il primo passo di una presa in carico molto più ampia: la traduzione di un Paese che prova a essere comunità a partire proprio da quel luogo in cui la diversa provenienza è sempre e solo una ricchezza, e dove nel percorso di studio si definisce insieme una parte importante del valore e del futuro di una Nazione. Migranti. Cutro, il Gup respinge le richieste dei ministeri: lo Stato resta “in aula” di Simona Musco Il Dubbio, 10 giugno 2025 Il giudice ha rigettato le richieste di Interno, Infrastrutture e del Fondo di garanzia di uscire dal procedimento sui mancati soccorsi. Il 21 luglio la decisione. È prevista per il 21 luglio l’ultima udienza preliminare del processo sui presunti mancati soccorsi alla Summer Love, il caicco che il 26 febbraio 2023 si è schiantato contro una secca al largo di Steccato di Cutro, provocando 94 morti, 35 dei quali minorenni, e diversi dispersi. In quella data, dopo le discussioni finali, il giudice per l’udienza preliminare Elisa Marchetto deciderà sull’eventuale rinvio a giudizio di quattro militari della Guardia di Finanza e due della Guardia Costiera, ai quali la procura di Crotone contesta i reati di naufragio colposo e omicidio colposo plurimo, evidenziando gravi negligenze, sottovalutazioni e ritardi nella catena delle decisioni che avrebbero potuto cambiare il destino dei migranti a bordo dell’imbarcazione partita dalla Turchia. Durante l’udienza di ieri sono state esaminate le eccezioni presentate dai responsabili civili citati nel processo ministeri degli Interni e delle Infrastrutture e Consap -, che hanno chiesto di essere estromessi dal procedimento per il presunto ritardo nella notifica e per il merito della citazione. Richiesta alla quale le parti civili, rappresentate dagli avvocati Francesco Verri e Barbara Ventura, si sono opposti. I due legali hanno depositato una memoria, nella quale hanno evidenziato che il naufragio ha coinvolto un “natante” non assicurato e quindi rientra esattamente nei casi in cui il Fgvs è obbligato a intervenire. La memoria sottolinea che la legge non prevede eccezioni in merito: qualsiasi natante non assicurato che provochi danni rientra nella sfera di responsabilità del Fondo. La Summer love “ha navigato indisturbata fino a schiantarsi nelle acque di Steccato di Cutro” e “ciò è potuto accadere a causa della negligenza, imperizia e imprudenza delle Autorità competenti e in particolare degli imputati e altresì della loro colpa specifica consistita nella violazione del regolamento Ue 656/2014” e di altre disposizioni di legge, “norme regolamentari e raccomandazioni che rappresentano la fonte del dovere di agire per la tutela dell’ordine pubblico e la salvaguardia dei diritti fondamentali dei migranti”. Le Autorità competenti “erano perfettamente consapevoli del fatto che un natante carico di persone navigava in condizioni estremamente precarie rese ancor più pericolose dalle condizioni meteorologiche” della notte della tragedia, avendo ricevuto una segnalazione da Frontex già la sera del 25 febbraio. Il Fondo, secondo i legali, non può sottrarsi alla responsabilità nemmeno se le vittime erano trasportate irregolarmente: “Nel caso dei terzi trasportati dal veicolo o dal natante, quali erano nella fattispecie i familiari delle persone costituite parti civili, l’art.? 141 del citato Codice delle Assicurazioni stabilisce d’altronde che “il danno subito dal terzo trasportato è” sempre “risarcito dall’impresa di assicurazione del veicolo sul quale era a bordo al momento del sinistro” (cui subentra per l’appunto il Fondo se il mezzo non è assicurato) facendo soltanto “salva l’ipotesi di sinistro cagionato da caso fortuito”. In questo caso, però, non sarebbe invocabile il caso fortuito, poiché le autorità avevano informazioni chiare sul natante in difficoltà e hanno scelto di trattarlo come operazione di polizia e non come evento Sar. “Lo Stato deve partecipare in prima persona a questo processo - ha commentato Verri -. È il senso della chiamata in giudizio da parte nostra di Consap e dei ministeri”. Il gup Elisa Marchetto, dopo un’ora di camera di consiglio, ha respinto le richieste di estromissione e rigettato