Le carceri senza un capo: lo stupore di Mattarella per le mosse del Governo di Nello Trocchia Il Domani, 4 febbraio 2025 La prescelta è Lina Di Domenico, gradita al sottosegretario Andrea Delmastro. Il nome è stato condiviso con i media, ma non con il Colle che deve nominarla. Il sistema carcere è al collasso tra suicidi, atti di autolesionismo, sovraffollamento, ma il governo non ha ancora nominato il capo della polizia penitenziaria. Una mancanza che, può rivelare Domani, nasconde un pasticcio istituzionale e lo stupore del Quirinale. La possibile prescelta è stata annunciata urbi et orbi senza avvisare, come da prassi consolidata, Sergio Mattarella. Una dimenticanza grave e senza precedenti che ha prodotto l’attuale stallo. Spetta proprio al presidente della Repubblica, che è il capo delle forze armate, firmare il decreto di nomina, ma il nome è arrivato alla sua attenzione in prima istanza dai giornali. Perfino in Consiglio dei ministri la pratica non è mai stata vagliata. Un pasticcio che chiaramente coinvolge il ministero della Giustizia, guidato da Carlo Nordio, e il vero padrone delle carceri, Andrea Delmastro Delle Vedove, che ricopre l’incarico di sottosegretario con delega alla penitenziaria. Il capo del dipartimento è “nominato con decreto del presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro di grazia e giustizia”, recita la legge. Lo stallo, insomma, è frutto di un disastro istituzionale. La nipote di Falcone - Il pasticcio è iniziato a dicembre quando Giovanni Russo, magistrato mite e alla guida del Dap per volontà del governo Meloni, si è dimesso dal suo ruolo di capo del dipartimento. Come questo giornale aveva anticipato, i rapporti con Delmastro Delle Vedove non erano mai stati idilliaci. Russo era diventato un invisibile, assente negli appuntamenti decisivi, in ritardo sulle promesse fatte e muto quando sulle carceri italiane si è allungata l’ombra delle violenze con arresti e retate. La sostituta era già pronta, si tratta di Lina Di Domenico, vice al Dap con Russo, già in passato numero due al dipartimento con Francesco Basentini, e in ottimi rapporti con il sottosegretario meloniano. Il 21 dicembre un lancio di agenzia presentava la predestinata con queste parole: “Al suo posto andrà la sua attuale vice, Lina Di Domenico (...) Quanto alla Di Domenico, il Sappe ricorda che proprio 30 anni fa su quella poltrona si sedeva lo zio, il magistrato (Giovanni Falcone, ndr), fatto saltare in aria dalla mafia a Capaci assieme alla sua scorta”. Il Sappe è un sindacato molto vicino a Delmastro, siti e giornali online hanno ripreso la notizia. Solo che Di Domenico, oggi numero uno del Dap facente funzioni, non è mai stata nipote del magistrato ucciso da Cosa nostra, ma di un altro Falcone, Giuseppe, ex dirigente del Dap negli anni Novanta. Una presentazione niente male. Peccato per l’alterazione involontaria dell’albero genealogico, poi corretta in altro lancio di agenzia dallo stesso Sappe. Di Domenico ha iniziato, nel 2000, come magistrata di sorveglianza al tribunale di Novara, si è occupata anche dei detenuti ristretti al 41 bis, il carcere duro per mafiosi e terroristi. A proposito di 41 bis, Di Domenico era in prima fila alla presentazione dell’auto avveniristica della penitenziaria quando il sottosegretario Delmastro, in un momento d’impeto e orgoglio patrio, aveva detto: “Non lasciamo respirare chi è dietro quel vetro”. Giù polemiche delle opposizioni e delle associazioni per quelle parole che, in realtà, raccontano solo l’idea di giustizia del governo. Nulla più. La nomina sospesa - Al momento Di Domenico è ancora in attesa della nomina. Da dicembre, mese dell’annuncio su giornali e tv, è tutto bloccato. La ragione è fin troppo semplice, la mancata comunicazione al Quirinale ha provocato stupore e stallo. In assenza di altri nominativi sarà quella la scelta, ma ci vuole il tempo necessario per ripianare il grave sgarbo istituzionale. La figura del capo del Dap è fondamentale, si occupa della gestione amministrativa del personale, dei beni dell’amministrazione penitenziaria, ma svolge anche compiti relativi “alla esecuzione delle misure cautelari, delle pene e delle misure di sicurezza detentive, svolge i compiti previsti dalle leggi per il trattamento dei detenuti e degli internati”, si legge sul sito del ministero della Giustizia nella sezione preposta dove alla voce capo del dipartimento c’è una casella vuota. “Abbiamo auspicato una soluzione rapida che garantisse continuità di conoscenza della macchina amministrativa, ma che viene vanificata dal troppo tempo impiegato. Vorrei ricordare che il capo del Dap, equiparato al capo della polizia di stato, guida 36mila persone e ha la responsabilità delle carceri dove ci sono attualmente 62mila persone. È una figura strategica, fondamentale per il paese”, dice Gennarino De Fazio, segretario della Uil penitenziaria. Insomma, si tratta di sicurezza nazionale, ma il governo è riuscito in un capolavoro: irritare il Colle e allontanare così la nomina. Un altro disastro, firmato Carlo Nordio. Detenuti e agenti penitenziari “uniti” dalla stessa condanna: le carceri sono senza dignità di Isabella De Silvestro Il Domani, 4 febbraio 2025 La quarta puntata del podcast Gattabuia approfondisce la vita dei poliziotti, sottoposti a turni massacranti e continuamente a contatto con una popolazione carceraria sofferente e problematica. Chiedere dignità per i detenuti significa chiederla anche per gli agenti e viceversa. Per fare l’agente penitenziario il titolo di studio richiesto è un diploma di scuola secondaria di primo grado: basta la terza media. Diciotto anni l’età minima per accedere al concorso pubblico, ventisette quella massima. Dopo un corso di sei mesi si entra in servizio, con uno stipendio tra i 1.200 e i 1.300 euro al mese. Questi sono i dati da cui partire per capire il corpo di polizia con il più alto tasso di suicidi, che opera in carceri sovraffollate e fatiscenti e svolge un lavoro usurante, con turni notturni e straordinari che possono raggiungere le diciotto ore continuative al giorno e le settanta ore settimanali, sacrificando anche il giorno di riposo. La quarta puntata di Gattabuia, il podcast di Domani sulla vita quotidiana nelle carceri italiane, si occupa di questi uomini in divisa. Lavorare in un carcere vuol dire rapportarsi ogni giorno con una popolazione ingabbiata, compressa. Avere a che fare con persone sofferenti, intemperanti, affette da disturbi psichiatrici, da problemi di tossicodipendenza, oppure più semplicemente con persone provenienti da paesi lontani, di cui non si parla la lingua e di cui non si conoscono le abitudini e i codici culturali. Significa rapportarsi ogni giorno con il dolore degli altri e l’aggressività con cui questo dolore si manifesta, senza, in molti casi, averne gli strumenti. In una conferenza stampa alla Camera dell’ottobre 2024, anno in cui si sono tolti la vita 88 detenuti e 7 agenti penitenziari, Domenico Mastrulli, segretario nazionale del Cosp (Coordinamento sindacale penitenziario), alza la voce e concitato denuncia: “Non si può lavorare con 20mila uomini in meno in un corpo di polizia che ne doveva avere quasi 50mila e che si è ridotto a 25mila unità. Gestiamo la bellezza di 63-64mila detenuti in spazi che dovrebbero occupare 50mila detenuti. Io sto per andare in visita nelle carceri di Venezia: sono carceri dove i quadrupedi delle fogne hanno l’avvento nelle celle e nelle caserme della polizia penitenziaria. Ho citato Venezia ma potrei andare a Napoli Poggioreale, potrei scendere ancora a Palermo Ucciardone, potrei andare sul vecchio carcere di Brescia, a Turi di Bari, potrei andare a Brindisi. Le condizioni di vivibilità delle carceri ricadono drammaticamente sulla povera polizia penitenziaria, dimenticata dalle istituzioni”. Un’unica catena - Il discorso di Mastrulli rivela qualcosa di molto significativo: il carcere è un luogo marginale e reietto, un’istituzione che punisce e toglie dignità. E ciò non ricade solo sui detenuti - fatto che tradisce il dettato costituzionale secondo cui la pena deve essere volta alla rieducazione del condannato - ma ricade allo stesso modo sugli agenti penitenziari: migliaia di uomini (e di donne, in servizio nelle carceri femminili) condannati a lavorare in condizioni drammatiche. Un agente sfinito dai turni massacranti, un agente sottoposto a un grande stress psicofisico, un agente che ha ricevuto scarsa formazione è un agente che mancherà degli strumenti per svolgere il suo lavoro nel modo giusto, nel rispetto della legalità. E in carcere una catena di malumori non è mai solo una catena di malumori. Diventa presto aggressività, violenza, sopraffazione. Diventa in alcuni casi un modus operandi, un’ideologia, un vero e proprio sistema. Cosa ci dicono le torture e i pestaggi avvenuti a Santa Maria Capua Vetere, a Trapani, a Modena? E cosa ci direbbero tutti i pestaggi, le violenze, le torture che non sono mai arrivate all’attenzione dell’opinione pubblica, consumate nel buio di celle di isolamento, negli spazi lugubri e omertosi di questo luogo nascosto alla vigilanza dei cittadini? Ci direbbero che chiedere dignità per i detenuti significa chiederla anche per gli agenti e viceversa. Che ogni violazione dei diritti che riguardi i primi - legittimata nel pensiero comune dal castigo che merita il reato - si risolve in una violazione dei diritti di tutti, soprattutto degli uomini e delle donne che indossano l’infelice divisa della polizia penitenziaria. Nelle mie visite nei penitenziari italiani ho conosciuto agenti collaborativi e agenti ostili, agenti sinceramente volenterosi di contribuire al percorso trattamentale dei detenuti e agenti invece convinti che “questi non cambiano mai, monnezza erano e monnezza rimarranno”. Non è facile parlare di loro, scriverne, raccontare la complessità di un mestiere delicato che dà il potere di fare tutto il bene e tutto il male. Ho cercato di darne conto nella quarta puntata di Gattabuia (la quinta uscirà giovedì 6 e l’ultima giovedì 13), raccogliendo la testimonianza dell’agente penitenziario e sindacalista Nicola D’Amore, dello scrittore e insegnante Edoardo Albinati, dell’inviato di Domani Nello Trocchia e di Luigi Mastrodonato, collaboratore di questo giornale, dell’ex detenuto Rocco Panetta e della psichiatra Federica Magarini. Un coro di voci ed esperienze, nel tentativo di avere rispetto del dolore di questi lavoratori oppressi dall’istituzione che pure rappresentano, senza però fare sconti sulle terribili violenze di cui questo corpo di polizia negli anni si è macchiato. Si tratta di una puntata dal sapore amaro come amara è la constatazione del poliziotto Nicola D’Amore: “Soffro e lotto da trent’anni. E soffro soprattutto per quei miei colleghi che, nonostante la violenza subita da parte dell’istituzione, continuano a fare finta di niente. Il carcere, così com’è, è una pena di morte”. Una pena di morte che miete vittime da una parte e dall’altra della barricata. “C’è un bel film degli anni Settanta che si intitola Basta che non si sappia in giro”, continua D’Amore. “C’è Nino Manfredi che fa l’agente di custodia e dice: “Noi, tra le forze di polizia, siamo i proletari”. Abbiamo anche questa cosa in comune coi detenuti, oltre agli anni passati dentro la prigione: siamo proletari”. “Lavorare in carcere? Si può, basta volerlo”. Il modello Giotto di Paolo Foschini Corriere della Sera, 4 febbraio 2025 Vera Zamagni analizza la realtà attiva da quarant’anni a Padova. Pasticceria, artigianato, un call center e 500 persone impiegate “Investire in rieducazione dei detenuti porta risparmi e sicurezza”. Solo due premesse. La prima è una osservazione della Corte dei Conti datata 18 luglio 2013, dopo la condanna di Strasburgo all’Italia per violazione dei diritti umani nelle carceri: “Investire in rieducazione e recupero dei detenuti fa risparmiare una valanga di soldi e porta sicurezza sociale”. La seconda riguarderebbe il principale strumento di tale recupero, cioè il lavoro, citando per esempio il programma (titolo: Lavoro carcerario) siglato nel 2022 tra lo Stato italiano e i colossi delle telecomunicazioni: privo di “alcun risultato perché frutto di decisioni prese senza tenere conto della realtà del carcere, e perciò inapplicabili”. E questo il contesto in cui, invece, da quarant’anni a Padova è nata poi cresciuta sempre più una cooperativa sociale di tipo B che si chiama Giotto e che di lavoro per chi dentro sia per chi è uscito - vero e remunerato, non come passatempo - ne ha messe in piedi montagne: oggi ha più di 500 collaboratori, una pasticceria nota in tutta Italia, un call center, attività artigianali come il montaggio di valigie e biciclette, culturali come la reception alla Cappella degli Scrovegni, e l’elenco sarebbe davvero lunghissimo. Ed è questa la realtà cui Vera Zamagni, docente di Storia economica all’università di Bologna con attenzione particolare alla cooperazione, ha dedicato il suo ultimo libro: “La Cooperativa sociale Giotto - Una normalità eccezionale” (il Mulino, pp. 190, 20€). Il libro da cui sono tratte le premesse fatte sopra. Il sottotitolo la dice lunga. “Sintetizza la realtà: una esperienza come Giotto in Italia dovrebbe essere la normalità, e gli strumenti ci sarebbero eccome, eppure casi come questo sono purtroppo eccezioni”. Perché? “Beh, intanto perché da parte delle persone che ci si vogliono mettere servono sicuramente qualità importanti. Almeno tre. La prima è l’imprenditorialità, e non in tutte le cooperative sociali è davvero presente. Quelle di tipo B prevedono l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate, d’accordo: ma bisogna capire chi sono gli svantaggiati con cui hai a che fare, e inventarsi lavori che loro possano svolgere sul serio in modo produttivo. La seconda è la capacità, oltre alla volontà, di misurarsi con il mondo delle istituzioni. Che spesso è un muro di gomma. E richiede la forza di fare battaglie”. Per esempio? “Sono stati i creatori della cooperativa Giotto a far inserire anche la categoria dei carcerati tra gli svantaggiati di cui parla la Legge 381 dedicata appunto alle cooperative sociali. E ancora loro, certo non da soli ma loro c’erano, sono tra quelli cui si deve l’esistenza di una legge come la Smuraglia fatta apposta nel 2000 per considerare le carceri come luogo di lavoro vero e prevedere incentivi per chi assume persone in detenzione o ammesse al lavoro esterno”. La terza qualità? “È quella che io chiamo relazionalità: capacità di coinvolgere soggetti che il lavoro in carcere possano darlo sul serio”. Ma le altre ragioni dell’eccezionalità? “In fondo sono riassunte nel motivo per cui ho voluto scrivere questo libro: togliere la principale scusa a quelli che il lavoro in carcere non lo vogliono portare, cioè dire che è impossibile. Il punto è volerlo”. Allora diciamo le ragioni per volerlo… “La principale è quella che muove qualsiasi impresa, cioè il fattore economico: il lavoro dato a persone detenute non è beneficenza. La seconda è di convenienza per tutti: il ritorno al crimine da parte di chi in carcere veramente sperimenta la soddisfazione del lavoro è quasi zero. Mentre il costo di un carcerato recidivo è altissimo. Ma questo è il paradosso del Pil”. Cioè? “I costi fanno Pil. Le guerre e i terremoti portano morte e distruzione, ma poi muovono un sacco di soldi. Per questo il benessere di una società va misurato anche con altri parametri. E ogni persona detenuta recuperata dalla società è una vittoria per tutti”. Dalla prigione a “Casa Betania”, la comunità del riscatto possibile di Giorgio Paolucci Avvenire, 4 febbraio 2025 Le storie di Karim e Jurgen, che fuori dal carcere hanno intrapreso un cammino di trasformazione personale e recupero del senso del bene. Come funziona il metodo CEC. Le ferite inferte dalla vita a volte si rimarginano, a volte rimangono aperte e continuano a generare sofferenza. Non solo a chi ne è rimasto vittima, ma anche a chi le ha procurate e non sa trovare pace per il male che ha compiuto. Non basta scontare la pena se alla pena non si affianca un percorso per rielaborare il reato. Ci vuole un luogo, ci vogliono persone che aiutino a guardare quelle ferite, ad approfondirne le ragioni, a intravedere che la vita può sempre ricominciare. Che dall’abisso è possibile risalire. Accade a Casa Betania, comunità fondata nel 1973 a Coriano, sulle colline riminesi, da don Oreste Benzi e che fa parte di quel grande arcipelago del bene che si chiama Comunità Papa Giovanni XXIII. Karim è uno degli ospiti che ha sperimentato questo bene. Ha 38 anni, viene dalla Tunisia, la prima ferita la conosce quando, ancora bambino, viene violentato poco lontano dalla scuola. Non dice nulla ai genitori, lasciando dilatare la vergogna dentro il suo giovane corpo, fino alla decisione di andarsene da casa. Poi anche lui, come tanti coetanei, segue le sirene dell’emigrazione e del guadagno facile che facile non è. Il barcone su cui era salito rischia il naufragio a poca distanza da Lampedusa, viene salvato dalla Guardia Costiera, in Italia si arrangia a vivere come può, poi il gorgo della malavita lo inghiotte: spaccio, furti, rapine, violenze, la galera. La ferita ricevuta da bambino continua a sanguinare e si aggiunge al peso dei reati commessi, per due volte tenta il suicidio, poi l’incontro inatteso con il cappellano del carcere di Forlì che va a trovarlo in cella. “Figliolo, mi ha chiamato figliolo, e ho sentito un brivido lungo il corpo - mi dice Karim. Tu forse non puoi capire. Nessuno mi aveva mai chiamato così, neppure mio padre. A lui ho raccontato dolori ed errori che mi facevano stare male, e quando mi ha parlato di Casa Betania mi sono fidato e ho chiesto di andarci”. A Coriano conosce la proposta del CEC, acronimo di Comunità unità educante con i carcerati, un’esperienza che accoglie persone detenute in alternativa al carcere proponendo un percorso di vita comunitaria in cui la rielaborazione del reato si accompagna alla riscoperta del bene che abita nel cuore di ogni persona. “Qui sono molto esigenti, devi metterti in gioco, essere disponibile a condividere il tuo vissuto nei momenti comuni con gli altri ospiti, avendo il coraggio di dire la verità e di chiedere aiuto. Operatori e volontari mi hanno fatto sentire dentro una nuova famiglia, mi aiutano a capire che io non sono riducibile ai reati che ho commesso e che la vita non va posseduta ma messa a disposizione”. Per due anni Karim ha messo la sua a disposizione di Marino Catena, un uomo con gravi disabilità