In carcere suicidi e aggressioni continuano ad aumentare di Fulvio Fulvi Avvenire, 6 febbraio 2025 Dieci detenuti si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno. Ancora da accertare le cause degli ultimi 3 decessi. Sovraffollamento: il Governo pensa a 7mila posti in più. Sono stati dieci i suicidi di detenuti dall’inizio dell’anno, mentre in tutto il 2024 ce ne sono stati 90, mai così tanti nella storia recente del sistema penitenziario italiano. Gli ultimi tre decessi sono avvenuti lunedì e martedì scorsi a Livorno, Napoli Poggioreale e Modena, ma le cause devono ancora essere accertate, come per altri 14 casi dal 1° gennaio ad oggi. Le carceri continuano a scoppiare, come dimostrano gli ultimi dati del Garante Nazionale delle persone private della libertà: i numeri relativi al 10 gennaio 2025, seppur stabili nel confronto coi mesi precedenti, confermano un “surplus” di oltre 10mila unità rispetto alla capienza regolamentare: erano presenti a quella data, infatti, nei 190 istituti di pena operanti sul territorio nazionale, 61.852 reclusi. L’indice di sovraffollamento, quindi, è del 132,05%. Gli stranieri dietro le sbarre sono circa un terzo (19.703) mentre, in totale, i condannati con sentenza definitiva risultano 42.061, gli altri o sono in attesa di primo giudizio o dell’esito di un ricorso. E continuano ad aumentare le aggressioni (668 nel 2024, cinquanta in più dell’anno precedente) e gli atti di autolesionismo (12.896, ovvero 514 in più). Cresciute anche le manifestazioni di protesta collettiva, come scioperi della fame o della sete, rifiuti di vitto o terapie, astensione dalle attività, percussioni rumorose di cancelli e inferriate (sono state 579 in dodici mesi), rifiuto di rientrare nelle celle. Sette sono state invece le rivolte nell’anno appena trascorso (cinque in più del 2023). Nuove strutture e più controlli - Il Governo risponde all’emergenza carceraria con l’intenzione di creare 7mila nuovi posti. La premier Meloni ieri ha presieduto a Palazzo Chigi un vertice dedicato al piano carceri che stenta a decollare e di cui non si conoscono ancora i contenuti. Alla riunione hanno partecipato il Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, il sottosegretario Andrea Delmastro, il Commissario per le carceri, Marco Doglio, rappresentanti del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. L’incontro, riferiscono fonti governative, “è stato incentrato sulle strategie per il potenziamento del sistema penitenziario, con l’obiettivo di realizzare 7.000 nuovi posti detentivi”, in un’azione determinata “per migliorare le condizioni della pena in fase esecutiva e in genere delle strutture carcerarie”. Ma quando? E Come? Entro la fine della legislatura, dicono al dicastero di Largo Arenula. Saranno nuove carceri o ristrutturazioni di edifici già esistenti? Basterà questo per evitare i disagi e le tensioni di un sistema che mostra falle su più livelli? Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria sta predisponendo, inoltre un sistema di controllo centralizzato che consentirà alla Sala Situazioni di Roma di avere accesso diretto e in tempo reale a tutte le telecamere installate negli istituti penitenziari italiani. L’emergenza a Milano San Vittore - Intanto, come dicevamo, ogni giorno reclusi, operatori, addetti alla sicurezza, devono affrontare situazioni di emergenza al di sopra delle loro possibilità. Come nella Casa circondariale di San Vittore a Milano, il cui indice di sovraffollamento si attesta al 218,3% e dove “la popolazione carceraria non è costituita da criminali o malavitosi conclamati ma all’80% da persone con fragilità sociali, che pescano nelle dipendenze, senza fissa dimora, stranieri soli, malati mentali - ha spiegato il cappellano del carcere milanese don Marco Recalcati intervenendo al convegno promosso dall’Università Cattolica, “Ricostruire la speranza: pena e comunità in dialogo”. “Per dare speranza l’unica cosa è stare vicino - ha aggiunto il sacerdote - attraverso quel gruppo di persone che lavora in carcere, e si tenta di dare le risposte adeguate anche molto piccole”. Affetti in cella, il Magistrato di sorveglianza di Spoleto mette in mora il Ministero di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 6 febbraio 2025 È stata istituita un’apposita commissione di studio, sono in corso sopralluoghi e preventivi, ostacoli pratici vanno contemperati a esigenze di sicurezza, arriveranno indicazioni “dagli Uffici superiori”: con questi argomenti da un anno il Ministero della Giustizia non rende effettivo il diritto all’affettività in carcere, pur sancito dalla Corte Costituzionale che il 26 gennaio 2024 ha dichiarato l’illegittimità della norma che non prevede che la persona detenuta - tenuto conto della sua condotta e sempre che non ostino ragioni di sicurezza o giudiziarie - possa svolgere colloqui con il coniuge o il convivente stabile senza controllo a vista degli agenti. Ma un anno è troppo, considera ora il giudice di sorveglianza di Spoleto, Fabio Gianfilippi, che accogliendo i reclami di due detenuti a Terni - all’Amministrazione penitenziaria ordina di consentire loro in concreto entro 6o giorni questa espressione della dignità della persona, “disapplicando ogni eventuale disposizione amministrativa confliggente”. Già la Consulta si era fatta carico “dell’impatto sulla gestione degli istituti penitenziari”, invitando legislatore, magistrati e Dap a iniziare “dove le condizioni materiali della singola struttura lo consentano e con la gradualità eventualmente necessaria”. Appello però sinora caduto nel vuoto, con via Arenula a frenare i direttori delle carceri che iniziavano a organizzarsi. Diritto all’affettività in carcere: una battaglia ancora in sospeso di Sara Sonnessa torinocronaca.it, 6 febbraio 2025 “C’è chi dice che non ci sono abbastanza risorse per garantirlo: non è credibile”. “Questo è un diritto, un diritto, un diritto di tutte le persone detenute”, ha ribadito con forza Roberto Capra, avvocato e presidente della Camera Penale Vittorio Chiusano del Piemonte occidentale e della Valle d’Aosta. L’avvocato Capra, in una conferenza stampa tenutasi oggi presso il tribunale di Torino, ha sottolineato l’importanza di un diritto che, nonostante una sentenza chiara della Corte Costituzionale, continua a essere ignorato: il diritto degli individui detenuti di avere incontri intimi, cioè non controllati visivamente, con i propri partner e familiari. La Corte Costituzionale, con una sentenza dello scorso anno, aveva sancito il diritto per i detenuti di usufruire di incontri intimi, un riconoscimento che, secondo Capra, non è stato rispettato. “Eppure continua a non essere rispettato”, ha denunciato, lanciando un appello alla politica e alla giustizia, indicando nel governo, nel parlamento, nel dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, nei magistrati di sorveglianza e nei direttori delle carceri i responsabili della mancata attuazione di questo diritto. Alla conferenza sono intervenuti anche Bruno Mellano, garante regionale dei detenuti, e Monica Gallo, garante comunale per Torino. Mellano ha annunciato che il 26 febbraio incontrerà il ministro della giustizia Carlo Nordio per discutere proprio del tema degli incontri intimi. “Ho scritto una lettera a tutti i direttori delle tredici carceri piemontesi, chiedendo di garantire il diritto” ha dichiarato. Secondo Mellano, non può essere una questione di risorse. “C’è chi dice che non ci sono abbastanza risorse per garantirlo: non è credibile”, ha ribadito con fermezza. Monica Gallo ha aggiunto: “L’impossibilità di incontri intimi provoca danni soprattutto nei detenuti più giovani. In Italia, nelle carceri per adulti, un detenuto su otto ha tra i 18 e i 24 anni. Sono nella fase del pieno sviluppo fisico ed emotivo, hanno bisogno del contatto”. La carenza di affettività, in particolare tra i giovani detenuti, è un tema che preoccupa profondamente i garanti, poiché il legame emotivo e fisico con il mondo esterno è fondamentale per il benessere psicologico dei detenuti. Nonostante l’urgenza e l’importanza della questione, le soluzioni proposte fino ad ora non hanno trovato attuazione. “Finora, tutte le richieste di incontri intimi presentate sono state respinte”, hanno denunciato i garanti. In realtà, le carceri non sembrano avere difficoltà insormontabili nel dotarsi di strutture adatte a garantire questi diritti. Sono stati infatti proposti progetti per la realizzazione di piccoli appartamenti o camere attrezzate, anche senza spese aggiuntive, coinvolgendo i detenuti stessi nei lavori di costruzione. Tuttavia, nessuna di queste soluzioni è stata concretizzata. Secondo i dati più recenti, aggiornati al 31 dicembre 2024, nelle tredici carceri piemontesi sono presenti 4.450 detenuti, contro una capienza regolamentare di 3.979 posti. L’affollamento è evidente, con 241 posti non disponibili e un sovraffollamento che non facilita certamente la gestione delle problematiche relative agli incontri intimi. A livello nazionale, l’ultimo rapporto sugli oggetti sequestrati nelle carceri ha evidenziato un aumento dei telefoni cellulari sequestrati, passati da 1.595 nel 2022 a 2.252 nel 2024. Mellano ha spiegato: “Ci sono episodi in cui, dalle celle, i malavitosi tengono contatti con l’esterno per continuare a governare i loro affari. In molti casi, però, il possesso illegale di un telefono è un semplice tentativo di mettersi in contatto con i partner. Anche questo dimostra l’urgenza di garantire il diritto agli incontri intimi e riservati”. Durante la conferenza stampa è intervenuta anche l’avvocata Emilia Rossi, che ha sottolineato come la magistratura debba essere il primo garante del rispetto della legalità e degli assetti ordinamentali. L’avvocata ha annunciato che sarà avviata un’interlocuzione diretta con il tribunale di sorveglianza di Torino per valutare possibili azioni sul territorio al fine di favorire il rispetto dei diritti dei detenuti. Per Torino, l’avvocato Davide Mosso avanza una proposta: “Sarebbe sufficiente trasferire l’unica detenuta attualmente presente all’Icam (Istituto a custodia attenuata per madri, ndr) in una casa famiglia, come stabilito dalla legge, e destinare gli spazi dell’Icam agli incontri tra i detenuti e i loro familiari più stretti”. Piano Carceri: il governo Meloni punta a 7mila nuovi posti detentivi ansa.it, 6 febbraio 2025 La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha presieduto ieri a Palazzo Chigi un vertice dedicato al piano carceri. Alla riunione, a quanto si apprende, hanno partecipato il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, il sottosegretario Andrea Delmastro, il Commissario per le carceri, Marco Doglio, rappresentanti del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (Mit) e del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap). L’incontro, spiegano le stesse fonti, è stato incentrato sulle strategie per il potenziamento del sistema penitenziario, “con l’obiettivo di realizzare 7.000 nuovi posti detentivi, in un’azione determinata per migliorare le condizioni della pena in fase esecutiva e in genere delle strutture carcerarie”. No al ddl sicurezza, le madri fuori dal carcere di Denise Amerini collettiva.it, 6 febbraio 2025 Prosegue la battaglia della Cgil e della rete nazionale contro il disegno di legge 1236 con un’attenzione per gli articoli che riguardano la detenzione. Il decreto sicurezza, ddl 1236, è attualmente in discussione al Senato. Quali siano i tempi per l’approvazione ancora non si sa con certezza. Intanto proseguono le prese di posizione, gli interventi, le mobilitazioni di tante associazioni e organizzazioni della società civile, del mondo accademico, di cittadini, che da subito si sono espressi, sottolineando come questo sia un decreto che porta misure volte a produrre paure nelle persone, con una svolta giustizialista ed autoritaria che legge la sicurezza solo in termini securitari, e non sociali. Che criminalizza la povertà, il disagio, il dissenso. Con profili di incostituzionalità. Il 4 e 5 febbraio la rete italiana “No ddl sicurezza - A pieno regime” è per questo a Bruxelles. E la Cgil c’è per ribadire con forza le ragioni che motivano l’opposizione al decreto, la richiesta di ritiro, esplicitata fin dalla prima audizione molti mesi fa. Preme ricordare come, nella mobilitazione della Cgil, un’attenzione specifica sia rivolta a quegli articoli che riguardano il carcere, con l’introduzione del reato di rivolta passiva, e la non obbligatorietà del rinvio della pena per le donne incinte e madri di bambini fino ad un anno. Abbiamo sostenuto la campagna “Madri fuori dal carcere, con i loro bambini” e l’appello promosso da Società della Ragione “Ogni bambina e ogni bambino ha il diritto di nascere in libertà, no al carcere per le donne incinte”. Il 23 gennaio scorso abbiamo partecipato alla conferenza stampa al Senato per rilanciare quell’appello e la mobilitazione: nessun bambino, nessuna bambina deve stare in carcere. Non è posto per bambini e mamme - Il carcere non è un luogo dove i bambini possano crescere sereni. Dove le madri possano vivere in maniera compiuta e serena la genitorialità. Lo abbiamo ripetutamente affermato: l’art.15 arriva persino a peggiorare il codice Rocco, con una impostazione sessista e razzista, visto che si rispolverano temi superati, come quello della patria potestà, della cattiva madre, e non si ha nessuna remora nell’affermare che così finalmente si andranno a colpire le donne Rom. Ci vogliono le case famiglia - Circolano indiscrezioni secondo le quali, pur di portare il decreto all’approvazione, questo articolo potrebbe essere modificato, se non cancellato. Non ci basta, perché resterebbe comunque il carcere per le madri e i bambini, anche quando la pena venisse scontata negli istituti a custodia attenuata (Icam), quattro in tutta Italia, che, seppur più dignitosi, sempre istituzioni carcerarie restano. Continueremo a impegnarci e a mobilitarci perché vengano finalmente realizzate le case famiglia, già previste in normativa, per madri e bambini. Nei prossimi giorni con Società della Ragione si darà vita anche a un progetto di ricerca sulle donne detenute, che provi a ragionare anche della possibilità di una proposta di legge alternativa sulle detenute madri, che le veda fuori dal carcere con i loro bambini. Resistenza passiva - Per quanto riguarda il carcere, poi, non possiamo non denunciare l’introduzione del reato di resistenza passiva. In un momento come questo, con il sovraffollamento che, anche se diversi esponenti del governo lo negano, raggiunge percentuali oltre il 130 per cento, con un numero di suicidi che lo scorso anno ha superato ogni record, arrivando a 90, si vuole impedire alle persone di agire in maniera pacifica per affermare i propri diritti, di protestare pacificamente per condizioni di vita insostenibili. Perché tali sono quando si è costretti a vivere in spazi ristrettissimi, troppo spesso fatiscenti, dove mancano i servizi, dove mancano occasioni di socialità, di lavoro. Dove si negano tutte quelle attività che potrebbero mirare al perseguimento del fine rieducativo delle pene. Non ci stancheremo mai di ripeterlo: in carcere la persona perde la libertà personale, non può perdere la dignità. Impegnarsi per i diritti fondamentali di tutti, indipendentemente dal luogo dove si trovano, è impegnarsi per una società migliore, più giusta. È rivendicare quanto la Costituzione ha stabilito. Detenuto gravemente malato: 5 anni di istanze per ottenere il ricovero, ma il giorno dopo muore di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 febbraio 2025 Una vicenda agghiacciante, l’ennesima, riaccende il focus sul diritto alla salute negato dal sistema penitenziario e giudiziario. L’associazione onlus “Quei Bravi Ragazzi Family” ha presentato una denuncia che mette in luce il destino crudele di Carmine Tolomelli, detenuto morto a causa della mancanza di cure adeguate, nonostante una grave patologia cronica che avrebbe dovuto garantirgli un luogo diverso dal carcere e assistenza. Il 24 febbraio 2024, Carmine Tolomelli è deceduto presso l’Ospedale San Martino di Genova, a seguito di un trasferimento d’urgenza dal carcere di Marassi (Genova). La denuncia, redatta dalla compagna Immacolata Stasino - difesa dall’avvocata Guendalina Chiesi, vicepresidente dell’associazione - svela come le condizioni di salute del detenuto, gravemente compromesse da una malattia epatica cronica, siano state sottovalutate e trascurate dalle autorità competenti. Di fatto, una tragedia annunciata. Già dall’aprile 2019, quando fu trattenuto con misura cautelare, Tolomelli