Amnistia e indulto per il bene della Repubblica. Appello al Parlamento di Andrea Pugiotto L’Unità, 6 dicembre 2025 1. All’interno della Costituzione, amnistia e indulto figurano tra gli strumenti di politica criminale nella disponibilità del legislatore. Dunque, entrambi hanno piena cittadinanza costituzionale. Perché, allora, sono del tutto negletti? Perché l’Italia repubblicana, più ancora di quella monarchica, per molto tempo ha continuato a essere il “paese delle amnistie” (Gaetano Salvemini). Dopo l’ampia amnistia di pacificazione del 1946, tra il 1948 e il 1992 sono stati concessi 23 provvedimenti di clemenza, con un ritmo assai superiore a quello del precedente regime. Nasce da qui la diffidenza verso simili leggi, accusate di tutto e di più: la clemenza sarebbe solo un palliativo; indebolirebbe la deterrenza; allarmerebbe l’opinione pubblica; genererebbe nuova criminalità; darebbe un segnale di debolezza dello Stato. Per la doxa dominante, oramai, l’indulto è un insulto e l’amnistia è un’amnesia: ecco perché, nell’era del populismo penale, essere contrari a un atto di clemenza è un facile moltiplicatore di consenso. Tutto ciò si rispecchia nella riforma dell’art. 79 Cost.: approvata nel 1992 in piena Tangentopoli da un Parlamento assediato dal risentimento popolare, quella revisione è stata (anche) un cedimento alle pulsioni giustizialiste dell’epoca. Da allora, per avere una legge di clemenza, serve raggiungere vette dolomitiche: la “maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera, in ogni suo articolo e nella votazione finale”. Risultato? Al netto dell’indulto del 2006, è da 33 anni che l’Italia non conosce alcun provvedimento simile. La clemenza, in sintesi, è stata uccisa dalla sua storia: abusata allora, cancellata ora. 2. A favore di una loro rinnovata scoperta, invece, gioca la natura emancipante degli strumenti di clemenza, rispetto alla consueta rappresentazione patibolare del diritto punitivo. Una legge penale esclusivamente retributiva e vendicativa, applicata in modo meccanico e impersonale, rivela un’arcaica origine veterotestamentaria. La logica degli atti di clemenza, invece, è quella evangelica della parabola del figliol prodigo: celebrando l’evento del figlio ritrovato, il padre spezza “l’imperialismo folle di una Legge che non conosce né eccezioni, né grazia, né perdono” (Massimo Recalcati), nella consapevolezza che la norma è fatta per gli uomini, mai viceversa. Questa autentica matrice degli istituti di clemenza è iscritta nel loro etimo. In greco antico, il termine klino esprime l’atto del piegare nel senso dell’adattare alla concretezza delle cose. Giuridicamente, quell’inclinazione (clinamen, in latino) è l’atteggiamento di chi non insiste sulla lettera della legge, adattandola in modo ragionevole alle esigenze del reale. Non è debolezza: è discernimento. Non è perdonismo irenico: è intelligenza istituzionale. 3. Sia chiaro: amnistia e indulto sono forme secolarizzate di clemenza. Non sono sinonimi di “indulgenza plenaria”. La remissione giuridica della pena, infatti, può essere parziale e produrre effetti estintivi selettivi, escludendo dal suo ambito determinati reati. Non sono neppure sinonimi di “perdono”, che è una predisposizione dell’animo di chi lo concede e di chi lo riceve, appunto, per dono. Diversamente, la clemenza giuridica può essere condizionata, obbligando così il soggetto a un dovere di contraccambio. Infine, non sono nemmeno sinonimi di “misericordia”, che è compassione verso la sofferenza dell’altro, non implicante - come invece presuppone la clemenza giuridica - un’altrui condotta negativa. Nessuna confusione tra morale e diritto, dunque. Giuridicamente, essere clementi non significa essere buoni perché ricorrere ad amnistia e indulto “non mette in gioco il cuore e le passioni, bensì la testa e la ragione” (Francesca Rigotti). 5. Oggi, è urgente una clemenza di giustizia volta a evitare “i rischi di “desocializzazione” derivanti da una condizione di sovraffollamento carcerario abnorme” (Vincenzo Maiello) che, in Italia, non è un’emergenza ma una stabile disfunzione. Oggi, per le condizioni materiali in carcere, i detenuti non sono un pericolo, semmai sono in pericolo. Lo attesta la tragica Spoon River dei suicidi dietro le sbarre: 91 nel 2024, la cifra più alta di sempre. Pesi morti, e morti per responsabilità dell’istituzione carceraria perché non impedire un evento che si ha il dovere di evitare equivale a cagionarlo. Manca poco per ritrovarci nelle stesse condizioni che costarono all’Italia, nel 2013, la vergogna di una condanna-pilota a Strasburgo per un sovraffollamento inumano e degradante. In ragione di ciò, già ora giudici di altri Paesi negano l’estradizione in Italia: una condizione umiliante. La clemenza è prerogativa di deputati e senatori: richiede un’assunzione di responsabilità collettiva per il bene della Repubblica. Siete ancora in tempo per esercitare una competenza colpevolmente dismessa. Dove, invece, non c’è più tempo è dietro le sbarre: spetta a voi fermare la cancellazione di vite e diritti nelle carceri italiane. Suicidi in carcere e Rems, il Consiglio d’Europa scrive al governo di Eleonora Martini Il Manifesto, 6 dicembre 2025 Insufficienti le misure prese dopo le condanne Cedu, più posti nelle Residenze per i folli rei. Il Consiglio d’Europa non spegne i riflettori sulle carceri e sull’intero sistema di giustizia italiano, e torna ad esprimere “preoccupazione”. Questa volta - dopo i due incontri ad alto livello del Comitato per la prevenzione della tortura con il ministro della Giustizia Nordio nell’arco di un anno - a farsi sentire è il Comitato dei ministri dell’organizzazione internazionale che punta l’indice, in particolare, contro l’alto numero di suicidi in cella e la mancanza strutturale di posti nelle Rems, le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza destinate ai folli-rei. Secondo Strasburgo non sono affatto sufficienti le misure prese dalle autorità italiane dopo la condanna della Corte europea dei diritti umani del 2020, comminata riguardo al caso di un ragazzo di 30 anni con problemi psichiatrici e tendenze suicidarie che nel 2001 riuscì a togliersi la vita nel carcere di Augusta. Suicidio che, secondo la Cedu, avrebbe potuto essere scongiurato. Ma da allora sono 437 i detenuti che si sono suicidati in carcere (solo quest’anno sono 71 e 91 nel 2024) e molti altri - non conteggiati come tali - che dopo l’atto sono morti in ospedale. Motivo per il quale è necessaria “una strategia complessiva in questo ambito”, scrive il Comitato dei ministri che chiede all’Italia “di garantire la piena attuazione del Piano Nazionale di Prevenzione del Suicidio del 2017, compresa l’istituzione di piani regionali e a livello carcerario”. Piano nazionale che, fa notare il Consiglio d’Europa, dovrebbe essere peraltro “aggiornato per affrontare nuove sfide, tra cui l’impatto del sovraffollamento carcerario”. E non è tutto: il Comitato dei ministri, che entro il 30 settembre 2026 si attende da Roma notizie sulle nuove misure adottate in favore della salute mentale dei detenuti, ha anche redarguito le autorità per “l’assenza di progressi sostanziali nell’ampliamento della rete delle Rems”. Anche in questo ambito, Strasburgo ha analizzato i mancati progressi dal 2022, anno della condanna Cedu in rapporto al caso di un uomo con doppia diagnosi (problemi psichiatrici e tossicodipendenza) costretto a rimanere in carcere per mancanza di posti nelle Rems, malgrado le ingiunzioni dei tribunali. Pur riconoscendo qualche piccolo sforzo, l’organizzazione europea chiede però “la piena attuazione dell’accordo revisionato nel 2022 tra governo, regioni e autorità locali e in conformità con le indicazioni della sentenza della Consulta del 2022, al fine di ottimizzare l’uso delle risorse disponibili e garantire posti sufficienti e trasferimenti tempestivi”. Assolti nel processo penale, massacrati nel processo inquisitorio delle misure di prevenzione di Pietro Cavallotti L’Unità, 6 dicembre 2025 Dei mali della giustizia si parla poco. Poco delle condizioni dei detenuti nelle carceri, poco delle disfunzioni del processo penale, ancor meno degli innocenti che finiscono in galera e meno ancora di quelli che, dopo essere stati assolti, non hanno diritto neanche all’indennizzo. Ma meno di qualunque altra cosa si parla delle misure di prevenzione, di quelle persone che, riconosciute innocenti dalla Magistratura, hanno subito lo stesso la confisca di tutto il loro patrimonio, perdendo ogni cosa e, come successo in qualche caso, anche la vita per la disperazione causata da un processo inquisitorio in cui l’esito, cioè la distruzione di tutto, sembra deciso già al momento del sequestro. È passata del tutto inosservata nell’opinione pubblica e persino tra gli “addetti ai lavori”, l’interrogazione parlamentare di Roberto Giachetti, sollecitata da Nessuno tocchi Caino. O, per meglio dire, è passata del tutto inosservata la “risposta” (se così si può definire) di Andrea Delmastro il quale ha ammesso che non esistono dati che ci dicano quante aziende sono state restituite (e in che condizioni) ai legittimi proprietari dall’entrata in vigore della legge Rognoni-La Torre a oggi. Non esistono neppure dati - ed è una cosa davvero clamorosa - in merito alle confische applicate nei confronti delle persone assolte. Questa circostanza in una democrazia avanzata come piace definire quella italiana avrebbe dovuto fare gridare allo scandalo, scatenare nell’opinione pubblica e nelle Istituzioni reazioni importanti. Noi non sappiamo quale sia l’incidenza dell’errore nell’applicazione del sistema delle misure di prevenzione e neppure in quanti casi questo sistema sia stato strumentalizzato strategicamente come surrogato del processo penale: non ho le prove per condannarti ma ti rovino lo stesso la vita portandoti via tutto