psichiche che gli era stato affidato perché, prendendosene cura, potesse sperimentare il senso della gratuità e scoprire che in ogni persona abita un tesoro. La presenza di persone come Marino - morto l’anno scorso ma che rivive nei ricordi degli ospiti e nelle foto sui muri - è una peculiarità di Casa Betania, voluta da don Benzi per richiamare quanto è importante condividere la fragilità, chinarsi sulle ferite degli altri e accorgersi di quelle che ci portiamo dentro. Per stare in piedi, diceva don Oreste, bisogna saper stare in ginocchio. Solo così si impara ad amare. Anche Jurgen ha fatto i conti con l’amore, in realtà un more malato. In famiglia viveva con un padre violento e schiavo dell’alcol e una madre succube, a 21 anni conosce Federica che diventerà sua moglie, cerca in lei il bene che non aveva mai ricevuto in casa, ma il rapporto diventa possessivo fino a degenerare in una vera e propria dipendenza affettiva: Jurgen vive nella paura di essere abbandonato, la donna per lui si trasforma in un idolo, e lei, soffocata, trova la forza di ribellarsi, lo lascia, chiede il divorzio; lui una notte uccide il suo idolo. Il carcere non è una buona medicina, negli otto anni di detenzione incontra solo otto volte la psicologa e si chiude nel silenzio. Torna libero, si accompagna a una ragazza che diventa per lui la fotocopia della moglie: “Con lei rivivevo il ricordo di Federica e con lei ho ricostruito un rapporto di dipendenza che l’ha indotta a lasciarmi”. Ma lui non riesce a rinunciare a quel legame divenuto ancora una volta ossessivo e totalizzante, così arriva la denuncia per stalking e una nuova detenzione. Anche per Jurgen si aprono le porte di Casa Betania in alternativa al carcere, qui comincia il faticoso percorso di rivisitazione dei suoi errori e fa i conti con le sue ferite mai rimarginata. Frequenta un centro anti-violenza, viene aiutato da uno psicoterapeuta, insieme agli altri ospiti e con l’aiuto dei volontari cerca di guardare in profondità le cause di quell’amore tossico. un cammino in salita che continua tuttora e dal quale ogni tanto cerca di svicolare, “ma è questa la strada che può portarmi a guarigione. Ho sempre cercato di guidare io l’automobile della vita e di lasciare Dio alla mia destra, ora capisco che devo cedere il volante a Dio e lasciarmi condurre. Qui c’è gente che vuole il mio bene, posso fidarmi e affidarmi a loro”. Jurgen è un gran lavoratore, ottimo manutentore, in comunità è sempre all’opera. Ricorda la frase che gli disse la criminologa che lo seguiva e dalla quale si sente descritto: “Sei molto bravo ad aggiustare tutto, tranne te stesso. Qui stai imparando a farlo”. Casa Betania è una delle 10 case del progetto CEC nato in seno alla Comunità Papa Giovanni XXIII. Chi viene accolto - naturalmente su decisione del magistrato di sorveglianza - è considerato un “recuperando”, parola che esprime l’ipotesi positiva da cui si muovono i promotori di questa esperienza pilota dalla quale il nostro sistema penitenziario ha molto da imparare. E che merita di essere valorizzata e sostenuta se davvero l’espiazione della pena deve diventare occasione di rieducazione del condannato come recita l’articolo 27 della Costituzione, molto citato ma troppe volte rimasto sulla carta. “Sono tre i protagonisti del nostro metodo - spiega Giorgio Pieri, responsabile dei progetti CEC e figlio spirituale di don Benzi -: gli operatori, i volontari che accompagnano le persone in un percorso individuale e comunitario, e i recuperandi, che vengono aiutati a “ripartire” e contemporaneamente spronati ad aiutare gli altri ospiti, diventando a loro volta agenti educativi. Non è un caso se nelle nostre case la recidiva, che a livello nazionale è attorno al 70 per cento, crolla al 10 per cento. Qui la gente ritrova ragioni per sperare. Lavoriamo al rilancio della persona dentro una dimensione comunitaria che si dimostra un ottimo strumento educativo. Siamo testimoni del Vangelo, proponiamo la parola di Dio come occasione di lavoro su se stessi, perché la dimensione religiosa è elemento fondamentale dell’esistenza. Tra gli ospiti abbiamo persone di cultura musulmana, nessuno di loro solleva obiezioni, tutti riconoscono che è utile fare i conti con il senso religioso, che appartiene alla natura umana”. Non c’è posto per il buonismo nel metodo CEC: “Chi ha sbagliato deve pagare, ma la pena deve essere qualcosa di utile e puntare alla riabilitazione. Vanno incentivati percorsi capaci di individuare e rimuovere le cause che hanno portato in carcere le persone, e la nostra esperienza testimonia che un ambito comunitario può favorire queste dinamiche. La dimensione educativa passa attraverso la relazione, perché tutti noi siamo una relazione. E bisogna dare a tutti una possibilità di ripartenza, come abbiamo imparato da don Benzi”. All’ingresso di Casa Betania campeggia uno striscione con una frase del fondatore che è la bussola di questo luogo e l’anima di chi segue il suo insegnamento: “L’uomo non è il suo errore”. Giustizia, la riforma e i tempi cambiati di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 4 febbraio 2025 Ci sono due ragioni per le quali il governo ha buone probabilità di uscire vincitore nel braccio di ferro ingaggiato con i vertici della magistratura. La prima riguarda il grado di compattezza/coesione della coalizione di governo nel difendere la riforma. La seconda ragione ha a che fare con la natura di tale progetto. Comprensibile. Se per decenni hai potuto constatare che facendo la voce grossa sei sempre riuscito a bloccare le iniziative a te sgradite, forse cadrai in una trappola, sottovaluterai i cambiamenti intervenuti e non riterrai pertanto di dover mutare strategia: continuerai a fare la voce grossa. Col risultato di andare incontro a una secca e dura sconfitta. È possibile che i vertici della magistratura si accorgano ben presto che, di fronte alla riforma voluta dall’esecutivo della separazione delle carriere, scegliere di andare allo scontro frontale con la maggioranza di governo sia stato un errore (tattico e strategico insieme). Ci sono due ragioni per le quali il governo ha buone probabilità di uscire vincitore nel braccio di ferro ingaggiato con i vertici della magistratura. La prima riguarda il grado di compattezza/coesione della coalizione di governo nel difendere la riforma. La seconda ragione ha a che fare con la natura di tale progetto. Perché delle tre riforme istituzionali proposte dal governo Meloni (premierato, autonomia differenziata, separazione delle carriere) l’ultima ha buone chance di vedere davvero la luce e le prime due no? Come mai il premierato è già ora su un binario morto? Come mai l’autonomia differenziata può facilmente fare la stessa fine? Come mai, invece, la separazione delle carriere è l’unica riforma, diciamo così, in salute? Sul premierato si è visto e capito tutto: il governo non era in grado di fare una proposta solida e coerente (cosa, almeno in teoria, possibile). Non era in grado perché nella maggioranza c’erano aspre divisioni. Divisioni che hanno impedito alla proposta del premierato di decollare. Nemmeno l’autonomia differenziata versa in buone condizioni. Anche in questo caso ci sono divisioni nella maggioranza. I rappresentanti meridionali della destra chiedono cambiamenti. Pesa il timore che la riforma, se varata, possa favorire rovesci elettorali, in particolare nel Sud. È difficile che Fratelli d’Italia voglia regalare ai 5 Stelle (il partito di opposizione che, nel Mezzogiorno, ha la maggiore capacità di attrazione) un piatto così sostanzioso. La separazione delle carriere è tutt’altra cosa. Qui non ci sono divisioni di fondo. La maggioranza è compatta nella difesa della riforma. Ed è precisamente a causa di questa circostanza che, forse per la prima volta da trent’anni a questa parte, i rapporti di forza fra politica e magistratura sono cambiati. Un tempo, ai vertici della magistratura era sufficiente alzare la voce perché le maggioranze si ritrovassero paralizzate dai dissensi interni. Ora non più. La coesione della maggioranza è un muro che non può essere facilmente abbattuto. La seconda ragione per cui la separazione delle carriere sembra avere il vento in poppa ha a che fare con la natura della riforma. Contro il premierato era ed è possibile ricorrere ad armi retoriche collaudate: l’uomo solo al comando, le “pulsioni autoritarie” eccetera. Argomenti su cui era ed è possibile fare leva anche a causa dell’origine di Fratelli d’Italia, del fatto che si tratta di una formazione politica post-missina. Anche sull’autonomia differenziata - sia pure cercando di nascondere sotto il tappeto che la riforma del Titolo quinto fu voluta dal Pd - era ed è possibile imbastire una contro-propaganda elettoralmente efficace: vogliono dividere l’Italia, vogliono penalizzare il Mezzogiorno, eccetera. Sulla separazione delle carriere fare opposizione è molto più difficile. Per esempio, come si fa a “vendere” agli altri europei che si tratta di una riforma “autoritaria” se la separazione delle carriere esiste (tranne che in Italia e in Francia) dappertutto? O si va a spiegare agli europei che nei loro Paesi, ove vige la separazione, c’è l’autoritarismo oppure è difficile impostare la battaglia su queste basi. Tanto più che mentre nel caso di Berlusconi, anche lui un fautore della separazione delle carriere, si poteva sempre tirare fuori il conflitto d’interesse, con Giorgia Meloni (e con Nordio) non si può. Per non parlare del fatto che anche a sinistra non sono pochi i favorevoli alla separazione delle carriere: al momento nuotano sott’acqua o sono rannicchiati e nascosti dietro un cespuglio, ma ci sono. Il punto è che la separazione delle carriere è ispirata a un principio squisitamente liberale. È l’attuale assetto della magistratura a violare quel principio. Anche la tesi secondo cui l’esito sarebbe il controllo politico sui pubblici ministeri è assai debole: è precisamente nell’altro Paese in cui vige l’unità delle carriere (la Francia) che c’è sempre stato quel controllo. Ciò dimostra che fra separazione e controllo dei pm non c’è alcuna necessaria relazione. E non insistiamo troppo, per carità di patria, sul folklore: Licio Gelli voleva la separazione delle carriere? Anche, guarda un po’, Giovanni Falcone. Non risulta che fosse iscritto alla P2. Se avessero capito in tempo (si perdoni il bisticcio) che i tempi sono cambiati, i vertici della magistratura avrebbero dovuto evitare lo scontro frontale, avrebbero dovuto puntare su una strategia meno rozza, più raffinata: avrebbero dovuto attivare tutti i canali possibili per trattare con il governo, per negoziare, al fine di strappare qualche concessione. Scontro frontale uguale sconfitta totale. La storia ci offre una infinità di esempi. A forza di accumulare vittorie si finisce per considerarsi invincibili. Si perde il senso della realtà. Il finale è già scritto. Il momento “Stranamore” del Governo di Alessandro De Angelis La Stampa, 4 febbraio 2025 In principio, dopo che furono bloccati i primi trattenimenti in Albania, ci fu il decreto che interveniva sulla lista dei “Paesi sicuri”. L’idea era di eliminare i margini interpretativi dei giudici. Poi però, per evitare l’incostituzionalità, ci si limitò solo a trasformare quella lista da decreto ministeriale in legge. Bene lo spot, ma essendo il provvedimento del tutto inutile nella sua applicazione pratica, ecco l’intervento per trasferire le competenze alle Corti d’Appello. Medesime le intenzioni, medesimo l’esito. Che ci sarebbe stato un problema di personale per la malmessa giustizia italiana, lo si capì quando ventisei presidenti (delle Corti d’Appello) scrissero a Sergio Mattarella, lanciando l’allarme. E infatti, la singolar tenzone si è risolta col trasferimento dei giudici alle Corti. Nuovo stop dei trattenimenti. Di qui l’idea, dopo l’ultimo, di una nuova norma “ad hoc”, sempre con un decreto, per impedire le porte girevoli delle perfide toghe, in particolare - questo il racconto messo in campo - di quelle albergano nel tribunale di Roma. Facile a dirsi, complicato a scriverla una norma così. E infatti l’ipotesi è già tramontata perché è pressoché impossibile tradurre in legge il pregiudizio sui “magistrati politicizzati”. In quel decreto flussi, straordinario manifesto politico per mostrare a tutto il globo terraqueo il pungo di ferro sui migranti e la non arrendevolezza sui giudici, c’era anche un’altra norma. Quella che prevedeva tempi celeri per i ricorsi di alcuni richiedenti asilo. Ebbene, ieri la Cassazione ha sollevato una questione di legittimità costituzionale, rinviando alla valutazione della Consulta due profili. Uno inciderebbe sul diritto di difesa, l’altro sui diritti fondamentali del richiedente. Un colpo per il governo che peraltro, finora, aveva confidato nella Cassazione come luogo della ragionevolezza rispetto alle cattive intenzioni delle toghe rosse che si occupano di protezione internazionale. C’è poco da fare, il governo è entrato nel suo momento da “dottor Stranamore”. Così tra l’altro, nella Seconda Repubblica, veniva chiamato - e, quando era di buon umore, ne rideva anche il Cavaliere - l’avvocato Niccolò Ghedini, grande teorico delle fantasiose forzature giuridiche per risolvere un problema politico e giudiziario. Il primato del cavillo che, puntualmente, naufragava sulla realtà. Perché in fondo la storia è tutta qui, e ogni giorno si arricchisce di un capitolo. Siccome non si può dire che il modello del Paese terzo non funziona, ci si è infilati nelle fumisterie dei codici. Obiettivo: scaricare la colpa sui giudici, in un meccanismo che si autoalimenta tra trovate sempre più ardite e impraticabilità sempre più conclamata. È una logica che riguarda anche l’affaire libico. Lì al cavillo ci si è affidati per giustificare il mancato arresto di Almasri, e in quel caso la singolar tenzone riguardava la Corte penale internazionale. Dall’Aja ribadiscono che il governo, ricevuti gli atti, non ha dato cenni di riscontro. A Roma si seminano dubbi sulla sua condotta della Cpi, ravvisando errori procedurali nell’arresto. Anche in questo caso c’è uno slittamento dalla politica al regno degli azzeccagarbugli. Si sarebbe potuto dire che quell’espulsione era una scelta, tutta politica, spiegandone le ragioni di sicurezza nazionale. Invece, prima i sofismi delle norme, poi la politicizzazione dell’esposto ricevuto per ritrovare un racconto che bypassa il merito e tiene il bersaglio (i giudici). E, su questo terreno, il prevedibile crescendo. Nell’ordine: la suggestione del ripristino dell’immunità parlamentare, che piace tanto a Forza Italia, ma non agli altri, che si sono nutriti delle denunce alla “casta che si autoassolve”. Da ultimo la Commissione d’inchiesta sulla magistratura, che piace a tutti. Ed effettivamente è perfetta. Tiene salva la narrazione volitiva e punitiva, ma, come tutte le commissioni d’inchiesta, non serve a nulla. Né sulla Libia né sull’Albania né a far funzionare la Giustizia. La maggioranza alza il tiro sui giudici. “Ora una commissione d’inchiesta” di Francesco Grignetti La Stampa, 4 febbraio 2025 La proposta del forzista Costa piace a Fratelli d’Italia. Delmastro in pressing: “C’è stata un’invasione di campo, sui migranti decide l’esecutivo”. È ancora il tempo dell’ira contro i magistrati. La maggioranza di destra-centro non ha affatto digerito le ultime decisioni dei giudici, tanto l’azione penale avviata dal procuratore capo di Roma Francesco Lo Voi contro mezzo governo quanto la mancata convalida del trattenimento dei 43 migranti portati in Albania. Come un ciclone che fluttua furiosamente in aria cercando dove scaricarsi, fioccano nella maggioranza i propositi di rivalsa: dall’idea di intervenire sulle Corti di Appello alle denunce in sede penale contro il procuratore, dalla “guerra” a Lo Voi che i consiglieri di destra preparano al Consiglio superiore della magistratura, fino alle ultimissime trovate: l’idea di riscrivere la Costituzione reintroducendo l’autorizzazione a procedere (a tutela di parlamentari e ministri) o di avviare una commissione parlamentare d’inchiesta sui meccanismi della giustizia. Ed è su quest’ultima ipotesi che si coagulano i propositi più bellicosi. In astratto, riformare nuovamente l’articolo 68 della Costituzione si può: ma, ci sono i tempi per mettere in cantiere un’ennesima riforma costituzionale dopo quella del premierato e della separazione delle carriere? I più navigati tra i parlamentari della maggioranza sanno (e lo dicono all’orecchio a patto dell’anonimato) che “è una pura boutade. Giunti a questo punto della Legislatura, non si riuscirebbe mai a portare a compimento pure questa modifica”. Ciò senza nulla togliere all’idea del capogruppo di Forza Italia in commissione Giustizia della Camera, Tommaso Calderone, che nel destra-centro piace ormai quasi a tutti, anche a chi era restio a ripristinare l’ancient regime precedente a Tangentopoli e al 1993. E se Antonio Tajani, pur favorevole in linea di principio, mostra cautela, il senatore di FdI Alberto Balboni, presidente della commissione Affari costituzionali, è convinto che la strada da battere sia un’altra: “Lo dico a titolo personale ma non trovo ragioni per modificare l’articolo 68. Se un parlamentare commette un reato comune è giusto che ne risponda come qualsiasi altro cittadino”. Durissimo poi, il leader M5s Giuseppe Conte che su X attacca: “E dopo il ripristino dei vitalizi al Senato, l’abolizione del reato per i politici che abusano del loro potere, l’aumento degli stipendi dei Ministri e la imbarazzante difesa della Ministra Santanchè tenuta incollata alla poltrona, ecco che ci provano con l’immunità e il ritorno di uno scudo che renda intoccabili esponenti del Governo ed eletti! “. Dietro l’angolo, piuttosto, si registra una inedita convergenza politica su un altro cavallo di battaglia di Forza Italia, ovvero una commissione parlamentare d’inchiesta sulla magistratura. Finora era stata una proposta confinata al perimetro dei berlusconiani. Ma adesso non più, perché la novità politico-psicologica di questo 2025 è l’ira funesta dei Fratelli d’Italia contro le toghe. A spingere per la commissione è Enrico Costa, garantista doc, rientrato in Forza Italia dopo un transito con Calenda. “Se non ora quando?”, scrive sui social. Costa chiede di accelerare l’esame della sua proposta di legge di una Commissione d’inchiesta monocamerale che dovrebbe passare al vaglio le assegnazioni degli incarichi, le valutazioni di professionalità, l’impatto dei magistrati