soffriva di una cirrosi epatica grave, grado F4, con la presenza di due noduli iniziali, identificati come necrosi cronica nodulare e pronti a essere asportati per evitare la formazione di metastasi tumorali. L’evoluzione patologica, tuttavia, ha portato alla degenerazione dei noduli in veri e propri epatocarcinomi, peggiorando notevolmente le condizioni generali del detenuto. Nonostante le numerose istanze presentate per la sostituzione della misura cautelare con quella domiciliare - istanze basate sulla necessità di un’assistenza medica specialistica, un regime alimentare adeguato e un monitoraggio costante della patologia - le richieste di adeguata tutela del diritto alla salute in carcere sono rimaste inascoltate. All’interno della Casa Circondariale di Tolmezzo, in provincia di Udine, secondo quanto si legge nella denuncia, i medici curavano Tolomelli somministrandogli Deursil e Omega 3, una terapia palesemente insufficiente per la gravità della sua condizione clinica. “La patologia progrediva e Carmine veniva messo in lista per il trapianto del fegato”, scrive l’associazione Quei Bravi Ragazzi Family. Il giudice, forte anche del parere contrario del dirigente sanitario del penitenziario alla decarcerazione, pur essendo evidente la situazione clinica critica del detenuto, ha deciso di non procedere alla sostituzione della misura detentiva. L’aggravarsi della patologia portò, infine, al trasferimento di Tolomelli nella Casa circondariale di Marassi, dotata di un servizio di Assistenza Intensiva (S. A. I.) che avrebbe dovuto garantire un supporto immediato alle sue condizioni, ormai in rapido deterioramento. E ciò, come scrive l’associazione, è a riprova della gravità delle condizioni di salute ormai degenerate. Solo il 23 febbraio 2024 il magistrato di Sorveglianza disponeva con ordinanza il provvisorio differimento della pena, decidendo per l’immediata scarcerazione del detenuto. Tuttavia, la decisione è giunta troppo tardi: Carmine Tolomelli, già in stadio terminale, è morto poche ore dopo il trasferimento, presso l’Ospedale San Martino di Genova. Le conseguenze di questa gestione sanitaria del tutto inadeguata sono state devastanti non solo per Carmine Tolomelli, ma anche per la sua famiglia e tutti coloro che credevano in una parvenza di umanità anche dietro le gelide sbarre carcerarie. Come sottolineato dalla Presidente dell’associazione onlus “Quei Bravi Ragazzi Family”, Nadia Di Rocco, “Si tratta di una morte, questa, che ha lasciato a tutti l’amaro in bocca, in quanto certi che, se le condizioni di Carmine fossero state adeguatamente valutate e trattate, non lo avrebbero portato a una così rapida scomparsa”. La denuncia evidenzia come il diritto alla salute, fondamentale per ogni cittadino, latiti brutalmente dietro i cancelli delle istituzioni carcerarie. La drammatica vicenda di Carmine Tolomelli dovrebbe rappresentare l’ennesimo monito per riforme strutturali nel sistema di cura e assistenza sanitaria in carcere. Lo abbiamo visto anche in altri casi riportati su queste stesse pagine de Il Dubbio. L’associazione “Quei Bravi Ragazzi Family”, attraverso la denuncia presentata, intende far luce su una realtà troppo spesso nascosta e sottovalutata, dove il diritto alla salute viene sacrificato a favore di burocrazia, gestione negligente e anche l’idea che il carcere sia il solo luogo punitivo possibile. Anche per i malati terminali. Nelle carceri italiane, ogni giorno, il diritto alla salute viene calpestato. Carmine non è il primo. Senza interventi, non sarà l’ultimo. Ddl Sicurezza in Aula al Senato a marzo. Riunione Pd con i sindaci di Eleonora Martini Il Manifesto, 6 febbraio 2025 Il calendario del Senato prevede che il Ddl Sicurezza arrivi in Aula nella prima settimana di marzo, sempre che le commissioni Affari costituzionali e Giustizia concludano il loro iter. Che nelle ultime settimane prosegue a ritmo lento, in attesa che il governo decida se e come intervenire per correggere i punti giudicati incostituzionali sui quali si è concentrata la moral suasion del Quirinale. Il lavoro delle commissioni, che anche ieri si sono riunite per il voto degli emendamenti, ha superato i due terzi circa del fascicolo. Nessuno sa però ancora cosa succederà in Aula: se le modifiche preannunciate dal ministro Ciriani arrivino con un maxi emendamento governativo (rinviando il testo alla Camera in terza lettura), o se seguiranno altre vie legislative. La Lega preme per snobbare il Colle e approvare subito il ddl. In caso contrario, come ha ribadito anche ieri il capogruppo Romeo, “vorremmo anche noi introdurre delle proposte migliorative”. Nel senso leghista del termine, ça va sans dire. Ma la questione sicurezza è troppo importante per lasciarla alla destra o, come accaduto negli anni passati, inseguire gli umori più giustizialisti del Paese. Molti sindaci dem (in particolare nel varesotto) da settimane, insieme a esponenti del Pd come Walter Veltroni o Paolo Gentiloni, sollecitano Elly Schlein ad un confronto. Che si terrà questa mattina, in una riunione on line a cui parteciperà gran parte della segreteria dem, con i responsabili enti locali, giustizia, scuola, cultura, welfare, casa, immigrazione. Una “prima riflessione”, spiega la coordinatrice della segreteria Marta Bonafoni, “provando a distinguerci definitivamente dall’approccio strumentale delle destre”. Sulla separazione si può ancora provare a trattare, Md permettendo di Valentina Stella Il Dubbio, 6 febbraio 2025 L’ipotesi di rivedere il testo, auspicata dall’ex segretario di “Mi” Racanelli, non seduce neppure il suo gruppo. Musolino, “Md”: “No a trattative al ribasso”. La partita sulla separazione delle carriere non è affatto chiusa. Fonti parlamentari riferiscono che Forza Italia sarebbe pronta a riproporre l’emendamento che sopprime dal testo il sorteggio per la scelta dei componenti laici nei due Csm, previsti dalla modifica dell’ordinamento giudiziario. L’emendamento era stato già proposto alla Camera ma poi le altre forze di maggioranza e lo stesso guardasigilli Carlo Nordio avevano indotto il partito di Antonio Tajani a ritirarlo. Adesso gli azzurri sarebbero pronti anche ad allungare di un mesetto il processo riformatore (qualora ci fosse una modifica a Palazzo Madama, bisognerebbe ritornare alla Camera e poi terminare con gli altri due passaggi previsti per le riforme costituzionali) pur di portare a casa il risultato. Avrebbero l’appoggio anche di FdI, come ci spiega il senatore Sergio Rastrelli: “Il sorteggio è l’unico sistema valido per superare definitivamente il verminaio correntizio che ha caratterizzato fino ad oggi il sistema giudiziario italiano, determinando una intollerabile mortificazione della giurisdizione. Solo il sorteggio - prosegue - può infatti restituire autonomia e indipendenza ad ogni singolo magistrato, e sottrarlo alla morsa del condizionamento dei centri di potere e di pressione che hanno sinora caratterizzato il Csm. È evidente che questo ragionamento vale solo per la componente togata, mentre per quanto attiene alla componente laica si tratta di una scelta assolutamente non obbligata, né sul piano della legittimità costituzionale né sotto il profilo della valutazione politica”. Conclude quindi Rastrelli: “Nella proficua dialettica interna al centrodestra, si è scelto sinora di blindare il testo per evitare uno slittamento nei tempi di una riforma che è tanto essenziale quanto urgente per il futuro dell’Italia. Anche in Senato valuteremo attraverso quale formula tecnica raggiungere il punto di equilibrio: personalmente, ritengo vada ribadita con forza la funzione irrinunciabile del Parlamento nella individuazione dei membri laici”. La Lega invece al momento non si sbilancia sul tema: ancora non ha valutato, al proprio interno, l’ipotesi. Di certo sul sorteggio si apre un altro scenario anche dal versante magistratura. Due giorni fa, in un’intervista al Foglio, il capo della Procura di Padova Antonello Racanelli, in passato segretario di “Magistratura indipendente”, ha sostenuto che se l’Anm avesse assunto un atteggiamento più dialogante e rinunciato a una “frontale contrapposizione” con il legislatore, avrebbe potuto scongiurare il sorteggio “puro” per i togati del Csm e ottenere quanto meno l’estrazione a sorte “temperata”, proposta tra l’altro dal forzista Pierantonio Zanettin. Tuttavia, fonti autorevoli della stessa “Mi” ci fanno notare che “l’assenza di un comunicato al riguardo da parte della dirigenza del nostro gruppo e le numerose affermazioni di tanti suoi esponenti in passato inducono a ritenere che queste non siano altro che dichiarazioni rilasciate a titolo personale”. In realtà in “Mi” c’è una minoranza che sarebbe pronta a riaprire i giochi su questo tema, tuttavia adesso la situazione si complica. Secondo le ricostruzioni più accreditate, il sottosegretario alla Presidenza Alfredo Mantovano, anche lui vicino, da magistrato, alla corrente moderata dell’Anm, sarebbe stato disposto a trattare con le toghe qualora al vertice del loro “sindacato” fosse finito proprio un esponente di “Mi”, per esempio l’ex consigliere Csm Antonio D’Amato. Sul nuovo presidente, l’incognita si scioglierà solo sabato, con la prima riunione del direttivo Anm. Al momento i gruppi sono ancora impantanati e fanno continue interlocuzioni tra loro. E però, date le tensioni creatasi tra l’Esecutivo e la Procura di Roma, guidata da Franco Lo Voi, da sempre vicino proprio a “Mi”, ma messo sotto attacco per aver iscritto nel registro degli indagati Meloni, Nordio, Piantedosi e lo stesso Mantovano sul caso Almasri, è plausibile che resti precluso ogni canale di trattativa. Altresì perché tutte le altre correnti dell’Anm sono contrarie. Giovanni Zaccaro, segretario di “AreaDg”, spiega che “noi non scambiamo il sorteggio con la separazione: la riforma è tutta sbagliata”. E Stefano Musolino, segretario di “Md”: “Non sono d’accordo e non condivido l’approccio di Racanelli. Non mi piace la logica secondo cui, siccome il tuo interlocutore è più forte, accetti il male minore. La realpolitik non è nelle mie corde. Su questo non ci sono mediazioni possibili, ma non nel nostro interesse, piuttosto di quello dei cittadini che non hanno santi in paradiso”. E anche “Unicost” ha escluso giorni fa qualsiasi apertura al sorteggio. Intanto ieri sono stati resi noti i nomi che i gruppi parlamentari hanno chiesto di audire, sulla separazione delle carriere, in commissione Affari costituzionali. In totale sono 34 le richieste, la maggior parte dalle opposizioni, a cui servono anche per dilatare i tempi che porterebbero al referendum. Da segnalare che FdI ha chiesto di sentire, tra gli altri, proprio Racanelli, probabilmente dopo la sua intervista al Foglio, ma anche Antonio Di Pietro, pure lui espressosi in questi giorni a favore della separazione delle carriere. Francesco Petrelli, presidente dell’Ucpi, è stato chiamato sia dal partito di Giorgia Meloni, perché ovviamente favorevole alla modifica costituzionale, ma anche da parte delle opposizioni perché si è detto contrario al sorteggio. Così come l’ex presidente dei penalisti italiani, Gian Domenico Caiazza, anche lui nettamente sfavorevole al lancio dei dadi per Palazzo Bachelet, e richiesto da Pd, Avs, M5S e Iv. Il Pd ha indicato anche Luciano Violante, probabilmente per discutere dell’Alta Corte disciplinare, elaborata dal governo diversamente da come pensata dall’ex magistrato anni fa. Le minoranze hanno segnalato anche Giuseppe Santalucia, presidente uscente dell’Anm, ma è chiaro che a essere ascoltato sarà il nuovo vertice. Forza Italia non ha fatto alcuna richiesta, come ci spiega il senatore Mario Occhiuto: “Noi abbiamo ritenuto sufficiente far acquisire la lista di audizioni già tenute alla Camera”. È chiaro: non perdere tempo sul già detto, ma lavorare per portare a casa l’emendamento. Greco (Cnf): troppi limiti nell’accesso alla giustizia, difesa a rischio di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 6 febbraio 2025 Il Presidente del Consiglio nazionale forense esprime le preoccupazioni della categoria su: digitalizzazione, AI, sinteticità atti, costi di accesso alla giustizia ed applicazione dell’equo compenso. Ferma contrarietà dell’Avvocatura ai modelli digitali obbligatori per gli atti; limiti stringenti all’utilizzo della IA da parte dei giudici e forte preoccupazione della categoria per le sanzioni previste in caso di sforamento dei limiti agli atti difensivi. Ma anche un grido d’allarme per i costi eccessivi dell’accesso alla giustizia amministrativa, che, per esempio, in materia di appalti non ha eguali nel mondo, arrivando ad alterare la concorrenza tra imprese. E ancora prudenza nel passaggio al nuovo portale telematico, mantenendo più a lungo un doppio binario e partecipazione degli avvocati al governo della giurisdizione amministrativa. Infine, un altro cavallo di battaglia dei legali che continua a trovare degli inciampi: l’equo compenso va applicato in tutti i contratti pubblici. È breve ma denso di contenuti l’intervento del Presidente del Consiglio nazionale forense, Francesco Greco, alla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario e di presentazione della “Relazione sull’attività della Giustizia Amministrativa”, alla presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, e delle più alte cariche dello Stato. “Sul tema della digitalizzazione degli atti del processo - afferma - debbo rassegnare la ferma la contrarietà dell’Avvocatura all’utilizzo obbligatorio di modelli digitali per la redazione degli atti processuali, che certamente rappresentano strumenti totalmente incompatibili con il libero ed inviolabile esercizio del diritto difesa dei cittadini, esercitato attraverso il patrocinio degli avvocati”. Un eventuale modello “editabile” dovrebbe rimanere “come ipotesi meramente facoltativa”. Sull’uso dell’intelligenza artificiale nella giustizia, se “è indubbio che possa portare benefici significativi nell’organizzazione e nell’efficientamento degli uffici giudiziari, così come nel supporto all’approfondimento e all’analisi degli atti”, tuttavia, l’IA “non dovrà mai oscurare il ruolo centrale del giudice come persona fisica”. Ne viene dunque stigmatizzato l’utilizzo “a supporto dell’attività decisoria, inclusa la redazione anche parziale di bozze di provvedimenti”. Sui limiti alla lunghezza degli atti difensivi, la questione è tornata “particolarmente attuale” con l’approvazione della legge di bilancio 2025. “La previsione di sanzioni - afferma Greco - quale contropartita alla pronuncia di inammissibilità del ricorso, in caso di superamento dei limiti dimensionali, in assenza di preventiva autorizzazione del Giudice, preoccupa enormemente l’Avvocatura”. Nella “eventuale applicazione” della legge allora si devono “escludere automatismi”, proporzionando la sanzione all’entità dello sforamento, alla difficoltà della questione. Perché “il principio di sinteticità, pur nella sua condivisibile importanza, non può prevalere sul diritto di difesa”. Rimane poi ancora irrisolto, afferma Greco, il tema dei costi di accesso alla giustizia amministrativa, con contributi unificati che, in alcune materie, “si pongono oltre che come discutibili strumenti di deflazione del carico giudiziario anche come violazione dei principi della libera concorrenza”. L’accesso alla giustizia amministrativa in Italia è tra i più onerosi, per esempio, in materia di appalti pubblici o con riguardo ai provvedimenti delle Autorità indipendenti, che non sono ancorati al valore della causa. “In un ordinamento democratico, cittadini e imprese non possono essere costretti a rinunciare alla tutela dei diritti a causa di oneri che non riescono a sopportare”. Per Greco, poi a cinquant’anni dall’inizio del funzionamento dei TAR, “i tempi sono maturi per istituzionalizzare la partecipazione dell’Avvocatura al governo della giurisdizione amministrativa, così consentendole di intervenire sugli aspetti organizzativi o di evidenziare aspetti che meritino attenzione al fine della migliore tutela dei diritti delle persone, fisiche o giuridiche”. Infine, l’equo compenso dei professionisti e il suo coordinamento con la disciplina in materia di contrattualistica pubblica, su cui, da ultimo, è intervenuto anche il Correttivo al nuovo Codice degli Appalti (Dlgs n. 209/2024). “Alla luce del chiaro dettato della legge n. 49/2023, che non contempla eccezioni o regimi speciali per la pubblica amministrazione - afferma Greco - l’equo compenso deve trovare piena applicazione anche nell’ambito della contrattualistica pubblica”. Toscana. Oltre il carcere, verso il futuro: il ruolo del lavoro con “Seconda Chance” di