Indultino di Natale: il Governo scarica La Russa di Angela Stella L’Unità, 4 dicembre 2025 Il presidente del Senato aveva sollecitato un decreto contro il sovraffollamento, ma Mantovano frena e da via Arenula fanno sapere che la questione non è all’ordine del giorno. Serracchiani (Pd): “Da tre anni lavorate per peggiorare la situazione”. Due giorni fa il presidente del Senato Ignazio La Russa aveva sollecitato un provvedimento di clemenza contro il sovraffollamento, auspicando che per Natale ci fosse un decreto che consenta “a chi ha scontato la maggior parte della pena, di finire di scontarla dentro di sé o in un altro luogo”. Il suo precedente appello, prima dell’estate, si era infranto contro il muro alzato dal suo stesso schieramento politico, Fratelli d’Italia, insieme alla Lega. Ieri avevamo cercato di capire se ci fossero dei presupposti concreti per immaginare una tale soluzione. Fonti di via Arenula ci hanno fatto sapere che la questione non è all’ordine del giorno del Ministro Nordio. Trattandosi di un decreto ci dovrebbe essere l’ok formale della premier Meloni, ma sembra che questo non avverrà mai perché a frenare le ambizioni di La Russa ci ha pensato il sottosegretario di Stato Alfredo Mantovano che interpellato dai cronisti sulla proposta del vertice di Palazzo Madama ha risposto: “Noi come governo stiamo lavorando in modo intenso perché da qui a due anni, ma i primi risultati già ci sono, si affronti la questione del sovraffollamento carcerario. Per cui il gap esistente adesso, tra circa 53.000 disponibilità rispetto a quasi le 64.000 presenze, contiamo di colmarlo in due anni con un lavoro intenso”. Dunque nessun mini indulto per Natale. Detenuti non vi resta che rassegnarvi. A lui ha replicato immediatamente la responsabile giustizia del Pd, Debora Serracchiani: “Sono tre anni che non fate niente per il sovraffollamento delle carceri italiane. Anzi lavorate per peggiorarne le condizioni come sta accadendo per esempio negli istituti minorili”. La deputata ha aggiunto: “Sono tre anni che promettete interventi, avete fatto decreti carceri urgenti e ancora non avete fatto niente”. A proposito, si è chiesta “che fine hanno fatto i provvedimenti per consentire l’accesso alle cure in comunità per i detenuti che hanno dipendenze? E anche stavolta il problema sono i giudici, quelli di sorveglianza. Ma lo sa il sottosegretario che i magistrati di sorveglianza sono solo 233 per 64 mila detenuti e circa 190 istituti penitenziari? Chieda al ministro Nordio se sta facendo qualcosa. La risposta è semplice: niente”. Del resto “il ministro ritiene che il sovraffollamento serva come deterrente per i suicidi in carcere. Fra l’altro il sottosegretario Mantovano smentisce a sua insaputa il presidente del Senato La Russa che propone un mini indulto. Il solito gioco delle parti all’interno del Governo sulla pelle delle persone”. A proposito di opposizioni ieri hanno ribadito, nell’Aula della Camera, la richiesta di una informativa urgente del Guardasigilli sulla situazione. “Le proposte sono sul tavolo e il governo le conosce - ha ricordato il deputato di +Europa Riccardo Magi -: la liberazione anticipata speciale, il numero chiuso, le case di reinserimento sociale; ovvero, tutto ciò che potrebbe servire per mettere in atto un intervento davvero efficace. Purtroppo invece - ha proseguito il parlamentare radicale - siamo di fronte a un ministro che ogni volta che è venuto qui ha detto che è dispiaciuto, ma anche che tutto sommato il sovraffollamento è un dato anche positivo perché è un dato di prevenzione rispetto al rischio dei suicidi. Sembrerebbe una battuta ma questo è riuscito a dire il ministro della Giustizia italiano. Allora il problema non è che siamo noi che sbagliamo ministro a cui rivolgerci: è il governo che ha sbagliato ministro a cui dare a l’incarico e a cui dare le deleghe”. E infine rivolto a La Russa: “quando penserebbe il presidente del Senato di approvare in sessione di bilancio un provvedimento che consenta ai detenuti che hanno pochi mesi di pena di passare il Natale a casa? Quando pensa il presidente del Senato di inserirlo nel calendario?”. Intanto solo dopo un mese e dieci giorni dall’emanazione della circolare del Dap - con cui si obbligavano le Direzioni degli istituti penitenziari in cui siano presenti detenuti allocati in reparti di Alta Sicurezza o in regime ex art. 41 bis OP a sottoporre a preventiva approvazione della Direzione Generale Detenuti e trattamento ogni evento di carattere trattamentale che coinvolga la comunità esterna al carcere - il Ministero fa marcia indietro. Sì, Via Arenula ha già smentito che si tratti di una marcia indietro ma a noi piace leggerla così. Che cosa è successo? Dopo quel provvedimento si erano sollevate molte polemiche. Persino Giovanni Bachelet, Fiammetta Borsellino, Marisa Fiorani, Silvia Giralucci, Manlio Milani, Lucia Montanino, Maria Agnese Moro, Giovanni Ricci, Sabina Rossa, Paolo Setti Carraro avevano inviato una lettera al Ministro della Giustizia Carlo Nordio per dissentire. E adesso è stata emanata una nuova circolare in cui in pratica l’autorizzazione torna in capo ai magistrati di sorveglianza mentre al Dap spetterà un “nulla-osta”. Così commenta la presidente di Nessuno Tocchi Caino Rita Bernardini: “questa volta il Ministero ha agito nella direzione giusta, togliendo innanzitutto quella stortura che dava al Dap il potere di autorizzare. Inoltre stabilisce tempi certi e rapidi per valutare la pratica”. Tutta questa visibilità non ha allargato di un millimetro lo spazio di vita in carcere di Adriano Sofri Il Foglio, 4 dicembre 2025 I dibattiti sulla decarcerizzazione sono in proporzione inversa all’aumento della popolazione detenuta. Fu una rivelazione quando i detenuti evasero dall’invisibilità. Non scavarono più col cucchiaio una galleria sotto terra: salirono sui tetti a torso nudo o in canottiera, le donne in biancheria, inalberando cartelli improvvisati che dicevano viva la libertà e dicevano noi siamo vivi, esistiamo. Un’ascensione, un toccare il cielo con un dito. Le cose del carcere vanno da un estremo all’altro, dalla rivoluzione dell’abolizione della galera al riformismo del fornellino. È così con le case chiuse. Era un mondo di case chiuse. Vietato entrare. Vietato, severamente, rigorosamente, guardare - sbirciare. Mondi invisibili. Casini caserme manicomi fabbriche ospedali anche le università - solo le chiese erano aperte, anzi avevano almeno due uscite, se si fosse inseguiti, ora sono chiuse anche loro, per non far rubare le elemosine. Non ci sono più elemosine. La verticalizzazione si perfezionò con i letti a castello. Un piano alla volta, fino a sfregare il soffitto col naso. Fino a che un responsabile non avvertì che sarebbe crollato il pavimento. Ora c’è una magnifica visibilità. L’altro ieri a Roma, benché con Rita e Nessuno Tocchi ci fosse il patrocinio del Senato e la persona stessa del senatore presidente, a due detenuti scrittori come Alemanno e Falbo era stato vietato un permesso, ma si sono manifestati, parole e facce e corpi grazie all’animazione dell’intelligenza artificiale. Chissà come mai, 50 anni dopo la riforma penitenziaria - che rivelò che la terapia carceraria potesse essere personalizzata, come quella degli altri tumori - tutta questa visibilità, questo visibilio, non ha allargato di un millimetro lo spazio di vita di carcerati e carcerieri. Contro il feticismo della certezza della pena: la galera è un’attesa. Gozzini lasciò entrare nell’attesa la speranza. La convalescenza. Di lì a pochi anni Mario Gozzini constatava la liquidazione della sua riforma. Ne arrivarono altre, e altrettante, puntuali, liquidazioni. Anzi, di più. Ora si procede anche a circolari, firmate Sisifo. I problemi di galera sono superiori alle forze della vetrina universale. Si compiacciono dei superlativi: supercarcere, sovraffollamento… Dentro invece, diminutivi, vezzeggiativi: fra un attimino, fai domandina. (Come in ospedale, una punturina). Voglio morire - fai domandina. Voglio una donna - fai domandina. Impedire di fare l’amore è come impedire di nutrirsi. Di respirare. Del resto è quello che ha vantato un esponente del governo che si figura investito dell’autorità sui prigionieri: “Non lasciamo respirare chi è nel blindato”. Il Vaticano ha appena ribadito che la sessualità è un complemento prezioso delle relazioni umane, non una pratica di procreazione. In galera, zitti zitti, dopo solo cinquant’anni, due coppie in due carceri grazie a due giudici, hanno fatto l’amore. E altre due, in altri due carceri eccetera, si annunciano. Un giorno, fra cinquant’anni, ci metteremo una targa, completa delle iniziali degli esploratori del nuovo mondo. Qui finalmente… La proporzionalità delle pene. L’altro giorno un pm turco ha chiesto 2.532 anni per Imamoglu - innocente, ma a questi livelli innocente o colpevole chi se ne frega. La Knesset vota la pena di morte, appena un passo in più. L’ergastolo, quando i costituenti decisero di tenerlo (fra i contrari si sarebbe poi annoverato il professor Aldo Moro), e l’aspettativa di vita nel 1947 si aggirava sui 57 anni, un gran criminale di vent’anni avrebbe di fatto avuto una condanna a 37 anni. Oggi, con vita media di 83 anni e passa, l’ergastolo di un ventenne gli vale una condanna a 63 anni. Lo dico così, non perché allunghino le pene, come con le pensioni (tanto lo fanno già dalla mattina alla sera, sono allungatori di pene) ma per far considerare di quanto tempo in più dispone un reo o comunque un condannato per rieducarsi e risocializzarsi. Io sono già andato in galera in due vite, fra loro lontane, e non dispero di una terza: la prima in un reparto di politici e scabbiosi. Oggi si registra il ritorno della scabbia. Il mondo gira. (L’altro giorno ero in galera a Bologna, faceva un freddo, ero felice). Una signora piangeva. Chiedo da non so quanti mesi che mi avvicinino ai miei famigliari. Vorrei fare uno sciopero della fame, ma non ho mai avuto un rapporto, e con queste nuove regole ho paura che se digiuno mi faranno rapporto. Ci si interroga, male, sul drammatico fenomeno dei suicidi in carcere. Non bisogna chiedersi perché tanti detenuti si suicidino, ma come mai tantissimi detenuti non si suicidino. La Russa, chissà con quali intenzioni, chi se ne fotte delle intenzioni, sono sempre diaboliche, soprattutto le migliori, La Russa patrocina, come me, convegni sulla opportunità che gli aspiranti magistrati trascorrano un loro tirocinio in galera, e ora ha auspicato che chi ha un fine pena vicino lo passi a casa, dato che c’è il Natale e la Bontà, e si sono sprecati il Ferragosto e la Calura, e ha aggiunto una nota poetica, “a casa o dentro di sé”. Bene. Non succederà. Starà