fuori ruolo e assegnati ai ministeri, l’attività extragiudiziaria e le responsabilità disciplinari. In pratica, la Commissione Costa dovrebbe sovrapporsi al Csm, commissariando l’autogoverno dei magistrati. “Ritengo - aggiunge - che ci si dovrà occupare anche degli errori giudiziari, in particolare di quelli che incidono sulla libertà personale, e degli effetti dei processi mediatici che rendono irreversibili le conseguenze di tali errori”. Una Commissione del genere, va da sé, non sarebbe fine a sé stessa. C’è il rischio che si trasformi in una clava della politica contro la giustizia e per questo motivo, in passato, il Quirinale aveva fatto filtrare con discrezione le sue perplessità. Ma tant’è. Il clima è di scontro totale. Lo stesso Costa immagina “necessario svolgere un approfondimento a tutto campo sull’applicazione concreta delle regole sull’ordinamento giudiziario. Ove emergessero distorsioni è fondamentale che il legislatore intervenga”. Dell’esistenza di “distorsioni”, sono convinti anche a palazzo Chigi e dentro il partito della premier. Basti sentire che cosa dice il sottosegretario Andrea Delmastro, che in FdI è il suggeritore delle politiche sulla giustizia: “È lunare e marziano l’aver trasmesso gli atti iscrivendo nel registro degli indagati il presidente del Consiglio, il sottosegretario Mantovano e i ministri della Giustizia e dell’Interno per favoreggiamento e peculato”. Dal che si capisce che l’ira dei Fratelli ha travalicato ogni confine soprattutto per l’avvio del procedimento contro la premier. Ci sono aspetti tecnici che a Delmastro non tornano. “Per quanto concerne il favoreggiamento, quantomeno avrebbe dovuto esserci anche il concorso della stessa magistratura (si riferisce alla scarcerazione decisa dalla Corte di Appello di Roma, ndr). Sul peculato, Lo Voi dovrebbe trasmettere gli atti ogni giorno perché non si è mai visto il respingimento o il rimpatrio di un immigrato che si paga l’aereo o la nave. Si utilizzano sempre risorse di Stato. È lunare ipotizzare il peculato” dice ad Affaritaliani.it. Ma Delmastro va oltre. Mette insieme diversi pezzi e nel quadro legge un assalto al governo. “Non dimentichiamoci certe mail di alcuni magistrati, né la decisione della magistratura dell’altro giorno che sull’Albania si arroga il diritto di decidere lei le politiche sull’immigrazione. Questa è una palese e inequivocabile invasione di campo. I magistrati devono applicare le leggi e non interpretarle per scardinare le politiche sull’immigrazione del governo”. “L’Anm sbaglia. La chiusura al dialogo sulle riforme è strategia suicida” di Ermes Antonucci Il Foglio, 4 febbraio 2025 Il j’accuse del pm Racanelli. Il procuratore di Padova, ex segretario di Magistratura indipendente: “La separazione delle carriere non lede la nostra indipendenza. L’Associazione nazionale magistrati ha sbagliato a scegliere la strada di una frontale contrapposizione al governo” “Sappiamo benissimo che viviamo in un momento storico nel quale la magistratura e in genere il sistema giustizia non godono della fiducia dei cittadini e quindi la politica è in una posizione di vantaggio rispetto alla magistratura. In questa situazione non ha alcun senso andare alla ‘guerra’. Per questo non ho assolutamente condiviso la posizione dell’Associazione nazionale magistrati di totale contrapposizione e di rifiuto di ogni dialogo di fronte alle proposte di riforma. Si tratta di una strategia suicida”. A parlare, intervistato dal Foglio, è un pezzo da novanta della magistratura italiana: Antonello Racanelli, oggi capo della procura di Padova, già procuratore aggiunto a Roma ed ex consigliere del Csm. Racanelli è stato per anni anche uno dei principali protagonisti della vita associativa della magistratura, ricoprendo il ruolo di segretario di Magistratura indipendente, la corrente moderata delle toghe. “Era necessario confrontarsi, provare a negoziare e ritengo che ci fossero i presupposti anche per ottenere modifiche alle proposte di riforma”, afferma Racanelli, riferendosi soprattutto alla riforma della giustizia. “Sia pure con qualche perplessità, non sono contrario alla separazione delle carriere a condizione che vengano mantenute l’autonomia e l’indipendenza del pubblico ministero. Il disegno di legge governativo è indubbiamente un passo in avanti rispetto ad altri progetti di riforma”. “Il Csm dei pm nel disegno di legge governativo è presieduto dal presidente della Repubblica, e ciò indubbiamente rappresenta una garanzia sul fronte dell’autonomia e indipendenza del pubblico ministero”, sottolinea Racanelli. E ancora: “Con la riforma non vi è nessuna sottoposizione del pm all’esecutivo e personalmente non dubito dell’onestà intellettuale del ministro Nordio. Poi certo possiamo fare tutte le illazioni, ma questa è la realtà: basta leggere l’art. 104 della Costituzione, così come riformulato”. “Fino a qualche tempo fa ero contrario alla separazione delle carriere, ma già nel novembre 2023, durante un convegno organizzato da Magistratura indipendente a Venezia, avevo testualmente detto che era necessario fare ‘un esercizio di sano realismo politico’”, ammette Racanelli. “Mi spiego: ci troviamo di fronte a una forte maggioranza parlamentare, legittimata dal voto popolare, che ha un preciso programma politico in tema di giustizia e di magistratura”. Secondo Racanelli, con l’apertura al confronto la magistratura avrebbe potuto ottenere miglioramenti alla riforma, ad esempio “il passaggio da una forma di sorteggio secco a una forma di sorteggio temperato per l’elezione dei togati al Csm, che avrebbe consentito di mantenere una facoltà di scelta da parte del singolo magistrato nei confronti dei candidati sorteggiati”. “E’ evidente - prosegue il procuratore di Padova - che anche in un sistema del genere le correnti svolgerebbero un ruolo significativo nel determinare l’elezione dei vari componenti, ma sicuramente il rapporto che lega un consigliere alla corrente sarebbe meno forte, dovendo il consigliere dire grazie alla sorte per essere stato candidato, e soprattutto i consiglieri eletti non sarebbero quasi tutti (come avviene ora) provenienti da impegni associativi all’interno dei gruppi e dell’Anm”. “Anche sul sorteggio anni fa avevo delle perplessità, ma gli avvenimenti degli ultimi anni mi hanno fatto cambiare idea”, dichiara Racanelli. “Era possibile negoziare anche sul fronte dell’Alta corte disciplinare chiedendo che venisse estesa a tutte le magistrature e anche di mantenere il rapporto di due terzi e di un terzo, o anche evidenziare l’importanza di una presenza nel collegio disciplinare non solo di magistrati di legittimità ma anche di magistrati di merito”. Al contrario, attacca Racanelli, “si è scelta la strada di una frontale contrapposizione accompagnata, peraltro, da manifestazioni di protesta che personalmente non ho condiviso”: “L’iniziativa di rifiutarsi di ascoltare, in sede di inaugurazione dell’anno giudiziario, il ministro della Giustizia o i suoi rappresentanti non credo sia stata una buona idea. Cosa avremmo detto noi magistrati se di fronte a presidenti di Corti di appello o a procuratori generali che legittimamente nei loro interventi hanno avanzato argomentate critiche tecniche alla riforma i parlamentari o gli esponenti governativi presenti si fossero alzati per non ascoltarli? Ascoltare non è mai un esercizio inutile: il confronto è sempre preferibile al rifiuto del dialogo. Invece dai giornali leggo che in un distretto ci si è persino alzati anche quando parlava un consigliere del Csm!”. Quelle proposte da Racanelli sono riflessioni di buon senso e anche di realpolitik: “Alzare lo scontro in vista della battaglia referendaria non credo sia una buona strategia. Dobbiamo essere consapevoli che la politica ha strumenti di comunicazione che i magistrati non hanno e che, quindi, il referendum rischia di fatto di avere a oggetto non le questioni tecniche relative alla riforma ma una semplice domanda: avete fiducia o no nella situazione attuale della giustizia? E’ facile prevedere la risposta e sappiamo tutti che molte sono le cause di questa sfiducia, alcune imputabili alla politica ma altre imputabili a noi magistrati (corrisponde a verità l’espressione che ‘i peggiori nemici dei magistrati sono alcuni magistrati’)”. Un profondo j’accuse nei confronti dell’Anm, che si conclude con una considerazione rivolta soprattutto alla politica: “Dobbiamo essere consapevoli che siamo in presenza di una riforma dell’ordinamento giudiziario e della magistratura piuttosto che della giustizia, e che la riforma non risolverà certamente i problemi della giustizia italiana, che necessitano di altri interventi”. “Un’aggressione quotidiana, il Governo attacca le toghe per distrarre la massa” di Irene Famà La Stampa, 4 febbraio 2025 L’ex magistrato Gian Carlo Caselli: “Chi non la pensa come loro diventa un pericolo. Così si minano i pilastri fondamentali dello Stato di diritto”. “Siamo ad un livello intollerabile”. Gian Carlo Caselli, alle spalle una lunga carriera da magistrato, riflette sui delicati equilibri politici e sul rapporto tra governo e toghe. La richiesta di accelerare i tempi per una commissione d’inchiesta sui magistrati, l’ipotesi di un ritorno all’immunità parlamentare, le critiche continue. “Da parte del governo sta crollando in modo evidente e clamoroso il rispetto dovuto, in ogni ordinamento democratico, alla sua magistratura e alla sua indipendenza. E io sono preoccupato”. Da cosa? “Siamo ad un livello che mette in pericolo i pilastri fondamentali dello Stato di diritto”. Eccessivo parlare di scontro quotidiano? “Credo sia più corretto parlare di una quotidiana aggressione a quelle toghe che osano ancora, nel rispetto della legge, prendere decisioni che al governo non piacciono”. Pensa a un caso in particolare? “Tutti quei magistrati che fanno scelte che il governo non condivide devono ormai mettere in conto di dover subire duri attacchi. Come se fossero nemici della nazione”. Il procuratore capo di Roma, Francesco Lo Voi, è stato travolto dalle polemiche dopo aver indagato il governo sul caso del generale libico. Si riferisce a lui? “In questo caso il governo più che con la magistratura, ce l’ha con se stesso”. Con se stesso? “Sì. Non sa più come uscire da due problemi che sono sul tappetto e che esso stesso ha creato. La faccenda del generale libico, appunto, e il pacchetto sicurezza”. Partiamo dalla questione Almasri. “La decisione di rimandarlo libero in Libia è una decisione che ancora oggi il governo non ha spiegato né al Parlamento né al paese. Si tratta di una decisione incomprensibile, salvo che l’esecutivo non sappia dare una spiegazione accettabile”. La premier ha detto che ha scarcerarlo sono stati i giudici. “Piuttosto che affrontare il merito della questione ed eventualmente assumersi le proprie responsabilità, il governo preferisce, come si usa dire, buttarla in caciara. Attaccando la magistratura e presentandola come incapace, se non peggio”. Attacchi strumentali? “Un giorno sì e l’altro anche, la premier Meloni dichiara di non essere ricattabile, ma non dice assolutamente nulla che aiuti a capire da chi e perché. Ne vien fuori una cortina fumogena dietro la quale la premier finisce per nascondersi rifiutando ogni confronto politicamente serio come dovrebbe avvenire in democrazia”. Altro problema, diceva, è il pacchetto sicurezza. Perché? “È il più grande attacco alla libertà di protesta della storia repubblicana, un provvedimento diretto a infondere paura invece che sicurezza, che non tutela i diritti ma il potere, che punta a creare sudditi invece di cittadini”. Davvero nulla da salvare? “Condivido le conclusioni del professor Roberto Cornelli, dell’università degli studi di Milano, che ricorda come “ogni torsione autoritaria sia accompagnata o anticipata da strette repressive presentate come necessarie per garantire la sicurezza”. Un ammonimento che il nostro Paese non può permettersi di sottovalutare”. E il ruolo delle toghe? “Si preferisce dare addosso alla magistratura come metodo di distrazione di massa rispetto ai problemi che davvero dovrebbero interessare”. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha sottolineato diverse criticità della magistratura. “La lista di “perle” che ha inanellato è molto lunga. Dai mafiosi che non parlano al telefono all’inesistenza di reati spia per la mafia, dalla garanzia offerta come vecchio pubblico ministero che la separazione delle carriere non comporta alcuna subordinazione al potere esecutivo, esattamente quello che invece avviene in tutti i paesi in cui vi è la separazione. E poi la questione del generale libico. Siamo al teatro dell’assurdo”. Addirittura? “Oggi il ministro si rifiuta di dare qualunque spiegazione sul caso che pure lo ha visto protagonista in un ruolo centrale, perché, così ho letto, non ha avuto il tempo di consultare un documento di quaranta pagine scritto in inglese. Ribadisco: siamo al teatro dell’assurdo”. Magistrato rigetta le istanze e il detenuto muore in carcere: esposto archiviato “de plano” di Riccardo Radi terzultimafermata.blog, 4 febbraio 2025 Per la giustizia disciplinare l’esposto è da cestinare “con atto di segreteria” perché: “non integra illecito disciplinare la condotta del Magistrato di sorveglianza che rigetta ripetutamente le istanze difensive per la concessione di misure alternative al carcere nei confronti di detenuto affetto da gravi patologie, poi deceduto, a fronte dell’assenza di idoneo luogo in cui disporre la detenzione domiciliare, nel caso in cui le istanze siano state tempestivamente esaminate e il detenuto sia stato sottoposto alle idonee terapie in sede ospedaliera”. C’è poco da scandalizzarsi per la decisione del Procuratore Generale presso la Cassazione, al magistrato di sorveglianza non si può muovere alcun appunto: formalmente nulla da eccepire. Tempestività nell’esaminare le istanze difensive - Il luogo indicato per la detenzione domiciliare non era idoneo: casa occupata, priva di citofono per i controlli… chissà. Il detenuto è stato sottoposto alle “idonee terapie in sede ospedaliera”, certo stride la parola idonee con l’esito infausto ma non potendo accedere agli atti, le nostre sono solo congetture. La morte sicuramente non si sarebbe evitata con la concessione della detenzione domiciliare. Rimane solo l’amara sensazione della morte in una cella senza una parola di conforto di una persona cara che ti è vicino nell’ultimo istante della vita. Nella mente mi sovviene la frase di Libero Bovio: “Un giudice senza umanità è un giudice senza giustizia”. Magistrato di sorveglianza - Rigetto dell’istanza di misure alternative alla detenzione in carcere nei confronti di detenuto affetto da gravi patologie, poi deceduto - Rilevanza disciplinare - Condizioni. Non integra illecito disciplinare la condotta del magistrato di sorveglianza che rigetta ripetutamente le istanze difensive per la concessione di misure alternative al carcere nei confronti di detenuto affetto da gravi patologie, poi deceduto, a fronte dell’assenza di idoneo luogo in cui disporre la detenzione domiciliare, nel caso in cui le istanze siano state tempestivamente esaminate e il detenuto sia stato sottoposto alle idonee terapie in sede ospedaliera Lavoro nero in carcere: condannato il Ministero della Giustizia di Luca Rampazzo milanopost.info, 4 febbraio 2025 L’avvocato Marco Tavernese: “Al nostro cliente era stato fatto firmare un foglio, senza data, in cui si dichiarava che una parte importante del suo lavoro era svolto sotto forma di volontariato. Questa dichiarazione era stata corroborata da generiche testimonianze, assunte in maniera irrituale, come riporta la sentenza, di alcuni agenti di polizia penitenziaria”. Quindi il Ministero si era rifiutato categoricamente di pagare il dovuto. Il giudice ci ha dato ragione, riconoscendo che tutto il lavoro andava pagato, che quella dichiarazione non era rilevante e che le testimonianze erano inammissibili. Se non ci fosse una sentenza, del Tribunale di Roma, a darne conto, non ci si crederebbe: il Ministero della Giustizia sfrutta il lavoro nero dei detenuti. Le circostanze sono davvero incredibili. Un detenuto, MC, lavora nel suo carcere. È una delle attività che consentono una piena riabilitazione e reinserimento in società, che poi è la funzione primaria del carcere nella Costituzione. Alcune attività gli vengono pagate. Altre no. Giustizia qui è stata fatta. Ma ci sono altre migliaia di casi in cui, in virtù della disparità di rapporto tra datore di lavoro e lavoratore, il Ministero non paga e la fa franca. Ci stiamo attivando per riparare a questi torti. Chi porta il nome della Giustizia nel nome del proprio Ministero non può consentire che queste cose avvengano sotto i propri occhi”. Già nei mesi scorsi lo Studio Tavernese aveva ottenuto un importante riconoscimento, dalla Corte di Cassazione, sul diritto dei carcerati a termini di prescrizione umani: calcolati cioè dal fine pena, quando sono liberi, letteralmente, di far valere le proprie ragioni senza rischi di ritorsioni. E non, come sosteneva il Ministero, dalla fine del singolo “rapporto” (l’equivalente del contratto, solitamente annuale). Vedremo con il tempo se potremo parlare di una stabile vittoria per il mondo della riabilitazione penale, intanto oggi c’è un (ex) detenuto che, giustamente, festeggia. Giustizia, infine, è stata fatta. Guida in stato di ebbrezza, le tipologie di sospensione della patente di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 4 febbraio 2025 La II Sezione civile, sentenza n. 2425/2025, affermando quattro principi di diritto, ha distinto le due ipotesi di sospensione come “sanzione accessoria” e come “misura cautelare”. Arrivano i chiarimenti della Cassazione su guida in stato ebbrezza e sospensione della patente in funzione di sanzione accessoria o misura cautelare. La sospensione, ex art. 186 del codice della strada, infatti consegue a titolo di sanzione accessoria del reato ed è disposta dal giudice penale, anche se applicata in concreto dal Prefetto. La sospensione cautelare e preventiva, invece, è disposta dal Prefetto ai sensi dall’art. 223 del medesimo codice - entro un tempo ragionevole, la cui valutazione in concreto è rimessa al giudice del merito - e risponde alla necessità di impedire che, nell’immediato, il destinatario possa continuare a tenere una condotta pericolosa. Il caso era quello di un uomo colto alla guida in stato di ebbrezza, con tasso alcolemico superiore a 0,8 g/l. La Prefettura di Alessandria aveva disposto la sospensione cautelare della patente per cinque mesi. Il giudice di pace di Tortona, accogliendo il ricorso del conducente, aveva annullato l’ordinanza prefettizia e ordinato (ai sensi dell’art. 186 comma 8 c.d.s.) che il conducente si sottoponesse a visita medica. Successivamente, il Tribunale di Alessandria ha respinto l’appello della Prefettura, ritenendo illegittima la sospensione cautelare della patente di guida sul presupposto che non sarebbe prevista nel caso della guida in stato di ebbrezza regolato dall’art. 186 co. 2 lett. b) c.d.s. Contro questa decisione l’ufficio del Governo ha proposto ricorso in Cassazione sostenendo la violazione e falsa applicazione degli artt. 223, comma 1, e 186, comma 9, c.d.s. La II Sezione civile, sentenza n. 2425/2025, affermando un principio di diritto, ha stabilito che “la sospensione della patente di guida ex art. 186 del codice della strada consegue a titolo di sanzione accessoria del reato di guida in stato di ebbrezza di cui al comma 2 lett. b dello stesso articolo, ed è disposta dal giudice penale (anche se applicata in concreto dal prefetto)”. L’art. 186 (Guida sotto l’influenza dell’alcool), nella versione vigente al momento dei fatti dispone: “1. È vietato guidare in stato di ebbrezza in conseguenza dell’uso di bevande alcoliche. 