Silvia Trovato cesvot.it, 6 febbraio 2025 Il lavoro svolto dai detenuti in Toscana rappresenta una leva fondamentale per il reinserimento sociale, contribuendo a restituire dignità e a ridurre il rischio di recidiva. In Toscana, grazie alla collaborazione tra istituzioni, associazioni e imprese locali, il lavoro carcerario sta assumendo un ruolo sempre più centrale nel percorso di riscatto di molte persone private della libertà. Questo sistema si basa sulla Legge Smuraglia (n. 193/2000), che incoraggia le aziende ad assumere detenuti mediante sgravi fiscali e agevolazioni, rendendo vantaggiosa l’assunzione sia a livello economico sia etico. Un attore fondamentale di questo processo è “Seconda Chance”, associazione che lavora attivamente per presentare alle imprese i benefici della Legge Smuraglia e le opportunità di inserimento dei detenuti, promuovendo un approccio di sensibilizzazione “porta a porta”. Tra il 2022 e oggi, grazie agli interventi dell’associazione “Seconda Chance” in Toscana più di 40 detenuti hanno avuto opportunità lavorative, con una dozzina di aziende che hanno accolto i lavoratori provenienti dalle carceri regionali. Molte imprese hanno risposto positivamente, non solo per le agevolazioni, ma anche per l’opportunità di rafforzare il valore etico della loro attività e contribuire al reinserimento sociale dei detenuti. Queste iniziative si concentrano spesso nelle aree vicine ai centri di detenzione, favorendo una maggiore facilità di accesso e logistica per i detenuti ammessi al lavoro esterno. I settori lavorativi e la formazione professionale - In Toscana, i detenuti sono impiegati in mansioni artigianali, agricole e di utilità pubblica; in edilizia, industria tessile, manutenzione del verde, ristorazione, logistica, ambiti che richiedono competenze specifiche. Un esempio significativo è l’istituto penitenziario dell’Isola di Gorgona, dove il lavoro agricolo ha dimostrato di avere un grande impatto sul reinserimento sociale. Dai dati di Antigone, nonostante una rilevata volontà di incrementare gli investimenti nel settore, permangono le criticità dei numeri ancora esigui di persone detenute coinvolte in attività lavorativa e la problematicità di accesso alle forme di specializzazione professionale. Complessa anche l’istituzione della turnazione all’interno dei singoli istituti che se da un lato consente a una porzione più ampia di persone l’accesso alle attività lavorative, allo stesso tempo comporta per altri la permanenza in un lungo stato di inattività. L’impatto sul reinserimento e la riduzione della recidiva - Il lavoro per i detenuti si è dimostrato un fattore chiave nella riduzione del tasso di recidiva. Dai dati delle rilevazioni di Cnel, i detenuti che partecipano ad attività lavorative hanno una probabilità di ricaduta del 2%, molto inferiore rispetto al 68% di coloro che non sono coinvolti in attività lavorative o formative. In Italia il 33% dei detenuti risulta coinvolto in attività lavorative (19.153 impiegati nel 2023), ma solamente l’1% di essi è impiegato presso imprese private e il 4% presso cooperative sociali. Le sfide del sistema carcerario toscano e le prospettive future - Nonostante i risultati incoraggianti, il sistema penitenziario toscano deve affrontare sfide importanti. Il sovraffollamento cronico delle carceri, che registra tassi di occupazione del 125% dalle rilevazioni di Antigone, limita l’accesso al lavoro e peggiora le condizioni generali di vita dei detenuti. La formazione professionale è inoltre distribuita in maniera diseguale, con difficoltà per i detenuti a pene più lunghe o più gravi. Le domande di agevolazioni fiscali presentate dalle imprese per l’assunzione di detenuti mostrano anche una forte disparità geografica: la maggior parte proviene dal Nord e Centro Nord Italia, lasciando il Sud in una posizione marginale. Tuttavia, le cooperative sociali e le aziende che offrono impiego all’interno e all’esterno delle carceri toscane rappresentano un esempio virtuoso di come il lavoro possa realmente trasformare vite e contribuire alla sicurezza collettiva. Un’impresa tra restauro e reinserimento sociale: il modello di inclusione che parte da Prato - Da 149 anni, la Piacenti Spa di Prato si dedica alla conservazione dei beni culturali, al restauro di affreschi, dipinti e monumenti storici. Con sedi in Italia e all’estero e un team di 80 dipendenti, l’azienda ha deciso di ampliare il proprio impatto sociale, guardando oltre la semplice donazione: offrire un’opportunità concreta di reinserimento lavorativo ai detenuti ed ex detenuti. L’idea nasce dall’osservazione dell’esperienza di Gorgona, un progetto che ha mostrato come il lavoro possa essere uno strumento di recupero della dignità per chi ha scontato una pena. Iniziando ad assumere alcuni ragazzi in uscita dal carcere, l’azienda ha realizzato in prima persona le difficoltà legate al sistema penitenziario: dal rischio di recidiva ai problemi psicologici, fino alle rigidità burocratiche che spesso ostacolano il ritorno alla società. L’impresa collabora con l’associazione Seconda Chance che funge da facilitatore: organizza i colloqui in carcere, seleziona i candidati e accompagna coloro che hanno l’autorizzazione a lavorare all’esterno. Oltre all’inserimento lavorativo, l’azienda si impegna a offrire corsi di formazione, in particolare sulla sicurezza e sulla gestione dei cantieri. Per chi ha già esperienza nel settore, le competenze emergono rapidamente, ma la vera sfida è adattarsi a una quotidianità che impone regole e orari rigidi, soprattutto per chi ha vissuto a lungo in carcere. Il reinserimento passa anche dalla possibilità di una sistemazione abitativa dignitosa: per chi è in semilibertà, l’affitto di un appartamento rappresenta una spesa elevata, spesso proibitiva. Aiutare queste persone significa offrire loro non solo un impiego, ma un supporto concreto per riconquistare uno status sociale e un ruolo attivo nella comunità. “Non tutti i percorsi sono lineari, e non tutte le storie hanno un lieto fine immediato: alcuni si perdono lungo la strada, altri faticano a ritrovare la loro direzione. Ma scommettere su chi ha fallito una volta significa credere nella capacità delle persone di rialzarsi, nel potere di una seconda occasione. E se l’impatto economico di questo progetto può sembrare marginale (circa il 10% del costo di un dipendente), il valore che genera è inestimabile. Ogni opportunità concessa non è solo un atto di responsabilità sociale, ma una scintilla che può accendere un cambiamento duraturo, trasformando vite e restituendo dignità attraverso il lavoro” spiega Giammarco Piacenti, presidente dell’azienda. La testimonianza di Rachid - Grazie al progetto Seconda Chance, scoperto tramite l’educatrice del carcere, Rachid, oggi in regime di semi-libertà si è inserito nel mondo del lavoro alla Piacenti Spa, dove si occupa principalmente del restauro di beni culturali, ricoprendo anche il ruolo di responsabile per la sicurezza. Il percorso di riscatto comincia già da quando Rachid era recluso in media-sicurezza, periodo in cui lavorava all’interno del carcere come aiuto cuoco e aveva deciso di completare gli studi fino ad arrivare ad iscriversi all’Università, alla facoltà di Agronomia. “La vita in carcere ti distrugge mentalmente, il tempo sembra schiacciarti” racconta - “ma l’opportunità di lavorare ti permette di ricostruire te stesso e di essere giudicato per le tue capacità, non per il tuo passato. Se si vuole cambiare, l’occasione si trova. L’impegno apre gli occhi anche quando tutto sembra perduto”. Dopo due rinnovi di contratto Rachid spera di poter continuare a lavorare nello stesso contesto una volta libero. Il suo sogno più grande è ricostruire la propria famiglia e offrire stabilità a suo figlio diciassettenne. “Il lavoro dà dignità e fiducia. Permette di essere visti per ciò che siamo oggi, non per gli errori che si sono compiuti”. Bologna. I Garanti dei detenuti: “I giovani alla Dozza? Enorme perplessità” di Andreina Baccaro Corriere di Bologna, 6 febbraio 2025 Cavalieri e Ianniello incontreranno il capo del Dipartimento della giustizia minorile. Dopo l’allarme dei sindacati della penitenziaria, si fanno sentire anche i garanti delle persone private della libertà personale sull’ipotesi di allestire in un’area del carcere della Dozza, una sezione separata dove convogliare una settantina di giovani detenuti, cioè reclusi tra i 18 e i 25 anni, da vari istituti penali minorili, per liberare spazio in questi. “Si è appreso da fonti sindacali di un’inedita soluzione organizzativa per fronteggiare a livello nazionale l’attuale sovraffollamento negli istituti penali per i minorenni che consisterebbe nel concentrare 60-70 ragazzi giovani adulti all’interno di una sezione detentiva della casa circondariale di Bologna, separati dalla popolazione detenuta adulta”. Lo scrivono in una nota congiunta Roberto Cavalieri e Antonio Ianniello, garanti delle persone private della libertà personale rispettivamente dell’Emilia - Romagna e di Bologna, esprimendo “enormi perplessità e grave preoccupazione” se questa opzione venisse confermata. I due garanti hanno già incassato la fissazione di un incontro con il capo del dipartimento della giustizia minorile del Ministero Antonio Sangermano, per la prossima settimana. Segno che la prospettiva è tutt’altro che remota, e anzi sarebbe imminente, visto che il direttore del Pratello avrebbe già avuto mandato di lavorare a una possibile squadra di operatori (educatori e polizia penitenziaria). La sezione in questione, che con ogni probabilità verrebbe allestita nell’attuale Alta Sicurezza della Dozza, perché separata dagli altri reparti e che quindi andrebbe liberata con trasferimenti, sarebbe a tutti gli effetti una costola del minorile. “Tale opzione organizzativa - proseguono i due garanti - sarebbe a tempo, alcuni mesi, sino alla concreta disponibilità di ulteriori posti, anche attraverso l’apertura di nuovi istituti dedicati ai minori. Vi saranno collocati ragazzi giovani adulti che potranno verosimilmente essere selezionati fra coloro che allo stato non presentano significative forme di adesione ai progetti di intervento educativo in atto”. E questo è proprio quello che spaventa, perché tradotto vorrebbe dire che lì convergerebbero giovani adulti non inseriti in percorsi rieducativi, di socializzazione, di scolarizzazione e formazione che quindi porterebbero meno difficoltà logistiche perché non bisognosi di essere accompagnati in attività esterne al carcere. Ma di conseguenza più complessi da gestire e più a rischio, sicuramente per la maggior parte stranieri, visto che ad oggi il sovraffollamento degli istituti minorili è dovuto al moltiplicarsi degli ingressi di minori stranieri non accompagnati. A ciò si aggiungono i numeri già drammatici del sovraffollamento della Dozza, con 852 presenze su 490 posti regolamentari. “La pezza sembra già essere peggio del buco” attaccano i garanti. E il presidente delle Camere penali Nicola Mazzacuva fa notare che “quando nel 2013 l’Italia è stata condannata dall’Ue per il trattamento inumano e degradante dei detenuti, i numeri erano inferiori a quelli di oggi”. Mentre sulla possibilità di una sezione minorile alla Dozza gli avvocati restano cauti: “C’è un problema alla base - osserva Luigi De Fatico, consigliere dell’Ordine bolognese -: se le case circondariali sono sovraffollate gli istituti penitenziari minorili sono messi persino peggio”. Parma. Disabile recluso, Nordio ha inviato il provveditore Il Fatto Quotidiano, 6 febbraio 2025 Nordio ha inviato il Provveditore regionale nel carcere di Parma dopo la denuncia di uno stomizzato su gravi carenze di cure e condizioni di vita inadeguate, oltre a difficoltà nell’uscire dalla cella con la carrozzina. Pasquale Quagliariello, 68 anni, lo aveva raccontato al Fatto. La Garante dei detenuti, Veronica Valenti, evidenzia che si tratta di un paziente oncologico che ha chiesto di essere trasferito a Bologna per ricevere cure dai medici di fiducia e garanzie di riabilitazione, richiesta negata. “Un anno fa la Cedu ha condannato l’Italia per la mancanza di fisioterapia intensiva nel carcere di Parma, un altro ricorso è pendente. Le stesse criticità sull’insalubrità dei luoghi di cura sono state segnalate da altri detenuti della stessa sezione per ben due volte, anziani e pluripatologici, ora all’attenzione della magistratura di sorveglianza”. Parma conta più di 250 detenuti in carico al Ssn, a fronte di una sezione Sai che può ospitare 16 persone e una per paraplegici da 9 posti. Vi sono poi 54 malati oncologici e i casi acuti sono in aumento. Palermo. Al Pagliarelli vietati pacchi alimentari e giacche in pile, detenuti in sciopero della fame palermotoday.it, 6 febbraio 2025 L’associazione Yairahia Onlus, attiva per i diritti dei reclusi, spiega i motivi della “rivolta”: “In una situazione carceraria disastrosa che l’anno scorso ha registrato il record di suicidi, ed in cui il sovraffollamento è una costante, appare assurdo gravare in maniera ancora maggiore sulla vita quotidiana di chi sta dietro le sbarre”. Scoppia la protesta al Pagliarelli: 400 detenuti in sciopero della fame contro le nuove restrizioni. I ribelli sono coloro che si trovano in regime di Alta Sicurezza. L’associazione Yairahia Onlus, attiva per i diritti dei detenuti, spiega i motivi della protesta: “Il 19 novembre del 2024, alle porte dell’inverno, con provvedimento regionale si è dato avvio ad una circolare del Dap, il dipartimento amministrazione penitenziaria, che - con il pretesto ufficiale di prevenire il rischio di incendi nelle celle - prevede importanti restrizioni sui beni che possono ricevere i detenuti. Le restrizioni riguardano principalmente la ricezione di pacchi postali, che non potranno contenere più alimenti, se non con qualche piccola eccezione, ma anche, per far solo un esempio, coperte e maglioni in pile”. “In una situazione carceraria disastrosa che l’anno scorso ha registrato il record di suicidi, ed in cui il sovraffollamento è una costante, appare assurdo gravare in maniera ancora maggiore sulla vita quotidiana dei detenuti e delle detenute - proeguono dall’associazione Yairahia Onlus -. Questi provvedimenti aumentano la distanza tra chi è dentro e gli affetti fuori, ma soprattutto creano le condizioni per grandi squilibri all’interno degli istituti. Chi avrà i soldi per acquistare i prodotti dentro il carcere, farà un tipo di vita, mentre chi non li avrà non potrà più ricevere da fuori ciò che gli serve”. E aggiungono: “Anche se in Sicilia gli inverni non sono particolarmente freddi non è possibile che si possano creare situazioni in cui chi non ha parenti limitrofi ed è un difficoltà economica potrebbe finire a non avere accesso ad una coperta”. L’avvio della circolare ha infatti già fatto nascere diverse proteste. Nel carcere di Cavadonna, prima, ed al Pagliarelli di Palermo in questi giorni. Dopo alcune battiture fatte con le stoviglie sbattute sulle sbarre, oltre 400 detenuti del regime di Alta Sicurezza del carcere palermitano hanno annunciato l’avvio dello sciopero della fame. “Vediamo queste procedure assolutamente inutili per la sicurezza dei detenuti; alimentano piuttosto l’insicurezza e diminuiscono la poca autonomia, stringendo sempre più la morsa sulla vita quotidiana che in questo modo dipenderà maggiormente dalla gestione dell’istituto penitenziario” continua Yairahia. Anche Pino Apprendi, garante dei detenuti di Palermo, ha espresso perplessità in merito. Concludono da Yairahia: “Ci auspichiamo che al Pagliarelli, e ovunque, come successo a Cavadonna, si abbia una rimodulazione delle restrizioni. Che si agisca per la salute ed il benessere di chi è detenuto e non il contrario. Come associazione ci faremo portavoce delle istanze in tutte le sedi opportune affinché non si applichino misure tanto illogiche quanto dannose”. Novara. “Dare un futuro dopo la pena: la città si accorga del suo carcere” di Marco Benvenuti La Stampa, 6 febbraio 2025 Il monito della Garante cittadina dei detenuti, Nathalie Pisano, all’incontro “La vita, dentro” organizzato dal Pd. “La città deve accorgersi che ha un carcere. Anche gli imprenditori locali dovrebbero: occorre dare un futuro a chi ha scontato la pena. Sul carcere bisogna fare rete, fra enti, istituzioni, associazioni, volontari: deve essere soprattutto un luogo di rieducazione e risocializzazione, non solo di detenzione. Occorre lottare perché certe situazioni, come il sovraffollamento, le carenze, la mancanza di servizi, il disagio economico ma anche quello psichico, non prendano mai il sopravvento”. Questo il monito