nel conto delle cose che ce le hanno date ma almeno gliele abbiamo dette. E del mistero della grande visibilità che continua a rendere invisibili. I dibattiti sulla decarcerizzazione sono in proporzione inversa all’aumento della popolazione detenuta. È così che va il mondo aperto. Guardare a ingrandimento Ucraina e Gaza e Cisgiordania e perfino, appena venti centimetri più in là, il Sudan e la Nigeria, non fa diminuire morti e feriti. Fa piangere, e però rallegrarsi di essere altrove. A piede libero. Come godere della propria libertà provvisoria meglio che allo spettacolo della gabbia d’altri? Il Natale carcerario di La Russa e “Scrooge” Mantovano di Maurizio Crippa Il Foglio, 4 dicembre 2025 A seguire con cura la traiettoria del ragionamento di Alfredo Mantovano, sottosegretario di Stato alla presidenza del Consiglio, verrebbe da dire che l’unico (possibile) detenuto per cui nelle patrie galere non si sia trovato un posto è stato Al Masri. Per tutti gli altri lo spazio c’è, e se non c’è - cosa ricordata anche dal sottosegretario - è solo questione di costruire nuove prigioni: “Noi stiamo lavorando in modo intenso perché si affronti la questione del sovraffollamento carcerario con un congruo incremento dei posti all’interno degli istituti di pena”. A seguire con cura la traiettoria di questa risposta a Ignazio La Russa - era a lui che stava rispondendo - viene però da pensare che non abbia sentito, o non voglia sentire. Il presidente del Senato, infatti, parlava d’altro e aveva avanzato una proposta d’altro tipo, che col gradiente di riempimento delle celle non c’entra nulla. Aveva proposto un piccolo provvedimento per Natale che permetta “a chi ha scontato la maggior parte della pena di finire di scontarla dentro di sé o in un altro luogo… facciamogli fare le vacanze di Natale a casa con i figli, con la moglie, con la mamma”. La sua era una natalizia “mozione degli affetti”. Mantovano si è infilato i panni di Scrooge e ha risposto che saranno allargati i posti in galera. Santo Natale. Carceri, le opposizioni contro Nordio: sovraffollamento, suicidi e promesse mancate nel mirino di Giulio Cavalli La Notizia, 4 dicembre 2025 Lo scontro, l’ennesimo, con il governo si consuma sulle carceri e questa volta il guardasigilli Carlo Nordio è chiamato almeno a metterci la faccia. Le opposizioni depositano una nuova richiesta di informativa urgente al ministro della Giustizia e il senso non è la forma parlamentare: è la fotografia di una crisi che non trova più un responsabile politico disposto ad assumersela. I numeri si impongono: settantadue suicidi, sovraffollamento al 137%, oltre 63.000 detenuti stipati in meno di 47.000 posti reali. È il quadro di un sistema penitenziario che ha oltrepassato la soglia di sicurezza e si avvicina all’orizzonte delle vecchie condanne europee. Le promesse mancate e la realtà che esplode - Il nodo non è solo ciò che accade nelle carceri, ma ciò che non accade nel governo. Nordio aveva promesso un’inversione di rotta: un carcere meno punitivo, più misure alternative, meno reati simbolici. Oggi il bilancio è l’opposto. Le riforme attese si sono fermate, il piano edilizio avanza tra ritardi e procedure da rifare e la task force sulle pene brevi è rimasta imprigionata nella burocrazia e nell’assenza di soluzioni abitative. Nel frattempo, i nuovi decreti sulla sicurezza hanno ampliato l’area del penale, riversando negli istituti altre migliaia di ingressi. La distanza tra la retorica garantista e le scelte di governo è diventata il cuore della crisi. Le opposizioni lo dicono apertamente: il ministro non ha più la forza di fronteggiare un’emergenza che lo ha superato. Paolo Ciani (PD) parla di una situazione “non più procrastinabile” e ricorda che “i numeri non sono compatibili con uno Stato di diritto”. Roberto Giachetti (Italia Viva) sottolinea che è “la decima volta in un mese” che si chiede un’informativa e chiede alla Presidenza se debba diventare “una sterile richiesta destinata a finire qui”. Devis Dori (AVS) affonda: “Forse stiamo sbagliando ministro. Noi le proposte le abbiamo, ma forse non vuole ascoltarle”. Riccardo Magi (+Europa) definisce “inaccettabile” che un tema così delicato “venga trattato con tanta leggerezza”. Enrica Alifano (M5S) chiede “risposte concrete per gli ultimi degli ultimi”. Federica Onori (Azione) denuncia “l’indecorosa assenza del ministro davanti a un’emergenza nazionale”. E i garanti segnalano incendi nei minorili, sezioni inagibili, tassi di autolesionismo in crescita, colloqui ridotti al minimo e condizioni che definire precarie è un eufemismo. Una maggioranza che non sa più cosa raccontare - Dentro il centrodestra la frattura è evidente. Fratelli d’Italia mantiene la linea securitaria, sostenuta dal sottosegretario Delmastro, che considera il sovraffollamento un prezzo inevitabile. La Lega presidia il terreno dell’ordine pubblico e blocca ogni ipotesi di clemenza. Forza Italia, sempre più isolata, tenta di difendere un residuo profilo garantista, apre alla liberazione anticipata speciale e guarda con favore al numero chiuso, ma ogni volta viene riportata all’ordine. Ignazio La Russa, unico con un ruolo istituzionale forte, ha parlato di un decreto entro Natale per alleggerire la pressione: un segnale che racconta più di molte dichiarazioni ufficiali. È questo il contesto che le opposizioni hanno riportato in Parlamento: un sistema al limite e una maggioranza che non trova una storia unica da raccontare sulla pena, oscillando tra la difesa dell’indurimento e la consapevolezza crescente che l’emergenza non è più governabile. Il punto politico del 3 dicembre - Non servono scontri in Aula per capire che il governo ha esaurito gli strumenti per fronteggiare la crisi. Le opposizioni non chiedono più spiegazioni: chiedono responsabilità. Se settantadue suicidi non bastano a cambiare passo, allora il problema non è tecnico ma politico. Il 3 dicembre segna esattamente questo: il momento in cui la distanza tra la retorica del governo e la realtà delle celle diventa impossibile da coprire. Se l’esecutivo continuerà a rinviare, l’intervento arriverà altrove: dai garanti, dalla giurisdizione europea o, più semplicemente, dalla cronaca. E la cronaca, quando supera la soglia della tragedia sistemica, non aspetta certo i tempi della politica. Mini-indulto di Natale, Giachetti: “Illudono i detenuti, si rischia la rivolta nelle carceri” di Matteo Pucciarelli La Repubblica, 4 dicembre 2025 “È un disegno del governo. Non fai nulla per risolvere il problema, anzi getti benzina nel fuoco, per poi intervenire col pugno duro”. Nel luglio 2024 il deputato di Italia viva Roberto Giachetti ha presentato una proposta di legge, supportata anche da Rita Bernardini, che tenta di modificare il sistema di detrazione di pena per la liberazione anticipata dei detenuti. Che è un po’ la proposta di Ignazio La Russa. “Sono incazzato nero”, dice. Per quale motivo? “Il combinato disposto della sua proposta e la smentita immediata del governo è da irresponsabili. Si illudono migliaia di persone che vivono in condizioni inumane. Prendere in giro uno per strada è un conto, ma se stai vivendo peggio di un maiale nella sua porcilaia rischi di far scattare una rivolta”. La Russa quindi ha sbagliato a lanciare la proposta? “Quando ci andai a parlare, questa estate, gli spiegai: stiamo attenti a non creare aspettative e illusioni, sarebbe drammatico. Lui è la seconda carica dello Stato, non può dire una cosa per vedere l’effetto che fa. Perché penso che se lo fai, è perché hai sentito la premier e c’è un accordo. Invece no. È assolutamente folle. Poi il fatto che venga sconfessato dal suo governo è grave, ma è ancora più grave la reazione che si può creare. Piuttosto che fare una cosa del genere meglio non fare nulla”. Pensa che si sia fatto trasportare un po’ dal caso Alemanno? “Penso ci sia un disegno del governo. Hanno creato un reparto operativo speciale della Penitenziaria dedicato alla repressione delle rivolte. Non fai nulla per risolvere il problema, anzi getti benzina nel fuoco, per poi intervenire col pugno duro. Creare cioè tensione e rispondere con ancora più repressione”. Le daranno del complottista... “Delmastro dice che gode a vedere gli arrestati che non respirano, il ministro della Giustizia sostiene che le celle piene di gente vanno bene, così si controllano meglio. Insieme a Bernardini ho denunciato Nordio, Ostellari e Delmastro: se una istituzione sa che si sta consumando una illegalità è complice di quella illegalità”. Aumentare le carceri, quindi gli spazi, come propone la destra, è una soluzione? “Questi ipotetici posti sono i famosi prefabbricati stile Albania. Avevano fatto una gara che hanno sbagliato, l’hanno dovuta rifare, avevano preventivato delle cifre errate. Non hanno fatto nulla, niente, in barba alle parole di Mattarella che in più di una occasione ha cercato di spiegare che il carcere non è una condanna alla sepoltura ma deve riportare speranza”. Il tema è che la filosofia dello sbattilo in galera e butta via la chiave sembra aver vinto... “Non solo ha vinto, ma è alimentato dai decreti sicurezza, dove si creano nuovi reati a profusione”. Si può dire che le condizioni delle carceri di un Paese sono una cartina di tornasole del Paese stesso? “Lo penso e va detto che questo è un problema che ci siamo portati dietro governo dopo governo. Nordio ora dice che la proposta di liberazione anticipata sarebbe una resa della Stato, ma è già prevista dalla legge Gozzini. Questa è tutta propaganda cattiva fatta sulla pelle di quelli che vengono considerati avanzi della società e che il popolo, fuori, non ha intenzione di difendere”. La nuova circolare Dap ora è ufficiale: nulla osta e attività con tempi certi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 dicembre 2025 Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha emesso la nuova circolare che corregge la controversa direttiva di ottobre. Il documento firmato dal direttore generale dei detenuti e del trattamento Ernesto Napolillo ridisegna le regole per l’ingresso della comunità esterna negli istituti penitenziari, recependo parte delle osservazioni presentate dall’Unione delle Camere Penali Italiane. La svolta principale riguarda la terminologia. La parola “autorizzazione” sparisce completamente, sostituita da “nulla osta”. E la circolare lo dice in modo esplicito: “ogni riferimento all’autorizzazione contenuto nella circolare del 16.07.1997 e nella nota del 21.10.20 deve sempre intendersi quale richiesta di nulla-osta da parte dell’amministrazione”. Una precisazione che mette ordine in settimane di polemiche e incertezze. Non è una sfumatura burocratica. La circolare chiarisce che il