Indulto, se la speranza resta in carcere di Luigi Manconi La Repubblica, 5 dicembre 2025 Non un solo atto di clemenza è stato assunto. E non un solo provvedimento capace, non dico di fermare, ma almeno di rallentare il processo di disfacimento della giustizia e di coloro che ne subiscono l’oltraggio. Tra una settimana, dal 12 al 14 dicembre, si celebrerà il Giubileo dei detenuti: e questa scadenza, fortemente voluta da papa Francesco, alimenta sentimenti di attesa e di speranza all’interno della popolazione carceraria e scarso o nullo interesse da parte dell’opinione pubblica. Già, quest’ultimo dato è significativo: il diffuso disinteresse nei confronti delle condizioni disumane in cui versa il sistema penitenziario italiano ci parla, certo, dell’indifferenza della maggioranza della società verso le parti più sofferenti di sé, ma in primo luogo solleva una grande questione politica. Nelle ultime ore il presidente del Senato, Ignazio La Russa, ha parlato della necessità di azioni efficaci per porre un qualche rimedio a quella che è una vera e propria catastrofe umanitaria. Il carcere è il punto di caduta e, allo stesso tempo, il distillato di tutte le iniquità e le disuguaglianze prodotte dai processi di modernizzazione. Consideriamo qui un solo dato: il sovraffollamento ha raggiunto il 137 per cento della capienza effettivamente disponibile e, in alcuni istituti, ha superato il 200 per cento. Non è necessario aggiungere altro per immaginare lo stato in cui vivono i detenuti, tra la decadenza materiale e il degrado psicologico e, vorrei dire, spirituale. Tra spoliazione del corpo e mortificazione della personalità, tra sfregio alla dignità umana e annichilimento dell’identità individuale. Su tutto questo, il Giubileo intendeva, oltre che approfondire la riflessione, compresa quella teologica, promuovere iniziative concrete e scelte normative. Nella Bolla di indizione, Francesco così si esprimeva il 9 maggio del 2024: “Propongo ai governi che si assumano iniziative che restituiscano speranza; forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società”. I nostri devotissimi governanti hanno fatto devotamente spallucce e, a 18 mesi dalla Bolla, non un solo atto di indulgenza e clemenza è stato assunto; e non un solo provvedimento capace, non dico di fermare, ma almeno di rallentare e contenere questo processo di disfacimento della giustizia e di coloro che ne subiscono l’oltraggio. Eppure, l’amnistia e l’indulto sono atti previsti dalla Carta costituzionale, nonostante che quel buontempone di Carlo Nordio li abbia eccentricamente definiti “una resa dello Stato”; e l’indulto del 2006, il più recente, ha dato risultati eccellenti, deflazionando la popolazione detenuta e producendo una recidiva estremamente più ridotta di quella ordinaria. Nel corso dell’ultimo anno, amnistia e indulto sono stati richiamati come “indispensabili” da una folta rappresentanza di esperti del settore, funzionari dello Stato e membri dell’amministrazione penitenziaria, giuristi e magistrati, sindacati di polizia penitenziaria, garanti dei diritti delle persone private della libertà e associazioni di volontariato operanti in carcere. E, tuttavia, amnistia e indulto sono rimaste tabù, parole impronunciabili e bandite dal dibattito pubblico. Ciò nonostante, donne e uomini di buona volontà, come Anna Rossomando, vicepresidente del Senato, il deputato Roberto Giachetti e la presidente di Nessuno Tocchi Caino, Rita Bernardini, incoraggiati dalle dichiarazioni di Ignazio La Russa del giugno scorso, si sono molto adoperati perché venisse approvato almeno un provvedimento di compromesso, una misura minima, capace di restituire un po’ di respiro e di tregua alla macchina congestionata del carcere. Come un modesto intervento normativo che aumenti i giorni di liberazione anticipata per semestre, da 45 a 60, per quanti partecipano attivamente a un percorso di “rieducazione”. La proposta non ha potuto nemmeno fare capolino nelle aule parlamentari perché, ad affossarla, e brutalmente, è la stata la stessa maggioranza di governo. Il presidente del Senato ne ha offerto un’altra variante, ancora più striminzita e rattrappita: un “mini-mini-indultino” da collegare al “clima di bontà” proprio dei giorni di Natale. Da tanta solennità e plasticità del linguaggio istituzionale utilizzato, si può evincere quale sia il tasso di realizzabilità della proposta stessa. Passa appena qualche ora e l’autorevolissimo (e ricordiamolo: ancora più devotissimo) sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, glissa sull’ipotesi e ignora bellamente l’auspicio del presidente del Senato. Di conseguenza, salvo miracoli - è proprio il caso di dire - non se ne farà nulla. Da qui le parole di Giachetti riportate da questo giornale: La Russa “non può dire una cosa per vedere l’effetto che fa”, è da “irresponsabili” alimentare le illusioni e le conseguenti frustrazioni di chi vive in “condizioni inumane”. In un simile scenario va ancor più apprezzato il ragionamento del vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, Fabio Pinelli, che ha criticato alla radice il “populismo penale”. Ovvero la tendenza a rispondere - sul piano penale e punitivo - con più pene, più reati e più carcere a tutte le contraddizioni sociali e a tutti i conflitti tra individui, gruppi e comunità. Parole sante. Peccato che la classe politica, non solo quella di destra, soffra di ciò che i neurologi chiamano selettività cognitiva. O, se preferite, non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Le parole di La Russa su carcere, detenuti e liberazione anticipata: una speranza accesa e spenta in un giorno di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 dicembre 2025 La proposta del presidente del Senato accende speranze subito smentite da Mantovano e riapre il tema delle responsabilità politiche verso chi vive in detenzione. Il presidente del Senato e fondatore di Fratelli d’Italia Ignazio La Russa propone pubblicamente di far uscire in anticipo chi è vicino alla fine della pena. Il deputato di Italia Viva Roberto Giachetti dice di condividerne la sostanza, ma esplode per il modo: “Sono incavolato nero!”, perché la mossa è arrivata senza un accordo e il governo, tramite il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, l’ha subito smentita, lasciando dietro di sé migliaia di persone con una speranza che si è presto spenta. Dentro le celle ogni parola pubblica si trasforma in promessa. Il carcere è quello che gli studiosi chiamano “istituzione totale”: un ambiente che taglia i contatti, annulla progressivamente i riferimenti esterni e concentra ogni significato nella dimensione comune della detenzione. In quella realtà una frase su un possibile “uscire prima” non resta una notizia: diventa progetto di vita, motivo di discussione e bussola per le tensioni quotidiane. Non sono solo parole di sociologia. Già in passato, quando si è tentato di mettere a punto una misura deflattiva - un testo su cui circolavano voci e bozze che prendevano spunto dalla proposta di legge Giachetti sulla liberazione anticipata speciale - molti familiari hanno cominciato a interpretare i titoli come se si parlasse di un vero e proprio indulto. Testate conservatrici come Il Fatto Quotidiano usarono espressioni del tipo “Ecco l’indulto! Il tana libera tutti!”, contribuendo a trasformare una proposta tecnica in un’immagine fuorviante e potente: tutti fuori. E lo fecero con l’intento, riuscito, di mettere in difficoltà il governo di destra, che deve accontentare i suoi elettori, e affossare quel tentativo. Quel linguaggio semplificato ha alimentato l’illusione e ha reso più complicata la costruzione di un’intesa politica. Il problema non è retorico. Studi e ricerche sul sistema carcerario mostrano che il malcontento in carcere può trasformarsi in disordini con grande velocità: isolamento, privazioni e percezione di ingiustizia creano un terreno già pronto. In più, la diffusione delle voci tra colloqui, telefonate e messaggi portati dall’esterno - può moltiplicare le attese e indebolire il controllo informale che tiene insieme i cortili. Non serve molto: una promessa non mantenuta può essere la scintilla che accende una rivolta. Dare false speranze è dunque pericoloso per la sicurezza e per la dignità. Le famiglie fanno circolare la notizia, i detenuti la discutono, i gruppi informali dentro il carcere riorganizzano le gerarchie attorno a quella speranza. Quando l’illusione svanisce, la delusione non resta privata: diventa frustrazione collettiva. Chi parla pubblicamente - e a maggior ragione chi occupa una carica alta nello Stato - deve sapere che le parole hanno effetti materiali su persone che vivono in condizioni estreme. Non si tratta di bloccare il dibattito sulle misure per alleggerire il sovraffollamento. Si tratta di fare le cose con metodo: proposte chiare, messaggi coordinati, tempi definiti. Si può partire da misure concrete - sconti di pena rimodulati, misure alternative ben definite, tutele per i più fragili - ma lo si deve fare senza gettare in pasto alle redazioni e ai social formule non condivise. È un errore politico e umano seminare illusioni dove regna la precarietà. La politica che vuole risolvere il problema delle carceri non può giocare a sorpresa. Non per formalismo, ma per rispetto delle persone che in quelle mura vivono, per evitare di alimentare tensioni che poi esplodono. Se non si lavora con attenzione, resta solo rumore, e nei cortili il rumore diventa presto realtà. Ma anche l’intervento secco di Mantovano per smentire La Russa non è indolore. Una chiusura ferma, accompagnata dalla solita retorica del costruire nuove carceri, quando è oggettivo che non è la soluzione al sovraffollamento. Un contrasto che genera altra frustrazione. Le parole contano. La promessa che non si traduce in atto non è soltanto una sconfitta politica: è una ferita che si apre dentro le celle. Prima di lanciare annunci che rimbalzano all’esterno, chi decide dovrebbe ricordarsi di chi ascolta dentro. Perché lì, dove tutto è totalizzante, basta poco perché una leggenda prenda la forma di un fatto. E tutto ciò non può che riportare a ciò che dicono i maggiori studiosi del carcere, da Goffman a Clemmer, passando per i rapporti del Consiglio d’Europa: nelle prigioni, l’attesa è una sostanza viva. Le giornate sono fatte di poche certezze, e ogni notizia diventa un appiglio, un modo per dare un senso al tempo che resta. Chi vive chiuso sviluppa un’attenzione estrema per ogni segnale, per ogni voce, per ogni gesto dell’autorità. È un ambiente dove la fiducia è fragile e la delusione arriva in massa, non individuo per individuo. Per questo, una promessa sbagliata pesa più di un errore tecnico: scuote l’equilibrio di una comunità forzata che regge solo se percepisce coerenza e serietà da chi sta fuori. Se la politica vuole davvero affrontare il sovraffollamento, deve partire da qui: dal non tradire quella minima fiducia che permette al carcere di non esplodere. Perché nei luoghi dove il tempo non passa mai, la speranza è una moneta preziosa. Sprecarla significa accendere una miccia che nessuno, poi, sa come spegnere. Nuova Circolare del DAP in tema di eventi di carattere educativo, culturale e ricreativo in carcere di Fabio Gianfilippi sistemapenale.it, 5 dicembre 2025 È stata resa pubblica la nota firmata dal Direttore Generale dei Detenuti e del Trattamento, che interviene ulteriormente sulla materia delle competenze autorizzative relative ad eventi di carattere educativo, culturale e ricreativo presso gli Istituti penitenziari che ospitino anche detenuti appartenenti ai circuiti di diretta gestione dipartimentale (Alta Sicurezza, collaboratori, 41-bis). Si tratta di un documento che fa seguito alla nota del 21 ottobre 2025, già pubblicata su questa Rivista, con cui si era previsto che, a differenza di quanto accadeva sulla base di previgenti circolari, quando eventi educativi, culturali o ricreativi erano “autorizzati” dai Provveditorati Regionali, se coinvolgenti persone detenute appartenenti al solo circuito della Media Sicurezza, la competenza fosse assunta a livello centrale dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Il Coordinamento nazionale dei magistrati di sorveglianza, tra gli altri, aveva pubblicato un documento critico, sollevando perplessità cui la nota in oggetto fornisce alcune risposte. Si esprimeva preoccupazione per la centralizzazione, riguardata come un arretramento che “rischia di compromettere molti dei progetti faticosamente portati avanti da cooperative, associazioni, mondo dell’educazione e di tutto il Terzo settore”. Poteva infatti prevedersi un aggravio dei tempi di definizione di queste autorizzazioni con la conseguente riduzione delle iniziative trattamentali. Il timore della magistratura di sorveglianza associata era dunque che un carcere, già sovraffollato e povero di opportunità risocializzanti, finisse per offrire ancor meno occasioni di confronto con l’esterno, svilendo il ruolo del Direttore, la sua conoscenza diretta del territorio e la collaborazione da lui impostata con il Terzo settore. A queste critiche l’amministrazione replica con una nota di chiarimento che, in concreto, comporta due essenziali variazioni. La prima è volta a ridefinire il suo spazio di valutazione circa le iniziative educative, culturali e ricreative, come dettato da esigenze di verifica in ordine alla compatibilità dei moduli prescelti dalle Direzioni con la sicurezza penitenziaria e con le risorse a disposizione del singolo istituto penitenziario, descrivendolo, anche a modifica di una risalente circolare del 1997 che ne parlava in termini di autorizzazione, come di un “nulla osta”. In questo modo si ritiene che dovrebbe risultarne fugato il pericolo di una qualche confusione con l’autorizzazione alla partecipazione della comunità esterna, che resta in capo alla magistratura di sorveglianza, per come previsto dall’art. 17 legge penitenziaria. La seconda individua in sette giorni prima dell’evento il “congruo anticipo” con il quale occorre che la richiesta di nulla osta pervenga agli uffici romani, completa di moltissimi elementi di dettaglio, che restano invariati rispetto a quanto già previsto con la nota del 21 ottobre, e cioè: data, spazi utilizzati, durata dell’iniziativa, numero dei detenuti coinvolti e, se presenti anche detenuti AS, lista nominativa degli stessi, elenco dei nomi e dei titoli dei partecipanti alla comunità esterna(se previsti), parere della Direzione/G.O.T. Si aggiunge, poi, che la risposta dell’amministrazione, se la documentazione trasmessa è effettivamente completa, dovrà pervenire entro due giorni, anche se in un primo passaggio del documento si precisa, con qualche conseguente incertezza, che si tratta di due giorni lavorativi. Se il chiarimento relativo al “nulla osta” sembra in concreto utile, più che sotto un profilo pratico, quale tentativo di risistemazione formale di una materia da lungo tempo abitata da interventi amministrativi che, comunque denominati, appaiono aggiuntivi rispetto a quelli definiti per legge, quello concernente una miglior definizione dei tempi in cui occorre inviare le richieste e, soprattutto, in cui si debbono ottenere risposte, appare in grado di fornire qualche rassicurazione agli operatori chiamati ad elaborare progetti che, necessariamente, richiedono dettagli e flessibilità nelle scelte incompatibili con più ampi termini. La documentazione da fornire resta, comunque, molto ampia da raccogliere, come pure resta la difficoltà di raggiungere il livello centrale con le informazioni necessarie a far comprendere, a tanta distanza spaziale, le ragioni di un certo progetto e di alcune modalità prescelte per realizzarlo. La nota riferisce che l’obbiettivo futuro è di elaborare in prospettiva una circolare che raccolga “best practises” e attività progettuali rilevanti, ma nel breve periodo sarà già possibile saggiare la capacità dell’amministrazione di gestire questo nuovo riparto di competenze, che resta fortemente accentrato, favorendo, per come dichiarato, la partecipazione all’azione rieducativa da parte di cittadini, associazioni e istituzioni, e non pregiudicando, come paventato, a causa della complessa macchina burocratica centralizzata agli uffici romani, programmi che, lungi dall’essere un violon d’Ingres per il mondo penitenziario, costituiscono un importante inveramento del volto costituzionale delle pene. Attività in carcere, il Dap corregge il tiro di Ilaria Dioguardi vita.it, 5 dicembre 2025 Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha emesso una nuova circolare che aggiusta la discussa direttiva emanata lo scorso 21 ottobre da Ernesto Napolillo. Il documento firmato il 1 dicembre dal direttore generale dei detenuti e del trattamento ridisegna le regole per l’ingresso della comunità esterna nelle carceri: il Dap avrà massimo 48 ore di tempo per concedere il nulla-osta alle attività, sia rivolte a detenuti dell’alta sicurezza sia a ristretti della media sicurezza, se nell’istituto di pena è presente la sezione di alta sicurezza. Luciano Pantarotto (Confcooperative Federsolidarietà): “Questo documento precisa un aspetto molto importante: i tempi erano precedentemente vaghi e ciò avrebbe messo in difficoltà la realizzazione di qualsiasi evento” A distanza di 40 giorni dalla circolare a firma Ernesto Napolillo, direttore generale dei detenuti e del trattamento, una nuova