Ridare piena costituzionalità al carcere di Osservatorio Carcere UCPI camerepenali.it, 28 gennaio 2025 L’anno appena passato e l’anno da poco iniziato impongono una fase costituente parlamentare per ridare piena costituzionalità al carcere, nel rispetto della dignità dei detenuti. Se qualcuno immaginava che bastasse tirare a campare fino al 31 dicembre 2024 per vedere, d’un tratto, risolte le criticità delle nostre carceri, si sbagliava di grosso. Quasi si trattasse solo di una congiunzione astrale sfavorevole, pronta a svanire allo scoccare della mezzanotte finale di questo anno maledetto. Ci ritroviamo, in realtà, ancora una volta, ad osservare, sgomenti e inorriditi, la lunga scia di morte che ha segnato, e segna, indelebilmente le carceri, gettando discredito sulla democrazia, sulle istituzioni, sul nostro Paese. Già dopo i primi festeggiamenti per l’arrivo del nuovo anno, è giunta la notizia del primo suicidio del 2025. E così di giorno in giorno, senza fine. Il 2024 delle carceri sarà ricordato per i suoi record negativi. Cifre da fare accapponare la pelle. Il numero più alto di suicidi mai registrato (90) che, unitamente ai decessi per altre cause o per cause da accertare, ha toccato la vetta di 246 unità. In assoluto il numero più alto di morti “in e di” carcere dal 1992, anno in cui si verifica l’improvviso raddoppio, in Italia, della popolazione detenuta. Più di 2.000 tentativi di suicidio, 13.000 atti di autolesionismo. E già il 2025 promette davvero male, considerato che, nello stesso scorcio iniziale del 2024, si contavano solo 4 suicidi a fronte degli attuali 9. Dal 1° gennaio, tra i detenuti, 3 suicidi a Modena, 2 a Cagliari, 1 a Paola, 1 a Regina Coeli, 1 a Sollicciano, 1 alla Rems di Avellino, oltre ad 1 operatore penitenziario sempre a Paola. Il tasso di sovraffollamento continua la sua sfrenata corsa verso i limiti già sanzionati dalla CEDU con la sentenza Torreggiani, con 15.000 detenuti in più rispetto ai posti disponibili. Una catastrofe che connota sempre più il nostro sistema carcerario come disumano e degradante. Tuttavia, si preferisce tirare a campare, mentre i detenuti tirano le cuoia. Il Presidente del Consiglio, nella conferenza stampa di inizio anno, su specifica domanda, ancora una volta propina una ricetta, da un lato, stantia, dall’altro, inefficace: l’ampliamento di nuovi spazi detentivi per un numero pari a 7.000 posti entro la fine del 2027. Eppure, negli ultimi tre anni (2021/2024) il numero dei detenuti presenti è cresciuto di 8.000 unità, mentre i posti disponibili sono diminuiti, nello stesso periodo, di almeno 1.000 unità. Se questo trend si confermerà in futuro, senza l’adozione di interventi straordinari davvero deflattivi, rischiamo di ritrovarci alla fine del 2027 con almeno 30.000 detenuti in più rispetto ai posti detentivi disponibili, nonostante lo sbandierato progetto edilizio governativo. Dinanzi alla colpevole riluttanza dell’esecutivo di voler affrontare, in maniera efficace, le condizioni critiche del carcere, non rimane che appellarsi ai parlamentari nazionali, espressione massima della sovranità popolare. Proprio nell’anno in cui Papa Francesco, aprendo per la prima volta nella storia giubilare una Porta Santa al carcere di Rebibbia, ha inteso dedicare ampio spazio di riflessione alle condizioni degradate dei detenuti, che “sperimentano ogni giorno, oltre alla durezza della reclusione, il vuoto affettivo, le restrizioni imposte e, in non pochi casi, la mancanza di rispetto”. Nell’anno giubilare in cui i Governi tutti, a partire dal nostro, sono chiamati alla responsabilità delle proprie scelte per restituire, attraverso “forme di amnistia o di condono della pena”, speranza, fiducia e reinserimento sociale. Solo un sussulto parlamentare può arrestare l’inesorabile declino del nostro sistema penitenziario, attraverso un serrato e franco dibattito pubblico, teso ad individuare le più opportune riforme strutturali dell’esecuzione penale, accompagnate da un inevitabile provvedimento di indulto, per ridare, così, a chiusura di una ineludibile fase costituente, un senso di equilibrio, di stabilità, in poche parole, la piena costituzionalità al carcere, affrancandolo dalla condizione drammatica di “cimitero dei viventi”. La priorità è diminuire i detenuti. Una lettera aperta di studiosi del carcere volerelaluna.it, 28 gennaio 2025 Dicembre 2024, Papa Francesco apre la porta Santa del Giubileo nel carcere romano di Rebibbia in segno di speranza, mentre la Conferenza episcopale italiana e autorevoli giuristi - tra cui l’Associazione italiana dei professori di diritto penale e del processo penale - invocano un provvedimento di clemenza, amnistia o indulto, che riconduca le carceri italiane almeno alla capienza prevista: sono segnali che denunciano la gravità della situazione. “Non respirano le persone detenute” afferma Antigone, ormai oltre 62.000 per 47.000 posti disponibili, con un tasso complessivo di sovraffollamento del 130%, che in alcune carceri supera o sfiora il 200%; mai numeri così alti dal 2013, anno della condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo per trattamenti inumani e degradanti. 31 dicembre 2024, il Capo dello Stato italiano, Sergio Mattarella, nel suo discorso di fine anno, ribadisce che le condizioni delle carceri italiane offendono la Costituzione, la quale indica norme imprescindibili sull’esecuzione della pena detentiva. Il sovraffollamento, certo, ma ancora di più e maggiormente pervasiva, “l’aria che si respira”, mefitica in senso letterale e metaforico: il riferimento inevitabile è all’infelice e deplorevole uscita del Sottosegretario di Stato per la Giustizia, di “non lasciare respirare chi sta dietro quel vetro oscurato”. Un’affermazione che attesta chiaramente una visione vendicativa e discreditante della pena. Intanto nel 2024, 90 persone si sono tolte la vita all’interno degli istituti italiani. Una ogni quattro giorni, un livello che non ha precedenti nelle carceri italiane; il tasso è più alto per le donne e per gli stranieri. Vanno aggiunti i 7 suicidi di agenti di polizia penitenziaria. Le risorse del trattamento sono davvero misere. Il lavoro, sempre definito dai vertici del DAP il “perno del trattamento”, coinvolge meno di un terzo delle persone detenute (al 31 dicembre 2023 il 28%; ma si tratta di lavoro di “casermaggio”, dequalificato e a turni brevi, mentre solo il 5% - 3.029 persone sui più di 62.000 presenti - sono alle dipendenze di cooperative o imprese esterne). Nel primo semestre del 2024 i corsi professionali registrano 3.716 iscritti, pari al 6% della popolazione detenuta; i percorsi di istruzione, dal canto loro, coinvolgono solo un terzo della popolazione detenuta. Quanto al titolo di studio, per la metà della popolazione detenuta non è rilevato, né rilevabile. Della restante metà 18.085 persone (meno del 30% del totale) possiedono un diploma di scuola media inferiore. Ciò conferma lo stato di marginalità sociale della stragrande maggioranza dei reclusi, cui fa riscontro l’assoluta carenza di risorse trattamentali, quasi totalmente delegate ad enti esterni: enti di volontariato o cooperative, docenti o ministri di culto. Si tratta di una presenza caratterizzata da pesanti squilibri territoriali (concentrazione al centro-nord) e limitata dalla circuitazione penitenziaria di sicurezza, per cui in molte aree le attività trattamentali si riducono allo zero. Eppure, i presupposti per far fronte a questa situazione, a partire dalla decongestione del sovraffollamento, ci sarebbero. Quasi un terzo della popolazione detenuta potrebbe giovare facilmente di un provvedimento di clemenza limitato ai reati minori e a residui pena non superiori ai due anni. Le persone anziane o malate dovrebbero poter accedere alla detenzione domiciliare. Ben la metà della popolazione detenuta, e addirittura più del 60% dei condannati definitivi, risulta scontare pene brevi o un attuale residuo pena inferiore ai quattro anni, potendo quindi fruire di misure alternative: quelle stesse che si sono da tempo dimostrate utili a ridurre drasticamente la recidiva, così anche in conformità alle istanze di sicurezza e di difesa sociale. Inoltre, è risaputo che la stragrande maggioranza dei detenuti per reati connessi al consumo e al piccolo spaccio di sostanze stupefacenti sono in realtà tossicodipendenti che andrebbero affidati a centri sociosanitari di recupero e reinserimento sociale. Lo stesso dicasi per gli affetti da disagio psichico. Ma, dice il Ministro Nordio, l’indulto “sarebbe un segno di debolezza” e difficilmente l’attuale Governo lo percorrerà. La congiuntura reazionaria, oltre che una malintesa e trasversalmente condivisa accezione di “certezza della pena”, promettono solo il peggio. Di fronte a questa situazione e a tutte le buone ragioni per denunciare e protestare contro un regime illegale, il Governo, in senso contrario, introduce nuove fattispecie di reato e aggravi di pena, oltre ad emanare un provvedimento (DM 14 maggio 2024) che istituisce il Gruppo di intervento operativo del Corpo di Polizia penitenziaria (GIO), finalizzato al controllo delle proteste e dei conflitti interni. A ciò si aggiunge il recente progetto di “scudo penale” per le forze dell’ordine, orientato quantomeno a neutralizzare il reato di tortura. In coerenza con queste prospettive fa la sua apparizione il Calendario 2025 della Polizia penitenziaria: una raccolta di immagini fuorvianti e pericolose che invocano la militarizzazione del Corpo di polizia, oggi a ordinamento civile, promuovendo un addestramento finalizzato all’utilizzo delle armi e delle tecniche di contenimento violento. A ciò si aggiunge il rifiuto della richiesta, da lungo tempo anche estesamente condivisa, di rendere identificabili gli agenti nel loro operato. Anche il Capo dello Stato ha fatto riferimento alle deplorevoli condizioni di lavoro in cui opera la polizia penitenziaria, dovute a sovraffollamento e carenze di organico, certo; ma forse anche all’essere chiamata alla gestione della quotidianità detentiva attraverso un’estenuante mediazione dei conflitti alla quale non è minimamente formata e che evidentemente non interessa a nessuno. Il video “pubblicitario” che presenta il calendario è gravemente fuorviante soprattutto per le nuove reclute, che così si vorrebbero motivate e selezionate come per andare alla guerra, per poi ritrovarsi a dover gestire sofferenza e miseria nelle sezioni sovraffollate, navigando a vista secondo un operare che, in caso di fallimento, si affida ai rapporti disciplinari. Alla luce di questa complessiva situazione, in quanto studiosi e docenti di scienze sociali, di sociologia del diritto e della devianza, sollecitiamo adeguati provvedimenti per ricondurre il settore penitenziario ai principi costituzionali, invertendo le imperanti tendenze sicuritarie verso sostanziose politiche di sicurezza sociale. In particolare, chiediamo al Governo un intervento rivolto alla riduzione immediata del numero dei reclusi e al finanziamento di progetti di sostegno e integrazione sociale. Primi firmatari: Giuseppe Mosconi, Università di Padova; Francesca Vianello, Università di Padova; Salvatore Palidda, Università di Genova; Dario Melossi, Università di Bologna; Claudio Sarzotti, Università di Torino; Luigi Ferrajoli, Università di Roma Tre; Tamar Pitch, Università di Perugia; Giulia Fabini, Università di Bologna; Charlie Barnao, Università di Catanzaro; Valeria Verdolini, Università di Torino; Daniela Ronco, Università di Torino; Annalisa Frisina, Università di Padova; Cirus Rinaldi, Università di Palermo; Vincenzo Scalia, Università di Firenze; Devi Sacchetto, Università di Padova; Andrea Borghini, Università di Pisa; Claudia Mantovan, Università di Padova. Se alla pena si somma la precarietà abitativa: per i senza dimora non esiste alternativa al carcere di Flavia Bevilacqua Il Domani, 28 gennaio 2025 In Italia, il legame tra precarietà abitativa e detenzione è una realtà ignorata, ma estremamente problematica. Gli homeless, spesso incarcerati per reati di sopravvivenza, affrontano ulteriori marginalizzazioni a causa dell’impossibilità di accedere a misure alternative per la mancanza di un domicilio stabile: “In questo modo quando esci dalla cella sei doppiamente invisibile”, dice Agostina Stano, coordinatrice di Avvocato di strada. Il 31 dicembre Agostina Stano era già tornata a Milano dopo aver passato le feste di Natale in Puglia, dove vive la sua famiglia: dice che il 2025 è appena iniziato, ma c’è tanto lavoro che la aspetta nelle difese d’ufficio. Stano, oltre ad essere un avvocato di diritto penale e diritto dell’immigrazione, è la coordinatrice della sede milanese di Avvocato di strada (Ads), la più grande e capillare organizzazione sul territorio italiano di assistenza legale pro bono a persone senza fissa dimora. Dal 2001, anno della sua fondazione, Ads ha assistito gratuitamente oltre 45mila persone, con numeri in costante aumento, ogni anno. Stano spiega che quando si perde la casa, vengono messi a rischio a loro volta tutta una serie di diritti fondamentali, “come un circolo vizioso da cui è quasi impossibile uscire”, dice, “e quando, per un qualsiasi motivo, si viene colti in flagranza di reato e si rischia di finire in carcere l’ordine dei problemi si duplica. Lì possiamo intervenire noi”. L’Ads, che si occupa di una vasta gamma di problematiche legali riguardo alle persone senza dimora, tra cui la residenza anagrafica, il diritto di famiglia, l’immigrazione, offre assistenza legale gratuita anche a coloro che finiscono in carcere o rischiano di entrarci, aiutando ad accedere a misure alternative alla detenzione e ai servizi sociali. In Italia l’ambiente carcerario tende infatti a isolare gravemente la persona, con il rischio che una volta fuori dall’ambiente intramurario ci si ritrovi senza né legami sul territorio né una posizione socio lavorativa, spiega Stano. Quando però la pena detentiva si combina alla precarietà abitativa si scatena una marginalizzazione ancora più grave. Per quanto la homelessness sia un fenomeno in crescita in Italia, con quasi un raddoppio negli ultimi dieci anni delle persone senza dimora (secondo l’ultimo censimento Istat, si contano circa 96mila persone a fronte delle 50mila nel 2014), non esistono stime precise sul numero di persone senza tetto che invece transitano nelle carceri. Eppure, per quanto sottostimata, la presenza in carcere di persone senza domicilio fisso e residenza è una realtà ampia e problematica, denunciano le associazioni. Mentre infatti nelle carceri italiane il tasso medio di affollamento è del 132,6 per cento rispetto alla capienza, spesso le persone con precarietà abitativa vengono detenute nonostante i reati commessi non pretendano la carcerazione. “A causa della loro condizione di precarietà sociale ed economica, sono più inclini a commettere crimini “di povertà”: si tratta proprio di reati strumentali al guadagnare o banalmente a trovare da mangiare”, spiega Stano. “Solo che in mancanza di misure alternative finisci per scontare le pene in carcere e quando esci sei doppiamente invisibile, perché porti addosso non solo lo stigma del senza dimora ma anche quello dell’ex detenuto”, aggiunge. Nel 2020, durante la pandemia da Covid-19, erano state ipotizzate misure cautelative extracarcerarie per ridurre il rischio di contagio nelle carceri e il ministero della Giustizia aveva così avviato dei progetti di inclusione sociale alternativa per persone senza fissa dimora. Ma mancando risorse per un sistema integrato di supporto abitativo e lavorativo, l’intervento si è risolto in un niente di fatto, spiega Girolamo Daraio, professore di diritto penitenziario presso l’università degli Studi di Salerno. “Quest’ultimo decreto sicurezza, dell’agosto scorso, ha invece previsto il censimento delle strutture che potrebbero dare ospitalità ai detenuti in esecuzione penale esterna, tra cui i senza dimora. Però si è trattato solo un censimento valutativo, al seguito del quale non è stata programmata la creazione di alcuna struttura non custodiale di dimora sociale, quando nel frattempo tutte quelle custodiali sono sature”, dice Daraio. Le carceri italiane stanno vivendo una crisi per molti aspetti senza precedenti, tra intasamento cronico, accesso difficoltoso a cure mediche e infrastrutture fatiscenti, denunciano le associazioni del settore. E per chi vive già in condizioni di vulnerabilità, come la precarietà abitativa, il carcere va ad alimentare il disagio psicofisico di questi detenuti. Antigone, associazione che si occupa di monitoraggio e tutela dei diritti umani nel sistema penale e penitenziario italiano, ha riportato che nel 2024, l’anno che ha segnato il record per numero di suicidi in carcere in Italia, il 22 per cento delle persone che si sono procurate la morte in cella erano proprio senza tetto. Dalle informazioni raccolte