La Russa rilancia sulle carceri: “Decreto entro Natale”. Ma il centrodestra è spaccato di Ermes Antonucci Il Foglio, 3 dicembre 2025 Per ridurre il sovraffollamento carcerario, il presidente del Senato ha auspicato che si vari entro Natale un provvedimento che permetta ai detenuti di finire di scontare la pena in detenzione domiciliare. Ma la maggioranza appare incapace di raggiungere un accordo. La Russa non molla, anzi rilancia. Dopo l’appello avanzato prima di Ferragosto ai partiti affinché trovassero un accordo su una misura d’emergenza per ridurre il sovraffollamento carcerario - appello fallito miseramente - il presidente del Senato ieri ha auspicato che “si vari entro Natale un provvedimento, un decreto perché i detenuti che hanno già quasi interamente scontato la propria pena possano magari finire di scontarla fuori dal carcere”, cioè in detenzione domiciliare. “Questo tentativo di avere un provvedimento l’abbiamo fatto prima di Ferragosto perché c’era l’emergenza caldo. Proviamo con un altro tipo di emergenza, quella della bontà, perché la bontà pare che abbia dei ritmi anch’essa. Sotto Natale la bontà aumenta e a Natale manca non molto”, ha spiegato La Russa durante la presentazione del libro “L’emergenza negata: il collasso delle carceri italiane”, di Gianni Alemanno e Fabio Falbo, attualmente detenuti nel carcere di Rebibbia di Roma, organizzata da Nessuno tocchi Caino. I due autori avevano chiesto un permesso per poter partecipare in presenza o in videocollegamento dal carcere ma il permesso è stato loro negato. Alemanno e Falbo hanno allora scritto un testo e l’intelligenza artificiale ha animato delle loro foto facendo leggere le loro parole a due avatar. L’ex sindaco di Roma nel suo intervento “artificiale” ha avvertito: “Abbiamo fatto di tutto per richiamare l’attenzione della politica, del governo e dell’opinione pubblica su questa emergenza, su questa catastrofe silenziosa, su questa pentola a pressione che può scoppiare da un momento all’altro. Soprattutto per me che vengo dalla stessa storia politica di chi governa oggi in Italia è un punto d’onore rompere i luoghi comuni e gli slogan su cui si fonda questa indifferenza”. Al grido di allarme di Alemanno ha fatto seguito l’appello di La Russa, che ha ricevuto subito un coro di adesioni bipartisan. Ma è stata Anna Rossomando, vicepresidente dem del Senato, a riportare tutti con i piedi per terra, ricordando che “è evidente che il problema, come già conclamato questa estate, è la maggioranza di centrodestra che nemmeno su un terreno di condivisione dei princìpi fondamentali dei diritti umani e costituzionali, riesce a trovare un punto di sintesi”. “Il Pd e il centrosinistra sono pronti da questa estate con soluzioni già attuabili. Ora, considerato che a Ferragosto il centrodestra non ha voluto cogliere questa opportunità, Natale potrebbe essere la volta buona”, ha aggiunto Rossomando. Il punto è che proprio nella maggioranza di centrodestra, a cui appartiene lo stesso La Russa, il problema del rispetto dei diritti minimi dei detenuti nelle carceri non è avvertito come prioritario. L’ex giudice Simonetta Matone, oggi deputata della Lega, intervenendo all’evento ha ammesso: “Da una parte abbiamo il garantismo di Forza Italia, dall’altra il giustizialismo di Fratelli d’Italia e in mezzo c’è la Lega che ha posizioni diverse”. Pensare che in questo contesto possa emergere una posizione univoca favorevole all’appello di La Russa appare a dir poco improbabile. Intanto la pena carceraria continuerà a essere contraria alla dignità della persona e, come sottolineato dal vicepresidente del Csm Fabio Pinelli, per questo “illecita sul piano costituzionale”. Rispunta lo svuota-carceri: più domiciliari a fine pena. FdI: “No a colpi di spugna” di Francesco Malfetano Il Messaggero, 3 dicembre 2025 Sul tavolo del Ministero il piano per semplificare il ricorso alle misure alternative. Frenata di Delmastro: “Il tana libera tutti non rieduca e non garantisce sicurezza”. È un’estate caldissima quella delle carceri italiane. Mentre a Torino la situazione tornava lentamente alla normalità dopo che nella notte tra giovedì e venerdì una rivolta ha ferito sei agenti della polizia penitenziaria, un’indiscrezione ha riacceso le contrapposizioni all’interno della maggioranza. Tra le ipotesi su cui starebbe lavorando il ministero della Giustizia per arginare il drammatico sovraffollamento degli istituti penitenziari spunta infatti anche l’idea di facilitare il ricorso a misure alternative al carcere per quei detenuti che devono scontare pene residue entro un anno. Tradotto: potrebbero ricorrere ai domiciliari o all’affidamento in prova, coloro che sono all’ultimo miglio prima dell’uscita (segmento in cui, peraltro, è significativo l’impatto dei suicidi secondo i dati di Associazione Antigone) a patto che non si tratti di condannati per reati ostativi. A differenza di oggi cioè, sarebbe possibile avvalersi della misura senza ricorrere al tribunale di sorveglianza. Un’ipotesi di lavoro che, per quanto appaia in controtendenza anche con le sensibilità meno giustizialiste della maggioranza, sarebbe emersa lo scorso 7 agosto in occasione dell’incontro del ministro con il Garante dei detenuti e con i garanti regionali. Non a caso è il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove a smentirla categoricamente. “Non è nelle corde del cuore del governo una misura che, essendo un colpo di spugna, vanifica e frustra non solo e non tanto le esigenze di sicurezza, quanto e soprattutto la funzione rieducativa della pena - è la dura nota del deputato di Fratelli d’Italia considerato vicino alla premier Giorgia Meloni - Il tana libera tutti non rieduca, non riabilita, non garantisce sicurezza: è il già tristemente visto e stancamente vissuto del passato e che ci ha regalato l’attuale situazione”. Una bocciatura su tutta la linea insomma, preferendo perseguire la strada appena imboccata con il Dl carceri, e con un piano per l’edilizia carceraria. L’emergenza è impossibile da ignorare. Sono 63 infatti i suicidi di detenuti avvenuti in carcere dall’inizio dell’anno. Ovvero, secondo i dati diffusi dal Garante dei detenuti, 19 in più rispetto al 2023. L’età media di chi ha compiuto il drammatico gesto, si legge nella nota pubblicata ieri, è di circa 40 anni. Sessantuno gli uomini e 2 le donne, in maggioranza italiani (52%) e il più delle volte giudicati condannati in via definitiva (41,3%) o in attesa di primo giudizio (38,1%). Inevitabile anche la polemica politica. Mentre Forza Italia ha lanciato l’iniziativa “L’estate in carcere” per monitorare le condizioni dei penitenziari con visite ad hoc da parte di deputati e senatori azzurri, l’opposizione torna a puntare il dito contro il governo dopo l’ultimo suicidio di ieri nell’istituto penitenziario di Parma. “La maggioranza purtroppo ha scelto di non rispondere all’emergenza procrastinando ancora l’esame della proposta di legge Giachetti sulla liberazione anticipata” ha attaccato la senatrice di Italia Viva Silvia Fregolent riferendosi alla proposta con cui si mira a modificare il sistema di detrazione di pena per la liberazione anticipata innalzando la detrazione da 45 a 60 giorni per ogni semestre di pena scontata. “Trovo incredibile che la destra continui a indicare priorità che hanno solo e sempre un obiettivo di garantire impunità, di difendere chi è già forte e di sottrarre alla giustizia chi ha potere” l’affondo invece di Nicola Fratoianni di Alleanza Verdi Sinistra. La legge penitenziaria fa 50, ma il Csm” dimentica” Serio di Simona Musco Il Dubbio, 3 dicembre 2025 A Palazzo Bachelet un convegno sull’anniversario della