anche le nuove richieste di costituzione di parte civile presentate da alcuni parenti delle vittime - dieci afgani che vivono in Turchia, Iran e Pakistan - che non hanno potuto firmare le procure speciali nelle ambasciate italiane per motivi di sicurezza. Gli avvocati Marco Bona ed Enrico Calabrese hanno depositato nei giorni scorsi le richieste corredate da alcuni video nei quali i parenti delle vittime firmavano la procura speciale, modalità dichiarata inammissibile dalla gup. Migranti. Albania, il giudice di pace conferma il trattenimento. La Corte d’appello no di Giansandro Merli Il Manifesto, 10 giugno 2025 Oltre Adriatico vengono deportate anche persone con problemi psichiatrici certificati nei Cpr di provenienza. Il giudice di pace di Roma ha dato ieri il via libera alla proroga del trattenimento a Gjader di un cittadino della Guinea. In settimana sono previste altre cinque udienze analoghe davanti all’ufficio del magistrato non togato. Nel caso specifico non ha ritenuto sufficiente a decretare la liberazione dell’uomo né il procedimento sulla mancanza di regolazione dei modi della detenzione amministrativa pendente davanti alla Consulta - è stato esaminato ieri in camera di consiglio - né il fatto che la Cassazione abbia sollevato alla Corte di giustizia europea dei dubbi di compatibilità del Cpr albanese con le direttive rimpatri e procedure. Il giudice di pace sembra dissentire dall’orientamento degli ermellini. “Il trattenimento presso il Cpr dell’Albania, in quanto è assoggettato alle medesime regole dei Cpr siti sul territorio nazionale, non appare in contrasto con la direttiva rimpatri”, dice il provvedimento di ieri. Alla difesa del cittadino straniero resta la carta del ricorso per Cassazione: finirebbe davanti alla prima sezione penale, la stessa che ha chiesto l’intervento del tribunale di Lussemburgo. In senso diametralmente opposto aveva invece deliberato venerdì scorso la Corte d’appello di Roma. Qui finiscono le richieste di convalida del trattenimento di chi chiede asilo dietro le sbarre di Gjader: la domanda modifica lo status giuridico della persona, che da “irregolare” diventa richiedente asilo. Così cambia anche l’organo giudiziario competente. Rilevando che esiste “un insanabile dubbio di compatibilità tra la normativa nazionale rilevante per l’adozione del provvedimento di convalida e il diritto europeo vincolante nel nostro ordinamento, come rilevato dalla Suprema Corte”, il giudice ha ritenuto di “non poter fare altro” che rigettare la richiesta di detenzione amministrativa di un cittadino del Marocco. Inevitabilmente le residue presenze nel centro di Gjader continueranno a calare nei prossimi giorni. Al momento non si conoscono i numeri esatti. Dovrebbero essere una trentina, ma si tratta di stime. Il governo non ha particolare interesse a far sapere cosa sta succedendo all’interno, mentre resta da capire se, nonostante l’ordinanza della Cassazione, tenterà comunque di deportare oltre Adriatico nuove persone. Intanto emergono nuovi dettagli inquietanti rispetto ad alcuni dei migranti trasferiti negli ultimi round, il mese scorso. Almeno due migranti coinvolti presentavano forti vulnerabilità psichiatriche accertate nei Cpr di provenienza (come riportato nei documenti visionati dal manifesto). Li avrebbero dovuti liberare, invece sono stati deportati. Si tratta di un guineano e di un algerino (quest’ultimo manifestava pure un rischio suicidario). Arrivati a Gjader sono stati esaminati dalla commissione sanitaria che ha stabilito la non idoneità alla detenzione. Il guineano è stato rimandato in Italia. L’algerino, come raccontato da questo giornale il 4 giugno scorso, è stato comunque rimpatriato. Il bellicismo nelle parole, l’espressione “guerra esistenziale” va respinta di Mariano Croce* Il Domani, 10 giugno 2025 Questo concetto nasconde un più ampio tentativo di riorientamento psicologico e affettivo a una dimensione di quotidianità segnata dalla guerra, in difesa dello stato come progetto etico collettivo sotto perenne minaccia. Proprio per questo motivo dobbiamo esorcizzarlo. Secondo Vladimir Putin, il conflitto russo-ucraino non è una normale