da Antigone, infatti, tra i casi di morti volontarie in cella emerge una comune condizione di enorme marginalità. Molte delle persone che si sono tolte la vita presentavano infatti presunte o accertate patologie psichiatriche. Tante erano migranti. I senza dimora stranieri che finiscono in cella, infatti, affrontano barriere linguistiche, difficoltà ad accedere a una difesa adeguata, fino al mancato rinnovo del permesso di soggiorno. “Se entri in carcere senza una residenza oppure ti viene cancellata mentre sei in carcere, non riesci più a rinnovare il documento, poiché generalmente si richiede un indirizzo valido per il rinnovo. Se sei straniero poi il problema si triplica”, dice l’avvocato Stano. Teoricamente, infatti, la legge italiana prevede che il rinnovo del permesso di soggiorno possa essere richiesto anche in carcere, ma nella pratica la procedura, che richiede che il detenuto presenti in autonomia la domanda tramite l’ufficio Matricola o l’ufficio educatori della struttura, è ostacolato dal fatto che queste persone non sono informate su modalità e tempistiche del rinnovo. Oltre così ad esporre al rischio di irregolarità e quindi espulsione al momento del rilascio, non poter avere documenti di identità e di soggiorno rende impossibile anche l’accesso a programmi di reinserimento sociale e lavorativo, con un aumento dei casi di recidiva rispetto a chi invece usufruisce di misure alternative alla detenzione. “Si tratta di tutta una tela di problemi che si incastrano fra di loro e così la strada, oltre a portarti in carcere, coincide anche con il fine pena”, spiega Stano. Secondo Stano, il problema è anche che gli Uffici di esecuzione penale esterna (Uepe), un organo del ministero della Giustizia che si occupa per distretto di corti d’appello dell’esecuzione delle misure alternative, sono gravemente sotto organico. “Teoricamente l’Uepe rappresenta l’anello di congiunzione fra il tribunale e i servizi sociali”, dice Stano, “ma nella pratica va a un rilento talmente aberrante che viene meno la possibilità di reintegrarsi anche a chi magari ne avrebbe tutti i criteri. Banalmente a Milano non ti rispondono al telefono oppure aspetti mesi per un appuntamento con l’assistente sociale”. Prospettive future - Chi si occupa di precarietà abitativa denuncia la necessità almeno di una revisione normativa che elimini il requisito di un domicilio fisso per l’accesso a misure alternative. Fondamentale sarebbe anche la creazione di strutture dedicate alla dimora sociale. Ads riporta come, ad esempio, si potrebbe compensare questa mancanza ripensando il ruolo dei dormitori pubblici, che attualmente accolgono le persone senza dimora solo durante la notte. Secondo il professor Daraio, però, il problema è che gli interventi istituzionali spesso ignorano le cause profonde di queste marginalità e il sistema giustizia al momento sembra legittimare la discriminazione verso le persone in condizioni di estrema precarietà abitativa, invece che proteggerle. “Siamo tutti molto bravi a parlare di diritti, ma l’articolo 2 della Costituzione enuncia che la Repubblica assicura sì diritti inviolabili, ma anche l’adempimento di doveri inderogabili di solidarietà economica, politica e sociale. E fin quando la società civile non si riapproprierà di questo tipo di logica, il problema delle disuguaglianze rimarrà irrisolvibile”, conclude Daraio. Tra violenza e salute assente: le donne recluse senza diritti di Federica Pennelli Il Domani, 28 gennaio 2025 Diritti mestruali e sistemi di salute e prevenzione che mancano. Sovraffollamento e percorsi di lavoro non professionalizzanti. Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone: “Le donne detenute hanno bisogno di vedersi indirizzate politiche specifiche e azioni positive affinché si rimuovano gli ostacoli che distanziano la detenzione delle donne da quella degli uomini”. L’associazione Antigone ha stilato il “Primo rapporto sulle donne detenute in Italia”, seguito da dieci proposte per i diritti delle donne in prigione. Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone, racconta a Domani: “Le donne detenute hanno bisogno di vedersi indirizzare politiche specifiche e azioni positive affinché si rimuovano gli ostacoli che distanziano la detenzione delle donne da quella degli uomini”. Se gli uomini hanno un accesso “al mondo lavorativo più universale, nelle carceri femminili noi troviamo attività che hanno una stereotipizzazione di genere che vogliamo superare”. Nello specifico, “le nostre proposte prevedono la possibilità di attività diurne congiunte tra uomini e donne, ciò cambierebbe la vita delle donne in carcere. In Italia abbiamo tre carceri femminili che ospitano meno di un quarto delle donne detenute in Italia, tutte le altre sono sparpagliate in sezioni femminili allocate all’interno di istituti a prevalenza maschile”. Serve superare quella preclusione che rende il carcere “un po’ medioevale, in cui uomini e donne non si possono incontrare”. C’è, poi, il grande tema legato alla salute: “Nelle politiche sanitarie ci mettiamo anche tutte quelle azioni rivolte alle donne che provenivano, prima della carcerazione, da situazioni di violenza e abusi”. A volte, queste ultime entrano in carcere e per la prima volta incontrano uno psicologo “e lì si rendono conto che la situazione in cui vivevano era d’abuso”. C’è bisogno di una presa in carico psicologica, sanitaria e anche giudiziaria: “La donna deve poter denunciare ma deve essere accompagnata dall’istituzione e accompagnata in un ponte “dentro-fuori” che possa portare alla presa in carico anche a fine carcerazione”. Antigone ha verificato che c’è “un’assenza di comunicazione tra servizi sociali del ministero della Giustizia e servizi sociali territoriali e anche tra le autorità sanitarie che operano in carcere e nel territorio. Per cui queste donne che hanno avuto una prima presa in carico interna poi vengono abbandonate a loro stesse creando un danno maggiore”. La cooperativa Pid di Roma, con il progetto “Assorbire il cambiamento”, lavora da due anni con lo scopo di portare un beneficio concreto alle persone recluse grazie alla donazione di materiali sanitari, per portare all’attenzione della società, delle istituzioni e della cittadinanza la condizione delle donne recluse. Alessia Massaroni, referente della comunicazione della cooperativa, racconta a Domani: “All’interno dei laboratori che facciamo, che a breve svolgeremo anche in carcere, abbiamo avuto rapporti con le donne ex detenute. Sulla questione degli assorbenti tutte le persone con cui abbiamo parlato ci hanno riferito che quelli forniti dal carcere sono pochi e di bassa qualità. Dovrebbero arrivare uno o due pacchi per ogni detenuta, ma non sempre arrivano”. Massaroni continua: “Pensiamo di vivere il nostro ciclo con un pacco al mese, con tre rotoli di carta igienica e senza bidet”. Il comitato torinese “Mamme in piazza per la libertà di dissenso” ha rapporti epistolari anche con le donne rinchiuse al femminile della casa circondariale Vallette. Nicoletta Salvi racconta a Domani: “Il sovraffollamento è il primo problema. Hanno inoltre meno risorse per attività all’interno del carcere, rispetto al maschile. Non c’è un programma per le donne tossicodipendenti. I percorsi di studi strutturati sono solo per il maschile, per la sezione femminile c’è solo la scuola primaria ed è più difficile accedere ai percorsi universitari”. Così anche per i percorsi di lavoro: “Le donne sono pagate per fare le pulizie del carcere ma non sono percorsi professionalizzanti per quando arriverà il fine pena”. La presa in carico sanitaria, inoltre, è molto complicata: “Vogliamo lavorare per chiedere percorsi sanitari per le donne anche rispetto alla prevenzione, che al momento non esistono”. Le donne in disagio psichico, inoltre, “stanno enormemente aumentando. Questo a fronte dei pochi operatori che se ne possono occupare”. A queste donne “vengono somministrati sedativi, ma non ci sono interventi specialistici. Molte donne straniere non hanno i mediatori e non sono capite, questo aumenta il disagio. Due anni fa varie donne si sono suicidate proprio per un disagio che mai era stato affrontato”. Separazione delle carriere, sì al dialogo. Ma solo con le toghe moderate di Valentina Stella Il Dubbio, 28 gennaio 2025 Dopo la durissima e clamorosa protesta dei magistrati contro la riforma, aperture da parte di Meloni, La Russa e Mantovano in attesa che l’Anm elegga il prossimo presidente. Mercoledì la Commissione Affari Costituzionali del Senato inizierà la discussione sul ddl costituzionale per la separazione delle carriere, approvato il 16 gennaio alla Camera. Ci sarà la relazione del presidente e relatore Alberto Balboni, poi si stabilirà il termine per la presentazione degli emendamenti. Già domani invece l’ufficio di presidenza potrebbe decidere se effettuare delle audizioni. L’intenzione della maggioranza e del governo fino a qualche giorno fa era quella di approvare nel minor tempo possibile il testo già passato a Montecitorio senza alcuna modifica, con tutta l’opposizione sul piede di guerra. Ma ora potrebbero aprirsi altri scenari. Partiamo da tre aperture al dialogo arrivate dai massimi vertici istituzionali. La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, sabato, a ridosso delle proteste dell’Anm nei distretti di Corte di Appello, ha ribadito: “Quando ci si confronta, poi dei punti di contatto si trovano”. Poi il Presidente del Senato Ignazio La Russa: “Le posizioni possono essere diverse e divergenti ma devono trovare una sintesi in un confronto serio”. Lo stesso sottosegretario Alfredo Mantovano, intervenuto all’inaugurazione dell’Anno giudiziario nella Corte di Appello di Roma, a un certo punto, ricordando un incontro in cui il ministro Nordio illustrò all’Anm il testo della riforma prima che finisse sul tavolo del Cdm, ha sostenuto: “Il Presidente dell’Anm disse che “tutta la magistratura associata in tutte le sue componenti è contraria alla riforma. Non si tratta di fare una trattativa di tipo sindacale”“. Da qui però l’invito a sedersi ad un tavolo di confronto: “Mi permetto di chiedere alla magistratura italiana di non rifiutare l’invito al confronto, che ribadisco in questa sede a nome dell’intero governo”. Il fatto che Mantovano abbia direttamente citato nel suo discorso Santalucia, a differenza di altri suoi interventi privi di riferimenti personalistici, potrebbe indurre a pensare che se al vertice dell’Anm arrivasse un presidente meno oppositivo e intransigente di quello uscente si potrebbe riaprire la partita. Soprattutto se venisse eletto un rappresentante della corrente più moderata e vicina al Sottosegretario, quella di Magistratura Indipendente, a cui è stato iscritto per anni anche il Guardasigilli. Questo lo scopriremo molto probabilmente l’8 febbraio, quando si riunirà il “parlamentino” dell’Anm di cui conosceremo domani la nuova composizione e che dovrà eleggere giunta e presidente. Infatti alle 14 scade il termine del voto telematico e nel pomeriggio si conosceranno i risultati. Impossibile fare previsioni: c’è chi sostiene che ad avere più rappresentanti nel Comitato direttivo centrale sarà Magistratura indipendente, altri invece sostengono la vittoria di AreaDg, anche perché la presidenza Santalucia è stata apprezzata pure da chi nel 2020 votò contro di lui. Un esempio? Ugo Scavuzzo, membro uscente dell’attuale Cdc, in quota Mi, nel suo saluto di commiato due sabati fa ha detto rivolto a Santalucia: “Mi sono pentito di non aver appoggiato la tua proposta allora. Oggi dico che sei stato un eccellente presidente”. La domanda che si pone adesso è: questo confronto è fattibile oppure no? Le aperture della politica sono solo operazioni di facciata per mostrare il volto dialogante dinanzi ai cittadini rispetto a una magistratura che protesta o c’è davvero intenzione di pensare a delle modifiche? Un punto fermo sull’altra sponda è la mozione approvata dal congresso di Palermo a maggio, in cui tra l’altro leggiamo: “L’unicità della magistratura è valore fondante del nostro associazionismo: tale sua caratteristica ontologica è incompatibile con ogni possibilità di mediazione e trattativa sugli specifici contenuti delle riforme”. Queste righe, che chiudono palesemente a qualsiasi confronto, furono messe nero su bianco da un magistrato di peso come Eugenio Albamonte, che faceva parte del gruppo scelto dalle correnti per stilare la mozione. Proprio Albamonte, qualche settimana fa in un dibattito organizzato dalla Camera Penale di Grosseto con il presidente dell’Ucpi Francesco Petrelli, ha ribadito: “Accettare il meno peggio sarebbe uno snaturamento, un cedimento ipocrita. Meglio confrontarsi a viso aperto con le proprie ragioni e la storia racconterà com’è finita”. Solo che adesso sembra che una parte della magistratura sia pronta a trattare invece con la politica sul tema del sorteggio: togliere dalla riforma quello puro per i membri togati del Csm e accettare quello temperato (i candidati sarebbero individuati, appunto, per sorteggio, per poi essere effettivamente eletti da tutti i magistrati). Quello del sorteggio è uno dei temi della riforma più dibattuto: persino Petrelli e l’ex presidente dell’Ucpi Caiazza si sono detti contrari, definendolo un sistema “antidemocratico e grillino”. Tanto è vero che nella proposta di legge di iniziativa popolare dei penalisti non era previsto. Ma adesso non vi si può rinunciare per non mandare a monte tutta la riforma. Persino il vice ministro alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto, ha confermato: “Io non sono favorevole al sorteggio, lo dico subito, ma mi rendo conto che è il solo modo per poter spezzare questo legame malato tra correnti e Csm”, rispondendo in merito alla provocazione dei dadi in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario a Bari, che gli sono stati dati dal segretario di AreaDg, Giovanni Zaccaro. All’interno della magistratura sicuramente il gruppo dei CentoUno sarebbe favorevole al sorteggio. Ieri erano addirittura circolate voci di una possibile adesione di Unicost, poi smentita al Dubbio in maniera categorica. Sta di fatto che di questo si parlerà anche nell’assemblea del 27 febbraio, giorno in cui è stato convocato lo sciopero. Un appuntamento a cui ci si avvicina con più entusiasmo, considerato che dal punto di vista dell’Anm sabato le proteste hanno ottenuto tre importanti risultati: compattare tutte le toghe contro il governo, registrare una partecipazione massiccia alla protesta, riempire le prime pagine dei giornali e i tg. Certo, c’è anche chi sostiene che l’astensione potrebbe irritare una parte dei cittadini che si vedrebbero rinviare la causa. Ma questo è un discorso marginale. Ora l’obiettivo è portare quante più toghe possibile il 27 all’assemblea, ribaltare i sondaggi - quello di sette giorni fa di SWG per La7 dava il 63% delle persone contattate favorevole alla separazione delle carriere -, comunicare al Paese reale (vedasi altro articolo sul giornale di oggi) le ragioni della protesta. Io, ex procuratore, dico: Nordio ha ragione sui fascicoli clonati di Alessandro Cannevale* Il Dubbio, 28 gennaio 2025 La soluzione: estendere all’intero processo ogni nullità provocata dalla violazione delle garanzie difensive. Io non ricordo perfettamente i miei lunghi anni di servizio, solo le cose buffe. Me n’è tornata in mente qualcuna leggendo le parole del ministro Nordio sui “fascicoli clonati” e sulle “indagini occulte ed eterne”, ovvero sull’uso improprio dei vari registri sui quali le procure della Repubblica dovrebbero iscrivere, non appena possibile, il titolo dei reati per i quali procedono e i nomi degli indagati, perché da quel momento decorrono i termini massimi di durata delle indagini. Alla fine del secolo scorso, si parlò tanto del Fascicolo-Contenitore della procura di Milano. Io ne ricordo perfettamente il numero: 9520/95 contro ignoti. Somigliava al cilindro di un prestigiatore o a una prestigiosa botte di rovere: ne uscivano, come colombe svolazzanti, indagini invecchiate il giusto, di buona beva. Ogni volta che volava una colomba, persone anche troppo note (in tutti i sensi), da tempo oggetto dell’amorevole attenzione degli inquirenti, venivano iscritte nel registro degli indagati in un fascicolo nuovo di zecca, e i termini per le indagini ripartivano da zero. Da noi, a Perugia, ce ne arrivò uno che sapeva di tappo: era destinato all’archiviazione. Si sa che molti primari mandano i moribondi a spirare in un altro reparto. Poco dopo, mi sembra di ricordare, a Perugia qualcuno trasformò le iscrizioni nel registro degli indagati nel gioco delle tre carte. In quel gioco, i mazzieri più abili ne sanno fare di ogni: tenersi un fascicolo di altri perché serve alla carriera, intercettare un parlamentare indagando un suo amico, instaurare indagini parallele, tenere sotto scopa il titolare