norma. Presente l’ufficio del Garante, tranne il suo membro più “polemico”. “Un’esclusione involontaria”. Il Csm si prepara a celebrare i cinquant’anni della legge penitenziaria con un convegno di alto profilo, ma la composizione del parterre apre subito un fronte inatteso. Nel programma figurano due componenti dell’Ufficio del Garante nazionale delle persone private della libertà, mentre resta escluso il terzo, Mario Serio. Una scelta che il Consiglio definisce frutto di una “involontaria gaffe”, ma che negli ambienti più attenti alle politiche penitenziarie non è passata inosservata. Il programma è stato approvato dal plenum di Palazzo Bachelet il 12 novembre. A proporlo è stata la Nona Commissione, che nella seduta del 3 novembre 2025, dopo una consultazione informale con la Commissione mista incaricata di affrontare i problemi della magistratura di sorveglianza, ha deliberato di celebrare il cinquantesimo anniversario della Legge 26 luglio 1975 n. 354 organizzando il convegno dal titolo “Il carcere in Italia a cinquant’anni dalla legge penitenziaria”. La delibera ricorda che il tema è d’attualità, dato che “l’ordinamento penitenziario è tornato al centro della riflessione pubblica e scientifica”. Da qui la volontà di “fare il punto su una riforma che, nel solco delle grandi trasformazioni istituzionali degli anni Settanta, ha introdotto nel sistema italiano una concezione della pena fondata sui principi di umanità, dignità e rieducazione, in attuazione dell’articolo 27 della Costituzione”. Si tratta, nelle intenzioni della Commissione, di un momento di confronto interdisciplinare “per verificare quanto del progetto riformatore del 1975 sia stato realizzato e per individuare, con sguardo prospettico, le direttrici di un nuovo equilibrio tra sicurezza, rieducazione e reinserimento sociale. Celebrare i cinquant’anni della legge penitenziaria significa, dunque, non solo ricordare una tappa storica, ma rinnovare l’impegno verso un sistema penale realmente rispettoso della persona e dei valori costituzionali”. Un concetto ribadito anche in plenum dal relatore, il togato di Area Antonello Cosentino. “Ci è sembrato giusto - ha sottolineato - che anche il Csm ricordasse questo passaggio, tanto più attuale oggi in un momento in cui è particolarmente aperto il dibattito nel Paese sulla situazione carceraria italiana e anche in qualche misura sulle prospettive del senso della pena detentiva e del suo coordinamento con la disciplina costituzionale”. Un tema sul quale, è stato osservato da più parti, Serio avrebbe certamente potuto offrire un contributo, proprio per la sua attenzione alla centralità dell’umanità della pena. Al convegno, previsto il 4 dicembre, parteciperanno voci autorevoli dell’accademia, dell’amministrazione penitenziaria e della magistratura di sorveglianza, tra cui Edmondo Bruti Liberati, Glauco Giostra, Marco Ruotolo, Carlo Renoldi e Santi Consolo. Dopo l’approvazione della proposta in Commissione, ci si è però accorti che mancava una presenza “piena” dell’avvocatura: l’unico avvocato in programma, Stefano Preziosi, interverrà infatti in qualità di professore ordinario di diritto penale. Si è quindi deciso di inserire una figura aggiuntiva, con un vincolo: non modificare il preventivo, già approvato e pari a poco più di seimila euro. L’ipotesi ritenuta più praticabile è stata quella di individuare una donna, data l’alta presenza di relatori di sesso maschile, che non comportasse spese ulteriori e, dunque, già a Roma. La scelta è così caduta sull’avvocata Irma Conti, componente dell’Ufficio del Garante, che comparirà quindi nel programma accanto al presidente Riccardo Turrini Vita, nella sessione dal titolo “Il carcere oggi: pene sostitutive, lavoro intramurario ed extramurario, differenziazione dei trattamenti, gestione del disagio mentale”. Interpellato dal Dubbio, il consigliere Cosentino ha confermato che l’assenza di Serio è stata il risultato di una “involontaria gaffe” e non di una decisione intenzionale. “La formazione del convegno è stata laboriosa - ha evidenziato -. Una volta approvata la delibera, ci siamo resi conto che c’era un solo avvocato, presente però come rappresentante dell’Accademia. Ci è sembrato il caso, dunque, di integrare il programma, ma a preventivo invariato, perché ormai era impossibile intervenire da quel punto di vista. Quindi abbiamo optato per Conti. Convengo che ex post possa apparire come una logica discriminatoria - ha aggiunto - e mi dispiace molto per questa involontaria gaffe nei confronti del professore Serio, al quale va tutta la mia stima”. Cosentino ha poi confermato l’impossibilità di integrare il programma, una volta reso pubblico. Serio, da parte sua, ha espresso il proprio disappunto. “Non riuscendo ad immaginare specifiche ragioni di dubbio sul carattere involontario della propria esclusione - unico dei componenti il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà - dal novero dei relatori nel convegno del 4 dicembre organizzato proprio dal Csm per celebrare i 50 anni di vita dell’ordinamento penitenziario - ha commentato al Dubbio -, non posso tacere la grande amarezza per la mancata considerazione della propria presenza, che avrebbe consentito una più diffusa rappresentazione di posizioni ideali ed avrebbe costituito l’ambito riconoscimento del servizio già prestato come consigliere superiore. Non posso non confidare nel fatto che il Consiglio sappia presto dar modo ad un predecessore di fornire il proprio contributo all’importante attività svolta dalla commissione speciale sui problemi penitenziari”. “Questi ragazzi non sono santi, ma ricordano che cambiare si può” di Massimiliano Castellani Avvenire, 3 dicembre 2025 Don Burgio ci guida nella comunità Kayros, attiva dal 1996 nell’hinterland di Milano, che offre opportunità di recupero a giovani difficili: “La nostra missione non è salvarli, ma sfidarli a migliorare”. Abdou è tornato, ha provato a scappare per raggiungere suo fratello in Francia, ma nemmeno 24 ore dopo è rientrato a “casa” Kayros. Attraversa il campetto da calcio in sintetico donato da Fondazione Milan dove incontra El Sadhay (ma si fa chiamare Origgi), e don Claudio Burgio lo abbraccia forte, come fosse un figlio. Come fa anche con Gabriel, il più piccolo di “casa”, 13 anni, che oggi non ne vuole sapere di andare a scuola. Loro, sono alcuni dei 50 ragazzi che sognano di poter ricominciare a vivere una vita normale, da qui, dalla comunità “Kayros - Non esistono ragazzi cattivi”. L’Associazione è nata 25 anni fa nella parrocchia di San Martino, a Lambrate, per offrire supporto e alloggio a ragazzi in difficoltà segnalati dal tribunale per i minorenni, dai servizi sociali e dalle forze dell’ordine. Da dodici anni la comunità ha traslocato da Lambrate a Vimodrone, comune dell’hinterland infinito di una Milano sempre più verticale, già bevuta e dove ci si fuma la vita in un lampo, ogni santo giorno. Per i media e la pubblica ottusità, questa ormai è “La metropoli dei maranza”. “Il rischio è che etichettando questi giovani violenti, ma comunque fragili, poi si riconoscano in quella identità che gli hanno appiccicato addosso e la fanno loro per sempre”, attacca dolcemente provocatorio don Burgio che ricorda che la prima mission di Kayros “non è salvare i ragazzi, ma sfidarli continuamente”. Milanese, 56 anni, figlio di migranti anche lui (“i miei sono arrivati da Ravanusa, provincia di Agrigento”) la sua missione l’ha iniziata nel 1996 per accogliere in parrocchia Alain, un minore non accompagnato sbarcato dal Camerun sotto la Madonnina. “L’Associazione è nata attorno a quell’unico ragazzo accolto dai miei parrocchiani e da Giusi Re, attuale