guerra: si tratta piuttosto di una “guerra esistenziale”. Sulla sua stregua, i commentatori e i funzionari russi hanno da tempo preso a suggerire che, senza la totale sconfitta dell’Ucraina, la Russia sarà costretta a un conflitto nucleare, perché ne andrà della sua stessa esistenza come progetto di vita collettiva. Già da tempo il gergo dell’esistenzialismo bellico s’era infiltrato tra i politici e i generali israeliani, come plasticamente esemplificato dal controverso libro del giornalista Ari Shavit, Existential War: From Disaster to Victory to Resurrection. Secondo Shavit, per la prima volta nella sua storia, Israele si trova in un confronto diretto con una potenza sub-nucleare regionale che dispone di eserciti terroristici fantoccio e ha come alleati Russia e Cina. Con la fine della pax americana, pertanto, non si tratta di difendere la sicurezza di Israele, ma la sua esistenza come progetto politico. La magnitudine - Cos’è, allora, una guerra esistenziale? A tutta prima, sembrerebbe implicare una magnitudine specifica del conflitto tale per cui ne va dell’esistenza di uno stato. La guerra sarebbe “esistenziale” perché destinata a incidere sull’intera vita collettiva. Viene tuttavia da chiedersi quale conflitto non comporti un rischio, grande o piccolo, per la comunità politica nel suo intero. Con tutta evidenza, dunque, tra le implicazioni del concetto in questione dev’esserci qualcosa di più, un qualcosa che viene trasmesso attraverso la parola stessa senza ricorso a formulazione esplicita - una sorta di allusione complice a qualcosa che va pian piano sedimentandosi nella nostra cultura politica di fondo. In effetti, con intimazione sorniona, il termine “guerra esistenziale”, sempre più utilizzato sui giornali e nelle televisioni, invita alla presa d’atto che le comode guerre per procura della seconda metà del Novecento sono terminate, che i conflitti per interposta popolazione non sono più un’opzione nell’ampio novero delle armi sporche. Richiama così l’odierno prodursi di conflitti la cui estensione inerisce al profondo della nostra quotidianità in modo diretto e potenzialmente fatale. A questo primo aspetto, in parte benefico, di una maggiore consapevolezza dei costi reali della guerra si associa però un riflesso condizionato, assai più pericoloso data la sua natura indefinitamente superegoica. L’aggettivo “esistenziale” sembra infatti celare un richiamo etico all’uscita dallo stato di languido edonismo cui ci hanno costretti decenni di pace localizzata - ovvero, la pace garantita dall’esternalizzazione dei conflitti. L’appello, dunque, a una più pronta e pugnace disposizione alla difesa, finanche armata, di ciò che garantisce la nostra vita quali membri di un progetto politico collettivo. E proprio tra queste pieghe meno visibili del concetto a me pare emerga l’elemento che più seduce chi utilizza la guerra come mezzo per consolidare un potere innanzitutto personale. Questo elemento è l’inimicizia politica: l’idea secondo cui l’esistenza di uno stato è sempre contro qualcuno. Non un semplice qualcuno che si elegga a proprio avversario o rivale, bensì un’entità collettiva la cui mera esistenza costituisce per noi un pericolo letale. Per questa ragione, l’inimicizia politica implicitamente comanda la disponibilità a uccidere ed essere uccisi: il semplice richiamo a una minaccia esistenziale dovrebbe poter sospendere la nostra vita ordinaria e indurre in noi una marziale predisposizione all’esito estremo e ineluttabile della guerra. Il concetto di guerra esistenziale nasconde allora un più ampio tentativo di riorientamento psicologico e affettivo a una dimensione di quotidianità segnata dalla guerra, in difesa dello stato come progetto etico collettivo sotto perenne minaccia. E proprio perché questo concetto rischia di sedurre e attecchire, bisogna evitare ogni nostra collusione, denunciarne la subliminale pedagogia guerresca e quindi bandirlo, come si fa con il turpiloquio e le espressioni blasfeme. *Filosofo Medio Oriente. Hamas commette rappresaglie contro i palestinesi di Gaza che lo contestano di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 10 giugno 2025 