direttiva aggiusta il tiro sulle attività trattamentali, chiarendo alcuni dubbi e scrivendo nero su bianco quali sono i tempi di risposta del Dap alle richieste per le attività trattamentali. La precedente circolare faceva passare per Roma le autorizzazioni per gli eventi negli istituti in cui è presente l’alta sicurezza, anche se riguardava le sezioni di media sicurezza, facendo riferimento ad un tempo “congruo” di risposta. “Questo documento precisa un aspetto molto importante: i tempi erano precedentemente vaghi e ciò avrebbe messo in difficoltà la realizzazione di qualsiasi evento, anche nella media sicurezza”, dice Luciano Pantarotto, coordinatore del gruppo di lavoro Giustizia di Confcooperative Federsolidarietà. “Inoltre, la direttiva conferma un’attenzione specifica alle attività trattamentali all’interno dei circuiti dell’alta sicurezza, per le quali determina, da parte del Dipartimento, le stesse tempistiche di risposta previste per la media sicurezza. Ma le attività non vedono quasi mai la partecipazione contemporaneamente di ristretti dell’alta sicurezza e della media sicurezza”, precisa Pantarotto, “forse sarebbe stato opportuno specificare che il nulla-osta del Dap era previsto nel caso in cui l’evento prevedeva la partecipazione di detenuti di entrambi i circuiti”. Sparisce la parola “autorizzazione”, al suo posto troviamo “nulla-osta”. “Ogni riferimento all’autorizzazione contenuto nella circolare del 16 luglio 1997 e nella nota del 21 ottobre 2025 deve sempre intendersi quale richiesta di “nulla-osta” da parte dell’amministrazione”, si legge nella circolare datata 1 dicembre 2025. Dopo settimane di difficoltà, polemiche e incertezze, il documento chiarisce che il potere di autorizzazione spetta “in modo esclusivo” al magistrato di sorveglianza, come previsto nell’articolo 17 dell’ordinamento penitenziario. Mentre il nulla-osta dell’amministrazione penitenziaria ha lo scopo di “valutare la compatibilità dei modelli organizzativi” con le esigenze di sicurezza, ma è il magistrato a prendere la decisione finale. La circolare spiega che il nulla-osta amministrativo e l’autorizzazione del magistrato - “afferiscono a momenti differenti della sequenza procedimentale”, dicendo che il primo risponde a “interessi collettivi e d’apparato amministrativo”, deve verificare che il carcere abbia gli spazi e le risorse per l’organizzazione dell’evento. Il secondo deve “ponderare e valorizzare le esigenze personologiche e individuali delle scelte trattamentali”, secondo il principio di “massima espansione dei diritti”. “Il Dap non ha un’autorità superiore al magistrato di sorveglianza, è un’amministrazione, quindi deve amministrare la vita all’interno degli istituti, ma non può andare contro la legge”, sottolinea Pantarotto. La circolare di ottobre aveva parlato genericamente di “congruo anticipo”, senza specificare i giorni. Le istanze vanno trasmesse “entro e non oltre sette giorni prima dell’evento”, pena l’inammissibilità. La correzione della circolare firmata il 1 dicembre tiene conto delle obiezioni dei magistrati di sorveglianza, che avevano sottolineato come i cinque giorni precedentemente previsti fossero troppo pochi per valutare le proposte. La richiesta di nulla-osta deve contenere: data, spazi utilizzati, durata dell’iniziativa, numero complessivo dei detenuti coinvolti negli eventi e relativi circuiti di appartenenza. Per gli eventi che coinvolgono anche detenuti di alta sicurezza serve la lista nominativa di tutti i detenuti allocati in alta sicurezza, l’elenco dei partecipanti della comunità esterna e il parere della Direzione. L’amministrazione deve rispondere alla richiesta “al massimo entro due giorni lavorativi”. Pantarotto precisa che “questo è un impegno da parte del Dap, devono esserci obbligatoriamente risposte entro 48 ore lavorative”. “Questa circolare ci ha stupito perché il ministro della Giustizia Carlo Nordio aveva affermato, di recente, che non ci sarebbe stata “nessuna marcia indietro” riguardo alla circolare del 21 ottobre scorso”, dice Pantarotto. “A volte non si conosce bene il carcere e si rischiano di scrivere dei documenti che non rispecchiano la realtà del contesto che si vuole regolamentare”. Il documento chiarisce l’ambito di applicazione. Il nulla-osta della direzione generale serve “per i soli istituti penitenziari con circuiti a gestione dipartimentale (alta sicurezza, collaboratori di giustizia, 41-bis)”, anche se l’evento riguarda solo detenuti di media sicurezza. Nelle carceri in cui ci sono solo detenuti di media sicurezza, le competenze restano ai provveditorati regionali. Inoltre, specifica che “rimangono assolutamente invariate tutte le modalità gestionali già adottate dai singoli istituti nel dialogo tra direzioni, aree educative e comunità esterna”. E sottolinea che gli istituti devono “agevolare quanto più possibile la partecipazione all’azione rieducativa dei cittadini, delle associazioni e delle istituzioni, fornendo ausilio necessario, snellendo le procedure”. Il documento anticipa che è in arrivo “successiva lettera Circolare in tema di “ricognizione best practices e attività progettuali rilevanti”. Nordio: “Mi batto da sempre per coniugare la pena con la rieducazione” di Fiorenza E. Aini gnewsonline.it, 5 dicembre 2025 “Da sempre mi batto sulla necessità di coniugare la sanzione della pena con l’intento rieducativo, scritto nella Costituzione e scolpito nella nostra coscienza, laica o cristiana che sia”. Così il Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, che assieme a quello dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, ha presentato il progetto ‘Folsom Freedom’, iniziativa che, grazie anche alla partecipazione di Gruppo FS Italiane, introduce nelle carceri italiane la formazione tecnica in realtà virtuale, con l’obiettivo di fornire competenze utili al reinserimento e immediatamente spendibili nel mercato del lavoro, contribuendo a ridurre la recidiva e a rafforzare la sicurezza sociale. Alla conferenza stampa, che si é tenuta presso la sala stampa di Palazzo Chigi, hanno partecipato anche il presidente di Ferrovie dello Stato, Tommaso Tanzilli, il vice presidente di Confindustria, Maurizio Marchesini, e il Ceo della startup Dive! Srl Michelangelo Mochi. “La tecnologia offre oggi possibilità straordinarie - ha proseguito Nordio - siamo però consapevoli che non sia sufficiente insegnare un lavoro, ma anche trovarlo all’uscita dal carcere”. E al vicepresidente Marchesini che faceva notare come “il problema della ripetitività dei crimini commessi è dovuta anche al fatto che chi esce dal carcere non ha opportunità… perché quando le persone escono, è tutto più difficile: é quasi impossibile trovare un’abitazione, aprire un conto corrente, avere un medico, un telefono o un mezzo di trasporto. Insomma, ricostruire le condizioni del vivere civile”, Nordio ha risposto che “al di là del lavoro all’esterno del carcere, occorre dare a chi esce tutti quei supporti senza i quali anche il lavoro diventa inutile: agire - e lo faremo se sarà necessario con innovazioni normative - par dare la possibilità di vivere, devono avere un conto corrente, carte di credito e un’abitazione quanto meno decorosa”. Il ministero della Giustizia, attraverso il dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e quello della Giustizia minorile e di comunità, individua i soggetti idonei ai percorsi di formazione nel circuito penale esterno e coordina tempie luoghi dell’esperienza formativa. Di contro il ministero dell’Istruzione e del merito predispone il sistema di istruzione e formazione attraverso il percorso laboratoriale in realtà virtuale, avvalendosi di best practice già consolidate, sia per modalità operative sia per fornitori già coinvolti, e rispondendo alle richieste formative del sistema delle imprese. Realtà virtuale nelle carceri per dare competenze spendibili sul lavoro di Giuseppina Bonadies orizzontescuola.it, 5 dicembre 2025 Il programma “Folsom freedom” è stato sperimentato con successo negli istituti penitenziari di Genova, Taranto e Civitavecchia. Al via in tre istituti il progetto “Folsom Freedom” che utilizza la realtà virtuale per la formazione professionale dei detenuti e l’abbattimento della recidiva; Valditara annuncia un incremento record dei fondi per i laboratori scolastici in carcere, promuovendo un modello educativo orientato al riscatto sociale e lavorativo. L’istruzione e la tecnologia entrano negli istituti di pena come strumenti essenziali per ricostruire l’identità sociale di chi ha sbagliato. Prende il via da tre carceri italiane (Taranto, Civitavecchia e Genova Marassi) il progetto pilota “Folsom Freedom”, realizzato anche grazie alla partecipazione del Gruppo FS Italiane. L’iniziativa porta i visori e la formazione tecnica in realtà virtuale dietro le sbarre per fornire ai detenuti competenze utili al reinserimento nel mondo del lavoro una volta tornati in libertà. Al centro del progetto vi è la consapevolezza che la sicurezza sociale passa inevitabilmente attraverso la tutela della dignità umana. Nordio: “Supporti senza i quali il lavoro diventa inutile” - Durante la conferenza stampa, il Ministro della Giustizia Carlo Nordio ha illustrato con chiarezza l’urgenza di intervenire sulle condizioni di vita post-detenzione. Il rischio di tornare a delinquere è altissimo, arriva al “40% entro un anno” fra chi “esce dal carcere e viene gettato sulla strada senza lavoro, senza retribuzione e con lo stigma”. La prospettiva cambia radicalmente quando si restituisce dignità all’individuo: “Chi invece trova un lavoro, ha un’occupazione e una casa vede la recidiva abbassarsi proprio a picco”. Per il Guardasigilli, “la tecnologica offre oggi possibilità straordinarie” e dunque occorre dare a chi esce “supporti senza i quali il lavoro diventa inutile”. Il Ministro ha poi elencato quali debbano essere questi requisiti minimi di cittadinanza: una volta fuori, i detenuti dovrebbero “avere la carta di credito, il conto corrente e un’abitazione decorosa”. Questo perché “la rieducazione del detenuto è scolpita nella Costituzione e anche nel nostro cuore”. Valditara: “Se la persona cade va aiutata a rialzarsi” - Sulla stessa lunghezza d’onda il Ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, che ha rivendicato il ruolo centrale dell’educazione nel processo di recupero. Il progetto “si inserisce pienamente all’interno di quella scuola Costituzionale che abbiamo in mente”, ha affermato. La visione di Valditara pone l’istituzione al servizio dell’essere umano: “La nostra Costituzione mette lo Stato a servizio della persona e quindi se la persona cade va aiutata a rialzarsi, va dato un riscatto”. Per sostenere questo impegno, il Ministero ha messo in campo risorse ingenti. Sono stati “aggiunti 25 milioni di euro per laboratori e attività aggiuntive” inerenti alla formazione in carcere. “Abbiamo aumentato di 6 volte gli stanziamenti per la scuola in carcere”, ha detto il Ministro, motivando la scelta con il fatto che “sono fermamente convinto che la scuola debba sempre più dialogare” con il mondo esterno. Ricreare una rete sociale per vincere lo stigma - Il progetto pilota punta ad allargarsi ad altre strutture, offrendo una risposta concreta al bisogno di reinserimento. Tommaso Tanzilli, presidente di Ferrovie dello Stato, ha spiegato il valore dell’iniziativa: “E’ una formazione immersiva, un’opportunità che creiamo per coloro che sono in procinto di rientrare nella società civile”. La motivazione è anche sociale, poiché “chi non ha opportunità di lavoro è molto probabile che torni a delinquere”. Anche il mondo produttivo riconosce la necessità di un’azione coordinata che vada oltre la semplice offerta di impiego. Secondo Maurizio Marchesini, vicepresidente di Confindustria per il Lavoro e le Relazioni industriali, “il problema è noto: le imprese cercano figure professionali e non le trovano mentre le persone che escono dal carcere non trovano lavoro a causa dello stigma e della mancata preparazione”. Per questo motivo, occorrerebbe “un po’ di coordinamento, un aiuto a ricreare le condizioni di vita civile e una rete sociale”, elementi indispensabili affinché la libertà ritrovata sia autentica e duratura. Scuola in carcere, Valditara: “Consentire a chi è caduto di rialzarsi” di Marco Vesperini corriereuniv.it, 5 dicembre 2025 Il Ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, ha presentato a Palazzo Chigi l’iniziativa “Folsom Freedom”, sviluppata in collaborazione con il Ministero della Giustizia e Ferrovie dello Stato, che introduce percorsi di formazione tecnica in realtà virtuale per le persone detenute negli istituti penitenziari italiani. Il Ministro ha collocato il progetto dentro quella che definisce “idea di scuola costituzionale”, richiamando il principio per cui “la pena deve tendere sempre alla rieducazione del condannato” sancito dall’articolo 27 della Costituzione, e una visione dell’ordinamento che pone le istituzioni “al servizio della persona”. Secondo Valditara, la scuola deve consentire a chi è caduto di “potersi rialzare”, riconoscendo la possibilità di riscatto attraverso l’istruzione e la formazione professionale, anche quando alle spalle vi sono condanne per reati gravi. In questo quadro, l’iniziativa punta a rafforzare il ruolo del sistema educativo come strumento di inclusione e reinserimento sociale per le persone private della libertà. Il Ministro ha spiegato che il progetto si inserisce in un più ampio rafforzamento della scuola in carcere, con un aumento significativo dei fondi dedicati. “La scuola ha un compito enorme, la formazione ha un compito enorme per favorire l’inserimento, l’inclusione, la vera inclusione, la valorizzazione dei talenti di ogni persone a prescindere dal suo passato, dalle sue scelte anche sbagliate, noi abbiamo deciso di sestuplicare i fondi per la scuola nel carcere, ed è la prima volta nella scuola italiana, sino a qualche mese fa i fondi erano 4 milioni e 100mila euro, abbiamo aggiunto con un decreto firmato ad agosto altri 25 milioni di euro per laboratori, per attività aggiuntive, per sperimentazioni”, ha detto. E poi: “Nel nostro sistema ci sono quasi 17mila ragazzi che sono in carcere e frequentano le scuole, sono 6.695 nel primo ciclo e 10.653 alle superiori, abbiamo 1.075 posti organico cioè docenti espressamente dedicati a sviluppare questa attività, 1.442 se si considerano anche i docenti di sostegno, abbiamo 305 sezioni carcerarie, 159 nelle scuole primarie, 150 scuole secondarie di primo grado e 223 nelle scuole superiori”. “Folsom Freedom” prevede l’utilizzo della realtà virtuale per offrire formazione tecnica con competenze immediatamente spendibili sul mercato del lavoro, grazie al contributo delle imprese partner come Ferrovie dello Stato, in continuità con altre esperienze di collaborazione scuola-impresa richiamate dal Ministro durante la conferenza. Competenze tecniche, sinergia scuola-impresa e obiettivo occupabilità - Valditara ha insistito sulla necessità di una scuola capace di dialogare con il tessuto produttivo e di ridurre il “mismatch” tra domanda e offerta di competenze tecniche, tema già al centro della riforma dell’istruzione tecnico-professionale 4+2. Il Ministro ha citato esempi di ex detenuti inseriti in percorsi di istruzione tecnica e professionale che hanno trovato occupazione stabile, presentati come dimostrazione del ruolo decisivo di scuola e formazione nel reinserimento lavorativo. Pertanto, la realtà virtuale viene proposta come strumento per simulare ambienti produttivi complessi e per acquisire competenze pratiche in settori ad alta richiesta di figure qualificate, con l’obiettivo dichiarato di “valorizzare i talenti di ogni persona, a prescindere dal passato”. Il Ministro ha legato, poi, l’iniziativa ai valori di responsabilità, impegno, lavoro e centralità della persona richiamati dalla Costituzione, indicando nella formazione tecnica in carcere un segmento strategico delle politiche di rieducazione, inclusione e contrasto alla carenza di profili professionali richiesti dalle imprese. Censimento permanente, in anagrafe anche detenuti e stranieri irregolari La Repubblica, 5 dicembre 2025 Il nuovo provvedimento aggiorna le regole anagrafiche, introduce strumenti digitali e rafforza il ruolo dell’Istat nella raccolta dei dati sulla popolazione e sulle abitazioni. Il Consiglio dei ministri ha approvato un nuovo regolamento anagrafico che segna un cambiamento nella gestione dei dati sulla popolazione italiana. Il provvedimento, proposto dalla presidente Giorgia Meloni e dal ministro per la Pubblica amministrazione Paolo Zangrillo, introduce una serie di modifiche necessarie per adeguare il sistema anagrafico al censimento permanente e alla digitalizzazione dei servizi pubblici. Dal censimento decennale a quello permanente - Tradizionalmente, il censimento della popolazione veniva effettuato ogni dieci anni. Ora, grazie all’integrazione con l’Anagrafe Nazionale della Popolazione Residente (Anpr) e alle nuove tecnologie, il censimento diventa annuale. Questo permette di avere dati sempre aggiornati, più precisi e utili per la pianificazione delle politiche pubbliche. Semplificazione e razionalizzazione - Il nuovo regolamento prevede anche: la semplificazione delle dichiarazioni anagrafiche (come per esempio il cambio di residenza), il supporto censuario agli accertamenti, l’aggiornamento delle mappe territoriali