2. Chiunque guida in stato di ebbrezza è punito, ove il fatto non costituisca più grave reato: […] b) con l’ammenda da euro 800 a euro 3.200 e l’arresto fino a sei mesi, qualora sia stato accertato un valore corrispondente ad un tasso alcolemico superiore a 0,8 e non superiore a 1,5 grammi per litro (g/l). All’accertamento del reato consegue in ogni caso la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida da sei mesi ad un anno; […] Inoltre, con un secondo principio, la Corte ha chiarito che “la sospensione cautelare e provvisoria della patente di guida prevista dall’art. 223 comma 1 c.d.s. - la quale deve intervenire entro un tempo ragionevole, la cui valutazione in concreto è rimessa al giudice del merito - che è l’anticipazione della sanzione accessoria irrogabile all’esito dell’accertamento giudiziale, ha lo scopo di tutelare l’incolumità dei cittadini e l’ordine pubblico, impedendo che il conducente, nell’immediato, continui a tenere una condotta pericolosa”. Tale sospensione cautelare e provvisoria “può essere disposta - siamo al terzo principio - anche ove ricorra la guida in stato d’ebbrezza, nel caso in cui essa costituisca reato (compresa, quindi, l’ipotesi di reato di cui all’art. 186 comma 2 lett. b c.d.s., per la quale è prevista la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida), purché tale sospensione preventiva intervenga in un tempo ragionevole”. Infine, la Cassazione, con il quarto e ultimo principio statuisce che “un’autonoma fattispecie di sospensione cautelare della patente, la cui ratio risiede nell’esigenza di acquisire rapidamente il riscontro medico sulla condizione del conducente, al fine di valutarne l’idoneità alla guida, e quindi anche in funzione della revoca della patente, è quella prevista dall’art. 186 comma 9 c.d.s., che il prefetto dispone fino all’esito della visita medica e che presuppone il riscontro di un tasso alcolemico superiore a 1,5 g/l nella persona sottoposta all’accertamento”. Friuli Venezia Giulia. Telemedicina, teleconsulto in carcere e più sicurezza per i sanitari di Lara Boccalon rainews.it, 4 febbraio 2025 Le novità dell’accordo tra Regione e amministrazione penitenziaria. Il protocollo d’intesa quinquennale tra Regione e Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria per il Triveneto appena deliberato dalla giunta Fedriga impegna aziende sanitarie e direzioni penitenziarie a operare all’interno di una più chiara, concreta e coerente cornice di azioni, per rispondere alle criticità finora registrate nell’assistenza sanitaria in carcere, prestando grande attenzione non solo alle persone detenute e alle loro aspettative di salute, ma anche alla sicurezza del personale sanitario che opera nelle carceri. Un insieme di norme e principi -spiegano dalla direzione centrale salute che l’ha messo a punto con l’amministrazione penitenziaria- che spinge fortemente allo sviluppo di percorsi condivisi e progetti congiunti per realizzare un miglioramento complessivo e coordinato della sanità penitenziaria. Tra le novità telemedicina e teleconsulto in carcere, protocolli operativi per gestire urgenze cliniche e grandi eventi critici. Quanto ai sanitari chiamati ad operare nelle carceri l’impegno è a garantire loro un livello di sicurezza più elevato. Un passo avanti rispetto a quanto già esisteva e che finora non ha soddisfatto le esigenze reali - così il garante regionale dei detenuti Enrico Sbriglia che plaude alla misura. Lo sforzo di due amministrazioni diverse di parlare lo stesso linguaggio, dando corpo finalmente ad una idea di medicina penitenziaria- afferma il garante assicurando che vigilerà sull’applicazione del protocollo. Se verrà onorato dalle parti in campo, semplificherà la vita a tutti e potrebbe anche fare scuola in Italia nel dare soluzioni a quello che oggi, resta il problema dei problemi, rimarca Sbriglia. Un protocollo che va oltre a qualcosa che non c’è - afferma critico il presidente regionale del sindacato dei medici di famiglia - Snami Stefano Vignando. A suo dire nel documento non pare esserci traccia della assistenza medica generica quotidiana in carcere che doveva essere garantita dai medici di medicina generale secondo quanto già previsto - ricorda Vignando - da delibere di giunta del 2016 e 2019 rimaste inapplicate. Modena. Quarto detenuto morto in carcere in poco più di un mese di Daniele Montanari Gazzetta di Modena, 4 febbraio 2025 Il 27enne Mohamed Doubali è stato trovato senza vita ieri mattina. Si sospetta l’overdose di farmaci. Gli era stato tolto il rischio suicidio. Un’altra morte in carcere, riconducibile con ogni probabilità a un suicidio. Il quarto nel giro di poco più di un mese. E stavolta si parla di un giovane di soli 27 anni. Si chiamava Mohamed Doubali, aveva problemi di droga e in passato aveva già dato segnali di grave malessere che avevano portato a ritenerlo a rischio suicidio. Poi però dopo la visita di uno psicologo l’allarme sembrava rientrato. E invece la situazione è precipitata, nella solitudine della notte. È stato trovato morto ieri mattina. Morto già da tempo: inutili i tentativi di soccorso. La Procura ha disposto subito accurati accertamenti sulla dinamica del decesso, tanto che solo nel primo pomeriggio è arrivato il nulla osta alla rimozione della salma, condotta dalle onoranze di Gianni Gibellini in Medicina legale. Da quanto emerso però sono state subito escluse responsabilità di terzi. La morte, secondo quanto trapelato, è stata dovuta a un’overdose di farmaci. Il giovane infatti aveva una normale prescrizione di farmaci, essendo in cura presso il SerDP di Modena, il Servizio dipendenze patologiche. Aveva problemi di droga, ma era seguito anche dal centro per la salute mentale. Il 29 gennaio era stato visto da uno psicologo, e in seguito a questa visita gli era stato tolto il rischio suicidario lieve che aveva in precedenza. Il fatto che abbia ingerito la dose fatale di farmaci di notte, quando la sorveglianza è più difficile, fa pensare invece proprio a un intento suicida, ma la dinamica verrà accertata con l’autopsia. È il quarto morto in poco più di un mese al Sant’Anna. Il 31 dicembre era stato trovato privo di vita un 37enne macedone, intossicato in cella dal gas della bomboletta per la cucina. Il 4 gennaio è morto in ospedale un 29enne marocchino per le conseguenze di un tentativo di suicidio di metà dicembre. E sempre con la bomboletta il 7 gennaio si è ucciso il 49enne Andrea Paltrinieri. L’allarme - “È iniziato in modo tumultuoso l’anno al Sant’Anna - sottolinea Giuseppe Saracino, segretario regionale del sindacato Osapp di polizia penitenziaria - con quattro morti, aggressioni al personale della penitenziaria e un’utenza sempre più attenzionata per le problematiche psichiche. Quello che sollecitiamo nuovamente come sindacato, nell’attuale situazione emergenziale in termini di carenza di organico, è un rinnovamento del sistema penitenziario italiano e un intervento della politica a livello centrale e territoriale”. “L’ennesima morte al Sant’Anna è il drammatico segnale di un sistema penitenziario incapace di garantire condizioni di vita dignitose e di prevenire il ripetersi di questi eventi tragici” sottolineano il capogruppo Pd in Consiglio comunale a Modena Diego Lenzini e il consigliere Luca Barbari. “La situazione di sovraffollamento, carenza di personale e assenza di programmi efficaci di reinserimento è stata resa nota da tempo, ma il governo continua a non agire: questo ennesimo decesso è la dimostrazione del totale fallimento e dell’inadeguatezza del sottosegretario Andrea Delmastro, per cui continuiamo a chiedere le dimissioni. Servono azioni immediate e concrete per la sicurezza e il rispetto della dignità umana”. Modena. Emergenza suicidi in carcere, la maledizione del Sant’Anna di Valentina Reggiani Il Resto del Carlino, 4 febbraio 2025 Non può essere solo un caso. Il fatto che in un mese quattro persone si siano tolte la vita - tra cui ragazzi giovani che, una volta scontata la pena, avrebbero avuto tutto il futuro davanti - è sinonimo di un grande malessere oltre che di una conclamata emergenza. Ieri mattina è stato trovato morto in una cella del carcere Sant’Anna il quarto detenuto. Un ragazzo di 27 anni, di origine marocchina morto - pare - a causa dell’assunzione smodata di farmaci. Il decesso probabilmente risale alla nottata ma “è stato scoperto ore dopo”. A darne notizia è il garante regionale per i detenuti dell’Emilia-Romagna, Roberto Cavalieri. Sicuramente nelle prossime ore sarà disposta l’autopsia ma quello che si sa è che il giovane, lo scorso 29 gennaio - ha fatto sapere il garante - è stato visto da uno psicologo ed era stato escluso il rischio suicidario lieve ‘rilevato’ in precedenza. Il 27enne era finito in carcere per il reato di rissa aggravata e pare fosse seguito per uso di sostanze e per patologie mentali. “La famiglia vuole vedere la salma e vuole avere informazioni sulle motivazioni del decesso - afferma il legale dei parenti della vittima, avvocato Tea Federico -. Non sappiamo ancora se sarà disposta l’autopsia: attendiamo notizie e abbiamo fatto le richieste del caso”. Proprio a seguito dei primi tre suicidi in carcere il garante regionale Cavalieri e la garante comunale, Prof. Laura De Fazio, si erano recati in visita nel penitenziario insieme ad una delegazione della Camera penale. La volontà era ed è quella di trovare imminenti soluzioni alla carenza di organico e al sovraffollamento e al sopralluogo era presente anche l’assessora regionale al Welfare, Isabella Conti che aveva rimarcato l’impegno della Regione in tal senso. I primi tre decessi sono avvenuti tra il 31 dicembre e il 6 gennaio scorso: a togliersi la vita anche Andrea Paltrinieri, l’ingegnere modenese 50enne finito in carcere un anno fa per il brutale omicidio della moglie 40enne Anna Sviridenko. A seguito della morte di Paltrinieri la procura ha aperto un fascicolo - per ora contro ignoti - ipotizzando l’istigazione al suicidio e nei giorni scorsi, a seguito della nomina dei periti, è stata effettuata l’autopsia. La situazione del penitenziario modenese risulta dunque delicata, tenendo presente anche che recentemente alcuni detenuti hanno incendiato una cella restando gravemente feriti. Non solo: per salvare loro la vita nove agenti di polizia penitenziaria sono rimasti intossicati. Sulla questione carcere interviene il Pd - “La situazione di sovraffollamento, carenza di personale e assenza di programmi efficaci di reinserimento è nota da tempo, ma il governo continua a non agire - commentano il capogruppo Pd Diego Lenzini e il consigliere comunale Luca Barbari - e questo ennesimo decesso è la dimostrazione del totale fallimento e dell’inadeguatezza del sottosegretario Andrea Delmastro, per cui continuiamo a chiedere le dimissioni. Di fronte all’assenza di misure concrete per arginare questa strage silenziosa, chiediamo azioni immediate e concrete per garantire sicurezza e rispetto della dignità umana all’interno della nostra casa circondariale quali l’attivazione di protocolli efficaci per la prevenzione del disagio psichico e del rischio suicidario. Ogni morte in carcere è una sconfitta per lo Stato e per il sistema giudiziario, per questo non è più accettabile l’immobilismo delle istituzioni”. “I numeri che arrivano da Modena sono preoccupanti: è la conseguenza di una stortura che si aggiunge alle drammatiche condizioni in cui versano tutte le nostre carceri, sovraffollate e fatiscenti” dice Ivan Scalfarotto (senatore Iv). Belluno. Incendio al carcere di Baldenich, ustioni gravi per due detenuti di Dimitri Canello Corriere del Veneto, 4 febbraio 2025 Fiamme in una cella: i marocchini elitrasportati al Centro specializzato di Padova. Protesta o incidente. Ieri pomeriggio un incendio nel carcere cittadino di Baldenich ha causato gravi ustioni a due detenuti marocchini. Il rogo nella cella in cui si trovavano reclusi e le cause dell’episodio sono in accertamento da parte delle autorità penitenziarie. Che ieri non si sono sbilanciate. Resta da chiarire se l’incendio sia stato provocato intenzionalmente, come gesto di protesta o danneggiamento sfuggito di mano o se si sia trattato di un incidente a cui i due non sono riusciti a rimediare. Le prime ricostruzioni propendono per un evento accidentale, degenerato fino a coinvolgere pesantemente i due detenuti che hanno riportato ustioni gravi. Uno, 31 anni, è stato trasferito d’urgenza in elicottero al Centro Grandi Ustionati di Padova. L’altro, un 24enne, dopo un primo ricovero all’ospedale “San Martino” di Belluno, è stato anche lui elitrasportato a Padova - nella stessa struttura del compagno di cella - in prognosi riservata. L’episodio ha destato forte preoccupazione nel carcere e tra il personale penitenziario che ha immediatamente attivato le procedure di emergenza per domare le fiamme e soccorrere i feriti. Gli inquirenti stanno esaminando ogni dettaglio per comprendere l’origine dell’incendio e valutare eventuali responsabilità. Secondo i primi riscontri il trentunenne sarebbe quello a maggiore rischio, mentre il ventiquattrenne se la dovrebbe cavare con minori lesioni. Palermo. Stretta sui pacchi alimentari in carcere, protesta al Pagliarelli di Fabio Greco agi.it, 4 febbraio 2025 I detenuti in sciopero della fame contro una circolare del Dap a livello regionale che inasprisce il regime di detenzione, a partire dall’ingresso in cella di alcuni prodotti. Docce senz’acqua calda, analisi mediche rinviate di mesi, divieto di telefonate, un taglio drastico ai pacchi di alimenti inviati dalle famiglie e tra qualche mese, lo stop all’ingresso di coperte e indumenti in pile, economici ma urgenti in un edificio “di ghiaccio”: la tensione è altissima nel carcere Pagliarelli di Palermo, dove i detenuti hanno battuto le stoviglie sulle sbarre, come ormai fanno mattina e sera da oltre una settimana, e cominciato uno sciopero della fame per protesta contro una circolare del Dap a livello regionale che inasprisce il regime di detenzione, a partire dall’ingresso di alcuni prodotti. “La battitura - ha detto all’AGI Pino Apprendi, Garante dei diritti dei detenuti al Comune di Palermo, che si è recato in visita questa mattina al carcere - è iniziata poco fa al reparto protetti, e poi ha coinvolto tutti gli altri”. Le scene sono simili a quelle viste a Siracusa un mese fa, quando sotto Natale venne vietato l’ingresso di cibo dall’esterno. “La circolare - prosegue - è simile, il 24 gennaio scorso è stata modificata la parte relativa alle coperte, il cui ingresso dall’esterno sarà vietato a partire dal prossimo inverno, ma restano i paradossi: il detenuto dovrà acquistare una coperta all’interno del carcere, ma poi per farla lavare questa andrà fuori alle famiglie e non potrà rientrare. Non è stata modificata la parte più grave, quella che vieta l’ingresso dall’esterno di pacchi con alimenti: la gran parte dei detenuti è non abbiente, mentre il 40% proviene da fuori Palermo. Parliamo, in tutti i casi, di persone disperate. Al sovraffollamento, alle mancate cure, alla delocalizzazione del detenuto - si rammarica Apprendi - si aggiunge anche questo inasprimento. Ci aspettavamo un segnale di buona volontà da parte dell’amministrazione penitenziaria, e invece ci arriva questa risposta: la reazione è una protesa non violenta, e speriamo che resti tale”. Misure così rigide non se le aspettavano, forse, neanche i detenuti. “La battitura va avanti da una settimana - spiega all’AGI l’avvocato Cinzia Pecoraro - ma non ha sortito alcun effetto. Di conseguenza, i detenuti hanno deciso per proteste più possenti, visto che sono state revocate, senza spiegazioni, alcune possibilità di avere beni non voluttuari, ma di necessità. Nei vari reparti è stato affisso un avviso con le nuove misure, delle quali non si comprende la motivazione. A Siracusa era successa la stessa cosa, è poi intervenuto il magistrato di sorveglianza e alcune cose i detenuti le hanno riottenute. Si tratta di restrizioni che vanno a colpire solamente il diritto del detenuto a vivere in condizioni umane. Ho detto ai miei clienti di fare una richiesta congiunta di colloquio con il magistrato di sorveglianza in presenza dell’avvocato. Tra l’altro, noi scriviamo anche al direttore del carcere, ma con gli avvocati non parlano, nessuno ci risponde”. Al Pagliarelli c’è “una situazione di delirio assoluto - sottolinea l’avvocato Giuseppe Seminara, della Camera penale di Palermo - di fronte alla quale ci si continua a girare dall’altra parte”. Le nuove restrizioni si aggiungono a un quadro già drammatico: “Stanno togliendo - ha raccontato all’AGI - la possibilità di telefonare alle famiglie, le persone sono senz’acqua calda, non hanno come coprirsi in un edificio che, essendo un prefabbricato, è freddo come il ghiaccio e senza riscaldamenti. Il medico che va in visita nel carcere a rotazione, ha ogni volta una specializzazione diversa: un giorno c’è l’urologo e la settimana dopo un cardiologo, con un’alternanza tra i medici non congrua” e che non tiene conto delle patologie. “Le analisi mediche all’esterno - prosegue Seminara - vengono rinviate di mesi. A un mio assistito hanno sbagliato due volte le analisi, confondono i medicinali; a una persona