lanciato lunedì sera dalla Garante cittadina dei detenuti Nathalie Pisano e dal presidente della Camera penale Federico Celano all’incontro “La vita, dentro”, organizzato dal Pd e dai Giovani Democratici nell’ambito di un ciclo sull’emergenza carceri italiane. Ne è emersa una fotografia della casa circondariale di Novara. In via Sforzesca ci sono 100 detenuti, cui si aggiungono i 71 della sezione 41 bis (reati di mafia); la metà sono stranieri, gli altri novaresi. Il detenuto “tipo” è giovane, maschio, spesso tossicodipendente, ai margini della società, e che in molti casi deve scontare una pena per droga o furto. C’è un problema di sovraffollamento, meno grave che in altre realtà del Piemonte. “La Casa circondariale - dice l’avvocato Celano - dovrebbe ospitare solo innocenti in attesa di giudizio, non persone condannate che devono seguire un trattamento personalizzato. Questa commistione crea problemi, perché non consente una programmazione”. Il presidente dei penalisti fa riferimento alla mancanza di capisaldi minimi di dignità: “Ho seguito un detenuto che per 660 giorni ha condiviso la cella con altre cinque persone, in uno spazio di 2, 19 metri quadrati a testa. È contro ogni principio e norma. Ha fatto reclamo e avrà quindi diritto a un ristoro, 3 giorni di sconto di pena per ogni mese di condizione disumana”. La garante Pisano accenna alle problematiche strutturali: “Mancano docce private nelle celle, abbiamo spazi per cucinare a fianco dei bagni. Tutto aperto, senza un minimo di intimità. E non ci sono spazi comuni per le attività: la tensostruttura presente può essere usata solo nei mesi caldi”. Grazie alla Diocesi sarà creato un fabbricato da adibire ai corsi di formazione e ai laboratori. Preoccupa molto il disagio delle persone: nel 2023 si sono avuti 17 casi di autolesionismo. La garante dei detenuti: “Non dimentichiamo il suicidio del giovane Alì la scorsa estate. Sarebbe uscito da lì a un mese e non ha retto all’incertezza del futuro”. La vera carenza, aggiunge l’avvocato Celano, “è sulle figure di supporto. Abbiamo un educatore, a volte due, per tutti i detenuti. E manca un mediatore culturale, figura fondamentale”. Nei giorni scorsi, proprio grazie al gruppo consigliare Pd, è stata approvata all’unanimità una mozione con cui si invita il Comune a prendere coscienza della realtà carceraria, valorizzando le convenzioni per far lavorare i detenuti, e creandone altre. Cagliari. Detenuti e figli minori, al via il progetto “Liberi dentro per crescere fuori” sardegnareporter.it, 6 febbraio 2025 Attivati i primi cinque Patti Educativi Partecipati, operativo lo sportello di supporto psicologico e avviato il primo tirocinio lavorativo. “Liberi dentro per crescere fuori” alla Casa circondariale di Uta: nel progetto rivolto a genitori detenuti e figli minori, attivati i Patti Educativi Partecipati per cinque famiglie, operativo lo Sportello di supporto psicologico che sostiene i primi 16 adulti nel percorso di supporto alla genitorialità, e avviato il primo tirocinio socio-lavorativo di sei mesi nella lavanderia industriale del carcere. Uta - Attivati i primi Patti Educativi Partecipati, lo Sportello di supporto psicologico alla genitorialità e il primo tirocinio lavorativo all’interno della lavanderia di Uta per i destinatari di Liberi dentro per crescere fuori, il progetto selezionato da Con i Bambini nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile in riferimento al bando nazionale Liberi di crescere. Attraverso un approccio relazionale e partecipativo che mira a coinvolgere nelle scelte i diretti interessati aumentando il loro livello di consapevolezza, la cooperativa Panta Rei Sardegna, con un’équipe composta da un assistente sociale, uno psicologo e un pedagogista, ha stipulato i Patti Educativi Partecipati per cinque famiglie (il numero è destinato a crescere) composte da un genitore detenuto a Uta o in misura alternativa e i figli minori. La caratteristica che accomuna tutti i nuclei familiari è il forte bisogno di mantenere il legame affettivo e le relazioni durante l’esperienza detentiva. Al di là di questo elemento in comune però ogni famiglia, ogni suo singolo componente, manifesta difficoltà e bisogni differenti che vanno intercettati e capiti affinché venga modellato su ognuno un tipo di intervento specifico. Ed ecco la necessità di incontrare singolarmente i nuclei familiari, anche per garantire un adeguato livello di riservatezza a chi sta attraversando un momento complicato della propria esistenza. Il primo passo rende partecipe la famiglia per valutare le preoccupazioni e il livello di coinvolgimento in azioni a contrasto della situazione. Successivamente si incontrano i minori per capire quanto e come loro si sentano preoccupati e quanto si sentano coinvolti in azioni di miglioramento o cambiamento. Finora ci sono stati circa una sessantina di incontri tra l’équipe di sistema e le famiglie. Una volta emerse le necessità e disegnato il percorso da intraprendere, si stipulano i Patti Educativi Partecipati, dai quali derivano i Progetti Educativi Individuali, una sorta di codificazione degli impegni che si assumono le parti coinvolte, con l’organizzazione di azioni dedicate ai minori e altre create ad hoc per il genitore. Tra le azioni destinate agli adulti ci sono i percorsi di supporto psicologico di gruppo, attivati dalla cooperativa sociale Elan (capofila del progetto), rivolti a padri e madri detenuti che stanno sperimentando l’esperienza detentiva, finalizzati a una riflessione circa il proprio ruolo genitoriale e, grazie al confronto e alla condivisione di esperienze, allo sviluppo delle competenze genitoriali. Al momento sono stati formati due gruppi da 8 persone ciascuno e sono previsti 10 incontri fino a ottobre prossimo. Inoltre è stato attivato il primo tirocinio di inclusione sociale e lavorativa da svolgersi all’interno della lavanderia industriale della Casa circondariale di Uta gestita da Elan. Il lavoro per il genitore detenuto, oltre che contribuire alla sua riabilitazione sociale, rappresenterà un supporto economico concreto al nucleo familiare I figli minori che lo desiderano possono partecipare a numerose iniziative: dalle attività sportive alle gite fuori porta e in mezzo alla natura; da quelle artistico/culturali come laboratori di teatro, di musica, di promozione alla lettura, alle attività didattiche del dopo scuola a supporto di eventuali difficoltà di apprendimento. Le iniziative per i minori si svolgono fuori e dentro l’istituto di pena, mentre le persone recluse possono decidere di svolgere tirocini di inclusione sociale e lavorativa oltre che di usufruire del servizio di sostegno psicologico. Oltre alle cooperative Panta Rei Sardegna ed Elan, gli altri partner del progetto “Liberi dentro per crescere fuori” sono Exmè & Affini, Solidarietà Consorzio; la Casa circondariale “Ettore Scalas” di Uta, l’Ufficio interdistrettuale di esecuzione penale esterna per la Sardegna (Uiepe), il Servizio Politiche Sociali Abitative e per La Salute del Comune di Cagliari e l’associazione Prohairesis e Aragorn S.r.l. Milano. “Giustizia riparativa, ipotesi che sta diventando realistica” di Annamaria Braccini chiesadimilano.it, 6 febbraio 2025 Il rapporto tra pena, comunità e speranza al centro di un convegno con studiosi e operatori del settore e l’intervento dell’Arcivescovo su “visitare i carcerati”: “Non sono persone a noi estranee, visitarli contribuisce a riconoscerne la dignità”. “Non ho mai capito se il carcere abbia un senso e se la forma di pena nella detenzione sia una cosa giusta. Le condizioni attuali del carcere, certamente, rendono ancora più problematico tutto questo”. A dirlo, con i cronisti, è l’Arcivescovo che poco dopo partecipa al convegno “Ricostruire la speranza: pena e comunità in dialogo” presso l’Università Cattolica. “L’impianto di chi si occupa di giustizia, penso debba essere quello di una riforma profonda, anche se non saprei indicare una via da percorrere, se non quella della ricerca del bene comune, che significa anche il bene di chi lavora in carcere, di chi è detenuto e il bene possibile da chiedere a coloro che hanno fatto dei danni alla società, secondo la logica della giustizia riparativa che sta diventando un’ipotesi realistica. L’opera di visitare i carcerati è una testimonianza che queste persone in qualche modo fanno parte della comunità e non sono estranei”, ha aggiunto. Un tema complesso, insomma, quello del rapporto tra pena, comunità e speranza, che vede per l’intera mattinata confrontarsi diversi relatori, presente un folto pubblico, tra cui molti studenti e docenti, il Moderator Curiae monsignor Carlo Azzimonti e il vicario episcopale di settore monsignor Luca Bressan. Assise promossa dall’Ateneo in collaborazione con la Diocesi, e aperta dalla rettrice Elena Beccalli. Cattolica, un percorso sulla speranza - “Declinare il tema giubilare, come faranno tutte le nostre 12 Facoltà fino a giugno, promuovendo convegni e dibattiti per capire come la speranza può essere alimentata in un contesto transdisciplinare, sta molto a cuore alla nostra Università”, spiega Beccalli, delineando il senso complessivo del palinsesto di iniziative che si avviano proprio con l’incontro dedicato alla pena. “Iniziamo affrontando un tema forte, che chiama in causa la responsabilità di ciascuno. In tutti gli ambiti, ma specialmente in quello giudiziario, quando bisogna costruire la speranza ci si affida ai buoni propositi e agli auspici. Ma quando bisogna ricostruire la speranza di coloro che hanno sbagliato, oltre ai propositi e agli auspici, si deve fare affidamento su un “di più” che è rappresentato dalla consapevolezza che la giustizia può essere strumento di misericordia e di rinnovamento. Vorrei sottolineare la convinzione che, per ricostruire la speranza, è necessario fare affidamento sull’altro: entra in gioco, così, la comunità chiaramente evocata nel titolo dell’incontro. Il dialogo tra “pena” e “comunità” è indubbiamente complesso, ma indica la strada obbligata”. Specie a fronte della situazione spesso drammatica delle carceri con il loro sovraffollamento, come evidenziano il preside della Facoltà di Giurisprudenza Stefano Solimano e Gianluca Varraso, docente e referente di Ateneo per la Convenzione per la promozione dello sviluppo culturale e la formazione universitaria dei detenuti, promossa dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. “Occorre - dice quest’ultimo - ricostruire la speranza con un recupero della dignità delle persone detenute e di diritti che spesso diamo per scontati, ma che non lo sono. Questo è il punto-chiave dell’ordinamento penitenziale, in un momento in cui il numero dei suicidi in carcere è il più alto di sempre: 83 nel 2024, a cui vanno aggiunti vari casi dubbi”. L’Arcivescovo: “Visitare i carcerati” - Poi l’intervento dell’Arcivescovo, che parte da San Paolo e dal Libro dell’Apocalisse affrontando il tema della pena e del potere, per giungere al cuore della questione attraverso la citazione del Vangelo di Matteo al capitolo 25, “Ero in carcere e siete venuti a visitarmi” -, “definito nel suo complesso da alcuni un Vangelo laico, perché offre vie verso il paradiso per tutti, anche se non si ha la fede, in quanto implica una pratica di amore”. “Questa opera di misericordia corporale è la testimonianza che i carcerati fanno parte della comunità dei discepoli e non sono vite finite in un mondo a parte. La società si protegge da coloro che l’hanno danneggiata e, certamente, le mura dei penitenziari sono ciò che sembra dissuadere dal cercare rapporti tra “dentro” e “fuori”, mentre la visita è un’immagine del carcere come appartenente alla città”. “Considerare i detenuti persone - prosegue - attesta che la comunità si prende cura della loro vicenda, ha a cuore il loro bene, e qui si manifesta un ruolo fondamentale della comunità sociale per propiziare anche il reinserimento del carcerato. Non si tratta di un’elemosina di tempo e attenzione del ricco che lascia qualcosa al povero, di chi sta bene a chi sta male, ma del desiderare il bene della persona che suscita una possibilità di risposta e di relazione: in questo senso la carità, che non è unidirezionale e fa crescere, è una provocazione alla libertà individuale di ognuno e comporta un’ineliminabile via di personalizzazione del percorso relazionale”. Riconoscere la dignità della persona in carcere - Il riferimento è ad alcuni termini come “rieducazione”, “che è compreso nella Costituzione, ma è ambiguo, e suona persino sinistro in contesti di dittatura”; reinserimento (“ma dove? Perché, talvolta, si deve costatare che l’ambiente da cui viene un detenuto contribuisce alla corruzione della persona, per cui tornare al luogo di origine può esporre di più alla recidiva”); riabilitazione, “anch’essa parola ambigua, perché implica lo stigma impresso dal delitto commesso o dalla condanna subìta”; risarcimento, “parola interessante, che apre ai cammini della giustizia ripartiva”. Da qui la conclusione: “Chi visita il carcerato contribuisce a riconoscere la dignità di una persona favorendo la speranza”. Le condizioni che ostacolano la speranza - A soffermarsi “sulle condizioni ostative della speranza nell’ambito della giustizia penale, che si sostanziano nell’oggettualizzazione del detenuto”, è Gabrio Forti, accademico dei Licei e ordinario emerito di Diritto penale. “La burocratizzazione del decidere, l’eccedenza rivendicativa, l’abbondanza sanzionatoria, la ricerca del capro espiatorio a tutti i costi - come si vede nelle immagini, per esempio, dei rimpatriati in catene dagli Stati Uniti -, la mancanza di empatia, l’egemonia nei codici elaborati da macchine che sembrano poter fare a meno degli umani”, sono tutti segnali inquietanti, suggerisce Forti, “mentre la risocializzazione implica la narrazione dei percorsi delle persone che, quando sono chiusi dallo straripare del digitale”, sono impossibili. Che fare quindi? “Non esistono soluzioni facili, ma la prima strada è decostruire le logiche sacrificali della giustizia penale, richiamando la centralità della presunzione di innocenza scritta nel nostro ordinamento penale. E pensare, come si fa da anni in Cattolica, a vie di giustizia riparative e trasformative, che si rivelano ricostruttive di rapporti. La giustizia in senso pieno non poggia sull’idea di ordine, ma sul compito infinito della rigenerazione”. Parole a cui fa eco Giovanna di Rosa, presidente della Corte d’Appello di Brescia, sottolineando la necessità “di un recupero in chiave dialogica della funzione rieducativa della pena, dove la comunità diventa parte attiva di tale dialogo. Attraverso la giustizia riparativa si possono immaginare percorsi in cui l’intero sistema ritrova la sua ricomposizione e pace”. Concordi altri relatori, tra cui don Marco Recalcati, cappellano di “San Vittore”: “È facile dipingere il volto del mostro e non sempre la comunità è disposta ad accogliere chi, durante il suo cammino, ha commesso scelte sbagliate. Ma quello che mi colpisce sempre è che, quando si rompono gli stereotipi e la diffidenza viene superata, queste persone sono risorse su cui poter contare, un lievito per la comunità”. “Non girarsi dall’altra parte” - Infine, le conclusioni affidate a don Nazario Costante, direttore della Pastorale Sociale e del Lavoro: “Questo confronto ci ha aiutati a crescere nella trasversalità dello sguardo per un vero umanesimo integrale. Non possiamo limitarci a uno sguardo parziale sulla realtà, perché ogni persona va riconosciuta e accolta nella sua totalità, nella sua unità e nella sua unicità. Spesso la difficoltà su questi temi sta nel fermarsi alla superficie, mentre è essenziale comprendere fino in fondo le dinamiche profonde che generano il disagio. Per farlo, bisogna camminare insieme, confrontarsi e andare, appunto, in profondità. Siamo chiamati a trasformare i segni dei tempi in segni di speranza, per trovare nuove vie di giustizia riparativa e trasformativa: ecco perché non possiamo, come comunità, girarci dall’altra parte, ma dobbiamo affrontare con responsabilità e prossimità le ferite del nostro tempo”. Bari. All’Ipm Fornelli la piccola scuola di teatro (in) carcere murgiatime.it, 6 febbraio 2025 Un percorso laboratoriale di teatro in carcere all’interno dell’Istituto penitenziario minorile ‘N Fornelli’ di Bari. C’è tempo fino al 10 febbraio per iscriversi a Teatro altrove. Piccola scuola di teatro (in) carcere, percorso di approfondimento per giovani attori e attrici tra i 18 e i 25 anni. Il laboratorio è curato da Lello Tedeschi, da oltre 25 anni anima del progetto Sala Prove, spazio teatrale all’interno dell’Ipm barese