e dei piani topografici, nuove istruzioni Istat per la codifica delle unità abitative. Inclusione dei detenuti e stranieri irregolari - Una delle novità più significative riguarda l’iscrizione anagrafica dei detenuti stranieri privi di permesso di soggiorno. Fino ad oggi, queste persone spesso non venivano registrate nei registri comunali. Con il nuovo regolamento, anche loro verranno inclusi nel censimento, garantendo una fotografia più realistica della popolazione residente. Questa misura non implica una regolarizzazione giuridica, ma ha lo scopo di contare correttamente tutte le persone presenti sul territorio, anche se in condizioni di irregolarità. È un passo importante per migliorare la qualità dei dati statistici e per garantire una pianificazione più equa dei servizi pubblici. Conoscere con precisione chi vive in Italia è fondamentale per: allocare risorse in modo efficiente (sanità, istruzione, trasporti), monitorare i flussi demografici, garantire trasparenza e inclusione nei dati ufficiali. Il carcere non stoppa il crimine di Antonio Nastasio* L’Opinione, 5 dicembre 2025 Il timore del carcere si è sciolto come neve al sole, una deriva che alimenta un’insidiosa certezza d’impunità. A contribuire a questo, per anni la prigione è stata allontanata dallo sguardo pubblico, resa un’istituzione marginale, quasi rimossa. Una scelta mai condivisa da quegli autorevoli magistrati che difendevano la necessità di mantenere il carcere nei centri cittadini affinché restasse visibile e parte integrante del contesto sociale. Per loro, togliere il carcere dalla città significava togliere alla collettività la memoria concreta del limite, del “non si può fare” perché il fare delinquenziale sarà punito. Oggi, invece, la percezione diffusa è che finire dietro le sbarre sia un’eventualità remota. Così sempre più persone affrontano con disinvoltura il passo verso l’illegalità, convinte che le conseguenze resteranno lontane. Mentre i reati di strada crescono in modo esponenziale, non solo per numero, ma per brutalità e prepotenza sopraffattiva criminale. Sono aggressioni improvvise, furti con destrezza, rapine lampo, risse incontrollate. Una microcriminalità sempre più giovane, aggressiva e imprevedibile, i cui esponenti si percepiscono come “eroi” (negativi), capaci di legittimare ogni gesto violento come prova di forza e di potere malvagio sul soggetto vittima. In questo clima, l’idea dell’impunità, concretamente percepita, alimenta l’arroganza nel delitto. L’inasprimento delle pene non ha prodotto risultati: la deterrenza non nasce dalla severità della sanzione, ma dalla rapidità e dalla certezza della risposta. Ed è proprio questa certezza che manca, generando libertà di fare criminale ma crea paura e disorientamento nel contesto sociale che si sente possibile e probabile vittima sempre. A complicare il quadro c’è un dato evidente: molti detenuti non dovrebbero essere in carcere e la loro esclusione renderebbe inutile costruire nuove carceri. Tra questi, gli stranieri responsabili di reati/molestie sessuali gravi o rapine, generalmente da soli, spesso in mini-gruppi con modalità mafiose, certi che nella detenzione, possibile, non trovano un motivo deterrente perché, anche quando si avvera, meno afflittiva della vita in libertà o di quella che avrebbero al paese d’origine. Per loro, la misura davvero incisiva sono le misure di prevenzione e la conseguente espulsione immediata accompagnata, già prevista dalla legge ma in subordine a situazione penalistica. Se questa sudditanza giuridica venisse meno e si potesse fin da subito applicare questa misura, si eviterebbe la catena di reati che generalmente accumulano in attesa del giudicato finale. I malati psichiatrici sono un vero dramma per il carcere dove il somministrare farmaci è alquanto riduttivo salvo questo non avvenga in un contesto destinato alla cura e in subordine alla custodia; i tossicodipendenti devono essere accolti, fin dalla denuncia, in strutture di cura e custodia, recuperando l’esperienza del 1991di cui ero promotore; chi commette reati minori per indigenza dovrebbe essere inserito in centri di accoglienza e assistenza, non dietro una porta metallica che non risolve nulla. Il carcere, resta un contenitore di fragilità sociali, tradisce così la sua funzione costituzionale. A reggere questo peso, ogni giorno, ci sono gli agenti della Polizia penitenziaria e il personale civile: professionisti che lavorano oltre ogni limite, in reparti misti per reati, patologie e bisogni diversi, diventando l’argine silenzioso di un sistema al collasso e che non vuole cambiare, granitico nella convinzione, che si fa certezza, nel fare atavico e obsoleto. Per uscire da questa spirale serve un cambio di paradigma: superare la logica del carcere come risposta unica e riscoprire una giustizia restitutoria, capace di responsabilizzare l’autore del reato, risarcire la vittima e restituire sicurezza sociale. Non per indulgenza, ma per efficacia si vuole una Giustizia che sa, previene e non si ferma alla condanna, ma va oltre ponendo l’alternativa come necessità irrinunciabile, che non è più tra severità o clemenza, ma tra un sistema attendista con la violenza e uno che la previene difronte a una società che, in modo forte, chiede di essere protetta. La sicurezza non viene dal carcere, ma dal prevenire con rigore, che comporta responsabilizzare chi sbaglia, riparare il danno, queste le basi per una giustizia che è restitutoria più che riparativa. Serve un cambiamento nel modo di punire: non un mero rituale di condanna, ma un paradigma fondato sull’irrinunciabilità del risarcimento alla vittima e sulla rassicurazione del contesto sociale al termine del progetto punitivo, che non deve necessariamente essere carcerario. La sfida è costruire, insieme agli Enti Locali e al Volontariato Sociale specializzato, un sistema capace di offrire soluzioni altre dal carcere, con strutture di accoglienza adeguate allo status del reo, già proposto nel 2006. Non si tratta di indulgenza, ma di efficacia: un servizio che punisce in modo pertinente e, al tempo stesso, libera posti in carcere per coloro che è criminale restino in libertà, come gli autori di reati sessuali e di violenza, sia quella “gratuita” per futili motivi, che quella “organizzata” finalizzata al vivere di crimine. Resta sempre prevalente il principio del prevenire prima, con misure di sicurezza e controllo, piuttosto che punire dopo il reato commesso. Se il carcere rimane necessario per chi rappresenta un pericolo immediato o considera il crimine una modalità di vita, non lo è per gli autori di “delitti ingombranti” come tossicodipendenti, malati psichici autori di delitti, responsabili di reati minori o stranieri destinati all’espulsione. Occorrono soluzioni diverse, più pertinenti e capaci di liberare spazi nelle carceri. Per attuare questo occorre quel coraggio dell’innovazione, forse fuori dagli schemi convenzionali, prima nel pensare e poi nell’agire, ma serve agire in fretta. Inoltre, il sistema carcerario appare intrinsecamente vincolato dal reato stesso, poiché ogni sua debolezza strutturale emerge di fronte alla cruda realtà del crimine. Come ci ammoniva Seneca: nulla è permanente, nemmeno un sistema che si illude di resistere senza un profondo rinnovamento, come quello penitenziario. L’impegno al rinnovamento è ben più di un dovere: diviene un diritto inalienabile del singolo quando si trova ad interagire con il sistema Giustizia-Carcere. L’obiettivo è restituire alla libertà detenuti-cittadini non solo esenti dal crimine, ma anche autosufficienti e pienamente capaci di stare nella società. Questo lo si ha dando importanza prioritaria alla prevenzione, e adottando misure pertinenti sia nei confronti del reato commesso sia alla persona del reo. Da qui il restituire alla comunità la sicurezza e la fiducia nel vivere civile. Il riscatto sociale e la riconquista della cittadinanza attiva poco hanno in comune con chi ossessivamente chiede “carcere-carcere”; questa è pura vendetta, un fallimento sterile. La giustizia non si realizza nella pena fine a sé stessa, ma nella riconquista della cittadinanza attiva del condannato e nell’obbligo di restituzione totale (del danno alla vittima e del cittadino stesso alla collettività). L’unica strategia vincente è una prevenzione pianificata e solidamente strutturata. L’atto preventivo non può essere una mera formalità; deve seguire un percorso predefinito e obbligato, dando senso concreto all’agire, in linea con quanto affermato già da Cesare Beccaria: “È meglio prevenire i delitti che punirli.” *Dirigente superiore Giustizia in quiescenza, Giudice onorario TS Milano non operativo La riforma della giustizia farà male alla democrazia di Paolo Cirino Pomicino Il Foglio, 5 dicembre 2025 “Si rafforzerà in maniera pesante proprio la parte che si voleva correggere: la parte inquirente della magistratura. Un sì al referendum farebbe cadere l’Italia in una deriva autoritaria”, dice l’ex ministro. La nuova legge costituzionale sulla cosiddetta riforma della giustizia con la netta separazione delle carriere tra magistrati giudicanti e magistrati requirenti ha aperto un crescente dibattito in vista del referendum confermativo, visto che la legge non è stata approvata dai due terzi del Parlamento. Nel dibattito sono subito scesi gli “esperti”, dividendosi tra il sì e il no al prossimo referendum. Con tutto il rispetto per gli esperti, quel che oggi si richiede con urgenza è il recupero della politica, quell’arte finissima capace di governare una società complessa ricomponendo diritti e doveri in un “unicum” apprezzato dalla stragrande maggioranza del paese, ma anche di interpretare il senso politico dei problemi. Agli esperti, poi, il compito di tradurre il pensiero politico in norme di legge. Purtroppo, ad oggi, quel che manca è la competenza politica, cosa diversa da quella tecnica, come ben sa il nostro amico Augusto Barbera che, nel suo “colto” editoriale su queste colonne, sembra ricordarsi solo della sua esperienza alla Corte costituzionale, dimenticando la sua lunga permanenza alla Commissione affari costituzionali della Camera dei deputati. Ma andiamo con ordine, cominciando dal cogliere l’essenza politica della questione, che questa volta sta in alcuni dettagli che vanno in senso opposto alle finalità di questa riforma. Negli ultimi trent’anni l’intollerabile giustizialismo si è annidato nel settore dei magistrati requirenti creando stupore e allarme nella società. L’arrivo del cosiddetto “giusto processo” risanò un buco terribile nella legislazione, secondo cui i testimoni dell’accusa dichiaravano quel che volevano senza contraddittorio nelle calde mani dei pubblici ministeri, salvo poi avvalersi della facoltà di non rispondere nel corso del processo, per cui rimanevano agli atti le terribili e spesso false dichiarazioni accusatorie consegnate al caro pm che mandava subito a casa il suo prezioso testimone. È superfluo ricordare che, se il testimone non fosse stato “docile”, difficilmente sarebbe tornato a casa. Un ricordo personale. Nei primi anni Novanta il pm Francesca Greco volle fare un confronto tra me e il mio amico Franco Ambrosio (ex Italgrani). Mi opposi subito spiegando che quando Ambrosio, poi tragicamente scomparso anni dopo, veniva arrestato, il suo avvocato gli diceva “di qualcosa su Pomicino e andiamo subito a casa”. Io farò il confronto, dissi, solo se voi date la vostra parola d’onore che non arrestate più Ambrosio. E così fu. Non arrestarono più Ambrosio e le accuse si dissolsero da sole. Ma c’è di più. Nei primi anni Novanta tre autorevoli pubblici ministeri, Giovanni Melillo, Paolo Mancuso e Franco Roberti, inviarono alla Camera dei deputati un avviso di garanzia per tre ex ministri democristiani, Antonio Gava, Enzo Scotti e il sottoscritto, perché sospettati di essere collusi con la camorra. Fummo tutti assolti con formula piena, ma quell’avviso fu sufficiente a far scattare la gogna. Perché di questo si è trattato nei primi anni di Tangentopoli. Si mandavano gli avvisi di garanzia “temerari” perché scattasse subito la gogna e si troncava la vita politica di tanti, di troppi, e tutti nei partiti di maggioranza. Ecco il motivo del giusto processo, all’interno del quale poi la magistratura giudicante ha fatto strage della stragrande maggioranza delle accuse così organizzate. Questi esempi stanno a dimostrare che il vero degrado era della magistratura requirente e not della giudicante. Ora, con questa riforma non abbastanza meditata nei particolari, che cosa accade? Quella parte degradata, o per incapacità o per dolo di molti tra i requirenti, viene autonomizzata con un proprio Consiglio superiore, per cui, per dirla con la voce del popolo, se la cantano e se la suonano da soli. Anzi, potranno intimidire anche i magistrati giudicanti quando questi faranno decadere le accuse di un pm, ed hai voglia di sorteggiare i componenti dell’Alta corte disciplinare: pescherai sempre e solo un pm. Il sorteggio non fa certo sparire le correnti, che invece agiranno ancora più oscuramente nell’ombra e attraverso l’Anm, che diventerà più importante del Csm. Insomma, alcuni contenuti di questa riforma sbagliata rafforzeranno in maniera pesante proprio la parte che si voleva correggere: la parte inquirente della magistratura, che ha più dato scandalo in questi ultimi trent’anni, avendo in premio quasi sempre promozioni e uffici di grande responsabilità e molto spesso un’elezione alla Camera o al Senato della Repubblica. In trent’anni molti pubblici ministeri, infatti, sono diventati parlamentari nazionali o europei, mentre nessun magistrato giudicante ha mai avuto un premio di tale portata. E perché mai il procuratore generale della Cassazione, che ha il potere disciplinare, improvvisamente, con questa riformicchia, dovrebbe essere fulminato sulla strada di Damasco e dare segno della sua presenza? E perché mai il ministro della Giustizia, restato in silenzio per tre decenni, dovrebbe risvegliarsi ed iniziare un’attività disciplinare rispetto alle temerarie accuse dei pm, dopo che la magistratura giudicante ne ha fatto strame? Come c’è l’obbligo dell’azione penale, dovrebbe esserci anche l’obbligo dell’azione disciplinare al termine di un processo in cui le accuse si sono dimostrate false e tendenziose, e quando il pm non ha cercato, come la legge impone, anche le prove dell’innocenza dell’indagato. Potremmo continuare, ma è fin troppo chiaro che un sì al referendum farebbe cadere l’Italia in una deriva autoritaria nella quale politica e magistratura giudicante sarebbero le vittime predilette. A me è capitato di avere ben 42 procedimenti giudiziari, di cui 17 solo dalla procura di Napoli, e, tranne uno in cui ero reo confesso per aver ottenuto un contributo elettorale per l’intera mia componente nazionale della Dc, in tutti gli altri la magistratura giudicante non ha avuto difficoltà ad assolvermi con formula piena. Gli esempi riportati non mi hanno lasciato né rancori né risentimenti, ma certamente alla mia città è stato tolto, all’età di poco più di cinquant’anni, un suo deputato che ancora oggi, in tarda età, sa leggere e scrivere, caro presidente Barbera. La lentezza cronica della giustizia italiana? Potrebbe presto peggiorare di Luca Sofri ilpost.it, 5 dicembre 2025 Nel 2026 scadranno i contratti di 12mila persone assunte con il Pnrr, e per ora non ci sono soluzioni. All’inizio di novembre a Firenze si è insediata una nuova procuratrice, Rosa Volpe. Nel giorno del suo giuramento Volpe ha parlato tra le altre cose di una mancanza di personale eccezionale nella procura di Firenze, aggiungendo che “carenze di organico significative ci sono in tutti gli uffici giudiziari”. È una questione che in realtà riguarda moltissimi tribunali italiani, e che i giornali locali raccontano spesso. Le conseguenze negative sono molto pratiche: un numero insufficiente di professionisti che studiano i fascicoli e aiutano i magistrati, o che svolgono compiti amministrativi e tecnici, rallenta i tempi della giustizia, che in Italia sono già notoriamente molto lunghi. Nei prossimi mesi questa situazione rischia di peggiorare ulteriormente. A giugno del 2026 scadranno infatti i contratti a tempo determinato con cui erano stati assunti circa 12mila professionisti usando i soldi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), il piano di riforme e investimenti finanziato con fondi europei. Erano stati assegnati ai tribunali, con diverse funzioni e competenze, proprio con l’obiettivo di smaltire gli arretrati e ridurre i tempi dei procedimenti sia civili che penali. Al momento non è stata decisa una forma di stabilizzazione per loro. I sindacati hanno calcolato che per prolungare il contratto delle 12mila persone assunte con il PNRR servirebbero circa 270 milioni di euro per la seconda metà del 2026 (la prima metà è coperta ancora dai fondi europei), e 540 milioni di euro nel 2027. Al momento la legge di bilancio non li prevede. Di queste 12mila la grande maggioranza sono persone con una laurea in giurisprudenza o in economia, che dal 2022 sono state impiegate nei cosiddetti “uffici per il processo” per svolgere numerose attività di supporto al lavoro dei giudici, per esempio la stesura di provvedimenti e lo studio dei fascicoli. Oltre a loro erano stati assunti circa tremila tra amministrativi e tecnici, e poi operatori incaricati di digitalizzare gli atti in formato