direttrice dei nostri centri. Giusi lasciò il lavoro per dedicarsi a tempo pieno a Kayros. Oggi Alain è un 40enne papà di 4 figli e fa l’educatore qui da noi”. Giusi dorme in comunità con i ragazzi che alloggiano nel piccolo villaggio di prefabbricati incastonato tra i palazzoni anonimi di periferia, dove alla catena della solidarietà si alternano 25 educatori e circa 200 volontari che fanno un po’ di tutto, dalla cucina ai corsi di recupero scolastico. “Molti di loro non sono arrivati alla terza media - spiega don Claudio. Le scuole superiori non li vogliono perché sono ragazzi troppo complicati da gestire. Così ci arrangiamo con la preparazione privata per poi fargli sostenere gli esami a fine anno. Capisco che gli istituti scolastici non abbiano gli strumenti per affrontare certi casi ma io dico sempre che un ragazzo difficile è un’occasione anche per la scuola per affinare nuove capacità. Anche noi siamo cresciuti in metodologia educativa grazie ai ragazzi con i quali abbiamo adottato il monito “Dimissioni mai”. In 25 anni ho visto tanti ragazzi cambiare, ma non esiste una sola ricetta certa per il cambiamento. A volte basta una brava ragazza che entri nella loro vita e quella può far meglio di qualsiasi metodo di recupero”. A Kayros non ci sono ragazze, sono tutti giovani uomini, molti gli adottati, la maggior parte stranieri e provenienti dal carcere minorile Beccaria dove don Burgio è il cappellano che ha preso il posto dello storico pastore di giovani anime, don Gino Rigoldi. “Quasi tutti i detenuti al Beccaria mi chiedono di poter venire a vivere a Kayros. Quando entrano, il primo impatto è sempre provocatorio, sono ragazzi con un vissuto feroce, alcuni hanno commesso reati gravi e quasi tutti hanno a che fare con le droghe. Una volta qui, mettono subito in atto quelle tecniche di manipolazione affinate in carcere. Cominciano con “don prenditi un caffè”, “ti offriamo una bibita”. Uno di loro tempo fa mi ha detto: “Sei il miglior prete che abbia mai conosciuto” e io gli ho risposto, ma quanti ne conosci? E lui: “Te!”“ dice sorridendo don Claudio che con loro si muove da acrobata sul filo, a volte senza rete sotto i piedi. “Casi di suicidi? A Kayros no, in carcere purtroppo sì, troppi. L’ultimo, un ragazzino che si era fatto la corda come atto dimostrativo contro gli agenti, è scivolato ed è finito in coma. Ma si è salvato ora è qui. Minacce subite? No, però tempo fa la Digos mi informò che due ragazzi scappati dalla comunità erano entrati nell’Isis. Uno, Tarik, è morto in un combattimento. Mi volevano convertire: “Devi diventare islamico, altrimenti andrai all’inferno”. Io sdrammatizzavo: ma con voi sono già all’inferno. La prima regola è: accettare la provocazione e lasciare che il ragazzo usi tutte le sue carte”. Provocava anche Daniel Zaccaro, nato e cresciuto nel bronx meneghino di Quarto Oggiaro. La sua storia Daniel l’ha raccontata nell’autobiografia Ero un bullo (De Agostini), il libro più letto a Kayros assieme all’ultimo scritto da don Burgio Il mondo visto da qui. Riflessioni di un prete in carcere al tempo delle baby gang (Piemme). “Daniel era finito al Beccaria per una rapina in banca, è passato da Kayros per poi scontare la sua pena a San Vittore e a 23 anni quando è tornato qui con noi si è laureato in Scienze dell’Educazione e ha messo su famiglia. Adesso che ha 34 anni dal 1° novembre è responsabile delle altre nostre quattro comunità (quelle di Cinisello Balsamo, Segrate, Birone di Giussano e Tainate). Daniel in tutte le testimonianze dice di me: “Pensavo di farlo fesso ma alla fine è don Claudio che ha fregato me”. Quella di Daniel non è una storia di rinascita isolata. “Un tempo riuscivamo a fare “più miracoli” - dice ironico don Claudio - ma tanti ragazzi di quel periodo in cui arrivò Daniel ce l’hanno fatta, si sono sistemati, e quando organizziamo qualche festa si ritrovano qui come gli ex alunni di una classe di scuola”. Una classe di dieci rap, quelli della Kayros Music, il progetto nato in collaborazione con la major Universal, è appena tornata dal “ritiro creativo” in Trentino. “Stanno riscrivendo in musica e alla loro maniera alcuni passi della Bibbia. Da noi sono passati rapper noti, come Baby Gang, Simba La Rue, che purtroppo al momento sono “occupati” (sono in carcere) e Sacky”. Alla Universal tempo fa incontrammo Rnawa, 18 anni, papà dello Sri Lanka e madre italiana, il quale dopo un momento di forte ribellione e il soggiorno a Kayros, ora è tornato a vivere in famiglia e la sua storia personale all’ultimo incontro teatrale ha commosso tutti gli spettatori in sala. “Rnawa è un ragazzo molto profondo. Una volta mi ha detto: “Don, tu non sembri un prete, ma alla fine sei più prete degli altri”. Quando abbiamo parlato di Carlo Acutis nella “Koinè”, i nostri incontri del lunedì, come la maggior parte dei nostri ragazzi ha reagito dicendo “per forza lo hanno fatto Santo, lui viene da una famiglia ricca”. Poco tempo dopo Rnawa ha scritto una canzone, Nati originali, mi invia il testo sul telefonino e vedo che cita la frase del giovane Santo: “Non vivete vite in fotocopia”“. La cosa più originale che sta nascendo dalla voglia di riscatto è il primo centro gratuito dove si potrà fare musica. Nei capannoni in allestimento con il nuovo anno sorgerà una factory educativa, completa di studio di registrazione e una sala per i concerti. “Kayros Music deve dire grazie alla generosità della Siae, alla Universal, alla Sugar di Caterina Caselli e suo figlio Filippo Sugar, a Paola Zukar, manager del nostro grande amico Marracash e a Franco Mussida che pubblicherà una canzone realizzata con i nostri ragazzi assieme a quelli di San Patrignano e di San Vittore”. Il “manager” di Kayros Music è Anas. “È un ragazzo marocchino, vive a Bergamo, l’ho conosciuto al Beccaria che era poco più grande di Gabriel - racconta don Burgio - . Era finito dentro per spaccio, per 5-6 anni è stato qui in comunità e dalla sua storia ho imparato che spesso questi ragazzi quando sbagliano rivelano delle abilità insospettabili. Anas a 14 anni dirigeva il giro di spacciatori della sua zona, ma dopo aver tolto l’aspetto delinquenziale e manipolatorio ora mi ritrovo davanti un uomo che ha compiuto la sua rivoluzione, forte dei valori profondi che ha sempre avuto”. Dalla sala mensa dove hanno appena finito di sparecchiare i tavoli, arriva il suono del pianoforte, qualcuno dei ragazzi sta suonando Per Elisa di Beethoven. Con Giusi cominciano a preparare gli addobbi natalizi, ma quello delle Feste per molti di loro è il periodo peggiore perché la nostalgia canaglia per i propri cari li assale e scatena quelle poco innocenti evasioni. “Qualche anno fa, la famosa evasione dei 7 dal Beccaria avvenne proprio il giorno di Natale - ricorda don Claudio. Qui da noi anche se i cancelli sono aperti non scappano e se lo fanno ritornano, come Abdou, e così posso continuare a raccontare storie di ragazzi fuori che ce l’hanno fatta. Per fortuna in tutti questi anni ho dovuto piangere a meno funerali rispetto ai tanti matrimoni e i battesimi che ho celebrato. Gli ultimi sono stati quelli di Ahmed, un nostro ex ragazzo, marocchino, che ha sposato una ragazza cristiana e segue i figli al catechismo e li allena nella squadra dell’oratorio”, conclude don Claudio che davanti al cancello ci saluta così: “Come in ogni famiglia, a Kayros si ride e ci si dispera ma le emozioni sono tante e così intense che non c’è mai il tempo per annoiarsi. Accompagnarli verso la normalità non è mai stato facile, ma per quanto mi riguarda la forza vera mi viene dalla fede che mi aiuta a leggere la vita in maniera semplificata. Capisci che non sei Dio, e