quello che hai, con la scusa della prevenzione del reato che però non hai commesso. Del resto, che le misure di prevenzione non abbiano nulla di “democratico” Nessuno tocchi Caino lo denuncia con forza e da tempo. E il fatto che non si abbia alcuna conoscenza dei dati richiesti da Giachetti è del tutto coerente con i caratteri di regime e di fanatismo che circondano la narrazione degli strumenti (spacciati) di contrasto alla mafia e degli “eroi” che la combattono. Nessuno avverte l’esigenza di far conoscere nelle scuole, nelle università, negli studi televisivi in cui gli “eroi” vengono accolti col tappeto rosso (e, per non dispiacergli, in assenza totale di contraddittorio), la furia cieca con la quale si sono abbattuti su inermi cittadini, risultati estranei a fatti di mafia, solo all’esito di un lungo e sofferto calvario giudiziario. Nessuno che ritenga opportuno fare notare che i protagonisti di quelle vicende non sono stati minimamente penalizzati nella loro carriera da errori che - sarebbe bene non dimenticarlo - hanno distrutto intere fa miglie. Nei regimi, chi rappresenta lo Stato è descritto sempre come il buono, l’accusato come il cattivo, lo strumento usato per raggiungere il fine superiore il bene assoluto. Non si deve fare sapere altro perché la propaganda non lo consente, pena l’eresia, la scomunica. Mi ha sorpreso soprattutto il silenzio dell’avvocatura penalista la quale, pur contestando da sempre e in maniera radicale il sistema delle misure di prevenzione, ne riconosce, sia pure con diverse angolazioni e sfaccettature, la cosiddetta “efficacia”. Mi sono sempre chiesto: “efficacia” rispetto a che cosa? Uno strumento giustificato dalla finalità di colpire la mafia è davvero “efficace” se colpisce chi non è mafioso? Come si fa a misurare l’efficacia se non conosciamo l’incidenza dell’errore? Sono domande che tormentano da anni la nostra vita, la vita di coloro che hanno subito la stessa ingiustizia. Allo stesso modo mi chiedo che senso avrà attuare il giusto processo penale accusatorio separando la magistratura requirente da quella giudicante e spazzando via il gioco delle correnti se, dopo che un giusto processo penale si è concluso con l’assoluzione, gli innocenti continueranno a essere massacrati nell’ingiusto processo inquisitorio delle misure di prevenzione? Così, in un’epoca in cui la giustizia non è una priorità, se non sotto l’aspetto “contingente” del referendum che vedrà impegnati in primavera tutti gli italiani e al quale bisognerà votare SI con convinzione ma senza entusiasmo, Nessuno tocchi Caino continua a parlare di misure di prevenzione, ribadisce la centralità di questo problema nella sua azione politica, e propone soluzioni per tenere in vita la speranza, anche oltre ogni speranza. L’imam, il Cpr e lo Stato di diritto: il caso Shahin di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 dicembre 2025 C’è un filo invisibile, eppure pesante come una sbarra di ferro, che collega Torino a Caltanissetta. È lungo quasi 1.400 chilometri e, in questi giorni, lo ha percorso Mohamed Shahin. Ma per sparire. Shahin non è un fantasma. È l’imam della moschea Omar Ibn al- Khattab di via Saluzzo, a Torino. Vive in Italia da oltre vent’anni, ha una famiglia, un ruolo pubblico. Eppure, oggi si trova rinchiuso nel Centro di Permanenza per il Rimpatrio (Cpr) di Pian del Lago, a Caltanissetta. La sua vicenda sta sollevando un polverone che va ben oltre la cronaca locale, toccando i nervi scoperti del nostro Stato di diritto: la libertà di opinione e l’uso della detenzione amministrativa come strumento punitivo. Tutto accade in fretta. La mattina del 24 novembre, mentre accompagna i suoi due figli a scuola hanno 9 e 12 anni - Shahin viene fermato. Il motivo è un decreto di espulsione firmato dal ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi. L’accusa non passa per un tribunale penale, ma per una valutazione amministrativa di “pericolosità sociale”, legata a frasi pronunciate pubblicamente durante una manifestazione pro-Palestina del 9 ottobre scorso. Le parole che hanno innescato questa reazione sono quelle pronunciate al microfono durante un raduno a Torino: “Sono d’accordo con quello che è successo il 7 ottobre. Non è una violenza”. Una frase aberrante, ingiustificabile, da respingere senza se e senza ma. Però siamo uno Stato di diritto e le espressioni, seppur infelici, non possono essere penalmente perseguite. Infatti, la Procura di Torino aveva già analizzato quelle parole. La Digos aveva trasmesso un’annotazione con le frasi pronunciate. L’autorità giudiziaria aveva archiviato la questione: non c’era alcun reato, nemmeno un’istigazione a delinquere. Shahin aveva anche rettificato le sue dichiarazioni, seguito da un comunicato congiunto delle diverse comunità religiose cittadine - cattolici, valdesi, ebrei e musulmani - contro l’intolleranza e a favore della pace. Ma questa archiviazione non ha fermato la macchina amministrativa. Quando il ministero dell’Interno ha chiesto all’autorità giudiziaria se ci fossero ragioni contrarie all’espulsione, la risposta è stata un nulla osta. Non un’autorizzazione all’espulsione, precisano dalla Procura, ma semplicemente una risposta a una domanda specifica. Il confine tra queste due cose, nella pratica, è molto sottile. Nonostante a Torino esista il Cpr Brunelleschi, e nonostante ci siano posti disponibili, il Ministero decide di trasferire l’imam dall’altra parte dell’Italia, in Sicilia. Una mossa che i Garanti delle persone private della libertà definiscono “discrezionale”. Perché spostare un uomo lontano dalla città in cui vive da due decenni? Perché strapparlo alla rete familiare che potrebbe sostenerlo e, soprattutto, allontanarlo dai suoi avvocati in un momento così delicato? La risposta sembra nascondersi nella natura stessa della detenzione nei Cpr: l’isolamento geografico diventa isolamento giuridico ed esistenziale. Per capire cosa stia vivendo Mohamed Shahin, bisogna capire cos’è il Cpr di Caltanissetta. La struttura sorge a circa 7 chilometri dal centro della città, dentro quella che era un’ex caserma militare, ora trasformata in centro polifunzionale per immigrati. È l’unico posto in Italia dove convivono tre diverse tipologie di centri: un Centro di Accoglienza, un Centro di Permanenza per il Rimpatrio e un Centro per Richiedenti Asilo. Tutti nello stesso perimetro, per un totale di 552 posti. Le inchieste e i report di associazioni indipendenti descrivono la struttura di Pian del Lago come un luogo al limite della vivibilità. Non è un carcere, ma è peggio. Chi vi entra non sconta una pena stabilita da un giudice per un reato commesso; attende solo un’espulsione che potrebbe non arrivare mai. La storia del Cpr di Caltanissetta è segnata da chiusure, riaperture, rivolte violente e incendi. Istituito nel 1998, è stato chiuso una prima volta nel 2000, poi di nuovo nel 2009 per tre anni dopo gravi danneggiamenti durante una rivolta. Riaperto nel 2012, è stato nuovamente chiuso nel 2018 a causa di un incendio doloso. L’ultima riapertura risale a maggio 2021, e da allora si sono registrati numerosi tentativi di evasione, alcuni con esiti drammatici. Le testimonianze raccolte all’interno disegnano un quadro agghiacciante. Video diffusi nei mesi scorsi mostrano una struttura fatiscente, inadatta a ospitare esseri umani. La parte dedicata alle camerate è sporca, abbandonata. Nel febbraio 2024 è emerso che diversi detenuti erano stati costretti a dormire all’aperto, in pieno inverno, perché parte dei padiglioni era inagibile. La sala mensa è in cattive condizioni: non è riscaldata, molte finestre sono prive di vetri, i rubinetti per l’acqua potabile non funzionano. I padiglioni per il pernottamento sono collegati da un lungo corridoio ai bagni e alle docce, per lo più fuori uso. L’area del Cpr è circondata da un’alta recinzione di almeno dieci metri, muri di cemento, filo spinato, telecamere e luci accese ventiquattro ore su ventiquattro. Il cuore della battaglia condotta dalla Conferenza dei Garanti territoriali è giuridico e culturale. Il portavoce Samuele Ciambriello è netto: “Non si può condannare un uomo per un’opinione”. Se Shahin ha commesso un reato pronunciando quelle frasi, deve essere giudicato. Ma il luogo per stabilirlo è un’aula di tribunale, non un centro per il rimpatrio. I Cpr non sono luoghi di giudizio. Usarli per “punire” espressioni del pensiero, per quanto controverse, aggira le garanzie costituzionali. In uno Stato di diritto, le accuse si valutano nelle sedi competenti, dove esiste il contraddittorio, dove ci sono prove e sentenze, non decreti amministrativi eseguiti nel silenzio. C’è poi un’urgenza che rende ogni ora dirimente. Se l’espulsione venisse eseguita, Shahin verrebbe rimandato nel suo Paese d’origine (l’Egitto, secondo le cronache recenti). Ma qui scatta un altro allarme rosso sollevato dai Garanti: il principio di non- refoulement. Gli standard internazionali vietano di trasferire una persona in un luogo dove la sua incolumità potrebbe essere a rischio, dove potrebbe subire trattamenti inumani o tortura. Di fronte a questo scenario, la mobilitazione è arrivata ai massimi livelli istituzionali. Il Portavoce della Conferenza dei Garanti ha preso carta e penna e ha scritto direttamente al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e all’Ufficio del Garante Nazionale. Si chiede un intervento per fermare una procedura che sembra calpestare i diritti fondamentali: il diritto alla difesa, il mantenimento dei legami familiari e la tutela dall’arbitrio. La storia di Mohamed Shahin è la punta dell’iceberg. Ci racconta di un sistema, quello dei Cpr, che ingoia le persone e le sposta come pedine su una scacchiera, rendendo difficile, se non impossibile, esercitare quei diritti che sulla carta sarebbero garantiti a tutti, “indipendentemente dalla condizione giuridica”. Mentre