che ha avuto un attacco non hanno dato gli antiepilettici”. Quanto all’ingresso dei beni dall’esterno, Seminara ricorda che “l’80% dei detenuti non è abbiente, e l’acquisto all’interno del carcere dei prodotti di necessità arriva a costare in modo eccessivo”. La circolare del Dap - che arriva a vietare perfino salumi, farine, lieviti, crostacei e dentifrici - è stata accolta negativamente dal garante regionale dei detenuti, Santi Consolo. Le proteste al Pagliarelli, spiega all’AGI, rappresentano “un segnale di malessere, ma non ho ancora visto la circolare, che avevo richiesto al provveditore”. “I segnali dell’inopportunità di questa circolare - ha proseguito Consolo, parlando con l’AGI - erano evidenti perché già a Siracusa c’erano già state delle proteste. Speriamo in ripensamenti e correttivi, perché da quello che ci è dato sapere il provveditore aveva chiesto pareri a tutti i direttori degli istituti penitenziari. La circolare era stata annunciata da parecchio tempo a livello, ma alcune direzioni ne avevano ritardato l’applicazione. Ritengo - ha aggiunto - che non sia questa la via per mantenere l’ordine e la sicurezza all’interno degli istituti penitenziari, ma chi ha potere decisionale si assume la responsabilità di quello che fa”. Palermo. L’allarme di Antigone: “Detenuti avvolti nelle coperte per il freddo” palermotoday.it, 4 febbraio 2025 Nel penitenziario dei Pagliarelli il riscaldamento manca da quasi 20 anni, costringendo “i detenuti a fronteggiare le basse temperature con mezzi di fortuna, vestendosi a strati e utilizzando coperte insufficienti per garantire un adeguato riparo dal freddo”. Il vicepresidente dell’associazione in difesa dei diritti dei reclusi, Francesco Leone: “Nel penitenziario mancano riscaldamento e acqua calda, mentre l’Amministrazione penitenziaria vieta l’ingresso di vestiti in pile”. “I detenuti girano avvolti nelle coperte per il freddo”. È la situazione all’interno del carcere Pagliarelli descritta dall’avvocato Francesco Leone, vice presidente di Antigone Sicilia, l’associazione in difesa dei diritti dei detenuti che il 29 gennaio 2025 ha ispezionato l’istituto riscontrando gravi criticità. Prima di tutto, la mancanza del riscaldamento. Un problema che rischia di peggiorare a causa della circolare emessa dal provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria che il 19 novembre 2024 ha imposto nuove restrizioni all’ingresso nel penitenziario di generi di prima necessità. Tra cui, i vestiti in pile. “Il divieto di portare indumenti pesanti è particolarmente grave, considerando che molte carceri siciliane, tra cui il Pagliarelli, sono prive di riscaldamento”, spiega l’associazione Antigone in un comunicato. Misura che nei giorni scorsi ha scatenato la protesta dei detenuti. Dal 28 gennaio sbattono le pentole sulle sbarre delle celle tre volte al giorno: mattina, mezzogiorno e sera. Mentre oggi hanno avviato lo sciopero dalla fame. Nel penitenziario il riscaldamento manca da quasi 20 anni, costringendo “i detenuti a fronteggiare le basse temperature con mezzi di fortuna, vestendosi a strati e utilizzando coperte insufficienti per garantire un adeguato riparo dal freddo”. In più, non c’è acqua calda nelle celle dove mancano le docce e anche dove ci sono non sempre possono essere usate per via della scarsa pressione che costringe i reclusi dei diversi piani a fare dei turni. “I lavori di adeguamento - prosegue Antigone - sono già stati finanziati, ma non programmati, a causa del sovraffollamento della struttura che non ha la possibilità di trasferire i detenuti da un reparto all’altro”. Non si tratta, però, dell’unico problema individuato durante il sopralluogo effettuato da Leone, insieme agli avvocati Valentina Russo e Salvatore Cristaldi, che nella visita sono stati accompagnati dalla direttrice del carcere, Maria Luisa Malato, e dal comandante della polizia penitenziaria, Giuseppe Rizzo. Un altro nodo riguarda l’assistenza sanitaria. Gli osservatori di Antigone hanno rilevato che, nonostante la presenza di un presidio medico interno, l’accesso alle cure specialistiche è molto limitato. Come per il resto della popolazione, infatti, visite ed esami vengono prenotati attraverso il Centro unico di prenotazione negli ospedali disponibili che possono trovarsi non solo nel centro della città, ma anche in provincia. La cronica carenza di personale addetto al trasporto rende, però, impossibile garantire la presenza simultanea di più detenuti nelle strutture mediche, con il risultato che ogni giorno vengono annullate e riprogrammate tra le 10 e le 15 visite. Così i tempi di attesa possono diventare eterni. Un caso significativo è quello di una donna malata oncologica che attende da oltre quindici giorni che l’ASP prenda in carico la sua situazione. Dopo l’ispezione Leone, Russo, Cristaldi, e il presidente regionale di Antigone, l’avvocato Giorgio Bisagna, chiedono “interventi urgenti per garantire il diritto alla salute e a condizioni di detenzione dignitose. Nella consapevolezza dei grandi sforzi profusi dal personale interno, non si può eludere che l’assenza di riscaldamento, la mancanza di acqua calda e i ritardi nelle cure sanitarie sono criticità gravissime che devono essere risolte al più presto”. Inoltre, Antigone propone “un serio ripensamento sulla circolare Dap”, che definisce “inutilmente restrittiva e destinata ad amplificare alcune delle criticità riscontrate”. Palermo. Detenuta malata oncologica attende da giorni la presa in cura dall’Asp livesicilia.it, 4 febbraio 2025 “L’accesso alle cure specialistiche è fortemente limitato. Una detenuta malata di cancro attende da oltre quindici giorni che l’Asp prenda in carico la sua situazione, mentre i medici del carcere sollevano preoccupazioni sulla possibilità che la malattia possa progredire e divenire fatale”. Lo dicono il presidente dell’associazione Antigone di Palermo, Giorgio Bisagna, e il vicepresidente Francesco Leone. “Nonostante la presenza di un presidio medico interno, l’accesso alle cure specialistiche è fortemente limitato. Le visite e gli esami vengono prenotati attraverso il Cup (Centro unico di prenotazione) come per il resto della popolazione. Pertanto i detenuti devono essere trasportati dalla polizia penitenziaria nelle strutture sanitarie della provincia disponibili”, aggiungono. “La cronica carenza di personale addetto al trasporto rende però impossibile garantire la presenza simultanea di più detenuti nelle strutture mediche, con il risultato che ogni giorno vengono annullate e riprogrammate tra le 10 e le 15 visite. I tempi di attesa possono diventare lunghissimi, mettendo a rischio la salute dei detenuti”. Trieste. “Seconda Chance” e Illycaffè insieme per la formazione e il reinserimento dei detenuti triesteallnews.it, 4 febbraio 2025 Inclusione sociale per le persone all’interno delle carceri. È questo l’impegno dell’Associazione no profit ‘Seconda Chance’ a cui si aggiunge il contributo di Illycaffè. Conclusi i primi corsi sul caffè tenuti dagli insegnanti dell’Università del Caffè di Illy presso la casa circondariale “Ernesto Mari” di Trieste (via del Coroneo, 26) - nell’ambito del percorso di formazione sulle tecniche base di panificazione e pasticceria - è infatti prevista per marzo una nuova attività didattica sulla caffetteria e pasticceria, nonché nel settore dell’ospitalità e della ristorazione, a prova dell’unione tra le competenze e l’impegno delle due realtà coinvolte. “Crediamo nell’importanza di offrire una seconda chance a chi ha perso la strada. Il reinserimento nella società non è scontato e purtroppo ci sono pregiudizi nei confronti di tutte le persone che la vita ha messo nell’angolo - afferma Cristina Scocchia, ad di Illycaffè - È compito della collettività farsene carico e le aziende stesse, in quanto corpi sociali, devono dare il loro contributo. La formazione può rappresentare una via di uscita e di riscatto”. “Siamo sinceramente grati a Illycaffè per il supporto e la fiducia che hanno riposto in Seconda Chance. È solo grazie a collaborazioni come queste che possiamo sperare di realizzare molte altre iniziative di successo, non solo in Friuli Venezia Giulia, ma anche oltre i confini regionali” spiega Flavia Filippi, Presidente di ‘Seconda Chance’. Grazie alla possibilità di frequentare corsi di studio o di aggiornamento professionale, anche i detenuti acquisiscono così nuove competenze in diversi settori e hanno la possibilità di pensare alla propria evoluzione sociale ed individuale, vivendo in modo più costruttivo la detenzione nella prospettiva di un reinserimento nella società. La casa circondariale di Trieste sta impostando il suo programma formativo su questo principio e su un attento monitoraggio dei settori in cui vi siano reali e concrete opportunità di reinserimento dei detenuti, ad esempio come quello della ristorazione. In tal senso, “Seconda Chance”, fondata nel 2022 da Flavia Filippi, possiede lo scopo di creare un ponte tra il mondo delle carceri e le imprese. Carinola (Ce). Se l’orto cresce durante la pena. Ecco la verdura del riscatto di Walter Medolla Corriere del Mezzogiorno, 4 febbraio 2025 Sono letteralmente quaranta braccia prestate all’agricoltura. E sono quelle dei venti detenuti del carcere di Carinola coinvolti nel progetto “Crea”, acronimo di “Coltivare responsabilità e alternative in agricoltura”. L’iniziativa promossa è dal Provveditorato regionale amministrazione penitenziaria per la Campania, in collaborazione con le cooperative sociali Terra Felix, La Strada, L’uomo il legno, oltre alle aziende agricole Naturiamo e Rusciano col supporto della Federazione provinciale di Coldiretti Caserta e finanziato da Cassa delle Ammende. Il progetto, avviato già da alcuni mesi nell’Istituto penitenziario in provincia di Caserta, prevede la coltivazione di oltre sette ettari in campo aperto dell’Istituto e la trasformazione dei prodotti nel laboratorio attivo presso la casa di reclusione di Carinola. “Già quattro di loro sono stati formati e assunti - spiega la provveditrice regionale Lucia Castellano - in un progetto più ampio che sosteniamo per creare occasioni lavorative reali per i detenuti. Abbiamo l’obbiettivo di far nascere una vera e propria filiera sfruttando i sette ettari del carcere, dove produciamo verdure di stagione, e poi c’è una serra per i funghi. I prodotti vengono venduti all’interno, alla polizia penitenziaria e agli stessi detenuti, promuovendo una sorta di chilometro zero reale”. A Carinola sotto la supervisione del direttore Carlo Brunetti e degli agenti della penitenziaria sono già attivi altri progetti di inclusione. “Ci muoviamo a livello provinciale - prosegue Castellano - facendo rete con tutti gli Istituti, la società civile e gli imprenditori del territorio”. Per i detenuti l’occasione è importante; vengono formati, impiegati e assunti dalle cooperative coinvolte. “È soprattutto un modo per continuare a sperare - spiega Francesco Pascale della coop Terra Felix - e per chi è coinvolto rappresenta una reale possibilità di reinserimento e riscatto. All’interno del carcere sono tutti collocati in una zona apposita, il condominio 21, dove vivono assieme. Si lavora con entusiasmo a prodotti biologici, impiegando metodi innovativi e sostenibili. Grazie a questa iniziativa i detenuti hanno la possibilità di coltivare prodotti con certificazione biologica nel tenimento agricolo annesso al carcere, utilizzando pratiche di agricoltura sostenibile”. Un esempio di queste pratiche è l’uso del telo pacciamante in mater-bi, fornito da Novamont Agro, che contribuisce a rendere le coltivazioni più ecologiche e rispettose dell’ambiente. Il progetto Crea rappresenta una straordinaria iniziativa di agricoltura alternativa che va oltre la semplice coltivazione di prodotti. È un percorso di responsabilità e cambiamento che offre ai detenuti un’opportunità reale. Catanzaro. “Teatro e carcere”, concluso il progetto in favore dei detenuti di Francesco Iuliano lanuovacalabria.it, 4 febbraio 2025 Coinvolgere la popolazione carceraria in un percorso di crescita personale e di riabilitazione dei detenuti attraverso l’arte. È stato soprattutto questo l’obiettivo del progetto denominato “Teatro e Carcere” realizzato dalla direzione della Casa circondariale “Ugo Caridi” di Catanzaro con la collaborazione dell’attore e regista, nonché direttore artistico del Teatro Comunale di Catanzaro, Francesco Passafaro. Un programma che si è concluso nei giorni scorsi con lo spettacolo teatrale dal titolo “Partita a scacchi”, andato in scena nel teatro dell’Istituto carcerario della città capoluogo. Un’iniziativa - è stato detto - che ha permesso ai detenuti che hanno partecipato, di esplorare le proprie emozioni, di affrontare le proprie paure e di sviluppare nuove competenze. “I detenuti della Casa circondariale di Catanzaro - ha commentato la direttrice Patrizia Delfino -, con la regia del maestro Passafaro, dell’aiuto regista Mario Scozzafava, con la guida dei funzionari giuridico-pedagogici e la collaborazione del personale della Polizia penitenziaria e dei volontari, hanno portato in scena lo spettacolo dal titolo “Partita a scacchi”. Un lavoro che ha riprodotto, in maniera molto realistica, dinamiche relazionali di vita quotidiana all’interno del carcere, con un messaggio chiaro: quello di non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te. L’attività teatrale - ha aggiunto - ha un’importante funzione rieducativa e trattamentale perché è in grado di far riflettere sui comportamenti negativi, favorendo il cambiamento ed il recupero dei valori violati con la commissione dei reati. Un’attività che consente, alle persone detenute, di impiegare il tempo della carcerazione in maniera positiva e costruttiva”. Lo spettacolo, scritto da Francesco Passafaro in collaborazione con i detenuti, ha raccontato una storia realmente accaduta nell’Istituto, evidenziandone il lato riflessivo ed ironico. Un lavoro che ha rappresentato, per i protagonisti, non solo un traguardo artistico, ma anche un potente strumento di trasformazione sociale. ‘Orgoglio, speranza, commozione’. Sono solo alcuni dei sentimenti percepiti sui volti dei detenuti che, per la prima volta nella vita, hanno avuto la possibilità di essere ascoltati e di esprimere se stessi in modo creativo. Dai detenuti, solo giudizi positivi. “Recitare - ha commentato un detenuto - mi ha fatto sentire libero, anche se solo per poche ore. Mi ha dato la forza di credere che posso cambiare”. Ed ancora. “Ho imparato a fidarmi degli altri ed a lavorare insieme per un obiettivo comune - ha commentato Vincenzo, altro detenuto coinvolto nel progetto”. “Questo spettacolo - ha detto Francesco - mi ha dato una nuova prospettiva sulla vita. Mi ha fatto vedere che posso essere più di quello che sono stato”. Per Paolo, “il teatro mi ha aiutato a trovare una voce che non sapevo di avere. Mi ha permesso di esprimere il mio dolore e le mie speranze in modo costruttivo”. Soddisfazione, per il risultato ottenuto, è stata espressa da Francesco Passafaro. “Attraverso il lavoro teatrale - ha commentato - i protagonisti hanno imparato l’importanza del lavoro di squadra, della disciplina e della responsabilità. “Partita a scacchi” ha mostrato come la creatività possa superare le barriere sociali e creare legami umani autentici. Lo spettacolo ha consentito ai detenuti di condividere le proprie storie e di connettersi con il pubblico in modo profondo e significativo. Invito la società civile - ha concluso - a sostenere iniziative che aiutino i detenuti nel loro percorso riabilitativo. “L’arte ha il potere di trasformare le vite, di creare nuove opportunità e di promuovere la speranza e la crescita personale. Insieme, possiamo fare la differenza e costruire un futuro migliore per tutti”. La lotta al Ddl sicurezza in Ue: “Fermiamo l’onda autoritaria” di Giuliano Santoro Il Manifesto, 4 febbraio 2025 La rete “A pieno regime” oggi a Bruxelles incontra parlamentari europei e organizzazioni sociali. E il 22 febbraio manifestazioni in tutt’Italia: a Napoli, Roma, Bologna, Milano. Dopo mesi di mobilitazioni, culminate nella grande manifestazione dello scorso 14 dicembre a Roma, la rete nazionale contro il Ddl sicurezza “A pieno regime” arriva a Bruxelles per denunciare la minaccia ai diritti in corso in Italia e confrontarsi con parlamentari europei ed esponenti della società civile e dei movimenti degli altri paesi dell’Unione europea. La delegazione è composta da una cinquantina di attiviste e attivisti di centri sociali, reti civiche, rappresentanti di Arci e Fiom. Questa mattina, alla sede del parlamento europeo presso la sala stampa Anna Stepanovna Politkovskaja, è prevista una conferenza stampa cui parteciperanno gli esponenti della rete, gli eurodeputati Benedetta Scuteri, dei Verdi, e Mimmo Lucano, del gruppo di The Left, e i segretari di Europa Verde Angelo Bonelli e Sinistra italiana Nicola Fratoianni. La compagine parteciperà anche a “Black Resistance against Eu Border Externalisation”, incontro promosso tra gli altri da Ilaria Salis e dedicato alle violazioni dei diritti umani in Tunisia e Libia. In serata, alle 18.30, l’agenda prevede l’assemblea alla sala Spinelli 1G2 con europarlamentari di diverse forze della sinistra europea: per sollevare il “caso Italia” ma anche per condividere l’allarme che coinvolge l’intera Europa. “Siamo a Bruxelles per fare suonare un campanello d’allarme ma anche per stringere alleanze a livello internazionale - spiega Luca Blasi, uno dei portavoce di “A pieno regime” - Perché siamo convinti che solo riconoscendoci a vicenda, come parte di un’unica lotta contro le destre estreme e oligarchiche del nostro tempo potremo costruire un’opposizione concreta e irriducibile al vento che spira in tutta l’Ue”. “La deriva autoritaria portata avanti dal governo Meloni si intreccia con i processi di natura anti-democratica e securitaria in corso in altri paesi d’Europa - aggiungono dall’Arci - Noi ci saremo anche con le reti europee delle quali facciamo parte, da Solidar al Forum civico europeo, a Euromed Rigths, che operano ogni giorno per difendere lo spazio civico e i diritti sociali e civili delle persone”. La trasferta europea è stata preceduta dalle tante assemblee locali organizzate dai nodi locali della rete che si batte contro il Ddl sicurezza. A Roma, domenica scorsa, gli attivisti hanno incontrato gli amici di Ramy Elgaml, il giovane rimasto ucciso al Corvetto di Milano, insieme anche ai comitati di Scampia e Quarticciolo che hanno lanciato la