Le testimonianze raccolte da Amnesty. Le persone sanno bene che Israele è colpevole ma si rendono anche conto che Hamas non si preoccupa della loro sofferenza. Poche settimane fa, nel pieno dell’ulteriore intensificazione dei bombardamenti israeliani contro la Striscia di Gaza, un portavoce di Hamas, Sami Abu Zuhri, dal suo comodo riparo all’estero, ha fatto questa dichiarazione: “La casa verrà ricostruita e i martiri… li riprodurremo dieci volte tanto”. A queste parole ripugnanti e vergognose ha risposto una donna sfollata il 16 maggio da Beit Lahia verso il campo rifugiati di Shati, a Gaza City: “A loro (i dirigenti di Hamas) non importa della nostra sofferenza. Anche se ricostruirò la mia casa che è stata distrutta, i ricordi e la vita che ho passato lì non saranno mai ricostruiti. Mia cugina ha perso il marito e tre figli in un attacco israeliano. Come posso guardarla negli occhi e dirle che i suoi figli saranno riprodotti?”. Questa dichiarazione è contenuta in una ricerca di Amnesty International che, negli ultimi due mesi, ha raccolto documentazione su un preoccupante ripetersi di minacce, intimidazioni e persecuzioni - tra cui interrogatori e pestaggi - da parte delle forze di sicurezza di Hamas ai danni di palestinesi della Striscia di Gaza che stavano esercitando il loro diritto di protesta pacifica mentre era il corso il genocidio israeliano e aumentavano attacchi da terra e dal cielo e sfollamenti di massa. Tutto è iniziato il 25 marzo a Beit Lahia, nel nord della Striscia di Gaza, quando le persone hanno manifestato a più riprese per chiedere la fine del genocidio israeliano e degli sfollamenti illegali. Le proteste hanno coinvolto centinaia, se non migliaia, di palestinesi che intonavano slogan e tenevano cartelli con cui criticavano Hamas, alcuni chiedendo la fine del suo governo. Altre proteste, più piccole, sono state organizzate nel campo rifugiati di Jabalia, a Shuja’iya e a Khan Younis: anche in questo caso, sono stati intonati slogan contro determinati dirigenti di Hamas. Tra le persone intervistate da Amnesty International c’è chi ha mostrato un atteggiamento di sfida, per nulla intimorito. Un abitante del quartiere al-Alatra di Beit Lahia, la cui famiglia nel 2024 era stata decimata da un attacco israeliano, ha detto: “Abbiamo il diritto di vivere in dignità. Abbiamo iniziato a manifestare perché vogliamo che sia posta fine alla nostra sofferenza. Nessuno ci ha incitato a protestare o ci ha detto di farlo. Le persone protestano perché non possono vivere, vogliono che le cose cambino. Le forze di sicurezza ci hanno minacciato e picchiato, ci hanno accusati di essere traditori solo perché abbiamo preso la parola. Continueremo a protestare, non importa a quale rischio”. Il 16 aprile questa persona e altre di al-Alatra sono state convocate per interrogatori dai servizi di sicurezza di Hamas. Sono state portate in un edificio trasformato in un improvvisato centro di detenzione e picchiate da una cinquantina di uomini armati in abiti civili: “Mi hanno colpito coi bastoni di legno sul collo e sulla schiena. Urlavano che ero un traditore, un collaborazionista del Mossad [i servizi d’intelligence israeliani]. Ho risposto che siamo scesi in strada perché vogliamo vivere, vogliamo da mangiare e da bere. Ho perso la mia famiglia in uno dei peggiori massacri di questa guerra, cinque fratelli e sorelle e i loro figli. È stato terribile essere chiamato collaborazionista, sentir messo in discussione il mio patriottismo dopo che la mia famiglia era stata spazzata via”. L’uomo ha aggiunto che le persone sanno bene che Israele è colpevole ma si rendono anche conto che Hamas non si preoccupa della loro sofferenza. È stato rimesso in libertà dopo quasi quattro ore di detenzione e interrogatorio e gli è stato ordinato di non prendere parte a ulteriori proteste. Da quando, nel 2007, ha assunto il potere nella Striscia di Gaza e istituito un proprio apparato di sicurezza e di mantenimento dell’ordine pubblico, Hamas ha imposto gravi limitazioni alle libertà di espressione, di associazione e di protesta pacifica, ricorrendo all’uso della forza eccessiva in diverse occasioni, soprattutto