Shahin attende a Caltanissetta, a 1.400 chilometri dalla sua Torino, la domanda che i Garanti pongono resta sospesa nell’aria: siamo disposti ad accettare che la libertà personale venga limitata senza un giusto processo, in luoghi opachi e lontani dagli occhi della società civile? Assolto malato psichiatrico. Fdi attacca i giudici di Teresa Valiani Il Manifesto, 6 dicembre 2025 L’attacco frontale questa volta è diretto alla magistratura di Ascoli Piceno e campeggia sui social del capogruppo di FdI alla Camera, Galeazzo Bignami. “Un gambiano aggredisce le forze dell’ordine, mordendo un dito ad una poliziotta. E il giudice cosa fa? Lo assolve! È sconcertante e vergognosa l’ideologia di certe toghe rosse sempre dalla parte dei criminali”. L’attacco frontale questa volta è diretto alla magistratura di Ascoli Piceno e campeggia sui social del capogruppo di FdI alla Camera, Galeazzo Bignami, seguendo di un giorno un intervento dello stesso tenore arrivato dal Siulp: “Basta: queste sono leggi assurde. Decisioni completamente distaccate dalla realtà e che minano la credibilità dello Stato e di chi lo rappresenta, ma anche la coesione sociale”. Immediata la risposta del procuratore Umberto Monti. La prima bordata del magistrato punta sulle “omissioni e distorsioni” della narrazione, mentre l’affondo è per le “considerazioni che appaiono del tutto improprie e sganciate dalla realtà dei fatti”. Al centro del caso la sentenza del tribunale di Ascoli che ha assolto per incapacità di intendere e di volere per malattia psichiatrica acuta un giovane originario del Gambia che il 7 febbraio aveva staccato con un morso la falange di un dito a una agente di polizia durante l’arresto. “Nel raccontare e commentare la sentenza - scrive Monti - vi sono state diverse omissioni e distorsioni, come se la sentenza avesse assolto l’imputato senza alcuna conseguenza per lui. Nel parlare di “ennesima delegittimazione delle forze di polizia” e di decisione che “mina la credibilità dello Stato e di chi lo rappresenta, ma anche la coesione sociale” non viene detto che l’imputato dal momento del fatto a oggi si trova, su disposizione dell’Autorità giudiziaria, in stato di detenzione”. Commenti a cui, sottolinea il procuratore, “sono seguite considerazioni che appaiono del tutto improprie e sganciate dalla realtà dei fatti, anche da parte di esponenti politici di primo piano”. Il magistrato ripercorre il caso, ricordando che il giovane, fermato per controlli alla stazione di San Benedetto del Tronto, una volta in commissariato aveva aggredito diversi poliziotti, mordendo al dito l’agente. Ne erano seguiti “l’uso legittimo del taser per l’incontenibile violenza”, la sedazione da parte del 118 e il successivo ricovero in ospedale in codice rosso. La perizia accertava che al momento dei fatti l’imputato era affetto da “psicosi schizofrenica di tipo paranoide in fase acuta con imponenti allucinazioni uditive” e ne dichiarava la pericolosità sociale. “A meno di 10 mesi dai fatti - prosegue Monti - l’imputato veniva assolto “per aver commesso il fatto in stato di incapacità totale di intendere e volere” e veniva applicata in via definitiva la misura di sicurezza detentiva del ricovero in una specifica struttura psichiatrica”. Misura tutt’ora in corso, “confermata dalla sentenza che ha accertato la commissione dei fatti e la pericolosità dell’uomo, e non lo ha liberato ma ha disposto la sua detenzione in una Rems per due anni”: durata “non predefinita” ma sottoposta a “periodiche verifiche sulla pericolosità della persona” che ne potrebbero determinare il rinnovo fino al massimo delle pene previste. Venezia. Via dal carcere il direttore illuminato. Chi ha paura del merito? di Gianni Alemanno e Fabio Falbo* L’Unità, 6 dicembre 2025 A Venezia rimosso improvvisamente Enrico Farina, che ha trasformato una struttura degradata in un luogo di cultura, lavoro e dignità, ha costruito ponti tra il dentro e il fuori, ridotto la recidiva, restituito senso alla pena. Forse il cambiamento spaventa. Parlare di merito è semplice se si ignora da dove si parte, è facile invocare il merito quando si vive in quartieri prestigiosi, si frequentano le migliori scuole, si cresce circondati da reti familiari e culturali solide. Ma cosa significa merito per chi nasce in periferia, frequenta scuole pubbliche e attraversa momenti bui, combatte ogni giorno contro ostacoli invisibili? Il merito in questi casi non è un premio, è una conquista e proprio per questo, dovrebbe essere protetto, valorizzato, riconosciuto. Il caso del direttore Enrico Farina rimosso improvvisamente dal carcere maschile di Venezia, ci costringe a interrogarci su cosa intendiamo davvero per merito. Farina ha trasformato una struttura degradata in un luogo di cultura, lavoro e dignità. Ha firmato protocolli con istituzioni e imprese, ha coinvolto la Biennale, le Gallerie dell’Accademia, gli Albergatori, ha costruito ponti tra il dentro e il fuori, ha ridotto la recidiva, ha restituito senso alla pena. Eppure, è stato rimosso con una formula ambigua: “sospensione temporanea per motivi organizzativi”. Una motivazione che, nella sua vaghezza, ha arrecato nocumento non solo al Direttore, ma anche alle persone detenute, al personale, ai volontari, a un intero ecosistema che stava rifiorendo. Il rischio è una regressione trattamentale per le persone detenute che perdono un riferimento umano e progettuale; le attività avviate rischiano di essere interrotte, il carcere torna ad essere luogo di contenimento, non di cambiamento. In un sistema penitenziario con 17.000 persone detenute in esubero e 20.000 unità di personale in meno, servirebbero centinaia di direttori come Farina, eppure, quando una struttura funziona, viene smantellata, come è stato smantellato nel reparto G8 di Rebibbia il padiglione “Venere” creato dall’ispettrice Cinzia Silvano. Forse il merito, quando è autentico disturba, forse il cambiamento, quando è reale spaventa, forse il sistema, quando vede un faro, preferisce spegnerlo piuttosto che seguire la luce. E qui il paradosso si fa evidente, questo stesso governo ha voluto dedicare il nome del Ministero dell’istruzione al “Merito” come principio guida. Ma se il merito non viene riconosciuto quando si manifesta nella sua forma più concreta e trasformativa, allora quel nome rischia di essere solo una parola vuota. Il merito non è solo eccellenza, è resistenza, è capacità di costruire nel buio, di generare fiducia dove c’era abbandono, di restituire dignità dove c’era solo pena. Non solo il caso Farina o dei tanti Farina/Silvano ci chiedono in questo periodo particolare di difendere il merito che nasce dal basso, che costruisce ponti, che restituisce umanità. Perché il vero merito è quello che non si può ignorare e che proprio per questo, fa paura. *Da Rebibbia Milano. Il carcere minorile Beccaria “sorvegliato speciale” di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 6 dicembre 2025 I disagi tra direttore part time, personale a rotazione e celle sovraffollate. L’istituto, attenzionato del ministero per le inchieste della Procura per i presunti maltrattamenti, non ha ancora, dopo decenni, un direttore a tempo pieno. L’ impennata dei trasferimenti nelle altre regioni d’Italia e nelle carceri per adulti. Il cartello “lavori in corso”. E da qualche giorno una rete con il filo spinato in cima che rende più alto il muro dell’Ipm Beccaria. Un segno netto, che si vede da fuori e pesa soprattutto da dentro. Lo notano subito i detenuti quando corrono sull’unico spazio esterno che utilizzano, il campetto da calcio in sintetico. Il campo grande, quello regolamentare, è fermo da anni e aspetta di tornare in vita. Tra le celle il tempo scorre a strappi. L’istituto non ha ancora, dopo decenni, un direttore a tempo pieno. Orazio Sorrentini, in forze alla Casa circondariale di Modena, è arrivato un mese fa e ha iniziato con un solo giorno alla settimana. Ora ne ha aggiunto un secondo, e qualche volta il sabato mattina, ma serve una presenza stabile. Il Beccaria, “sorvegliato speciale” del ministero, è cambiato sotto i colpi del sovraffollamento dovuto al decreto Caivano e soprattutto all’aumento dei reati minorili sul territorio (+29 per cento dal 2019 a oggi). In cella ci sono 74 ragazzi, di cui dodici di 14-15 anni e ventidue più che maggiorenni, a fronte di una capienza di 45. Gli sforzi del personale e dei volontari si vedono ma senza la separazione tra “piccoli” e giovani adulti che la legge richiederebbe, le tensioni sono inevitabili. Risultato: impennata dei trasferimenti nelle altre regioni d’Italia e nelle carceri per adulti (+110 per cento in sei anni). Non aiuta neanche il continuo turn over: arrivati da poco, adesso, giovani operatori della Polizia Penitenziaria e nuovi educatori (laureati in legge, invece che in Scienze dell’Educazione). Gli spazi riservati non esistono: nessuna sala per l’affettività o per cucinare un pasto con la famiglia. Nessun luogo davvero protetto per parlare con l’imam o il cappellano. E anche fuori manca ossigeno: le comunità sono piene o chiudono per mancanza di educatori esperti. Su Milano continuano a convergere minori stranieri non accompagnati che finiscono in quartieri dove girano sostanze e farmaci come il Lyrica che mescolato ad alcol riduce freni inibitori e moltiplica gli scatti d’ira e violenza. Sullo sfondo l’inchiesta sui presunti pestaggi, torture e maltrattamenti al Beccaria che nel 2024 ha portato all’arresto di 13 agenti e alla sospensione di altri otto e che ha coinvolto 42 persone comprese ex direttrici, sanitari e infermieri: dal 19 dicembre, il gip ascolterà in audizione protetta uno dopo l’altro i 33 ragazzi vittime degli abusi. In questo contesto, la percentuale altissima dei “ristretti” ancora in attesa di giudizio (68,5 per cento, che sale addirittura all’89 per cento tra i minorenni e il 75,6 per cento