potere di autorizzazione spetta “in modo esclusivo” al magistrato di sorveglianza, come prevede l’articolo 17 dell’ordinamento penitenziario. Il nulla osta dell’amministrazione penitenziaria è altra cosa: serve a “valutare la compatibilità dei modelli organizzativi” con le esigenze di sicurezza, ma non toglie al magistrato la decisione finale. Ed è proprio su questo punto che si erano concentrate le osservazioni presentate il 21 novembre dall’Osservatorio Carcere dell’Unione delle Camere Penali Italiane. Nel documento inviato al ministero, l’Ucpi aveva chiesto di chiarire espressamente che il parere del Dap doveva avere “funzione meramente consultiva”, per evitare che un direttore di istituto, di fronte a un diniego di Roma, non inoltrasse la richiesta al magistrato di sorveglianza, “unico titolare del potere autorizzatorio”. La nuova circolare recepisce questa richiesta e va oltre. Spiega che i due procedimenti - il nulla osta amministrativo e l’autorizzazione del magistrato - “afferiscono a momenti differenti della sequenza procedimentale”. L’uno precede l’altro. Il primo risponde a “interessi collettivi e d’apparato amministrativo”, deve verificare che l’istituto abbia gli spazi e le risorse per organizzare l’evento. Il secondo deve “ponderare e valorizzare le esigenze personologiche e individuali delle scelte trattamentali”, secondo il principio di “massima espansione dei diritti”. Altro punto centrale: i tempi. Le Camere Penali avevano chiesto di “stabilire con esattezza sia il termine temporale per la trasmissione della proposta, sia il termine temporale per la conclusione del procedimento”. La nuova circolare accoglie questa richiesta in pieno. Le istanze vanno trasmesse “entro e non oltre 7 giorni prima dell’evento”. Se arrivano fuori tempo sono inammissibili. E l’amministrazione deve rispondere “al massimo entro 2 giorni lavorativi”. La circolare di ottobre aveva parlato genericamente di “congruo anticipo”, senza specificare i giorni. Ora il termine è cristallizzato: sette giorni, non uno di meno. Una scelta che tiene conto delle obiezioni dei magistrati di sorveglianza, che avevano fatto notare come cinque giorni fossero troppo pochi per valutare seriamente le proposte. Il documento chiarisce anche l’ambito di applicazione. Il nulla osta della Direzione generale serve solo “per i soli Istituti penitenziari con circuiti a gestione dipartimentale (Alta Sicurezza, Collaboratori di Giustizia, 41- bis)”. Anche se l’evento riguarda solo detenuti di media sicurezza. Negli altri istituti, dove ci sono solo detenuti di media sicurezza, le competenze restano ai provveditorati regionali. Per gli eventi che coinvolgono anche detenuti di alta sicurezza serve “la lista nominativa di tutti i detenuti allocati in alta sicurezza”. La richiesta deve indicare anche data, spazi utilizzati, durata, elenco dei partecipanti della comunità esterna e il parere della Direzione. Il documento non recepisce invece un’altra richiesta dell’Ucpi. Le Camere Penali avevano chiesto di specificare che “la competenza organizzativa e gestionale non debba mai intaccare il contenuto della offerta trattamentale esterna”. La nuova circolare mantiene sul punto la stessa formulazione di ottobre: “l’organizzazione e la gestione degli eventi dovrà sempre rimanere in capo alle Direzioni, evitando che la programmazione delle azioni e le scelte organizzative siano esternalizzate”. C’è però un’aggiunta importante. La circolare specifica che “rimangono assolutamente invariate tutte le modalità gestionali già adottate dai singoli istituti nel dialogo tra Direzioni, aree educative e comunità esterna”. E aggiunge una raccomandazione: gli istituti devono “agevolare quanto più possibile la partecipazione all’azione rieducativa dei cittadini, delle associazioni e delle istituzioni, fornendo ausilio necessario, snellendo le procedure”. La circolare chiude con un annuncio: è in arrivo “successiva lettera circolare in tema di ricognizione best practices e attività progettuali rilevanti”. Un documento che dovrebbe mappare le buone pratiche negli istituti e valorizzare i progetti che funzionano. Le proteste contro la circolare di ottobre erano state durissime. L’Osservatorio regionale della Campania, guidato dal garante Samuele Ciambriello, aveva parlato di “scelta accentratrice” che aumentava il rischio di aggravare il già tragico bilancio dei suicidi in carcere. Rita Bernardini di Nessuno Tocchi Caino aveva sollevato il caso in tutte le sedi istituzionali. Roberto Giachetti aveva presentato un’interrogazione parlamentare. Durante l’ultima riunione tra il ministero e le organizzazioni che si occupano di carcere, erano arrivate le prime rassicurazioni. Ora la nuova circolare mette nero su bianco le modifiche annunciate. Un documento che recepisce parte delle osservazioni dell’Ucpi - soprattutto sul nulla osta e sui tempi - ma che lascia aperte alcune questioni, come il rapporto tra gestione organizzativa e contenuti dei progetti. I numeri del resto dicono che il problema è strutturale. In Campania, per fare un esempio, c’è un solo educatore ogni 74,6 persone detenute, contro un agente di polizia ogni 2,08 persone detenute. Uno squilibrio che racconta dove si concentrano le risorse e le priorità dell’amministrazione penitenziaria. E la circolare di ottobre sembrava confermare questa tendenza: funzionalizzare tutti i comparti al supporto dell’attività di polizia, dimenticando che l’area educativa ha altre funzioni da svolgere per dare uno scopo risocializzante alla pena. Le modifiche rappresentano un segnale importante. L’Unione delle Camere Penali, nel documento del 21 novembre, aveva scritto che i correttivi proposti erano “davvero opportuni nell’ottica di una efficace opera trattamentale rieducativa dei detenuti, utile, unitamente ad altri elementi, a rafforzare anche l’istituto della liberazione anticipata”. Un’osservazione che lega le attività trattamentali non solo al principio costituzionale della rieducazione, ma anche a strumenti concreti come la liberazione anticipata, che può alleggerire il dramma del sovraffollamento. La vera sfida ora sarà l’applicazione pratica. La circolare c’è, il nulla osta ha sostituito l’autorizzazione, i tempi sono stati definiti con precisione. Ma sarà la pratica quotidiana negli istituti a dire se davvero le attività con la comunità esterna potranno moltiplicarsi come auspica il ministro, o se la macchina burocratica troverà altri ostacoli da frapporre. La verifica tra tre mesi, annunciata durante la riunione al ministero, servirà proprio a questo: capire se il cambio di termini si tradurrà in un vero alleggerimento delle procedure o resterà lettera morta. Per ora si registra una parziale vittoria del dialogo tra istituzioni e società civile. Le osservazioni presentate dall’Ucpi hanno trovato accoglimento su punti centrali come la distinzione tra nulla osta e autorizzazione, i tempi certi per le procedure, il riconoscimento del ruolo esclusivo del magistrato di sorveglianza. Restano aperti altri nodi, ma il confronto al ministero ha prodotto un documento diverso da quello di ottobre. Un percorso che dimostra come, anche in un sistema complesso e spesso chiuso come quello penitenziario, sia possibile correggere la rotta quando le critiche sono fondate e le proposte sono costruttive. Carcere duro non esclude colloquio straordinario con familiare anch’egli sottoposto al 41 bis di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 4 dicembre 2025 Non si tratta di presupposto o condizione di benefici penitenziari o di ammissione generale al regime dei colloqui, infatti nella vicenda la breve telefonata tra due fratelli era stata sottoposta a prescrizioni compreso l’ascolto diretto. La Cassazione penale - con la sentenza n. 38956/225 - ha respinto il ricorso del ministero della Giustizia contro l’ammissione di un detenuto sottoposto al carcere duro per reati di associazione di stampo mafioso a svolgere un colloquio telefonico con suo fratello, anch’egli ristretto in base al regime speciale dell’articolo 41 bis dell’Ordinamento penitenziario. In primis, la Cassazione ha smentito la tesi secondo cui una tale interlocuzione tra detenuti ex 41 bis sarebbe in radice vietata. Poiché in assenza di uno specifico divieto normativo, il diritto del detenuto di coltivare l’affettività familiare mediante colloqui finanche visivi può essere riconosciuto anche quando il familiare è sottoposto al medesimo regime speciale. La richiesta aveva a oggetto un unico colloquio telefonico di brevissima durata da svolgersi con le modalità previste dalla circolare del Dap 2 0ttobre 2017 n. 3676/6126 con le opportune prescrizioni, tra le quali l’ascolto diretto della conversazione. Ciò che in effetti era avvenuto. Infatti, il ricorso introdotto dal Ministero era tra l’altro carente di interesse in quanto la telefonata era stata non solo concessa, ma anche già effettuata al momento della trattazione del ricorso per cassazione. La Cassazione chiarisce comunque che l’autorizzazione e quindi la decisione del provvedimento del Tribunale di sorveglianza impugnato, si riferivano a un colloquio “straordinario” che non integra un presupposto o una condizione di accesso a benefici penitenziari (come, ad esempio, il permesso premio che si inserisce nella progressione trattamentale del detenuto) né comporta un’ammissione generale al regime dei colloqui. La decisione della Suprema corte ha quindi affermato che il Tribunale ha correttamente applicato la giurisprudenza di legittimità in ordine alla possibilità di autorizzare “in casi eccezionali” un detenuto sottoposto al regime speciale del 41 bis a intrattenere colloqui telefonici o visivi con un familiare sottoposto al medesimo regime detentivo. Il principio generale condiviso dai precedenti di legittimità in materia è stato quello di affermare che “il detenuto sottoposto a regime differenziato, ai sensi dell’art. 41 bis ord. pen., può essere autorizzato ad avere colloqui visivi con i familiari - in situazioni di impossibilità o, comunque, di gravissima difficoltà ad effettuare i colloqui in presenza - mediante forme di comunicazione audiovisiva controllabili a distanza, secondo modalità esecutive idonee ad assicurare il rispetto delle cautele imposte dal citato art. 41 bis”. Val la pena in conclusione riportare i due orientamenti espressi dalla Cassazione e riportati nella decisione in esame. 