nel 2019, e arrestando e torturando regolarmente critici e dissidenti. Persino durante l’attuale genocidio israeliano, i servizi di sicurezza di Hamas hanno continuato a soffocare la libertà di espressione. Sette persone intervistate da Amnesty International hanno dichiarato di essere state definite “traditori” da agenti in borghese delle forze di sicurezza, durante le proteste o nel corso degli interrogatori. Questa è la testimonianza di un manifestante: “Qui a Beit Lahia siamo attaccati alla nostra terra. Quando ci hanno sfollato, è stato come se qualcuno ci avesse portato via tutta la nostra vita. Abbiamo chiamato vicini e amici per protestare dopo gli ordini di evacuazione poiché temevamo un altro sfollamento. Era una protesta contro l’occupazione e anche contro Hamas. Volevamo che ci sentissero”. Questa persona ha raccontato che inizialmente le proteste chiedevano la fine del genocidio israeliano, un cessate il fuoco e l’apertura dei punti d’ingresso verso la Striscia di Gaza. Ma poi molti hanno iniziato a intonare slogan contro Hamas perché “la gente è arrabbiata e stufa”. L’uomo è stato convocato più volte per interrogatori ma ha sempre rifiutato fino a quando, il 17 aprile, i servizi di sicurezza di Hamas sono venuti a prenderlo a casa. Ecco il racconto di quanto gli è accaduto: “Mi hanno preso a bastonate e a pugni in faccia. Le botte non erano così dure, penso più che altro fossero una minaccia. In precedenza, dopo una protesta, una persona affiliata ai servizi si era avvicinata a me avvisandomi che mi avrebbe sparato ai piedi se avessi continuato a manifestare”. Nel corso dell’interrogatorio, l’uomo è stato accusato di essere stato reclutato dal capo dei servizi segreti dell’Autorità palestinese, che ha sede a Ramallah, e di essere stato pagato dall’intelligence israeliana: “È tutto ridicolo, lo sanno anche loro. È vero, sto dalla parte di Fatah [l’altro principale partito politico palestinese] ma qui a Gaza ora non si tratta di Hamas o di Fatah. Si tratta di sopravvivere. Vogliamo vivere”. Una donna che aveva collaborato all’organizzazione di una manifestazione indetta da donne a Beit Lahia ha denunciato che il marito e i figli sono stati minacciati di arresto per aver preso parte alla protesta: “Dopo le minacce contro gli uomini, abbiamo voluto prendere la parola in quanto donne. Era una protesta piccola ma volevamo comunque inviare ai nostri dirigenti e anche all’occupazione [israeliana] questo messaggio: non tolleriamo più tutto questo, vogliamo proteggere i nostri figli, vogliamo vivere”. Chiudo questo post con l’amarezza di un’altra palestinese della Striscia di Gaza: “Abbiamo protestato contro Hamas e contro la guerra e ora Israele ci sfolla ancora una volta”. *Portavoce di Amnesty International Italia “Da 95 giorni in una cella in Turchia. Il mio crimine: fare il giornalista” di Murat Cinar Il Manifesto, 10 giugno 2025 Intervista a Ercüment Akdeniz, noto reporter e scrittore turco. Come tanti colleghi, è accusato da Ankara di affiliazione al Pkk. “Ci accusano con intercettazioni illegali risalenti a 14 anni fa. Si tenta di criminalizzare le alleanze tra partiti di sinistra, socialisti e democratici. Ercüment Akdeniz è un giornalista, scrittore e politico turco, noto per le sue ricerche sui diritti dei migranti in Turchia. È stato presidente dell’Emek Partisi (Emep) dal 2020 al 2023. Il 18 febbraio 2025 è stato arrestato nell’ambito della maxi inchiesta sul Halklarin Demokratik Kongresi (Hdk), il Congresso democratico dei Popoli, fondato nel 2011. Insieme a lui, sono stati trasferiti in diversi centri penitenziari 30 tra giornalisti, politici e attivisti. Le autorità li accusano di essere affiliati o sostenitori del Pkk/Kck, considerato “organizzazione terroristica” in Turchia. Akdeniz ha ricevuto numerosi riconoscimenti per il suo lavoro giornalistico e il suo impegno per i diritti umani, tra cui il Premio per i Diritti dell’Infanzia del Fisek Enstitüsü, il Premio Hakikatin Pesinde Kosanlar di Halkevleri e il Premio Musa Anter nel 2020. Dopo l’arresto, ha inviato un messaggio tramite il suo avvocato, ribadendo che “il giornalismo non è un crimine” e