cartaceo. L’idea era creare una sorta di staff per i magistrati così da velocizzare e snellire il lavoro. Queste assunzioni avevano infatti lo scopo di contribuire a raggiungere alcuni ambiziosi obiettivi fissati dal PNRR per la giustizia italiana, cioè la riduzione della durata media dei procedimenti giudiziari, rispettivamente del 40 per cento per quelli civili e del 25 per cento per quelli penali. Stando ai dati diffusi dal ministero della Giustizia, in questi anni i tempi sono migliorati in modo significativo, soprattutto nel penale (quelli del civile invece sono ancora lontani dagli obiettivi). Il timore quindi è che i risultati raggiunti possano essere vanificati. Secondo Sergio Paparo, presidente dell’ordine degli avvocati di Firenze, gli uffici per il processo oggi sono diventati indispensabili nelle attività dei tribunali. Perdere le persone attualmente impiegate negli uffici significherebbe per i tribunali “paralizzare tutto e sprecare un lungo lavoro di formazione che è stato fatto in questi anni”. Anche per Florindo Oliverio, segretario della FP (Funzione Pubblica) CGIL, la situazione si aggraverebbe parecchio perché oggi il personale amministrativo conta circa 35mila unità, compresi i 12mila assunti con il Pnrr. “Sono pochi, se si pensa che una decina di anni fa erano più di quarantamila, e prima del 2022 erano soltanto 23mila”, dice. Le persone assunte con il PNRR hanno quindi un po’ contenuto, ma non del tutto colmato, una carenza che va avanti da tempo. Questa situazione riguarda tutti i tribunali italiani: in alcuni manca quasi la metà del personale previsto regolarmente. Si potrebbero fare molti esempi: per restare alla Toscana, nel tribunale di Prato (dove peraltro le cose da fare non mancano) c’è una carenza del personale amministrativo del 43,7 per cento, in quello di Siena il 39,1 per cento, in quello di Pistoia il 34,7 per cento e in quello di Firenze il 32,9 per cento (i dati sono aggiornati allo scorso giugno). Ma nell’ultimo anno hanno lamentato carenze di organico tribunali e corti d’appello di moltissime altre città: Monza, Sondrio, Perugia, Alessandria, Aosta, Verbania, Venezia e Belluno, solo per citarne alcune, perché l’elenco è lungo. In questi anni ci sono stati alcuni concorsi per assumere personale amministrativo, ma secondo Oliverio sono serviti solo a coprire i posti di chi andava in pensione. Capita di frequente, poi, che i professionisti degli uffici vengano impiegati nelle cancellerie per coprire altre carenze provvisorie, e che quindi finiscano a fare lavori non di loro competenza. Anche l’Associazione nazionale dei magistrati, l’ente di rappresentanza sindacale della categoria, ha detto di essere preoccupata per la situazione e ha chiesto al governo di intervenire. Il 26 novembre su questa questione c’è stato uno sciopero indetto dall’USB, il sindacato di base; la FP CGIL ne ha organizzato un altro per venerdì 5 dicembre. Il timbro Ue sull’addio all’abuso d’ufficio. Scontro Nordio-M5S di Errico Novi Il Dubbio, 5 dicembre 2025 Dopo l’ok alla direttiva anticorruzione, Conte e i suoi dicono: “Italia umiliata”. Il ministro: “Solo fake news”. Il conflitto durava ormai da due anni e mezzo. Dalla prima iniziale proposta di direttiva anticorruzione elaborata tra Europarlamento e Consiglio Ue. Nella bozza dell’estate 2023 si ipotizzava di considerare obbligatoria l’adozione del reato di abuso d’ufficio in tutti gli Stati membri. Inizia lì un faticoso e paziente lavoro diplomatico condotto dal governo di Roma, e innanzitutto dal guardasigilli Carlo Nordio. Lavoro premiato martedì scorso con l’approvazione del testo finale a Bruxelles. Di fatto, la soluzione concordata lascia ai Paesi dell’Unione la facoltà di determinare le fattispecie di reato capaci di contrastare “alcune gravi violazioni relative all’esercizio illecito di funzioni pubbliche”. Non sarà obbligatorio dunque mantenere (o reintrodurre, nel caso dell’Italia) un reato di “abuso d’ufficio” come quello che il ddl penale di Nordio ha cancellato dal codice nel 2024. Ma sull’interpretazione della direttiva, deflagra una polemica a distanza fra il ministro della Giustizia e il Movimento 5 Stelle. Di avvisaglie se n’erano già colte tre giorni fa, quando Giuseppe Conte in persona aveva parlato di “brutta figura del governo di Roma”, che la direttiva Ue avrebbe costretto a “introdurre, almeno per le fattispecie più gravi, il reato di esercizio illecito di funzione pubblica, in pratica l’abuso d’ufficio che Meloni e Nordio si sono intestarditi a cancellare”. L’offensiva di Conte fa leva sulla lettura dell’accordo offerta dall’eurodeputato M5S Giuseppe Antoci, che ha preso parte ai lavori preliminari confluiti poi nel cosiddetto “trilogo”, il confronto informale fra Europarlamento, Consiglio Ue e Commissione di Bruxelles in cui si sono consumate le ultime trattative. Le dichiarazioni del Movimento arrivano nella tarda serata di martedì, e hanno un “riverbero differito”: solo ieri mattina, infatti, Nordio interviene con una lunga dichiarazione in cui liquida come fake news le interpretazioni diffuse dai contiani: “La direttiva anticorruzione è stata approvata il 2 dicembre accogliendo le istanze dell’Italia, sostenute dalla maggioranza degli altri Stati membri. Alla fine”, replica il guardasigilli, “il reato di abuso d’ufficio, originariamente previsto, è stato completamente stralciato. Hanno evidentemente convinto le nostre argomentazioni: l’Italia ha altri e molti reati, più di 17 fattispecie, che combattono i comportamenti illeciti dei pubblici funzionari”. Dopodiché Nordio si rivolge chiaramente a Conte, e ne ricorda l’estrazione forense oltre che la leadership politica: “Sorprende che un esponente dell’opposizione, che è anche un giurista, possa storpiare la narrazione dei lavori della commissione. Dovrebbe essere noto a tutti che è stato chiesto agli Stati membri di indicare quali reati, nel loro ordinamento, criminalizzano già condotte gravi dei pubblici ufficiali. La direttiva, quindi, mette in cantina il delitto di abuso come norma prevista dall’Ue di ‘default’: agli Stati, invece, scegliere quali reati già vigenti realizzano gli obiettivi di difesa della legalità”. Fino al passaggio chiave del discorso: “Proprio la completa eliminazione della norma dell’abuso d’ufficio dalla direttiva e il ‘mandato agli Stati membri’ per indicare reati già esistenti nei loro sistemi, testimonia la credibilità della posizione italiana che, come detto, ha incassato il largo sostegno anche degli Stati membri del Consiglio. Svanito, dunque, l’obbligo di reintrodurre l’art. 323 c.p.”. I cinquestelle non si arrendono. Non lo fa Antoci, in particolare, che aveva “istigato”, di fatto, le dichiarazioni di Conte e di altri pentastellati, come la capogruppo Giustizia alla Camera Valentina D’Orso: “Stupiscono le dichiarazioni del ministro Nordio”, è la contro-obiezione di Antoci, “per la confusione giuridica e l’assenza di una rigorosa analisi del testo sulla direttiva. L’articolo 11 prevede l’obbligo di recepire il reato di ‘esercizio illecito di funzione pubblica’, proprio il nostro ex abuso d’ufficio”. Ma Antoci non nasconde il carattere quanto meno controverso delle sue stesse valutazioni che, spiega sarebbero basate su un “parere giuridico”, e non su fonti istituzionali: più precisamente, su considerazioni svolte dai “servizi giuridici del Parlamento europeo”, secondo i quali, riferisce l’europarlamentare 5S, vi sarebbe “obbligo di dare attuazione attiva all’articolo 11, e dunque all’abuso d’ufficio, nell’ordinamento giuridico italiano”, con la sola “concessione” che riguarderebbe “l’ambito di applicazione del reato, per il quale si concedono maggiori margini di manovra agli Stati membri”. Secondo fonti diplomatiche, invece, le cose stanno come spiegato da Nordio nella propria dichiarazione di ieri: “Gli Stati membri potranno scegliere quali fattispecie includere nell’ordinamento nazionale, l’intesa lascia flessibilità”. Bisogna guardare al passaggio in cui si stabilisce la necessità di perseguire non una particolare tipologia di illecito, ma appunto “alcune gravi violazioni nell’esercizio di funzioni pubbliche”, e sarebbe quell’”alcune” a lasciare i singoli Paesi la facoltà di scegliere quali condotte contrastare. Alla fine l’abolizione dell’abuso d’ufficio è salva. Ma, a occhio, la pervasività normativa di Bruxelles e Strasburgo sembra comunque spingersi ben oltre il principio di sussidiarietà previsto dal Trattato di funzionamento dell’Ue. Il braccio di ferro sull’abuso d’ufficio. Nordio: “Mai più”. Conte: “Segua l’Ue” di Francesco Grignetti La Stampa, 5 dicembre 2025 Il reato di abuso d’ufficio non tornerà, parola del ministro Carlo Nordio. E sostenere che ci sia un nuovo obbligo europeo è una “falsificazione”. Dopo che a Bruxelles è stata varata alcuni giorni fa una direttiva anticorruzione, s’è aperto il dibattito: l’Italia che ha appena abrogato quel reato, dovrà reintrodurlo? Giuseppe Conte era partito immediatamente alla carica: “Che brutta figura per l’Italia... Dobbiamo anche - ha scritto su X - fare la figura degli ultimi della classe sul tema della legalità, visto che la proposta europea di direttiva anticorruzione ricorda al nostro Paese che non si possono cancellare con un tratto di penna i reati di chi abusa del proprio potere solo per proteggere la casta dei politici e dei colletti bianchi”. Nordio gli ha risposto per le rime: “Sorprende che un esponente dell’opposizione, che è anche un giurista, possa storpiare la narrazione dei lavori della commissione”. Breve sintesi. Questa proposta era in discussione da tempo. Se ne è parlato a lungo quando il governo decise l’abrogazione dell’abuso di ufficio. In quel frangente, il ministro si precipitò a Bruxelles per spiegare come, a suo dire, con 17 fattispecie di reato, il nostro codice è più che attrezzato al contrasto della corruzione. Dopodiché è iniziato un duro confronto nelle segrete stanze. Il governo italiano ha molto spinto (a Roma la definiscono “la nostra moral suasion”) affinché le parole stesse “abuso d’ufficio” venissero cancellate dal testo. Sulla linea italiana si è accodata la Germania. E a quel punto il gioco è stato fatto. Nordio ora rivendica: “Alla fine, il reato di abuso d’ufficio, originariamente previsto, è stato completamente stralciato. Hanno evidentemente convinto le nostre argomentazioni. La direttiva mette in cantina il delitto di abuso come norma prevista dall’Ue di “default”. Agli Stati, invece, scegliere quali reati già vigenti realizzano gli obiettivi di difesa della legalità”. La direttiva è molto importante perché invita i Ventisette ad uniformare le legislazioni, ad usare gli stessi nomi e descrizioni per i reati, e anche ad allineare le pene. Si stabilisce anche che, in tema di corruzione, gli Stati membri hanno giurisdizione sui reati commessi nel loro territorio o quando l’autore del reato è un loro cittadino. Al posto dell’abuso di ufficio, la direttiva cita un più blando reato di “esercizio illecito di funzione pubblica”. Si vedrà se il governo riterrà di recepire questo reato, anche se Nordio pare molto contrario. Sul da farsi, e se il governo Meloni debba rimangiarsi quell’abrogazione, si è scatenata la bagarre. Conte insiste: “Non molliamo la presa: ora il governo ritorni sui suoi passi”. Con lui, l’eurodeputato Giuseppe Antoci, M5S, che ha seguito il dossier da relatore-ombra: “L’articolo 11 del testo prevede l’obbligo di recepire nell’ordinamento giuridico italiano il reato di “esercizio illecito di funzione pubblica”, proprio il nostro ex abuso d’ufficio”. Il ministro la vede all’opposto. Con nota ufficiale ribadisce una posizione ben nota: “Proprio la completa eliminazione della norma dell’abuso d’ufficio dalla direttiva e il “mandato agli Stati membri” per indicare reati già esistenti nei loro sistemi, testimonia la credibilità della posizione italiana che, come detto, ha incassato il largo sostegno anche degli Stati membri del Consiglio. Svanito, dunque, l’obbligo di reintrodurre l’art. 323 del codice penale”. Ovvero l’abuso di ufficio, che, stante questo governo, non tornerà. Non solo penale, FI vuole rivedere la giustizia civile: via la “Cartabia” di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 5 dicembre 2025 Ieri alla Camera il convengo organizzato dagli azzurri con il presidente del Cnf Francesco Greco, che dice: “Necessario affermare parità tra accusa e difesa”. Oltre al penale c’è anche il civile. E partendo da questa considerazione Forza Italia, ieri, ha deciso di rilanciare una riforma di sistema che passi attraverso un “dibattito nazionale” . Nella cornice dell’aula dei Gruppi parlamentari della Camera, il partito ha dunque riunito esponenti del governo, dirigenti azzurri, rappresentanti del mondo forense e dell’accademia per il convegno “Giustizia civile. Qualità della giurisdizione e ragionevole efficienza”. Un appuntamento pensato per riportare al centro dell’agenda politica un tema spesso considerato “tecnico”, ma cruciale per la competitività del Paese: la giustizia civile, appunto. Il vicepresidente del Consiglio, ministro degli Esteri e segretario di FI Antonio Tajani ha aperto i lavori sottolineando l’urgenza di affrontare un nodo che da anni frena crescita e investimenti. “Così com’è oggi, la giustizia civile non va. Il Pnrr ci ha chiesto di accelerare, ma il carico pregresso è enorme. Il toro va preso per le corna e va fatta una riforma sostanziale”, ha esordito Tajani, invitando il partito ad avviare un dibattito su tutto il territorio nazionale. Su questo tema Forza Italia “si sta impegnando più di qualsiasi altra forza politica”, ha puntualizzato il leader azzurro. “Non possiamo occuparci - ha aggiunto solo della metà della mela, la giustizia penale. Dobbiamo prendere in mano anche il corno della giustizia civile. Dobbiamo convincere alleati e avversari dell’importanza di affrontare questa questione”. Non sono mancati riferimenti ai giudici civili, troppo spesso assimilati - secondo Tajani - al dibattito sui “pm politicizzati”. “La colpa della lentezza non è dei giudici. Non bisogna fare di tutta l’erba un fascio: servono più risorse e un’organizzazione migliore”, ha ricordato il leader azzurro. Tra le proposte indicate come prioritarie, l’utilizzo di strumenti extragiudiziali e l’ipotesi di una banca dati dei contenziosi, per favorire uniformità delle decisioni e riduzione dei tempi. Sul fronte delle riforme costituzionali, Tajani ha confermato che questa mattina la segreteria di Forza Italia approverà un documento ufficiale sul referendum per la separazione delle carriere, annunciando l’avvio della campagna elettorale coordinata dal partito. Il presidente dei senatori di Forza Italia, Maurizio Gasparri, ha rimarcato la centralità del tema per la stabilità economica e giuridica nazionale. “Il funzionamento migliore della giustizia, anche civile, è una condizione necessaria per la crescita del Paese. Non è un argomento che emoziona, ma è un argomento che risolve”. Gasparri ha quindi difeso l’approccio “concreto” del partito: “Ci occupiamo di temi che non fanno clamore, ma che interessano le imprese, la tassazione, le assicurazioni, il rapporto tra banca e fisco. Non sono slogan: è la cifra dell’affidabilità”. Una delle voci più attese è stata quella di Francesco Greco, presidente del Consiglio nazionale forense, che ha ribadito il sostegno dell’avvocatura alla riforma costituzionale della magistratura. “La separazione delle carriere è, prima di tutto, una garanzia per i cittadini. I protagonisti del processo non sono né i magistrati né gli avvocati, ma le persone nei confronti delle quali si pronuncia una sentenza”. Greco ha anche insistito sulla necessità di riaffermare pienamente il diritto di difesa: “Nel civile - ha spiegato - troppo spesso gli avvocati vengono percepiti come un ingombro. La parità tra accusa e difesa è un dovere di civiltà giuridica”. Il presidente del Cnf ha poi ribadito l’importanza dell’oralità che, con la riforma Cartabia, è stata però accantonata, generando un vulnus. Nel corso del convegno sono intervenuti, tra gli altri, Pietro Pittalis, componente della Commissione giustizia della Camera, che ha illustrato la proposta di legge di Forza Italia per la riforma della giustizia civile che contiene interventi finalizzati a ridurre gli arretrati, favorire tecniche e istituti deflattivi del contenzioso, implementare le best practice già adottate presso numerosi uffici giudiziari, accrescere le competenze dei magistrati e informatizzare ulteriormente i procedimenti. Essa incide su diverse norme del codice di procedura civile, delle disposizioni di attuazione e su alcune norme del codice civile. Le conclusioni sono state affidate a Francesco Paolo Sisto. Per il viceministro della Giustizia “la giustizia civile incide pesantemente sul vita del Paese” ed è quindi necessario “semplificare”, evitando che dietro il bisogno di efficienza si celi però un “efficientismo” a discapito dei diritti dei cittadini. Sisto ha poi ricordato l’importanza della separazione delle carriere fra pm e giudici, che avrà positivi risvolti anche nel settore civile. L’obiettivo dichiarato da Tajani e dai dirigenti azzurri è pertanto chiaro: riportare la giustizia civile al centro del dibattito pubblico come leva di sviluppo e di garanzia dei diritti, costruendo consenso parlamentare attorno a una riforma che, nelle parole del segretario di Forza Italia, “non può essere un