1) Secondo l’indirizzo maggioritario il principio che si deve applicare è quello per cui “la sottoposizione al regime carcerario differenziato di un detenuto non esclude, in via di principio, che lo stesso possa essere autorizzato ad avere colloqui, anche visivi, con altro detenuto sottoposto al regime dell’art. 41 bis ord. pen. legato a questo da rapporti genitoriali o familiari, mediante forme di comunicazione controllabili a distanza (come la videoconferenza), tali da consentire la coltivazione della relazione parentale e, allo stesso tempo, da impedire il compimento di comportamenti fra presenti, idonei a generare pericolo per la sicurezza interna dell’istituto o per quella pubblica”. 2) Mentre la sezione I della Cassazione penale con la sentenza n. 29007/2021 ha affermato che nel caso in cui entrambi i soggetti siano sottoposti a regime differenziato, il principio generale, pure condiviso, “non può trovare applicazione nei casi in cui il colloquio - che si chiede di attuare - avviene con altro soggetto, al pari ristretto nella medesima forma”. Con l’odierna sentenza viene ricordato che questa isolata interpretazione restrittiva non può essere condivisa. In assenza di uno specifico divieto normativo, e anche considerata l’evoluzione tecnologica per cui gli attuali sistemi di comunicazione danno adeguate garanzie di controllo la pressoché unanime giurisprudenza sul punto ha correttamente individuato il punto di equilibrio tra le esigenze di sicurezza dell’ordinamento e il rispetto dei diritti costituzionalmente e convenzionalmente protetti del detenuto formulando lo specifico principio di diritto per cui “in tema di regime penitenziario differenziato di cui all’art. 41-bis legge 26 luglio 1975, n. 354, il diritto di coltivare, mediante colloqui visivi, l’affettività familiare inerisce al nucleo essenziale dei diritti del detenuto, sicché può essere riconosciuto pur quando il familiare che si vuole incontrare è, anch’egli, sottoposto al regime speciale, dovendosi tuttavia operare un giudizio di bilanciamento, in concreto, tra le esigenze di affettività del soggetto ristretto e quelle di sicurezza pubblica, le quali, laddove ritenute prevalenti, non consentono di soddisfare tale diritto, nemmeno con l’impiego di strumenti audiovisivi”. In conclusione, il colloquio sarà legittimamente effettuabile solo se la valutazione della magistratura di sorveglianza trova il punto d’equilibrio tra esigenze individuali e di sicurezza pubblica. Lazio. Avviso pubblico per finanziare i Caf negli istituti penitenziari garantedetenutilazio.it, 4 dicembre 2025 Finanziamento di 50 mila euro per offrire servizi di consulenza fiscale, previdenziale e sociale. Le domande potranno essere presentate entro il 15 dicembre. È sul Bollettino ufficiale della Regione Lazio di oggi (n. 100, Supplemento n. 1 del 4 dicembre 2025), la determinazione della Direzione personale, enti locali e sicurezza “L.R. 8 giugno 2007, n. 7 - Deliberazione di Giunta regionale 24 luglio 2025, n. 644. Approvazione dell’Avviso Pubblico ‘Costruire futuro: Interventi di supporto previdenziale e socio-assistenziale per detenuti nel Lazio’”, con cui la Regione intende finanziare, con un budget di 50 mila euro, progetti finalizzati a offrire servizi informativi, di orientamento, assistenza fiscale e supporto alle prestazioni previdenziali e socio-assistenziali alla popolazione detenuta. Possono presentare domanda le istituzioni sociali private che svolgono attività di supporto ai detenuti e che devono sviluppare proposte in almeno due istituti penitenziari della regione. La domanda deve essere inviata tramite Pec entro le ore 14:00 del 15 dicembre 2025. Le organizzazioni interessate possono presentare domanda di partecipazione seguendo le modalità indicate nell’avviso, che specifica anche i criteri di valutazione dei progetti. La procedura prevede inoltre la nomina di una commissione dedicata alla valutazione delle richieste, che si svolgerà al termine del periodo di presentazione. L’avviso pubblicato sul BurL di oggi giunge a poco più di un anno dall’approvazione dell’ordine del giorno approvato all’unanimità durante la seduta del Consiglio regionale del Lazio dell’11 novembre 2024. Presentato dal consigliere regionale Claudio Marotta, seguendo le raccomandazioni del Garante Anastasia, l’ordine del giorno impegnava la Giunta della Regione Lazio a “promuovere un piano regionale per il rafforzamento della presenza di Patronati e Caf all’interno degli istituti penitenziari del Lazio, al fine di garantire l’accesso alle prestazioni socio-assistenziali e previdenziali per la popolazione detenuta”. Messina. Detenuto muore durante la corsa verso l’ospedale: aperta un’inchiesta Gazzetta del Sud, 4 dicembre 2025 Si era sentito male fin dai primi giorni del suo ingresso in carcere Nunzio Filiberto, 53 anni, detenuto della casa circondariale di Gazzi, deceduto lo scorso 1 dicembre dopo essere stato colto da un malore. È morto durante il trasporto d’urgenza in ambulanza verso il pronto soccorso. La moglie, attraverso gli avvocati Rosaria Chillè e Giuseppe Bonavita, ha presentato una denuncia in Procura chiedendo di verificare l’esistenza di eventuali responsabilità. Sulla vicenda la sostituta procuratrice Liliana Todaro ha aperto un’inchiesta contro ignoti, con l’ipotesi di omicidio colposo, e ha disposto l’autopsia. Per oggi pomeriggio è stato fissato il conferimento dell’incarico al medico legale Alessio Asmundo. Nella denuncia la moglie di Filiberto ripercorre l’ultimo mese di vita dell’uomo: poco prima dell’arresto l’uomo era stato colto da un malore e trasportato al Policlinico. Dopo l’arresto - come ricostruito nella denuncia - le sue condizioni di salute critiche avevano imposto il ricovero al Policlinico avendo avuto due infarti per i quali era stato necessario un intervento chirurgico. Poco tempo dopo veniva dimesso ed era tornato in carcere ma le sue condizioni non erano migliorate, l’uomo continuava a stare male. La moglie racconta di aver visto il marito durante i colloqui del 28 e del 30 novembre scorso e di aver constatato “lo stato di grave sofferenza del marito” che però l’avrebbe rassicurata dicendole che nel pomeriggio sarebbe stato visitato da un medico. L’1 dicembre l’epilogo con il malore e la corsa in ambulanza verso il pronto soccorso. Avellino. Detenuto morto nel sonno in carcere: eseguita l’autopsia di Gianni Vigoroso ottopagine.it, 4 dicembre 2025 L’esame autoptico avrebbe escluso cause violenti ma si attendono ora i risultati dei prelievi effettuati. È stata eseguita in serata nell’obitorio dell’ospedale Frangipane-Bellizzi di Ariano Irpino l’autopsia sul corpo del detenuto 34enne nativo di Maddaloni e residente a Caivano rinvenuto cadavere nel suo letto all’interno di una cella del carcere Pasquale Campanello, lo scorso giovedì 27 novembre. Ad eseguirla su incarico della procura di Benevento, il medico legale Giovanni Zotti. Un infarto durante il sonno che sarebbe risultato fatale per il 34enne. L’esame autoptico avrebbe escluso la morte violenta ma si attendono ora i risultati dei prelievi effettuati. Quando giunsero in soccorso i sanitari del 118 allertati dalla centrale operativa di Avellino, non c’era ormai più nulla da fare. Torino. Sabato in carcere i primi due colloqui intimi tra detenuti di Caterina Stamin La Stampa, 4 dicembre 2025 La camera è all’interno del Padiglione E al Lorusso e Cotugno dove si potrà incontrare il proprio coniuge, il convivente o il partner con cui si è uniti civilmente. L’amore, anche in carcere, è possibile. Apre le porte sabato la prima stanza dei colloqui intimi, la camera all’interno del “Padiglione E” dove i detenuti potranno incontrare il proprio coniuge, il convivente o il partner con cui si è unito civilmente. Ci sono già i primi due prenotati: un uomo di 41 anni, che deve scontare una pena per una rapina, e un altro di 46, nel penitenziario per aver violato la legge in materia di stupefacenti. Saranno i primi anche a sperimentare le rigide regole della “stanza dell’amore”, a partire dall’orario: il primo si è prenotato alle 9, l’altro alle 12.45, e non sono ammessi ritardi. Le regole da rispettare - I loro familiari devono presentarsi almeno 40 minuti prima del colloquio e portare da casa la biancheria: il coprimaterasso, le lenzuola e gli asciugamani. Nient’altro è ammesso. Tutti gli incontri dureranno un’ora e avverranno nell’intimità, senza il controllo visivo della polizia penitenziaria. Ogni detenuto potrà chiedere un solo colloquio intimo al mese e non sarà possibile convertire i colloqui straordinari in incontri nella stanza dell’affettività. Com’è fatta la stanza e chi può usarla - La camera, dotata di un sistema d’allarme, è come una stanza d’albergo. Ha un letto, un bagno e vige il divieto di fumo. È grande quindici metri quadri e sarà bonificata prima e dopo ogni incontro, dal personale della polizia penitenziaria. Sarà a disposizione dei detenuti di tutto il distretto di Piemonte e Valle d’Aosta, con delle esclusioni. Non possono avanzare la richiesta di colloqui intimi i detenuti che stanno scontando la pena in regime di 41 bis. E poi ancora: quelli in isolamento sanitario o chi, durante la detenzione, è stato sorpreso a possedere telefoni o droghe, o ha partecipato a disordini: tutti questi dovranno essere “rivalutati” dopo quattro o sei mesi dai fatti in questione. E le donne? A loro la stanza sarà aperta, anche se nell’istituto ci sarebbe già l’idea di realizzarne un’altra nell’area a loro riservata. Criteri di priorità - Per quanto riguarda la priorità di utilizzo della stanza, avrà la precedenza chi non beneficia di permessi premio, che consentano di coltivare i rapporti affettivi all’esterno, e chiaramente sarà “preferito” anche chi - a parità di condizioni - deve espiare pene più lunghe ed è ristretto in carcere da più tempo. Critiche dei sindacati della Penitenziaria - Per giuristi e anche per i garanti la stanza è una conquista attesa da tempo. Non è così, invece, per diverse frange della polizia penitenziaria. È critico il segretario nazionale del sindacato Osapp, Leo Beneduci: “L’avvio della stanza dell’amore lascia ancora una volta irrisolti i veri problemi della questione”. E spiega: “Non si tratta esclusivamente del ruolo e delle funzioni del personale di polizia penitenziaria, che vi sarà addetto e che a Torino è già in numero gravemente insufficiente per prevenire suicidi, autolesionismi, risse e danneggiamenti tra i reclusi e che comunque vi sarà impegnato in misura consistente, nonostante che tutto poteva risolversi attraverso la concessione di permessi premio esterni”. Ma per il sindacato la criticità è anche nel senso dell’iniziativa: “L’irrisorietà dell’iniziativa riguarda il fatto che anche il poter fare l’amore all’interno delle carceri doveva avere finalità rieducative, come richiesto dalla nostra Costituzione, ovvero rivolte al fattivo reinserimento sociale dei ristretti, come invece non risulterebbe”. Sesso in carcere - Lo stesso sostiene il sindacato