che coinvolge detenuti attori. Sarà proprio all’interno di Sala prove che i partecipanti entreranno in contatto con i componenti della Compagnia Sala Prove ogni lunedì e mercoledì, fino a giugno 2025, con un totale di 100 ore di attività. A conclusione delle attività laboratoriali si terrà un evento performativo aperto al pubblico, in cui la scena sarà condivisa con i detenuti attori. Per candidarsi è necessario inviare via mail una nota motivazionale e curriculum vitae entro il 10 febbraio all’indirizzo mail lellotedeschi@virgilio.it, a cui seguirà un incontro conoscitivo. Le richieste saranno valutate a sportello e il numero necessario di partecipanti potrà essere raggiunto prima di questa data. Per ulteriori informazioni si può chiamare il numero 3384739337 o inviare una mail a lellotedeschi@virgilio.it. Milano. I detenuti di San Vittore canteranno davanti a papa Francesco Corriere della Sera, 6 febbraio 2025 L’appuntamento il 17 febbraio a Roma in occasione del Giubileo degli artisti e del mondo della cultura. I detenuti del reparto La Nave di San Vittore canteranno per papa Francesco, a Roma, in occasione del Giubileo degli artisti e del mondo della cultura. Si tratta di un evento con pochi precedenti, possibile grazie all’impegno della Polizia penitenziaria, delle Direzioni delle carceri, dei Provveditorati coinvolti e della Magistratura. Una decina di detenuti canterà all’interno di un coro di cinquanta elementi che comprende persone impegnate nel volontariato all’esterno e all’interno del carcere, persone ex detenute e ora libere o in affidamento e pazienti del SerD. Il coro è coordinato e promosso dall’Associazione Amici della Nave Odv con la partecipazione di giovani artisti del Cpm Music Institute fondato da Franco Mussida, a sua volta impegnato da anni come volontario a portare la musica negli istituti di pena. L’iniziativa è in programma lunedì 17 febbraio a Cinecittà: prima volta di un Pontefice negli studi, dove oltre al coro incontrerà una delegazione di artisti rappresentativi di diversi contesti geografici e culturali. Della formazione che canterà per il Santo Padre faranno parte, oltre ai giovani del Cpm Music Institute, due realtà che l’associazione coltiva in parallelo: il coro la Nave di San Vittore attivo all’interno del carcere e il coro Amici della Nave di San Vittore all’esterno, in un’ottica di continuità e di ricostruzione di relazioni attraverso la musica e la collaborazione con il SerD di Milano. Il nome dell’Associazione e dei Cori fa riferimento al reparto La Nave, esistente dal 2002 nella casa circondariale milanese e tuttora gestito dalla Asst Santi Paolo e Carlo per la cura e il trattamento avanzato di persone detenute con problemi di dipendenza. L’incontro è organizzato dal Dicastero della Cultura e dell’Educazione della Santa Sede guidato dal prefetto cardinale Josè Tolentino de Mendonça, in collaborazione con il Ministero della Cultura italiano e Cinecittà Luce SpA. Nasce dalla volontà di “dare continuità e sostanza al dialogo aperto attorno ai temi del recupero e della re-inclusione sociale, che il Santo Padre ha alimentato anche attraverso l’apertura di una Porta Santa nel carcere romano di Rebibbia perché sia simbolo che invita a guardare all’avvenire con speranza e con innovato impegno di vita (papa Francesco, Spes non confundit)”. “Come presidente dell’associazione Amici della Nave OdV - è il commento di Eliana Onofrio - esprimo la più grande riconoscenza per questa grande opportunità e per l’attenzione sempre riaffermata da parte del Santo Padre rispetto ai temi del recupero e dell’inclusione: per noi il massimo incoraggiamento possibile a impegnarci ancora di più in questo percorso. Lo stesso sentimento esprimo naturalmente a nome di tutti i nostri volontari e tutte le volontarie, dei ragazzi che incontriamo ogni settimana in carcere grazie alla collaborazione con l’équipe di Asst Santi Paolo e Carlo nel reparto La Nave, di quelli che vengono a cantare con noi dal SerD, dei tanti che in questi anni abbiamo conosciuto in difficoltà e che oggi sono liberi”. “Nell’ambito della sezione a trattamento intensificato - sottolinea la Direzione della Casa circondariale di San Vittore in una nota - l’attività del coro è parte integrante del percorso rieducativo, affiancando il programma terapeutico e il lavoro di consapevolezza del sé. E diverse sono state le pregresse opportunità che hanno reso possibile le esibizioni del coro in ambiti esterni all’istituto. A maggior ragione l’attuale invito legato al Giubileo voluto dal Santo Padre, da sempre fortemente sensibile alle problematiche delle carceri, rappresenta non solo una preziosa occasione trattamentale ma una ulteriore conferma di come la cultura possa essere un ponte tra carcere e società, favorendo percorsi di riscatto e cambiamento”. “L’invito a partecipare al Giubileo degli artisti e del mondo della cultura a Roma, alla presenza di Papa Francesco - dichiara Dario Laquintana, direttore sociosanitario di Asst Santi Paolo e Carlo - è una testimonianza del valore e dell’impegno profuso dall’associazione Amici della Nave OdV nel corso degli anni. Il lavoro svolto dal coro La Nave di San Vittore e dal coro Amici della Nave di San Vittore è un esempio straordinario di come la musica e l’arte possano essere strumenti di inclusione e riabilitazione. Questo riconoscimento non solo sottolinea l’attenzione del Santo Padre verso la realtà delle carceri, ma anche l’importanza delle attività svolte dalle équipe di Asst Santi Paolo e Carlo, con il supporto dei volontari e delle volontarie”. “La musica - aggiunge Franco Mussida, presidente Cpm - non è nata solo come un’arte che offre spettacolo. È un mezzo di concordia, di compagnia, di crescita armonica e consapevole della persona. La sua natura vibrante ci racconta com’è fatto il nostro cuore, ci indica la via per una ecologia dei sentimenti. È quella che nella nostra scuola chiamiamo l’Altra Musica. Gli allevi del Cpm Music Institute di Milano, che opera dal 1987 in luoghi di disagio e nel carcere di San Vittore, sono una testimonianza concreta di questa visione”. Asti. Sport e socializzazione tra le iniziative per il benessere dei detenuti lavocediasti.it, 6 febbraio 2025 La sinergia tra Provincia e direzione della struttura punta sul movimento fisico per favorire il reinserimento sociale e il benessere psicofisico. Un importante passo avanti è stato compiuto nella direzione di un miglioramento delle condizioni di vita all’interno della casa circondariale di Quarto d’Asti. Un recente incontro ha visto protagonisti la direzione del carcere, guidata da Giuseppina Piscioneri e i suoi collaboratori, insieme a funzionari della Provincia e rappresentanti di associazioni di volontariato attive nella struttura. L’obiettivo primario di questo confronto è stato quello di gettare le basi per una solida collaborazione interistituzionale, finalizzata all’individuazione di progetti condivisi con un forte accento sull’aspetto sportivo e ricreativo. Il presidente della Provincia, Maurizio Rasero, ha sottolineato come la sinergia tra istituzioni locali, enti, operatori sociali e la casa circondariale sia cruciale per raggiungere questo scopo. La Provincia ha espresso con chiarezza la sua convinzione nell’efficacia di tali iniziative per favorire la socializzazione dei detenuti, migliorarne il benessere psico-fisico e promuovere la costruzione di relazioni positive. Calogero Mancuso, consigliere delegato, ha evidenziato l’importanza della collaborazione con la direzione del carcere per progetti che incentivino lo sport e l’attività fisica, vedendo in questa sinergia un potenziale ponte verso il reinserimento sociale degli ospiti. L’incontro ha generato una discussione costruttiva tra le istituzioni e le realtà di volontariato, facendo emergere prospettive concrete per una collaborazione sinergica e ricca di contenuti. Questo approccio, focalizzato sulla condivisione di intenti e risorse, mira a creare un ambiente più stimolante e supportivo per i detenuti, offrendo loro opportunità di crescita personale e di reinserimento nella società. Il presidente Rasero ha concluso sottolineando che questo incontro rappresenta solo il primo passo di un progetto continuativo. L’intento è quello di creare una rete solida tra gli enti, valorizzando l’impegno delle associazioni e il potenziale inclusivo dello sport. Cuneo. Studenti e detenuti a fare il pane insieme oltre i pregiudizi ideawebtv.it, 6 febbraio 2025 Ragazzi e ragazze del “Grandis” di Cuneo alla Casa circondariale per il progetto “Liberi legami”. E domani a Fossano è prevista la presentazione di Bottega Perla. Lo scorso sabato 25 gennaio i ragazzi e le ragazze del gruppo di Peer Educa­tion del­l’Iis Grandis di Cu­neo, accompagnati dal Csv Società Solidale, hanno partecipato al laboratorio di panificazione realizzato dalla cooperativa sociale “I panaté - Glievitati”, presso la casa circondariale di Cuneo. Si tratta di un’iniziativa realizzata nell’ambito del progetto “Li­beri legami”. La mattinata è stata per i ragazzi molto arricchente sia dal punto di vista umano sia professionale. I ragazzi - come si dice - hanno messo le mani in pasta e hanno scoperto come si fa il pane, hanno ascoltato storie di vita intense, hanno capito che cosa significa vivere nel pregiudizio e hanno compreso quanto sia importante avere un’opportunità lavorativa che permetta di riscattarsi e porre rimedio agli errori commessi. Il progetto ha come obiettivo principale quello di indagare i pregiudizi che ruotano attorno ai detenuti e in particolare ai figli di chi ha avuto o sta vivendo una situazione di restrizione. Il laboratorio di panificazione è stata un’occasione che ha dato a tutti, operatori, studenti e detenuti, la possibilità di incontrarsi e stare insieme attraverso un’esperienza concreta come può essere fare il pane. “Liberi legami” è un progetto finanziato da “Impresa so­ciale con i bambini” nell’ambito del Bando Liberi di Cre­scere. È realizzato in partenariato con “Il Margine Scs” (capofila), “Ctv - Centro Territoriale per il Volon­tariato” in collaborazione con la rete “CSVnet Pie­monte, dieci case circondariali (Alessandria, Asti, Biella, Cu­neo, Ivrea, Fossano, No­vara, Saluzzo, Torino e Ver­celli), tredici enti del Terzo settore del territorio (Aps e Odv, Fon­dazioni, Imprese sociali e So­cietà cooperative), Regione Piemonte Ufficio In­terdi­stret­tuale di Esecuzione Penale Esterna di Torino. Hanno aderito al percorso, formando il gruppo di Peer Education, quarantasei studenti dell’Iis Grandis di Cu­neo. Il gruppo ogni due settimane, in orario extrascolastico, si confronta su stereotipi e pregiudizi invitando spesso esterni che hanno avuto contatto diretto con i detenuti (volontari di associazioni locali, docenti che hanno insegnato presso gli istituti penitenziari, professionisti che hanno collaborato a diverso titolo nelle carceri e altri ancora) per provare a guardare oltre l’errore commesso dal detenuto e rivedere la persona. Altro appuntamento, che vede nuovamente coinvolti insieme studenti e detenuti, è l’incontro presso l’Istituto Soleri Bertone di Saluzzo-sezione carceraria (all’interno del Carcere di Saluzzo) con l’intervento dello psicologo Ezio Aceti, sul tema della genitorialità di chi si trova in carcere e del vissuto dei figli che devono vivere loro malgrado questa situazione. “Progetti come “Liberi legami” - ha dichiarato Massimo Maria Macagno, presidente del Csv Cuneo - permettono ai giovani di capire che cosa sia il pregiudizio ma anche di capire quanto sia fondamentale poter avere un’occasione di riscatto. Ascoltare le storie di detenuti, ascoltare la loro voglia di ripartire li mette di fronte alla realtà e li aiuta a comprendere e a crescere. L’alta adesione che abbiamo avuto al progetto dimostra quanto sia necessario per i nostri giovani fare esperienze: in questo modo possono capire davvero quanto l’intervento del volontariato possa fare la differenza in situazioni di disagio”. Tanti insegnamenti profondi e diretti per i ragazzi intorno a un tema decisamente importante, che suggerisce una serie di approfondimenti sotto diverse angolazioni. E sempre a proposito di detenuti e società esterna, domani (venerdì) è prevista una giornata significativa in via Ancina 1 a Fossano, dove si svolgerà la presentazione della Bottega Perla. Di cosa si tratta? Di un negozio speciale, aperto da poco su un lato della struttura del carcere di Fossano. Mette in vendita prodotti artigianali di qualità realizzati dagli ospiti dell’istituto, persone con de­sideri di riscatto e che grazie al lavoro riescono a trovare una via per emergere. Qualcuno l’ha definita una “bottega del riscatto”. Si­curamente rappresenta una forma molto efficace di interazione tra il mondo delle carceri e quello oltre le sbarre. Perché è proprio da qui che passa ogni possibilità di reale applicazione delle funzioni alle quali è deputato il carcere: dall’ideale apertura verso l’esterno e da un lavoro di consapevolezza che possa permettere, dove possibile, una futura riabilitazione. C’è realmente bisogno che la detenzione sia vissuta come un periodo di espiazione della pena, ma con una prospettiva per tutti. Iniziative come queste rappresentano una grande possibilità di crescita. Perla Società Cooperativa Sociale è nata nel 2020 con la finalità di porsi come strumento attivo a favore dei soggetti svantaggiati. La sua finalità prioritaria è l’intervento concreto a favore di soggetti fragili creando progetti in rete con altre associazioni, attuando inserimenti lavorativi e sociali, collaborando con l’Ufficio Ese­cuzione Penale Esterna di Cuneo per il reinserimento sociale di persone in stato di detenzione, attivando progettualità in ambito carcerario. Oltre al progetto avviato a Fossano, la Cooperativa gestisce un negozio a Savigliano (Bottega Tam Tam) e si occupa di un’altra iniziativa nell’istituto carcerario di Sa­luzzo. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Sulla facciata del carcere nascerà il murales più grande al mondo L’Unità, 6 febbraio 2025 L’artista Alessandro Ciambrone si è candidato ai Guinness per realizzare un’opera di 4mila metri quadri a tema “libertà”: presentazione il 21 febbraio al Maschio Angioino. Sulla facciata della Casa Circondariale di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta, sorgerà il murales più grande al mondo realizzato da un singolo artista. A tentare la sfida è Alessandro Ciambrone che si è candidato ai Guinness per realizzare un’opera d’arte di 4mila metri quadri (lunga 715 metri e alta 5,6) il cui tema sarà “libertà”. “Il murale rappresenterà i siti del Patrimonio Mondiale UNESCO in tutti i continenti con citazioni di personaggi storici e Premi Nobel su: contrasto alla violenza, diritti umani, pace, valorizzazione del patrimonio culturale, materiale e intangibile” ha spiegato Ciambrone che inizierà a lavorarci a marzo per concludere a maggio 2025, per scalzare l’attuale detentore del record Jorge López de Guereñu che ha dipinto a Bilbao un’area di 3,595 metri quadri nell’ottobre del 2008. Il progetto verrà presentato il 21 febbraio alle ore 18 nella Sala Loggia del Maschio Angioino, in occasione della Giornata Mondiale UNESCO della Lingua Madre. Saranno presenti Donatella Rotundo, Direttrice casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere; Armida Filippelli, Assessora alla formazione professionale Regione Campania; Lucia Castellano, Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria; Alessandra Clemente, Consigliera del Comune di Napoli; Matteo Lorito, Rettore Università di Napoli Federico II; Annamaria Colao, UNESCO Chairholder, Educazione alla salute ed allo sviluppo sostenibile, Università di Napoli Federico Il; Samuele Ciambriello, Garante dei detenuti Regione Campania. Il percorso turistico del murale includerà anche un ristorante nel carcere aperto al pubblico la cui progettazione verrà realizzata da un team di studenti universitari che vincerà il bando aperto ai dipartimenti di architettura e ingegneria delle università italiane (scadenza 17 aprile). Tra le principali opere di Alessandro Ciambrone si ricordano i tre murales di mille metri quadri per gli 800 anni dell’Università di Napoli ‘Federico II’, il murale dell’amicizia Napoli-Rio de Janeiro nella sede del CONI Brasile (RdJ), quello di 450 mq per Lavazza a Piazza Sanità Napoli, i dieci murales per dieci scuole della Regione Campania, quello per il Premio Nobel per la Pace Denis Mukwege (400 mq) nel Comune di Sant’Antimo, l’opera “Amore e Psiche” in Piazza Errico Malatesta a Santa Maria Capua Vetere. È stato altresì direttore artistico delle