pannicello caldo, ma un intervento profondo, strutturale, necessario per il futuro del Paese”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Volenze in carcere, il Gip archivia: scagionato anche agente suicida Il Mattino, 5 dicembre 2025 Il Gip del tribunale di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) ha disposto l’archiviazione nel procedimento per le violenze ai danni dei detenuti avvenute nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) il 6 aprile 2020. Tra i 18 poliziotti per cui il gip ha archiviato, c’è anche Benito Pacca, l’agente penitenziario che il 25 giugno scorso si uccise sparandosi nel parcheggio del carcere di Secondigliano a Napoli. Il gesto di Pacca, 59 anni, vicino alla pensione, rimane tuttora inspiegabile: sapeva di essere indagato per i fatti del carcere casertano; era turbato, lo aveva detto ai colleghi, e sperava di uscirne presto, ritenendosi assolutamente innocente. Il gesto estremo e improvviso di Benito Pacca del giugno scorso provocò choc e dolore. L’agente penitenziario era indagato per abuso di autorità nel secondo filone dell’indagine della Procura di Santa Maria Capua Vetere (pm Alessandro Milita, Daniela Pannone e Alessandra Pinto) sulla perquisizione straordinaria poi degenerata avvenuta in pieno lockdown per il Covid nel carcere casertano, con circa trecento agenti che intervennero contro altrettanti detenuti del reparto Nilo. Nella prima fase dell’indagine furono identificati circa 120 agenti, tutti in servizio al carcere di Santa Maria Capua Vetere, e questo primo filone ha dato vita ad un maxi-processo con 105 imputati - soprattutto agenti ma anche funzionari del Dap e medici - attualmente in fase dibattimentale davanti alla Corte di Assise del Tribunale sammaritano; tra i reati contestati anche la tortura. Nel secondo filone investigativo furono identificati altri 50 agenti, tra cui Pacca, intervenuti nel carcere da diversi istituti (Secondigliano soprattutto e Avellino), in quanto componenti del Gruppo Operativo di Supporto; e se per 18, tra cui l’agente suicida, è arrivata l’archiviazione del Gip, come da richiesta depositata dalla Procura il primo agosto scorso, per 32 ci sarà invece l’udienza preliminare il prossimo 29 gennaio. Varese. I risultati del Protocollo d’intesa “carcere e lavoro” prefettura.interno.gov.it, 5 dicembre 2025 Si è tenuta nella mattinata di mercoledì 3 dicembre 2025, presso la Sala Consiliare della Provincia di Varese, l’assemblea plenaria dedicata al Protocollo d’Intesa siglato il 19 luglio 2024 per il reinserimento sociale e lavorativo delle persone detenute, ex detenute e in esecuzione penale esterna. L’incontro ha confermato un bilancio positivo delle attività svolte nel 2025 e ha permesso di programmare le azioni per il 2026. La collaborazione tra enti pubblici, istituzioni, mondo produttivo e terzo settore ha dato impulso a un sistema integrato orientato a percorsi personalizzati di recupero e reinserimento con l’obiettivo primario di ridurre la recidiva. Il sistema di collaborazione attivato ha generato un circuito virtuoso che sta producendo risultati concreti sul piano del recupero sociale dell’inclusione lavorativa e della sicurezza collettiva. Oltre alla prevenzione della recidiva i progetti realizzati nel 2025 hanno contribuito a ridurre i pregiudizi e a riconoscere alle persone detenute una seconda possibilità per costruire un futuro dignitoso e produttivo. Il Prefetto Salvatore Pasquariello ha aperto i lavori evidenziando l’importanza del percorso avviato e presentando il “Progetto integrato carceri” della Fondazione Comunitaria del Varesotto (FCVA), Ente filantropico che ha l’obiettivo di sostenere la realizzazione di progetti che mirano al bene comune, alla solidarietà e allo sviluppo umano, sociale, economico, civile e culturale del territorio, in collaborazione con istituzioni, enti del terzo settore e cittadini. Il Segretario Generale della FCVA Massimiliano Pavanello ha poi illustrato nel dettaglio il progetto come segue. “Tale Progetto nasce per coordinare e valorizzare le progettualità attive sostenute dalla Fondazione negli istituti penitenziari di Varese e Busto Arsizio, riunendole in un percorso unitario orientato al benessere, alla formazione e all’inclusione sociale delle persone detenute. L’iniziativa intende superare la frammentazione degli interventi finanziati da FCVA, favorendo una visione condivisa capace di incidere sia sulla quotidianità detentiva sia sulle prospettive di reinserimento. A disposizione per le attività un budget complessivo di 70.200 euro, composto dal contributo della Fondazione, dalle risorse messe a disposizione dagli enti partner e dalle attività di fundraising. Alla progettazione partecipano, all’interno di una cornice collaborativa comune, L’Oblò Onlus, Cooperativa Lotta Contro l’Emarginazione, Cooperativa Sociale Intrecci, Casa di Marta, Opera Don Guanella, Cortisonici, l’Associazione Assistenti Carcerati e Famiglie e La Valle di Ezechiele, insieme con le Case Circondariali di Varese e Busto Arsizio. Il programma, sostenuto dalla FCVA, comprende attività occupazionali, percorsi culturali e artistici, interventi per il benessere psicofisico e azioni di sostegno alle relazioni familiari. Tra le iniziative previste figurano laboratori di cura del verde, orticoltura e falegnameria naturale; teatro sociale, drammaterapia, musica e audiovisivo; pet-therapy e arteterapia; percorsi dedicati ai genitori detenuti e ai loro figli. Sono inoltre incluse delle attività di supporto materiale e degli interventi orientati allo sviluppo di competenze in ottica occupazionale. Il Predetto Segretario Generale ha quindi concluso che: “Attraverso processi come questi, di integrazione delle progettualità, la Fondazione Comunitaria del Varesotto mette sempre più a disposizione del territorio la sua funzione di ponte capace di connettere istituzioni, ETS, imprese e cittadini per sviluppare risposte sostenibili e coordinate”. Oltre ai soggetti già firmatari, si sono inoltre proposti come nuovi partner: ATS Insubria (Agenzia di Tutela della Salute dell’Insubria) con le ASST Sette Laghi (Azienda Socio Sanitaria Territoriale) e l’ASST Valle Olona (Azienda Socio Sanitaria Territoriale Valle Olona,) l’Ordine dei Medici, Chirurghi e Odontoiatri della provincia di Varese e la già citata Fondazione Comunitaria del Varesotto. Queste ulteriori adesioni segnano un’importante estensione della collaborazione anche al settore sanitario e al benessere dei beneficiari. Al termine dell’incontro è stata deciso di organizzare nel 2026, tra le altre iniziative, un convegno specialistico che possa approfondire le recenti modifiche alla cosiddetta Legge Smuraglia e le conseguenti opportunità operative. La Prefettura continuerà a sostenere, promuovere e coordinare ogni iniziativa volta al perseguimento degli obiettivi del protocollo confermando il proprio impegno nel garantire l’effettiva attuazione dei principi di legalità, inclusione e solidarietà sociale. Pistoia. No alla violenza di genere. Recuperare i maltrattanti. L’impegno del carcere di Gabriele Acerboni La Nazione, 5 dicembre 2025 L’iniziativa della casa circondariale e del Cam: “Serve più consapevolezza. Spingiamo i detenuti a riflettere”. A distanza di qualche giorno dalla ricorrenza del 25 novembre, anche nel carcere di Santa Caterina in Brana, si è tenuto un momento particolare per celebrare la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. All’interno della casa circondariale di Pistoia alcuni detenuti hanno partecipato alla presentazione del libro di Cataldo Lo Iacono “Ti bacio quando torno”, ed hanno preso parte ad un momento di incontro per parlare del loro percorso all’interno del Centro ascolto uomini maltrattanti. “Un momento per rappresentare alla comunità esterna quello che facciamo qui nel nostro piccolo in relazione a questa tematica specifica - ha spiegato Loredana Stefanelli, direttrice del carcere di Pistoia -. Al nostro interno già da tanti anni collaboriamo con il Cam (Centro ascolto uomini maltrattanti, ndc) che ha sede a Firenze e che opera sia nel carcere di Pistoia che in quello di Prato e di Sollicciano. Una volta a settimana avvengono degli incontri attraverso dei gruppi dove partecipano in maniera volontaria le persone, sia in attesa di giudizio che definitiva, e che hanno nello specifico reati di violenza non solo contro le donne ma violenza di genere o contro minori. Grazie all’intervento dei vari operatori che hanno una specifica specializzazione in tal senso - ha precisato la direttrice -, aiutano i detenuti a riflettere sul reato commesso in una prospettiva di riammissione alla vita libera con maggior consapevolezza rispetto al reato stesso”. In correlazione al tema specifico della giornata, la scelta di portare anche a Pistoia “Ti bacio quando torno”, libro presentato già in altri istituti penitenziari. “Quest’opera nasce dalla necessità di dare dignità a una ragazza che era stata dimenticata per circa 70 anni dalla sua comunità - ha raccontato Cataldo Loiacono, autore del libro -. Una vita travagliata, quella della protagonista, nella quale ha dimostrato un coraggio straordinario difendendo la sua libertà e la sua voglia di studiare. Ha combattuto la prima battaglia per l’emancipazione femminile nel difficile entroterra siciliano caratterizzato da patriarcato e maschilismo, e un ambiente rurale. Una ragazza che voleva diventare dottoressa - ha evidenziato l’autore - in un momento storico in cui in tutta Italia le donne laureate in medicina erano meno di duecento. E lei dal piccolissimo paese di Marianopoli aveva questo grande sogno, studiare, emanciparsi e diventare dottoressa”. Alla mattinata ha partecipato anche Mario De Maglie, psicologo, psicoterapeuta e vicepresidente del Centro di ascolto uomini maltrattanti. “Il Cam di Firenze, oltre che nel capoluogo di regione, è attivo anche a Prato, Pistoia e Montecatini. Il centro è stato il primo, a partire dal 2009, a occuparsi della presa in carico degli uomini autori di violenza - ha detto il De Maglie -. Il nostro obiettivo quindi è aiutare gli uomini a interrompere la violenza contro donne e minori”. Roma. Stage nelle cucine del Quirinale per tre ragazzi del carcere minorile di Nisida di Monica Guerzoni Corriere della Sera, 5 dicembre 2025 “Basta scelte sbagliate”. L’esperienza di tre giorni per tre aspiranti cuochi in permesso premio: “Fuori è difficile, la cucina può essere una strada”. Un piatto di gnocchi può salvare una vita. Può sembrare un’iperbole, ma non lo è. Non se hai vent’anni e, dalle celle del carcere minorile di Nisida, ti ritrovi nelle cucine del Quirinale, le mani piene di farina e la testa piena di sogni. Hai brutti ricordi perché hai fatto “cose brutte”, ma se sei arrivato sul Colle più alto di Roma per uno stage di tre giorni, con il cappello da chef e Sergio Mattarella che scende a stringerti la mano, vuol dire che hai anche grandi speranze. “Se vuoi, puoi”, è il motto del più giovane dei tre aspiranti cuochi in permesso premio, 21 anni e un passato di delinquenza nei vicoli di Scampia. “Se vuoi, puoi, ma serve anche tanta fortuna”. C’è fortuna e bravura in questa storia. Ci sono magistrati di sorveglianza che hanno concesso il permesso, maestri dal cuore grande e allievi con una grande voglia di rivincita. C’è il cuoco Luca Pipolo, 48 anni, che è cresciuto nei Quartieri Spagnoli e nel 2015 ha fondato la ex onlus Monelli tra i Fornelli e ci sono i tre ragazzi dell’Ipm di Nisida con il grembiule nero dell’associazione, dei quali Pipolo è tutor-accompagnatore. Che sapore ha, il futuro? “Immagino una famiglia e un lavoro che mi permetta di non tornare più a fare scelte sbagliate”, risponde il primo “monello” ai fornelli mentre sistema in un vassoio fettine di maiale e cavolfiori. Cosa ti ha colpito in questo palazzo, dove vissero prima i papi e poi i re? “La grandezza dei luoghi, il lavoro di squadra di questa brigata di chef e il fatto che siamo stati subito accettati”, ci dice il secondo, tatuaggi e riccioli neri: “Dopo tanti errori e fallimenti, è una bella cosa avere una possibilità di riscatto”. In carcere si è diplomato all’Alberghiero e a settembre, quando Mattarella è andato a visitare Nisida per la seconda volta, gli ha mostrato con orgoglio quel pezzo di carta: “Il presidente si è complimentato”. E ora, qual è il tuo sogno più grande? “Sentirmi al sicuro, perché fuori è difficile. La cucina può essere una strada”. Nell’Istituto penale per minorenni reso celebre dalla serie tv Mare Fuori, che sorge sull’isolotto vulcanico del Golfo di Napoli ed è diretto da Gianluca Guida, 80 giovani detenuti scontano pene per spaccio di droga, rapine, concorso in omicidio e altri gravi reati. E intanto imparano un mestiere: sartoria, giardinaggio, falegnameria, edilizia, ceramica. Chi impasta l’argilla e chi taglia gnocchi perfetti, che sanno di rinascita e di integrazione. Ieri sera Mattarella è sceso per una foto ricordo: “Benvenuti! È stato interessante? O il palazzo vi ha messo soggezione?”. Risate. I ragazzi ringraziano, rispondono che è stato “interessantissimo” e il presidente si augura che lo stage si riveli “importante per il futuro”. Al Corriere, Pipolo racconta “l’emozione” dell’incontro: “Si sono sentiti a casa, accolti. Il presidente segue con entusiasmo questo progetto e il suo saluto è un segnale importante, perché conferma la volontà di portarlo avanti”. L’executive chef del Quirinale, Fabrizio Boca, è qui dal 1993, ha lavorato anche per Scalfaro, Ciampi e Napolitano. Sfoggia il grembiule nero con le cifre ricamate della presidenza della Repubblica (“PR”) e racconta che Mattarella dal 2015 ha spalancato le porte e investito sulla formazione: “Trasformare le cucine in laboratori è stato un arricchimento per il Quirinale”. La materia prima arriva dall’orto di Castelporziano. La filosofia mattarelliana, niente primizie, né piatti di lusso, ha abbattuto i costi del 60%. La “gastronomia repubblicana” si riflette anche nei menu per capi di Stato e teste coronate, dove ognuna delle tre portate deve attingere a ricette del Nord, del Centro e del Sud. I “monelli” di Nisida non avrebbero dubbi: “Spaghetti al pomodoro!”. Milano. Daria Bignardi: “Vado in carcere perché tutto ciò che è umano mi riguarda” di Chiara Ludovisi vita.it, 5 dicembre 2025 “Non faccio volontariato: vado in carcere. Poi io esco, loro restano”. Da quasi 30 anni, Daria Bignardi entra periodicamente nel carcere di San Vittore a Milano e in altri istituti penitenziari, non solo come giornalista ma anche per collaborare alla realizzazione di attività culturali. Perché lo fa? Non certo per dare, piuttosto per ricevere. Daria Bignardi fa volontariato da molti anni, ma in questa espressione non si riconosce: lo ha detto e scritto in diverse occasioni e lo conferma anche ora. Non si sente “una volontaria” quando entra in carcere per incontrare i detenuti e trascorrere con loro alcune ore: scrivendo, leggendo, discutendo e confrontandosi. Eppure lei oggi ha “l’articolo 78”, ossia quell’articolo della legge 354/1975 relativa all’ordinamento penitenziario che disciplina gli “assistenti volontari”: “persone idonee all’assistenza e all’educazione” che l’amministrazione penitenziaria, su proposta del magistrato di sorveglianza, “può autorizzare a frequentare gli istituti penitenziari allo scopo di partecipare all’opera rivolta al sostegno morale dei detenuti e degli internati, e al futuro reinserimento nella vita sociale” e che “possono cooperare nelle attività culturali e ricreative dell’istituto sotto la guida del direttore”. Da quasi 30 anni, Bignardi entra periodicamente nel Carcere di San Vittore a Milano e in altri istituti penitenziari, non solo come giornalista ma anche - appunto - per collaborare alla realizzazione di attività culturali. Perché lo fa? Non certo per dare, piuttosto per ricevere: su questo non ha dubbi. Alla sua esperienza in carcere ha dedicato il suo penultimo libro, “Ogni prigione è un’isola” (Mondadori, 2024), mentre l’ultimo, appena pubblicato per gli stessi tipi si intitola “Nostra solitudine”. Per lo più il racconto di un lungo viaggio, eppure anche tra queste pagine il volontariato trova posto, se lo intendiamo come incontro con l’altro, ascolto e soprattutto “scambio”. Perché è proprio questa la parola che Bignardi ha scelto per indicare il motore che la spinge a dedicare il proprio tempo libero in maniera gratuita a chi si trova in detenzione. Roma. A Rebibbia la mostra sulla vita in carcere che coinvolge i detenuti di Livia Montagnoli artribune.com, 5 dicembre 2025 Il progetto editoriale di Hyperlocal. La piattaforma editoriale Hyperlocal dedica un numero speciale del suo magazine, concepito come un giornale in formato affissione, alla comunità carceraria di Rebibbia. Con il contributo di fotografi e scrittori per condividere le storie del più grande polo penitenziario d’Italia. Un anno fa, era il 21 dicembre del 2024, Marinella Senatore svelava l’opera site-specific di arte partecipata realizzata con i detenuti di Rebibbia, installata nel piazzale antistante la chiesa della Casa circondariale romana. L’arrivo dell’arte contemporanea in carcere - rapporto che presto sarà rinsaldato, proprio a Rebibbia, dall’inaugurazione di un progetto permanente di Eugenio Tibaldi - si concretizzava per volere della Santa Sede in avvio dell’Anno Giubilare, e in ottemperanza di un percorso fortemente caldeggiato da Papa Francesco. Sempre