campagna parallela contro le misure emergenziali previste dal “Modello Caivano” promosso dall’esecutivo. Il confronto sulle periferie di Roma, Milano e Napoli è si è prolungato per tre ore. Le prossime manifestazioni, sparse in diverse città, sono state fissate per il 22 febbraio: si scenderà in piazza, tra l’altro, a Napoli, Bologna e Milano. Oltre che a Roma, dove l’ormai tradizionale manifestazione in ricordo di Valerio Verbano, giovane militante ucciso dai fascisti nel 1980, assumerà anche la battaglia contro il “Ddl Ungheria”. Da Milano, intanto, si apprende che il consulente incaricato dalla procura di studiare le fasi dell’incidente che hanno portato alla morte di Ramy dopo un inseguimento della gazzella dei carabinieri di circa 8 chilometri (percorso documentato da un video in cui si riconosce il tentativo di speronare la moto) dovrebbe consegnare la sua perizia soltanto alla fine del mese. La ricostruzione cinematica dell’ingegnere Domenico Romaniello dovrà stabilire la di fasi finali dell’incidente, tenendo presente la traiettoria dello scooter sul quale viaggiavano Ramy e Fares Bouzidi e dell’auto dei carabinieri, la velocità di marcia, le frenate brusche, fino al momento in cui lo scooter si è scontrato con un palo del semaforo. È stato invece fissato per il 18 aprile prossimo davanti al tribunale di Milano il processo, con rito immediato, nei confronti di Fares, che è accusato di resistenza a pubblico ufficiale per non essersi fermato all’alt degli uomini in divisa. Il nuovo Codice della strada: la legge che rassicura l’elettorato e non investe sull’educazione di Valeria Torre Il Riformista, 4 febbraio 2025 La parte generale del codice è ricca di norme definitorie relative a categorie dogmatiche, la cui costruzione tradizionalmente è riservata alla libertà dell’interprete, che induttivamente ricostruisce il significato di concetti generali e astratti. Gli ordinamenti stranieri, infatti, in un rispettoso equilibrio tra formate legislativo e quello dottrinale, non prevedono tali definizioni, riconoscendo come prerogativa della dottrina proprio quella di fornire un argine a protezione dell’individuo rispetto a eccessi punitivi. Idealmente la dogmatica si pone, quindi, quale limite garantista alle scelte di criminalizzazione, in una relazione dialettica con la politica criminale. La scelta del codice Rocco, invece, affievolisce il ruolo di controllo critico della scienza penale, imbavagliando l’interprete in un rigido schema normativo. La presenza di norme definitorie ha anche il pregio di favorire la certezza e l’omogeneità applicativa, nel rispetto del principio di uguaglianza. Nella definizione di reato colposo, ad esempio, risalta l’essenza della colpa quale violazione di una regola di diligenza, che determina il superamento del rischio consentito e una maggiore potenzialità lesiva della condotta. Nonostante le definizioni contenute nella parte generale costituiscano un limite anche per il legislatore, alcune riforme, chiaro frutto di arbitrio normativo, hanno portato ad una frantumazione della colpa in diversi sottosistemi, non sempre coerenti con la categoria dogmatica costruita sulla definizione codicistica. È legittimo che alcuni settori della parte speciale abbiano regole “eccentriche” rispetto a quelle previste nella parte generale, ma tale deviazione deve essere contenuta nei limiti dei princìpi e dei caratteri del diritto penale, nel rispetto di un ordine sistematico. La colpa stradale è paradigmatica di una tendenza centrifuga dall’archetipo di colpa delineato all’art. 43 c.p., in quanto prescinde, in alcuni casi, dalla violazione di regole cautelari in senso stretto. Nel comma primo dell’art. 589 bis c.p. l’incremento sanzionatorio dell’omicidio stradale è giustificato dalla pericolosità del contesto e della attività in cui si verifica l’evento morte e dalla necessità di richiamare gli utenti della strada all’osservanza delle norme di diligenza. È superfluo sottolineare che la violazione della disciplina della circolazione stradale deve riguardare quelle norme che presentino un contenuto preventivo-cautelare. Nell’ipotesi di abbandono di un animale domestico che provochi un incidente mortale, l’evento tipico non pare sia conseguenza della violazione di ulteriori regole preventivo-cautelari: il legislatore ha introdotto una ipotesi di responsabilità oggettiva, in cui la morte è conseguenza della contravvenzione prevista dall’art. 727 c.p., senza alcun riferimento ai criteri di imputazione colposa. I commi successivi disciplinano l’omicidio stradale nel caso di guida in stato di ebbrezza e/o in stato di alterazione psicofisica conseguente all’assunzione di sostanze stupefacenti. La guida in stato di ebbrezza, prevista dall’art. 186 del c.d.s., viene accertata in base al superamento del tasso alcolemico, che prescinde da una verifica empirica, introducendo una presunzione di tale stato. Anche il novellato art. 187 del c.d.s. punisce la guida dopo aver assunto sostanze stupefacenti, senza l’accertamento dell’alterazione psicofisica. Nonostante il rinvio operato dall’art. 589 bis c.p. agli articoli del c.d.s. occorre tenere distinti le ipotesi contravvenzionali extra codicem, il cui scopo è garantire in generale la sicurezza della circolazione, rispetto al delitto colposo che deve essere integrato da specifiche regole preventivo-cautelari poste a tutela della vita e della incolumità individuale. Le fattispecie contravvenzionali sono norme precauzionali e non preventivo-cautelari, costruite su reati di pericolo astratto-presunto. Per l’imputazione colposa, invece, è necessario accertare la violazione di una regola preventivo-cautelare, il cui scopo sia proprio prevenire l’evento che in concreto si è verificato ed evitabile attraverso il comportamento alternativo lecito. Nel caso si cagioni per colpa la morte di una persona alla guida di un veicolo in stato di ebbrezza o di alterazione psicofisica, la maggiore pericolosità della condotta non è accertata in concreto e neanche è richiesto di verificare una correlazione tra tale stato e l’evento morte. La irragionevole pena edittale, sproporzionata per un illecito colposo, è quindi avulsa da qualsiasi valutazione in termini di offensività. Alla palese violazione del principio di ragionevolezza, si aggiunge un vulnus al principio di colpevolezza, con l’introduzione di una forma di versari in re illicita: se si integra la fattispecie di cui all’art. 589 bis c.p. con le norme del codice della strada, queste, non essendo regole preventivo-cautelari, non possono fondare una imputazione colposa; se invece lo stato di ebbrezza o di alterazione psicofisica sono elementi da accertare in concreto, la norma è affetta da un deficit di tassatività, perché tale stato non può essere empiricamente accertato. L’aggravamento di pena per guida senza patente o senza assicurazione si inserisce in questa logica iperdeterrente e moralizzatrice, volta a colpire categorie di utenti della strada, prevalentemente per la condotta di vita. L’inefficacia della disposizione codicistica (cfr. dati ISTAT) svela la natura simbolica di una legge-manifesto, che rassicura l’elettorato e cela la totale assenza di investimenti sull’educazione stradale e sugli interventi strutturali che rendano più sicure le strade. Il fallimento di questa strumentalizzazione della sanzione penale per fini preventivo-pedagogici è evidente, mentre le deroghe alla disciplina generale della colpa determinano solo spinte centrifughe e distorsive che indirizzano l’evoluzione del sistema penale verso orizzonti insensibili ai princìpi di garanzia del diritto penale. Guida e assunzione di droghe: il cortocircuito interno tra piano amministrativo e penale di Nicola Madia Il Riformista, 4 febbraio 2025 La legge 25 novembre 2024, n. 177 contiene una serie di interventi sul codice della strada volti, in sostanza, ad inasprire i riflessi sanzionatori collegati alle violazioni in materia di circolazione di veicoli. In particolare, è stata irrigidita la disciplina punitiva relativa ai reati di guida in stato di ebbrezza alcolica e di alterazione derivante dall’uso di sostanze stupefacenti. Se il primo illecito è rimasto invariato, essendosi proceduto solo a innalzare le pene, ivi comprese quelle relative alla sospensione della patente di guida, dove il legislatore sembra avere operato un totale mutamento di politica criminale, è in ordine al fatto di chi si mette al volante dopo avere consumato sostanze stupefacenti. Mentre in passato tale contegno rilevava solo se il guidatore si trovava anche in stato di alterazione psicofisico, adesso sembrerebbe che la sanzione possa scattare a prescindere da tale accertamento. Il cortocircuito - Sarebbe sufficiente dimostrare la pregressa (anche remota) assunzione di droghe per ritrovarsi nella morsa del diritto penale, nonostante si sia ormai perfettamente lucidi. Sono contrario a qualsiasi forma di liberalizzazione di qualunque tipo di droga, ma questa riforma, se davvero va nella direzione ipotizzata, appare in contraddizione con la logica del sistema, scivolando sul piano inclinato di un’evidente irragionevolezza che rischia di condannarla all’illegittimità costituzionale. Infatti in Italia il mero consumatore di sostanze stupefacenti non risponde penalmente ma solo sul piano amministrativo. Prevedere la prigione per chi abbia fatto uso di droghe solo perché si è posto alla guida, senza più essere sotto il loro effetto, determina un cortocircuito interno all’ordinamento. Infatti, per tale via, si giunge a reprimere sul terreno penale, perlomeno nella materia in esame, il semplice consumatore di droga. E ciò potrebbe creare ulteriori pericolosi danni collaterali nei confronti di coloro i quali, per ragioni di salute, devono assumere medicinali contenenti princìpi attivi assimilabili agli stupefacenti. L’interpretazione - Per evitare queste disfunzioni e un prevedibile incidente di costituzionalità, si potrebbe però sperimentare un’interpretazione della novella legislativa coerente con il resto del sistema. Siamo infatti sicuri che, al di là delle intenzioni dei fautori della riforma, nella lettera della legge si sia oggettivizzata la punibilità del consumatore che si ponga alla guida con piena padronanza delle sue capacità mentali e in completo controllo di sé stesso? Ho qualche dubbio in proposito e, d’altronde, per verificare la reale portata di una norma, non conta la c.d. mens legislatoris ma unicamente la mens legis, cioè il suo significato obiettivo derivante dall’esame del testo e del contesto sistematico in cui si colloca. Il nuovo comma 2-bis dell’art. 187 del codice della strada continua in effetti ad esigere, per procedere ad accertamenti più approfonditi sulle condizioni del conducente, che si abbia il ragionevole motivo di ritenere che lo stesso si trovi sotto l’effetto conseguente all’uso di sostanze stupefacenti. Si potrebbe dunque pensare che la legge, a prescindere dalle intenzioni dei suoi compilatori, pretenda ancora la ricorrenza dello stato di alterazione psicofisica, senza più la necessità del richiamo a tale dato nel primo comma dell’art. 187 che si risolveva in un inutile pleonasma semantico. Un po’ come avvenuto (seppure questa volta sarebbe in bonam partem) con la rielaborazione del reato di falso in bilancio, dove l’eliminazione dal testo dell’art. 2621 c.c. dell’espressa menzione dei falsi valutativi non ha impedito di affermarne la perdurante punibilità, essendosi definito quel richiamo una semplice ridondanza lessicale. Quello suggerito pare l’unico pertugio interpretativo per salvare la riforma da una dichiarazione di incostituzionalità, altrimenti difficile da scongiurare. Insomma, non aprire le porte all’uso libero delle droghe e punire chi guida ubriaco (anche se con una soglia di tolleranza minima - 0,5 grammi per litro di alcol - ora come prima così bassa, è complicato parlare di ubriachezza) o sotto l’effetto di stupefacenti, lo trovo assolutamente legittimo, ma colpire in maniera obliqua il mero consumatore o, peggio ancora, il povero assuntore di farmaci particolari, significa scuotere l’equilibrio del sistema. Ma forse il diavolo ha fatto le pentole e non i coperchi! Alle aule di giustizia l’ardua e auspicata sentenza. Nuovo Codice della strada: sulle droghe violato un principio costituzionale di Giuseppe Di Palo Il Riformista, 4 febbraio 2025 Non si può punire una condotta inoffensiva. L’automatismo creato tra assunzione e reato impedisce quella necessaria verifica del “minimum di offensività” che, secondo la giurisprudenza costituzionale, deve caratterizzare ogni fatto penalmente rilevante, anche nei reati di pericolo presunto. La recente riforma dell’articolo 187 del Codice della Strada è terreno fertile per questioni di spessore costituzionale. L’intervento legislativo, che ha eliminato la condizione di “alterazione” dagli elementi costitutivi della fattispecie - ora rubricata semplicemente come “guida dopo l’assunzione di sostanze” - si pone in aperto contrasto, tra gli altri, con il principio di offensività del reato. Tale principio, sintetizzato nel brocardo “nullum crimen sine iniuria”, trova il suo fondamento costituzionale negli articoli 13, 25 e 27 della Costituzione e afferma che il legislatore non può prescindere, nella configurazione dei reati, dal necessario collegamento con un’offesa - o la messa in pericolo - a un bene giuridico meritevole di tutela penale. L’offensività - Sul piano dell’applicazione pratica, il principio di offensività opera su due distinti livelli: come canone di politica criminale per il legislatore (offensività in astratto) e come criterio interpretativo-applicativo per il giudice (offensività in concreto). Nel primo caso, impone al legislatore di configurare fattispecie penali che contemplino la lesione o la messa in pericolo di beni giuridici costituzionalmente rilevanti. Nel secondo, richiede al giudice di verificare che il fatto storico abbia effettivamente leso o posto in pericolo il bene giuridico tutelato dalla norma. Il legislatore ha optato per un approccio che prescinde dalla verifica dello stato di alterazione psicofisica del conducente, configurando la mera assunzione di sostanze come elemento sufficiente per l’integrazione della fattispecie penale. La ratio dichiarata della riforma si fonda su esigenze di semplificazione probatoria e di potenziamento dell’efficacia deterrente della norma. Il legislatore ha inteso superare le difficoltà pratiche legate all’accertamento dello stato di alterazione, optando per un modello di incriminazione basato sul dato oggettivo dell’assunzione di sostanze, rilevabile attraverso gli screening tossicologici. Sono diversi i profili di aperto contrasto tra la nuova formulazione dell’art. 187 C.d.S. ed il principio di offensività. In primo luogo, la norma, nell’ancorare la punibilità alla mera presenza di tracce di sostanze nell’organismo, recide il necessario nesso tra condotta e offesa al bene giuridico tutelato. Il bene giuridico protetto dal Codice della Strada è infatti la sicurezza della circolazione stradale, che può essere messa a repentaglio solo da una effettiva alterazione delle capacità di guida del conducente. Opinare diversamente sottolineerebbe criticità anche in punto di ragionevolezza del precetto in esame: sul piano della capacità di guida, non sussiste alcuna differenza tra un conducente che, pur positivo al test, non presenta alterazioni psicofisiche, e un conducente che non ha mai assunto sostanze e si trova nel medesimo stato di lucidità. Solo tracce, niente effetti alteranti - La presunzione assoluta di pericolosità introdotta dalla riforma risulta priva di fondamento empirico-scientifico. È infatti ampiamente documentato che la mera presenza di tracce di sostanze nell’organismo non implica necessariamente un’alterazione delle capacità psicofisiche del conducente. Questo è particolarmente evidente nel caso di assunzioni risalenti nel tempo, allorquando permangano tracce nell’organismo sebbene gli effetti alteranti siano completamente esauriti. Il principio di offensività risulta violato anche nella sua dimensione concreta, privando il giudice della possibilità di valutare l’effettiva lesività della condotta nel caso specifico. L’automatismo creato tra assunzione e reato impedisce quella necessaria verifica del “minimum di offensività” che, secondo la giurisprudenza costituzionale, deve caratterizzare ogni fatto penalmente rilevante, anche nei reati di pericolo presunto. Tale costruzione normativa trasforma di fatto l’art. 187 C.d.S. in uno strumento di controllo di condotte meramente sintomatiche di un determinato stile di vita, allontanandosi dalla sua funzione costituzionalmente legittima di tutela della sicurezza stradale. La norma finisce così per punire non già una condotta pericolosa per la circolazione stradale, bensì l’assunzione pregressa di sostanze in sé considerata, trasformando surrettiziamente un reato di pericolo in un illecito di mera disobbedienza. Migranti. Caso Almasri, le opposizioni fermano l’Aula: “Avete liberato un torturatore” di Valentina Stella Il Dubbio, 4 febbraio 2025 La vicenda del comandante libico Almasri scarcerato in Italia e riportato a casa, a Tripoli, con un volo di Stato ha acceso molto gli animi ieri alla Camera dei deputati. Anche se all’ordine del giorno c’era il decreto cultura, le opposizioni sono tornate alla carica perché dal governo non è arrivata ancora nessuna notizia sull’informativa urgente ormai chiesta da giorni. Lo ha fatto per primo il leader del M5S Giuseppe Conte: “Chiedo a nome di tutto il gruppo un’informativa urgente di Giorgia Meloni che deve venire in Parlamento a spiegare agli italiani la versione vera sul caso Almasri. Deve venire il presidente, non può essere certo il ministro che cura i Rapporti con il Parlamento. Meloni deve chiarire al Paese perché lei donna, madre, cristiana ha consentito tutti gli onori di un volo di Stato per sottrarre alla giustizia internazionale un boia, accusato addirittura di stupro di bimbi di 5 anni”. A lui si è associato il Pd: “Domani (oggi, ndr) è convocata una conferenza dei capigruppo e anticipiamo che non siamo disponibili a riprendere i lavori d’Aula se non ci sarà una risposta adeguata. Di questo tema si deve parlare qui, in Parlamento” ha dichiarato la capogruppo dem Chiara Braga, accusando l’esecutivo di “scappare dalle proprie responsabilità e svilire il ruolo del Parlamento”. Con ironica critica si è pronunciato anche il segretario di + Europa Riccardo Magi: “Chiamate Chi L’ha