dell’azione disciplinare indagandogli il fratello, indagare su fughe di notizie da loro stessi provocate. Il procuratore capo Nicola Miriano accentrò su di sé il controllo delle iscrizioni e riferì al Csm. Fu solo lui a essere sanzionato, gli era uscita una frase scortese. Altri galantuomini, come Archie Miller e Gianfranco Mantelli dell’Ispettorato, hanno segnalato il fenomeno delle iscrizioni anomale. Risultati? Tanti potenti nemici. Anche più di recente mi sono imbattuto in casi di uso bizzarro dei registri degli indagati. Due esempi: nel 2017, la procura di Firenze riceve due esposti anonimi su una pervasiva corruzione ambientale del Tribunale fallimentare di Perugia, che coinvolgeva due magistrati. L’art. 333 del codice di procedura penale vieta qualsiasi uso processuale degli anonimi, ma la procura di Firenze acquisisce i tabulati telefonici degli accusati e compie indagini sui loro patrimoni. Non vengono iscritti né gli indagati né le ipotesi di reato, come se una procura della Repubblica raccogliesse simili informazioni non per accertare reati ma, per… boh, non so, per indagini di mercato? Non ne esce nulla ma, due anni dopo, ‘ sta roba viene depositata al gup in un maxi fascicolo a carico di uno dei due magistrati diffamati e di molti professionisti. Così quelle informazioni sensibili, che in parte riguardano persone estranee al processo, sono diffuse fra imputati, persone offese e difensori. Analoga diffusione ricevono gustose informazioni su persone estranee alle indagini, emerse dalle intercettazioni: a quanto pare, un medico ha raccomandato il figlio di un carabiniere per farlo studiare in Albania, un altro medico si è fatto pagare in contanti, due magistrati si sono permessi commenti irriguardosi sulla procura di Firenze. Le birbonate di questi cattivoni non potevano essere oggetto d’iscrizione, perché non erano reati, ma lo sputtanamento non richiede iscrizioni. Torniamo a Perugia, dove un bel giorno viene indagata una persona per una fuga di notizie. Per scoprire a tutti i costi cosa sia avvenuto in un certo incontro al quale quella persona ha partecipato, il pm interroga il suo difensore. Quando il difensore oppone il segreto professionale, il pm sostiene che è stato opposto indebitamente. L’art. 200 del codice di procedura gli consentirebbe solo di compiere accertamenti e, se del caso, di ordinare all’avvocato di deporre. Lui invece lo ammonisce: si riserva di valutare se ha commesso un reato (intralcio alla giustizia? Lesa maestà?). Questa bella pagina di giustizia penale, però, non entrerà mai nel fascicolo a carico della persona indagata. La quale decide di patteggiare, indovinate perché. Giunto al fin della licenza, dico la mia sul problema, al quale la legge Cartabia ha opposto un rimedio troppo timido. Suggerisco di importare il principio del fruit of poisoned tree ed estendere all’intero processo, senza limiti né condizioni, ogni nullità provocata dal mancato rispetto delle garanzie difensive o dei termini di durata delle indagini. Quanto ai magistrati che mostrano di ignorare la legge (in tutti i sensi), più che separare le loro carriere da quelle di altri sarebbe il caso di stroncargliele, invitandoli cortesemente a servire la Giustizia su poltrone meno impegnative. *Avvocato, ex magistrato, già procuratore della Repubblica a Spoleto e Urbino Caso Ramy, sul cellulare del testimone le tracce del video cancellato di Roberto Maggioni Il Manifesto, 28 gennaio 2025 In base alla perizia consegnata al pm, la registrazione sarebbe stata di un minuto e dieci secondi ma è rimasto solo il frame iniziale. Il video girato con il telefono cellulare dal testimone c’era ma è stato cancellato e non è più possibile recuperarlo. È quanto emerge dalla consulenza commissionata dalla Procura di Milano sul telefono di Omar E., il ragazzo testimone dell’incidente che la notte tra il 23 e il 24 novembre ha portato alla morte del diciannovenne Ramy Elgaml, inseguito dai carabinieri mentre era su uno scooter. La relazione è stata firmata da Marco Tinti, nominato dai pm per verificare se il filmato fosse stato cancellato o meno e dalla perizia emerge che la cancellazione c’è stata. Il video sarebbe stato di un minuto e 10 secondi. La fotocamera del testimone è risultata in funzione dalle 4.03 e 22 secondi fino alle 4.04 e 31 secondi, secondo quanto scritto dall’agenzia Agi. Non sarebbe però possibile recuperarlo e quindi vederne il contenuto. Di quel video, scrive sempre la perizia, è rimasto solo il frame iniziale, dal quale si vede la prospettiva dalla quale stava filmando il testimone: dalle strisce pedonali tra via Quaranta e via Ripamonti. Lì è stato geolocalizzato il cellulare di Omar e lì il ragazzo è immortalato nel video di una delle telecamere di servizio. Il testimone è ripreso sulle strisce pedonali con il braccio alzato verso via Ripamonti, come a filmare col cellulare quanto stesse succedendo. Omar ha visto arrivare i due mezzi, una prospettiva quindi utile a capire se il contatto c’è stato o meno, e in quale momento. Nessuno però potrà mai vedere quel video in quanto, secondo la perizia tecnica, irrecuperabile. Omar, interrogato dai pm, aveva raccontato di aver ripreso con il suo telefono la parte finale dell’inseguimento da parte dei carabinieri, quando Ramy ha perso la vita mentre Fares Bouzidi, alla guida del mezzo, è rimasto gravemente ferito; ha anche raccontato di aver sentito le sirene dei carabinieri e di aver iniziato a girare un video con il suo cellulare riprendendo la fase finale dell’inseguimento fino allo schianto. Il testimone è stato poi raggiunto da due militari, come confermato anche dal video di una telecamera di servizio, che, secondo il racconto del giovane, gli hanno intimato di cancellare il filmato. “I carabinieri sono venuti vicino a me e mi hanno fatto una foto al documento e mi hanno detto ‘cancella immediatamente il video, adesso che hai fatto il video ti becchi anche una denuncia’” ha fatto mettere a verbale il giovane. E la perizia ha effettivamente riscontrato la cancellazione del video. I due carabinieri sono indagati per frode processuale, depistaggio e favoreggiamento nell’ipotesi che davvero abbiano costretto il teste a rimuovere immagini che sarebbero state importanti per ricostruire la dinamica dell’incidente. Un altro carabiniere è indagato con l’accusa di omicidio stradale in concorso con Fares. Ora si attende a giorni l’esito della consulenza cinematica che proverà a spiegare se il contatto tra auto e moto alla fine dell’inseguimento c’è stato oppure no. Emilia Romagna. Volontariato, fare rete in carcere volontaromagna.it, 28 gennaio 2025 Un percorso senza dubbio innovativo quello promosso da Roberto Cavalieri, Garante dei Detenuti dell’Emilia-Romagna che, con il supporto dei Centri di Servizio per il Volontariato, ha voluto valorizzare e ascoltare i volontari su come vivono il carcere, mettendoli allo stesso tavolo con pubbliche amministrazioni e direzioni penitenziarie. Nel 2024 si è molto lavorato sulla rete: come si è sviluppato questo percorso? Nel corso di questo mio mandato ho dedicato parte della mia attenzione al volontariato penitenziario e dell’esecuzione penale esterna. Il mio obiettivo era quello di “mescolare le carte” e fare conoscere ai volontari carceri di altri territori e di connetterli con altre realtà di volontariato. È così che oltre 200 persone a livello regionale hanno aderito alle cosiddette visite formative nelle carceri dove, in collaborazione con le direzioni e i comandi della Polizia penitenziaria, hanno potuto visitare le carceri e gli spazi trattamentali di altri istituti, incontrare e parlare con altri volontari, conoscere i progetti che si realizzano. A questo lavoro è seguita una indagine svolta con un questionario e dei focus-group dedicati a temi specifici che andavano dal contrasto alla povertà, alla religione, allo sport, alla scuola, un’occasione per ascoltare i volontari e i problemi che incontrano nel loro operare. Il lavoro svolto è stato poi raccontato e commentato in un convegno con 180 presenze, promosso insieme ai Csv e raccontato nel report dal titolo: “Carcere, esecuzione penale esterna e volontariato: bisogni, idee e sfide fra presente e futuro”, consultabile nel sito del Garante. Quali sono i temi salienti emersi? Sicuramente è necessario che il volontariato assuma una dimensione di scambio di buone pratiche, anche attraverso momenti di formazione condivisa. Come Garante ho voluto essere uno stimolo in questa direzione: il tema della detenzione è uno, anche se i territori sono tanti, è inutile quindi fare eccessi di progettazione locale, con il rischio di creare situazioni a macchia di leopardo, in cui un detenuto, rispetto a dove si trova, è più fortunato dell’altro. Sono disuguaglianze che vanno superate. Per garantire pari opportunità tra i detenuti è importante la rete tra volontari, direzioni penitenziarie e pubbliche amministrazioni, superando i provincialismi. Il volontariato diventa quindi una delle gambe su cui si regge il sistema, qual è il suo ruolo dentro il carcere? Il volontariato nell’ambito penitenziario è contemplato in due articoli dell’Ordinamento penitenziario, la norma che regola il funzionamento di un carcere e il trattamento di una persona condannata. Nel concreto il volontariato collabora con la direzione del carcere nella realizzazione del progetto di istituto e quindi nelle attività alle quali partecipano i ristretti: lo sport, la scuola, la cultura, il culto… Si tratta di un elemento fondamentale nella vita di un penitenziario, basti pensare alla grande quantità di persone povere e bisognose che si trovano in un carcere. Il volontariato è di fatto il volto umano di un carcere, anello di congiunzione tra il dentro e il fuori, punto di appoggio per i detenuti che vivono in una situazione di privazione e, va detto, molto al limite sotto il profilo del rispetto dei diritti. Può fare qualche esempio concreto? La distribuzione di vestiti o di beni di prima necessità. In alcuni istituti, come a Forlì e a Ferrara, i volontari hanno degli spazi che attrezzano con abiti usati in accordo con le direzioni, per fornire abiti e quanto necessario. Non è banale: si pensi ai giunti per arresti improvvisi che non hanno altro che i vestiti con cui arrivano da casa. Ci sono poi enti, come il San Cristoforo e Per Ricominciare di Parma, la Papa Giovanni XXIII di Rimini o la diocesi di Bologna, che offrono degli alloggi per i detenuti che hanno, per esempio, una licenza per uscire, uno spazio per loro fondamentale per poter trascorrere un tempo con le proprie famiglie. C’è poi un capitale relazionale importante: molti detenuti vivono lo stigma e anche amici e familiari si allontanano, lasciandoli soli. I volontari diventano quindi punti di riferimento anche per cambiare uno spazzolino da denti o avere un quaderno su cui scrivere, spesso sono loro ad alimentare fondi cassa per queste piccole spese, in quanto i fondi destinati sono spesso largamente insufficienti rispetto ai bisogni… Accennava all’esecuzione penale esterna, che cos’è e perché è importante il volontariato in questo ambito? L’esecuzione penale esterna riguarda le persone condannate che scontano la pena all’esterno del carcere. Esistono diverse forme di esecuzione esterna tutte attraversate dalle prescrizioni definite da un Magistrato di sorveglianza. In questo ambito il ruolo del volontariato si riduce rispetto al numero di persone che hanno bisogno, normalmente chi ha una rete famigliare riesce a provvedere ai propri bisogni. Ciononostante non è scontato trovare un alloggio, un lavoro o, ed è fondamentale, una rete di relazioni sulle quali contare e riprendere il percorso per ritornare a essere autonomi. In questo il volontariato, a differenza delle istituzioni, ci mette la faccia. La Caritas di Parma, per fare un esempio, ha accolto detenuti che hanno avuto pene e percorsi detentivi di alta sicurezza, trascorrendo decenni in carcere. Persone poco appetibili per il mercato del lavoro che, senza il volontariato, non avrebbero nessun tipo di alternative. Roma. Inchiesta di Rebibbia, ora le misure alternative sono a rischio di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 gennaio 2025 “Porte girevoli” è il nome emblematico attribuito a uno dei filoni della maxi indagine condotta dai Carabinieri, sotto il coordinamento della Direzione Distrettuale Antimafia di Roma che ha portato all’esecuzione di misure cautelari nei confronti di 4 persone, 2 ai domiciliari e 2 destinatari della misura interdittiva della sospensione dal pubblico servizio per la durata di un anno, perché accusati, a vario titolo, dei reati di false dichiarazioni o attestazioni in atti destinati all’autorità giudiziaria, falsità ideologica, corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio e turbata libertà del procedimento di scelta del contraente. Al centro di questa complessa operazione, con un altro filone che ha interessato altre 28 persone per detenzione e associazione finalizzata al traffico di droga, vi è l’operato di un professionista del Servizio per le Dipendenze (Ser. D.) dell’Asl Roma 2, attivo all’interno del carcere di Rebibbia. Tra il 2018 e il 2019, secondo le accuse, avrebbe orchestrato un sistema illecito volto a facilitare, mediante certificazioni falsificate, l’accesso dei detenuti a misure alternative alla detenzione. Questo sistema, se confermato, getterebbe un’ombra pesante sull’intero sistema carcerario, tradendo la fiducia di chi lavora per la riabilitazione e alimentando il senso di ingiustizia tra i detenuti che, nonostante condizioni di salute precarie, restano dietro le sbarre. Alcuni, purtroppo, non ce la fanno: le morti “naturali” per motivi di patologie poco curate, sono una ferita ancora aperta. Come detto, al centro dell’indagine emerge la figura di uno psicologo, in servizio presso il Ser.D. di Rebibbia, che avrebbe creato un vero e proprio “sistema” illecito per il rilascio di false certificazioni. Le indagini, condotte tra il 2018 e il 2019, hanno evidenziato come il professionista, coadiuvato da alcuni collaboratori fidati, avrebbe orchestrato un meccanismo per favorire l’uscita dal carcere di alcuni detenuti attraverso l’attestazione di false condizioni di tossicodipendenza. Il modus operandi era sofisticato e ben strutturato. Lo psicologo, secondo quanto emerso dalle indagini, non si limitava a certificare false condizioni di tossicodipendenza, ma arrivava perfino a costruire ex novo intere cartelle cliniche per detenuti che non erano mai stati presi in carico dal Ser. D. Le false attestazioni includevano la creazione di percorsi terapeutici mai effettuati e la certificazione di stati di tossicodipendenza per soggetti che, in alcuni casi, avevano dichiarato di non fare uso di sostanze stupefacenti da oltre un decennio. L’indagine ha rivelato il coinvolgimento di altri operatori del servizio, tra cui figure amministrative in posizioni sovraordinate. Particolarmente grave è emersa la posizione di alcuni collaboratori che, pur consapevoli delle attività illecite, non hanno fatto nulla per contrastarle. Il sistema avrebbe creato all’interno della struttura sanitaria del carcere un ambiente dove chi si opponeva a queste pratiche veniva di fatto emarginato fino a essere costretto ad allontanarsi dall’ufficio. Un aspetto particolarmente interessante dell’indagine riguarda il coinvolgimento di un’associazione di volontariato, utilizzata come schermo per ampliare il raggio d’azione del sistema. Attraverso questa organizzazione, lo psicologo sarebbe riuscito a controllare un numero maggiore di detenuti rispetto a quelli che avrebbe dovuto seguire secondo l’organizzazione del Ser. D., che assegnava i detenuti con cognomi inizianti per determinate lettere dell’alfabeto. Le indagini hanno rivelato che dietro questo sistema si celavano diversi obiettivi. Da un lato, c’era un interesse economico diretto, con alcuni detenuti che pagavano per ottenere le false certificazioni. Dall’altro, emergeva la volontà di consolidare e ampliare il potere del Ser. D. all’interno del carcere, aumentando il numero di utenti del servizio e, conseguentemente, i finanziamenti da parte dell’Asl Roma 2. L’inchiesta è partita dalle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia che ha rivelato l’esistenza di una vera e propria “compravendita” di certificati di tossicodipendenza all’interno del carcere. Le successive indagini, condotte congiuntamente dal Nucleo Investigativo Centrale del Corpo di Polizia Penitenziaria e dal Nucleo Investigativo dei Carabinieri del Gruppo di Frascati, avrebbero confermato quanto denunciato, portando alla luce un sistema molto più complesso e ramificato di quanto inizialmente ipotizzato. Il sistema ha avuto ripercussioni significative sull’amministrazione della giustizia. I magistrati di sorveglianza, indotti in errore dalle false certificazioni, concedevano