così, libero dagli esiti e privato dell’ansia di prestazione posso affrontare l’oggi e il domani con serenità, ricordando a questi ragazzi che la vita è davvero un lungo ritorno a casa”. Dl sicurezza, no della Consulta al ricorso di Magi: “Il singolo deputato non può sollevare il conflitto” di Angela Stella L’Unità, 3 dicembre 2025 “Le doglianze relative all’eccentricità del modus operandi del Governo coinvolgono direttamente l’intera Assemblea”, così i giudici salvano l’iter del decreto. La Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibile il conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato sollevato dal deputato di +Europa Riccardo Magi nei confronti del Governo rispetto all’iter seguito nella deliberazione del cosiddetto decreto-sicurezza, che dunque è salvo grazie a questa decisione della Consulta. I giudici (Redattore: Antonini) hanno ribadito che “deve essere escluso che il singolo parlamentare sia legittimato a sollevare conflitto di attribuzioni nei confronti del Governo” quando agisce “a tutela di prerogative attribuite dalla Costituzione all’intera Camera a cui appartiene”. Il deputato radicale aveva criticato la “scorciatoia” messa in atto dall’Esecutivo di sospendere il dibattito parlamentare sul disegno di legge sicurezza già approvato alla Camera e al tempo in discussione al Senato per trasformarlo in un decreto legge, in modo da accelerare l’approvazione. La Corte ha rilevato che “le doglianze del ricorrente relative all’eccentricità del modus operandi del Governo coinvolgono direttamente l’intera Assemblea” e che, “d’altronde, in molteplici occasioni questa Corte ha negato l’ipotizzabilità di una concorrenza tra la legittimazione attiva del singolo parlamentare e quella della Camera di appartenenza”. Pertanto, “titolare della sfera di attribuzioni costituzionali in ipotesi lese e, quindi, eventualmente legittimata a sollevare conflitto è la Camera di appartenenza del singolo parlamentare e non quest’ultimo”. Riccardo Magi ha accolto la notizia “con grande rammarico”. Secondo il parlamentare la Corte “scarta, quasi con stizza, il cuore del problema e, a ogni pratico fine, smentisce le aperture che aveva fatto nelle ordinanze n. 17 del 2019 e n. 60 del 2020”. Essa afferma che il deputato singolo non può mai far valere lesioni delle prerogative parlamentari se queste spettano anche all’intera assemblea: “Si tratta di un artificio argomentativo per dire che il singolo parlamentare non ha mai legittimazione a elevare conflitto. Pretendere che un simile conflitto sia elevato dalla Camera intera significa dire che i deputati (e i senatori) di opposizione sono privi di qualsiasi tutela. E dire che si potrebbe trattare solo di prerogative esclusivamente dei parlamentari uti singuli equivale a dimenticare che le prerogative parlamentari di cui all’art. 68 non sono mai privilegi personali ma sono conferite nell’interesse delle Assemblee e della loro indipendenza. Sicché anche in questo caso il singolo non potrebbe elevare conflitto”. Infine “l’argomento poi che il sottoscritto aveva presentato la pregiudiziale di costituzionalità al disegno di legge di conversione del decreto sicurezza e quindi aveva potuto interloquire è affermazione che smentisce molti precedenti della Corte, la quale ha sempre tenuto a distinguere la discussione su disegni di legge da quelli su decreti legge già emanati e in vigore. Con amarezza - conclude Magi - occorre prendere atto che la Corte ha rinunciato, in questa occasione, a svolgere il suo ruolo di garante della Costituzione”. Per il costituzionalista ed ex parlamentare Pd Stefano Ceccanti, “si conferma la lettura restrittiva delle possibilità di utilizzo del singolo parlamentare. Se si vogliono evitare forzature - aggiungerei io - bisogna riformare e non ricorrere”. Pinelli (Csm): “Populismo penale, abbiamo perso il conto dei reati” di Angela Stella L’Unità, 3 dicembre 2025 Come già fatto in estate, quando le carceri strapiene erano anche arroventate, il presidente del Senato Ignazio La Russa torna a sollecitare un provvedimento di clemenza contro il sovraffollamento. L’occasione è la presentazione, promossa da Nessuno tocchi Caino, del libro “L’emergenza negata, il collasso delle carceri italiane”, scritto dall’ex sindaco di Roma, Gianni Alemanno e Fabio Falbo, entrambi detenuti a Rebibbia. I due autori sono comparsi in video con un messaggio veicolato dai loro avatar, realizzati con l’AI, proiettati su un maxi-schermo come se fossero collegati dal vivo. Nel suo intervento La Russa ha auspicato che per Natale ci sia un decreto che consenta “a chi ha scontato la maggior parte della pena, di finire di scontarla dentro di sé o in un altro luogo”. “In nessun caso - ha aggiunto - la pena può ledere la dignità della persona. La prima occasione in cui viene lesa è quando si sconta la pena in una condizione di sovraffollamento. Su questo mi sento di continuare a fare una battaglia”, ha affermato il presidente del Senato. Il suo precedente appello si era infranto contro il muro alzato dal suo stesso schieramento politico: non era infatti stato possibile trovare un accordo su un testo tra le forze parlamentari proprio per l’opposizione della destra a qualsiasi misura “svuotacarceri”. A ricordarlo la vicepresidente dem di Palazzo Madama, Anna Rossomando, anche lei presente alla presentazione del libro di Alemanno e Falbo: “Registro che il presidente La Russa non è venuto meno all’impegno già dichiarato sulla grave situazione delle carceri. Ma è evidente che il problema, come già conclamato questa estate, è la maggioranza di centrodestra che nemmeno su un terreno di condivisione dei principi fondamentali dei diritti umani e costituzionali, riesce a trovare un punto di sintesi. Il Pd e il centrosinistra sono pronti da questa estate con soluzioni già attuabili. Ora, considerato che a Ferragosto il centrodestra non ha voluto cogliere questa opportunità, Natale potrebbe essere la volta buona”, ha dichiarato nel suo intervento. Alla presentazione del libro anche il vicepresidente del Csm Fabio Pinelli, secondo il quale una pena carceraria che superi “la soglia della dignità della persona”, “perde la sua liceità e quindi perde la sua legalità costituzionale”. “Se non abbiamo la consapevolezza della necessità di perimetrare l’intervento del diritto penale nella società - ha continuato periodicamente ci troveremo di fronte al sovraffollamento e alla necessità di intervenire con provvedimenti di grazia e indulto, che spettano alla politica. Non abbiamo mai affrontato il tema di quanto il diritto penale debba esserci in una società moderna per contrastare la devianza; viaggiamo in quello che papa Francesco aveva chiamato populismo penale. Proseguiamo con l’idea che l’insicurezza della società possa essere combattuta con l’aumento dei reati, come se fosse la panacea per risolvere i problemi della società”. L’esito “è l’aumento del numero dei reati perché la legge penale è a costo 0, tanto che non sappiamo neanche quanti reati ci siano nel nostro ordinamento”. “Dovremmo porre una riflessione - ha detto ancora il vicepresidente del Csm - sulla primazia del diritto di libertà in una moderna liberal democrazia, e ridisegnare un diritto penale dei tempi moderni, avendo cura dei beni da proteggere nei tempi moderni, che non possono essere quelli degli anni Trenta, consentendo un ventaglio di fattispecie penali che non siano sovrabbondanti e libere dall’inflazione penale populistica”. Le leggi non vivono di autorità, ma di riconoscimento: senza, ogni limite perde senso di Alberto Minnella Il Fatto Quotidiano, 3 dicembre 2025 Ho ascoltato recentemente un’intervista di Gherardo Colombo sulle