nel carcere di Rebibbia, non a caso, il pontefice apriva, in prossimità del Natale 2024, la seconda Porta Santa; e il prossimo 14 dicembre, il Giubileo dei Detenuti ribadirà l’urgenza di non lasciare indietro la popolazione carceraria. Ancora una volta a Rebibbia, nel frattempo, ha preso forma il progetto Hyperlocal Rebibbia - Un mondo alla rovescia, una mostra fotografica a cielo aperto visitabile fino al 18 dicembre, allestita lungo le mura del carcere - che è il più grande polo penitenziario d’Italia, con una sezione femminile tra le più grandi d’Europa e una popolazione carceraria di oltre 2mila persone - e negli spazi della stazione metropolitana adiacente. L’iniziativa ha coinvolto 17 detenuti del Nuovo Complesso che, nell’arco di due mesi, hanno condiviso le proprie storie con scrittori e fotografi. Il risultato è un percorso tra foto d’archivio - le immagini dell’Archivio Sergio Lenci, architetto che ha progettato la casa circondariale romana, gli scatti dell’Archivio di Tano D’amico, le foto di Angelo Turetta, i frame da film e documentari girati in carcere come Fuori di Martone e Cesare non deve morire dei fratelli Taviani - e nuove immagini, scattate da Stefano Lemon, Lavinia Parlamenti, Guido Gazzilli e Benedetta Ristori. In parallelo, hanno lavorato alla raccolta e alla rielaborazione delle storie dal carcere Graziano Graziani, Isabella De Silvestro, Federica Delogu, Christian Raimo, Nicolò Porcelluzzi, Alice Sagrati, Elisa Cuter, Emilia Agnesa e Silvia Basile. Il progetto si deve alla piattaforma editoriale Hyperlocal (curata da Edizioni Zero), che da quattro anni racconta le comunità, i luoghi simbolici e le scene, culturali e artistiche, dei quartieri di diverse città del mondo. Al carcere di Rebibbia, Hyperlocal dedica, quindi, un numero speciale del suo magazine (giornale in formato affissione che si relaziona col pubblico attraverso una mostra a cielo aperto) in occasione del Giubileo dei Detenuti, per raccontarne la quotidianità con la collaborazione di scrittrici e scrittori, fotografe e fotografi che hanno firmato testi e immagini. La giornata di presentazione ufficiale, nel Nuovo Complesso e con il coinvolgimento dei detenuti, è fissata per domenica 14 dicembre, all’interno dell’area verde che costeggia la Porta Santa e la Chiesa del Padre Nostro. La mostra, però, è già visibile dal 29 novembre scorso, e si dipana in 120 poster affissi su 20 tabelle metalliche e removibili nello slargo antistante la fermata della Metro B Rebibbia. All’iniziativa hanno partecipato anche il regista Alain Parroni - che ha firmato il video di presentazione dell’intero progetto, indagando il rapporto tra i detenuti e il quartiere di Rebibbia - e l’illustratrice Oscar Frosi. Ad arricchire la mostra anche la documentazione visiva degli spettacoli e dei progetti condotti dalle realtà associative e compagnie teatrali La Ribalta e Le Donne del Muro, e la corrispondenza originale della detenuta trans Fernanda Farias De Albuquerque, da cui nei primi Anni Novanta è nato il romanzo autobiografico Princesa. Il 4 dicembre 2025 si terrà, inoltre, il primo di due talk in programma - Prison as Narrative Subject - con ospitiil Premio Strega Edoardo Albinati, che per trent’anni ha insegnato a Rebibbia, la scrittrice e regista Francesca D’Aloja, autrice de Il sogno cattivo e del doculfilm Piccoli ergastoli, la redazione di Hyperlocal e alcuni contributor del progetto, moderatidalla giornalista Rai Eleonora Tundo. Dalle 18.30 si parlerà di percorsi di rinascita a partire dalle attività svolte in carcere, a partire da una domanda centrale: Come si racconta un carcere? Chi lo racconta? Giovedì 11 dicembre, invece, sarà lavolta di Forward the Unseen, un talk che esplora come il teatro, il video e la fotografia possano diventare un’esperienza trasformativa, aiutando i detenuti a sperimentare nuovi ruoli sociali e a ricostruire la propria identità. Intervengono il fotografo Tano D’Amico, il regista Alain Parroni, il regista Fabio Cavalli, fondatore del Teatro Libero di Rebibbia, e Francesca Tricarico, regista e ideatrice del progetto di teatro in carcereLe Donne del Muro Alto. Roma. Rebibbia, la musica di Califano arriva nel carcere di Michela Angelici Il Messaggero, 5 dicembre 2025 Un pomeriggio all’insegna della musica per i detenuti del carcere Rebibbia. A promuovere l’insegnativa l’associazione “Seconda Chance” e la fondazione “Franco Califano”. Nel teatro del carcere di Rebibbia le luci non si spengono del tutto quando la band guidata da Laurenti e Mattioli inizia a suonare in ricordo di Califano. È l’inizio di un pomeriggio che si muove a ritmo di musica, per cercare di lasciare un segno in quei cuori celati come il marmo. L’inizio di un pomeriggio che sembra socchiudere quelle porte di ferro, sempre così ostinatamente serrate. La musica, in fondo è una delle poche cose che lì dentro ha ancora il potere di fare breccia. Ha una forza che poche altre cose possiedono. Entra nell’anima, la afferra, la scuote. Riporta alla mente ricordi lontani, di quando la vita non si consumava dentro una cella. Di quando una scelta era ancora possibile. Tocca corde che lì dentro restano assopite, mentre prova a risvegliare qualcosa che si rischia di dimenticare: che là fuori c’è vita. E così, mentre Mattioli dà voce a Califano, tra i detenuti scorre un’aria diversa. Un’aria dal sapore di vita. Una vita spezzata, rimasta fuori dalla porta ad aspettare mentre il tempo scorre, inevitabile. Due ore per respirare. Due ore per fingere che la vita sia facile. O due ore per ricordarsi che, nonostante tutto, di tempo per cambiare ce n’è ancora. Un’illusione fragile in teatro. Le poltrone sembrano quelle di una platea qualunque, le mani battono a ritmo, le voci si intrecciano. Poi, all’improvviso, il velo di Maya si solleva. Nessuno può illudersi che il male non esista o che basti una canzone a cancellarlo. Eppure, mentre le note scivolano tra le file, per un attimo quella durezza sembra sgretolarsi. Una seconda possibilità appare quasi credibile. D’altronde è proprio questo lo scopo dell’associazione “Seconda Chance” che ha portato lo spettacolo a Rebibbia: dare una seconda possibilità a chi ha sbagliato o a chi, dalla vita, di possibilità non ne ha avuta neanche una. Ma l’associazione non si ferma ai momenti di svago. Riesce a fare di più. Trovando lavoro a detenuti, affidati ed ex detenuti, riesce ad aprire veramente le porte ad una nuova vita all’insegna della legalità. In quella sala, in cui è presente anche Gianni Alemanno che dal carcere pubblica periodicamente il suo diario, Franco Califano non sembra poi così distante. Quasi uno di loro. Uno che ha sbagliato e ha pagato. Che quella vita al margine l’ha respirata davvero. È con Semo gente de borgata che la sala splode. Le voci diventano un coro. La conoscono tutti, come fosse l’inno di un passato che scorre ancora sotto la pelle: “Semo nati da povera gente, è la nostra realtà… La speranza nun costa niente… Quanta gente c’ha tanti soldi e l’amore no… E stamo mejo noi che nun magnamo mai…” 120 minuti, quelli offerti dalla band, che si consumano in fretta. E quando tornano le luci, resta la domanda: è servito davvero? Quella passione vista sul palco è riuscita veramente ad entrare in quelle anime che sembrano di acciaio? Impossibile dirlo. Con qualcuno sì, con altri no. Ma forse non importa. A volte basta toccare una sola anima per poter dire di avercela fatta. Viaggio di un giurista inquieto nel diritto penale costituzionale di Andrea Pugiotto L’Unità, 5 dicembre 2025 Per troppo tempo i costituzionalisti hanno rinunciato a occuparsi di giustizia penale. Galliani ora ci prova in forme dinamiche e originali: solleva questioni e ipotizza soluzioni, spesso creative o inaspettate. I suoi percorsi didattici sono prima ancora. 1. Per troppo tempo i costituzionalisti hanno rinunciato a occuparsi di giustizia penale. È stata una resa all’eccessiva specializzazione del sapere che crea mondi paralleli, dunque separati. È stato un errore perché il costituzionalismo è una tecnica delle libertà, minacciate dal continuo ricorso al maglio penale. Servono scambi, non monopoli. Ora qualche costituzionalista ci prova, come fa Davide Galliani in forme dinamiche e originali. Dopo la monografia sulla pena di morte (Cittadella Editrice, 2012), è stato il capofila del primo progetto di ricerca dell’UE sull’ergastolo. È il promotore della trilogia di volumi interdisciplinari sul diritto alla speranza (Giappichelli 2019, 2020 e 2024). Nel suo Ateneo, tiene da anni l’innovativo insegnamento di Diritto costituzionale penale ed europeo. Non basta. Più volte ha preso parte (nel senso processuale del termine) alla dialettica davanti alle Corti costituzionale e di Strasburgo, elaborando amici curiae e ricorsi, spesso vincenti: da ultimo, nel caso Lavorgna c. Italia, riguardante la contenzione meccanica prolungata di un paziente psichiatrico. Dunque, Galliani non solo si occupa di diritto costituzionale penale, ma si preoccupa di farlo vivere. Il suo ultimo libro, “Libertà personale e carcere” (Franco Angeli, 2025) si inserisce in questa coerente bio-bibliografia. 2. I libri che pubblichiamo svelano sempre qualcosa di noi: mentre li scriviamo, ci raccontano. Non fa eccezione questo libro, il cui autore è riconoscibilissimo da come il tema è narrato, prima ancora che nelle tesi sostenute. Non si tratta di una monografia, di cui non ha né la struttura né la sistematicità. Non è un’antologia, perché le sue pagine sono inedite e dalla trama unitaria. Che libro è, allora? La risposta è nel suo sottotitolo: Percorsi di diritto costituzionale penale. Percorsi didattici ma, prima ancora, percorsi mentali dell’autore. Al lettore sembra di vederlo, mentre solleva questioni e ipotizza soluzioni, spesso creative o inaspettate. È un corpo a corpo con sè stesso, testimoniato da uno stile tutto suo fatto di citazioni eccentriche (Coco Chanel, Alda Merini, Primo Levi), espressioni eterodosse (“il penale”, “il costituzionale”), metafore gergali (due soli esempi: gli scopi della pena accreditati dall’UE? “Stanno alla rieducazione come il vino rosso con un piatto di spaghetti e vongole”; gli obblighi di penalizzazione? “Sono come i cioccolatini di Forrest Gump, una volta che apri la scatola ne mangi uno dietro l’altro, e non sai mai quello che ti capita”). Alcuni lettori apprezzeranno, altri meno. Sono, invero, i sintomi della smisurata passione di Galliani per il tema, il suo studio, il relativo insegnamento. 3. Il libro ha una sua conformazione geologica: “la grotta” è il diritto costituzionale penale; la libertà personale e il carcere sono “le gallerie” scavate dall’autore. La prima gli consente di ragionare sull’habeas corpus dell’art. 13 (“l’emblema del garantismo penale tradotto in Costituzione”), i suoi meccanismi di tutela (riserva di legge e di giurisdizione), le sue interrelazioni con altre previsioni costituzionali (la presunzione d’innocenza, i limiti alla durata della custodia cautelare, l’obbligo di riparare gli errori giudiziari), le misure di prevenzione (“il mondo sospetto delle pene del sospetto”), il reato di tortura. La seconda galleria si biforca in due tunnel. Il primo attraversa “il volto costituzionale del sistema penale”, il senso della pena secondo Costituzione, l’assenza di una base testuale per le allarmanti esigenze di difesa sociale, la giustizia riparativa (di cui non si tacciono le criticità), il principio di proporzionalità, la dignità umana (nelle sue diverse declinazioni). L’altro tunnel scava sotto la realtà incostituzionale del carcere di oggi, esemplificata in alcuni suoi problemi: il sovraffollamento, il regime dei trasferimenti, la penuria di funzionari giuridico-pedagogici, le resistenze ai colloqui intimi dietro le sbarre. Problemi ai quali il libro guarda “in modo radicalmente differente”, suggerendo rimedi tanto innovativi quanto praticabili. 4. Tra le molte pepite estratte, alcune mi paiono più preziose di altre. La prima è la dimensione individuale della libertà personale (art. 13 Cost.): il divieto di arresti arbitrari, valido per “qualsiasi” forma di restrizione della libertà del soggetto, “prima di ogni altra cosa, si rivolge proprio alla singola persona, al suo corpo, alla sua morale, alla sua libertà”. Sono d’accordo. È certamente vero che al centro della nostra Costituzione c’è l’idea di persona, non atomizzata ma immersa in un fascio di “rapporti” (civili, etico-sociali, economici, politici). Rapporti che, tuttavia, muovono pur sempre dal corpo del singolo perché “noi non abbiamo, ma siamo un corpo” (Adriano Sofri). È un approdo ermeneutico da difendere. Così inteso, l’art. 13 Cost. è la base per l’autogoverno della propria dimensione corporea, contro le pretese di allocare altrove le decisioni ultime sulla propria vita. Imprigionare per legge un malato dentro un corpo fattosi galera, fino alla fine e contro la sua volontà, rappresenta una “mortificazione della dignità dell’uomo che si verifica in ogni evenienza di assoggettamento fisico all’altrui potere e che è indice sicuro dell’attinenza della misura alla sfera della libertà personale” (Corte costituzionale, sent. n. 105/2001). 5. Condivisibili sono anche le critiche ai troppi obblighi di penalizzazione derivanti dai trattati - internazionali e comunitari - sottoscritti dall’Italia, per di più sanzionati con livelli edittali dolomitici. In tal modo, l’ombrello della penalità si apre su beni incomparabili: dal divieto di immissione nel mercato europeo di cannucce plastificate alle gross violations dei diritti umani. È una classica eterogenesi di fini: la teoria della tutela di beni costituzionalmente rilevanti era nata, con Franco Bricola, per contenere il ricorso alla leva penale. Ora, invece, serve per estenderne l’uso. Quella categoria “una volta faceva spavento, oggi è sdoganata” perché capovolta nel suo fine. Le previsioni per il futuro sono ancora più fosche. “La Repubblica tutela le vittime di reato”, si leggerà nel 2° comma dell’art. 24 Cost., se andrà in porto la sua revisione già approvata in prima lettura al Senato. E poiché paradigma vittimario e obblighi di penalizzazione “parlano la stessa lingua”, il pan-penalismo avrà davanti a sé nuove praterie dove galoppare a briglie sciolte. 6. Un’ultima pepita. Riguarda il finalismo rieducativo delle pene, oramai soppiantato - argomenta Galliani - da una finalità retributiva fine a sé stessa: “il punire perché è giusto punire”. Con tutti i suoi corollari retorici, fino al “dovere di punire costi quel che costi”. La retribuzione è implicita nell’art. 27, 3° comma, Cost.: purchè non sia inumana, infatti, la pena che fa soffrire è ammissibile. Dunque, “l’afflittività non può superare il limite del senso di umanità, ma sopra esiste, eccome se esiste”. Motivo in più, a mio avviso, per concordare con la Corte costituzionale quando - a proposito del finalismo rieducativo e del divieto di trattamenti inumani - parla di contesto “non dissociabile” (fin dalla sent. n. 12/1966), perché i due principi si integrano reciprocamente. Così contestualizzato, il canone di umanità delle pene può sprigionare tutta la sua carica garantista, quale principio inderogabile, sottratto al bilanciamento con altri principi costituzionali, della cui violazione lo Stato risponde in ambito CEDU. 7. La lettura di questo libro è una sensata esperienza didattica: gli studenti apprenderanno che i “principi del diritto penale costituzionale” (sent. n. 148/1983) non servono a legittimare l’uso della forza coercitiva, semmai ad arginarla. Scrivendolo, Davide Galliani si conferma giurista inquieto: il suo è l’esatto opposto di un pensiero tranquillo, indisturbato dalle cose che pensa. Di questa sua irrequietezza intellettuale, che ci costringe a riflettere, dobbiamo essergli grati. Foto dal carcere: quando il Vangelo ci chiede non di giudicare ma di ascoltare di Matteo Maria Zuppi La Repubblica, 5 dicembre 2025 In occasione del Giubileo dei Detenuti, che cade in questi giorni, le porte del penitenziario femminile della Giudecca, a Venezia, si aprono ai visitatori. Sarà un gruppo di detenute ad accogliere chi vorrà visitare la mostra “I volti della povertà in carcere”. Per raccontare dolore e speranza senza giudizio, come spiega il cardinale e arcivescovo di Bologna proprio commentando le immagini della mostra. Dal 6 al 19 dicembre la Casa di Reclusione Femminile della Giudecca a Venezia ospita, nella cappella di Santa Maria Maddalena, la mostra fotografica I volti della povertà in carcere ispirata all’omonimo volume di Matteo Pernaselci e Rossana Ruggiero (Edb edizioni). La mostra arriva a Venezia in concomitanza con il Giubileo dei Detenuti, e coinvolge direttamente un gruppo di donne detenute che accompagneranno il pubblico durante la visita dopo un percorso di formazione dedicato. Vi proponiamo qui il testo che il cardinale Matteo Maria Zuppi ha scritto per il libro I volti della povertà in carcere. “Ero in carcere e non mi avete visitato” (Mt 25, 43), afferma il Vangelo. Non si dice nulla delle caratteristiche della persona rinchiusa, non si cercano meriti o al contrario condanne per giustificare la scelta di abbandonare i detenuti. “Ero in carcere e non mi avete visitato”, ma noi siamo chiamati a non lasciare soli questi uomini e queste donne. Non andiamo in carcere per giudicare, per fare pesare il reato o la condanna, ma iniziando con l’ascolto per incontrare e per portare un aiuto e