tra gli stranieri) potrebbe essere letta come positiva: l’Ipm è solo la prima breve tappa di un percorso che si svolge soprattutto altrove. Le messe alla prova nell’80 per cento dei casi hanno esito positivo ma dentro resta il nodo della formazione professionale e culturale. Il futuro si costruisce, ma il presente è quello del cortile: un campo chiuso, un direttore a metà, una rete che si alza. E un filo spinato che racconta il rischio di somigliare a una difesa, piuttosto che a una cura. Torino. Ecco come sarà la stanza dell’affettività per i detenuti di Giada Lo Porto La Repubblica, 6 dicembre 2025 Il debutto a Torino: tre incontri al giorno riservati alle coppie stabili, vietati i cellulari. Nella piccola camera un letto, una doccia, tre quadri. “Una grande conquista per i diritti dei carcerati”. Varcata la soglia della stanza “dell’amore” nel carcere di Torino - il primo grande penitenziario d’Italia che inaugura oggi i colloqui intimi fra detenuti e partner (purché stabili) - si ha l’impressione di trovarsi in una pensione anni Ottanta, un po’ appartata, in un posto molto riservato, pur trovandosi dentro l’istituto. La stanza è piccolina e disadorna, quindici metri quadri con letto in ferro battuto ancora incellofanato, bagno con doccia e appendiabiti. C’è una tenda rossa che copre la finestra in alto e nasconde le grate. Tre quadri appesi alla parete disegnati dai detenuti - un elefante indiano, una tigre, una panchina - spezzano un pochino la monotonia della tinta unita della camera. Le consigliere regionali di Avs Alice Ravinale e Valentina Cera hanno visitato la stanza in anteprima, ce la fanno varcare tramite i loro occhi. La stanza dell’affettività si trova nel padiglione “Arcobaleno”, nella sezione maschile, a disposizione di uomini e donne, potrà ospitare coppie di qualsiasi orientamento sessuale. I detenuti potranno prenotare gli incontri - Due le prenotazioni di oggi: si tratta di due uomini - uno di 41, l’altro di 46 anni - entrambi reclusi a Torino a cui è stato concesso di incontrare le conviventi lontano da sguardi indiscreti. Il primo incontro è previsto alle 9.00, l’altro alle 12.45. Un detenuto è recluso per spaccio di droga e stupefacenti, l’altro per rapina. Non sono ammessi ritardi: le compagne devono presentarsi almeno 40 minuti prima. Le coppie hanno un’ora di tempo per stare in intimità, senza il controllo visivo della polizia penitenziaria. Dentro il gabbiotto che si trova a un metro e mezzo dalla camera, ci sono due guardie di turno a cui è stata data un’unica e rigidissima indicazione: bussare al cinquantesimo minuto, dicendo “Rivestitevi, lavatevi e uscite, avete solo altri 10 minuti”. Una regola che, emerge da fonti carcerarie, non si può trasgredire. La camera è dotata di un sistema d’allarme con pulsante e dentro non si può fumare. Il partner verrà controllato in ingresso e in uscita, dovrà lasciare il cellulare e sarà fatta una perquisizione per evitare che ci siano scambi di oggetti durante l’ora d’amore. La biancheria si deve portare da casa: due federe, lenzuolo e coprimaterasso. Dopo ogni incontro la stanza sarà sanificata. Necessario provare il rapporto di coppia - C’è un modulo per la prenotazione che il detenuto deve compilare. Due i punti fermi: bisogna provare il rapporto di coppia, è necessario avere la stessa residenza da almeno sei mesi, essere uniti civilmente o sposati; c’è poi particolare attenzione sulla richiesta di consenso esplicito della persona esterna. Infine è stata istituita una commissione che valuta la fattibilità del colloquio intimo e la sua sicurezza. Tradotto: la compagna o il compagno esterno non devono essere esposti a rischi, quindi viene fatta anche una valutazione sul tipo di reato. Esempio: sono detenuti una serie di “sex offender”, o persone recluse per avere avuto atteggiamenti ossessivi nei confronti del partner. La commissione valuterà caso per caso. Esclusi i detenuti in regime di 41 bis e nelle case di alta sicurezza. La stanza è a disposizione di tutto il distretto di Piemonte e Valle d’Aosta e - si è appreso ieri - della Liguria: sono arrivate richieste anche da Genova. In altri penitenziari sono attive delle sperimentazioni ma quella di Torino è la prima in una grande area. Previsti tre turni al giorno per un totale di circa 19 coppie a settimana. “Una grande conquista per i diritti delle persone detenute - commenta Ravinale - ed è importante che parta da Torino, che ha lanciato tante sperimentazioni diventate buone prassi. Il sovraffollamento e la carenza di personale sono critiche ma oggi raccontiamo una buona notizia”. Venezia. “I volti della povertà”, detenute Cicerone. “Il riscatto inizia con la fiducia” di Vera Mantengoli Corriere del Veneto, 6 dicembre 2025 Fino al 19 dicembre è possibile entrare in un luogo neutro che separa la città dal carcere della Giudecca. Oggi, in occasione del giubileo dei detenuti, nella cappella di Santa Maria Maddalena dell’istituto di pena femminile apre al pubblico (su prenotazione 347.4200080) una mostra itinerante di fotografie che verrà spiegata dalle stesse detenute. Si potrà così accedere alla cappella e ascoltare le storie dei ritratti in bianco e nero di Matteo Pernaselci e Rossana Ruggiero, confluiti nel libro “I volti della povertà in carcere”. L’inaugurazione è avvenuta ieri con il taglio del nastro da parte del patriarca Francesco Moraglia, di molte associazioni di volontariato, del personale che lavora in carcere, della direttrice Maurizia Campobasso e anche del sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari, favorevole a potenziare il percorso per il reinserimento, ma non per il cosiddetto indultino proposto dal presidente del Senato. Su Enrico Farina, già direttore del carcere maschile e all’improvviso sospeso e inviato al Provveditorato penitenziario di Padova, Ostellari ha detto di non sapere se tornerà e se verrà nominato un altro direttore prima di Natale. “Esistono ricerche che dimostrano che la recidiva si abbassa se chi esce ha un lavoro e questa è la direzione del governo - ha detto Ostellari - Al di là di chi rappresenta il vertice del carcere, gli istituti veneziani hanno ben interpretato questo messaggio”. Ostellari ha spiegato che l’indulto non serve quando la persona viene liberata senza prospettive. “Chi impara un mestiere e poi viene accolto nella società nel 98 per cento dei casi non delinque”, ha sottolineato”. Le storie delle fotografie raccontano anche chi è riuscito a riscattarsi perché, come ha letto in un messaggio una detenuta aprendo la mostra, “tutti hanno bisogno di una seconda possibilità”. Concetto ricordato anche dal patriarca: “Queste mura devono essere anche il segno di un riscatto, di una ripartenza, di una rinascita - ha detto Moraglia. E il riscatto, lo sappiamo, spesso inizia quando troviamo qualcuno che ha fiducia in noi e ci ridà voce e restituisce un volto riconosciuto e valorizzato”. Presente anche l’assessora alla Sicurezza Elisabetta Pesce che ha letto una lettera del sindaco Luigi Brugnaro: “Venezia non vi dimentica. Siete parte della nostra città, e il nostro impegno è che, quando arriverà il momento di tornare fuori, possiate trovare una porta aperta, una mano tesa, una vera occasione di riscatto”. San Gimignano (Si). Formazione, lavoro e natura per i detenuti con il progetto targato Estra di Katiuscia Vaselli sienanews.it, 6 dicembre 2025 Se - come cantava Rino Gaetano - può nascere un fiore in ogni giardino, la frase diventa più potente quando il giardino è la piccola area verde all’interno dell’imponente struttura del carcere di Ranza, San Gimignano. E’ qui che, grazie all’idea iniziale del medico urologo che effettua le visite ai detenuti, si è pensato di proporre un progetto utile alla salute maschile over 60, progetto presto sposato da Estra con AzzeroCO?, Legambiente e la Società Italiana di Fitoterapia che unisce l’utile all’ancor più utile: oltre ad aiutare nel mantenimento di una prostata più sana, i prodotti fitoterapici frutto del lavoro dei detenuti di Ranza stanno dando vita a un giardino officinale e a un frutteto: un percorso che unisce formazione, ambiente e riscatto personale. “L’attenzione che riponiamo nelle nostre comunità si concretizza anche nel valore che condividiamo attraverso questi interventi. Un progetto molto importante, che ha un impatto ambientale e di riqualificazione dei luoghi, ma soprattutto un impatto sulle persone - così Giuseppe Rubechi, responsabile sostenibilità di Estra-. I detenuti lavoreranno alla cura delle piante che abbiamo piantumato, traendone anche benefici fisici grazie a infusi e varie lavorazioni”. Sono state messe a dimora duecento piante officinali - lavanda, melissa, achillea, origano ed elicriso - e cento arbusti da frutto, selezionati per le loro proprietà benefiche e per il clima della Valdelsa. “I detenuti acquisiscono competenze spendibili una volta fuori - spiega il direttore della struttura Giuseppe Renna-. Coltivare la terra è per loro un’attività fondamentale: vedere nascere qualcosa dalle proprie mani arricchisce interiormente. Sono attività trattamentali che offrono opportunità utili al cambiamento e strumenti per affrontare il momento più difficile: l’uscita e il ritorno nella società. Il carcere è sempre stato percepito come un luogo brutto; in realtà non dovrebbe esserlo, perché se un luogo è brutto, imbruttisce”. I detenuti imparano a trasformare queste piante in tisane, oli essenziali e preparazioni naturali. Un’esperienza che dà valore al tempo della pena e costruisce competenze per il futuro. Il Comune di San Gimignano “non si è mai voltato dall’altra parte: ha sempre sostenuto i progetti messi in campo dalla Casa di Reclusione, nel rispetto del dettato costituzionale - così il sindaco Andrea Marrucci-. Voglio ringraziare Estra, AzzeroCO?, Legambiente e il Biodistretto di San Gimignano per un’iniziativa che non