regole ed è stato come entrare in una zona del discorso pubblico che raramente frequentiamo: quella in cui non ci si limita a chiedere “quale legge?”, ma si tenta di capire che cosa sostiene una legge affinché possa essere davvero tale. Nelle sue parole emerge l’idea che le norme non vivono di autorità, ma di riconoscimento. E il riconoscimento è qualcosa che avviene sempre dentro le persone prima che nei tribunali. Colombo lo ripete con calma: una regola funziona solo se incontra una coscienza capace di percepirla come parte della convivenza. Altrimenti resta un segnale neutro, un’indicazione che può essere letta, ignorata o aggirata senza alcuna risonanza interiore. È questo scollamento tra norma e interiorità che caratterizza sempre più spesso il nostro tempo. Non è una colpa individuale, ma un effetto di un contesto in cui tutto sembra temporaneo, reversibile, intercambiabile: anche i limiti. In questo scenario, la violenza non appare come atto di ribellione ma come gesto senza profondità. Non c’è l’intenzione di opporsi a una regola: spesso non c’è nemmeno la percezione che quella regola esista come dimensione condivisa. Il limite non viene attraversato: semplicemente non viene visto. E quando il limite non è vissuto, non può esserci trasgressione. La trasgressione, che per secoli aveva un ruolo preciso - segnava il punto in cui l’individuo sfidava l’ordine - oggi appare come un concetto quasi inattuale, eroso dall’assenza stessa di un confine stabile da violare. I reati che occupano le cronache sono spesso la manifestazione di questa mancanza: gesti improvvisi, scollegati, privi di una narrazione che li contenga o li renda interpretabili. La violenza diventa un impulso che non trova argini, non perché li distrugga, ma perché non li incontra. E la legge, vista da Colombo, appare allora come un contenitore che non riesce a trattenere ciò che non ha forma. Le norme non sono state pensate per sostituire la responsabilità, ma per organizzarla. Sono la grammatica minima che permette a una comunità di esistere. Quando però la comunità perde la capacità di condividere significati, quella grammatica si inceppa. La regola continua a esistere, ma perde peso: non fa più orientamento, non delimita, non suggerisce un orizzonte. Semplicemente, scivola accanto alla vita delle persone senza toccarla davvero. La regola è, dunque, un gesto educativo. Non impone, orienta. Non chiude, apre un passaggio: permette a ognuno di comprendere dove finisce il proprio desiderio e dove inizia lo spazio dell’altro. Per questo Colombo ripete che le regole non servono a reprimere, ma a far funzionare le relazioni. A costruire fiducia, prevedibilità, continuità nel vivere insieme. Ma tutto ciò richiede una cultura delle responsabilità che oggi sembra indebolita. Si cresce senza avere esperienza del limite, come se il limite fosse una minaccia e non una forma di protezione. E così le persone arrivano all’età adulta senza aver interiorizzato la distinzione tra impulso e azione, tra bisogno immediato e conseguenza. Il gesto violento è spesso la manifestazione estrema di questa incapacità di contenersi, di darsi forma. La legge può intervenire dopo, ma non può anticipare ciò che solo l’educazione può generare: la capacità di riconoscere l’altro, di misurare i propri atti, di dare un significato al proprio agire. Colombo lo ripete da anni, e le sue parole suonano oggi più urgenti che mai: una società non si salva con l’inasprimento delle norme, ma con la costruzione paziente di una coscienza comune. Come ripristinare il terreno su cui una regola può mettere radici? Non ci sono soluzioni immediate. Ma una via sensata è un’educazione culturale diversa, che fin dalle prime scuole restituisca al limite il suo valore di relazione. Un’educazione capace di ridare peso ai legami, agli spazi, senso alle regole e responsabilità. Da lì può nascere una speranza. Pm capi dell’Anm: a loro 7 presidenze sulle ultime 9 di Errico Novi Il Dubbio, 3 dicembre 2025 A partire da Palamara, che ha presieduto il sindacato delle toghe fra il 2008 e il 2012, i numeri uno dell’associazione sono stati in nettissima maggioranza pubblici ministeri: 7 su 9. È un’assurdità, un evidente paradosso se si considera che gli inquirenti costituiscono sì e no il 20% dei magistrati. Qualcosa in meno e non in più. Ti aspetteresti di vedere al vertice dell’associazionismo giudiziario, in netta prevalenza, giudici. Magari giudici civili, la sottocategoria nettamente più rappresentata. E invece no. Di magistrati giudicanti, negli ultimi 13 anni, se ne sono visti solo due, alla guida del sindacato. Uno è il predecessore dell’attuale leader Cesare Parodi, oggi capo dei pm di Alessandria, vale a dire Giuseppe Santalucia, giudice penale della Cassazione. Giudice illuminato, senza ombra di dubbio alcuna. Si deve a lui la remissione alla Corte costituzionale della norma che precludeva senza spiragli l’accesso ai benefici penitenziari per gli ergastolani “ostativi” non disposti a collaborare con la giustizia. L’altro presidente- giudice degli ultimi 9 è Pasquale Grasso. Giudice civile a Genova. Altra figura di spessore: affilatissimo quando si è trattato di polemizzare con i colleghi. Ma lui, Grasso, è durato pochissimo: due mesi appena, da aprile a giugno 2019. Un’eccezione mal tollerata. Il presidente espressione della moderata “Magistratura indipendente” è stato ricacciato via dalla gran parte delle correnti. Espulso come un’anomalia indigesta. Poi, per propria volontà, si è separato dalla magistratura associata. Oggi fa il suo lavoro. Ma di Anm non vuole più sentir parlare. Direte: è solo un caso. E no, che non lo è. È un dato che, come si diceva, ci spiega cos’è oggi l’associazionismo giudiziario. Ci racconta in modo perfetto lo strapotere dei pm all’interno dell’Anm, e quindi del Csm. Ci dice appunto perché la riforma, la separazione delle carriere, è indispensabile. È soprattutto perché è indispensabile il sorteggio. Solo con l’estrazione a sorte dei togati nei due eventuali, futuri Csm (uno per i giudici, l’altro per i requirenti), si impedirà che i pubblici ministeri controllino carriere e promozioni di coloro, i giudicanti, dinanzi ai quali dovrebbero essere solo una parte, al pari degli avvocati. Se ci si limitasse a sdoppiare l’attuale Csm unico, i magistrati dell’accusa continuerebbero a controllare in gran parte anche le scelte di un Consiglio superiore dei soli giudici: anche i togati del Csm giudicante continuerebbero a essere eletti sotto lo sguardo vigile e invasivo delle correnti Anm, nelle quali i pm sono appunto egemoni. Come dimostra l’assurda sequenza di inquirenti al vertice dell’intera associazione. Solo il sorteggio sottrae il controllo dei togati alle correnti e, dunque, ai magistrati delle Procure. Si dirà: ma com’è che i pubblici ministeri hanno conquistato, almeno nel passato recente, un predominio così netto nell’Associazione magistrati e nei gruppi che la compongono? La risposta è nella spettacolarizzazione del processo. Ed è incredibile il meccanismo micidiale con cui, nella magistratura, lo sbilanciamento degli equilibri a favore dei pm, legato appunto alla deriva mediatica, finisca per perpetuare la stessa deriva mediatica da cui tutto nasce. È chiaro, infatti, come il maggior peso acquisito nel sindacato delle toghe dai magistrati penali dell’accusa sia legato alla loro incomparabilmente maggiore notorietà, al loro peso pubblico e anche alla valenza politica delle indagini più clamorose, spesso rivolte ai presunti illeciti dei partiti. Essere impropriamente “antagonisti” dei politici ha reso i pm politicamente più scaltri. Al punto da farne una corporazione