Visto?, perché su Almasri il governo è sparito. E domani (oggi, ndr), a quasi una settimana dal rinvio dell’informativa di Nordio e Piantedosi, ci prepariamo a una capigruppo al buio, in cui nessuno sa se l’intenzione dell’esecutivo sarà quella di riferire o meno sulla liberazione, via Falcon di Stato, del torturatore libico. Ancora una volta Meloni e la sua squadra di ministri dimostrano scarso rispetto delle istituzioni e prendono a calci la democrazia parlamentare, che per la premier deve sembrare ormai un fastidioso orpello”. Contro il governo anche Davide Faraone, capogruppo di Italia viva alla Camera: “Dal 21 gennaio, giorno in cui Almasri è stato riaccompagnato in Libia, abbiamo chiesto più volte che Giorgia Meloni venisse in Parlamento a dare spiegazioni. Al posto suo le hanno date Piantedosi, Nordio e Tajani ma con tre diverse versioni. L’unica volta in cui la premier ha parlato è stato su Facebook ma per annunciare che era indagata e attaccare la magistratura. Da allora, le informative di Nordio e Piantedosi sono saltate e l’attività parlamentare bloccata. In compenso i ministri hanno trovato il modo di parlare sui social e in televisione ma non nell’unico luogo in cui erano obbligati a farlo: in Parlamento”. Arriva poi la rassicurazione del vice presidente della Camera Sergio Costa: “La questione sarà affrontata domani (oggi, ndr) nella conferenza dei capigruppo convocata alle 13”. Intanto ieri l’associazione Baobab Experience ha reso noto che Lam Magok Biel Ruei, vittima di Osama Almasri, ha presentato alla procura di Roma una denuncia contro il Governo italiano per “favoreggiamento”: “Le condotte di Nordio, Piantedosi e Meloni hanno sottratto il torturatore libico alla giustizia”, si legge nel comunicato stampa che prosegue: “L’inerzia del ministro della Giustizia - il quale avrebbe potuto e dovuto chiedere la custodia cautelare del criminale ricercato dalla Corte penale internazionale - e il decreto di espulsione firmato dal ministro dell’Interno, con l’immediata predisposizione del volo di Stato per ricondurre il ricercato in Libia, hanno consentito ad Almasri di sottrarsi all’arresto e di ritornare impunemente nel suo Paese di origine, impedendo così la celebrazione del processo a suo carico”. L’uomo, assistito dall’avvocato Francesco Romeo, ha raccontato di essere stato “vittima e testimone” delle “atrocità”, degli “orrori” di Almasri che ha già raccontato alla Corte penale internazionale, “ma il Governo italiano mi ha reso vittima una seconda volta, vanificando la possibilità di ottenere giustizia sia per tutte le persone, come me, sopravvissute alle sue violenze, sia per coloro che ha ucciso sia per coloro che continueranno a subire torture e abusi per sua mano o sotto il suo comando. Una possibilità che - prosegue Lam - era diventata concreta grazie al mandato d’arresto della Corte penale internazionale e che l’Italia mi ha sottratto”. Ha raccontato di essere stato bendato, ammanettato e picchiato da Almasri e dai suoi uomini, di aver ricevuto percosse, calci, sprangate. “Abbiamo tutti letto la notizia di una presunta vittima di torture da parte di Almasri che ha denunciato il governo italiano per favoreggiamento. Esprimo solidarietà per quest’uomo che ha vissuto tante sofferenze. La sua sofferenza però, anche in questo caso, viene strumentalizzata contro il governo Meloni”, ha detto Matilde Siracusano, sottosegretario ai Rapporti con il Parlamento e deputata di Forza Italia, intervenendo a “Tagadà”, su La7. Migranti. Il caso Elmasry, il rovescio dell’interesse nazionale di Massimo De Carolis Il Manifesto, 4 febbraio 2025 Con buona pace dei nostalgici, l’epoca in cui una nazione come l’Italia poteva imporre il suo interesse sovrano a un paese africano sei volte più grande è passata. I nostri alleati naturali dovrebbero essere le forze che, nei singoli paesi africani, cercano realmente di creare condizioni di vita e di sviluppo più libere ed eque. Al netto degli attacchi alla magistratura, le dichiarazioni del governo e degli opinionisti di destra sul caso Elmasry ruotano intorno a un unico messaggio: rilasciare l’aguzzino libico e riportarlo a casa con tutti gli onori è stato fatto “nell’interesse della nazione”. A quanto pare il messaggio funziona e convince una parte non irrilevante dell’opinione pubblica, invocando due assunti di apparente realismo politico. Primo: decidere chi possa entrare e chi meno nel proprio territorio è una prerogativa cui nessuna nazione può rinunciare, se non vuol perdere del tutto la propria sovranità. Secondo: in casi di emergenza, il controllo dei flussi migratori può richiedere il pugno di ferro, giustificando anche il ricorso a gruppi criminali che, su nostro ordine e con i nostri soldi, compiono orrori di cui nessuna nazione civile vuol sentirsi responsabile ma dei quali, purtroppo, nessuna nazione ha mai potuto fare a meno per difendere la propria civiltà. I due assunti sollevano una quantità di dubbi già sul piano generale ma, nel caso specifico, trascurano un dettaglio macroscopico: che Elmasry e gli altri trafficanti di esseri umani non sono né servitori né alleati della nostra nazione. Prendono di sicuro i nostri soldi, ma è una pietosa finzione che prendano ordini da noi o che agiscano nel nostro interesse. Nei centri di detenzione libici, i migranti vengono regolarmente torturati non per dissuaderli dal varcare i sacri confini europei ma per costringere le famiglie a versare migliaia di euro, nella speranza di vederli alla fine imbarcati su una delle carrette del mare dirette a Lampedusa. I trafficanti insomma aprono e chiudono il rubinetto delle migrazioni a loro arbitrio, sommando i soldi estorti alle famiglie a quelli versati sull’unghia dall’Italia e dall’Europa. Ammesso perciò che qualcuno stia davvero governando i flussi migratori, sono i gruppi criminali a farlo - nel loro esclusivo interesse - e non certo le nazioni che ne subiscono il ricatto. Con buona pace dei nostalgici, l’epoca in cui una nazione come l’Italia poteva imporre il suo interesse sovrano a un paese africano sei volte più grande è passata da un pezzo. E ad aggravare i danni contribuisce la rivalità fra le nazioni europee, incapaci di promuovere un’azione congiunta e di contendere a Russia e Turchia la posizione di forza sul piano militare e diplomatico. Per tenere in piedi i loro interessi in Libia, oggi l’Eni e il governo italiano devono mendicare la benevolenza di tutte le fazioni armate del paese, rendendosi di fatto ricattabili a tal punto da dover offrire ai ricattatori ogni sorta di benefit, incluso il rientro a casa su un volo di stato. Pretendere su queste basi di governare un fenomeno di portata intercontinentale come le migrazioni è pura propaganda. Il che non toglie, ovviamente, che occorra cercare una via per sottrarsi ai ricatti. Non solo e non tanto nell’interesse della nazione, ma per mettere fine alla mostruosità che permette oggi ai gruppi criminali di lucrare sulle sofferenze di migliaia di persone, con la sistematica complicità dei governi europei. Il punto è intendersi su cosa voglia dire, realisticamente, adottare misure di governo su fenomeni di tale portata. Sappiamo tutti che la causa principale delle migrazioni è il divario mostruoso tra l’Europa e l’Africa nell’accesso alle risorse e al reddito. “Governare” uno squilibrio così esplosivo può avere due significati opposti: difendere con ogni mezzo il proprio privilegio o, al contrario, tessere una tela di relazioni cooperative perché gli squilibri si attenuino in misura graduale e tollerabile, a vantaggio della stabilità dell’intera area. Tra le due opzioni non ci sono vie di mezzo. L’America di Trump, per esempio, sta imboccando senza esitazioni la prima strada. È una scelta arrogante che, a lungo andare, potrebbe anche risolversi in un completo fallimento. Almeno però sui tempi brevi, l’America first può giovarsi dell’innegabile supremazia militare e finanziaria di una superpotenza. Non disponendo delle stesse armi, l’Europa non ha in effetti altra strada che la seconda opzione. Sarebbe quindi nel suo interesse rafforzare innanzitutto la cooperazione tra i paesi membri dell’Unione, per accrescerne il peso politico e negoziale. E decidersi a riconoscere che le migrazioni si ridurranno solo il giorno in cui sarà possibile aspirare a una vita decente anche rimanendo a casa propria, senza doversi avventurare in mare. I nostri alleati naturali dovrebbero essere perciò le forze che, nei singoli paesi africani, cercano realmente di creare condizioni di vita e di sviluppo più libere ed eque, anche se questo volesse dire calmierare gli interessi predatori delle aziende straniere. L’agenda delle nuove destre prevede invece l’esatto opposto: disintegrare l’unione europea e armare criminali e dittatori perché mantengano le popolazioni nel terrore. Una ricetta sicura per accelerare il declino dell’Europa, alimentando la vergogna della sua stessa società civile e il disprezzo dei popoli che la circondano. E tutto questo, in nome dell’interesse nazionale. Migranti. Un migrante denuncia l’esecutivo, Piantedosi e il Guardasigilli in aula di Franz Baraggino Il Fatto Quotidiano, 4 febbraio 2025 “Il Governo sapeva, ha chiesto all’Aja riserbo sull’arresto”. Nel comunicato ufficiale, l’Aja ha chiarito che “su richiesta e nel pieno rispetto delle autorità italiane, la Corte si è deliberatamente astenuta dal commentare pubblicamente l’arresto dell’indagato”. In altre parole, sostiene il legale del denunciante, Francesco Romano, il silenzio di Nordio “è stato chiaramente funzionale alla liberazione di Almasri”. “Vittima due volte”, del generale libico Almasri e del governo italiano. Si definisce così Lam Magok Biel Ruei, il cittadino del Sud Sudan che ha denunciato la premier Giorgia Meloni e i ministri della Giustizia e dell’Interno, Carlo Nordio e Matteo Piantedosi, per “favoreggiamento” di Najeem Osema Almasri, il generale libico noto come Almasri, arrestato a Torino il 19 gennaio, rilasciato 48 ore dopo e subito accompagnato a in Libia con un volo di Stato per ragioni che il governo non ha ancora chiarito. E’ la seconda denuncia che viene presentata alla Procura di Roma, dopo quella dell’avvocato ed ex sottosegretario Luigi Li Gotti per favoreggiamento e peculato, che viene presentata alla Procura di Roma. Stavolta a firmarla è chi ha subito in prima persona i crimini di guerra e contro l’umanità di cui Almasri è accusato, e testimoniato di fronte alla Corte penale internazionale quanto accadeva nel carcere di Mitiga, a Tripoli. A dettagliare l’accusa di favoreggiamento, si legge nel comunicato dell’associazione Baobab Experience, che assiste il denunciante con l’avvocato Francesco Romeo, il fatto che il governo Meloni sapesse del mandato fin dal primo momento, almeno stando a quanto ricostruito dall’Aja. Nel comunicato ufficiale di mercoledì 22 gennaio, l’indomani del rimpatrio di Almasri, la Corte penale chiariva che “su richiesta e nel pieno rispetto delle autorità italiane, la Corte si è deliberatamente astenuta dal commentare pubblicamente l’arresto dell’indagato”. In altre parole, sostiene il legale di Lam Magok, il silenzio di Nordio, che ha di fatto impedito la convalida dell’arresto - ha commentato Lam Magok -, “è stato chiaramente funzionale alla liberazione di Almasri”, in violazione della legge di ratifica dello Statuto della Corte penale che impone all’Italia piena collaborazione e rapida esecuzione dell’arresto. Il comunicato dell’Aja, ricorda l’associazione, dimostra che le autorità italiane erano state “coinvolte in una precedente attività di consultazione preventiva e coordinamento volta proprio a garantire l’adeguata ricezione della richiesta della Corte e la sua attuazione”. ?”La decisione di adottare il decreto di espulsione da parte del ministro dell’Interno Piantedosi - denuncia l’associazione -, è stata condivisa con la Presidente del Consiglio, come dichiarato e rivendicato da lei stessa in un video pubblicato su Facebook”. Almasri è stato rimpatriato per “motivi di sicurezza dello Stato”. Ma Lam Magok e il suo legale contestano l’espulsione, sottolineando che Almasri è ricercato per crimini in Libia, “dove continuerà a perpetrare violenze”. Ma secondo la giurisprudenza (art. 13 del Testo Unico sull’Immigrazione), l’espulsione per motivi di sicurezza “mira a prevenire reati in Italia e a evitare che la presenza dello straniero favorisca attività terroristiche”. Mente, “non risulta che Almasri abbia mai compiuto attività di tale natura sul territorio nazionale e che ci sia il rischio che possa porle in essere”, dichiara Romeo. “Differentemente i gravi reati di cui Almasri si è macchiato in Libia hanno prodotto un mandato di arresto”. Lam Magok è arrivato in Italia tre anni fa grazie a un corridoio umanitario della Comunità di Sant’Egidio e oggi è titolare di protezione sussidiaria. E’ attivista dei diritti dei umani da quando era ancora nel Paese Nordafricano, dove ha promosso sit-in di fronte alla sede dell’Unhcr. Da quell’esperienza è nato il movimento Refujees in Libya, che lo vede tra i fondatori. Oggi vive a Roma, ospite di uno dei progetti di inclusione sociale di Baobab Experience, che spiega: “E’ sempre in prima linea e il rilascio di Almasri non poteva certo sfuggirgli”. “Io sono stato vittima e testimone di queste atrocità, orrori che ho già raccontato alla Corte penale internazionale - commenta oggi -, ma il Governo italiano mi ha reso vittima una seconda volta, vanificando la possibilità di ottenere giustizia sia per tutte le persone, come me, sopravvissute alle sue violenze, sia per coloro che ha ucciso, sia per coloro che continueranno a subire torture e abusi per sua mano o sotto il suo comando”. Il 29 gennaio alla Camera, nella conferenza stampa organizzata da Refujees in Libya (video), ha raccontato le atrocità subite nella prigione di Mitiga, da cui riuscì a fuggire grazie a un ragazzo libico in semilibertà e dove subì percosse, scosse elettriche, obbligo di occuparsi dei cadaveri, detenzione in spazi ristretti. Nello stesso ambiente erano stipate fino a 80 persone, senza il posto necessario per dormire tanto che si faceva a turno e i turni di sonno non duravano mai più di due ore. E poi la riduzione in schiavitù e i lavori forzati, a scopi militari e non solo, come le indagini dell’Onu hanno confermato. Migranti. Almasri, opposizioni all’attacco del governo: “Meloni chiarisca”. Ma l’Aula è deserta di Federico Capurso La Stampa, 4 febbraio 2025 Il centrosinistra prometteva battaglia sul caso Almasri. E così eccoli sfilare alla Camera, tutti insieme, il presidente dei Cinque stelle Giuseppe Conte, il co-leader di Avs Nicola Fratoianni, la capogruppo Pd Chiara Braga, i deputati Roberto Giachetti per Italia viva, Benedetto Della Vedova di +Europa, Valentina Grippo con Azione: tutti decisi a chiedere a Giorgia Meloni di riferire in Aula. Sono ancora furibondi per l’escamotage attraverso il quale la premier ha evitato di spiegare in Parlamento il pasticcio combinato sul caso di Osama Almasri, il criminale libico prima arrestato e poi rimpatriato su un aereo di Stato con tante scuse: dopo la comunicazione a Meloni e ai suoi ministri, Nordio e Piantedosi, di essere indagati per il caso Almasri (un atto dovuto), la premier ha fatto annullare l’informativa. Per le proteste delle opposizioni e la loro minaccia di Aventino, mercoledì scorso, si erano quindi dovuti chiudere in anticipo i lavori in Aula. Settimana corta. Alla riapertura, però, c’è un clima da settimana bianca. I deputati del Pd sono solo in cinque. Quelli di Avs quattro. Uno a tesa per Azione, Iv e +Europa. Banchi della maggioranza deserti. Insomma, è l’affluenza tipica dei sonnacchiosi lunedì parlamentari. Solo il Movimento porta la maggior parte dei suoi eletti in Aula, sono in 30, e organizzano una staffetta: interverranno tutti durante la discussione, 10 minuti a testa. La minaccia è di arrivare a chiudere la seduta dopo le 23. Ma non faremo “nessuno show, niente di eclatante”, ammette Conte arrivando alla Camera. Sarà il primo a prendere la parola. Sta limando il discorso, cancella e cerchia con la penna le parole importanti. “Se sono carico? Ma no, non c’è lei”, allarga le braccia con un sorriso sconsolato. Lei, Meloni. Sogna un confronto. “Cercheremo di farla venire”, si incoraggia, prima di entrare in Aula. Ed è proprio così che inizia il suo intervento: “Meloni deve venire in Parlamento per dare agli italiani una versione vera di come sono andate le cose. Spieghi perché ha offerto gli onori di un volo di Stato a un boia accusato di aver stuprato una bambina di cinque anni. Solo lei può chiarire quali sono le motivazioni che espongono il nostro Paese alla vergogna nazionale e internazionale”. E poi i motivi che hanno portato all’annullamento dell’informativa lasciano “esterrefatti. Anche io, da presidente del Consiglio, ho ricevuto delle comunicazioni di indagini, ma non ho mai piagnucolato sui social”. Quella, dice, è stata un’operazione di “distrazione” degli italiani. Nel centrodestra non sembrano particolarmente preoccupati. I banchi della Lega sono deserti, così come quelli di Forza Italia. Per Fratelli d’Italia c’è il deputato Gimmi Cangiano e il presidente della commissione Cultura Federico Mollicone, ma solo perché in Aula c’è il decreto Cultura. “Faremo tardi, pazienza, ma domani mettiamo la fiducia sul decreto e buonanotte”. La capogruppo del Pd, Braga, prendendo la parola in Aula avverte però la maggioranza: “Non siamo disponibili a riprendere i lavori nella giornata di domani se non ci sarà una risposta alla nostra richiesta: la premier Meloni e autorevoli esponenti della maggioranza stanno parlando della vicenda Almasri ovunque - in tv, sui social, sui giornali -, noi vogliamo lo facciano qui in Parlamento”. Ma se il governo metterà la fiducia sul decreto, i lavori - come prevede il regolamento - verranno comunque sospesi fino a giovedì. E Meloni non sembra, per ora, avere alcuna intenzione di assecondare le richieste delle opposizioni. Al momento, a Palazzo Chigi, si starebbe invece ragionando su alcune strade alternative per uscirne. Un’ipotesi è quella di porre il segreto di Stato sul caso Almasri con un goffo ritardo. Altrimenti Meloni potrebbe chiedere al ministro per i Rapporti con il Parlamento, Luca Ciriani, di riferire in Aula a nome del governo, in modo da evitare di riaccendere la miccia delle opposizioni e convincerle a tornare dalla settimana bianca per fronteggiare “lei”. Migranti. Le “procedure accelerate” d’asilo finiscono alla Corte