Sappe: “Il sesso in carcere è una previsione inutile e demagogica, anche in termini di sicurezza stessa del sistema - dichiara il segretario generale Donato Capece - Si introduca piuttosto il principio di favorire il ricorso alla concessione di permessi premio a quei detenuti che in carcere si comportano bene, che non si rendono protagonisti di eventi critici durante la detenzione e che lavorano e seguano percorsi concreti di rieducazione. E allora, una volta fuori, potranno esprimere l’affettività come meglio credono”. Milano. Più di 1.200 detenuti, pochi medici, aule andate a fuoco. Così San Vittore scoppia milanotoday.it, 4 dicembre 2025 Il sovraffollamento nel carcere milanese di San Vittore è ormai intorno al 200%. Significa che i reclusi sono circa il doppio della capienza teorica. Lo ha detto Maria Pitaniello, direttrice della struttura, alla sottocommissione carceri di Palazzo Marino, mercoledì mattina. La direttrice ha snocciolato altri dati: 1.203 persone recluse, di cui 1.114 uomini, 83 donne e 6 madri con bambini all’Icam, la struttura separata pensata proprio per accogliere le detenute madri. Gli agenti effettivamente presenti a San Vittore sono invece 420, rispetti ai 505 previsti e ai 553 assegnati realmente. Questo per via dei distacchi e degli incarichi esterni. Pochi medici - Alessandro Giungi, vice presidente della sottocommissione, ha invece evidenziato la continua carenza di medici e infermieri, con la conseguenza che, per i detenuti, farsi visitar è sempre molto difficile. La direttrice ha confermato che “ci sono margini di miglioramento” e ha ipotizzato il potenziamento della telemedicina. Aule danneggiate da un incendio - Infine, criticità per le aule scolastiche, che sono state danneggiate da un incendio a ottobre. La direttrice ha spiegato che stanno arrivando i preventivi per i lavori, mentre il provveditorato regionale ha chiesto un finanziamento per l’intervento. Parma. “In via Burla si arriverà a 840 detenuti”, la denuncia della Camera Penale parmatoday.it, 4 dicembre 2025 “L’incremento aggraverà drasticamente le condizioni di vita”. “Occorre investire nella qualità della vita detentiva, nel personale penitenziario e trattamentale, nella formazione e nel sostegno a percorsi che diano alla pena un senso costituzionalmente orientato”. “La Camera Penale esprime forte preoccupazione - si legge in una nota - per la situazione di perdurante sovraffollamento degli istituti penitenziari, che si aggraverà con l’annunciato incremento dei posti detentivi. Condividiamo e rilanciamo con urgenza gli allarmi lanciati ieri, 2 dicembre, dal Garante regionale della Emilia-Romagna che ha dato notizia di un ampliamento del numero dei posti letto del nuovo padiglione del carcere di Parma, per il tramite dell’installazione di letti a castello, con un aumento complessivo di 65 nuovi posti letto ed il raggiungimento del numero totale di 840 detenuti. “Al centro di ogni ragionamento sul carcere deve restare la persona detenuta, con la sua dignità e la sua storia. Ogni cella sovraffollata non rappresenta solo un problema logistico, ma un fallimento umano e istituzionale: significa limitare l’accesso a trattamenti sanitari adeguati, compromettere il diritto allo studio e al lavoro, indebolire i percorsi di reinserimento e aggravare le condizioni psicologiche già fragili di chi vive la detenzione. La sofferenza di chi è ristretto non può essere normalizzata né derubricata a mero dato numerico. Ribadiamo che il sovraffollamento non è soltanto una questione di posti letto, ma un fenomeno intimamente connesso a scelte politiche, culturali e legislative che troppo spesso concepiscono il carcere come risposta ordinaria a problematiche sociali complesse. La costruzione o la riapertura di reparti non può sostituire riforme coraggiose in materia di misure alternative, giustizia riparativa, cura delle dipendenze e tutela della salute mentale. L’incremento del numero di detenuti - specie se gestito senza l’effettiva creazione di nuovi spazi o senza un adeguato potenziamento dei servizi - aggrava drasticamente le condizioni di vita all’interno delle carceri. Una detenzione in spazi affollati e inadeguati mina la dignità umana dei detenuti, compromette la salute fisica e psichica, ostacola l’accesso all’assistenza sanitaria, all’educazione, al lavoro, e rende illusori i percorsi di recupero. Il carcere non può essere pensato come un contenitore numerico: è necessario che resti uno strumento di giustizia orientato alla persona - come previsto dalla Legge penitenziaria - e non un mero magazzino di corpi. La Camera Penale richiama l’attenzione delle istituzioni sull’urgenza di un cambio di paradigma: il carcere deve essere extrema ratio, non la soluzione prevalente. Occorre investire nella qualità della vita detentiva, nel personale penitenziario e trattamentale, nella formazione e nel sostegno a percorsi che diano alla pena un senso costituzionalmente orientato e realmente rieducativo. Non si tratta solo di ampliare strutture, ma di riconoscere l’umanità di chi vi abita e di chi vi lavora. Un sistema penitenziario più umano è una società più sicura, più giusta e più consapevole. La Camera Penale continuerà a vigilare, a denunciare le criticità e a promuovere un dibattito serio e rispettoso della dignità di ogni individuo, dentro e fuori le mura del carcere”. Airola (Bn). Garante dei detenuti in visita all’Ipm: “Ascoltare gli adolescenti o cresce il rischio” ansa.it, 4 dicembre 2025 Ieri visitato il Carcere Minorile di Airola (Benevento), che ospita 24 ragazzi, dei quali due svolgono attività lavorativa all’esterno. Gli educatori che operano nella struttura sono quattro. Il Garante è stato accompagnato nella visita dalla nuova direttrice Giulia Magliulo, che proviene dalle esperienze delle carceri per adulti e dal comandante del carcere Antonio Sgambati. “I lavori di ristrutturazione del carcere, seppur iniziati da tempo, sono in fase preliminare - si spiega in una nota - a breve il campo, la palestra e la chiesa non saranno utilizzabili, la stessa mensa sarà sdoppiata. Durante i lavori rimarranno 18 giovani detenuti in un solo reparto”. “Ho incontrato storie di vita precarie, giovani provenienti da famiglie disgregate, senza un sistema di istruzione, giovani che non avevano mai partecipato ad alcuna rete educativa territoriale - racconta Ciambriello - L’adolescenza è un’età di identità in costruzione; se i bisogni di ascolto, educazione e guida vengono ignorati, il rischio di scelte drammatiche cresce. Serve una scossa, servono progetti che insegnino alternative concrete alla giustizia ‘fai-da-te’. Nel dibattito con loro, in seguito alla proiezione di un corto cinematografico sugli adolescenti, ho visto come vivano d’istinti e d’istanti: la ragione è ovvero spesso offuscata - anche nelle scelte violente - dall’istinto, vogliono tutto e subito”. “I numeri nazionali sui minori a rischio, sui maltrattamenti subiti, sugli abusi sessuali sui minori, le loro scomparse, la loro presa in carico dai servizi sociali, sono sotto gli occhi di tutti. La situazione è molto critica, manca un piano nazionale per l’infanzia, un’azione politica che impedisca che un disagio non accolto si trasformi in devianza e poi microcriminalità. Serve una scossa”, conclude il Garante Campano. Venezia. “Rapsodie di colori”, la mostra di opere dei detenuti di Santa Maria Maggiore comune.venezia.it, 4 dicembre 2025 Da martedì 9 a sabato 13 dicembre la Sala San Leonardo ospita la mostra “Rapsodie di colori”, che raccoglie le opere frutto del progetto educativo “Fare arte insieme”. Sviluppata nella casa circondariale di Santa Maria Maggiore di Venezia, l’iniziativa era rivolta all’insegnamento della tecnica del disegno ai detenuti, per motivare e gratificare la loro creatività. Saranno esposti disegni e dipinti. Case colorate, le cui calde sagome si vedono a distanza di miglia dal mare sotto l’immensità di un cielo illuminato dal caldo sole; gabbiani, ordinatamente posati su briccole allineate, ammirano la creazione; alberi illuminati con sfondi a fuoco come tramonti, che ogni sera ritornano per ridonare speranze perdute; fiori che trasbordano voglia di vivere col loro profumo intenso unito al colore, rammentano come i sentimenti non appassiscono; questo itinerario narrativo di colori su tela ti aiuti ad entrare con emozione nei corpi di detenuti fino ad immedesimarti e lasciarti interrogare e, chissà, dal disagio insolito della proposta, rileggere le zone d’ombra che ognuno di noi porta con sé, affinché possano essere illuminate e riscritte in nuovi racconti, che sono le nostre stesse esistenze. La mostra, che rientra nel palinsesto de “Le Città in Festa”, sarà aperta tutti i giorni con orario 10-17. Roma. “Le cose che non possiamo dimenticare”: in mostra le storie di Rebibbia La Repubblica, 4 dicembre 2025 La grande installazione luminosa di Angelo Bonello racconta il “dentro” e il “fuori” dell’istituto penitenziario, dal 12 al 14 dicembre nella stazione del metro di Rebibbia. Cos’è che non potrai mai dimenticare? Da questa domanda prende avvio il lavoro sulla memoria che ha coinvolto un gruppo di detenuti dell’Istituto Penitenziario Rebibbia di Roma ed ex detenute, in un laboratorio creativo e partecipativo guidato dall’artista visivo Angelo Bonello e dal fotografo Guido Gazzilli. Come restituire voce e umanità a chi fa l’esperienza del carcere. “Le cose che non possiamo dimenticare”, prodotto da Artificio Italiano Srl, è un progetto che restituisce voce e umanità a chi vive in carcere e che, dal 12 al 14 dicembre, trasformerà l’ingresso della Metro Rebibbia in un punto di contatto tra città e carcere, attraverso incontri, lettiure, esibizioni musicali, mostre e installazioni audiovisive. Il progetto, promosso da Roma Capitale - Assessorato alla Cultura, è vincitore dell’Avviso Pubblico Artes et Iubilaeum - 2025, finanziato dall’Unione Europea Next Generation EU per grandi eventi turistici nell’ambito del PNRR sulla misura M1C3 - Investimento 4.3 - Caput Mundi - ed è realizzato in collaborazione con SIAE. Un’apparizione inattese nella stazione della metro. Cuore del progetto è l’opera audiovisiva monumentale di arte sociale di Angelo Bonello, tra i pionieri internazionali della Light Art Urbana: una grande croce LED alta sei metri che si accende all’ingresso della Metro Rebibbia come un’apparizione inattesa. Non è un simbolo religioso, ma una presenza viva nello spazio pubblico, capace di mettere in relazione il carcere e la città. L’immersione empatica nella realtà del penitenziario. L’opera nasce da un lavoro corale in cui l’artista e il team hanno scelto di immergersi con empatia nella realtà di Rebibbia, lasciandosi attraversare