solo offre alla popolazione detenuta la possibilità di acquisire nuove competenze, ma garantisce anche un impegno quotidiano, fondamentale in un carcere di queste dimensioni e caratteristiche”. L’iniziativa è parte della campagna “Ortofrutteto solidale diffuso”. Viterbo. Cuori e zampe oltre le sbarre, i cani in aiuto dei detenuti di Mammagialla di Gabriele Mazzetti viterbotoday.it, 6 dicembre 2025 Il progetto “Enpa… tia” ha portato la pet therapy nel carcere di Viterbo e i reclusi hanno lavorato su cucce e schede identificative degli animali. Avana e Marrone non sapevano che la loro vita, iniziata come randagi tra le vie di Viterbo e proseguita in un box del canile comunale di Bagnaia all’età di dieci anni, avrebbe avuto un secondo tempo così importante. È questa la magia di “Enpa... tia”, il progetto finanziato dalla Regione Lazio con il patrocinio di Comune e Asl, che ha trasformato alcune ore della settimana all’interno del carcere Nicandro Izzo in un laboratorio di umanità. Attraverso il rapporto con quattro cani, i detenuti hanno portato a compimento un percorso rivolto in primis alla conoscenza degli amici a quattro zampe ma in particolare all’importanza delle relazioni. Si è partiti dalla conoscenza del mondo cinofilo, poi alla valutazione e all’interazione diretta con l’animale e si è finito con un laboratorio artigianale dove i detenuti hanno realizzato cucce e cuscini. I partecipanti hanno redatto le “schede” di quattro cani, tra cui proprio i due ex randagi Avana e Marrone. “Abbiamo voluto contaminare il settore del benessere animale - spiega la sindaca Chiara Frontini. Per noi la parola chiave è ‘relazioni’. Crediamo fermamente che una comunità dove le relazioni si sfilacciano non sia in grado di superare le sfide della società attuale. Ricucire questi strappi, anche attraverso il rapporto con gli animali, è fondamentale”. Un progetto che ha portato “luce” nel carcere. Francesca Perrotta, vicedirettrice dell’istituto Nicandro Izzo, offre una prospettiva toccante sul ruolo di queste iniziative: “È un progetto finalizzato al benessere psicofisico dei detenuti. Non dobbiamo nasconderci, abbiamo bisogno di aiuto dall’esterno. Questo progetto dimostra come la società esterna possa migliorare il carcere, trasformandolo. Da ‘istituzione totale’, chiusa e cupa, può diventare un luogo di luce e speranza”. Ha patrocinato l’iniziativa la Asl di Viterbo. Il direttore di medicina protetta Giulio Starnini sottolinea l’unicità del percorso viterbese: “Abbiamo inserito Viterbo in quel ristretto numero di città capaci di attivare progetti di tale portata nelle carceri. Attenzione però, non si utilizza il cane come uno ‘strumento’. Al contrario, si valorizza il rapporto tra uomo e animale per facilitare quel percorso di recupero e rinascita che, molto spesso, tra esseri umani non si riesce a creare. Dove la parola fallisce, lo sguardo di un cane arriva”. Il progetto ha anche un risvolto solidale concreto che chiude il cerchio. Lo racconta Mauro Chiarle, presidente provinciale Enpa: “Siamo al secondo progetto portato avanti con il carcere e i risultati sono tangibili. I cuscini e le cucce, cuciti e ricamati con cura dai detenuti, non resteranno opere fini a se stesse. Saranno offerti in parte all’associazione Viterbo con amore per essere destinati alle famiglie con cani che ne hanno bisogno”. Modena. Un ciclo di tre reading nelle carceri, a cura del Teatro dei Venti modenatoday.it, 6 dicembre 2025 Dal 9 al 13 dicembre “Voci assurde, corpi crudeli” un ciclo di tre reading a cura del Teatro dei Venti nelle Carceri di Modena e Castelfranco Emilia (solo per pubblico già autorizzato), il 17 dicembre “Dei delitti, delle scene”, giornata di studi con apertura internazionale al Teatro Storchi. Nell’ambito del Festival Trasparenze di Teatro Carcere, il Teatro dei Venti presenta dal 9 al 13 dicembre i primi esiti del nuovo progetto triennale “Voci assurde, corpi crudeli”, dedicato ad Antonin Artaud attraverso Samuel Beckett, un percorso nato dal lavoro dei laboratori teatrali all’interno delle Carceri di Modena e Castelfranco Emilia. Nel Carcere di Modena saranno presentati i reading “Come è”, con gli attori delle sezioni maschili, e “Non io”, con le attrici della sezione femminile, mentre nel Carcere di Castelfranco Emilia, sarà presentato il reading “Peggio tutta”. Tre reading introdotti da un dialogo-intervista dal titolo “Credere nell’assurdo: legami fra Artaud e Beckett a partire dai Cahiers di Artaud e da tre pezzi brevi di Beckett” a cura di Renzo Francabandera e Lucia Amara. Gli appuntamenti sono riservati alle persone detenute, al personale penitenziario, ai volontari e a un pubblico esterno già autorizzato. Le prenotazioni sono chiuse. I lavori sono prodotti dal Teatro dei Venti, in coproduzione con il Coordinamento Teatro Carcere Emilia Romagna, all’interno del progetto Stanze di Teatro Carcere, sostenuto dalla Regione Emilia-Romagna (L.R. 13/99), con il sostegno di Ministero della Cultura, con il contributo di Fondazione di Modena nell’ambito del progetto Abitare Utopie, e con il contributo di BPER Banca. Progetto realizzato anche con il contributo dell’Otto per Mille della Chiesa Luterana Il rapporto tra scena e istituzione totale, le prospettive regionali e le migliori esperienze europee. Sono questi i temi al centro della terza edizione della Giornata di studi “Dei Delitti e delle Scene”, che si terrà mercoledì 17 dicembre presso il Ridotto del Teatro Storchi. L’evento, a cura del Coordinamento Teatro Carcere Emilia Romagna, trasformerà Modena per un giorno nell’osservatorio privilegiato sulle pratiche teatrali negli istituti di pena, mettendo a confronto i protagonisti del sistema penitenziario, le istituzioni culturali e le più importanti realtà artistiche italiane ed estere. I lavori si apriranno alle ore 9.30 con un parterre istituzionale di alto profilo, a testimonianza della rilevanza sociale e giuridica del progetto. Interverranno Silvio Di Gregorio (Provveditore Prap Emilia Romagna e Marche), Maria Letizia Venturini (Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Bologna) e Gianni Cottafavi (Responsabile del Settore Attività Culturali della Regione Emilia Romagna), insieme a Giuseppe Amara dell’Associazione Nazionale Magistrati. Il cuore della mattinata, a partire dalle ore 11.00, sarà dedicato al tema “Il Teatro Carcere fuori dal Carcere, oltre il Teatro Carcere”. Il dibattito si articolerà in due sessioni. Un Focus Regionale, coordinato da Paolo Billi, regista del Teatro del Pratello, vedrà il dialogo tra Francesca Romana Valenzi (Direttore Uff. III Prap), Maria Martone (Direttrice della Casa Circondariale di Ferrara), Elena Di Gioia (Direttrice Artistica ERT Fondazione) e la testimonianza diretta di un’attrice della Compagnia delle Sibilline/Casa Circondariale di Bologna. E un Focus Internazionale, coordinato da Stefano Tè, regista del Teatro dei Venti, la seconda parte allargherà lo sguardo all’Europa con gli interventi di Holger Syrbe (aufBruch, Berlino), Stathis Grapsas (Common Starting Point, Atene) e Anna Herrmann (Clean Break, Londra), in dialogo con i registi del Coordinamento Teatro Carcere Emilia Romagna. A chiudere la giornata non saranno solo le parole, ma l’azione scenica. Alle ore 16.00, l’attenzione si sposterà al Teatro dei Segni (via San Giovanni Bosco 150) per la Prova Aperta del “Macbeth” del Teatro dei Venti, solo su invito. In scena saranno presenti attori e attrici della Casa Circondariale di Modena e della Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia, in un progetto che unisce due realtà detentive attraverso il linguaggio shakespeariano. Il “Maggio dei libri nello Spazio Giallo del carcere di Foggia” vince premio “Più Libri Più Liberi” Ristretti Orizzonti, 6 dicembre 2025 L’associazione si è aggiudicata il Premio “Il Maggio dei Libri 2025” per la categoria “Carceri, strutture sanitarie e di accoglienza per anziani”, consegnato durante la fiera “Più Libri Più Liberi” di Roma. È andata in scena ieri a Roma, nell’ambito della Fiera “Più Libri Più Liberi”, la cerimonia di premiazione della 14^ edizione del Premio “Il Maggio dei Libri 2025” che ha visto Lavori in Corso APS aggiudicarsi il riconoscimento nella categoria “Carceri, strutture sanitarie e di accoglienza per anziani” con l’iniziativa “Maggio dei libri nello Spazio Giallo del carcere di Foggia”, un luogo di relazione curato e gestito dall’associazione. “Il Maggio dei Libri” - promosso dal Centro per il Libro e la Lettura (Cepell) del Ministero della Cultura e nato per favorire e stimolare l’abitudine alla lettura - premia i cinque migliori progetti di promozione della lettura realizzati nell’ambito di ciascuna delle seguenti categorie: Biblioteche, Associazioni culturali, Istituti Scolastici, Carceri, strutture sanitarie e di accoglienza per anziani, Librerie. A conferire il Premio a Lavori in Corso Aps è stato il presidente della Giuria Filippo La Porta che ha sottolineato il valore del libro come veicolo motivando come segue la scelta di conferire il riconoscimento all’associazione: “Il mondo salvato dai ragazzini (come ci ricordava Elsa Morante), un allegro, rumoroso esercito di 350 bambini fa irruzione pacifica, ogni giorno, nel carcere per incontrare il padre o la madre detenuti e, attraverso degli albi illustrati, provano a confrontare e intrecciare le proprie emozioni con quelle dei genitori”. Lavori in Corso e la lettura - Il riconoscimento ricevuto da Lavori in Corso Aps valorizza un modello educativo costruito nel tempo sul territorio di Foggia, che utilizza la lettura come strumento per sostenere i minori che vivono la detenzione di un genitore e accompagnare le famiglie in un momento di fragilità affettiva, relazionale e sociale. A ritirare il Premio sono stati il presidente di Lavori in Corso Aps Umberto Di Gioia e l’avvocata e co-fondatrice dell’associazione