costituzionale di Giansandro Merli Il Manifesto, 4 febbraio 2025 Per un caso relativo al Cpr di Macomer la Cassazione solleva un quesito sulla lesione del diritto di difesa. Le “procedure accelerate” d’asilo finiscono alla Corte costituzionale. La Cassazione ha sollevato una questione di legittimità sulla lesione del diritto di difesa nel momento in cui il richiedente asilo ricorre in terzo grado contro la convalida del trattenimento. Il problema rilevato è che la legge di conversione del dl flussi, la 187 del dicembre 2024, non disciplina precisamente le tempistiche di quel contraddittorio rischiando di creare discriminazioni. Si tratta di un aspetto molto tecnico, ma è comunque la prima volta che viene interrogata la Consulta sull’effettività della difesa, art. 24 della Carta, nell’ambito degli iter speciali per la protezione. Non c’è un effetto diretto sulle cause analoghe, pendenti o future, ma ora le sospensioni sono dietro l’angolo. Le procedure speciali sono salite alla ribalta delle cronache per i casi “in frontiera”, nei centri in Sicilia e in Albania, ma sono applicate anche in altre circostanze. Per esempio quando un “irregolare” chiede asilo dopo essere finito in detenzione amministrativa. Diventa un richiedente ma la domanda è sottoposta a “procedura accelerata”. È quanto successo a un cittadino algerino che due settimane fa è stato rinchiuso nel Cpr sardo di Macomer. Ha chiesto protezione e così la convalida del trattenimento, dopo un primo passaggio al giudice di pace, è andata alla Corte d’appello, che ha dato l’ok. Il legale del migrante ha fatto ricorso per Cassazione. Da lì è scaturita la questione di legittimità. Gli ermellini hanno sollevato solo uno dei punti elencati dall’avvocato. Dal rinvio è rimasto fuori un tema importante: se sia legittima la scelta governativa di sottrarre la competenza sulla convalida dei trattenimenti dei richiedenti asilo alle sezioni specializzate in immigrazione, competenti sul resto della protezione internazionale, per consegnarla alle Corti d’appello. Non si può escludere che il tema si riproponga in futuro, come è probabile che vengano sollevate altre questioni di legittimità relative al diritto di difesa. Soprattutto per i centri in Albania, dove i problemi delle “procedure accelerate di frontiera” si moltiplicano. L’avvocata Silvia Calderoni ha difeso quattro dei 43 migranti trasferiti oltre Adriatico nell’ultimo round. “La difficoltà principale è che la distanza impedisce la comunicazione con gli assistiti. O li incontriamo direttamente in udienza o comunque attraverso la mediazione del personale del centro. Ma se manca il requisito della riservatezza non si può assicurare una vera difesa”, afferma. In pratica i legali devono muoversi al buio, solo sulla base degli atti, senza poter approfondire le singole storie. Il problema è rilevante perché in ballo c’è un diritto fondamentale. Nelle argomentazioni del rinvio la Cassazione ricorda “il carattere universale della libertà personale che, al pari degli altri diritti che la Costituzione proclama inviolabili, spetta ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani”. I giudici specificano che pure quando i problemi di sicurezza relativi ai fenomeni migratori incontrollati sono “percepiti come gravi” le relative misure legislative non devono scalfire “minimamente” la tutela di diritti fondamentali. Esattamente il contrario di quello che vuole il governo. Ma i problemi che derivano dai centri albanesi non si esauriscono con la questione del trattenimento. Riguardano anche il percorso parallelo della domanda d’asilo. A Gjader le audizioni della Commissione territoriale sono svolte il giorno dopo lo sbarco, ancora prima dell’udienza di convalida. È lo stesso organo che esamina la richiesta a fornire l’informativa sull’asilo. Normalmente lo fanno operatori legali o avvocati. “Questo spiega alcune risposte che abbiamo letto nelle carte. Dimostrano che le persone non avevano compreso il contenuto della protezione: non gli è stato spiegato bene”, afferma Calderoni. L’avvocata risponde da Bari dove ieri si è dovuta precipitare per incontrare i suoi assistiti e preparare il ricorso contro il diniego dell’asilo, avuta la nomina anche per quello. Le procedure accelerate impongono sette giorni per presentarlo: scade giovedì. “Approfondire le vicende individuali, soprattutto di persone originarie di altri paesi, richiede tempo. Con simili scadenze diventa tutto molto difficile”, continua. Per non parlare della mancanza di coperture per queste attività: basti pensare che quando la Commissione ritiene la domanda “manifestamente infondata”, come tutte quelle dei migranti in Albania, il contributo per il gratuito patrocinio è riconosciuto al legale solo se il ricorso è accolto. Un altro modo per scoraggiare la tutela di chi non può permettersi un avvocato. Migranti. Braccio di ferro sull’Albania: la maggioranza pensa a una norma sulle Corti d’Appello di Davide Vari Il Dubbio, 4 febbraio 2025 L’obiettivo, secondo i rumors parlamentari, sarebbe evitare il “trasloco” dei giudici delle sezioni specializzate. Migranti e caso Almasri al centro dello scontro con le opposizioni e le toghe. Si prepara la battaglia, nelle aule parlamentari e in quelle di giustizia, sul caso Almasri e sulla questione dei migranti in Albania. Sono i due fronti che, anche nei prossimi giorni, resteranno con ogni probabilità al centro del dibattito politico tra maggioranza e opposizione, alimentando inoltre lo scontro tra governo e magistratura. Sulla vicenda dell’ufficiale libico, rimpatriato con un volo di Stato italiano dopo essere stato arrestato e rilasciato, il governo dovrà chiarire in Parlamento, mentre parallelamente il tribunale dei ministri dovrà pronunciarsi sulla posizione della premier Giorgia Meloni, dei ministri Nordio e Piantedosi e del sottosegretario Mantovano dopo l’avviso arrivato dalla Procura di Roma. Sul tema torna ad attaccare il leader M5S Giuseppe Conte, parlando di una “torsione autoritaria del nostro sistema” da parte del governo e di “Meloni in fuga dal Parlamento perché anche sul caso Almasri ha mentito. D’ora in poi Meloni sarà complice morale di Almasri e si porterà sulla coscienza i crimini che questo figuro commetterà in Libia”. La replica arriva dal vicepremier Antonio Tajani, che insiste sulla “riforma della giustizia, che dobbiamo condurre in porto rapidamente, mentre varrebbe la pena di occuparci di meno della vicenda Almasri”, perché “mi pare evidente che ci sia da parte di taluni magistrati un atteggiamento ostile nei confronti del governo, volto a condizionare la vita politica del Paese con le loro decisioni”. Anche sul fronte Albania, “il contrasto dell’immigrazione illegale non può fermarsi. Dobbiamo favorire quella regolare, ma dobbiamo contrastare assolutamente quella illegale. Noi siamo convinti di avere ragione e, dunque, si va avanti”, assicura Tajani. Stessa posizione di Fratelli d’Italia, secondo cui i centri per migranti in Albania “restano”, “sono uno strumento per riportare l’immigrazione sotto i dettami della legge, e anche l’opposizione dovrebbe evitare di fare sterili polemiche su un tema così serio”, afferma il capogruppo al Senato Lucio Malan, mentre la responsabile del dipartimento immigrazione del partito Sara Kelany definisce quella dei giudici della corte di Appello di Roma, che hanno respinto la convalida dei trattenimenti dei migranti, “una presa di posizione assurda, ingiustificata e in grado di creare una impasse nella gestione generale dei flussi migratori irregolari”. Rumors parlamentari confermano che una delle ipotesi allo studio della maggioranza - la cui fattibilità è ancora tutta da verificare - sarebbe quella di studiare una norma ad hoc per evitare che i giudici delle sezioni specializzate per l’immigrazione vengano trasferiti nelle Corti di appello - oggi, dopo la modifica della legge, competenti a decidere sulla convalida dei trattenimenti dei richiedenti asilo - come avvenuto a Roma e denunciato da FdI. Un’idea che viene subito respinta dalle opposizioni. “Prima ci ha provato modificando arbitrariamente la lista dei paesi sicuri, e non le è andata bene. Poi ha cancellato le Sezioni speciali dei Tribunali sostituendoli con le Corti di Appello, e non le è andata bene. Adesso, dato che nemmeno la Corte d’appello le ha dato ragione, vuole cambiare i giudici delle Corti di Appello. Se proverà a farlo, sappia che andrà a sbattere di nuovo. L’ossessione di Meloni per i centri in Albania sta raggiungendo livelli patologici preoccupanti”, afferma il segretario di Più Europa Riccardo Magi, mentre il Pd continua a seguire dei vicino le operazioni nei centri per migranti al di là dell’Adriatico. Sabato alle operazioni di sbarco a Bari dei 43 migranti riportati in Italia hanno assistito i deputati Marco Lacarra e Ubaldo Pagano: “L’ennesimo fallimento del Governo Meloni. Spendiamo soldi degli italiani senza alcun risultato, sballottando i migranti tra Italia e Albania”, dichiara Lacarra, mentre Pagano aggiunge: “Gestire le politiche migratorie è una cosa seria, ma il Governo Meloni fa solo propaganda”. La sintesi dei due fronti di polemica che agitano il dibattito politico la fa la vicepresidente del Movimento 5 Stelle Chiara Appendino: “Hanno liberato e rimandato in patria su un volo di Stato a spese nostre un criminale che ha torturato e ucciso persone per precisa volontà politica. Giorgia Meloni ammetta che ha fatto un patto ed è sotto ricatto di uno stupratore di bambini: io l’ho sentita per anni parlare di blocco navale, poi del fantomatico Piano Mattei, poi buttare via un miliardo di euro per i centri in Albania”. Migranti. Lamorgese: “Il modello Albania esiste, ma i diritti dei migranti vanno rispettati” di Niccolò Carratelli La Stampa, 4 febbraio 2025 L’ex ministra: “Per i rimpatri ci sono vincoli precisi, esaminare caso per caso”. Per Luciana Lamorgese non ha tutti i torti Giorgia Meloni quando parla di “modello Albania”, quando assicura che il trasferimento dei migranti dall’altra parte dell’Adriatico viene guardato con molta attenzione a Bruxelles. “L’esternalizzazione della gestione dei migranti è già prevista nel nuovo Patto sulla migrazione e l’asilo, altri Paesi puntano in questa direzione - spiega l’ex ministra dell’Interno - poi è chiaro che molto dipende da come la fai. Perché non è praticabile sempre e per tutti e deve, in ogni caso, garantire il rispetto dei diritti dei migranti”. Titolare del Viminale nei governi Conte II e Draghi, per tre anni (dal 2019 al 2022), ha tentato di trovare un compromesso a livello europeo per condividere la responsabilità dell’accoglienza dei migranti. “L’idea di mandarli fuori dai confini nazionali ed europei non è nuova - sottolinea - ma per funzionare ci devono essere le condizioni, in particolare sui tempi per l’esame di ogni singola posizione, per capire chi ha diritto o meno alla protezione”. Poi c’è il tema dei rimpatri, che possono avvenire solo se i Paesi d’origine sono considerati sicuri: una questione su cui si è innescato lo scontro tra governo e magistrati. “Mi pare che la Cassazione abbia già stabilito che spetta al governo decidere quali Paesi considerare sicuri - dice Lamorgese - ora bisogna aspettare la nuova pronuncia della Corte europea, che dovrebbe chiarire la vicenda una volta per tutte”. Quindi, alla fine avrà ragione Meloni e i trasferimenti in Albania potranno continuare e aumentare? L’ex prefetta non fa previsioni ma ci tiene a chiarire un punto: “Per procedere ai rimpatri ci sono regole e vincoli precisi - avverte - credo che l’unica strada sia quella di un serio esame caso per caso, per escludere il rischio di persecuzioni o discriminazioni nel Paese d’origine. Non si può rimandare indietro qualcuno, se c’è anche il minimo dubbio che possa ritrovarsi in pericolo”. La pace passa per la via del diritto di Maurizio Delli Santi Avvenire, 4 febbraio 2025 Gli ottant’anni della carta dell’Onu occasione per una riforma dell’organismo, ancorato al modello decisionale del 1945 quando ne facevano parte 51 nazioni. Oggi sono 193. Non può essere più esplicito, papa Francesco, avendolo ripetuto così tante volte: “Siamo vicini a una guerra mondiale, i governanti sappiano assumersi la responsabilità e l’onere della pace”. Il contesto attuale è inquadrato nel parallelismo con gli anni Venti e Trenta dello scorso secolo: la crisi delle idee liberali e democratiche, cui aveva dato un contributo il pensiero cristiano democratico di don Luigi Sturzo, segnò quel primo Novecento in cui si è ceduto ai nazionalismi e ai totalitarismi. Fu il tempo dell’appeasement irresponsabile dell’Europa di fronte alle pretese di Hitler: ne derivò la catastrofe della Seconda guerra mondiale. Solo alla fine del conflitto le potenze vincitrici superarono i divari ideologici per compiere una svolta epocale: iniziò il percorso che avrebbe portato alla Carta delle Nazioni Unite (26 giugno 1945), al Tribunale di Norimberga (1945-196), alla Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo (1948), e alle Convenzioni di Ginevra sulla protezione dei feriti, dei malati, dei naufraghi, dei prigionieri di guerra e della popolazione civile (12 agosto 1949). Eppure, oggi si indugia in una visione pessimistica del diritto internazionale rappresentato da quella fase fondativa. Anne-Cécile Robert in Le défi de la paix (La sfida della pace) ne coglie le ragioni: i leader e i diplomatici di oggi, “spesso privi di cultura storica”, rimangono concentrati sulle emergenze attuali, dimostrando scarsa consapevolezza della validità di un percorso storico e giuridico: la costruzione politica e giuridica dei diritti umani (la stessa Unione Europea ne è un esempio), le soluzioni a guerre dimenticate, gli scambi dei prigionieri di guerra, i vaccini e gli aiuti umanitari per le popolazioni inermi, e dopo tutto anche 80 anni con l’assenza di grandi conflitti globali. Di fronte alle crisi l’Onu (e le istituzioni collegate come la Corte internazionale di giustizia) ha indicato la strada: nonostante i veti della Russia, l’Assemblea generale ha chiesto il cessate il fuoco e dichiarato illegittima l’aggressione all’Ucraina, e pur con il veto Usa, la condanna non è mancata per Israele quando ha abusato nel suo diritto di difesa. L’impegno e l’azione dell’Onu, dunque, non sono mancati: sono gli Stati ad avere rinunciato al multilateralismo e alla funzione di far rispettare le Risoluzioni per imporre la pace. Il Vertice del Futuro svoltosi all’Onu nello scorso autunno ha rilanciato la sfida: se si vogliono ripristinare le condizioni per un “ordine internazionale” capace di fermare le guerre occorre ripartire dalla riforma delle Nazioni Unite. Il Segretario Generale António Guterres ha rimarcato che il Consiglio di Sicurezza è “bloccato in una distorsione temporale”: vi domina il potere di veto dei P5, i cinque membri permanenti ancora rappresentati da Usa, Cina, Federazione Russa, Gran Bretagna e Francia. L’Onu è fermo al modello decisionale del 1945, in cui c’erano 51 nazioni. Oggi ne fanno parte 193 Stati, e non c’è un seggio permanente per l’India, il paese più popolato al mondo con 1, 428 milioni di abitanti, il Giappone e la Germania che hanno economie e popolazioni più grandi di Gran Bretagna e Francia. Gli Stati Uniti sostengono l’estensione dei seggi permanenti a questi Paesi, come per l’Africa, l’America Latina, i Caraibi, rappresentati da organizzazioni regionali o leader designati a rotazione. È la risposta a Russia e Cina che propagandano il loro “ordine mondiale multipolare” alimentando il risentimento anticoloniale del Global South. Per evitare la paralisi definitiva dell’Onu, sarebbe escluso il potere di veto per i nuovi membri permanenti. Uniting for Consensus è la proposta dell’Italia + 11 (Argentina, Canada, Colombia, Costa Rica, Italia, Malta, Messico, Pakistan, Corea, San Marino, Spagna, Turchia): si punta ad un allargamento del Consiglio con rappresentanti di Gruppi regionali, tra cui l’Unione Europea, presenze di lunga durata e rielezione immediata (in atto i membri non permanenti hanno mandati per due anni, non immediatamente rieleggibili). Occorrerebbero però soluzioni radicali: l’astensione dal veto per chi è parte in causa (come la Russia, per l’aggressione all’Ucraina) e il riconoscimento del valore vincolante delle Risoluzioni approvate a maggioranza qualificata dalla Assemblea Generale, sulla base della risoluzione Uniting for Peace (Uniti per la pace) adottata nel 1950 per la Corea. Il disordine globale impone di affrontare questo percorso: è ancora attuale il monito di Hans Kelsen: “Pace attraverso il Diritto” è il titolo del saggio apparso nel 1944 che anticipava i principi delle Nazioni Unite. L’80° anniversario della Carta Onu, che ricorre quest’anno, è l’occasione per riparlarne con più convinzione. El Salvador accetterà la deportazione di detenuti statunitensi nelle sue carceri ansa.it, 4 febbraio 2025 Un ufficiale messicano addetto all’immigrazione spiega ai migranti che il permesso di attraversare il Messico per raggiungere il confine tra Stati Uniti e Messico è stato sospeso. Il presidente salvadoregno Bukele si è detto pronto ad accettare detenuti nelle prigioni sul suo territorio in cambio di indennizzi. Ma il Dipartimento di Stato per primo denuncia le condizioni inumane delle carceri del Paese. Il presidente di El Salvador, Nayib Bukele, è pronto ad accettare rimpatri da parte degli Stati Uniti di persone qualsiasi nazionalità, compresi i cittadini statunitensi. Il Segretario di Stato Usa, Marco Rubio, ha dichiarato lunedì che Bukele “ha accettato l’accordo migratorio più straordinario e unico al mondo”. Rubio ha descritto l’accordo come un accordo con un “Paese terzo sicuro” per deportare chiunque abbia violato le leggi sull’immigrazione degli Stati Uniti. Ciò significherebbe che Washington potrebbe deportare migranti non salvadoregni in El Salvador. “Bukele si è anche offerto di fare lo stesso per i criminali attualmente in custodia e che stanno scontando la loro pena negli Usa, anche se sono cittadini statunitensi o immigrati legali”, ha detto Rubio. Bukele ha confermato l’accordo in un post su X, affermando che El Salvador ha “offerto agli Stati Uniti d’America l’opportunità di esternalizzare parte del proprio sistema carcerario”. Rubio ha detto che il Paese centroamericano accetterebbe solo “criminali condannati” e farebbe pagare una tariffa che “sarebbe relativamente bassa per gli Stati Uniti ma significativa per noi, rendendo sostenibile il nostro intero sistema carcerario”.