dalle storie dei detenuti. Le loro voci diventano immagini e parole che abitano la superficie della croce: volti, frammenti di memoria, mancanze e speranze restituiti alla comunità. Ogni testimonianza si fa domanda aperta per chi passa: che cosa non potremo mai dimenticare della nostra vita? e che cosa non dovremmo mai dimenticare, come società? L’installazione trasforma così uno snodo urbano in un luogo di ascolto e confronto intimo, dove chi guarda entra in dialogo con chi vive “oltre le mura”. La comunicazione tra il dentro e il fuori. L’artista e direttore artistico Angelo Bonello aggiunge: “Questa croce non è un monumento alla fede, ma un varco aperto nello spazio urbano che mette in comunicazione il dentro e il fuori del carcere di Rebibbia. Sulle sue superfici scorrono volti e parole che non chiedono indulgenza, ma solo ascolto, un taglio stretto nell’oscurità, attraverso cui i detenuti osservano il mondo e attraverso cui il mondo osserva loro. È uno scambio simmetrico in cui chi guarda è guardato, un invito a capire che una società si rivela da come osserva chi ha sbagliato e che a volte basta uno sguardo per ritrovare l’umano.” Uno sguardo dalla soglia del carcere. Il fotografo Guido Gazzilli ha selezionato alcune immagini dal proprio archivio fotografico trasformandole in un corpus di opere corali, intime e potenti. I lavori, che saranno esposti in formato poster alla Metro Rebibbia, restituiscono alla città uno sguardo dalla soglia del carcere, mettendo in luce il talento e la sensibilità dei detenuti coinvolti nel progetto. Il percorso è stato possibile grazie al coordinamento di Guido Pietro Airoldi, il supporto della psicologa a psicoterapeuta Maria Daria Giri e dell’educatrice penitenziaria Giuseppina Boi oltre alla partecipazione delle assistenti creative Vittoria Cattozzi e Petra Bonello. Lucca. Lions Host in aiuto dei detenuti di Laura Sartini La Nazione, 4 dicembre 2025 Il Lions Club Lucca Host, sensibile alle iniziative benefiche verso i detenuti, ha deliberato di offrire un Service dell’annata, in favore dei soggetti ristretti presso la Casa Circondariale San Giorgio. La Direttrice della Casa Circondariale, Dott.ssa Santina Savoca, previa richiesta di autorizzazione al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, ha infatti rappresentato la difficoltà per alcuni detenuti a contattare telefonicamente i propri più cari affetti, come sarebbe invece utile nell’ottica di garantire l’umanità della pena e un suo carattere non desocializzante. Per questo il Lions Club Lucca Host ha ritenuto quindi di stanziare una somma di denaro e di affidarla fiduciariamente al Cappellano dell’Istituto, affinché quest’ultimo possa fornire di volta in volta ai singoli detenuti l’importo necessario a ricaricare le schede telefoniche, che dal centralino del carcere consentono loro di chiamare le proprie famiglie. La consegna della somma di denaro, a nome del Lions Club Lucca Host, è avvenuta martedì scorso nelle mani della Direttrice della Casa Circondariale e del Cappellano Don Simone. Erano presenti la Presidente di Club, Cinzia Anna Cecchini, la promotrice del service Carmela Piemontese, la Responsabile Service del Club, Maria Gloria Montinari e gli officer di Club, Maria Carla Giambastiani e Massimo Saponaro. I soci Lions hanno, con l’occasione, potuto incontrare anche i carcerati e illustrare loro il service realizzato. Un film per il figlio della ‘ndrangheta che non voleva uccidere di Angela Calvini Avvenire, 4 dicembre 2025 Nelle sale “Ammazzare stanca” di Daniele Vicari dall’autobiografia di Antonio Zagari. Grande protagonista Gabriel Montesi: “Un viaggio tra bene e male”. “Di che pasta sei impastato tu? C’è chi nasce pecora e chi nasce lupo”. L’eco di questa frase, centrale in “Ammazzare stanca-Autobiografia di un assassino”, riecheggia come un marchio addosso ai figli della ‘ndrangheta. Ma Daniele Vicari, nel film presentato alla 82ª Mostra di Venezia (prodotto da Piergiorgio Bellocchio e Manetti bros.) in sala dal 4 dicembre con 01 Distribution, ci ricorda che la realtà non si lascia rinchiudere in una formula brutale. La storia vera di Antonio Zagari, da cui nasce l’omonimo libro pubblicato negli anni 90 e oggi riproposto da Aliberti, racconta infatti di un ragazzo cresciuto nell’ombra della malavita che a un certo punto scopre di non essere fatto “di quella pasta lì”. Siamo nella metà degli anni Settanta, nel Varesotto. Famiglia calabrese trapiantata a Buguggiate, legami pesanti con i boss della piana di Gioia Tauro. Antonio, figlio del severissimo Giacomo, esegue ordini, partecipa a omicidi, rapine, sequestri. Eppure qualcosa in lui non regge. Il corpo si ribella, letteralmente: nausea, vomito, tremori. Per Antonio “uccidere è fisicamente insostenibile”. Finirà in carcere poco più che ventenne e lì troverà la sua unica via d’uscita: la scrittura. Nel manoscritto affidato al giornalista Gianni Spartà - che a Venezia ha ricordato che “Zagari si pensava scrittore, forse anche attore. Leggeva Manzoni e Pavese, e aveva sedici omicidi sulla coscienza” - Antonio prova a raccontare la propria verità, e forse a salvarsi. Diverrà collaboratore di giustizia nel 1990 assieme a Saverio Morabito e grazie alle sue deposizioni nel 1994 vengono condannati (tra cui lui stesso) al carcere 42 affiliati alle cosche. Poco dopo scatta l’operazione Isola Felice che porta a 114 arresti tra Calabria e Lombardia. Zagari muore nel 2004 per un incidente in moto avvenuto nella località protetta dove viveva. Vicari si concentra sul momento della svolta interiore del giovane Antonio e costruisce un film che si muove tra pulp, ironia e dramma, tra accento lombardo e dialetto calabrese, senza indulgere al già visto. Molto fa il cast: Selene Caramazza, luce liberante nei panni della amata Angela; Vinicio Marchioni, feroce padre-boss; un sorprendente Rocco Papaleo come don Peppino Pesce. Ma il cuore del film è il bravissimo Gabriel Montesi. Il suo Antonio è un ragazzo che si sgretola dall’interno, e Montesi lo interpreta con una misura che colpisce. “Quando ho letto la sceneggiatura non sapevo che fosse una storia vera” racconta ad Avvenire. “Poi ho scoperto Zagari, questa persona che lascia sulla carta una quantità impressionante di parole piene di verità. Era impossibile non approfondirlo”. Un assassino che si sente morire ogni volta che uccide. Montesi ha studiato a fondo la vicenda giudiziaria, il memoriale-autobiografia e le poche immagini rimaste di Zagari. “Nei video aveva quei baffi che gli coprivano un po’ la bocca, come se volessero nasconderlo. Mi chiedevo: cosa c’è dietro?”. Da quel dettaglio nasce una maschera, ma subito l’attore la scava da dentro: “Ho creato un viaggio psicologico. Ho trovato un assassino che si sente male ogni volta che uccide. Dentro di lui convivono il mostro e l’umano, il bene e il male”. La ribellione di Zagari, spiega Montesi, non è un gesto eroico: è un impulso fisico, primordiale. “Era il malessere del corpo a parlare. Il vomito, il sangue che non sopportava più. È da lì che nasce il suo desiderio di fuga, prima ancora che dalla coscienza”. Per l’attore è stato chiaro fin dall’inizio che il punto non era la criminalità, ma la persona: “Ho dato precedenza all’uomo Antonio. Mi sono chiesto: quante persone devono fare cose che non vogliono fare e si sentono morire dentro?”. Il film incrocia la vicenda di Zagari con l’Italia degli anni Settanta: i movimenti studenteschi, le fabbriche del Varesotto, la generazione che cerca di cambiare il mondo mentre Antonio cerca di salvarsi dal proprio. In casa Zagari, però, incombe un’altra lotta, quella tra padri e figli. “I giovani nati al Nord si sentono diversi” osserva Montesi. “I padri non riescono a integrarsi nel presente. Nasce l’incomunicabilità. Antonio non è accettato dal padre e non è capito”. In un’epoca in cui le serie e il cinema rischiano di romanticizzare il crimine, Ammazzare stanca sceglie un’altra strada. “C’è sempre una cultura gangsteristica che attrae e diventa brama di potere” riflette Montesi. “Ma questo film è diverso. Mette al centro l’umano e non rende eroiche queste figure: sono antieroi vittime di se stessi e del contesto. È uno sguardo soggettivo, quasi una confessione”. Una linea che Vicari mantiene anche nella regia, alternando tensione e scarti ironici che arrivano dalla scrittura di Zagari stesso, cruda e sferzante. A soli 33 anni, Montesi - formatosi alla Scuola Gian Maria Volonté - è già volto centrale del cinema d’autore italiano: dai Fratelli D’Innocenzo (Dostoevskij e Favolacce) a Virzì, da Bellocchio (Esterno notte dove interpreta il brigatista Valerio Morucci) ad Amelio (Campo di battaglia). “Ogni personaggio che interpreto ha un punto in comune” confessa. “Cerco sempre la disperazione umana. Qualcosa che riesca a trasmettere la fragilità delle persone. Quando questo dialogo arriva al pubblico, nasce il cinema umano”. Zagari gli lascia un segno profondo: la consapevolezza che a volte la libertà è un atto minuscolo, quasi impercettibile, che resiste al destino scritto da altri. “Zagari è uno che a un certo punto sceglie” conclude Montesi. “E scegliere, dentro un ordine patriarcale e criminale, è quasi impossibile. Eppure lui lo fa. Non per coraggio, ma perché non riesce più a digerire quel mondo. E vuole rifarsi una vita”. Una vita che non ha avuto il tempo di vivere davvero. Ma che in questo film, finalmente, riesce a raccontare. Liberi dalla mafia: le storie dei bambini che hanno avuto una seconda possibilità di Paolo Ferrario Avvenire, 4 dicembre 2025 “Save the Children” premia Faustino Rizzo dell’Università di Padova, che ha svolto una tesi di dottorato sull’iniziativa finanziata dalla Cei per dare una chance ai minori e alle donne che vivono in contesti malavitosi. Affrancarsi dalla mafia si può e lo dimostrano le decine di famiglie che hanno preso parte al progetto “Liberi di scegliere”, nato nel 2012 su intuizione dell’ex-presidente del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, Roberto Di Bella. Su questo progetto, finanziato con i fondi dell’8 per mille della Chiesa cattolica, ha svolto la tesi di dottorato Faustino Rizzo, ricercatore nel Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia applicata dell’Università degli Studi di Padova, tra i vincitori della prima edizione del premio Save the children per la ricerca, assegnato a Milano. Con questa iniziativa, Save the children vuole valorizzare la conoscenza scientifica sull’infanzia e l’adolescenza come leva per promuovere i diritti di bambini, bambine e adolescenti. Anche (e soprattutto) in contesti difficili come quelli segnati da una forte pressione dei clan mafiosi. Per dare una seconda possibilità ai bambini e alle