collezioni estive Carpisa e Yamamay per il concorso internazionale “Icons and soul of Brazil”. Roma. “I volti della povertà in carcere”, un libro e una mostra raccontano gli ultimi Corriere della Sera, 6 febbraio 2025 Con testi di Rossana Ruggiero e fotografie di Matteo Pernaselci, il volume racchiude oltre un anno di raccolta di materiale fotografico e di interviste per mettere in luce l’umanità spesso dimenticata. Dare voce a chi, dietro le sbarre, difficilmente riesce ad averla, i “volti rivolti” alle povertà difficili da immaginare al di fuori, sul sentiero degli invisibili tracciato da papa Francesco: nasce da questa idea “I volti della povertà in carcere”, testi di Rossana Ruggiero e fotografie di Matteo Pernaselci. Il volume racchiude oltre un anno di raccolta di materiale fotografico e di interviste per mettere in luce l’umanità spesso dimenticata, e la povertà nelle varie sfaccettature emersa dai racconti di detenuti e operatori delle carceri italiane. Pubblicato da Edizioni Dehoniane Bologna, con la prefazione del cardinale Matteo Zuppi e la postfazione del professor Filippo Giordano, “I volti della povertà in carcere” è un progetto accompagnato da una mostra fotografica che girerà l’Italia per tutto il 2025, con il patrocinio del Giubileo. A Roma l’esposizione, patrocinata dall’assessorato alla Cultura di Roma Capitale, è allestita dal 5 al 13 febbraio presso la galleria La Pigna - Palazzo Maffei Marescotti (via della Pigna, 13/A). Al vernissage di apertura, il 5 febbraio alle 18, presenti gli autori e monsignor Benoni Ambarus, vescovo ausiliare di Roma, delegato per la pastorale carceraria. Con loro Luca Catalano Gonzaga, fotoreporter fondatore dell’associazione Witness Image, e Daniela De Robert, giornalista Rai e vicepresidente dell’associazione Volontari in carcere. “I volti della povertà in carcere” ha visto la collaborazione della casa circondariale Di Cataldo - carcere di San Vittore di Milano, della fondazione Casa dello Spirito e delle arti di Milano, dell’“Osservatore romano”, dell’“Osservatore di strada” e della società San Vincenzo de Paoli - consiglio centrale di Roma (Giacinto Siciliano, Arnoldo Mosca Mondadori, Andrea Monda, Piero di Domenicantonio, Giuliano Crepaldi). Orari di visita: dalle 15 alle 19, a ingresso libero. Chiusura sabato 8 febbraio pomeriggio e domenica 9 per l’intera giornata. È possibile accedere all’esposizione anche di mattina su prenotazione, chiamando lo 06.6781525 o scrivendo a info@gallerialapigna.net Verità vere (e verità false) di Paolo Giordano Corriere della Sera, 6 febbraio 2025 Il secondo mandato di Trump ci ha mostrato ciò che sappiamo ma che spesso nascondiamo dietro un velo di ipocrisia. Donald Trump ha annunciato che renderà Gaza “la riviera del Medio Oriente”. Pochi giorni prima aveva firmato un ordine esecutivo per “ristabilire la verità biologica” negli spazi pubblici e perfino nelle pubblicazioni scientifiche, corredato da un prontuario che stabilisce una volta per tutte cosa sono un maschio, una femmina, un sesso e così via. Nel frattempo, Elon Musk aizzava gli elettori tedeschi a smetterla di guardare al loro passato novecentesco con un senso di colpa e a mostrarsene invece fieri (votando AfD). Ha lanciato una campagna per rendere di nuovo l’Europa “grande” (grande come quando? e di che Europa sta parlando?), ha invitato noi italiani a opporci alla magistratura per proteggere il confine dall’invasione in corso. La varietà dei rovesciamenti annunciati o già in atto da parte del nuovo governo americano fa girare la testa. Eppure, a guardarli meglio, l’assunzione fondamentale è sempre la stessa: esiste una verità vera, nascosta sotto la superficie delle verità false, lo sappiamo tutti ma solo noi, finalmente, abbiamo il coraggio di mostrarvela. Le verità false sono quelle che ci vengono propinate. Quelle a cui ci adeguiamo per buona educazione, per conformismo. Portano a innumerevoli contraddizioni e comprendono concetti scomodi come l’inclusione, il linguaggio non violento, tutto l’apparato ideologico woke. Sono le verità del sistema. L’ipocrisia. La verità vera, al contrario, è una nota bassa e continua, parecchie ottave al di sotto del suono del mondo. È unica e coerente. Non sappiamo descriverla bene a parole ma la “sentiamo”. È da qualche parte dentro di noi. Ci sussurra che gli stranieri sono sul serio la causa della frattura sociale. Che l’inclusione è una forzatura. Che non è il caso di dare tutto questo peso alle definizioni. Che i generi in fin dei conti sono proprio due. Che la soluzione alla questione mediorientale esiste, solo che nessuno ha avuto il fegato di applicarla, idem per l’Ucraina. La verità vera è “biologica”, preverbale, ferina. È complottista come complottista è ognuno di noi, per natura. Soprattutto appartiene al popolo: un sondaggio recente del “New York Times” ha mostrato che “molti americani che altrimenti disprezzano Donald J. Trump condividono la sua valutazione desolante sui problemi del Paese e sostengono alcune delle sue sprezzanti ricette per risolverli”. Una nota bassa, sì, come una volta si diceva degli istinti. Che questa verità vera sia un’invenzione, anzi una manipolazione è solo un dettaglio. Questo è il suo momento d’oro. L’articolo più rilevante scritto sull’epoca corrente è forse un editoriale breve e asciutto, privo di firma individuale, pubblicato su “Lancet” il 18 gennaio. Si concentra sulla sanità negli anni postpandemici, ma il ragionamento che propone è ormai trasferibile a ogni ambito, al funzionamento stesso del nostro vivere postpandemico, in democrazie liberali in piena crisi d’identità. Dice così: “Il contenuto fuorviante dei social media pervade l’informazione sulla prevenzione e il trattamento dei tumori; può portare i pazienti ad abbandonare trattamenti con basi scientifiche in favore di alternative sponsorizzate dagli influencer; minimizza la gravità di certe condizioni di salute mentale; incoraggia l’uso di integratori non regolamentati che promettono di funzionare per tutto, dalla perdita di peso al ringiovanimento. La disinformazione è diventata uno strumento deliberato per attaccare e screditare gli scienziati e i professionisti della salute per scopi politici. Gli effetti sono distruttivi e dannosi per la salute pubblica. Gli individui di oggi sono costretti a navigare in un miscuglio complesso di realtà e finzione”. Donald Trump e tutti i leader che gli assomigliano fanno risuonare in noi sempre la stessa corda - di scontento e orgoglio ferito, di frustrazione, di senso di peggioramento e senso di assedio -, una corda che oggi esiste in ogni nazione del mondo, che esiste in ognuno di noi, e vibra da anni. La differenza rispetto agli altri, e rispetto al suo primo mandato, è che ormai Donald Trump prende quella corda a martellate e contemporaneamente strappa tutte le altre. In nome della verità che lui stabilisce vera, sulla biologia o sulle migrazioni, sulla questione climatica o mediorientale, la sinfonia complessa e spesso dissonante del mondo si sta riducendo a un’unica nota. Istintuale. Greve. Antiscientifica. Ho questa idea: che alcuni passaggi storici cruciali non possono essere spiegati in modo esaustivo dalla geopolitica, dall’economia o dalle scienze sociali. Richiedono anche altro, un balzo di immaginazione, la psicanalisi e il mito. Jung seppe riconoscere e descrivere la marea montante del nazionalsocialismo in Germania come un impossessamento collettivo da parte del dio Odino, signore delle guerre, possente, che avrebbe condotto il suo popolo alla vittoria (non è un caso che le destre attuali cerchino spesso le loro radici ideologiche in un paganesimo affine). Trump stesso si è dato un’investitura divina, nel discorso di insediamento ha dichiarato: “Sono stato salvato da Dio per rendere di nuovo grande l’America”. Ma quale divinità incarna esattamente? Che forza si è impossessata di noi prima del suo ritorno? Non sono abbastanza ferrato in materia, servono degli esperti per questo, e io li invoco. A loro chiedo: esiste una divinità intrigante, che ti sussurra che tutto è un imbroglio, e mentre lo fa ti sta imbrogliando? Il dio della disinformazione. Riconoscere di che dio stiamo parlando, saperlo nominare è il primo passo necessario. In Italia non comprendiamo ancora le proporzioni che il fenomeno della disinformazione ha preso in America, quanto è pervasivo il “miscuglio complesso di realtà e finzione”, che peso ha avuto nell’esito elettorale. Non arriveremo a contrastarlo dalla via politica, aspettando pazientemente il meccanismo elettorale, non stavolta. Troppo forte il vento che soffia in direzione contraria. La ragione viene spazzata via come niente dal vento messianico, per opporsi serve uno spirito nuovo. E forse è proprio dall’Europa “grande” che dovrebbe soffiare questo spirito, oltre l’oceano, oltre i dazi: il vento di una verità autenticamente vera. Una macchina per comporre i conflitti di Mauro Magatti Corriere della Sera, 6 febbraio 2025 Molti sostengono che l’intelligenza artificiale sia una innovazione ancora più radicale della stampa. E che di conseguenza, essa sia destinata a modificare profondamente le nostre democrazie. Va letto in questa direzione il fatto che Deep Mind, una sussidiaria di Google ha annunciato di stare lavorando a un progetto chiamato “Habermas machine”. Il nome del programma è un omaggio a Jurgen Habermas, uno dei massimi filosofi tedeschi contemporanei, che ha dedicato la sua intera produzione scientifica a spiegare il nesso tra la democrazia e lo sviluppo della sfera pubblica. Intesa come il luogo del confronto razionale tra idee e posizioni, alla ricerca di una intesa. Il programma di Google è un sistema AI progettato per facilitare il dialogo inclusivo e promuovere il consenso nelle discussioni di gruppo, aiutando le persone a trovare un terreno comune durante i processi di deliberazione. La “Habermas Machine” funziona analizzando le opinioni dei partecipanti a una discussione e generando sintesi che riflettono le aree di accordo potenziale. Lo scopo è quello di aiutare “piccoli gruppi a trovare un terreno comune quando discutono di questioni politiche divisive” iterando “dichiarazioni di gruppo basate sulle opinioni personali e sulle critiche dei singoli utenti, con l’obiettivo di massimizzare le valutazioni del gruppo”. L’idea è che, quando è difficile mettersi d’accordo, le macchine possono aiutare a trovare punti in comune. L’esperimento, ancora in una fase prototipale, apre possibilità interessanti. Non è difficile immaginare situazioni in cui il suo impiego possa permettere di sbrogliare discussioni che rischierebbero solo di incancrenirsi. Ma, allo stesso tempo, questa nuova funzionalità pone interrogativi che non vanno sottovalutati. Prima di tutto, occorre capire se gli algoritmi che regolano il funzionamento della macchina non nascondano pregiudizi ideologici in grado di influenzare il risultato della discussione. Si tratta di un problema sorto anche in altre applicazioni e a cui non è facile rispondere. E che dovrebbe pertanto consigliare una certa cautela. In secondo luogo, i primi esperimenti hanno mostrato che i partecipanti tendono a preferire le affermazioni generate dalle macchine a quelle prodotte dagli altri partner della discussione. Ciò ha come effetto la riduzione della diversità delle opinioni all’interno del gruppo. Una tendenza che i ricercatori interpretano positivamente (“l’IA trova un terreno comune tra i partecipanti con opinioni diverse”). Ma potrebbe invece essere il sintomo che la macchina tende a ingenerare atteggiamenti di acritica sottomissione: come se la macchina avesse un’autorità superiore che non può essere contraddetta. Rimane poi da chiedersi quali possano essere gli effetti di lungo periodo di un’innovazione di questo tipo sulla salute della democrazia. Per gli ottimisti, gli esperimenti di Google aprono interessanti possibilità per nuovi modelli di democrazia deliberativa. Mettendo a disposizione strumenti efficaci per confrontare le opinioni e arrivare a decisioni comuni. Per i critici, muoversi su questa strada significa indebolire competenze comunicative e capacità di dialogo che solo le basi stesse di quella sfera pubblica che Habermas ha posto all’origine delle moderne democrazie. Risolvere controversie e costruire consenso sono due funzioni essenziali in una società avanzata. Che, diventando ogni giorno più complessa, si trova nella necessità di dotarsi di nuovi strumenti per non sprofondare nella conflittualità. Avanzare in questa direzione comporta comunque effetti collaterali di non poco conto. Il problema è che il digitale non “pensa”, ma elabora stocasticamente i dati. Il che significa che i contenuti (testi, immagini, suoni) sono elaborati in modo statistico, a prescindere dal senso. O meglio nell’unico senso ammesso, che è quello della efficienza realizzativa: raggiungere lo scopo nel modo migliore possibile. All’interno di tale cornice, la scatola nera che usa i dati non riconosce il senso (i simboli, i giochi di parole, l’ironia, le connotazioni… con effetti grotteschi, per esempio sulle traduzioni simultanee) ma solo le correlazioni. Non interpreta, calcola. Ottiene risultati impressionanti, ma solo sulla base di ciò che è già presente; a volte commette errori grossolani e rimane esposta a manipolazioni difficili da smascherare. Creando connessioni insensate, anche se apparentemente coerenti. Non sappiamo cosa Habermas pensi degli studi di Deep Mind che portano il suo nome. Ma di sicuro la strada intrapresa costringerà a domandarsi quale forma dovrà avere la democrazia all’era della intelligenza artificiale. La risposta per il momento non c’è. Meglio prepararsi per tempo. Migranti. Il cattivismo affogato tra i cavilli di Flavia Perina La Stampa, 6 febbraio 2025 La maggioranza esce indebolita dall’ennesima tempesta sul tema immigrazione dopo Cutro e il caso Albania. L’orgoglio cattivista fa spazio a una difesa in punta di diritto tra date, orari e frasi in inglese per far scudo alla leader. Dal punto di vista della destra il d-day parlamentare sul caso di Osama Almasri lascia l’amaro in bocca: costretti a passare sotto le forche caudine di un confronto parlamentare che non volevano, costretti ad appigliarsi a cavillose ricostruzioni, costretti a inghiottire l’accusa di codardia rivolta alla premier, la più infamante per un mondo che ha sempre esaltato il coraggio e la capacità di metterci la faccia. Vorrebbero dire la verità - arrestare Almasri avrebbe esposto l’Italia a ritorsioni incontrollabili - ma non possono, e in qualche modo è una vendetta della storia che li ha visti a lungo dall’altra parte, a denunciare gli accordi indicibili del Lodo Moro, le loro luttuose conseguenze, le opache intese che negli anni degli attentati arabi misero in sicurezza il Paese in cambio del libero transito di terroristi e avventurieri di ogni fazione. La delega delle ricostruzioni ai ministri Matteo Piantedosi e Carlo Nordio costituisce uno scudo alla presidenza del Consiglio ma è al tempo stesso un atto di rinuncia politica. Lo hanno capito tutti, lo sanno tutti. E anche per questo, gli interventi dai banchi della maggioranza sono alquanto tiepidi, lontani dal piglio gladiatorio di analoghe occasioni. Forse il solo a non aver fiutato l’aria è proprio Nordio, il mattatore della giornata tra citazioni in latino, frasi in inglese, un turbine di date, orari, aggettivi estremi - l’atto della Corte Penale Internazionale era “eccentrico”, “viziato”, “praticamente nullo”, non tradotto in Italiano - e paragoni storici col processo di Norimberga che fanno rumoreggiare l’aula. “La legge è legge, non si scavalcano le procedure”, dice, mentre i volti impietriti dei colleghi cercano di avvertirlo che sta esagerando, che tanto impegno sofistico è eccessivo e rischia di trasformarlo (come poi accuserà l’opposizione) in difensore d’ufficio di un torturatore. In Transatlantico si discute se la toppa sia peggiore del buco, e forse lo è. La maggioranza non esce benissimo dall’ennesima tempesta sul tema immigrazione, che è la sua forza politica - come riconoscono i più onesti - ma anche la sua dannazione. La forzatura delle regole del gioco ha provocato i tre incidenti più significativi della legislatura. Il caso del naufragio di Cutro, innanzitutto, sfociato di recente nella richiesta di rinvio a giudizio di sei tra finanzieri e militari della Capitaneria di porto, e anche lì il governo e la stessa Giorgia Meloni inciamparono in una ricostruzione piena di buchi oltre che nella rabbia dei parenti delle oltre novanta vittime ignorati da un cerimoniale scombinato. Mesi dopo, la premier ammise che fu il