benefici penitenziari a soggetti che non ne avrebbero avuto diritto. Questo ha rappresentato non solo una violazione della legge, ma anche una beffa per i tanti detenuti che, pur versando in condizioni critiche reali, sono rimasti in carcere. La Procura ha scelto di concentrarsi sui casi più eclatanti di falsità ideologica, dove le certificazioni non erano semplicemente il risultato di forzature amministrative, ma rappresentavano vere e proprie attestazioni false di tossicodipendenza. Questa scelta è stata dettata dalla necessità di costruire un impianto accusatorio solido, considerando che la professione dello psicologo comporta naturalmente margini di discrezionalità tecnica. L’inchiesta “Porte Girevoli” rischia di produrre effetti che vanno ben oltre le responsabilità individuali degli indagati. Il timore è che questo caso possa essere strumentalizzato da quelle forze politiche che da sempre si oppongono alle misure alternative alla detenzione, utilizzando questa vicenda come pretesto per sostenere una visione più restrittiva e punitiva del sistema penitenziario. Ma c’è di più. La storia insegna che scandali di questo tipo possono provocare un pericoloso “effetto pendolo”, portando la magistratura di sorveglianza ad assumere posizioni più rigide e conservative nella concessione delle misure alternative, anche nei casi di effettiva necessità sanitaria. Un atteggiamento che rischierebbe di penalizzare proprio quei detenuti che realmente necessitano di cure e assistenza fuori dal carcere. Questo scenario è particolarmente preoccupante se si considera la situazione attuale del carcere di Rebibbia che, come molti istituti penitenziari italiani, deve fare i conti con un numero crescente di detenuti affetti da gravi patologie fisiche e mentali. Condizioni spesso incompatibili con la detenzione, che richiederebbero percorsi alternativi di cura e riabilitazione. Il rischio concreto è che questa inchiesta, cavalcandola, possa compromettere l’accesso alle misure alternative anche per chi ne ha realmente diritto, aggravando ulteriormente la già critica situazione sanitaria nelle carceri. Va sottolineato come il sistema penitenziario italiano si trovi oggi di fronte a una duplice sfida: da un lato, la necessità di garantire la legalità e la correttezza delle procedure per l’accesso alle misure alternative; dall’altro, l’urgenza di dare risposte concrete ai crescenti bisogni di salute della popolazione carceraria. La vicenda di Rebibbia non dovrebbe portare a un irrigidimento generalizzato del sistema, ma piuttosto stimolare una riflessione più ampia sulla necessità di rafforzare i controlli mantenendo al contempo un approccio umano e costituzionalmente orientato alla detenzione. Bologna. Tanti ragazzi, pochi posti e personale. “L’istituto del Pratello così non va” di Margherita Montanari Corriere di Bologna, 28 gennaio 2025 Il Garante e l’aumento dei reati minorili: “La prevenzione non funziona”. L’Istituto Penale Minorile (Ipm) del Pratello vive una situazione di sovraffollamento che compromette la qualità della detenzione e mette a rischio i percorsi rieducativi per i giovani detenuti. È davanti a questo quadro, ribadito ieri durante la presentazione del libro di fotografie “Repertorio di immagini degli spazi trattamentali del Centro giustizia minorile di Bologna”, che il garante regionale dei detenuti Roberto Cavalieri ha parlato della necessità di interventi strutturali nel centro. “Un istituto che accoglie 50 ragazzi dovrebbe avere spazi ben più ampi”. Dei ragazzi detenuti, nei 200 scatti del volume realizzato da Cavalieri con il fotografo Francesco Cocco e con il Centro di giustizia minorile dell’Emilia-Romagna e delle Marche, apparentemente non c’è traccia. Lunghi corridoi, cortili, aule scolastiche e camere da letto appaiono completamente vuoti. A ben vedere, secondo Giuseppe Di Giorgio, procuratore Tribunale per i minorenni Bologna, “le persone ci sono: in un bicchiere di plastica, in una caffettiera, in un letto sfatto”. Ci sono, nei dettagli, anche educatori, psichiatrie mediatori culturali che lavorano ogni giorno per rendere il carcere meno carcere. Durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario a Bologna, è stato lanciato l’allarme sull’aumento dei reati commessi dai minori negli ultimi tre anni. “Significa anche che l’attività di prevenzione non riesce a funzionare e intercettare il disagio giovanile prima che diventi reato”, ha commentato ieri Gabriella Tomai, presidente del Tribunale per i minori. A questo trend, si aggiunge l’abbassamento della qualità della detenzione legata al sovraffollamento e alla carenza di personale. I numeri constatati nel recente sopralluogo del garante dei detenuti del comune di Bologna Antonio Iannello li ha ribaditi ieri il dirigente dell’Ipm di Bologna Alfonso Paggiarino: 51 i ragazzi ospiti a fronte di una capienza regolamentare di 40. Un problema che Matilde Madrid, assessora comunale al Welfare, ha collegato al decreto Caivano. Per raffrontare l’emergenza, secondo il garante regionale Cavalieri, sono necessari interventi educativi ma anche strutturali. L’Ipm di via del Pratello, con “un’architettura antica, non consente un adeguamento rapido”. Un istituto che accoglie 50 ragazzi dovrebbe avere spazi molto più ampi, come se ne dovesse ospitare 80”. Intanto è prevista la temporanea ricollocazione degli uffici del Tribunale e della Procura per i minorenni nelle ex scuole Besta, in vista di una ristrutturazione della sede attuale che partirà a febbraio e si concluderà nel 2026.Un’ultima incognita è legata alla direzione dell’Ipm di Bologna. Alfonso Paggiarino, dal 2012 a capo dell’istituto, andrà in pensione a breve. A fine febbraio sarà pubblicato il bando per il suo sostituto, che entrerà in carica il primo settembre. Torino. Al Ferrante Aporti in sette senza un letto. “I direttori protestino per il sovraffollamento” di Alberto Giulini Corriere di Torino, 28 gennaio 2025 Al carcere minorile sono 55 detenuti e una capienza di 46. “Il ministro intervenga”. Tensioni e sovraffollamento continuano ad essere all’ordine del giorno al Ferrante Aporti. Il carcere minorile di Torino ospita 55 detenuti a fronte di una capienza massima di 46. “Sette ragazzi dormono su brandine da spiaggia, eppure il dipartimento della giustizia minorile sembra non mostrare alcun interesse a risolvere questa grave emergenza”, denuncia l’Osapp, sindacato autonomo di polizia penitenziaria. All’attacco Leo Beneduci, segretario generale: “È ora di agire, la situazione è intollerabile. Sollecitiamo per l’ennesima volta il ministro Nordio e il sottosegretario Ostellari, devono intervenire per porre fine a una situazione che sta minando dignità e sicurezza di chi lavora e di chi è privato della libertà. I detenuti sono costretti a vivere in condizioni che violano i più elementari diritti umani”. Una situazione critica e prolungata nel tempo che non accenna a rientrare. “All’orizzonte non si profilano cambiamenti - spiega Monica Gallo, garante comunale dei diritti delle persone private della libertà. Il problema non è risolvibile a livello locale: dopo l’entrata in vigore del decreto Caivano si registra quasi il 48% per cento in più di ragazzi all’interno degli istituti minorili. Ma io penso che una protesta di tutti i direttori in Italia potrebbe smuovere qualcosa: dovrebbero rivolgersi al ministro dicendo che non ospiteranno nessuno oltre la capienza massima. Come non si sfonda la porta di un albergo per entrare quando è già pieno, lo stesso discorso deve valere quando si mettono dei ragazzi nelle mani dello Stato. La loro tutela non è assolutamente garantita: nonostante il sovraffollamento, il numero di persone che si deve occupare di educazione, reinserimento e sicurezza resta sempre uguale”. E in estate il Ferrante Aporti ha già dovuto fare i conti con gravi problemi, culminati nella violenta rivolta della notte tra l’1 e il 2 agosto. “Qualsiasi condizione compressa in fase di sviluppo adolescenziale provoca una serie di problematiche - analizza Gallo. La carenza di personale, dormire per terra e le minori opportunità di lavoro, formazione e istruzione del periodo estivo non hanno agevolato una buona vita all’interno dell’istituto”. Un carcere minorile che si trova a fare i conti anche con criticità di natura sanitaria: “A volte ci sono i ragni, altre volte gli scarafaggi. Ma lo sguardo andrebbe allargato su un periodo più lungo per comprendere la sofferenza alla quale sono sottoposti i giovani”. Bari. Sovraffollato anche il carcere minorile. E il Ministero vuole ridurre gli spazi di Mara Chiarelli L’Edicola del Sud, 28 gennaio 2025 Se la Casa circondariale di Bari piange, l’Ipm “Fornelli”, non ride. L’emergenza agenti nelle carceri pugliesi, contraltare del sovraffollamento di detenuti, non risparmia nemmeno il minorile. Dove, peraltro, è in corso una ricognizione ministeriale per rivedere, al ribasso, le metrature stabilite nel 2013 dalla sentenza Torregiani. Undici anni fa, la Corte europea dei diritti dell’uomo condannò lo Stato italiano per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani (Cedu). Il caso riguardava trattamenti inumani o degradanti subiti dai ricorrenti, 7 persone detenute per molti mesi nelle carceri di Busto Arsizio e di Piacenza, in celle triple e con meno di quattro metri quadrati a testa a disposizione. Nasce allora l’articolo 35 dell’ordinamento penitenziario, che stabilisce le metrature a disposizione dei detenuti, sotto le quali non è consentito andare. In caso di violazione, il risarcimento può essere di due tipologie: o economico oppure con “una riduzione della pena detentiva ancora da espiare pari, nella durata, a un giorno per ogni dieci durante il quale il richiedente ha subito il pregiudizio”. Nelle ultime settimane, però, il ministero ha proposto di rivedere quelle metrature, probabilmente per fare fronte all’aumento esponenziale di detenuti minorenni, in buona parte minori non accompagnati. La proposta è all’attenzione anche dei sindacati di polizia penitenziaria, ma intanto, al netto di una decisione ancora non raggiunta, all’istituto minorile Fornelli sono arrivati altri tre giovani detenuti, da altre strutture del Paese, portando così l’originaria capienza di 35 a 38. Che rappresenta, guarda caso, quel 10 per cento di cui si parla nelle stanze romane. Singolare appare, peraltro, che l’esame delle metrature venga fatto sulla base della superficie calpestabile, che non tiene conto degli ostacoli: in sostanza, se c’è una finestra che si apre, un armadio, la porta del bagno, in quegli spazi non si possono piazzare delle brande. Irrisolto, anche al Fornelli, il problema della carenza di guardie carcerarie in servizio: l’organico previsto, su carta, dal capo del dipartimento, è di 50 unità. Al momento, ce ne sono solo una ventina. Un numero anche questo variabile, che risente di pensionamenti, malattie, trasferimenti, distacchi. Le stesse malattie che a volte si protraggono per mesi, a causa dell’esubero di lavoro della commissione medica ospedaliera (competente per Puglia, Basilicata e Campania), deputata a certificare il rientro al lavoro. Commissione che non dipende dalla Asl barese, come erroneamente riportato nel precedente articolo sul tema, ma dai vertici militari. Quanto al minorile, a conclusione del 184esimo corso, a febbraio, ne dovrebbero arrivare 9 (6 maschi e 3 femmine) ma anche in questo caso non è scontato che scelgano come sede proprio Bari. Viterbo. “Mio fratello non si è impiccato in cella d’isolamento, fu vittima di un pestaggio” di Silvana Cortignani tusciaweb.eu, 28 gennaio 2025 Parla tramite i difensori uno degli otto fratelli. Suicidio in cella di Andrea Di Nino, il detenuto 36enne romano trovato morto alla casa circondariale “Nicandro Izzo” di Viterbo la sera del 21 maggio 2018: proseguono le indagini difensive da parte degli otto fratelli che non hanno mai creduto che il congiunto, padre di cinque figli, si sia tolto la vita. È stata intanto rinviata a maggio, a causa dell’assenza per motivi di salute di uno degli imputati, l’udienza del 22 gennaio davanti al giudice Jacopo Rocchi del processo per omicidio colposo a carico dell’agente penitenziario e dei due sanitari rinviati a giudizio il 6 ottobre 2022 dal Gup Savina Poli. Sono difesi dagli avvocati Massimo Pistilli, Lorenzo Lepri e Andrea Danti. Tra i fratelli della vittima c’è anche Valentino Lazzarini, assistito dall’avvocata Guendalina Chiesi del foro di Roma, unitamente al dottor Claudio Cipollini Macrí, i quali si sono attivati per lo svolgimento in iter di indagini difensive: “Che porteranno certamente a una svolta, nel merito di quanto accaduto”. Cipollini Macrì, 49 anni, è l’ex detenuto romano noto come “zio Rocco”, che si è laureato in giurisprudenza a Rebibbia nel 2013, mentre era in alta sorveglianza. “La produzione di fonti investigative svolte ed in fase di svolgimento ha prodotto testimonianze che la difesa sta raccogliendo e verbalizzando, pronti a rendere merito alla legalità per quanto accaduto, ribadendo che nel periodo dei fatti lo stesso penitenziario viterbese Mammagialla - dicono - era solito alla commissione di atti violenti da parte di alcuni agenti di polizia penitenziaria”. “Senza generalizzare, è il caso di fare chiarezza e ripristinare la legalità là dove è venuta meno - proseguono, ricordando che - è stata già depositata una denuncia per il reato di omicidio volontario o preterintenzionale a fine ottobre 2024, cui sono allegate le dichiarazioni rese da due testimoni, di cui uno asserisce che il Di Nino veniva continuamente sottoposto a pestaggi da parte della squadretta di Viterbo e l’altro che quel fatidico 21 maggio del 2018 - giorno del decesso di Andrea - si trovava nel reparto di isolamento ed ha assistito ad un ennesimo pestaggio che avrebbe, secondo la tesi dei difensori delle persone offese, condotto alla morte della vittima, su cui sono state aperte le relative indagini da parte della procura della repubblica presso il tribunale di Viterbo”. “Una attenta analisi da parte del dottor Cipollini Macrí sui rilevamenti autoptici verrà a breve redatta e depositata dall’avvocato Guendalina Chiesi dando seguito a quanto richiesto dal fratello della vittima - concludono, sottolineando - Valentino Lazzarini, unitamente agli altri fratelli di Andrea Di Nino, invoca giustizia - là dove vi fosse responsabilità da parte della stessa legge che avrebbe dovuto tutelare una persona reclusa - presupponendo che sussistano i presupposti per la valutazione di reato configurabile in omicidio volontari”. Modena. La procura: “Le carceri, luoghi di sofferenza e non di recupero” tvqui.it, 28 gennaio 2025 Dopo lo sciopero della Camera Penale con la visita all’interno del Sant’Anna, anche la Procura di Bologna ha lanciato l’allarme. Tre persone morte in carcere dall’inizio dell’anno, un incendio appiccato con due detenuti e nove agenti feriti, polizia penitenziaria aggredita, l’ultimo caso tra venerdì e sabato. Si fa sempre più lunga la scia di episodi critici che si registrano all’intero dell’istituto detentivo Sant’Anna di Modena. Fenomeni che hanno spinto anche la stessa Procura generale di Bologna a tenere alti i riflettori sul tema, dopo lo sciopero della Camera penale della nostra città. Al centro di nuovo il problema del sovraffollamento: in Emilia-Romagna, secondo i conti della Procura, la capienza regolamentare degli istituti penitenziari è di 2.988 posti, mentre la presenza effettiva è di 3.829 persone, per un indice di sovraffollamento che si attesta in media al 130%. Le criticità, relaziona la Procura, più rilevanti nella gestione dei detenuti si registrano in particolare rispetto ad atti violenti, spesso determinati dal disagio sociale di cui sono portatori in numero sempre crescente, e da difficoltà comportamentali spesso connesse a debolezze culturali che sfociano in atteggiamenti aggressivi e intemperanti. Il tutto aggravato sempre più spesso da fragilità psichiche o caratteriali. Un mix che conduce spesso al dramma dei suicidi. Eventi che ci interrogano sul difficile equilibrio tra esecuzione della sanzione e rispetto della vita umana e della dignità della persona. Per il procuratore generale Paolo Fortuna il carcere è ancora, spesso, luogo di gratuita sofferenza piuttosto che luogo di effettivo recupero. Sul tema torna anche il sindacato di polizia Penitenziaria Sappe, che chiede di intervenire attraverso investimenti strutturali, l’incremento dell’organico e una maggiore sicurezza nei confronti degli operatori del carcere Messina. La Garante dei detenuti: “Situazione sempre più critica delle carceri” di Alessandra Serio tempostretto.it, 28 gennaio 2025 Carceri sovraffollati mentre i Tribunali arrancano tra le richieste di chi dietro le sbarre non dovrebbe più starci. L’analisi della Garante sui temi sfiorati all’apertura dell’Anno giudiziario. I problemi relativi