nella corporazione. Invisibile, non necessariamente organizzata, eppure naturalmente potentissima. Ma il controllo che, grazie all’egemonia nell’Anm, gli inquirenti vantano anche sulle carriere dei colleghi giudici finisce per indebolire soprattutto i gip nella loro azione di filtro. È così che le indagini preliminari, le intercettazioni, gli arresti “preventivi” finiscono per essere un rullo compressore senza ostacoli, dalla grande risonanza mediatica, grazie innanzitutto all’illecita propalazione degli “ascolti”. Più il meccanismo si è consolidato, più inattaccabile è diventato lo strapotere dei pubblici ministeri nell’Anm. Un circolo vizioso che la separazione delle carriere e, soprattutto, il sorteggio possono spezzare. È così che, dopo la presidenza Palamara - segnata dal connubio fra il magistrato poi ridotto a capro espiatorio di ogni male e un inquirente di ferro come Giuseppe Cascini - si è passati senza colpo ferire a un altro pubblico ministero pure lui di Unicost come Rodolfo Maria Sabelli. Moderato, poco attratto dal protagonismo chiassoso, ma comunque sigillo di una supremazia che i magistrati delle Procure avevano conquistato nell’ordine giudiziario. Con le successive elezioni dell’Anm, nel 2016, si passa ovviamente a un altro pm, ma di tutt’altro profilo: Piercamillo Davigo, fresco di divorzio da “Magistratura indipendente” e inventore, con il collega pm Sebastiano Ardita, di una corrente oggi quasi dissolta, “Autonomia & indipendenza”. Il profeta del motto “gli innocenti sono solo colpevoli che l’hanno fatta franca” è il primo di una staffetta concordata fra i gruppi associativi alla luce del forte equilibrio restituito dal voto del 2016: passa il testimone a un altro pm, stavolta della progressista “Area”, Eugenio Albamonte. Dopo di lui, il sostituto procuratore di Roma che era stato segretario con Davigo, Francesco Minisci di Unicost. È lui a cedere lo scettro a Pasquale Grasso, che balla nemmeno un’estate. Dopo arriva, manco a dirlo, l’ennesimo sostituto procuratore, Luca Poniz, di “Area”. Si passa finalmente a un giudice, il ricordato Santalucia, di “Area” come Albamonte e Poniz. Dopodiché tocca al pm Parodi, di “Mi”, tuttora in carica. È dei pm, il potere fra i magistrati. E quel potere che vive anche delle indagini sulla politica e del conflitto con i partiti. È nato 33 anni fa, con Mani pulite e il fatidico pool di Milano. E che una potenza politica del genere possa arrendersi facilmente alla separazione delle carriere, è un’illusione di cui i sostenitori del Sì al referendum faranno bene a liberarsi in fretta. La trasparenza non è un’ossessione, è democrazia di Francesco Petrelli* Il Foglio, 3 dicembre 2025 Sapere quante richieste di custodia cautelare presentate dai pm vengono accolte dai giudici non serve a puntare il dito contro alcuno. Ma a consentire ai cittadini di capire come funziona davvero la giustizia. Senza dati il dibattito scivola su percezioni, slogan ed emotività. In risposta all’articolo pubblicato il 30 novembre sul “Fatto Quotidiano”, che descrive la nostra richiesta di dati sulle misure cautelari come una “ossessione” e una “spasmodica ricerca di numeri”, desidero condividere alcune riflessioni che ritengo necessarie, non per alimentare polemiche ma per rispetto di chi sarà chiamato ad assumere una decisione che inciderà profondamente sull’assetto della giustizia. La richiesta di conoscere i dati sulle misure cautelari non è - e non è mai stata - una mossa politica, né tantomeno un attacco alla magistratura, con cui gli avvocati penalisti si confrontano ogni giorno nelle aule. È qualcosa di molto più semplice: trasparenza. A questo scopo, l’Unione delle Camere Penali Italiane ha avviato una ricerca nazionale rivolta agli Uffici GIP dei tribunali italiani, con l’obiettivo di raccogliere dati aggregati relativi agli anni 2022, 2023 e 2024 sulla percentuale di accoglimento delle richieste di misure cautelari personali e reali formulate dalle Procure. Si tratta di informazioni di natura statistica la cui conoscibilità costituisce un presupposto essenziale per valutare con consapevolezza l’effettivo funzionamento del sistema. Non ricorrerò a slogan, ma alle parole dell’allora ministra Marta Cartabia, la quale ha autorevolmente insistito sulla necessità di sviluppare una “cultura del dato”, ricordando che l’accessibilità delle informazioni costituisce un “dovere di trasparenza verso i cittadini”. Le istituzioni devono rendere chiaro su quali elementi fondano le loro decisioni: questo è il presupposto di una democrazia matura e la condizione per ricostruire fiducia tra lo stato e la comunità dei consociati. È esattamente ciò che chiediamo. Sapere quante richieste di custodia cautelare presentate dai pubblici ministeri vengono accolte dai giudici non serve a puntare il dito contro alcuno. Serve a consentire ai cittadini di capire come funziona davvero la giustizia. Senza dati, il dibattito - soprattutto in vista di un referendum - non può che scivolare su percezioni, slogan ed emotività. Il referendum è il momento in cui la parola torna direttamente al corpo elettorale. Come si può chiedere ai cittadini di esprimersi con consapevolezza senza metterli nella condizione di conoscere i fatti e i dati? Sottolineiamo inoltre che la nostra richiesta non è una supplica, né un atto di cortesia istituzionale: è un richiamo a un dovere giuridico di trasparenza. L’accesso ai dati non è una concessione benevola: discende dal principio di buon andamento e dalla responsabilità pubblica delle istituzioni. Per questo respingiamo fermamente l’idea che chiedere numeri possa equivalere a voler “indirizzare” o “condizionare” qualcuno. Chi è davvero convinto della solidità del sistema non teme la luce dei dati. Perché la trasparenza non indebolisce le istituzioni: le rafforza. E se a qualcuno la nostra richiesta potrà sembrare un’”ossessione”, noi continuiamo a chiamarla per ciò che è: democrazia. Un dibattito serio sul referendum, qualunque posizione ciascuno decida di assumere, deve essere fondato su elementi verificabili, non su narrazioni. Noi chiediamo soltanto che la comunità dei cittadini sia messa nella condizione di comprendere la realtà della giurisdizione. E siamo certi che proprio la magistratura - forte della sua cultura istituzionale e del suo ruolo costituzionale - non accetterà di essere rappresentata come un potere che teme la trasparenza. Perché la fiducia - nel diritto, nelle istituzioni, nella giustizia - non si invoca: si costruisce, e si difende, con la verità dei dati. *Presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane Violenza sessuale, l’alt dei giuristi sulla riforma: “No al rischio della prova diabolica” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 3 dicembre 2025 Al Senato le audizioni sul testo “congelato” dopo il via libera della Camera: i pareri dei penalisti e dell’Anm. Si parte da un punto di vista comune: superare l’attuale definizione di violenza sessuale, tuttora ancorata a un’idea di forza invincibile, è un obiettivo indispensabile, oltre che condivisibile. Ma come riscrivere il codice penale senza rinunciare a tutele e garanzie processuali? Questa volta avvocatura e magistratura si trovano dalla stessa parte del tavolo nel sollecitare la politica a introdurre dei correttivi. Magari con alcuni dei ritocchi proposti ieri nel corso delle audizioni svolte in commissione Giustizia al Senato. Un ciclo breve, diviso in due giorni, voluto dal centrodestra per riformulare il ddl promosso con un accordo bipartisan tra Pd e Fratelli d’Italia. Il testo, approvato con voto unanime alla Camera, mira a introdurre il principio del consenso “libero e