Antonietta Clemente. “Nello spazio Giallo del Carcere di Foggia la lettura rappresenta un gesto educativo potente. Consente ai genitori detenuti di offrire ai propri figli qualcosa che la detenzione solitamente impedisce: un tempo lento, intimo e condiviso. È così che la lettura diventa emancipazione familiare, un’occasione per crescere insieme nonostante tutto”, ha dichiarato Umberto Di Gioia. “Per la nostra associazione la lettura è un metodo: uno strumento per ricostruire legami, attraversare traumi e restituire ai bambini una verità che troppo spesso rimane nascosta. Le famiglie che non hanno mai letto insieme scoprono un tempo nuovo, un tempo che cura. Nei nostri incontri il libro diventa un ponte che tiene insieme presenza, relazione e possibilità”, ha aggiunto Antonietta Clemente. Il Premio conferma il ruolo di Lavori in Corso APS come realtà impegnata a livello regionale e nazionale nella tutela dei diritti dei minori con genitori detenuti, riconoscendo la qualità del lavoro sviluppato nel carcere di Foggia e sul territorio circostante. L’associazione intende utilizzare questo riconoscimento per rafforzare le collaborazioni istituzionali già attive e per promuovere in altri contesti, detentivi e comunitari, il modello educativo che unisce lettura, relazione e dignità familiare. “Il Maggio dei Libri” - missione e giuria - Nata nel 2011 con l’obiettivo di sottolineare il valore sociale dei libri quale elemento chiave della crescita personale, culturale e civile, Il Maggio dei Libri è una campagna nazionale che invita a portare i libri e la lettura anche in contesti diversi da quelli tradizionali, per intercettare coloro che solitamente non leggono ma che possono essere incuriositi se stimolati nel modo giusto. Nella sua missione, Il Maggio dei Libri coinvolge in modo capillare enti locali, scuole, biblioteche, librerie, festival, editori, associazioni culturali e i più diversi soggetti pubblici e privati. A decretare i vincitori è stata la Giuria - formata da Filippo La Porta (Presidente), Francesca Vannucchi (Istat), Giuliana Marazzi (Associazione Italiana Editori), Rossella Pace e Antonio Schina (responsabili scuola e rappresentanti del Centro per il libro e la lettura), Flavia Cristiano (direttrice del Centro dal 2010 al 2019) e Barbara Ferraro (vincitrice della categoria librerie nel 2024) - che ha valutato le iniziative, preselezionate da un gruppo di lavoro del Cepell tra tutte quelle iscritte nella banca dati del Maggio dei libri 2025. Frammenti di vita da rammendare di Marina Tomarro L’Osservatore Romano, 6 dicembre 2025 A Venezia la mostra “I Volti della povertà in carcere”. Quando entri per la prima volta nel Convento delle convertite, oggi Casa di reclusione femminile della Giudecca, la cosa che ti colpisce è l’odore. Non quello di cloroformio e disinfettante, come succede nelle altre strutture detentive, ma lì dentro profuma di salmastro, perché fuori c’è il mare. Da alcuni anni però la Cappella di Santa Maria Maddalena è diventata un luogo d’arte, un padiglione speciale della Biennale di Venezia, dove le detenute si trasformano in guide artistiche aiutando i visitatori a fare un percorso tra le opere esposte. In questo luogo è stata inaugurata il 5 dicembre la mostra fotografica I Volti della povertà in carcere, ispirata all’omonimo volume di Matteo Pernaselci e Rossana Ruggiero (Edb, 2024) che, previa prenotazione, sarà visitabile fino al prossimo 19 dicembre. E saranno loro proprio queste donne a guidare i visitatori tra gli scatti in un crudo bianco nero del carcere di San Vittore, offrendo lo sguardo di chi vive e conosce bene cosa sia la mancanza di libertà e il dolore della detenzione. “Attraverso i volti e le storie narrate nel volume e nelle foto - ha spiegato l’autrice Rossana Ruggiero - è stato possibile “ridare cittadinanza” a chi è stato emarginato, anche la più dimenticata, un volto su cui posare lo sguardo. Su questo sentiero, ci siamo fatti strumento per restituire voce a chi non ha voce, per ricucire pezzi di vita necessitanti di rammendo, rivelando una sorprendente ricchezza nella povertà”. In occasione della mostra, nella biblioteca del carcere si è svolto l’incontro Riflessione ad alta voce, dove le protagoniste sono state proprio le donne detenute nella struttura. Ad aprire il messaggio del sindaco della città lagunare Luigi Brugnaro, letto dall’assessore alla sicurezza Elisabetta Pesce. “Alla Giudecca - ha spiegato il sindaco nel messaggio - nei volti e nelle storie delle donne detenute si intrecciano ferite profonde che spesso hanno preceduto il reato. Il nostro dovere è trasformare la pena in possibilità di riscatto. Per questo credo che il lavoro, la formazione, il contatto con il mondo produttivo siano la chiave: ridanno dignità, responsabilità, futuro”. E il carcere deve essere un luogo non solo di detenzione ma soprattutto deve essere anche il segno di un riscatto, di una ripartenza, di una rinascita, come ha ricordato monsignor Francesco Moraglia, patriarca di Venezia. “È importante il lavoro e il contributo di ognuno - ha sottolineato Moraglia - dalle istituzioni preposte a tutte quelle realtà che possono intervenire positivamente attraverso varie forme e modalità di coinvolgimento che toccano gli aspetti fondamentali del lavoro e della formazione ma anche utilizzano il linguaggio e i canoni della bellezza, dell’arte, del teatro, della comunicazione”. Quella del carcere è una realtà estremamente complessa, perché è una sorta di mondo a parte all’interno delle città, che non sempre viene capito da chi ne vive distante. “Questo progetto che portiamo avanti - ha spiegato Giacinto Siciliano, provveditore regionale degli Istituti penitenziari di Lazio, Abruzzo e Molise, presente all’incontro - vuole far capire a chi è fuori cosa c’è dietro quel divisorio. Quando ti trovi a lavorare in carcere ti rendi conto che ti trovi a gestire la fragilità delle persone con i loro problemi. La cosa da fare è metterci in gioco noi per primi, senza negare i limiti che una struttura può avere, perché è questo che crea rispetto e porta chi è dentro ad osservare le regole”. All’incontro hanno raccontato le loro esperienze anche un gruppo di detenute della struttura carceraria. Storie di vita e di sofferenza, come quella di Monica, una giovane madre di due bambini, che a causa della sua tossicodipendenza le sono stati tolti e che lei sogna di riabbracciare un giorno, quella di Fanta che dalla Sierra Leone è arrivata in Italia piena di speranze che sono crollate una dopo l’altra portandola a commettere degli errori che sta pagando con la sua detenzione, eppure non ha perso la speranza di vivere una vita migliore, oppure Amalia, che sogna di essere trasferita nel carcere di Trieste dove vive l’uomo di cui è innamorata, perché quando uscirà “lui sarà lì ad aspettarmi con un mazzo di rose”. L’etica delle donazioni: ecco perché difendere l’inviolabilità del corpo dal dominio del mercato di Lorenzo D’Avack Il Dubbio, 6 dicembre 2025 Sono frequenti le donazioni degli organi da morto o da vivo (cellule, gameti, tessuti, organi, ecc.) determinanti per curare la vita di persone in condizioni di vulnerabilità (nel nostro paese R. D. 1592/ 1933; legge 91/ 99). Tuttavia nell’ambito di queste tragiche esperienze è da chiedersi se la cultura giuridica occidentale sia sempre favorevole all’idea che il corpo non possa essere l’oggetto di una alienazione commerciale. Ciascuna società, ciascuna epoca tratteggia un sapere specifico sul corpo. È possibile domandarsi se i principi tradizionali costitutivi della persona umana e della sua personalità giuridica, quali l’individualità e l’inviolabilità del corpo, la sua disponibilità a titolo gratuito, la non commerciabilità dello stesso, siano ancora fondamentali per il rispetto della dignità della persona. Tanto più che alcuni principi tradizionali non sembrano oggi in grado di fornire da soli risposte univoche sia alle istanze individualistiche e libertarie, sia alle nuove spinte di mercato per l’utilizzazione del corpo umano. E se l’uomo diviene così un prodotto, un bene come altri, sottoposto alle logiche di mercato sembra di giorno in giorno più difficile difendere l’idea secondo la quale il corpo, inseparabile dalla persona, è fuori dal commercio. Nella discussione per quel che concerne la commercializzazione degli organi, possiamo chiederci quali effetti sulla società possano avere il venir meno di questi principi in queste pratiche. Gli approcci utilitaristi dicono che si potrebbe valutare positivamente gli esiti derivanti dal “commercio del corpo”, nella misura in cui questi massimizzino il conseguimento delle preferenze individuali e/ o sociali, tra le quali rientra a buon diritto anche l’interesse economico. Non si ritiene, pertanto, esservi di fatto conseguenze negative tali da dover escludere il commercio del corpo. Tanto più che si possono avanzare a favore di una libera compravendita riflessioni altrettanto etiche. In un rapporto di mercato, ciascuno ha guadagnato anche se le condizioni iniziali in cui si trovano i contraenti sono diverse: la prima ricca, la seconda povera. Alla domanda data ad esempio dalla surroga: “Perché la donna sarà stata disponibile a vendere il corpo e cedere il figlio?”, ne consegue la risposta: perché il funzionamento della società non gli ha lasciato alcun’altra soluzione più soddisfacente per rispondere ai suoi bisogni vitali (J. Harris, H. Kuhse, H. T. Enghelhard). E consegue per questi bioeticisti un’altra domanda: “È più immorale il ricco o le industrie che usano incentivi finanziari per indurre i poveri a porre il corpo in vendita, o il ricco e le istituzioni che, per soddisfare i propri sentimenti morali, impediscono al povero di sopravvivere, mettendo a disposizione il proprio corpo?”