al Tribunale di Sorveglianza, segnalati all’apertura dell’anno giudiziario 2025 dal Presidente della Corte d’Appello di Messina, sono dovuti ad una situazione sempre più critica delle carceri. Lo spiega la Garante dei Detenuti del Comune di Messina, che illustra il quadro di una emergenza ogni giorno più drammatica e indica i principali nodi. La professoressa Risicato parte dai dati nazionali che indicano come il 2024 sia stato un annus horribilis per le carceri italiane. “Più di 90 suicidi e 244 morti totali, secondo l’osservatorio di Antigone (e i suicidi proseguono in queste prime settimane del 2025). La relazione del Garante nazionale parla più cautamente di 83 suicidi e venti morti sospette al 20 dicembre 2024 , come se la più contenuta cifra complessiva fosse accettabile. Si è registrato un caso ogni 3 giorni e mezzo, nella sostanziale indifferenza di Parlamento e Governo. I tentati suicidi sono stati 2.035 (179 in più rispetto al 2023), gli atti di autolesionismo 12.544 (483 in più rispetto al 2023). I suicidi sono la prima causa di morte in carcere, e la fascia di età in cui si registra il maggior numero di atti autolesivi va dai 18 ai 30 anni”. Dove ha fallito il Decreto Carceri - “Tra gli 87 istituti monitorati dall’osservatorio Antigone negli ultimi 12 mesi, ben 28 non garantiscono tre metri quadri calpestabili per persona detenuta. Al sovraffollamento si aggiungono i problemi strutturali di edifici fatiscenti: il 35,6 per cento delle carceri visitate da Antigone è stato costruito prima del 1959 e il 23 per cento del totale prima del 1930. Nel 10, 3 per cento dei casi il riscaldamento non funziona, nel 48, 3 per cento non è garantita l’acqua calda. Il vertiginoso aumento, anche in sede locale, delle richieste di liberazione anticipata nasce dal fatto che in Italia ci sono più di 80 persone con meno di un anno di pena da scontare: una situazione che avrebbe già dovuto essere presa in considerazione dal così detto Decreto Carceri e per la quale sono stati invece predisposti rimedi omeopatici” Il Carcere di Messina - Quindi il caso Gazzi. “il carcere di Messina - spiega la Garante - sconta carenze strutturali che implicano l’assenza di spazi per attività trattamentali in alcuni circuiti, l’inagibilità di alcune parti dell’edificio, l’obsolescenza inesorabile del plesso operatorio e di apparecchiature (tra cui una Tac) per cui un tempo il centro clinico menzionato nella relazione era all’avanguardia. Mancano specialisti, mancano soprattutto un’interazione con i servizi sociali e la creazione di strutture residenziali che possano accogliere i non pochi detenuti non più autosufficienti o affetti da patologie croniche o irreversibili: questi soggetti non possono essere ricoverati né in RSA, né nei centri per tossicodipendenti o per pazienti psichiatrici. A ciò si aggiunge l’atteggiamento autistico del Provveditorato all’amministrazione penitenziaria della Regione Sicilia, che non dialoga con i garanti territoriali e con i soggetti istituzionali di riferimento. Una situazione drammatica, che merita la massima attenzione da parte di tutti”. Cagliari. “Nella Casa circondariale la sanità continua a registrare gravi carenze” di Jacopo Norfo castedduonline.it, 28 gennaio 2025 A preoccupare non sono solo i numeri insufficienti di medici specialisti ma addirittura di infermieri e di diversi farmaci, al punto che la ricerca di questi ultimi è stata estesa agli Ospedali. “La sanità penitenziaria continua a registrare gravi carenze nella Casa Circondariale di Cagliari-Uta. A preoccupare non sono solo i numeri insufficienti di medici specialisti ma addirittura di infermieri e di diversi farmaci, al punto che la ricerca di questi ultimi è stata estesa agli Ospedali”. Lo sottolinea Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme ODV”, evidenziando che “è indispensabile una rivisitazione dell’organizzazione per una migliore gestione della salute in carcere, oggi lasciata troppo alla sensibilità personale dei singoli operatori medici, infermieri e OSS”. “I familiari dei detenuti - osserva - seguono con trepidazione l’evoluzione del percorso terapeutico dei propri parenti che, senza i necessari supporti farmaceutici, rischia di gettare nello sconforto non solo chi ha perso la libertà ma l’intero sistema che sottende al recupero sociale. I Sanitari, al pari delle/dei funzionari giuridico-pedagogici e degli Agenti, possono operare solo se i diritti delle persone vengono rispettati, diversamente c’è il rischio che saltino gli equilibri”. “Appare abbastanza singolare che i bandi di gara per l’acquisto di alcuni farmaci vengano indetti solo dopo che le scorte sono esaurite determinando ‘un interregno’ privo di garanzie. Forse è opportuna una maggiore interazione tra ASL 8, in questo caso, e la farmacia della Casa Circondariale di Cagliari-Uta senza tralasciare di considerare che le scorte devono tenere conto della crescita esponenziale del numero dei presenti (attualmente 768 a fronte di 561 posti). Incomprensibile, infine, anche la riduzione delle/degli infermieri, il cui ruolo - ricorda la presidente di Sdr Odv - è indispensabile per garantire non soltanto la distribuzione, la somministrazione dei farmaci e il supporto ai Medici ma anche la prevenzione e l’educazione sanitaria”. “C’è poi una realtà che merita una specifica attenzione perché discriminata. È quella delle donne detenute in una sezione dove non c’è uno spazio né per un gabinetto ginecologico, né per l’osservazione psichiatrica e neppure un piccolo centro medico che possa garantire un intervento immediato soprattutto nei casi più gravi di atti di autolesionismo. Troppo spesso purtroppo - conclude Caligaris - le criticità a rischio vita vengono gestite o dalle Agenti Penitenziarie o dalle compagne di cella in attesa che possa intervenire il Medico del 118”. Carinola (Ce). “Fatti a manetta”: filiera agricola inclusiva nel carcere di Giorgio Paolucci Avvenire, 28 gennaio 2025 Detenuti al lavoro, per testimoniare che la carcerazione non è una parentesi in cui l’esistenza si ferma ma può diventare un’opportunità da sfruttare nel presente, per mettersi alla prova, creare reddito e contribuire a cambiare la narrazione negativa prevalente nell’opinione pubblica. Accade nella Casa di reclusione di reclusione “G.B. Novelli” di Carinola (Caserta), e coinvolge 4 detenuti già formati e pronti a essere impiegati. L’obiettivo è la realizzazione di un’attività agricola e sociale che controlli e gestisca tutte le fasi di produzione, completando le filiere, dalla coltivazione alla vendita, per fornire servizi di trasformazione di prodotti agricoli in conto terzi agli agricoltori del territorio ed agli altri istituti penitenziari della Campania. Il progetto “C.R.eA, Coltivare responsabilità e alternative in agricoltura” è nato all’interno della cabina di regia istituita dal Provveditorato regionale. È stato affidato all’associazione temporanea di scopo (ATS) istituita tra le Cooperative Sociali Terra Felix, La Strada, L’uomo il legno e le aziende agricole Naturiamo e Rusciano, con il supporto della Federazione provinciale di Coldiretti Caserta. È prevista la coltivazione di oltre 7 ettari in campo aperto e la trasformazione dei prodotti in un laboratorio interno al carcere. Il progetto è stato presentato ieri a Carinola dal provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria per la Campania, Lucia Castellano, dal direttore della Casa di reclusione Carlo Brunetti e dal direttore di Coldiretti Caserta, Giuseppe Miselli. Le cooperative si impegnano a coinvolgere i detenuti seguendo un piano di assunzione progressiva e a organizzare con la Regione Campania una formazione, nella quale sono già coinvolti 20 detenuti. In laboratorio verranno essiccati i prodotti dell’area di Carinola e quelli di Aversa, dove ha sede un’altra Casa di reclusione. L’obiettivo è la creazione di una filiera agroalimentare a livello provinciale, e in prospettiva regionale. Per dare visibilità e connotare l’originalità di queste produzioni è stato creato un marchio registrato, “Fatti a manetta”: “È un primo mattone di un edificio che ci auguriamo crescerà nel tempo, e che valorizza realtà a forte connotazione sociale radicate nel territorio - sottolinea Lucia Castellano. Un tentativo piccolo ma destinato a essere implementato, che si propone come una declinazione dell’articolo 27 della Costituzione, molto evocato ma ancora troppo poco realizzato, in base al quale le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”. Udine. Il Garante regionale dei diritti: “Sovraffollamento del carcere, serve nuova struttura” consiglio.regione.fvg.it, 28 gennaio 2025 “Eroica è l’attività che la direttrice del carcere di Udine, Tiziana Paolini, insieme a tutto il personale penitenziario, pone in essere ormai da diverso tempo, cercando di mantenere un difficile equilibrio organizzativo all’interno di un istituto che sta soffrendo di evidente sovraffollamento detentivo”. Lo scrive, in una nota, il Garante dei diritti della persona, Enrico Sbriglia. “Nel carcere friulano, tra l’altro - spiega ancora Sbriglia - sono in corso importanti lavori di risistemazione di spazi e servizi: essi riguardano aree detentive eppure ciononostante, pur di pervenire al loro completamento, la direzione sta affrontando tutti i rischi connessi, anche sul piano securitario, non ritardando gli interventi, per quanto continuino ad essere presenti le persone detenute che, come gli stessi operatori penitenziari, subiscono il disagio derivante da tali indispensabili operazioni di risanamento e di miglioramento della struttura carceraria”. “Però non è giusto - si legge ancora nel comunicato - che la loro fatica debba essere ancora più grande a motivo di una pressione numerica che rischia di far tracollare tutto, perché insopportabile. Su una capienza regolamentare di 95 posti detentivi - fa sapere il Garante - oggi si contavano ben 183 presenze, quasi il doppio: quale altra struttura ricettiva di accoglienza, fosse questa una scuola, una caserma, un ostello, un ospedale, una Rsa, potrebbe tollerarlo? E non è che negli altri istituti della regione la situazione sia rosea, con esclusione di Tolmezzo, giustificata dalla presenza di detenuti del circuito del 41 bis e dell’Alta sicurezza. Tra l’altro, la direzione di Udine è stata costretta ad utilizzare come ‘stanza ordinaria’ anche l’unica destinata al contenimento di persone problematiche”. Da qui “l’appello di questo Garante regionale affinché si rafforzi la rete dei servizi penitenziari, auspicando la previsione di una nuova e moderna struttura carceraria in regione, che si affianchi a quella pure già prevista di San Vito al Tagliamento la quale, ove disponibile tra almeno tre o quattro anni se tutto filerà senza intoppi, sostituirà, finalmente, quella di Pordenone, sita in un antico castello”. “Con la previsione di un nuovo carcere, in sostanza, si realizzerebbe una sorta di bacino di espansione di fronte al flusso non arrestabile di persone detenute, flusso che non tenderà a decrescere nei prossimi mesi e anni”, aggiunge Sbriglia. “Tutto questo non a motivo delle nuove norme penali in cantiere, ma a mente di quelle già esistenti; semmai potrà esserci un ulteriore aggravamento della intensità dei flussi: insomma, bombe d’acqua mentre continua ad esserci il maltempo. A meno che non si pervenga al ‘numero chiuso’ di detenuti per ogni istituto penitenziario, rendendo disponibile un nuovo posto letto, con i relativi servizi alla persona che si ha l’obbligo di legge di assicurare, solo in caso di uscita di un ristretto, da vivo però e non perché suicidatosi o per mancate cure”. “D’altronde non si può sostenere che le capienze detentive debbano rimanere quelle di cento e passa anni fa, iniziando proprio dal capoluogo Trieste, dove l’inizio di edificazione del ‘Coroneo’ risale al 1911”, sottolinea ancora il Garante. “Inevitabilmente una città che cresce, che vuole essere di fiato europeo, che si vede impegnata su tanti fronti socio-economici nella produzione di beni materiali e immateriali, non può rimanere con dei servizi pubblici, compresi quelli penitenziari, che appartenevano ad altri periodi storici”. “La tutela dei diritti delle persone e la sicurezza dei cittadini richiedono, sempre, che si abbia una visione prospettica in avanti e non, invece, ferma sull’oggi”, conclude Sbriglia. Napoli. “Il carcere non è un posto per bambini, rivedrò mio figlio quando esco” percorsiconibambini.it, 28 gennaio 2025 La risposta del progetto Altrove. Una camera spoglia, con i vetri oscurati e dei tavoli attaccati al pavimento come le sedie. La luce è artificiale, dalle finestre ne trapela poca. Solitamente si presentano così le sale colloquio delle carceri. In questi spazi asettici i genitori detenuti incontrano i loro figli. Non importa quante ore o minuti siano concessi per il colloquio, il tempo è sempre troppo poco da trascorrere con un figlio. Ed è anche la qualità di questo tempo a fare la differenza. E a farne le spese sono soprattutto i più piccoli a cui è sempre difficile spiegare una situazione di questo tipo. Il progetto Altrove - Non è la mia pena, finanziato da impresa sociale Con i bambini, nasce proprio per rispondere a questa difficoltà. A raccontarlo è Francesca Limatola, tra i fondatori dell’associazione La Livella che opera a Napoli nel quartiere Pianura, partner del progetto Altrove. Francesca conosce bene il mondo del carcere. Da anni si occupa di numerosi progetti con i detenuti, soprattutto a supporto della genitorialità. Qualche anno fa, durante uno dei progetti che svolgeva in carcere, ha conosciuto un giovane genitore di circa 22 anni. Poco prima di entrare in carcere aveva avuto un bambino che, all’epoca del loro incontro avrà avuto 9 mesi circa, non di più. “Aveva deciso di non vedere più il figlio - racconta Francesca - mi disse che doveva scontare una pena di 5 anni. Aveva già visto il figlio nella sala colloqui un paio di volte ma aveva capito che non era un luogo per bambini. Mi disse: ‘Mi sono reso conto che il contesto carcere, i colloqui, non sono adatti a un bambino della sua età, soprattutto non voglio che mi veda in carcere. Quindi vedrò mio figlio solo all’uscita dal carcere’. Significava decidere di rivedere il figlio quando sarebbe stato grande”. La storia di quel papà colpì molto Francesca. Cosa avrebbe significato per quel papà privarsi del figlio per 5 anni? E cosa avrebbe generato nell’animo del figlio in quei primi delicatissimi anni di vita crescere completamente senza padre? Cosa sarebbe successo 5 anni dopo a quei due, una volta che il papà, uscito dal carcere, si sarebbero incontrati e conosciuti, di fatto per la prima volta? Come sarebbe stato il loro rapporto? Dalla sua esperienza ha capito quanto possa essere importante per i detenuti e le loro famiglie avere uno spazio dove incontrarsi: un ambiente adeguato ai bambini, colorato e pieno di giochi, dove poter avere un rapporto concreto e vero tra padri/madri e figli. Uno spazio protetto dove, con il supporto di specialisti, si possono ricucire i rapporti familiari che il carcere inevitabilmente sconvolge. Ed è proprio questo che sta facendo il progetto Altrove: supportare le famiglie dei detenuti nel tenere insieme i rapporti, fondamentali per tutelare soprattutto i più piccoli e il loro diritto a un’infanzia felice. Un’esigenza che l’equipe del progetto Altrove ha potuto toccare con mano quando è entrata nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, dove si svolgono tutte le attività del progetto, per ‘reclutare’ genitori detenuti da inserire nelle attività. In tanti hanno fatto domanda nel padiglione Nilo e Volturno. Quando gli operatori hanno raccontato che nella sala colloqui riqualificata grazie al progetto avrebbero potuto fare attività con i loro figli come produrre biscotti, leggere libri, guardare film o ballare, gli brillavano gli occhi. E tutti non vedevano l’ora di poter vivere quel tempo con i loro figli e le loro mogli e compagne in modo così autentico. “Penso che sia molto utile creare uno spazio adatto per far incontrare genitori e figli, supportati da professionisti come educatori e psicologi, mettendo in pratica delle attività che permettano di avvicinarli - conclude Francesca - È utile per i detenuti e per le loro famiglie. Il progetto Altrove risponde proprio a questa mancanza di intimità tra genitori e figli, creando questo ambiente protetto in cui questi si possono incontrare. Inoltre ridà al genitore detenuto, la possibilità di ritornare ad essere genitore perché attraverso un semplice colloquio in cui si scambia una chiacchiera e niente più, il genitore è come se non avesse più la responsabilità genitoriale, come se gli fosse tolta. Invece, permettendogli, attraverso questo percorso, di riappropriarsi della responsabilità genitoriale, stanno meglio tutti: il bambino che può riallacciare il rapporto con