attuale” nell’articolo 609bis del codice penale, che disciplina il reato di stupro. Ma non sono pochi i dubbi espressi sul provvedimento, che al momento resta “congelato” a Palazzo Madama. “Non vi è dubbio che il fenomeno debba essere arginato”, ha esordito Giulia Boccassi, vicepresidente dell’Unione delle Camere penali. Ma “di consenso si deve parlare anche e soprattutto al di fuori del codice penale, per riflettere sul suo significato extra giuridico”, ha sottolineato, investendo dunque sul piano culturale. Su quello pratico, le perplessità espresse dai penalisti riguardano soprattutto la determinatezza, dal momento che la “riforma dovrebbe essere finalizzata a ridurre i dubbi applicativi in sede giudiziaria”, per evitare “operazioni ermeneutiche molto espansive” che lascino un ampio margine di discrezionalità alla magistratura. In questo senso, la proposta dell’Ucpi valorizza il modello tedesco, che - a differenza di quello spagnolo - si fonda sul dissenso esplicito della vittima (“no è no”). Questa impostazione, ha spiegato Boccassi, sarebbe “maggiormente aderente ai nostri principi”. Inoltre, la definizione di consenso “libero e attuale”, abbinata a una nozione troppo ampia di “atti sessuali”, potrebbe determinare un “aggravio per l’imputato”, chiamato a fornire la cosiddetta “prova diabolica” sul consenso espresso dalla presunta vittima. “Appare inoltre irragionevole la parificazione sanzionatoria tra l’ipotesi basata sull’assenza del consenso e le condotte comparativamente più gravi connotate da violenza e abuso”, ha spiegato Boccassi. Che propone di sostituire la formulazione attuale di consenso con l’espressione “in violazione del dissenso” o di eliminare quantomeno il requisito dell’attualità. Leggermente diversa la posizione del presidente dell’Anm Cesare Parodi, che ha portato in audizione anche la sua esperienza di magistrato nel trattare i casi di violenza sessuale. Il leader del “sindacato” delle toghe ha sottolineato la necessità di superare sentenze e domande “moraleggianti”. E non vede il rischio di un’inversione dell’onere probatorio a carico dell’imputato. Ma sarebbe utile “tipizzare” il consenso, chiarendo in che modo vada manifestato. Per Parodi, la valutazione del contesto, caso per caso, resta infatti irrinunciabile: “Calare le dichiarazioni di entrambi nella realtà specifica di quel momento non è facile - ha osservato - ma è molto importante”. E se una norma “dettagliata” è auspicabile, lasciare “una possibilità alla magistratura di integrare le singole condotte” può essere “un rischio dal punto di vista della determinatezza”, ma anche una “garanzia”. Il presidente Anm, inoltre, ha sollevato dubbi sulla procedibilità d’ufficio del reato e ha segnalato la difficoltà, per l’imputato, di avvalersi della facoltà di non rispondere, laddove la sua “versione” dei fatti sarà necessaria. Scrivere norme troppo vaghe rischia invece di produrre effetti indesiderati, a parere dell’avvocato Guido Camera. Che pure concorda sulla necessità di valutare il contesto in cui è maturato il reato, come prescrive peraltro la Convenzione di Istanbul, ratificata dal Parlamento italiano nel 2013. Il legale fonda le proprie riflessioni proprio sul quel provvedimento, proponendo definizioni più dettagliate di “atti sessuali” e di consenso che possano offrire strumenti interpretativi adeguati. Un “consenso rafforzato”, infatti, determinerà necessariamente un’interpretazione giurisprudenziale volta a chiarire il precetto. Laddove, “in un contesto significativo di politica criminale, è giusto rivendicare la riserva legislativa”. Dunque, è la proposta di Camera, bisogna tipizzare “l’errore nel fatto”, definire cosa si intende per atto sessuale, compresa la molestia, prevedere ipotesi lievi, e non precludere mai - nell’esame incrociato della persona offesa, su cui è intervenuta anche la legge sui femminicidi - le domande volte a definire il contesto e la relazione. A tirare le fila è la presidente della commissione, la senatrice leghista Giulia Bongiorno. Per la quale bisogna “evitare che questo consenso sia un concetto del tutto astratto ed evitare che al contempo ci possano essere strumentalizzazioni”. Oggi se ne discuterà nel seguito delle audizioni, con il presidente della terza sezione penale della Cassazione, Vito Di Nicola, e la coordinatrice dell’Ocf Elisabetta Brusa. Vittime di mafia, ma risarcimento negato. Quando lo Stato ignora le sue leggi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 dicembre 2025 Michele Ciminnisi non doveva morire. O meglio, non era lui l’obiettivo. Era il 29 settembre 1981, un martedì qualunque a San Giovanni Gemini, provincia di Agrigento. Michele se ne stava appoggiato al muro esterno del bar Reina, forse a godersi l’aria, forse in attesa di qualcuno. Non poteva sapere che di lì a poco si sarebbe scatenato l’inferno. Dentro quel bar c’era “Gigino” Pizzuto, un boss di peso, uno che sedeva nella commissione regionale di Cosa Nostra ma che aveva il difetto di appartenere alla fazione sbagliata, quella di Bontate. I “corleonesi” di Riina e Provenzano avevano deciso che doveva morire. E per farlo non mandarono un sicario silenzioso nell’ombra, ma un commando di guerra. Due killer arrivarono sparando. Michele cadde subito, fulminato all’esterno del locale, colpevole solo di trovarsi sulla traiettoria della violenza. I killer entrarono, uccisero Pizzuto, ma i proiettili vaganti si presero anche la vita di Vincenzo Romano, un altro innocente seduto a un tavolo da gioco. Quella di San Giovanni Gemini non fu un’esecuzione. Fu una strage. Un atto pensato per terrorizzare, per dire a tutti che nessuno era al sicuro, che il potere dei Corleonesi non guardava in faccia a chi giocava a carte o beveva un caffè. Oggi, più di quarant’anni dopo, quella dinamica di morte è diventata il centro di una battaglia surreale tra i figli di Michele, in particolare Giuseppe Ciminnisi coordinatore nazionale dei familiari delle vittime di mafia dell’associazione “I cittadini contro le mafie e la corruzione”, e il ministero dell’Interno. Una guerra fatta di carte bollate, sentenze ignorate e bonifici che sanno di beffa. La questione è sottile ma sostanziale. Per anni, Michele Ciminnisi è stato considerato una “vittima innocente della criminalità organizzata”. Un’etichetta corretta, certo, ma incompleta. La legge 206 del 2004 ha introdotto benefici specifici per le vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice. La tesi sostenuta dai legali di Ciminnisi, gli avvocati Salvatore Ferrara e Danilo Giracello, è che la mattanza del 1981 rientri perfettamente in questa categoria: un’azione criminosa in luogo pubblico, rivolta contro soggetti indeterminati, parte di una strategia stragista volta a diffondere il panico. Significa riconoscere che la mafia, in quegli anni, agiva come un’organizzazione terroristica. Giuseppe Ciminnisi ci ha creduto. Ha portato il ministero dell’Interno in tribunale, a Palermo, davanti alla Sezione Lavoro. E ha vinto. Il giudice Rosalba Musillami, con la sentenza numero 1066 pubblicata l’ 8 marzo 2024, ha scritto nero su bianco che Giuseppe ha ragione. Il Ministero, che nel processo non si è nemmeno costituito restando contumace, è stato condannato a riconoscere i benefici della legge 206/ 2004, togliendo quanto già erogato per la legge sulle vittime di mafia. Una vittoria piena. La sentenza dice: lo Stato deve pagare, lo Stato deve riconoscere lo status. Qui finisce la logica e inizia il labirinto burocratico italiano. Perché in un Paese normale, una sentenza esecutiva notificata alla Pubblica Amministrazione viene applicata. In Italia, invece, viene interpretata, o peggio, archiviata