ringraziando per la solidarietà ricevuta. Diverse organizzazioni, tra cui la Federazione internazionale per i diritti umani (Fidh), hanno condannato gli arresti come una minaccia alla libertà di stampa e al diritto all’informazione. Akdeniz è detenuto nel carcere speciale di Silivri, alle porte di Istanbul. Lo abbiamo intervistato tramite il suo avvocato e con il supporto di Kivanç Eliaçik, giornalista e responsabile per le relazioni internazionali del Disk, il principale sindacato confederale turco. Per quale motivo si trova in carcere? Sono al 95º giorno di custodia cautelare e detenzione. La data dell’udienza è stata fissata per il 31 luglio. Viviamo un periodo in cui i giornalisti vengono arrestati con estrema facilità e la lunga detenzione preventiva si è trasformata de facto in una punizione. Non si tratta solo di un’ingiustizia che riguarda me: molti altri giornalisti hanno vissuto in passato le stesse ingiustizie. In questa operazione, che si potrebbe definire un “blitz collettivo”, anche le giornaliste Yildiz Tar ed Elif Akgül si trovano in carcere con me. Le nostre case, i nostri lavori, le nostre vite sono ben note. Se fossimo stati convocati, saremmo andati a testimoniare spontaneamente. Ma si è preferito fare l’opposto. L’obiettivo è intimidire l’opposizione e ostacolare il più possibile il diritto del popolo a essere informato. Giornalisti, politici e difensori dei diritti umani vengono criminalizzati. La nostra coscienza è pulita, la nostra penna è diritta. È incoraggiante vedere il sostegno dell’opinione pubblica democratica. La mia più grande tristezza è stare lontano dai migranti e dal lavoro sul campo. Ho scritto centinaia di articoli e inchieste sul tema delle migrazioni. Ho raccolto informazioni dirette. Ho pubblicato cinque libri. I rifugiati non devono essere lasciati soli! Su Ilke Tv conducevamo un programma intitolato Medya Zamani (Tempo di media) cinque giorni a settimana. Dopo l’arresto, i/le colleghi/e hanno mostrato solidarietà e stanno continuando a trasmettere il programma. Anche se la libertà di stampa è stata colpita, la solidarietà sta germogliando di nuovo. Quali sono le sue condizioni penitenziarie? In carcere viviamo in un dormitorio di 42 persone. Cerchiamo di seguire l’attualità tramite la tv e i tre giornali a cui abbiamo diritto. Purtroppo Ilke non è tra i canali visibili. Spero che questa situazione venga presto risolta. Nelle condizioni della prigione cerco di leggere e scrivere quanto più possibile. Mi sto concentrando sugli studi teorici in ambito migratorio. Tuttavia, l’accesso alle fonti è molto limitato. Nonostante tutto, anche le carceri rappresentano un’altra faccia della vita. Per noi giornalisti, sono un vero e proprio laboratorio sociologico. Secondo lei, quale sarebbe la motivazione politica del suo arresto? L’operazione contro di noi è un colpo alla libertà di stampa e al diritto alla politica democratica. I nostri diritti costituzionali non possono essere trasformati in reati. Ci accusano con intercettazioni illegali risalenti a 14 anni fa. Si tenta di criminalizzare le alleanze tra partiti di sinistra, socialisti e democratici. In realtà, l’ingiustizia che stiamo subendo è in contrasto anche con lo spirito del tempo: i negoziati di pace (con il Pkk, ndr) stanno avanzando positivamente in Turchia. Noi siamo anche giornalisti che difendono la pace e la democrazia. La libertà di stampa è fondamentale non solo per la Turchia, ma anche per la pace nel mondo e dovrebbe essere tema di solidarietà internazionale. Abbiamo fiducia nelle organizzazioni professionali della stampa. In Turchia è in corso un nuovo processo di pace tra lo Stato turco e il Partito dei Lavoratori del Kurdistan. Come si colloca il suo arresto in questa circostanza? Il conflitto che dura da 40 anni in Turchia ha causato gravi perdite e traumi. Avvicinarsi alla pace non è una possibilità qualunque: è una necessità. Per questo motivo, la questione della pace non deve essere sacrificata alle lotte politiche di breve termine. La libertà di stampa è una delle garanzie fondamentali di questo processo. Non lasceremo cadere la penna, continueremo a scrivere la verità.