il genitore, ma anche il padre con la madre, ricreare il nucleo familiare all’interno di un ambiente protetto”. Lucca. “Vi parlo di me”. L’arte di Zavattari incontra i detenuti La Nazione, 28 gennaio 2025 Venerdì 31 gennaio segnerà l’inizio di un percorso unico presso la Casa Circondariale di Lucca. Francesco Zavattari terrà un primo incontro con i detenuti, offrendo un’occasione di condivisione e ispirazione: l’art designer e fotografo di fama internazionale, il cui lavoro ha conquistato l’apprezzamento di pubblico e critica in tutto il mondo, condurrà una delle sue celebri masterclass sul colore, adattandola al contesto specifico del carcere. L’evento sarà anche opportunità per presentare ufficialmente “Vi parlo di me”, iniziativa che prevede una serie di incontri successivi all’interno della struttura: durante questi appuntamenti, Zavattari realizzerà ritratti fotografici e video interviste dei detenuti che sceglieranno di partecipare, dando vita a una mostra e a un docufilm originale. Il progetto invita le persone a raccontarsi, senza giudizio e senza alcuna imposizione. Non è necessario parlare della propria esperienza carceraria o del motivo della detenzione: l’obiettivo è dare voce all’essere umano al di là delle etichette, offrendo un canale autentico e rispettoso per esprimersi. Nel corso dell’anno, la mostra fotografica e il docufilm verranno prima presentati all’interno della Casa Circondariale stessa, in un’operazione “a specchio” di restituzione e condivisione con i protagonisti. Successivamente, saranno condivisi all’esterno, con l’intento di sensibilizzare il pubblico verso l’umanità, il reinserimento sociale e la comprensione reciproca. Il lavoro di Zavattari, da sempre incentrato sulla valorizzazione delle persone, compie con questa iniziativa un passo ancora più profondo. Nel corso della sua carriera, ha incontrato, fotografato e raccolto i racconti di migliaia di persone in ogni parte del mondo: ora, grazie a “Vi parlo di me”, porta questa esperienza al servizio di un dialogo capace di abbattere pregiudizi e costruire nuovi ponti. Il progetto nasce in collaborazione con la Casa Circondariale, diretta dalla dottoressa Santina Savoca, e il Comune, con l’attiva partecipazione dell’assessore alla Cultura Mia Pisano, che ha dimostrato particolare sensibilità verso l’iniziativa, grazie anche alla sua lunga esperienza come Garante dei Detenuti per la stessa struttura. “Vi parlo di me” non è dunque solo un progetto artistico, ma un viaggio collettivo di scoperta, umanità e riflessione. Bologna. Libro fotografico racconta la vita dietro le sbarre al minorile italpress.it, 28 gennaio 2025 Lo spazio inteso come elemento basilare per il percorso rieducativo del detenuto: 200 immagini realizzate dal fotografo Francesco Cocco, nel periodo che va dal dicembre 2022 al dicembre 2024, nei luoghi dedicati alla vita quotidiana del detenuto nella struttura penitenziaria minorile bolognese del Pratello. Il libro, “Repertorio di immagini degli spazi trattamentali del centro giustizia minorile di Bologna”, un progetto del Garante regionale dei detenuti Roberto Cavalieri, è stato presentato in mattinata nel Centro di giustizia minorile del Pratello. Alla presentazione è intervenuto il presidente dell’Assemblea legislativa dell’Emilia-Romagna, Maurizio Fabbri, che ha ribadito l’impegno delle istituzioni sul tema della detenzione carceraria: “Abbiamo voluto fin da subito - la nuova Assemblea legislativa si è insediata da poche settimane - mettere al centro dell’agenda il tema della detenzione carceraria. Nei giorni scorsi, assieme al presidente De Pascale e all’assessora Conti, ho visitato la casa circondariale bolognese della Dozza, una delle esperienze più intense della mia vita, un modo per toccare da vicino il quotidiano delle persone detenute”. Il presidente Fabbri ha parlato, poi, del volume fotografico: “Anche questo progetto va nella direzione di far conoscere all’esterno il sistema carcerario, in questo caso attraverso gli spazi dedicati ai detenuti in una struttura minorile, con l’obiettivo primario di arrivare a quei cambiamenti che tutti noi auspichiamo”. Il carcere, ha concluso, “è una parte integrante della nostra società e comunità e come tale dobbiamo occuparcene”. Il volume raccoglie immagini di contesti e ambienti riservati alle persone detenute (come, ad esempio, stanze di pernottamento, aule, laboratori, luoghi di culto), compresi quelli delle attività cosiddette trattamentali: spazi dedicati alla rieducazione del detenuto, che, attraverso il percorso trattamentale, dovrà acquisire quegli strumenti che gli consentiranno una volta fuori di essere reintegrato nel sistema sociale di riferimento. “Si tratta, quindi, - spiega Francesco Cocco - di spazi di vita quotidiana spesso assenti nell’immaginario che si ha di un carcere, ma che costituiscono ambiti fondamentali perché, prima di tutto, abitati da persone. In definitiva, luoghi attraversati dal confine tra il dentro e il fuori”. “Lo spazio - ha ribadito il garante regionale dei detenuti, Roberto Cavalieri - diventa centrale nel percorso rivolto al reinserimento sociale del detenuto minorenne una volta fuori. Questa successione di scatti fotografici restituisce in forma artistica il tema degli spazi all’interno di quel peculiare luogo di privazione della libertà personale che è l’istituto penale dei minorenni di Bologna. Luoghi che la cittadinanza normalmente non conosce o che, comunque, considera di isolamento e privazione. All’interno di questi spazi si consumano le esperienze detentive dei ragazzi, che devono avere la sostanza di contenuti educativi, favorendo lo sviluppo della loro personalità”. “Le immagini di Cocco - è poi intervenuta la garante regionale dei minori, Claudia Giudici - anche se prive dei volti che abitano questi luoghi evocano comunque le loro voci. Di fatto, si tratta di un mondo che immaginato da fuori può rappresentare angoscia e castigo. Tuttavia, attraverso queste fotografie, che mostrano e descrivono le differenti strutture del carcere minorile (dalle attrezzature sportive alla scuola, dalla mensa ai vari laboratori), non si vuole certo dar conto di un microcosmo estraneo e parallelo a quello esterno ma di luoghi dove i giovani detenuti possano (o dovrebbero) vivere con dignità un percorso di rieducazione, prendendone possibilmente coscienza”. Nel carcere minorile di Bologna sono presenti a oggi 47 detenuti: 3 con età compresa tra i 14 e i 15 anni, 23 tra i 16 e i 17 anni, 15 tra i 18 e i 20 e 6 tra i 21 e i 24. La capienza regolamentare della struttura è pari a 40 posti. Giubileo e informazione: i quattro pilastri per comunicare bene di Maria Ressa* Corriere della Sera, 28 gennaio 2025 Il silenzio di fronte all’ingiustizia è complicità. La vigilanza collettiva dei giornalisti può impedire la normalizzazione dell’odio. Il testo pubblicato qui di seguito è uno dei passaggi più importanti dell’intervento della giornalista Maria Ressa, Premio Nobel per la Pace 2021, durante il Giubileo della Comunicazione che ha avuto luogo il 25 gennaio in Vaticano. Poiché siamo in Vaticano, voglio sottolineare tre cose. Primo, la tecnologia premia le bugie. Pensateci. Secondo, gli uomini che controllano questa tecnologia trasformativa esercitano un potere divino ma non sono Dio. Sono solo uomini. Anche se sempre più spesso il loro potere incontrollato e irresponsabile assomiglia a un culto. Terzo, ecco perché la religione, la fede, la Chiesa cattolica, diventano oggi più importanti. In How to Stand Up to a Dictator, scrivo di come una semplice idea - la regola d’oro: “Fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te” - mi abbia guidato per tutta la vita. Mi piace la parola sudafricana Ubuntu: “Io sono perché noi siamo”. È un antidoto a molti dei nostri problemi di oggi. Il dolore di uno è il dolore di tutti. Quando Big Tech premia il peggio di ciò che siamo Ubuntu ci insegna che i nostri destini sono interconnessi. Quindi: cosa puoi fare tu? Ho quattro suggerimenti. Numero uno: collaborare, collaborare, collaborare. Costruire e rafforzare la fiducia ora per chiudere le linee di frattura della società che le operazioni di informazione cercheranno di aprire, mettendoci gli uni contro gli altri. Due: dire la verità con chiarezza morale. Il silenzio di fronte all’ingiustizia è complicità. Che si tratti di razzismo sistemico, disuguaglianza economica o erosione delle norme democratiche, le persone di fede devono rivendicare la loro voce profetica. Esigere trasparenza e responsabilità da coloro che controllano i nostri ecosistemi di informazione pubblica, dai governi alle Big Tech ai media. Tre: proteggere i più vulnerabili. Sostenere i giornalisti, i difensori dei diritti umani e gli attivisti che rischiano la vita. Ricordate la citazione di Martin Neimoller dalla Germania? Ecco la nostra versione, pubblicata dal nostro più grande giornale dopo il mio primo arresto: “Prima sono venuti per i giornalisti. Non sappiamo cosa sia successo dopo”. Le tue reti possono essere potenti scudi per le comunità emarginate. Sostieni gli immigrati, le minoranze religiose, le persone Lgbtq+ e altri soggetti che subiscono discriminazioni. La nostra vigilanza collettiva può impedire la normalizzazione dell’odio. Quattro: riconosci il tuo potere. Costruire la pace non è riservato agli eroi. È il lavoro collettivo di persone che rifiutano di accettare e vivere le bugie. Rappler non sarebbe sopravvissuto senza l’aiuto della nostra comunità, che mi ha sempre ricordato la bontà della natura umana. Sei potente e puoi far parte di un’ondata di cambiamento per il bene. Questo è alimentato dall’amore. *Giornalista, Premio Nobel per la Pace 2021 Milioni di analfabeti esistenziali di Jacopo Fo* Il Fatto Quotidiano, 28 gennaio 2025 30 milioni di italiani non capiscono quel che leggono e non sanno neanche ascoltare le loro emozioni. È spaventoso: la scuola è incapace di insegnare a capire un testo a più della metà degli studenti. E rinuncia a occuparsi delle sensazioni, delle emozioni, delle passioni. Quindi non stupiamoci se poi così tanti italiani votano per leader allucinanti e se i progressisti perpetuano un modo di fare politica che ci ha regalato 20 anni di Berlusconi e ora… il sonno della ragione genera Musk! Che rapporto c’è tra il potere in mano a mostruosità umane e il fatto che nella scuola non sono mai entrate l’educazione sessuale e sentimentale, la comunicazione efficace, l’ascolto di sensazioni ed emozioni e neanche l’educazione respiratoria? In questi 10 anni al Fatto Quotidiano ho scritto quasi 500 articoli, cercando di portare proposte utili e concrete: taglio degli sprechi, razionalizzazione del sistema, valorizzazione delle risorse, centralità della cultura, e non sono stato il solo… ma non siamo riusciti a far soffiare un vento nuovo. Forse stiamo cercando di cavare un chiodo dal muro con un martello di marzapane? Forse è il caso di cambiare prospettiva, paradigma. Ripartire dalle basi umane dell’essere e del vivere. Ho deciso quindi che in futuro in questa pagina darò più spazio al tema dell’alfabetizzazione esistenziale. Racconterò l’altra visione del cambiamento sociale che negli ultimi 45 anni abbiamo assemblato alla Libera Università di Alcatraz, grazie a decine di docenti e di ricercatori nel campo della neurologia, fisiologia, psicologia, arte ed ecologia del corpo e al lavoro didattico con decine di migliaia di adolescenti e adulti. Per darti un’idea della misura del problema della “qualità umana” che abbiamo di fronte voglio raccontarti cosa è successo durante un corso per guide turistiche che ho tenuto a una trentina di giovani laureati. Ho chiesto loro di raccontarmi le emozioni che avevano provato visitando le preziose vestigia del passato della loro terra, spiegando che solo se si riesce a raccontare emozioni e sensazioni si può sviluppare l’empatia e quindi appassionare gli ascoltatori. A turno ognuno ha iniziato a raccontare un monumento: l’anno di fondazione del castello, la storia del potente committente, i nobili che si sono succeduti, le battaglie. Dopo un po’ li ho bloccati spiegando di nuovo che volevo il racconto delle loro emozioni, non la scheda dell’enciclopedia. Niente da fare. Non riuscivano proprio a capire che cosa volesse dire “raccontare le emozioni”. Dopo una mezz’ora di riformulazioni, finalmente una ragazza dice: “Quando salgo in cima alla torre del castello sento il mio respiro che si libera!”. E vai! Non so se ti rendi conto di quale grave limitazione sia non essere in grado di rendersi conto delle emozioni che vivi. Le emozioni sono centrali nella nostra vita, determinano le nostre scelte, i nostri desideri, le ansie e le paure. È anche l’ignoranza emotiva che permette alle destre di manipolare i popoli. In Italia un pugno di eroi misconosciuti sta dando vita a “scuole delle emozioni” rivolte agli esseri umani dai 3 anni in su. Ma perché nessun leader ci parla di questo? Le emozioni sono al centro della vita. Ho bisogno di nutrire la mia speranza parlandoti d’amore. *Autore, attore e scrittore Lo stato odierno, in Italia, della libertà di dissenso di Luigi Ferrajoli Il Manifesto, 28 gennaio 2025 Tra le accuse della Procura di Torino a persone del centro sociale Askatasuna del movimento No Tav c’è un non senso: l’associazione a delinquere “finalizzata” a commettere la resistenza. Richiesti quasi 7 milioni di euro di risarcimento. È contro queste forme di protesta che il governo Meloni con il ddl Sicurezza si è accanito, associando le lotte sociali al terrorismo. Ha senso supporre che un gruppo persone decida di dar vita a un’associazione a delinquere finalizzata a compiere atti di resistenza a pubblici ufficiali? È l’accusa singolare, ovviamente in aggiunta alle imputazioni di violenza e resistenza, della Procura di Torino rivolta ad alcune persone del centro sociale Askatasuna impegnate da anni nel movimento No Tav. Sarebbe accaduto, secondo la pubblica accusa, che queste persone, “in Torino e altrove dal 2009” in poi, si sarebbero associate “allo scopo” non già di esprimere le loro proteste, bensì di opporre resistenza ai pubblici ufficiali che quelle espressioni di dissenso avessero ostacolato. Di qui l’ulteriore imputazione, contro la logica e il buon senso, di associazione a delinquere. A queste accuse l’Avvocatura dello Stato, costituitasi in giudizio per conto della Presidenza del Consiglio dei ministri, del Ministero dell’interno e del Ministero della difesa, ha aggiunto una spaventosa richiesta di risarcimento dei danni, quantificati in molti milioni di euro: 3.595.047 euro a titolo di danno patrimoniale in favore del Ministero dell’interno per il “costo dell’attività investigativa svolta ai fini dell’individuazione dei responsabili degli illeciti, nonché con riferimento alla spesa sostenuta a titolo di straordinari, indennità accessorie ed indennità di ordine pubblico corrisposte al personale impiegato”; altri 3.208.230 euro a titolo di danno non patrimoniale, in favore del Ministero dell’interno, del Ministero della difesa e della Presidenza del consiglio per il danno alla loro “immagine” e precisamente al loro “prestigio” e alla loro “credibilità”. È lecito domandarsi, di fronte a questa furia persecutoria, quale altro senso, se non la volontà di infierire sugli imputati, abbia l’aggiunta, alle accuse di violenza e resistenza a pubblici ufficiali, di queste incredibili richieste. L’associazione a delinquere “finalizzata” a commettere la resistenza è semplicemente un non senso. Il danno patrimoniale consistente nel costo delle indagini è un’assoluta novità, dato che dovrebbe ravvisarsi in qualunque reato. Quanto al danno d’immagine alla Pubblica amministrazione lamentato dall’Avvocatura, non si capisce in che cosa consista. Semmai un danno penoso d’immagine proviene proprio da questa assurda richiesta risarcitoria. Purtroppo questa vicenda ci dice che la libertà di riunione in Italia non ha mai conosciuto, in ottanta anni dalla Liberazione, un momento altrettanto buio. È precisamente contro le manifestazioni pubbliche del dissenso che questo governo si è maggiormente accanito con il disegno di legge S.1236, già approvato dalla Camera e in discussione al Senato: dal blocco stradale punito, se commesso da più persone, con la reclusione da sei mesi a due anni, all’aggravante dei reati di violenza e resistenza se commessi “al fine di impedire la realizzazione di un’opera pubblica” come il Tav o il ponte sullo Stretto; dalle norme sulle rivolte negli istituti penitenziari che qualificano come “atti di resistenza anche le condotte di resistenza passiva” fino all’aumento delle pene per i reati di resistenza o lesioni in danno di agenti di polizia nell’esercizio delle loro funzioni. È triste che taluni magistrati partecipino, con successo, a questa gara con il governo nell’aggressione alle libertà fondamentali. I magistrati, quando procedono