affrontare i problemi concreti, a volte drammatici, ed anche per cercare modalità che li possano risolvere, a cominciare dal lavoro. Il libro ci fa incontrare l’altro e “vedere” pezzi diversi del carcere già in chi deve affrontarne le violenze e la disperazione, dirigendo una struttura così complessa, ma anche in chi vive dentro le celle; sono storie tratte dalla banalità del male che debbono essere conosciute perché la dignità inizia da questo: non sei un numero, non sei una matricola, non sei il reato che hai commesso, ma sei una persona. La condanna peggiore è il non senso. Il carcere non è l’altro mondo in terra, il luogo dove vogliamo mandare la parte cattiva del nostro mondo, non può essere l’inferno ma, semmai, sempre il purgatorio. Il contrario dell’inferno non è il limbo, attesa senza speranza e quindi inutile indugio. Papa Francesco si interroga sempre su questo quando va in carcere: “Mi domando: perché lui e non io? Merito io più di lui che sta là dentro? Perché lui è caduto e io no? È un mistero che mi avvicina a loro” (dal Discorso del Santo Padre ai cappellani delle carceri, ottobre 2013). Ci viene chiesto di garantire e riconoscere la dignità umana sempre a tutti e cam­minare insieme ai fratelli carcerati, senza paura, con amore perché l’amore vince la paura e ci fa riconoscere nell’altro la persona che è, degna sempre della nostra “com­passione”, che vuol dire pensarsi insieme, e non si esaurisce nell’esercitare qualche buon sentimento utile a sé e non al prossimo. Il libro ci restituisce i nomi - che vogliono dire le storie di vita e le caratteristiche pe­culiari di ciascuno - di quei fratelli più “piccoli” che dobbiamo visitare. Nel percorso tracciato nel libro, riconosciamo l’angoscia di non fidarsi più di nessu­no, l’umiliazione, i turbamenti. Comprendiamo i racconti delle compagnie sbagliate e le conseguenze purtroppo prevedibili, ma anche la banalità del bene; vediamo cioè possibilità di umanità e di quella generosità che riaccende i sogni, quelli che preparano il futuro e iniziano a realizzarlo, scoprendo dietro il volto - grazie all’attenzione di qualcuno - le doti che non si sa di avere. Capiamo i problemi psichiatrici - così importanti e che tanta attenzione richiedono, e strumenti adeguati per essere finalmente affrontati - perché altrimenti resta, come viene raccontato, solo la convinzione di “essere morto”. Certo conosciamo anche co­munità che sono luoghi di speranza perché la sfida è credere che l’errante non sarà mai il suo errore! “L’errante è sempre e anzitutto un essere umano e conserva; in ogni caso, la sua dignità di persona e va sempre considerato e trattato come si conviene a tanta dignità” (Giovanni XXIII, Pacem in terris, 83). La professoressa Marta Cartabia, nella già citata settimana sociale dei cattolici italiani a Trieste, ha ricordato come nella Costituzione non si parli di carcere, bensì di “pene”, secondo la previsione dell’articolo 27, sottolineando il plurale, e come queste “non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Appunto. Rieducazione e pene. Guai a credere che l’unica scelta sia “farla pagare” all’autore della sofferenza, come è giusto sia e come spesso anche il condannato cer­ca. Pene per rieducare. Ci crediamo? È su questo che è pensato il nostro sistema? Se pensiamo alle condizioni fisiche, dovute al sovraffollamento - problema decennale -, siamo costretti a credere che esso non sia visto come reale emergenza che richiede intelligenza applicativa e anche il coinvolgimento di tutta la comunità. In molte carceri un terzo dei detenuti potrebbe uscire se avesse luoghi dove gode­re di pene alternative. Un carcere solamente punitivo non è né civile, né umano e nemmeno “italiano” perché non risponde a quanto abbiamo sottoscritto nel patto fondamentale della no­stra cittadinanza. La sicurezza non è data dalle famose chiavi da buttare, ma anzi esat­tamente dal contrario, cioè dalla rieducazione, con tutto quello che comporta. Certo, è indispensabile la certezza e la sicurezza delle pene. Sappiamo quanto al contrario si favorisca il cattivismo e la vendetta. Ma proprio per questo sono importanti le pene alternative che, proporzionate e amministrate con saggezza, sono le uniche che pos­sono aiutare a cambiare, a guardare il futuro. Non sono scorciatoie, concessioni “buoniste”, ma esercizio di vero dovere costitu­zionale e, per i cristiani, di amore. Solo il “riparativo” risana la ferita e offre sicurezza. Il fondamento risiede nella possibilità riconosciuta a ciascuno di essere diverso, di riscattarsi dal passato e progettare un futuro di bene. Come è raffigurato in una delle bellissime foto del volume, il muro ha come una sottile crepa. Filtrerà sempre un raggio di luce! Questo libro ci aiuta a capire come e anche quanto è decisiva la luce, fosse solo uno spiraglio, nel buio della disperazione e per una nuova consapevolezza. E questo, però, dipende anche da ognuno di noi. La mostra - La mostra è aperta esclusivamente su prenotazione, in gruppi di massimo 10 persone e in fasce orarie prestabilite. Per prenotarsi: https://www.eventbrite.it/e/mostra-fotografica-i-volti-della-poverta-in-carcere-tickets-1945368913789 o attraverso il sito www.retrosguardi.it “Partecipare crea futuro”: una giornata di festa per un miliardo di volontari di Paola D’Amico Corriere della Sera, 5 dicembre 2025 “Ogni contributo è importante” (Every contribution matters) è il tema che l’United Nations Volunteers (Unv) ha scelto per la Giornata internazionale del volontariato che si celebra venerdì 5 dicembre e che quest’anno segna anche il lancio ufficiale dell’Anno internazionale dei volontari per lo sviluppo sostenibile, proclamato dall’Assemblea generale dell’Onu. L’International Volunteer Day è stato istituito nel 1985 ed è divenuto un appuntamento simbolo di una comunità globale che conta oltre un miliardo di volontarie e volontari. Un momento per riconoscere l’impatto dell’azione volontaria nelle comunità e per ribadire che le azioni guidate dalle persone sono decisive per affrontare le sfide condivise del nostro tempo. Un impegno che, come ricordano le Nazioni Unite, accelera lo sviluppo e rafforza la resilienza dei territori. L’obiettivo è chiaro: riconoscere e amplificare il ruolo fondamentale dei volontari nell’avanzamento degli Obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs) al 2030, mettendo al centro l’idea che ogni contributo - piccolo o grande - può produrre cambiamenti significativi. Dalla protezione dell’ambiente all’inclusione sociale, dalla salute alla partecipazione civica, le esperienze volontarie sono oggi una leva imprescindibile per rafforzare i sistemi di welfare e costruire società più eque e sostenibili. Uno slogan con cui i Centri di servizio per il volontariato in Italia sono già in sintonia. Il Centro servizi volontariato (Csvnet) ha lanciato il claim “Partecipare crea futuro”, sottolieando che “ogni gesto di partecipazione vuol dire mettersi in gioco, riflettere sulla realtà ed agire per un cambiamento. E sono proprio queste azioni condivise che danno linfa ed energia alle comunità”. Con il lancio dell’Anno internazionale 2026, l’Onu invita governi, società civile, istituzioni educative e comunità locali a mobilitarsi in un movimento globale che renda visibile il contributo del volontariato nei processi di sviluppo. Nei prossimi mesi, coordinerà attività, eventi e campagne mirate a dare voce alle storie dei volontari e a promuovere nuove modalità di partecipazione, soprattutto tra i giovani. L’appuntamento del 5 dicembre 2025 sarà così il primo passo di un percorso più ampio, pensato per mettere il volontariato al centro delle politiche pubbliche e per mostrare che, davvero, ogni contributo conta. “In un’epoca storica in cui è facile essere pervasi da un senso di impotenza rispetto agli orrori delle guerre e alle forti tendenze individualistiche ed egoistiche - dice Giancarlo Moretti, portavoce del Forum terzo settore - i volontari sono una fonte inestimabile di pace e solidarietà. Non solo: l’impegno volontario genera cambiamento sociale e svolge un ruolo attivo nello sviluppo del Paese: va quindi promosso, tutelato e valorizzato, attraverso un lavoro congiunto di istituzioni e Terzo settore”. Da parte sua Chiara Tommasini, presidente di CSVnet, l’associazione nazionale dei Centri di servizio per il volontariato, aggiunge: “Il messaggio scelto dalle Nazioni Unite coglie perfettamente il senso più profondo del volontariato: partecipare è sempre importante. Il tempo che una persona decide di donare agli altri, produce un valore reale e misurabile. In vista del 2026 - anno internazionale del volontariato per lo sviluppo sostenibile - questo richiamo è ancora più forte: il contributo quotidiano di migliaia di volontarie e volontari aiuta le comunità a crescere e a costruire futuro. È su questa energia che il Paese può e deve continuare a investire”. “Il volontariato - conclude don Marco Pagniello, direttore di Caritas Italiana - è scuola quotidiana di umanità e di cittadinanza. Ogni gesto gratuito custodisce una forza trasformativa che rigenera i legami, restituisce dignità alle persone e rende le nostre comunità più giuste e solidali. In un tempo segnato da fratture sociali, diseguaglianze e solitudini diffuse, i volontari sono segno concreto di una speranza che si fa prossimità, ascolto, cura e diventa profezia di un Paese che sceglie di ripartire dagli ultimi, mettendo al centro le persone e le relazioni”. Mi astengo, dunque voglio partecipare di Renato Balduzzi Avvenire, 5 dicembre 2025 La spinta partecipativa che raggiunse il proprio acme negli anni Settanta, si è via via indebolita. Ma le astensioni potrebbero essere lette come una domanda di più spazi di partecipazione. C’era da aspettarselo. Dopo l’ulteriore tracollo della partecipazione elettorale alle ultime consultazioni regionali, abbiamo per qualche giorno letto preoccupati commenti di alcuni opinionisti attorno alla malattia della democrazia, poi il silenzio: ciascuno è tornato riflettere sugli scenari italiani e mondiali o sull’ultimo fatto di cronaca, in un dibattito pubblico sempre più esposto a diversivi e a vere e proprie falsificazioni. Sembriamo insensibili alla eloquenza dei fatti: quale legittimità possono avere una maggioranza e un governo, nazionale o regionale, votati, quando va bene, da un quarto degli aventi diritto? Come non vedere che tale situazione, in parte comune ad altre democrazie, è particolarmente acuta in Italia? Eppure, da molti decenni si riflette sull’intreccio tra crisi della rappresentanza politica e crisi del rappresentato, cioè del cittadino-elettore: la spinta partecipativa, che raggiunse il proprio acme negli anni Settanta, si è, per molteplici motivi, via via indebolita, con la conseguenza di rendere sempre più isolato il circuito rappresentativo classico, consentire il perdurare di una “Repubblica dei partiti” anche una volta che questi ultimi abbiano smesso di svolgere il compito assegnato loro dall’art. 49 della Costituzione, smontare alla base il funzionamento di quegli istituti complementari alla rappresentanza (ad es., il referendum abrogativo, anch’esso divenuto sempre più eterodiretto) e marginalizzare i pur promettenti esempi di democrazia deliberativa che qua e là si è cercato di realizzare. Anche sulle proposte di favorire, attraverso un impiego accorto delle nuove tecnologie, l’esercizio del voto (elettronico, per corrispondenza, per procura, a domicilio per ragioni di infermità, anticipato presidiato) non sono state mai davvero prese sul serio, almeno nel senso di verificare sino a quale punto esse o alcune di esse siano compatibili con il modello costituzionale del voto Per non parlare dei mutamenti delle leggi elettorali: in luogo di incentivare la loro trasparenza e dunque favorire la partecipazione, registriamo (ancora in questi giorni!) il tentativo di ricostruire arbitrari premi di maggioranza, dimenticando che il secco declino della partecipazione al voto fu coevo all’approvazione di quel Porcellum che resta una triste pagina della storia italiana. La riflessione su questi temi non manca: si veda il dibattito, promosso dall’Associazione italiana dei costituzionalisti e facilmente reperibile sul sito di essa, su come riattivare la rappresentanza delle istituzioni democratiche (con una “lettera” di G. Sorrenti e le “repliche” di A. Algostino, G. Azzariti, S. Curreri, F. Girelli, M.C. Grisolia, C. Pinelli, F. Pizzolato, S. Prisco e F. Zammartino). Da questi dibattiti emerge che le astensioni, o una parte di esse, potrebbero essere lette anche come una domanda implicita di più spazi di partecipazione. Per altro profilo, i mesi che ci separano dal referendum costituzionale di primavera sono, o potrebbero essere, un momento importante perché ciascuna formazione politica dichiari le proprie scelte in ordine al delicatissimo rapporto tra politica e magistratura (il vero nodo del referendum), così consentendo di ricostituire un collegamento reale tra rappresentati e rappresentanti. Si tratta di sogni irrealizzabili? Forse no, sempre che la politica voglia e sappia tornare a dialogare, oltre le semplificazioni e le invettive che servono soltanto a nascondere pochezza di idee e di visione. Fine vita. Una sedazione profonda senza consenso lede la volontà del paziente di Chiara Lalli Il Dubbio, 5 dicembre 2025 Il 13 novembre 2025 il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Ferrara ha disposto l’archiviazione del procedimento avviato a seguito della denuncia- querela di Davide Merchiori riguardo alla morte di Maria Vittoria Mastella. Perché, scrive il giudice, non si formulerebbe “una ragionevole previsione di condanna”. Questa storia comincia a luglio 2024, quando Maria Vittoria Mastella muore. Ha un tumore, viene sedata, rimane tre giorni sedata. Secondo il suo fidanzato, però, Mastella non avrebbe mai consentito alla sedazione palliativa profonda e non sarebbe mai stata informata in modo esaustivo delle sue condizioni. Per questo Davide Merchiori aveva chiesto alla procura di Ferrara di accertare le responsabilità e la legittimità della sedazione. L’ipotesi di reato è delineata dall’articolo 590 sexies (responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario). Il pubblico ministero aveva chiesto l’archiviazione lo scorso aprile, alla quale c’era stata opposizione. Ed eccoci alle osservazioni che motivano l’archiviazione di novembre. Non ci sarebbe alcuna responsabilità dei sanitari e il loro comportamento non avrebbe accorciato la vita di Mastella, morta per un tumore e non per la sedazione, né si può inferire che “alcun diverso comportamento avrebbe influito sul decorso e sull’exitus della malattia”. Pare però incontestabile l’assenza di consenso alla sedazione. E forse sarebbe cambiato poco, ma questo basta a giustificare la violazione della sua volontà di non essere sedata o, almeno, l’assenza della sua manifesta volontà di essere sedata? Non solo. Non faccio il medico e la mia è solo una domanda: contemporaneamente alla sedazione profonda non è stata prevista la nutrizione e Mastella ci ha messo tre giorni per morire; questo particolare non dovrebbe essere accertato invece di riferirsi genericamente alla letteratura scientifica che non rileva una accelerazione della morte a causa della sedazione profonda? Sarebbe cambiato qualcosa se fosse stata nutrita? Il mancato consenso è innegabile visto che, poco dopo, il giudice scrive che “astrattamente potrebbe sussistere (in relazione al mancato consenso alle cure palliative o comunque, a diverse cure) il delitto di violenza privata” ma Maria Vittoria è morta e con la sua morte si estingue il diritto di querela della persona offesa. Ora la giustizia dei tribunali è sempre imperfetta e tardiva e non può che essere così. Arriva quando qualcosa non va, quando non ci si mette d’accordo, quando un danno è stato compiuto. E si cerca di riparare il passato che è comunque irreparabile. In un mondo imperfetto (in quello ideale non avremmo bisogno né di leggi né di tribunali né di indagini) ci si deve accontentare di questo. Ma in questo caso non sembra esserci nemmeno una giustizia imperfetta. L’accertamento della causa della morte è più difficile di quanto potrebbe apparire e il nodo principale è questo: c’è un nesso di causalità tra la morte e il comportamento dei sanitari? E un comportamento diverso avrebbe avuto un esito diverso? Mi pare difficile rispondere di no a quest’ultima domanda, anche se questo non significa di certo che sarebbe guarita. Ma avrebbe vissuto qualche altro giorno? E, soprattutto, ha scelto lei di morire così e di essere sedata il 9 luglio 2024? Perché non è tanto il conteggio delle ore e dei giorni, ma il rispetto della volontà di Maria Vittoria Mastella, l’unica che dovrebbe contare e che tutti hanno ignorato. Nella consulenza tecnica per la procura delle dottoresse Daniela Aldrighetti e Donatella Fedeli alcuni dettagli mi hanno colpito. Quando scrivono di morfina e di sedazione per il controllo della sofferenza c’è un assente grottesco: la volontà. E se è vero che c’è scritto che per la sedazione c’è “da valutare in base alla risposta individuale” sembra riferirsi alla risposta clinica. Poi finalmente compare il consenso, che “non significa firmare un documento, quanto far crescere la consapevolezza del malato rispetto alle sue condizioni” (sempre un velo di condiscendente paternalismo; Mastella era consapevole delle sue