momento più difficile del suo esordio da premier, e chissà che non sia nata in quella occasione la determinazione a evitare i riflettori davanti a questioni umanitarie di portata insostenibile, dove l’approccio cattivista delle destre si scontra con i sentimenti di un Paese ancora capace di commuoversi per le sorti di donne e bambini. Secondo inciampo, l’affaire Albania, che doveva essere la bacchetta magica di espulsioni rapide a decine, centinaia, a migliaia ogni anno, e a seguire una catena di interventi via decreto per bypassare i giudici amici degli immigrati, bloccare o consentire ricorsi a seconda della convenienza, tutto inutilmente. Tre viaggi a vuoto, che pure se fossero andati a buon fine avrebbero spostato verso Tirana appena una sessantina di rimpatriabili, e per di più l’umiliazione di dover attendere una sentenza della Corte europea per ottenere (se accadrà) il via libera ai progetti dell’esecutivo. Il caso Almasri è il terzo fatto “che non ci voleva”, soprattutto perché chiama in causa due elementi al centro della narrazione del governo: la celebrata forza e prestigio internazionali riconquistati dall’Italia e la sua fermezza nel tenere testa ai regimi che controllano i flussi dell’immigrazione clandestina. Se è vero - come è stato ipotizzato nel dibattito - che la Corte penale internazionale ha tutelato Germania, Belgio e Inghilterra e ha scelto noi per un arresto scomodissimo, significa che la forza italiana è minore di quanto decantato. Se è vero che sarebbe stato pericoloso non rimpatriare immediatamente Almasri, vuol dire che questi libici non ci temono e rispettano poi così tanto, anzi. “Fra due giorni non se lo ricorderà più nessuno”, dicono i parlamentari avviandosi all’uscita, e ci si consola così, e magari è vero. Sta di fatto che il piglio da bersagliere con cui il governo aveva preso di petto la questione dell’immigrazione è sostituito da una più cauta marcia. Dove risuonavano le nuove parole d’ordine della difesa dei confini e del contrasto al traffico - lotta senza quartiere, orbe terracqueo, eccetera - ora ci si difende in punta di cavillose ricostruzioni sul dove, quando, come, e sugli ostacoli di tradurre il common law in cui si esprime la Corte penale internazionale nel civil law della nostra impostazione giuridica (sì, pure questo è stato detto per spiegare come Almasri sia finito a stappare champagne a Tripoli invece che in galera). Migranti. “Non è una scafista”, Maysoon Majidi assolta di Silvio Messinetti Il Manifesto, 6 febbraio 2025 Non ha commesso il fatto: l’attivista curdoiraniana è stata scagionata dalle accuse. La pm l’aveva definita una “hostess di bordo”. Alle 17.02 di ieri è terminato l’incubo di Maysoon Majidi, l’attivista e regista curdoiraniana imputata a Crotone con l’accusa di concorso in favoreggiamento dell’immigrazione irregolare. Un processo kafkiano, una vicenda grottesca e quasi 400 giorni di calvario che si sono conclusi con la sibillina formula di rito: “Assolta per non aver commesso il fatto”. Maysoon non era una scafista, “una hostess di bordo” come incredibilmente l’ha definita ieri nella sua requisitoria fiume di 95 minuti la pm Rossella Multari. Maysoon Majidi è una “perseguitata politica e non una migrante economica, scappata dall’Iran per sfuggire alle persecuzioni del regime. Trentasette organizzazioni hanno accertato che ho collaborato in tutti questi anni con loro”: così lei stessa si è definita durante le brevi dichiarazioni spontanee in apertura di udienza. Per la prima volta ieri è arrivata nella città pitagorica da donna libera dopo la scarcerazione del 2 ottobre. Si è presentata nell’aula 3 delle udienze penali del tribunale di viale Mazzini alle 11. Al collo una kefiah con i colori della bandiera del Kurdistan e nello zaino anche la prima pagina del nostro giornale a lei dedicata. È rilassata, ma solo in apparenza. In realtà, la tensione c’è eccome. L’abbraccio della rete Free Maysoon stempera un po’ gli animi. L’aula è gremita in ogni ordine di posto. L’unico politico presente è il consigliere regionale Ferdinando Laghi, insieme a Francesco Saccomanno del Prc. C’è l’Arci con il presidente provinciale Filippo Sestito. E poi delegazioni da Catanzaro, Reggio, Cosenza, Vibo Valentia. Attivisti giunti persino da Brindisi per un caso che ha scosso l’opinione pubblica. La difesa, per una precisa strategia processuale, ha rinunciato all’esame dell’imputata e la parola è passata alla pubblica accusa. Nella requisitoria la pm ha attaccato subito la stampa e i mezzi di informazione “per il processo mediatico imbastito, mentre la procura ha evitato show televisivi”. È una requisitoria che tende a dimostrare la complicità di Maysoon con il sodalizio che avrebbe organizzato la traversata dalla Turchia. Gli elementi a suffragio della tesi sono però deboli, capziosi e generici. Per cui ha buon gioco il difensore Gianfranco Liberati nello smontare l’impianto accusatorio nel corso della sua arringa: “Le ricevute di avvenuto pagamento del viaggio confermano che Maysoon era semplicemente una passeggera a cui, come tutti i migranti, era stato sequestrato il telefonino che infatti risulta spento dal 26 al 30 dicembre”. In quanto alla sua presunta fuga dopo lo spiaggiamento, in località Gabella, su un tender insieme ad altri cinque naufraghi tra cui il capitano e il fratello Rezhan, essa fu dovuta unicamente alla paura di essere espulsa in Iran. A fronte della richiesta di condanna a 2 anni e 4 mesi con una multa monstre di 1 milione di euro, la difesa ha reiterato la richiesta di assoluzione con formula piena. Dopo una breve Camera di consiglio, il boato del pubblico in aula ha fatto da sottofondo alla lettura del dispositivo da parte del presidente Gianfranco D’Ambrosio. “Donna, vita e libertà” scandiscono i 50 attivisti presenti. Soddisfatto il difensore di Maysoon per l’assoluzione: “La mia assistita è stata vittima due volte, dei trafficanti e di una indagine che l’ha quasi distrutta nel fisico e nell’animo. Non è mai facile prevedere una sentenza ma c’erano tutti i presupposti perché fosse di assoluzione piena e così è stato. Il pubblico ministero ha perorato per oltre un’ora la sua causa. Ha presentato anche una memoria corposa per sostenere quanto, a mio avviso, era insostenibile”. E infine: “Nella mia arringa difensiva ho fatto rilevare tutte le incongruenze dell’impianto accusatorio, già emerse in occasione dell’escussione dei testimoni a favore di Maysoon dello scorso 22 ottobre, data del suo rilascio. E la sua serietà, la volontà di porre fine a questa bruttissima pagina della sua vita”. Passata la paura, tutti a festeggiare in un circolo Arci. Migranti. Tutto quello che non torna nella ricostruzione di Nordio sul caso Almasri di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 6 febbraio 2025 “Il ministro non è un passacarte”, rivendica il Guardasigilli Carlo Nordio. E spiega che nel suo ruolo di “organo politico” ha il “potere-dovere di interloquire con altri organi dello Stato, laddove se ne presenti la necessità, che in questo caso si presentava eccome”. Dunque il ministro della Giustizia che ha di fatto disapplicato il mandato d’arresto emesso dalla Corte penale internazionale contro il generale libico Najeem Osama Almasri, determinando la scarcerazione del detenuto, ha discusso con i colleghi di governo. Con il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, c’è da presumere, ma anche con il sottosegretario delegato alla sicurezza nazionale Alfredo Mantovano e, verosimilmente, con la stessa premier Giorgia Meloni. Cioè i quattro indagati la cui posizione è al vaglio del Tribunale dei ministri, dopo la trasmissione degli atti da parte del procuratore di Roma. Nella terza versione governativa sulla liberazione del libico accusato di crimini di guerra e contro l’umanità - dopo la mancata interlocuzione preventiva tra Corte penale e ministero, e la responsabilità attribuita ai giudici della corte d’appello di Roma che proprio quell’assenza di interlocuzione avevano rilevato - l’addebito ricade ora sulla stessa Cpi che avrebbe sbagliato a scrivere la richiesta d’arresto. Il cuore della relazione di Nordio al Parlamento è un asserito errore sulle date di commissione dei reati contestati: “In poche parole, in questo mandato di arresto si oscillava dal 2011 al 2015 e non si riusciva a capire se il reato fosse iniziato nel 2011 o nel 2015; non è una cosa di poco conto, trattandosi di un reato continuato e poiché in quei quattro anni, secondo la stessa Corte, sarebbero stati commessi numerosi atti di stupro, violenza, aggressione, omicidio, eccetera”. Per questo vizio - rilevato anche da una delle tre giudici della Corte che dovevano emettere il provvedimento, e che per questo ha votato contro - il Guardasigilli non ha dato seguito alla richiesta giunta dall’Aia. “Un atto, secondo noi, radicalmente nullo”, ha sentenziato Nordio. Ma quando la Procura generale di Roma gli si rivolse sollecitando “le determinazioni in ordine all’attività da porre in essere”, cioè il via libera all’arresto che avrebbe sanato i vizi procedurali rilevati da magistrati, il ministro non ha fatto cenno alle “incongruenze” rilevate ieri. Si limitò a non rispondere. Ma soprattutto, Nordio ha omesso di sottoporre i rilievi avanzati in questa nuova ricostruzione alla Corte dell’Aia in tempo utile per rimediare: solo il 24 gennaio (quando già Almasri era tornato in Libia da tre giorni con un volo di Stato italiano) la Cpi ha emesso un nuovo provvedimento senza le incongruenze sottolineate da Nordio. Eppure nella serata del 18 gennaio, insieme al mandato d’arresto, la cancelleria della Corte inviò all’ambasciata italiana in Olanda (che l’indomani inoltrò tutto a Roma) una nota in cui indicava nome, numero di telefono ed email del funzionario da contattare “qualora le autorità italiane dovessero individuare problemi che possano impedire l’esecuzione della presente richiesta di cooperazione”. Una procedura prevista dall’articolo 97 dello Statuto di Roma con cui l’Italia ha aderito alla Cpi. Nulla di tutto ciò è avvenuto, come la stessa Corte ha comunicato dopo la liberazione del generale libico, preannunciando la richiesta di chiarimenti all’Italia. Il paradosso è che ieri Nordio ha informato il Parlamento dell’intenzione di chiedere lui chiarimenti alla Cpi sui motivi di un mandato d’arresto scritto, a suo dire, così male da non poter essere eseguito. Dei presunti errori commessi all’Aia non c’è traccia nemmeno nella risposta inviata nei giorni scorsi dal Gabinetto del ministro alla Corte, nella quale ci si limita a ricordare gli articoli della legge che regola i rapporti con l’Italia, e si dà atto che la Corte d’appello di Roma ha scarcerato il libico ricercato, senza fare cenno nemmeno alla richiesta della Procura generale rimasta inevasa. È prevedibile che il confronto-scontro tra Roma e l’Aia prosegua a colpi di norme e commi, e possa giungere fino alle Nazioni Unite. Con l’Italia attestata sulla competenza attribuita al ministro “di ricevere e dare seguito alle richieste della Corte”, senza essere un passacarte ma consultandosi con chi di dovere, e la Cpi sulla disposizione - secondo la stessa legge - in base alla quale “il ministro dà corso” alle richieste “trasmettendole al procuratore generale perché vi dia esecuzione”, senza valutarne merito e fondatezza. Nella sua informativa Nordio ha aggiunto il particolare di essere indagato (probabilmente solo lui e non gli altri esponenti di governo coinvolti) per omissione d’atti d’ufficio; un’integrazione fatta dal procuratore di Roma Francesco Lo Voi prima di inviare il fascicolo al tribunale dei ministri. Questa ipotesi non era contenuta nella denuncia dell’avvocato Li Gotti, ma è stata fatta perché spetta al pm indicare i possibili reati, anche quando non è titolato a indagare come in questo caso. Il ministro dell’Interno Piantedosi, invece, ha ribadito la necessità di espellere “un soggetto pericoloso per la sicurezza nazionale e l’ordine pubblico” tornato libero. Dando la versione ufficiale sulla partenza anticipata (da Roma per Torino) dell’aereo che ha riportato Almasri in Libia: la mattina del 21 gennaio, prima che i giudici lo scarcerassero. Non per una decisione politica già presa, bensì per una “iniziativa preventiva, aperta ad ogni possibile scenario, ivi compresa l’eventuale necessità di trasferimento in altro luogo di detenzione”. Migranti. Amichevoli, ma solo con i torturatori di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 6 febbraio 2025 Tutti i Governi mentono, ma solo alcuni riescono a farlo così spesso e così male come il nostro. “Gli atti sono arrivati di notte. E poi erano in inglese. E poi avevano una data sbagliata”. Con scuse sempre meno credibili, il Governo prova a giustificare la liberazione del torturatore libico Elmasry. L’informativa di Nordio e Piantedosi in parlamento arriva tardi ed è solo una tappa del patetico oscillare tra tesi opposte. Cavilli e formalità sono la specialità del ministro della giustizia, per il quale la richiesta della Corte penale internazionale di processare Elmasry non stava in piedi (non lo aveva mai detto, ma adesso Nordio ci spiega che il suo silenzio andava interpretato così). Al contrario, per il ministro dell’interno le accuse della Corte dell’Aja all’aguzzino capo di Tripoli erano tanto serie e credibili da rendere necessaria la sua immediata espulsione. Con un aereo di Stato e avvertendo per tempo i libici in modo che organizzassero l’accoglienza. Tutti i governi mentono, ma solo alcuni riescono a farlo così spesso e così male come il nostro. È chiaro da tempo che Elmasry è stato riaccompagnato in Libia non per ragioni giuridiche né di sicurezza ma per convenienza politica. Una convenienza che trova fondamento negli accordi firmati dall’Italia con le bande libiche al potere, quelle che con indosso le divise da ufficiali fanno soldi con il traffico di esseri umani e incassano nel frattempo i finanziamenti di Roma e Bruxelles. La responsabilità di quegli accordi non è solo della destra che li tiene in piedi, è soprattutto del centrosinistra di Gentiloni-Minniti che li ha inaugurati e di Conte-Lamorgese che li ha prorogati. Una colpa originaria che è piombo nelle ali di Pd e 5 Stelle: più di tanto non possono librarsi sulle disgrazie e le figuracce di Meloni. La vicenda dimostra una volta di più quanto inutilmente il nostro paese si sia coperto gli occhi di fronte ai campi di tortura di Tripoli. È una sciagura etica ma anche pratica. Siamo ricattabili più di prima, visto che siamo costretti a riaccompagnare velocemente a casa con tante scuse un aguzzino come Elmasry. Il quale, con buona pace dei patrioti italiani, criminalmente persegue l’interesse personale suo, non quello della nazione di Meloni. Evidenti le bugie, evidente anche la tentazione del governo italiano di far cadere l’ultimo velo e rivendicare la complicità con i doganieri di carne umana. Porta lì l’attacco alla Corte penale internazionale, che comincia con i cavilli di Nordio e salirà di tono quando dall’Aja presenteranno il conto delle nostre violazioni. Il diritto internazionale non è più di moda e una volta che si è cominciato a metterlo sotto i piedi non solo nei fatti ma anche nei programmi come a Gaza, all’Italia sovranista basterà inserirsi nella scia per sentirsi al livello di Trump e Netanyahu. Il segreto di Stato sarà l’ultima tappa, necessaria per non doversi aggrappare al salvacondotto politico se il Tribunale dei ministri volesse prendere sul serio le accuse dei torturati da Elmasry. Del resto già tanti campioni di realpolitik che si compiacciono del loro cinismo invitano Meloni ad apporre il segreto senza altri indugi. Chi ha studiato diritto e scienza politica sulle serie tv ci insegna che i governi fanno da sempre operazioni sotto copertura, non sanno che sta nella possibilità di chiederne conto la differenza tra democrazia e autocrazia. Ma anche la democrazia è fuori moda. La sola legge che invocano è quella del padrone. Lo racconta anche la storia di Maysoon Majidi, che i lettori e le lettrici del manifesto (e pressoché solo loro) conoscono dall’inizio. Da quando oltre un anno fa è stata arrestata sulle coste calabresi, appena sbarcata e sopravvissuta a stento a un viaggio angosciante, accusata d’ufficio dell’assai presunto reato di “scafismo”. In pratica sarebbe stata lei la trafficante. È in realtà una giornalista e regista, una femminista e un’attivista curda iraniana, in fuga dal regime di Teheran. Una di quelle ragazze del movimento “Donna, vita, libertà” alla cui sorte, a parole, anche i sovranisti più duri dicono di tenere. Ma la giustizia italiana l’ha tenuta in carcere per dieci mesi. Comprimendo a ripetizione i suoi diritti di difesa. Ha dovuto fare lo sciopero della fame. E non poteva certo fuggire, non solo perché a lei non avrebbero mai dato l’aereo di Stato che hanno concesso a Elmasry. Ma perché nel suo paese l’avrebbero impiccata, non accolta con caroselli in piazza. Ieri finalmente Maysoon è stata riconosciuta innocente dal tribunale di Crotone, malgrado un’accusa grossolana e un codice penale piegato alle esigenze della propaganda e non a quelle del diritto volessero per lei anni e anni di galera. Libera e innocente, ha però già pagato pesantemente colpe che non aveva. Lei no. Migranti. Nordio contesta la Cpi. Ma troppi punti sono oscuri di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 6 febbraio 2025 Il fact checking: l’espulsione lampo di Almasri solleva dubbi sulla cooperazione dell’Italia con la Cpi. Clima infuocato alla Camera durante l’informativa del governo sulla vicenda riguardante Njeem Osama Almasri, capo della polizia giudiziaria libica, nonché torturatore del carcere di Mitiga, espulso dall’Italia il 21 gennaio scorso perché considerato un “soggetto pericoloso”. Nei confronti di Almasri, arrestato a Torino il 19 gennaio e poi rispedito a Tripoli con un aereo dei servizi segreti, la Corte penale internazionale ha spiccato un mandato d’arresto per crimini contro l’umanità e crimini di guerra (l’accusa si riferisce, tra le altre cose, a reati quali l’omicidio, la tortura, la violenza sessuale, la schiavitù e la riduzione in schiavitù per sfruttamento sessuale). Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha assunto le vesti di “difensore” del governo - dopo quarant’anni di carriera come pm - e ha cercato di smontare pezzo per pezzo, in fatto e in diritto, l’iniziativa della Corte penale internazionale, soffermandosi sulla scansione temporale che ha contraddistinto la notifica del mandato d’arresto internazionale alle autorità italiane. Una disamina tecnica, in cui, prima di tutto, il guardasigilli ha voluto chiarire il proprio ruolo. Ha infatti affermato che “il ministro non è un passacarte”, “il ruolo del ministro non è semplicemente quello di un organo di transito delle richieste ma di un organo politico che deve meditare il contenuto in funzione di un eventuale contatto con gli altri ministri interessati, con altre istituzioni o con altri organi dello Stato”. Non sono mancate “incursioni” politiche per replicare alle proteste, sia alla Camera che al Senato, provenienti dall’opposizione. La vicenda Almasri sta provocando numerose polemiche per come è stata gestita con il successivo intervento della procura di Roma, che ha inviato una informazione di garanzia allo stesso guardasigilli Nordio, oltre che alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni, al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e al sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano. Il ministro della Giustizia ha definito il mandato d’arresto proveniente dall’Aia un atto “connotato di imprecisioni, omissioni, discrepanze e conclusioni contraddittorie”. Un atto incoerente per il governo e “radicalmente nullo”. Sorge però su questo punto un dubbio. L’esponente di un governo, nel nostro caso il ministro della Giustizia, può sindacare nel merito la richiesta di arresto della Corte penale internazionale, dichiarandola nulla, accantonando la legge n. 237 del 2012 che contiene le norme per l’adeguamento alle disposizioni dello Statuto della Cpi? Si apre un precedente che indebolisce l’architettura su cui si fonda il funzionamento della Corte dell’Aia con un ulteriore rischio: l’Italia abbandona lo Statuto di Roma con una valutazione molto discrezionale del provvedimento proveniente dall’Olanda. L’intervento di Nordio ha avuto tra le prime basi argomentative la nullità del mandato d’arresto con riferimento alla giurisprudenza nazionale sulla nullità delle ordinanze cautelari per mancanza, ad esempio, di traduzione nella lingua madre dell’imputato. Un tema debole, dato che in Italia esiste sempre la possibilità di differire la traduzione di un’ordinanza di custodia cautelare successivamente alla carcerazione nei casi d’urgenza. Fragile, inoltre, è apparsa la lamentela sul testo in inglese e non in italiano del mandato d’arresto. L’inglese è una delle lingue ufficiali dell’Unione europea. Nordio si è poi soffermato su una serie di elementi, a suo dire fondamentali, per fornire un quadro il più chiaro possibile dell’intera vicenda caratterizzata da una incertezza di fondo che ha fatto traballare l’iniziativa intrapresa dai giudici dell’Aia. Il richiamo è stato a diversi paragrafi del mandato d’arresto, a partire dal 5 e dal 7, nei quali si rinviene, rispetto ad alcuni fatti presi come riferimento per ricostruire il quadro accusatorio a carico di Almasri e agli anni di riferimento - il 2011, il 2015 e il 2024 - un “un incomprensibile salto logico”, con “una contraddizione che, almeno secondo la procedura penale italiana, renderebbe viziato l’atto” in quanto “le conclusioni risultavano completamente differenti sia rispetto alla parte motiva che rispetto alle stesse conclusioni delle accuse”. Il ministro ha richiamato il paragrafo 101, con il quale si conclude il provvedimento della Cpi, con alla base un riferimento temporale: i crimini commessi nel carcere di Mitiga dal 15 febbraio 2011 in poi e il rilievo di “una insanabile e inconciliabile contraddizione riguardo un elemento essenziale della condotta criminale dell’arrestato, riguardo al tempo del delitto commesso”. Nordio si è poi soffermato su un altro punto, a suo dire, molto importante: le perplessità manifestate dalla giudice della Cpi, Socorro Flores Liera, con la contestazione del difetto di giurisdizione in riferimento all’arco temporale connesso alle violenze che sarebbero state consumate da Almasri. Le argomentazioni della Liera, ha precisato il ministro della Giustizia, non sono state tempestivamente trasmesse dalla Cpi, mancando il relativo verbale. A questo punto Carlo Nordio ha svelato quello che, a suo dire, è stato un “pasticcio” della Corte penale internazionale. Quest’ultima si è affrettata il 24 gennaio, tre giorni dopo il ritorno di Almasri in Libia, a correggere il precedente mandato di arresto datato 18 gennaio, qualificando “il secondo pronunciamento come una mera integrazione formale”. “Il vizio genetico nell’ordinanza del 18 gennaio - ha spiegato il ministro della Giustizia - è certamente il mutamento della data del commesso reato” con l’indicazione dei reati addebitati ad Almasri, tutti commessi dal febbraio 2015. I vizi rilevati dal guardasigilli con l’invio della richiesta del 18 gennaio hanno causato pertanto la mancata iniziativa di via Arenula. Secondo Nordio, sono stati “pienamente giustificati ed impedivano qualsiasi approccio al Procuratore generale presso la Corte d’Appello di Roma, quantomeno prima di aver chiesto e ottenuto chiarimenti dalla Corte penale internazionale come previsto proprio dall’articolo 2 della legge 237 del 2012”. Un fatto che ha giustificato il silenzio del ministro della Giustizia con la conseguente scarcerazione del torturatore di Mitiga. Tutti i rilievi sulla nullità del mandato d’arresto della Corte penale internazionale, espressi davanti al Parlamento, non risolvono le tante questioni emerse nelle ultime due settimane sollevate in Parlamento dall’opposizione, molto critica e insoddisfatta dalle risposte dei ministri Nordio e Piantedosi presentatisi in aula. Il guardasigilli ha addirittura anticipato un’iniziativa contro l’Aia per “attivare i poteri che la legge mi riconosce e chiedere alla Cpi giustificazione circa le incongruenze di cui è stato mio dovere riferirvi”. Fino ad ora nessuna replica è giunta dalla Corte penale internazionale. In molti ritengono inevitabile una presa di posizione dei magistrati dell’Aia per difendere il proprio operato sul caso Almasri e legittimare la propria esistenza. Il tribunale fortemente voluto anche dall’Italia, consacrato con lo Statuto di Roma nella calda estate del 1998, ingenerosamente ridicolizzato ieri da alcuni parlamentari del centrodestra, probabilmente affronta il periodo più delicato della propria storia. Migranti. La “difesa dei confini” è in mano a un torturatore… nessuno se n’era accorto prima? di Antonio Gagliano Il Dubbio, 6 febbraio 2025 Almasri è stato riportato a casa con ogni riguardo seppure tutti riconoscono che si tratti, o si possa trattare, di un torturatore, di uno spietato criminale. Il Governo dell’Italia, la “nazione sovrana” che si declama essere tra le dieci potenze economica del mondo, è costretto a riconoscere che quell’arresto avrebbe comportato conseguenze gravi sull’ordine pubblico causa l’invasione di centinaia di migliaia di migranti in poco tempo. Vicenda Almasri, ovvero la fiera delle ipocrisie. Cominciamo dal tanto declamato “atto dovuto”. L’esposto dell’avvocato Li Gotti imponeva, secondo il procuratore di Roma, l’iscrizione nel registro delle notizie di reato e la trasmissione degli atti al Tribunale dei Ministri. Prima ipocrisia: Li Gotti, come egli stesso ha sottolineato, non ha fatto altro che riferirsi a fatti già da giorni pubblicati dalla stampa. A questo punto, però, non si riesce a capire come quei fatti erano privi di rilievo penale sino a quando li hanno divulgati i più importanti giornalisti italiani ed hanno invece assunto miracolosamente quel rilievo solo quando l’avvocato Li Gotti li ha riassunti nel suo scritto. Insomma, o il procuratore di Roma ha una considerazione troppo bassa di tutta la stampa italiana e non la degna di considerazione qualsiasi cosa possa scrivere, oppure ha una troppo alta opinione dell’avvocato Li Gotti. Seconda ipocrisia: si tratterebbe di un atto “dovuto” e privo di alcun apprezzamento o valutazione da parte della Procura. Effettivamente l’articolo 6 comma 2 della legge costituzionale n. 1 del 1989 prevede che il procuratore della Repubblica entro 15 giorni trasmetta al Tribunale dei Ministri, “omessa ogni indagine”, ogni rapporto o denunzia di reati ministeriali. Ma che significa? Non si può seguire un’interpretazione che conduca ad assurdi paradossi: se ad esempio l’avvocato Li Gotti avesse segnalato alla procura di aver saputo che il presidente del Consiglio aveva alzato il gomito tra le sale di Palazzo Chigi e tenuto atti sconvenienti avanti una delegazione straniera, il suo “rapporto” sarebbe stato egualmente trasmesso al Tribunale dei ministri? È chiaro che c’è una valutazione di merito: la procura iscrive e trasmette perché considera che i fatti oggetto dell’esposto sono - almeno astrattamente - riconducibili ad un’ipotesi di reato, per cui si chiede di attivare l’iter che può sfociare nella richiesta di un giudizio e di una condanna. Perché, allora, il procuratore di Roma non deve dire a chiare note che per lui quei fatti possono costituire reato e che non si riscontra alcun insindacabile atto politico al fine della tutela degli interessi dello Stato? Non si può iscrivere nel registro di reato (e nel caso comunicare al Tribunale dei Ministri) senza credere che si sia in presenza di un reato! Perché lanciare il sasso cercando di nascondere la mano? Terza ipocrisia. Prima versione di Meloni & co.: Almasri libero nonostante l’ordine di arresto della Cpi? Nulla sappiamo, nulla abbiamo visto o sentito, non c’eravamo o forse, se c’eravamo, dormivamo. E l’aereo dei servizi? Magari una prestazione occasionale del pilota, che quando può cerca di arrotondare con qualche lavoretto extra… Insomma, hanno essi stessi mostrato imbarazzo per non aver fatto arrestare Almasri ovvero hanno avuto paura di quello che hanno fatto o omesso di fare e, ipocritamente, hanno cercato di scaricare la responsabilità sulla magistratura e sulla Corte penale internazionale. Quarta ipocrisia, quella di cui si è parlato meno nonostante sia la più grave. Almasri è stato riportato a casa con ogni riguardo seppure tutti riconoscono che si tratti, o si possa trattare, di un torturatore, di uno spietato criminale. Il governo dell’Italia, la “nazione sovrana” che si declama essere tra le dieci potenze economica del mondo, è costretto a riconoscere che quell’arresto avrebbe comportato conseguenze gravi sull’ordine pubblico causa l’invasione di centinaia di migliaia di migranti in poco tempo. Ecco appunto l’ipocrisia più grave: far finta di non sapere che dopo anni di roboanti proclami sulla capacità di frenare l’immigrazione clandestina, di innalzare blocchi invalicabili, di fruire della utile cooperazione degli Stati di provenienza attivando canali legali e fermando quelli illegali, la protezione della “nazione” italiana dalla invasione di stranieri non graditi è affidata ad un feroce criminale ed a chissà quanti altri come lui. Insomma, con buona pace della “sovranità” di cui tanto ci si vanta, siamo messi nelle mani di Almasri. Migranti. L’ennesimo decreto Albania anti-toghe: addio Costituzione di Silvia Truzzi Il Fatto Quotidiano, 6 febbraio 2025 Non senza un certo imbarazzo ci tocca tornare sulla telenovela dei migranti deportati in Albania: sabato altri 43 sono rientrati a Bari, dopo la solita permanenza di un quarto d’ora dall’altra parte dell’Adriatico. I nuovi magistrati non hanno disposto la convalida dei provvedimenti di trattenimento per i migranti e dunque sono rientrati (tutti!) in Italia, facendo imbufalire la presidente del Consiglio che ad Atreju aveva tuonato, con aria parecchio minacciosa: “Funzioneranno, dovessi passarci ogni notte fino alla fine del governo”. Come ricorderete, l’ultima trovata, in novembre, era stata spostare la competenza dalle sezioni immigrazione dei tribunali per trasferirla alle corti d’appello. Le quali, come ben spiega il nome, dovrebbero giudicare in appello, cioè in seconda istanza e sono, oltretutto, già sovraccariche di lavoro. Purtroppo, pure cambiando il giudice, il risultato è stato lo stesso. E dunque adesso è allo studio un nuovo decreto per aggirare l’ennesima sentenza: se ne sta occupando il ministero della Giustizia (stiamo in una botte di ferro) con Palazzo Chigi, dove il dossier è seguito dal sottosegretario Mantovano di persona personalmente. L’obiettivo è evitare che nelle corti d’appello finiscano gli stessi magistrati delle “sezioni immigrazione” depotenziate a fine anno. I capigruppo di FdI a Camera e Senato, Galeazzo Bignami e Lucio Malan hanno messo nero su bianco (o tempora o mores) che “tutti e 5 i giudici che hanno firmato i provvedimenti della corte di appello, provengono dalla sezione specializzata del tribunale di Roma. Il governo e il Parlamento hanno trasferito la competenza alla Corte di appello per sottrarla alle sezioni del tribunale e loro migrano in massa: una presa in giro del Parlamento”. L’idea sarebbe di vietare esplicitamente i “prestiti” di personale tra gli uffici giudiziari, o di utilizzare l’anzianità come criterio. L’incostituzionalità è evidente, così come la pericolosa ostinazione del governo: il 25 febbraio la Corte di giustizia europea si riunirà per chiarire la questione relativa alla definizione di Paesi sicuri. Sarebbe un indice di maturità politica, oltre che di rispetto del dialogo tra i poteri dello Stato, attendere la decisione della Corte e poi regolarsi in base al pronunciamento. Ma qui tira una pessima aria, tra un ministro della Giustizia che in Parlamento dice che i giudici non li fermeranno, i video messaggi alla Nazione della premier indagata e indignata, Forza Italia che rilancia una “Commissione parlamentare di inchiesta sull’applicazione delle norme in materia di ordinamento giudiziario e organizzazione della magistratura, di tutela della presunzione di non colpevolezza e di riparazione per l’ingiusta detenzione” (così sui social l’onorevole Enrico Costa). Torna in auge - tra il plauso di leghisti e forzisti - il ripristino dell’immunità parlamentare (l’articolo 68 della Carta fu modificato nel ‘93 proprio per l’abuso che deputati e senatori ne facevano). Il ministro Crosetto sogna un patto istituzionale tra poteri e la reintroduzione dell’immunità, per mettere fine alla “guerra dei trent’anni” tra magistratura e politica (sic). E tutto per il pasticcio che il governo ha combinato sul caso Almasri. Ma qui sbagliano obiettivo: non c’entrano i giudici, che sempre più spesso diventano bersagli con nome e cognome. Non c’è commissione d’inchiesta o immunità che li possa proteggere dalla figuraccia che hanno fatto davanti all’opinione pubblica scarcerando un presunto torturatore (uno di quelli da cercare in tutto l’orbe terracqueo) perché “pericoloso” (parola del ministro Piantedosi) e riportandolo sano e salvo a casa con un volo di Stato.