. Se questo argomentare è convincente vi sarebbe una ragione legittima per modificare quell’attitudine etica fondamentale che vieta di ricavare dal corpo profitto e per adattare la legislazione affinché ciò che fino ad oggi è stato giudicato moralmente illecito diventi “legale”. Ma la contrarietà a questa prospettiva nasce, a mio avviso, da alcune considerazioni che tendono a sottolineare come questo meccanismo di allocazione di risorse produttivo, che si è sviluppato di fatto attraverso il commercio del corpo, non sia sufficientemente fondato nella maggior parte delle occasioni su di una reale, libera scelta informata e, pertanto, non sia in grado di assicurare un onesto vantaggio ai soggetti coinvolti, presunti decisori razionali in grado di comprendere le proprie preferenze e di realizzarle in piena libertà. D’altronde nel valutare un consenso libero informato non si deve sottovalutare il peso dei condizionamenti economici sociali e culturali che vengono esercitati sull’autonomia individuale, anche in società liberal- democratiche. L’autodeterminazione presuppone il diritto di dire sì o no. Ma sia il consenso che il dissenso devono presupporre una corretta e ampia informativa, assenza di pressioni sociali e familiari. L’assenza di questi requisiti sono assai frequenti quando si commercializza il proprio corpo e quello degli altri e si ricava l’impressione che queste forme di commercio relativizzino in un modo o in un altro l’idea del rispetto incondizionato della persona “nel” e “per” la sua integrità fisica. Questo relativizzare ha un valore simbolico pubblico: invia un segnale a dei gruppi ben definiti (persone socialmente più fragili, poveri, emarginati, medici poco scrupolosi), dicendo loro che si possono ricavare degli utili nel procedere a delle transazioni contrattuali in questo mercato. Non si tratta, quindi, di difendere l’indisponibilità del corpo sulla base di un’etica universale ed astratta, bensì in una realtà precisa, dove sia gli uomini che le istituzioni sono spesso alle prese con la povertà e la paura. La costruzione di una giustizia sociale nelle società complesse richiede che una serie di beni siano sottratti al mercato. Un mondo nel quale tutti i beni fossero distribuiti dal mercato sarebbe “tirannico” perché darebbe al denaro un potere esclusivo per l’insieme delle nostre vite. Antisemitismo, Delrio insiste. Schlein teme una sponda con la legge del centrodestra di Niccolò Carratelli La Stampa, 6 dicembre 2025 I riformisti Pd non ritirano il ddl, sarà discusso con quelli di Lega e FI. In campo vescovi e Comunità ebraiche: serve una norma condivisa. Difficile prevedere che fine farà il disegno di legge sull’antisemitismo presentato a Palazzo Madama da Graziano Delrio e sottoscritto da diversi senatori del Pd. Ampiamente prevedibile, invece, la spaccatura del gruppo dem al Senato, figlia delle due anime che convivono nel partito. Entrambe decise a contrastare qualsiasi forma di antisemitismo, e ci mancherebbe, ma con posture diverse nella critica al governo israeliano. Da una parte quelli che parlano apertamente di “genocidio” a Gaza, dall’altra quelli che ritengono inopportuno usare quel termine. Da una parte i fan della Flotilla, che erano pronti a sostenerla fino a Gaza, dall’altra quelli che (ascoltando il presidente Mattarella) l’avrebbero fatta fermare molto prima. Stesso schema sul ddl Delrio, che non verrà ritirato, come avrebbe voluto la segretaria, Elly Schlein, e come ha chiesto esplicitamente il capogruppo Francesco Boccia. Il quale ieri è tornato a criticare l’iniziativa nata dentro il suo gruppo, non ieri, ma circa un mese e mezzo fa. “Un’iniziativa a titolo personale, legittima, ma non rappresentativa della posizione del Pd - spiega Boccia -. Oggi più che mai è sbagliato introdurre testi che rischiano di diventare bandierine identitarie, invece che strumenti per unire”. Bandierine, è il sottinteso, come quelle già piantate da Forza Italia e Lega con proposte simili. Perché quello che più temono ai vertici del Pd è ritrovarsi a dover votare in Aula (dividendosi) una legge per il contrasto all’antisemitismo frutto di un accordo tra un pezzo del loro partito e il centrodestra. Uno scenario da scongiurare in ogni modo, per Schlein, che ha chiesto a Boccia di trovare una soluzione. Mentre il capogruppo di Forza Italia, Maurizio Gasparri, non aspetta altro: “Chiederemo un confronto accelerato, affinché si capisca chi difende gli ebrei e chi invece è antisemita o ipocrita”, avverte. E il collega leghista Gian Marco Centinaio, vicepresidente del Senato, spera che “si possa giungere in Aula nei primi mesi del nuovo anno con un testo da approvare in maniera trasversale”. Stesso auspicio da parte di Noemi Di Segni, presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane, che vorrebbe l’approvazione di “un unico testo di legge ben ragionato” prima del Giorno della Memoria del 27 gennaio: “Boicottare il percorso parlamentare per una lettura distorta - dice - equivale a eludere il problema e strumentalizzarlo”. Parole che seguono quelle della Cei, che in una nota pastorale parla di un antisemitismo “drammaticamente cresciuto, alimentato da una fallace identificazione della realtà ebraica con inaccettabili pratiche dello Stato d’Israele”. Due prese di posizione a cui fa da contraltare l’appello di un gruppo di studiosi e scrittori, convinti che i ddl in discussione in Parlamento siano “pericolosi”, perché finiscono per “equiparare qualsiasi critica politica a Israele all’antisemitismo”. È quello che sostengono anche al Nazareno, dove, però, hanno intuito che aver disconosciuto il ddl Delrio non basterà per chiudere il caso. Lui, il primo firmatario, in privato lo definisce “un autogol incomprensibile” da parte del suo partito, legato “solo alla strategia politica e ai commenti social”, senza alcuna ragione di merito. Ci torna su Emanuele Fiano, presidente di Sinistra per Israele, che ricorda come la definizione di antisemitismo richiamata sia stata adottata dall’Italia cinque anni fa, “attraverso un atto del governo Conte II, di cui facevano parte Pd e 5 stelle”. I dem sostenitori della legge non arretrano: “Penso che ci sia bisogno di discutere in Parlamento di questo tema”, dice la senatrice Simona Malpezzi. “Se qualcosa va corretto, se ne parli, ma senza anatemi o letture maliziose”, esorta il vicecapogruppo al Senato Alfredo Bazoli. E Pierferdinando Casini assicura che il ddl in questione è “un atto di civiltà, che dovrebbe realizzare un’ampia unità parlamentare, lo rifirmerei cento volte”. A dar loro manforte arriva Carlo Calenda, che sottoscrive il testo e schiera Azione a favore. Come Italia viva, che con Ivan Scalfarotto ha presentato a Palazzo Madama una proposta dello stesso tenore. Se i senatori del Pd firmatari del provvedimento sono rimasti una decina, sicuramente anche tra i deputati ci sarà un gruppetto di favorevoli. A cominciare da Piero Fassino, anche lui disconosciuto dal suo partito, attraverso il responsabile Esteri Peppe Provenzano, per aver elogiato la democrazia israeliana durante la sua recente visita alla Knesset. Mentre è stata pubblicizzata e supportata la missione in Cisgiordania di sei deputati, tra cui Andrea Orlando e Laura Boldrini, tra le prime a criticare il ddl Delrio. Ecco, la distanza tra Boldrini e Fassino forse può misurare la lunghezza della crepa dentro al Pd. Legge Delrio, perché criticare gli errori di Israele non è antisemitismo di Anna Foa La Stampa, 6 dicembre 2025 L’antisemitismo esiste, anche se chi, come il governo israeliano, ne denuncia dappertutto l’apparizione non fa certo un buon servizio a chi lo vuole combattere, annegandolo in una palude in cui tutte le vacche sono nere. Se tutto è antisemitismo, nulla lo è più. L’antisemitismo è esistito, non solo nel progetto hitleriano di totale sterminio degli ebrei, ma più banalmente in giornali, libri, partiti politici apertamente “antisemiti”, in quella prima metà del XX secolo in cui, tanto per non citare che un caso, un sindaco antisemita, Karl Lueger, ha governato Vienna. Oggi l’antisemitismo riaffiora alla luce, cresce, si espande, aiutato dall’indignazione per le immani stragi compiute da Israele a Gaza, dalle drammatiche vicende della Cisgiordania, dalla follia messianica dei coloni. Ma proprio perché l’antisemitismo è una realtà, e combatterlo è una necessità, bisogna smettere di usarlo per mascherare obiettivi inconfessabili, come la difesa della politica di Netanyahu. Smettere di identificare come antisemite le critiche, anche durissime, alla politica israeliana, le denunce delle violenze commesse. Non sono quelle critiche, quelle denunce a far crescere l’antisemitismo, sono le bombe, la fame, le violenze, e il silenzio di troppa parte del mondo. Per questo le proposte di legge contro l’antisemitismo attualmente in discussione, una della Lega ed un’altra recentissima presentata, sembra, a titolo personale da un senatore PD, sono non solo inefficaci, ma pericolose. Entrambe si riallacciano ad una definizione dell’antisemitismo elaborata a livello internazionale nel 2016, e adottata da 43 Stati, Italia compresa, dall’Ihra (International Holocaust Remembrance Alliance), una definizione che consentiva di tracciare una stretta connessione fra antisionismo e antisemitismo. Ma la definizione, volta a favorire una più rigorosa ricognizione dei fenomeni di antisemitismo, non è “giuridicamente vincolante”. Con queste proposte si rischia di renderla tale, e si potrebbe definire come antisemita e perseguirla come tale ogni manifestazione di dissenso verso la politica del governo israeliano. Potrebbe ad esempio, diventare punibile come antisemitismo perfino il confronto fra la Shoah ed altri genocidi. È un tema spesso affrontato dagli storici, soggetto a dibattito e critiche. Ma farlo diventare oggetto di accuse penali rasenterebbe il ridicolo se non fosse tragico. Tragico per la democrazia, per la libertà di opinione, di critica, di