donne costretti a vivere in contesti malavitosi, “Liberi di scegliere” rappresenta una nuova modalità di sostegno di queste famiglie. Nel periodo compreso tra il 2012 e il 2020, nel distretto del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria sono stati presi in carico, a partire dall’intervento dell’Autorità giudiziaria, 31 nuclei per un totale di 57 bambini e bambine. Alcune delle loro storie sono state studiate da Faustino Rizzo che, da questa esperienza, ha anche tratto il libro “Il lavoro socioeducativo nei contesti mafiosi”, uscito nelle scorse settimane per Carocci editore. “Attraverso lo studio del progetto “Liberi di scegliere” - spiega il ricercatore dell’Università di Padova - è stato possibile definire il concetto di “vulnerabilità mafiosa” per descrivere la particolare condizione in cui vivono questi bambini e ragazzi. Secondo questo approccio, la mafia è una questione sociale, da affrontare attraverso una diversa organizzazione dei servizi sociali, in modo da rendere visibili questi bambini e le loro famiglie, spesso non visti dalle istituzioni e dalla società”. La “buona intuizione” nata con Liberi di scegliere ha portato all’introduzione della vulnerabilità mafiosa nel Leps Pippi, facendola diventare una delle chiavi di lettura del Leps per la Prevenzione dell’allontanamento familiare - Pippi. Una prospettiva utile a tutti i servizi sociali d’Italia, che “parte dal bambino per spezzare il circolo dello svantaggio sociale”, sottolinea Rizzo, rappresentato dal vivere in un contesto mafioso. Si tratta di un approccio innovativo che “riconosce la persona prima del reato” e mette al centro il “capitale umano” rispetto al crimine commesso. “Quello che viene proposto alle famiglie - ricorda Faustino Rizzo - è un percorso di accompagnamento affinché scelgano la democrazia e abbandonino i metodi mafiosi. In questo contesto, la rete dei servizi va proprio a sostituire il “welfare mafioso” e aiuta le famiglie a dare un nome alla loro condizione di vulnerabilità”. Oltre al lavoro di Faustino Rizzo, Save the Children ha assegnato altri due riconoscimenti ex aequo. Il primo è andato alla ricercatrice dell’Università di Bologna, Roberta Paltrinieri, autrice di “Fammi spazio: una ricerca sulla partecipazione culturale giovanile a Bologna”, indagine sul welfare culturale come strumento per promuovere il protagonismo giovanile e contrastare la povertà educativa e la dispersione scolastica attraverso la partecipazione culturale. Premiato anche “Teatro e carcere. Uno studio pedagogico all’interno dell’Ipm Cesare Beccaria di Milano”, di Veronica Berni, ricercatrice dell’Università di Milano Bicocca. Si tratta di uno studio sulla funzione rieducativa del teatro, che restituisce protagonismo ai giovani detenuti. Migranti. Qualche domanda a Piantedosi sul caso dell’imam Shahin di Marco Grimaldi L’Unità, 4 dicembre 2025 Se non è mai stato indagato per quelle dichiarazioni, perché nel decreto di espulsione si fa riferimento al procedimento? Io credo che il ministro abbia mentito, proprio come su Almasri. Nel corso della giornata di ieri abbiamo appreso un fatto gravissimo: sulle dichiarazioni dell’imam Shahin, già il 16 ottobre la Procura aveva ricevuto un’annotazione della DIGOS di Torino. Ma qual è l’elemento che appare preoccupante? La Procura ha iscritto il fascicolo a modello 45 del registro, ovvero fra i fatti non costituenti reato. Coerentemente, ha subito archiviato il procedimento, appunto perché “espressione di pensiero che non integra estremi di reato”. Ministro Piantedosi, a questo punto, alcune domande appaiono legittime: se Shahin non è mai stato indagato per quelle dichiarazioni, perché nel decreto di espulsione a sua firma c’è scritto che era stato aperto questo procedimento? Poteva non saperlo? Se sì Ministro, ha adottato un provvedimento così grave senza una seria istruttoria? Suvvia. Io credo che il Ministro abbia mentito, come avvenuto nella vicenda di Almasri. E siamo arrivati al punto di espellere qualcuno dal Paese per pura volontà politica, rafforzando il provvedimento con indagini che non esistono. Perché? Perché richiesto da una parlamentare di Fratelli d’Italia per aprire la campagna elettorale a Torino. Ma l’elemento forse più inquietante è questo: all’udienza di convalida del trattenimento il giudice è stato tenuto all’oscuro di questa notizia. Perché? E perché è stata addirittura prodotta una scheda dalla quale si evinceva che ci fosse un procedimento penale? Perché nella richiesta di convalida è espressamente scritto che il sig. Shahin risulta sottoposto a due procedimenti penali (dunque uno per le dichiarazioni e uno per un blocco stradale di duemila manifestanti pacifici su una tangenziale)? Sono queste le domande che ho posto al Ministro Piantedosi in aula alla Camera e qui dalle pagine de L’Unità. Attendo una risposta e mi aspetto che - anche alla luce di queste imbarazzanti circostanze - Shahin venga immediatamente liberato dal CPR di Caltanissetta e mai rimpatriato in Egitto, dove è considerato ed è a tutti gli effetti un oppositore del regime di Al Sisi; regime che agli oppositori - nel migliore dei casi - riserva di marcire nelle carceri in condizioni disumane. Ci aspettiamo che tutta questa infame vicenda si chiuda al più presto con il ritorno dell’imam nella mia Torino, nella sua Torino. Droghe. Cannabis light: l’art. 18 in esame alla Consulta per incostituzionalità di Emilio Minervini Il Dubbio, 4 dicembre 2025 Il caso di Filippo Blengino, Radicali Italiani, arrestato a Torino durante una dimostrazione per aver venduto dosi di canapa. L’obiettivo dell’azione è sollevare la questione alla Consulta. Il dl sicurezza potrebbe finire in fumo, almeno in parte. Si riapre il dibattito sul decreto sicurezza e in particolare sull’articolo 18 che vieta “l’importazione, la cessione, la lavorazione, la distribuzione, il commercio, il trasporto, l’invio, la spedizione e la consegna delle infiorescenze della canapa coltivata nonché di prodotti contenenti o costituiti da tali infiorescenze, compresi gli estratti, le resine e gli oli da esse derivati”. La Gip di Brindisi, Barbara Nestore, ha infatti sollevato la questione di legittimità costituzionale del citato articolo 18. La decisione della Gip è scaturita da un caso di sequestro di un carico di canapa, trasportato a bordo di due camion di nazionalità bulgara e destinato ad aziende italiane, eseguito dalla Guardia di Finanza di Brindisi a dicembre del 2024. A maggio la Procura aveva disposto la distruzione del carico, al decreto di distruzione però si sono opposti gli imputati, i cui legali hanno chiesto alla giudice di sollevare la questione di legittimità costituzionale. Richiesta accolta dal Tribunale che ha sospeso il procedimento e trasmesso gli atti alla Consulta, in quanto la norma sarebbe in contrasto con gli articoli 13, 25, 27, 77 e 117 della Costituzione. In base alle stime delle associazioni di categoria il comparto della cannabis light in Italia coinvolgeva circa 3mila aziende, dava lavoro a più di 22mila persone e creava un indotto intorno ai 2 miliardi di euro all’anno. Dall’entrata in vigore del dl sicurezza produttori e rivenditori sono stati equiparati a narcotrafficanti e da un giorno con l’altro migliaia di persone si sono trovate senza lavoro o in una condizione d’illegalità. La cannabis light contiene CBD e quantità irrisorie di THC (pari circa allo 0.3%) e a livello europeo è considerata sostanza non drogante, inoltre la sentenza della Corte di giustizia europea del novembre 2020, che ha deciso la causa C- 663/18, ha stabilito che la commercializzazione del cannabidiolo prodotto legalmente è consentita dal diritto dell’Ue. Quasi per un caso del destino poche ore prima del rinvio Filippo Blengino, segretario di Radicali italiani, martedì ha messo in atto un’azione dimostrativa al fine di denunciare l’iniquità e la non costituzionalità della norma. È stato arrestato per aver venduto cannabis light e poi rilasciato la sera stessa. Martedì ha allestito un banchetto al mercato di piazza Foroni a Torino e ha venduto a un prezzo simbolico delle dosi di cannabis light, perché? “È partito tutto dalla necessità di ripetere questo gesto, perché pochi giorni fa ho ricevuto l’ordinanza del Gip di Roma che ha disposto l’archiviazione per la prima dimostrazione, fatta a maggio. Nell’ordinanza vengono sostenute tesi poco lineari, come il fatto che il reato non sussiste in quanto si è trattato di un’azione politica e dimostrativa, ed hanno archiviato. L’esigenza era quella di arrivare in tribunale a fare qualcosa che potesse essere immune a qualsiasi cavillo a cui potesse aggrapparsi un procuratore. Questa volta abbiamo preparato 500g di cannabis light, frazionata in 97 bustine da 5 g l’una, e l’ho venduta a 1 euro al grammo, con me avevo anche un bilancino di precisione - richiesto per la configurazione del reato di spaccio - e il denaro contante derivato dall’azione di vendita”. Non è la prima volta, già a maggio aveva aperto un cannabis shop nella sede di Radicali Italiani, com’è andata? “In quell’occasione fu molto difficile far intervenire le forze dell’ordine, il decreto era entrato in vigore da poco, anche allora mi sono denunciato per spaccio ma poi è intervenuta l’archiviazione, tra l’altro non hanno mai fatto alcuna analisi sulla sostanza e di conseguenza non hanno mai saputo il reale tasso di THC, solo perché il gesto è considerato politico sembra ricevere un qualche tipo di immunità”. Ieri è stato tratto in arresto e poi rilasciato, cosa succede ora? “Noi abbiamo preso l’ordinanza di archiviazione (a proposito della separazione delle carriere il Pm chiede l’archiviazione, il gip non fa domande e archivia) e abbiamo usato le motivazioni addotte dal Pm come un vademecum per evitare che questo si ripetesse. Mi hanno sequestrato la merce e dovrebbero fare le analisi, sono stato fotosegnalato, perquisito e ora ci saranno le indagini. Dovrebbe esserci il rinvio a giudizio una volta che verrà convalidato il sequestro. Speriamo che i tempi siano celeri e nel momento in cui inizierà il processo solleveremo la questione di legittimità costituzionale. La norma si pone in contrasto con principi costituzionali come quello di proporzionalità e con direttive dell’Unione Europea, mi pare difficile che la Corte non si esprima contro questo articolo. Il vero tema è che nel frattempo passeranno mesi, se non anni durante i quali tanti altri negozi chiuderanno e altre persone verranno arrestate e poi rilasciate”. Con queste azioni di denuncia ha raccolto il testimone di Marco Pannella... “Ci provo, quella di dicembre (contro il nuovo codice della strada ndr) è andata a buon fine e sono stato rinviato a giudizio e