per violenza o resistenza nel corso di pubbliche manifestazioni, non dovrebbero mai dimenticare che questi reati sono stati commessi simultaneamente all’esercizio dei diritti di libertà garantiti dalla Costituzione. Queste manifestazioni di piazza, infatti, consistono nell’esercizio non solo della libertà di riunione ma anche della libertà di manifestazione del pensiero. Giacché la riunione e la pubblica manifestazione sono il solo medium di cui dispongono i comuni cittadini - che non pubblicano libri, non vanno in televisione e non scrivono sui giornali - per esprimere il loro pensiero e il loro dissenso. Sta invece accadendo un fenomeno di gravissima irresponsabilità civile e politica. Giornalisti e perfino esponenti delle istituzioni hanno associato queste manifestazioni di protesta all’eversione e al terrorismo. Hanno confuso le lotte sociali con la lotta armata, l’impegno collettivo e le battaglie civili in difesa dei più deboli con la sovversione, la cittadinanza attiva con la violenza arbitraria. Stanno costruendo nemici, identificandoli con i dissenzienti. Come avviene in tutti i regimi autoritari. È un capovolgimento della realtà. Contro il quale non dobbiamo stancarci di ripetere che le formazioni sociali e le manifestazioni del dissenso devono sempre essere considerate un valore, soprattutto da parte di chi, magistrato o poliziotto, è chiamato ad applicare il diritto e a difendere i diritti dei cittadini costituzionalmente stabiliti. Per questo la contestazione dei reati di violenza e resistenza commessi in occasione di manifestazioni di piazza dovrebbe sempre essere accompagnata da una specifica circostanza attenuante - l’aver agito, dice il codice penale, per un motivo “di particolare valore morale” quale è appunto la manifestazione del dissenso - e dalla valutazione della sua prevalenza sulle circostanze aggravanti. Almeno se ancora si ritiene che i principi costituzionali abbiano maggior valore del codice fascista Rocco. La sicurezza non è uno slogan di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 28 gennaio 2025 Cos’è la sicurezza? È un fattore che muta i destini elettorali, nella nostra Europa come nell’America di Trump. Perciò può diventare oggetto di strumentalizzazioni o di rimozioni. Sarebbe invece soprattutto una percezione da rispettare. Per anni in Italia sono diminuiti i reati, eppure non è mai scemata una sensazione di pericolo diffusa soprattutto tra gli strati più deboli della popolazione. Il motivo è semplice: le statistiche incoraggianti non bastano a rasserenare una pensionata costretta ad attraversare di sera una piazza di spacciatori. La sicurezza è anche una linea di faglia nell’eterna querelle fra ultimi e penultimi. Di recente uno dei massimi dirigenti del partito di maggioranza relativa, difendendo il disegno di legge in discussione in Parlamento, spiegava che l’ultimo non è chi va a occupare una casa, ma l’anziano che si trova la casa occupata; non il “ragazzotto” che blocca la strada per difendere l’ambiente ma il lavoratore che si sveglia all’alba e non vuole la strada bloccata; non la nomade che “fa finta di essere sempre incinta per non andare in galera” ma la sua vittima borseggiata sulla metro. Tutto giusto ma… a metà, perché la sicurezza non è una bandierina e dunque mal si presta a essere riassunta per slogan. Sicché la nomade non “fa finta”: è sempre incinta dall’adolescenza perché schiava di chi così la manda a rubare a man salva e quindi anzitutto per lei va spezzata quella catena, magari con provvedimenti persino più impopolari del Ddl Sicurezza; lo scontro per la casa va svitato con una vera politica abitativa per la quale molto si parla e poco si fa (l’ultima seria risale ai tempi di Fanfani); il diritto a manifestare pacificamente (ripetiamo: pacificamente) va contemperato con gli altri diritti ma è un pilastro della nostra democrazia. Poco senso hanno le fughe in avanti come quella di uno scudo penale per gli agenti in ordine pubblico: comprensibile nell’intenzione di evitare ai servitori dello Stato lo stigma di un’iscrizione tra gli indagati che comporti la sospensione dal servizio e dallo stipendio ma impraticabile perché in contrasto con l’articolo 3 della Costituzione che vuole tutti i cittadini uguali davanti alla legge. Ancora una volta, si può intervenire senza slogan e bandierine: sugli effetti amministrativi (preservando stipendio e funzioni) e sul presupposto culturale (ricordando che un indagato è ben diverso da un colpevole). La sicurezza dovrebbe essere infine un valore bipartisan. E in questo senso accomunarci tutti nella difesa del suo livello più alto: la sicurezza nazionale, materia delicata e spesso sgradevole. La liberazione lampo del “generale” libico Almasri, gravato da accuse pesantissime in un ordine di cattura della Corte penale internazionale e rispedito in patria su un nostro aereo dei servizi, è circondata da un alone di errori e omissioni su cui sarà interessante ascoltare il ministro Piantedosi in Parlamento. Ma soprattutto è avvolta da una spessa cortina di ipocrisia. Intendiamoci. In un mondo ideale l’Onu, che da anni denuncia con le proprie agenzie le condizioni dei lager libici su cui comanda Almasri, dovrebbe mandare i caschi blu a liberarne i prigionieri, migliaia di uomini e donne sotto tortura in un meccanismo di detenzione-estorsione che alimenta i clan fino ai più alti livelli governativi. In un mondo ideale quelle vittime verrebbero portate in Italia per essere assistite. E in Europa si farebbe a gara nel redistribuirle fra gli Stati membri, non avendo magari scritto il trattato di Dublino sulla pelle dell’Italia e degli altri Paesi rivieraschi. Questo però non è un mondo ideale. Noi abbiamo con la Libia un Memorandum che risale al 2017. Tale accordo fu siglato dal ministro Pd Minniti quando si andava verso la proiezione-choc di 250 mila sbarchi in un anno: il Memorandum, con cui facevamo patti con le tribù locali e la guardia costiera tripolina, impedì che l’Italia subisse un devastante tsunami di migrazioni e in un anno gli sbarchi calarono del 77%. Era discutibile sul piano etico? Lo era. Servì a evitare che esplodesse da noi un conflitto sociale? Certamente. Da allora il Memorandum non è mai stato contraddetto e, anzi, è stato rinnovato nel 2020 e nel 2023, quindi sotto governi di diverso segno. Il torturatore di Mitiga è probabilmente depositario di scomodi dettagli su quegli accordi oltre che controllore di un rubinetto umano non a caso riattivatosi nelle 48 ore della sua detenzione con mille sbarchi in un colpo solo. Tassello di un mosaico nel quale si compongono, come ricorda Giovanni Tizian sul Domani, anche i nostri interessi energetici e militari. È insomma un orrendo gadget di questo pacchetto. Destra e sinistra, che per ragioni opposte ma convergenti sorvolano sul punto impancandosi in dispute morali o giuridiche, trattano gli italiani come fanciulli. La questione è tutta politica. E dire che sia un affare di sicurezza nazionale porta assai vicino alla verità. Che la sicurezza nazionale collida con il diritto umanitario, e talvolta con l’immagine stessa di una nazione, è un brutale dato di fatto prossimo a quegli arcana imperii su cui si regge ogni statualità. Esattamente ciò che ci ha impedito di rompere i rapporti con l’Egitto dopo l’infame destino riservato al nostro Regeni e il successivo, irridente atteggiamento delle istituzioni del Cairo. In un mondo ideale manderemmo i nostri servizi a prelevare almeno il capo degli aguzzini di Giulio per processarlo qui, come fece Israele con Eichmann. Nel mondo reale Al Sisi ci lasciò capire a quel tempo che poteva spedirci sulle coste un milione di migranti e chiuse la questione. La materia è indigesta. Ma i nobili autoinganni servono solo a spaccare il Paese magari racimolando qualche voto: non certo a renderlo più sicuro. La tragedia unica della Shoah e il ritorno dell’odio che l’ha prodotta di Marco Bascetta Il Manifesto, 28 gennaio 2025 “Ritrovate l’orgoglio di essere tedeschi!”. Adesso basta! “Non è giusto che i nipoti paghino le colpe dei nonni”. Questo il messaggio che l’onnipresente Elon Musk, ben sapendo quali corde toccare, ha indirizzato alla manifestazione di apertura della campagna elettorale dell’Afd, il partito nazionalista e xenofobo in grande crescita nella Repubblica federale. Un partito nel quale circola apertamente una gran voglia di revisionismo storico con tonalità negazioniste, un riciclo strisciante di concetti e linguaggi nazisti e un’esplicita rivendicazione di restaurazione della “grandezza germanica” finalmente emancipata dalla memoria del regime hitleriano e dei suoi orrori, nonché dagli insegnamenti di prudenza e responsabilità che si dovrebbe continuare a trarne. Insegnamenti che riguardano il rispetto dei diritti di tutti e la protezione di chiunque sia vittima di sterminio, persecuzione e sopruso. La destra tedesca da tempo ritiene invece di aver saldato il conto della Germania con gli ebrei e con il mondo, giurando fedeltà allo stato di Israele e avallando incondizionatamente le sue azioni e le sue politiche. E proprio a questo patto assolutorio viene sovente piegata quella unicità della Shoah che dobbiamo certo riconoscere, almeno per quello che concerne la storia moderna dell’occidente, ma non contrapporre al messaggio universale che contiene. E che impegna tutti, israeliani compresi, non solo a scongiurare il ripetersi di tanto orrore, ma anche il riaffiorare di alcuni dei suoi immancabili ingredienti: dall’idea di purezza etnica e culturale al suprematismo, al disprezzo per l’altro. Questi veleni circolano abbondantemente oltre che tra le formazioni nazionaliste europee e statunitensi, nella destra messianica israeliana e nella politica guerrafondaia di Netanyahu, dove si traducono su scala fuori misura in distruzione e morte. Vi è un nesso, anche se non proprio una identità, tra l’immagine impressionante della marea umana che sciama disorientata tra le rovine di Gaza lungo la riva del mare e il gruppetto di migranti in catene caricati nella stiva di un aereo per essere espulsi dagli Stati uniti di Donald Trump. A essere raffigurate, in entrambi i casi, sono persone che non hanno più posto, negate nella loro umanità e ridotte a rappresentare una zavorra o una minaccia. Un’eccedenza, un puro e semplice ostacolo al quieto vivere di quella normalità arrogante, indifferente e feroce che si sogna omogenea. Lo gridano quelli dell’Afd, invocando deportazioni di massa chiamate con l’ipocrita neologismo di “remigrazione”, lo sbraita il leader dei democristiani tedeschi che ne rincorre i sentimenti xenofobi. Mentre Trump propone, tra gli applausi della destra coloniale israeliana, di svuotare Gaza dall’ingombrante umanità che la abita per trasformarla in elegante località balneare di Israele. Non è allora sufficiente ribadire - nella giornata che le abbiamo dedicato - la memoria monumentale dell’olocausto nella sua unicità integrale ed estrema. Sono anche i diversi elementi che vi hanno condotto e che tornano a seminare odio e sopraffazione in chiave antisemita, ma non di meno contro i palestinesi e i migranti, che non possiamo permetterci di perdere di vista. Antisemitismo e odio per Israele, il Giorno della Memoria più triste di Guido Salvini Il Dubbio, 28 gennaio 2025 Questo giorno della Memoria del 2025 è purtroppo diverso da tutti gli altri. Per la prima volta il Direttore del Museo della Brigata ebraica, la formazione che durante la campagna d’Italia ha sacrificato i suoi giovani per la libertà del nostro Paese, ha annunciato che simbolicamente non parteciperà alle manifestazioni del 27 gennaio per denunciare gli insulti contro le insegne della Brigata, le tensioni, gli incidenti che già in molte occasioni sono avvenute costringendo la Digos ogni volta ad intervenire. Anche Liliana Segre ha rinunziato a partecipare ad alcuni eventi. Proprio in questi giorni vi sono state Milano 17 richieste di rinvio a giudizio, con l’accusa di diffamazione e istigazione all’odio razziale, per i discorsi di odio diffusi via Internet contro di lei. Tutto questo perché nell’ultimo anno anche l’Occidente è stato investito da un’ondata di antisemitismo senza precedenti. E, aggiungo per inciso, anche l’aggressione all’Ucraina non interessa più a nessuno Già poche settimane dopo il 7 ottobre la condanna per il massacro compiuto da Hamas si è trasformata in una condanna parallela e poi via via sempre più irrazionale sino a diventare esclusiva nei confronti della risposta di Israele. Si può anche convenire che nella reazione vi siano stati errori e anche eccessi, difficilmente in una guerra non ve ne sono, ve ne furono anche nei bombardamenti degli alleati del 1944- 45 per liberare il nostro paese. Ma la critica legittima, che è una caratteristica fondante dell’Occidente, sconosciuta altrove, si è trasformata subito in una campagna di odio che è riuscita ad introdurre nel linguaggio pubblico il termine di genocidio. È difficile convincere chi forma le proprie opinioni su pregiudizi ideologici, ma non bisogna stancarsi di ripetere che non solo i morti del 7 ottobre ma anche i civili uccisi nella striscia di Gaza ricadono nella piena responsabilità di Hamas. Una organizzazione che ha continuato a combattere e a tendere agguati nascondendo i propri militanti tra i civili e utilizzando quartieri densamente abitati, scuole, ospedali, edifici dell’UNRWA, come sta emergendo anche dai racconti dei rapiti liberati, come nascondigli e basi per lanciare attacchi. Questo mentre le Convenzioni internazionali in materia di guerra impongono alle forze in campo, per essere legittime e non essere solo una banda di terroristi, di rendere chiaramente riconoscibili con divise i suoi uomini e i suoi mezzi e tenersi lontane da insediamenti civili. Ma, sono gli stessi capi di Hamas a proclamarlo, le vittime civili, quelli che a differenza dei militanti di Hamas non potevano ripararsi nei tunnel, erano un sacrificio necessario e anche cercato, un vantaggio perché la loro morte avrebbe dato linfa alle generazioni future contro il nemico sionista. Questa la verità, dolorosa soprattutto per noi che non siamo certo indifferenti ad aver visto tanti bambini morire e che viviamo in una società in cui le vita umana è un valore e non uno strumento Per il futuro non c’è da farsi molte illusioni. Quella che è in corso, lo scambio di prigionieri, è una tregua, è bene ricordarlo, non una pace per il semplice fatto che Hamas non ha certo cancellato dal suo statuto l’obiettivo finale e cioè distruggere Israele. Per molti anni ho avuto la fortuna, per così dire, di abitare a Milano in corso Magenta proprio dinanzi al civico 55 dove sul marciapiede ci sono le Pietre d’inciampo in ricordo dei nonni e del padre di Liliana Segre che furono lì prelevati, deportati ad Auschwitz e non tornarono più. Molti turisti, corso Magenta è la via che porta a Santa Maria delle Grazie e al Cenacolo, si fermano, leggono, fotografano le targhe. Qualcuno fatica a capire, sono scritte in italiano e mi è spesso capitato di avvicinarmi e di spiegare a qualcuno di loro il significato di quelle strane placche sul terreno. Lo faccio volentieri anche perché uno dei figli di Liliana è il mio amico di più lunga data, eravamo compagni di scuola sin dalle elementari. Al civico 55 di corso Magenta, comunque, lunedì ci porterò mio figlio. Il Governo ci riprova, 49 migranti trasferiti in Albania di Marina Della Croce Il Manifesto, 28 gennaio 2025 L’arrivo è previsto per questa mattina intorno alle 8. A quell’ora il pattugliatore della Marina Militare Cassiopea approderà nel porto albanese di Shengjin per poi procedere allo sbarco di 49 migranti raccolti nei giorni scorsi in acque internazionali a sud dell’isola di Lampedusa. Si tratta della terza missione che il governo italiano compie in Albania dopo il fallimento delle prime due, a ottobre e novembre dello scorso anno, concluse entrambe con il trasferimento in Italia dei primi 24 migranti subito liberati dai giudici della sezione immigrazione del tribunale di Roma che non hanno confermato il fermo inizialmente disposto dal Questore di Roma. Questa volta il gruppo di migranti è formato bengalesi (in maggioranza), egiziani, ivoriani e gambiani, selezionati per essere sottoposti alla procedura accelerata di frontiera prevista per chi proviene da Paesi sicuri e non ha consegnato documenti di identità. Nell’hotspot di Shengjin i richiedenti asilo - tutti provenienti dalla Libia -, saranno identificati e faranno uno screening medico approfondito (se saranno riscontrate condizioni di vulnerabilità verranno portati in Italia come è avvenuto in qualche caso nei due precedenti trasferimenti in Albania). Saranno quindi trasferiti nell’altro centro sottoposto alla giurisdizione italiana, quello di Gjader, ad una ventina di chilometri di distanza, sulla base del trattenimento disposto dal questore di