manifestazione. Sotto il velo della lotta all’antisemitismo negheremmo libertà fondamentali sancite dalla nostra Costituzione. La politica di Israele, e solo quella, sarebbe protetta perché attaccarla significherebbe macchiarsi del crimine di antisemitismo. In base a questa logica, Putin ha richiamato la lotta all’antisemitismo per giustificare la sua aggressione all’Ucraina, Trump la usa a scopi interni, per combattere le Università e le manifestazioni degli studenti a favore della Palestina, e anche in Gran Bretagna è aperto il dibattito sull’adozione della definizione dell’Ihra. Insomma, sembra che i prossimi attacchi contro le libertà democratiche si svolgeranno in nome della lotta all’antisemitismo. Col risultato, immagino, di alimentarlo e farlo crescere. Mi auguro davvero che faccia marcia indietro almeno quella parte della sinistra italiana che sembra tanto accecata dalla parola “antisemitismo” da prendere le armi senza curarsi nemmeno di guardare attentamente il suo bersaglio, senza preoccuparsi dei danni collaterali che leggi di tal fatta implicherebbero. A meno che il desiderio di appiattirsi sulle politiche di Netanyahu e di seguirne passo passo le orme non impedisca loro ogni critica. Ma l’antisemitismo è cosa troppo seria per essere agitata a casaccio, e gli ebrei meritano di meglio che essere usati da tutti e in ogni circostanza. Droghe. Cannabis light, dopo il dietrofront di FdI la palla passa alla Consulta di Emilio Minervini Il Dubbio, 6 dicembre 2025 Divieto si, divieto no, la canapa resta bandita, almeno per ora. Nel corso dei lavori parlamentari di giovedì sulla legge di bilancio l’emendamento 28.0.1, inserito nella manovra di bilancio su iniziativa del Senatore di FdI Matteo Gelmetti, ha fatto scoppiare un caso che ha provocato non poco imbarazzo all’interno della maggioranza e in particolare nel partito di Governo, costringendolo a fare uno scomposto dietrofront. La finalità dell’emendamento era infatti di estendere l’applicabilità della legge n. 242/ 2016 (Disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa) anche alle “infiorescenze fresche o essiccate e derivati liquidi” destinati “al fumo o da inalazione”, a patto che il contenuto di THC non ecceda lo 0,5%. L’emendamento avrebbe introdotto la necessità dell’autorizzazione preventiva dell’Agenzia delle Dogane e una sovrattassa pari al 40% del prezzo di vendita al pubblico. L’obiettivo dell’emendamento sarebbe stato di “contrastare la diffusione e la vendita di prodotti a base di cannabis light, introducendo una super tassazione al 40%. La proposta non nasconde alcuna volontà occulta di legalizzazione di questi prodotti, come sostenuto da alcuni, ma l’esatto contrario”. L’emendamento però avrebbe reso di nuovo possibile la commercializzazione di prodotti a base di cannabis light, resa illegale dall’art. 18 del decreto sicurezza, entrato in vigore lo scorso aprile, che vieta “l’importazione, la cessione, la lavorazione, la distribuzione, il commercio, il trasporto, l’invio, la spedizione e la consegna delle infiorescenze della canapa coltivata nonché di prodotti contenenti o costituiti da tali infiorescenze, compresi gli estratti, le resine e gli oli da esse derivati”. Pronta è arrivata la replica dai banchi dell’opposizione. “È un testacoda di governo e maggioranza - ha dichiarato Riccardo Magi, segretario di + Europa che hanno passato gli ultimi due anni a criminalizzare un settore, una pianta e un prodotto senza alcun effetto stupefacente, perseguitando centinaia di aziende e migliaia di lavoratori”. Il partito di Giorgia Meloni però ha fatto una rapida giravolta. Al termine della giornata di lavori infatti fonti parlamentari hanno dato la notizia che l’emendamento verrà ritirato. “Quindi prima proibiscono ma poi ri-legalizzano per ri-proibire ancora. Questo sì che è davvero stupefacente, altro che cannabis light”, ha aggiunto Magi. “Hanno avuto un intervallo di lucidità che è durato un pomeriggio - commenta Filippo Blengino, segretario di Radicali Italiani - nel leggere la notizia abbiamo provato un po’ di rammarico per la tassazione al 40%, che di fatto avrebbe ucciso il mercato, ma almeno si eliminava l’aspetto penale. L’emendamento potrebbe essere stato dettato dalla paura di una pronuncia d’incostituzionalità sull’art. 18 del decreto sicurezza - prosegue Blengino - Poi però dopo che gli si è fatta notare l’ipocrisia della misura c’è stato il dietrofront. Questo mostra la loro reale natura, incentrata su un proibizionismo becero e antiscientifico, in quanto diretto a una sostanza che non è una droga. Lo stesso Mantovano sarebbe intervenuto per bloccare questo passo in avanti. Non avrebbero potuto giustificare una mossa simile ai loro elettori”. Nonostante il ritiro dell’emendamento la cannabis light potrebbe comunque trovare una strada per rientrare nella legalità all’interno dell’ordinamento italiano. Come già scritto nei giorni scorsi sull’art. 18 del decreto sicurezza pende il giudizio di costituzionalità su cui dovrà pronunciarsi la Consulta a seguito della questione di legittimità costituzionale sollevata dal Gip di Brindisi lo scorso 3 dicembre. Inoltre l’ 11 novembre scorso il Consiglio di Stato ha emesso un’ordinanza con cui ha rimesso alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea la questione pregiudiziale sulla compatibilità tra il diritto dell’Unione e la normativa nazionale sulla cannabis light, composta dal combinato disposto del DPR 309/ 90 e della ln 242/ 2016, nella versione precedente alle modifiche intervenute con l’entrata in vigore dell’art. 18 del decreto sicurezza, a cui i giudici del Consiglio di Stato hanno esteso la pregiudiziale. Qualora i giudici del Lussemburgo dovessero ravvisare un contrasto tra la normativa unitaria, composta da numerosi Regolamenti, Decisioni e Direttive, e quella nazionale, i giudici italiani sarebbero costretti a disapplicare la normativa interna, il che produrrebbe significativi effetti sulla criminalizzazione delle condotte relative alla produzione, lavorazione e commercializzazione della cannabis light introdotta dal decreto sicurezza. Migranti. Napoli, assolti 4 scafisti: “Riconosciuto stato di necessità” di Melina Chiapparino Il Mattino, 6 dicembre 2025 Ora torneranno liberi dopo 17 mesi in carcere. Non erano scafisti, ma erano alla guida del barcone per uno stato di necessità: si è concluso con quattro assoluzioni il processo a Napoli che vedeva imputati 4 migranti arrivati in Italia nel luglio del 2024. I quattro, in seguito alle testimonianze raccolte, vennero indicati come coloro che guidavano le due imbarcazioni - con a bordo complessivamente 55 persone - soccorse dalla nave umanitaria Ocean Viking nel mediterraneo centrale. Appena sbarcati a Napoli, furono fermati e trasferiti in carcere. Il giudice ha però ritenuto sussistente “lo stato di necessità” e ora i quattro torneranno liberi dopo 17 mesi in carcere. Per le avvocate Tatiana Montella e Martina Stefanile, componenti del pool difensivo, la sentenza “rappresenta una vittoria importante. Da un lato scardina il paradigma, sin troppo spesso applicato nei Tribunali, che equipara il capitano a colui che organizza le lucra sulle traversate, riconoscendo invece le condizioni di necessità che caratterizzano il percorso di ogni migrante in fuga e affermando in modo chiaro che i capitani altro non sono che migranti che esercitano la propria libertà di movimento. Dall’altro lato riconosce la supremazia del bene giuridico “vita e libertà di movimento”, rispetto alla tutela giuridica dei confini”. “Ci sono voluti oltre 17 mesi di detenzione cautelare, dopo l’arresto al porto di Napoli del luglio 2024, per dimostrare che i quattro imputati hanno agito in stato di necessità. Dall’inizio del loro percorso di salvezza, hanno conosciuto sofferenze e torture e soprattutto carcere”. Così, in una nota, Asgi Campania, Clinica legale dell’immigrazione e della cittadinanza di Roma, Clinica Legale Università di Parma e Mediterranea Saving humans commentano l’assoluzione all’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare di quattro rifugiati, provenienti dal Sudan e dal Ciad, e ritenuti degli scafisti. “Detenuti in Sudan, perché non volevano arruolarsi come soldati bambini, detenuti e torturati in Libia - si legge ancora nella nota - hanno attraversato il mar Mediterraneo e dopo essere riusciti a sopravvivere in questo luogo di morte per tantissimi profughi, sono sbarcati in Italia, conoscendo solo il carcere di Poggioreale. L’accusa di favoreggiamento, grimaldello utilizzato per reprimere il fenomeno dell’immigrazione irregolare conosce oggi un punto di arresto. In un Paese che ha fatto dell’immigrazione il punto più vergognoso di calcolo politico, criminalizzando migranti, rifugiati e attivisti che salvano vite nel mediterraneo, l’assoluzione di oggi indica in modo chiaro che gli oltre 1.300 detenuti nelle carceri sono solo il frutto della repressioni della libertà di movimento e la conseguenza dell’ inevitabile esito di politiche repressive e di criminalizzazione, in cui la storia delle persone coinvolte, diventa il sottofondo assordante di chi grida solo all’invasore. Un’indagine piena di falle, molto spesso frutto di un paradigma accusatorio per cui chi guida perde il proprio percorso individuale, per finire strumento e capro espiatorio di politiche criminali sui confini”. “La logica del diritto penale, applicata in modo acritico ai fenomeni migratori - viene sottolineato nella nota - ha finito per diventare una ‘calotta interpretativa’ della realtà, che ha impedito di vedere la complessità delle cause strutturali della migrazione. Il riconoscimento dello stato di necessità in questa vicenda giudiziaria, rappresenta il punto di svolta per superare l’utilizzo di questo reato per colpire la libertà: libertà di scegliere il proprio destino e la libertà di movimento”.