ora stiamo preparando le carte per il processo, che dovrebbe iniziare il 22 gennaio e poi vediamo come va, lì fu anche molto interessante come azione anche perché diversi tribunali hanno segnalato l’anticostituzionalità della norma. Cerchiamo di seguire il solco tracciato da Pannella. Prima del decreto sicurezza avremmo voluto andare avanti con altre azioni sulla cannabis “normale” e su altre sostanze, oggi siamo tornati indietro e siamo tornati a usare strumenti come questo per difendere una sostanza che praticamente è basilico. Il dramma è di dover fare passi indietro per difendere battaglie già vinte in passato”. Il mondo dei bulli è a testa in giù di Danilo Taino Corriere della Sera, 4 dicembre 2025 Che i politici di ogni continente ricorrano alle menzogne è un fatto che nessuno più contesta. Machiavelli le riteneva uno strumento del potere e consigliava di ripeterle e spargerle senza remore: consiglio che è stato recepito con poche eccezioni. Qualche volta vengono smascherate, spesso si affermano come (false) verità. Per motivare una guerra, serve però un’operazione più sofisticata: più di una grande bugia, occorre il ribaltamento della realtà, ripetuto fino a farlo sembrare indiscutibile. È l’arte (si fa per dire) dei bulli, nella quale le grandi potenze si esibiscono come non accadeva da decenni. Vladimir Putin assicura che, se l’Europa vuole la guerra, la Russia è pronta a combatterla. L’Europa vuole la guerra? L’Europa che ha abolito il servizio militare obbligatorio e fatica a immaginarne uno volontario? Detto da chi ha invaso l’Ucraina, cerca di annichilire una nazione, bombarda città e manda al macello centinaia di migliaia di propri uomini? È il rovesciamento della realtà. Per parte sua, il Partito Comunista Cinese sta conducendo un attacco commerciale e diplomatico che ha pochi precedenti nei confronti del Giappone. Pechino accusa la primo ministro nipponico Sanae Takaichi, la quale ha detto in parlamento che un’invasione cinese della vicina Taiwan costituirebbe una minaccia per l’arcipelago giapponese e obbligherebbe Tokyo a mobilitarsi per difendere i suoi mari e le vie commerciali. Una risposta a una possibile invasione di Taiwan, della quale Pechino intende prendere il controllo, con le buone o con le maniere forti. Nella propaganda del vertice cinese, sembra invece che sia il Sol Levante a fomentare l’instabilità in Estremo Oriente. Ma chi punta a rompere lo status quo nella regione? Xi Jinping che promette guerra se Taipei non si sottomette oppure chi è costretto a difendersi da eventuali azioni militari cinesi? Anche in questo caso, la grande potenza rovescia la realtà. Donald Trump sembra invece non averne bisogno. Si sente inattaccabile e, nella sua missione di riportare l’egemonia di Washington in America Latina, dice apertamente di volere un cambio di regime in Venezuela. Anche se poi non resiste e ricorre alla bugia della lotta ai narcos: non si sa mai, può essere che Caracas non cada. Così van le cose nell’era della geopolitica imperante. Un mondo a testa in giù. Quei popoli amputati dalle guerre fin da bambini di Francesca Mannocchi La Stampa, 4 dicembre 2025 In guerra ogni ferita diventa una sentenza che pesa su un intero futuro. Non solo sul singolo corpo ma sulla comunità sulla possibilità stessa di ricostruire. La disabilità, in un contesto di guerra, non è un imprevisto. È uno degli esiti più riconoscibili del conflitto, la sua continuità nel corpo di chi sopravvive. Anche quando arriva una protesi, resta una traccia che non riguarda solo la perdita funzionale di un arto. La ferita modifica il rapporto con il proprio corpo, con lo spazio, con gli altri, e si inscrive nella memoria come una prova costante della vulnerabilità. Ogni amputazione è un’interruzione di percorso, prima ancora di essere una lesione fisica: un progetto di vita che viene deviato e ha bisogno di essere reimmaginato. La guerra inserisce in quel corpo un’idea nuova e precoce di limite. Un limite che non riguarda solo ciò che manca, ma ciò che sarà necessario sostenere da quel momento in avanti per stare nel mondo senza sentirsi esclusi. In questi mesi la Striscia di Gaza non è diventata solo teatro di una guerra: è diventata un laboratorio di disabilità pianificata. Le cifre, quando finalmente emergono dall’opacità della guerra, espongono una verità che nessuna società dovrebbe accettare come inevitabile: secondo le stime delle organizzazioni internazionali che operano nella Striscia di Gaza, nel 2025 tra 13.455 e 17.550 persone hanno subito ferite gravi che richiedono assistenza riabilitativa. Le cifre raccolte dalle agenzie umanitarie dicono che Gaza oggi detiene il più alto numero di amputazioni pediatriche pro capite al mondo, numeri alla mano significa che nel corso dell’ultimo anno, in media più di dieci bambini al giorno hanno perso una gamba o un braccio a causa del conflitto. Dire che Gaza ha il più alto tasso di amputazioni pediatriche al mondo non significa maneggiare un dato statistico. Significa guardare a un’intera generazione di bambini che la guerra ha costretto a una negoziazione continua con il proprio corpo. Bambini che non possono più muoversi nello spazio con la libertà che definisce l’infanzia: correre senza motivo, inciampare senza conseguenze, giocare senza che il terreno debba essere misurato. Significa bambini che incontrano barriere ovunque: a scuola - quando la scuola esiste ancora - nei campi profughi, tra le macerie di ciò che era casa, nel tragitto per raggiungere un ambulatorio dove spesso mancano protesi, terapia, personale, elettricità. E significa dipendenza: dalle organizzazioni umanitarie, da un sistema sanitario frammentato, da decisioni politiche lontanissime. Bambini che vivono sospesi tra ciò che il loro corpo era destinato a diventare e ciò che è stato imposto dal conflitto. Non statistiche, dunque, ma esistenze rese precarie da una ferita che si apre ogni giorno: nel dolore fisico, nella mancanza di autonomia, nella coscienza prematura che la normalità - per loro - non è prevista. Mutilazione e distruzione materiale - A Gaza, la disabilità è stata e resta parte della logica strutturale del conflitto: una conseguenza diretta delle esplosioni che mutilano i corpi e una conseguenza indiretta del crollo totale delle infrastrutture che dovrebbero curarli. A Gaza la mutilazione si sovrappone alla distruzione materiale: in una Striscia dove scuole, ospedali, strade e abitazioni sono state rase al suolo, la perdita fisica non è mai isolata. È inserita in un contesto che impedisce qualsiasi forma di riparazione reale. Un bambino che ha perso una gamba non ha soltanto bisogno di una protesi; ha bisogno di un sistema scolastico funzionante per continuare ad apprendere, ha bisogno di strade percorribili per raggiungere un ospedale, ha bisogno di un’abitazione stabile per poter essere curato ogni giorno. Tutti elementi oggi estremamente rari o del tutto assenti. Alla ferita sul corpo si aggiunge così una ferita sul tempo: la sottrazione dell’orizzonte. Un bambino disabile a Gaza non vive solo la differenza tra “prima” e “dopo” l’amputazione; vive nella sospensione di un futuro che non è garantito. Senza cure continuative, senza riabilitazione, senza terapia del dolore, senza scuola, senza sicurezza, la prospettiva non è quella della guarigione, ma quella della permanente vulnerabilità. Il danno diventa così duplice: fisico e istituzionale. Non è solo il corpo a essere colpito, ma l’intero sistema che dovrebbe sostenerlo. Ed è questo che definisce la gravità di ciò che accade: ogni bambino disabile a Gaza è un bambino a cui la guerra ha tolto la certezza di avere diritti. Di avere protezione, assistenza, educazione, normalità. In altri luoghi del mondo, la disabilità può essere accompagnata da strumenti di emancipazione; a Gaza, troppo spesso, coincide con un destino di isolamento e arresto forzato della vita. Secondo le organizzazioni per i diritti umani, le persone con disabilità a Gaza sono oggi “esauste e traumatizzate”, spesso costrette a strisciare tra le macerie, prive di sedia a rotelle, senza accesso a servizi di base. In molti casi, le amputazioni sono state inevitabili, ma in altri sono state rese necessarie da ritardi delle cure, infezioni, mancanza di anestesia, soluzioni d’emergenza imposte dal collasso del sistema sanitario. Danni permanenti - Quando la guerra amputa, il danno non è provvisorio: la perdita di un arto stabilisce una nuova condizione esistenziale, traccia un prima e un dopo che ridisegna la vita. Sono numerosi gli studi medici su pazienti sopravvissuti ad amputazioni da conflitto che mostrano quanto quelle ferite generino complicazioni a lungo termine, definiscano una mobilità compromessa, aumentino il rischio di patologie associate, soprattutto in contesti dove la riabilitazione è incompleta o assente. Ma la disabilità da guerra non è solo una questione di salute fisica. La perdita di una gamba, di un braccio, di un arto - nella distanza fra il prima e il dopo - interrompe per sempre la vita quotidiana. Se per un adulto significa una ristrutturazione forzata dell’identità: il mestiere, l’autonomia, la dignità agricola o artigianale o manuale, per un bambino significa la fine di ciò che rende l’infanzia: la corsa, il gioco, l’irruenza del corpo che cresce. In luoghi come la Striscia di Gaza, dove la distruzione è sistemica, dove ospedali, strade, case, reti elettriche, acqua e scuole sono stati spazzati via - l’amputazione diventa un marchio permanente. Un bambino con un arto in meno non incontra soltanto la sua menomazione fisica, ma un ambiente che non consente la cura, la protezione, il recupero. La riabilitazione è intermittente, le protesi forse non arriveranno mai, le terapie psicologiche sono quasi assenti, il ritorno alla scuola è un miraggio. La guerra trasforma così una menomazione in una condizione cronica di esclusione. E c’è un’ulteriore ferita, meno visibile ma altrettanto profonda. Bambini e bambine cresciuti in un ambiente che ha scelto di normalizzare il dolore imparano presto che la disabilità è la loro eredità. Le psicoterapie e gli aiuti psichiatrici, quando esistono, arrivano con ritardo. Le ferite invisibili - paura, senso di colpa, tristezza, impotenza - diventano parte del corpo che non si vede. In questo contesto - fisico, sociale, psicologico - ogni amputazione diventa una sentenza che pesa su un intero futuro. Non solo sul singolo corpo, ma sulla comunità, sulla possibilità stessa di ricostruire un quotidiano che somigli a una vita. Chi sopravvive non è una vittima temporanea: è un testimone permanente di ciò che la guerra - e l’indifferenza - è disposta a infliggere all’innocenza dei corpi in crescita.