condizioni?). E “la decisione di iniziare la sedazione palliativa deve essere compartecipata”. Cioè? La decisione è personale, è della persona che decide di essere sedata, non è una decisione compartecipata (se non nel senso debole che ogni consenso prevede: tu sei l’esperto e mi informi, io decido; non decidi tu perché nei sai di più o perché pretendi di sapere cosa è meglio per me). Poi per fortuna c’è scritto che “è fondamentale il rispetto dei desideri del paziente”. Ma che desideri può avere una persona che non conosce la gravità della propria malattia? Verosimilmente dei desideri imprecisi, sfocati e (tragicamente) ignorati a priori. Io non so cosa avrebbe fatto e cosa voleva Maria Vittoria. Non la conoscevo e nemmeno conoscerla mi sarebbe bastato per saperlo. Non so nemmeno cosa farei io. È per questo che il consenso è così importante. Perché non possiamo essere così strafottenti da decidere per qualcun altro, senza dare a quella persona almeno la possibilità di delegare, di non sapere, di non voler decidere. Nella prima richiesta di archiviazione del 23 aprile 2025 c’è un passaggio particolarmente bizzarro (proprio in italiano): “È possibile affermare che non si sono ravvisati profili di imperizia, nonostante la mancanza di un chiaro consenso, che verosimilmente è stato desunto dai sanitari in conseguenza delle continue richieste da parte della paziente di dosaggi aggiuntiva di terapia antalgica”. Per quale ragione il consenso sarebbe dovuto essere desunto e non esplicito? Chiedere dosaggi aggiuntivi di antidolorifici non implica che io voglia essere sedata in modo profondo e irreversibile. E comunque, per quel passaggio che non è solo quantitativo (la sedazione profonda causa la “fine della via anagrafica”, come scrive il dottor Mario Riccio, che ha scritto una relazione per Merchiori, che giustamente si chiede anche perché a nessuno sia venuto in mente di farle redigere una disposizione anticipata di trattamento) serve un consenso. Se non è imperizia questa, cosa lo è? Come scrive Merchiori nella denuncia: “Se anche Maria Vittoria avesse delegato qualcuno a prestare il consenso in sua vece (con atto contenuto nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico), avrebbe comunque dovuto essere informata della sua situazione generale, di modo che la delega potesse essere consapevolmente prestata. Invece Maria Vittoria era a tal punto ignara del suo stato clinico da essere in procinto di sposarsi senza mai smettere di progettare il suo futuro”. A poche ore dalla sedazione, scrive Merchiori, Mastella scherzava, mandavi messaggi, progettava, cercava il fotografo e il bagnino per la piscina per il loro matrimonio. Il 6 luglio avevano comprato le fedi. E prima della sedazione non ha parlato o salutato nessuno, non ha spiegato, non ha firmato alcun consenso. L’inverosimile non è per forza falso, ma è certamente una circostanza temporale poco credibile. Che non sarebbe giustificabile nemmeno con un peggioramento improvviso (comunque non documentato nella cartella clinica e mai evidenziato dai sanitari). Perché sedarla in modo profondo e non temporaneo? Perché? A queste domande qualcuno dovrebbe rispondere. Migranti. Consulta e Corte di Giustizia europea hanno sferrato un duro colpo ai Cpr in Albania di Lara Tomasetta The Post Internazionale, 5 dicembre 2025 Il costituzionalista Salvatore Curreri spiega cosa è andato storto. E che fine faranno. Edi Rama, il premier dell’Albania, ogni volta che vede Giorgia Meloni si inginocchia pubblicamente. E a ben vedere tutta la storia dei Centri per migranti (ora Centri di Permanenza per il Rimpatrio, Cpr) al di là dell’Adriatico, non è difficile capirne il motivo. Ma partiamo dall’inizio. Le strutture di Shengjin e Gjader sono nate da un accordo tra i due Paesi, volto a esternalizzare la gestione dei flussi migratori, in particolare per quanto riguarda le persone intercettate in acque internazionali. L’intesa prevede che, dopo il soccorso in mare, i migranti vengano trasferiti in Albania, dove saranno sottoposti a procedure di identificazione e valutazione delle richieste di asilo, con la possibilità di essere trattenuti appunto nei Cpr. L’accordo Meloni-Rama - Il “Protocollo tra il Governo della Repubblica italiana e il Consiglio dei ministri della Repubblica di Albania per il rafforzamento della collaborazione in materia migratoria”, convalidato dalla Corte costituzionale di Tirana nel gennaio 2023 e ratificato dai Parlamenti dei due Paesi il mese successivo, prevede la cessione delle due aree situate a Shengjin e Gjader all’Italia “a titolo gratuito” per cinque anni, rinnovabili tacitamente. Le due strutture, una destinata alle procedure d’ingresso, l’altra alla permanenza in attesa della valutazione della domanda d’asilo e dell’eventuale rimpatrio, “sono gestite dalle competenti autorità della parte italiana secondo la pertinente normativa italiana ed europea”. Il protocollo interessa soltanto i migranti che saranno soccorsi in mare dalle autorità italiane, non dalle navi delle ong, e che provengono da Paesi che l’Italia considera “sicuri” in virtù dell’elenco stilato dal governo (un punto sul quale torneremo). Questi saranno trasferiti sulla nave militare Libra, dove avverrà un primo screening per dividere gli uomini adulti considerati non vulnerabili, che quindi potranno essere portati in Albania, e chi invece dovrà essere sbarcato in Italia (donne, minori, persone vulnerabili). In realtà, nei documenti di gara della prefettura di Roma ottenuti da Altreconomia si chiede al gestore del centro albanese di prevedere “progetti per la gestione del tempo libero dei minori” e “servizi di riabilitazione delle vittime di tortura o di situazioni di grave violenza” nel rispetto della “presenza di situazioni di vulnerabilità e dell’unità dei nuclei familiari”. Attualmente i centri possono trattenere solo persone sulla cui testa pende un provvedimento di espulsione, ma che già erano detenute in altri centri italiani. In futuro, le strutture potrebbero tornare a ospitare migranti salvati in mare, ma tutto dipenderà da una sentenza della Corte di giustizia europea. Che non si è ancora pronunciata. Costi elevati - Quanto ci costa tutto ciò? La spesa complessiva per il 2024 è stata aumentata a quasi 172 milioni di euro, mentre quella complessiva sui cinque anni a circa 680 milioni di euro. Questa stima è stata confermata il 16 ottobre dello stesso anno dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi: in un question time alla Camera, ha detto che la spesa prevista per i centri in Albania è di 134 milioni di euro all’anno per cinque anni. Fatta la moltiplicazione, si ottengono 670 milioni di euro complessivi. “A seconda della variabilità del funzionamento delle strutture legata all’andamento dei flussi migratori”, lo stanziamento “potrà anche rivelarsi superiore ai costi effettivi”, ha comunque sottolineato Piantedosi - Per il momento, dunque, questa cifra non corrisponde a soldi già tutti spesi ma è legata all’attuazione dell’accordo tra Italia e Albania fino al 2028. In più, per ora la stima va rivista al ribasso, visto che i costi sostenuti quest’anno sono inferiori rispetto al previsto, a causa del ritardo nell’apertura dei centri. Dalla teoria alla pratica - A ottobre e novembre 2024, per due volte, le navi della nostra Marina Militare e della Guardia di Finanza hanno trasbordato persone migranti in Albania. Ma, dopo pochi giorni, sono state costrette a riportarle in Italia su ordine dei giudici nostrani. Il motivo ruota attorno alla definizione di “Paese sicuro”. L’Italia considera sicuri anche Stati come Tunisia, Egitto e Bangladesh, da dove sono arrivati i primi migranti trasportati in Albania. Ma i giudici europei non sono d’accordo. La Corte di Giustizia dell’Ue ha sentenziato che un Paese, per essere considerato sicuro, lo debba essere in ogni parte del suo territorio e per ogni categoria di persone. Egitto e Bangladesh, ad esempio, non garantiscono i diritti degli oppositori politici di alcune minoranze, come la comunità Lgbtqia+. Ed ecco perché le persone provenienti da quei Paesi, come stabilito dai giudici italiani, sono state tutte ritrasferite dall’Albania all’Italia nell’arco di pochi giorni. Non è detto che in futuro l’Unione europea non cambi opinione sui Paesi sicuri. Una nuova sentenza è infatti attesa quest’anno e il Governo spera che sia indulgente con la lista di Paesi sicuri stilata dall’Italia, per decreto, nell’ottobre 2024. Intanto, però, Gjader è diventato l’undicesimo Cpr italiano e il primo costruito fuori dai confini nazionali. Al suo interno si trovano detenute, senza dover scontare pene, solo persone destinatarie di provvedimento di espulsione. Il verdetto di luglio - Ma veniamo ai giorni nostri. A inizio luglio, il trattenimento delle persone straniere nei Cpr italiani e nelle strutture in Albania è tornato al centro del dibattito politico e mediatico. Lo scorso 3 luglio, infatti, la Corte costituzionale ha depositato la sentenza in risposta al dubbio di costituzionalità sollevato dal Giudice di pace di Roma, che si era trovato a decidere se convalidare o meno il trattenimento di alcune persone straniere in un Cpr. In particolare, il giudice aveva chiesto alla Corte di chiarire se questo rispettasse o meno l’articolo 13 della Costituzione, che ammette restrizioni della libertà personale “nei soli casi e modi previsti dalla legge”. Nella sentenza, la Consulta ha effettivamente riscontrato che il trattenimento nei Cpr implica un “assoggettamento fisico all’altrui potere” e che i “modi” in cui avviene la limitazione della libertà personale non sono adeguatamente disciplinati dalla legge come esige la Costituzione. Eppure ha giudicato inammissibile il ricorso dicendo che “non è ad essa consentito porre rimedio al riscontrato difetto, ricadendo sul legislatore il dovere ineludibile di introdurre una normativa compiuta, la quale assicuri il rispetto dei diritti fondamentali e della dignità della persona trattenuta”. In altre parole: sui Cpr c’è un vuoto di tutela contrario alla Costituzione, ma spetta al Parlamento porre rimedio con una legge, non ai giudici. Questione di costituzionalità - Sul punto abbiamo chiesto lumi al professor Salvatore Curreri, costituzionalista e professore di diritto costituzionale all’università di Enna. “La Corte Costituzionale ha avuto il merito di porre all’attenzione del legislatore le attuali condizioni di “detenzione degli stranieri” in questi Cpr, perché certamente, sulla base della sentenza della Corte, il legislatore/Governo dovranno muoversi. Il Governo sostiene che loro avevano già in animo di intervenire. In realtà non sembrava che il governo si stesse muovendo in questo senso, ma a questo punto ci si attende un intervento sul tema”, spiega a TPI. Secondo il professor Curreri, la Corte Costituzionale avrebbe potuto fare un passo in più: “La Corte sostanzialmente dice, se mi consente una battuta, “potrei ma non voglio”. Ossia la Corte riconosce la situazione di incostituzionalità riguardante l’attuale disciplina che determina le modalità di trattenimento nei Cpr delle persone migranti, e lo fa in virtù del fatto che tale disciplina è contenuta in fonti di carattere secondario, cioè in regolamenti e poi in provvedimenti prefettizi e quindi in violazione della riserva di legge. La Corte dice chiaramente che qui si tratta di provvedimenti limitativi della libertà personale. Nel senso che nell’articolo 13 della nostra Costituzione si afferma che questi ultimi devono essere disciplinati per legge. Ecco, dopo aver detto tutto questo, dopo aver posto le premesse per un’aspettativa di dichiarazione di incostituzionalità, poi la Corte si ferma, perché dice che non può intervenire a risolvere con una sentenza questo problema perché non può sostituire all’attuale disciplina un’altra che andrebbe a colmare questo vuoto”. La palla al Governo - “A questo punto - prosegue Curreri - la Corte passa la palla al legislatore. Io personalmente mi sono permesso di criticare questa soluzione per due motivi. Il primo è che la Corte avrebbe anche potuto dichiarare la incostituzionalità, per così dire, secca di questa disposizione. Cioè non è che la Corte si deve sempre addossare il compito di sostituirsi al legislatore. Quando può certamente è opportuno che lo faccia con la sentenza sostitutiva. Per esempio anche nella sentenza sull’aiuto al suicidio in cui la Corte di fatto si è sostituita al legislatore indicando le condizioni in cui l’aiuto al suicidio non è penalmente perseguibile. Però non è che in nome della leale collaborazione la Corte si deve sempre addossare questo fardello per cui non può dichiarare incostituzionale la disposizione se non riesce a correggerla. Avrebbe potuto tranquillamente dichiarare incostituzionale la disposizione e a quel punto il Governo sarebbe stato a maggior ragione legittimato a intervenire subito con un decreto legge. Di decreti legge se ne fanno centinaia, ormai se ne fanno due o tre al mese e forse in questo caso un decreto legge sarebbe stato certamente rispondente ai presupposti di necessità d’urgenza richiesti dalla Costituzione, il Governo avrebbe potuto subito intervenire per rimediare”. Ma Curreri va avanti, “la seconda soluzione è la cosiddetta incostituzionalità prospettata. Cioè la Corte talvolta, è successo per esempio anche con l’aiuto al suicidio, dice: “Attenzione qui c’è una situazione di incostituzionalità, io non te la dichiaro subito, ti do un anno per intervenire, dopodiché se tu entro un anno non intervieni, intervengo io”. Quindi la Corte avrebbe potuto essere da questo punto di vista un po’ più attiva, un po’ più incisiva”. La sentenza europea - C’è poi il problema della cosiddetta “Esternalizzazione dei migranti”, rispetta il diritto internazionale? Su questo punto Curreri afferma che “il problema dei criteri con cui si identificano i Paesi sicuri diventa decisivo, dirimente per la procedura accelerata che viene applicata in questi casi”. Il primo agosto sul tema si è espressa la Corte di Giustizia europea. Al momento in cui scriviamo, il testo completo della decisione non è ancora disponibile ma la Corte ne ha anticipato i punti principali con un comunicato stampa e la sentenza è arrivata come un macigno sul governo Meloni. Secondo i giudici in Lussemburgo, spetta a un giudice la valutazione sui “Paesi sicuri” di origine ai quali rinviare i migranti e nell’elenco non ci può essere chi “non offra a tutta la sua popolazione una protezione sufficiente”. Una pronuncia che suona come uno stop ai centri di Shengjin e Gjader, dove le autorità italiane trasferiscono i migranti soccorsi nel Mediterraneo e provenienti da Paesi ritenuti sicuri, in attesa di giudizio accelerato sulle loro richieste d’asilo. Questa regola è decisiva nei casi in cui la domanda di protezione internazionale di un cittadino straniero viene respinta attraverso la cosiddetta “procedura accelerata di frontiera”, che si applica quando il Paese di provenienza è stato inserito in una lista di Paesi sicuri da uno Stato membro. I giudici hanno chiarito che ogni Stato dell’Ue può decidere autonomamente quali Paesi inserire in questa lista, anche con una legge, ma questa decisione non è insindacabile: deve poter essere controllata dai tribunali. Inoltre, le fonti di informazione usate per stabilire che un Paese è sicuro devono essere disponibili sia per i richiedenti asilo sia per i giudici, in modo da permettere un esame completo e una reale tutela dei diritti. La Corte di Giustizia ha precisato che, fino all’entrata in vigore del nuovo regolamento europeo sulla procedura d’asilo, prevista per il 12 giugno 2026, un Paese non può essere considerato sicuro se non lo è per tutti i suoi abitanti e in tutte le sue aree. Con il nuovo regolamento, invece, gli Stati potranno introdurre eccezioni e considerare sicuro un Paese anche solo per determinate categorie di persone, superando l’attuale requisito di sicurezza generale. La pronuncia era particolarmente attesa in Italia. Il Governo incassa il colpo, ma non arretra e si apre l’ennesimo scontro con la giustizia - stavolta europea - perché per l’esecutivo “rivendica ancora spazi che non le competono, a fronte di responsabilità politiche. Così si indeboliscono il contrasto all’immigrazione illegale di massa e la difesa dei confini”. Dal governo è poi filtrata la rassicurazione che i centri in Albania “continueranno a operare come Cpr, come già accade da alcuni mesi”. A Gjader, infatti, dallo scorso aprile, è operativo un centro che accoglie migranti trattenuti nei Cpr italiani, mentre quello per richiedenti asilo a cui si applica la procedura accelerata di frontiera - oggetto della sentenza - è oggi inattivo. Futuro incerto - Qual è il futuro di questi centri? Secondo Curreri, le strutture verranno mantenute. “Spero che il Governo faccia seguito alle promesse e decida di sanare la situazione di incostituzionalità rilevata dalla Consulta. Dopodiché, pensare di risolvere il problema dei migranti aumentando i centri di permanenza per il rimpatrio è una soluzione, secondo me, miope. I numeri ci stanno dimostrando che non è quella la strada principale, la strada sta nell’eventuale possibilità di orientarli verso la domanda di lavoro che molte imprese hanno. Il problema dell’immigrazione è un problema epocale che va risolto in maniera strutturale. Anche con il cosiddetto piano Mattei. Ma è comunque un problema che riguarda l’Europa”.