Roma. I giudici della Corte d’appello della Capitale dovranno poi decidere, nel giro di 48 ore, se convalidare o meno il trattenimento. Entro giovedì, dunque, dovrebbe esserci il responso. Nelle altre occasioni i magistrati hanno sospeso la convalida per tutti i migranti trattenuti, che sono stati quindi portati in Italia. Con la missione di oggi il governo tenta quindi ancora una volta di far decollare l’accordo siglato un anno fa dalla premier Giorgia Meloni con l’omologo Edi Rama. Secondo quanto stabilito i migranti sono maschi, adulti, non vulnerabili e provenienti da uno dei Paesi sicuri indicati nella lista contenuta nel decreto approvato dal governo un paio di mesi fa. Nel centro di Gjader i migranti rimarranno in attesa di conoscere il loro futuro, cosa che dovrebbe avvenire entro giovedì con un pronunciamento dei giudici della Corte d’appello della Capitale che dovranno decidere se convalidare oppure no il fermo nel corso di un’udienza in teleconferenza. Una decisione che, rispetto al passato, non spetta più alle toghe della sezione immigrazione del tribunale come era in precedenza dopo il cambio impresso dal governo con una norma inserita nel decreto flussi lo scorso dicembre. Il tutto in attesa della decisione della Corte di giustizia europea che il prossimo 25 febbraio dovrebbe pronunciarsi su una serie di ricorsi in materia di Paesi sicuri. Il governo è fiducioso dopo che lo scorso 19 dicembre la Cassazione gli ha riconosciuto il diritto di stabilire un regime differenziato delle domande di asilo per chi proviene da Paesi designati come sicuri. E dunque il giudice “non può sostituirsi” al ministro degli Esteri. Può tuttavia valutare se la designazione è legittima ed eventualmente disapplicare il decreto sui Paesi sicuri. Ovvero caso per caso. L’avvio del terzo viaggio nel paese delle Aquile ha suscitato la reazione delle opposizioni. Per il leader del M5S Giuseppe Conte la “presidente del consiglio ci racconta delle frottole”. “Questo è il blocco navale, siamo in questi primi giorni del 2025 a +135% di sbarchi, sono arrivati 3074 migranti contro i 1305 del gennaio dell’anno scorso, e questo nonostante lo spot da quasi un miliardo di euro che il nostro governo ha girato in Albania, stanno fallendo laddove hanno preso in giro gli italiani e dicono che hanno una soluzione”. Dello stesso tenore anche il deputato Riccardo Magi: “Assistiamo incredibilmente a un governo che forza la mano senza attendere la pronuncia della corte di giustizia dell’Unione Europea - ha detto il segretario di +Europa -, che avrebbe dovuto dare un elemento di chiarezza interpretativo definitivo: in pratica, siamo di fronte a un nuovo tentativo dell’esecutivo di andare allo scontro con la magistratura”. Libia. Caso Elmasry, Nordio e Piantedosi domani alle Camere di Eleonora Martini Il Manifesto, 28 gennaio 2025 Il ministro Ciriani accoglie la richiesta delle opposizioni. Tensione tra Anm e governo. La Corte d’Appello di Roma ha scarcerato il torturatore libico Osama Najeem Elmasry perché “il Procuratore Generale, in attuazione della legge, ha interpretato” il silenzio del ministro della Giustizia “nel modo più rispettoso delle prerogative del Governo”. Se il ministro Nordio, malgrado sia “stato interpellato più volte”, “sta zitto vuol dire che non si proceda” all’arresto. È questa la realtà dei fatti raccontata dal presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia che, in un’intervista ad Agorà Tre, rispedisce anche al mittente le accuse di interferenza nell’azione politica del governo sul nodo della riforma della giustizia: in questa fase di progetto, dice, “riteniamo utile accendere l’attenzione su questi temi”. Sul caso Elmasry cresce dunque la tensione tra magistratura ed esecutivo ma anche l’attesa del parlamento di ottenere risposte certe e fare chiarezza sui numerosi punti oscuri. Motivo per il quale, come richiesto dai gruppi di opposizione, domani a riferire in Parlamento sul caso non sarà solo il ministro dell’Interno Piantedosi ma anche il Guardasigilli Nordio. La loro sarà una relazione congiunta, prima alla Camera (alle 16:15), poi al Senato (18:15). Inizialmente era attesa solo l’informativa di Piantedosi. Mentre nel corso di un’audizione già programmata al Copasir, sempre domani, Nordio potrebbe rispondere ad una serie di domande che non trovano risposta (ad esempio, perché l’aereo dei servizi che ha rimpatriato Elmasry era già pronto prima del provvedimento di scarcerazione). Ma la storia è talmente fosca che i gruppi di opposizione al Senato hanno scritto una lettera al Ministro dei Rapporti col Parlamento Ciriani per chiedere che sia Nordio e non Piantedosi a riferire alle camere. Perché, spiegano, la scarcerazione è stata “una scelta politica”, “non un cavillo giuridico o una questione procedurale”. Motivo per il quale i firmatari avrebbero preferito ascoltare la stessa premier Meloni o, in sua vece, il ministro della Giustizia che, “come da lui stesso dichiarato in una trasmissione Rai”, si deve “assumere la responsabilità di una scelta non giustificata da nessuna ragion di Stato e che ha stracciato ogni regola del diritto internazionale e umiliato lo stato di diritto”. Dopo un confronto con il governo e tutti i gruppi parlamentari, Ciriani ha annunciato che a riferire saranno entrambi i ministri. Libia. Caso Almasri, l’Italia non ha rispettato gli impegni di Antonio Bultrini* Corriere della Sera, 28 gennaio 2025 Lo Stato resta giuridicamente obbligato a rispettare i patti fintantoché non decida eventualmente di ritirarsi, sempre che l’accordo in questione lo consenta. La Presidente del Consiglio afferma che non è stato il Governo italiano a liberare Almasri. Innanzitutto una premessa necessaria. Uno Stato è sovrano nel decidere se aderire o meno a un accordo internazionale, accettando se del caso la giurisdizione di una corte internazionale. Tuttavia, una volta presa (liberamente) la decisione, lo Stato assume l’obbligo di rispettare (in buona fede) i patti sottoscritti: pacta sunt servanda, recita l’antica massima, coniata proprio a casa nostra e poi diventata uno dei princìpi fondamentali del diritto internazionale. E lo Stato resta giuridicamente obbligato a rispettare i patti fintantoché non decida eventualmente di ritirarsi, sempre che l’accordo in questione lo consenta. Occupiamoci ora della grave e sconcertante vicenda di Almasri, accusato di crimini contro l’umanità e crimini di guerra (non di furto con destrezza …). Negli ultimi giorni diverse ricostruzioni (fra cui Giovanni Bianconi sul Corriere e Marina Castellaneta su Il Manifesto) hanno chiarito la dinamica degli eventi, per quanto possibile. Ridotta all’essenziale, il 18 gennaio la Corte penale internazionale (la Camera predibattimentale della Corte, non il Procuratore) spiccava un mandato di cattura (il giorno dopo essere stata informata della presenza dell’accusato in Europa), con contestuale informativa all’Ambasciata italiana in Olanda. Almasri veniva arrestato a Torino l’indomani, emergeva poi una irregolarità procedurale ma sanabile, la Procura generale presso la Corte d’appello di Roma interpellava infatti il Ministro della Giustizia che invece di attivarsi per chiedere di procedere, non rispondeva. Alla Corte d’appello non restava di conseguenza altra scelta che scarcerarlo. Almasri veniva quindi espulso e (letteralmente) riaccompagnato in Libia (insieme alle sue guardie del corpo armate) da un aereo di Stato. Il Ministro dell’Interno, come la Presidente del Consiglio, ha affermato la necessità di espellere un soggetto pericoloso, mentre il Ministro degli Esteri ha dichiarato che “(s)iamo un Paese sovrano e facciamo la nostra politica. (…) non è che chi governa all’Aja è la bocca della verità, si possono avere anche visioni diverse” (RaiNews.it). Quali valutazioni vanno fatte? L’arresto di Almasri non è stato “consigliato” alle autorità italiane, è stato invece richiesto con un mandato di cattura inserito nella rete Interpol da parte di una Corte, quella penale internazionale, con cui l’Italia è obbligata a cooperare in virtù dello Statuto (adottato - amara ironia della sorte - proprio a Roma). Decidendo di riaccompagnare Almasri in Libia, anziché fare tutto il necessario per consegnarlo all’Aia, e per di più senza nessuna consultazione con la Corte (in violazione dello Statuto), l’Italia non ha rispettato gli impegni assunti con la ratifica dello stesso. Le autorità italiane non avevano alcun margine di discrezionalità riguardo al se sanare o meno una (supposta) irritualità perfettamente sanabile o se espellerlo anziché consegnarlo all’Aia. Almasri non andava espulso, andava senz’altro consegnato alla Corte penale internazionale perché così funziona la cooperazione giudiziaria quando viene spiccato un mandato di cattura internazionale, in un caso in cui non sussisteva alcun motivo giuridico ostativo insuperabile. E poiché vi è un chiaro obbligo di cooperare con la Corte, lo Stato non ha alcuna libertà di fare come gli pare. Se desidera fare come gli pare la strada è quella di ritirarsi dall’accordo internazionale, come sottolineato anche da Ferruccio de Bortoli. Altrimenti lo Stato “disinvolto”, che antepone i propri particolari interessi agli obblighi derivanti un sistema giudiziario internazionale a cui ha volontariamente scelto di aderire, finisce col violare gli impegni sottoscritti, situazione di cui il nostro Governo sembra sottovalutare le gravi conseguenze: scredita il nostro Paese nel campo della giustizia penale internazionale (e non solo), non fa onore allo Stato che ospitò la conferenza che portò all’adozione dello Statuto della Corte e infine, se non soprattutto, assesta un duro colpo all’effettività di quest’ultima in un momento storico in cui indebolirla con decisioni del genere è assai poco opportuno e saggio. Andrebbe peraltro menzionato anche lo smarrimento delle vittime dei gravissimi crimini di cui Almasri è accusato, ma questa è stata presumibilmente l’ultima delle preoccupazioni del Governo, ammesso e non concesso che lo sia stata. Quando si vìola il diritto internazionale c’è sempre un prezzo da pagare, in questo caso - per cominciare - in termini di perdita di reputazione e di ferita al sistema della giustizia penale: il conto non arriva subito, non sarà la Corte penale internazionale a farcelo pagare, che non ha mezzi coercitivi e che per svolgere il proprio mandato conta sugli Stati (perlomeno su quelli fedeli agli impegni liberamente sottoscritti), ma il conto (che si ripercuote anche sulla collettività, perché alla fine ci perdiamo tutti) prima o poi arriva. *Professore associato di diritto internazionale nell’Università di Firenze Venezuela. Alberto Trentini sparito nel nulla: zero contatti con ambasciata e famiglia di Giuliano Foschini La Repubblica, 28 gennaio 2025 L’angoscia per il cooperante arrestato: negate la visita in carcere e una telefonata alla madre. Aspettava una telefonata, la signora Armanda. Le avevano detto: “Suo figlio chiamerà al più presto per dirle che sta bene”. E invece quella telefonata non è ancora arrivata. Dal 16 novembre il cooperante italiano Alberto Trentini, 45 anni di Venezia, è sparito nel nulla, inghiottito nelle carceri venezuelane. Arrestato a un posto di blocco a Guasadalito, mentre con la sua Ong “Humanity e inclusion” era diretto in un villaggio per portare aiuti umanitari, è stato consegnato nelle mani del Dgcim, la direzione generale del controspionaggio militare di Nicolás Maduro, e da quel momento si sono perse le sue tracce. In un colloquio informale con la nostra intelligence, i venezuelani hanno fatto sapere che sta bene ed è detenuto in un carcere di Caracas, probabilmente nella sede centrale dei servizi a Boleita. Ma da quel momento tutto tace. Nei giorni scorsi a casa Trentini ha chiamato il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Ha voluto dire personalmente alla signora Armanda che l’Italia è con lei e si farà tutto il possibile per farlo tornare a casa. Il governo, però, al momento non ha avuto risultati. La Farnesina si è mossa dal principio nel cercare un’interlocuzione, difficilissima, con il nuovo governo Maduro che di fatto tiene Alberto come un ostaggio: l’Italia non conosce le accuse che gli vengono mosse ma sembrerebbe che alla base del fermo ci siano alcuni messaggi, assolutamente innocui, di dissenso verso il governo venezuelano che Trentini aveva nel telefono. A pesare, forse, anche il rapporto con una ragazza, di origine venezuelana. Ma insomma, come quasi sempre accade in questi casi, le accuse sono strumentali per giustificare un arresto che mira ad altro: nel caso specifico il Venezuela cerca un riconoscimento ufficiale dal nostro governo. E così dai francesi e dai tedeschi. Il dossier ora è sul tavolo direttamente del sottosegretario alla presidenza del consiglio, l’Autorità delegata Alfredo Mantovano, che ha chiesto silenzio per poter lavorare nell’ombra ma sono ormai passate quasi due settimane e dal Venezuela non arriva alcun riscontro: la visita consolare in carcere e una telefonata a casa erano considerati i due obiettivi minimi, in modo da sincerarsi che Trentini fosse vivo e che le sue condizioni di salute fossero buone. E invece, niente. Secondo le informazioni della nostra intelligence, si diceva, Trentini dovrebbe essere nelle mani del Dgcim, le cui prigioni sono finite sotto inchiesta delle Nazioni Unite proprio per i crimini contro l’umanità. Due report raccontano di centinaia di casi documentati di, si legge nei rapporti, “tortura, violenza sessuale e/o altri trattamenti crudeli, inumani o degradanti” da parte di agenti Dgcim. La maggior parte delle violenze sarebbero avvenute nella sede centrale della Boleita a Caracas, dove è detenuto Trentini. E gli altri nei centri di detenzione segreti sparsi per il Paese. Fino a questo momento la famiglia Trentini, difesa dall’avvocata Alessandra Ballerini, ha tenuto la consegna del silenzio: dopo aver denunciato la vicenda e raccolto una grande solidarietà (una petizione con decine di migliaia di firme, una mobilitazione del mondo della cultura) hanno rispettato quanto richiesto dal governo. La signora Armanda aspetta quella telefonata. Che, però, ancora non arriva. Tunisia. L’avvocata Sonia Dahmani condannata per le sue idee di Roberto Giovene Di Girasole Il Dubbio, 28 gennaio 2025 Arriva una seconda condanna comminata in grado di appello per l’avvocata tunisina Sonia Dahmani. Proprio in coincidenza con la giornata internazionale dell’avvocato in pericolo, il 24 gennaio scorso, la Corte d’appello di Tunisi ha confermato il giudizio di colpevolezza per l’avvocata ed editorialista, per imputazioni relative ad alcune dichiarazioni pubbliche sul razzismo in Tunisia, riducendo la pena a 1 anno e sei mesi, rispetto ai due anni comminati in primo grado, nell’ottobre scorso. Le accuse rivolte alla Dahmani di “diffusione di notizie false tali da nuocere alla sicurezza dello Stato”, si basano sul cosiddetto “decreto presidenziale n. 54”, anti “fake news”, interpretato secondo l’Osservatorio degli avvocati in pericolo (OIAD) ed altre organizzazioni internazionali di difesa dei diritti umani in maniera troppo estensiva, allo scopo di mettere a tacere ogni voce critica verso le politiche governative. La Dahmani aveva, nel caso specifico, deplorato l’esistenza, in alcune zone della Tunisia, di cimiteri e autobus riservati ai bianchi. Questa seconda condanna si somma a quella a otto mesi di reclusione emessa il 10 settembre 2024, nel primo processo in appello contro l’avvocata, a seguito della sua partecipazione ad una trasmissione televisiva sulla situazione politica e sociale della Tunisia, con riferimento all’arrivo di migranti dall’Africa subsahariana, portando così a 2 anni e 2 mesi di reclusione la pena complessiva. La Dahmani, si trova in carcere dall’11 maggio 2024, quando venne arrestata all’interno dei locali dell’Ordine Nazionale degli avvocati della Tunisia, dove si era recata dopo aver ricevuto una convocazione innanzi all’autorità giudiziaria, emessa proprio a seguito della sua partecipazione alla predetta trasmissione. Le immagini del suo arresto, eseguito da persone in abiti civili e con il volto coperto da passamontagna, introdottesi con la forza nella sede dell’Ordine forense, fecero il giro del mondo, suscitando reazioni di condanna della comunità forense internazionale per le modalità dell’arresto e di solidarietà all’Ordine tunisino, vincitore del premio Nobel per la pace 2015, quale componente del “Quartetto per il dialogo nazionale”. Secondo quanto riportato dagli osservatori dell’Oiad vi sono state gravi violazioni dei diritti della difesa. Dahmani, rileva l’Oiad, è imputata in cinque diversi procedimenti giudiziari per le sue prese di posizione pubbliche, in particolare “sulle condizioni di vita dei migranti, il destino riservato ai detenuti politici e il razzismo di cui sono vittime