in un cassetto. Dopo la notifica della sentenza a settembre 2024, il silenzio. O quasi. Dagli uffici della Prefettura di Agrigento parte una nota che sembra arrivare da un’altra epoca. I funzionari dell’Ufficio territoriale del governo scrivono che l’evento del 1981 è stato attribuito dai giudici penali dell’epoca “esclusivamente alla cosca mafiosa Cosa Nostra”, senza “alcuna connotazione terroristica”. Per la Prefettura, il padre di Giuseppe è stato riconosciuto “vittima innocente della criminalità organizzata” e tanto basta. La nota si arrampica sugli specchi della giurisprudenza contabile, citando sentenze della Corte dei Conti per sostenere che non esiste un’equiparazione automatica tra le vittime di mafia e quelle del terrorismo e che “nessun ulteriore beneficio” può essere concesso. Il ragionamento dell’amministrazione è disarmante nella sua rigidità: si aggrappano alle vecchie sentenze della Corte d’Assise del 1981 e del 2012, ignorando totalmente il fatto nuovo, ovvero che un Tribunale della Repubblica, nel 2024, ha analizzato quei fatti alla luce delle nuove leggi e ha stabilito che sì, quello fu terrorismo mafioso. La Prefettura, di fatto, si sta sostituendo al giudice, decidendo che la sentenza 1066/ 2024 non va applicata perché loro non sono d’accordo. Per capire che non si tratta di un incidente di percorso, ma di un vero e proprio “metodo” con cui lo Stato tratta queste vicende, bisogna allargare lo sguardo. Mentre Giuseppe combatteva la sua battaglia, tre donne - anch’esse familiari di vittime innocenti - affrontavano lo stesso muro di gomma. La loro storia, recentemente definita in una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa (CGA) dell’ottobre 2025, è la prova che il sistema è rotto. Anche loro avevano una sentenza definitiva. Anche a loro il Ministero ha negato un diritto. La scusa? Non avevano “barrato la casella giusta” in un modulo incompleto fornito proprio dal Ministero. Il CGA ha dovuto scrivere parole di fuoco, parlando di “violazione sistematica dei diritti costituzionali” e accusando l’amministrazione di usare il formalismo burocratico per discriminare le vittime. I giudici hanno chiarito un concetto che dovrebbe essere ovvio: non si può costringere chi ha già vinto in tribunale a ricominciare daccapo per un cavillo. È in questo contesto di sistematica negazione che si inserisce il vero cortocircuito del caso Ciminnisi. Arriva il 19 novembre 2025. Il ministero dell’Interno, lo stesso che tramite la Prefettura nega i diritti a Ciminnisi e che nel caso delle tre donne usava i moduli sbagliati, dispone un bonifico. L’ordinativo secondario n. 5 sul capitolo 2937 del bilancio porta una causale chiara: “Pagamento della somma di € 4420.36 per spese di lite in favore ricorrente su Sent. n. 1066/ 24 Tribunale di Palermo”. Hanno pagato le spese processuali. Hanno versato i soldi per gli avvocati e per il contributo unificato. Con quel bonifico, il Ministero ammette due cose: primo, che la sentenza esiste ed è valida; secondo, che sanno di essere stati condannati. Eppure, mentre i soldi per le spese legali partono, il provvedimento amministrativo che dovrebbe cambiare la vita di Giuseppe Ciminnisi e restituire la giusta etichetta storica alla morte di suo padre resta bloccato. È un paradosso schizofrenico. Lo Stato accetta di saldare il conto con la giustizia formale, ma rifiuta il debito morale e sostanziale verso la vittima. Di fronte a questo muro di gomma, Giuseppe Ciminnisi non ha avuto scelta. È stato costretto a rivolgersi nuovamente al ministero dell’Interno presentando una ottemperanza. Un tentativo del cittadino contro l’inerzia della Pubblica Amministrazione. Gli avvocati Ferrara e Giracello chiedono al Ministero di eseguire la sentenza di Palermo. Di smetterla di citare vecchi dispositivi penali per eludere nuovi obblighi civili. Nel ricorso si legge tutta la frustrazione di chi ha un titolo esecutivo in mano che vale meno della carta su cui è stampato. Si chiede la nomina di un “Commissario ad acta”, un funzionario che prenda il posto dell’amministrazione inadempiente e firmi i decreti che nessuno al Ministero vuole firmare. Si chiede, in sostanza, che lo Stato commissari sé stesso per poter funzionare. Ma nulla di fatto. La storia di Michele Ciminnisi, morto ammazzato mentre prendeva aria fuori da un bar, e dei suoi figli, costretti a inseguire la giustizia tra Palermo e Roma, racconta un’Italia dove le sentenze rischiano di restare vuoti simulacri. Riconoscere che quella strage fu terrorismo non è solo una questione di soldi. È una questione di verità storica e rispetto della legge. Significa ammettere che la mafia ha usato il terrore indiscriminato come arma politica e militare, colpendo cittadini inermi in luoghi pubblici per piegare lo Stato. La legge 206 del 2004 è nata per questo. Il Tribunale di Palermo lo ha capito e lo ha sancito. Il ministero dell’Interno si è limitato a pagare il bonifico per le spese legali. Ciminnisi aspetta ancora. Come lui, centinaia di altre famiglie. È applicabile la messa alla prova anche per il delitto di furto in abitazione e con strappo di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 3 dicembre 2025 La Cassazione con la decisione precisa sia la possibile sospensione del processo con conseguente estinzione del reato ex articolo 624 bis del Cp sia la sussistenza dell’interesse ad agire contro la condanna a pena sostitutiva di Lpu. Con la sentenza n. 38670/2025 la Cassazione penale ha affermato che il furto in abitazione o con strappo previsto con l’inserimento dell’articolo 624 bis del Codice penale rientra tra i reati per i quali è ammessa la procedura di sospensione del processo per messa alla prova in base al combinato disposto degli articoli 168 bis del Codice penale e 550, comma 2, del Codice di procedura penale. La decisione afferma la sussistenza dell’interesse a ricorrere in capo all’imputato sottoposto a giudizio con citazione diretta del Pm anche se condannato con pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità. Il ragionamento sull’interesse ad agire - La scelta della soluzione non può che prendere le mosse dalle differenze tra i due istituti, soprattutto sul piano degli effetti sostanziali e processuali. ?Sul piano sostanziale, l’esito positivo della messa alla prova, comporta l’estinzione del reato, con conseguente cessazione della punibilità e di tutti gli effetti penali, tra i quali, per citare quelli più incisivi, di ostare alla configurabilità della recidiva e di non costituire ostacolo alla concessione di una futura sospensione condizionale della pena. Mentre le sanzioni sostitutive, che attengono al trattamento sanzionatorio, perseguono soprattutto l’obiettivo di scongiurare il rischio che brevi periodi di detenzione possano pregiudicare il fine rieducativo della pena e il reinserimento sociale del con-dannato. Esse presuppongono un accertamento di responsabilità e, in caso di mancata esecuzione ovvero in presenza di gravi e reiterate violazioni, comportano il ripristino della pena detentiva sostituita. Quindi l’interesse concreto del ricorrente si situa nella circostanza che le sanzioni sostitutive non estinguono il reato e neanche la pena in alcuni casi. Inoltre, rileva la differenza delle due misure in termini di durata: - il lavoro di pubblica utilità ha una durata corrispondente a quella della pena detentiva sostituita mentre - la durata della sospensione del processo fino all’eventuale declaratoria di estinzione del reato non può essere superiore a due anni. Diverso è poi l’impatto in materia di iscrizioni nel casellario giudiziale. Per la messa alla prova è esclusa la menzione dei provvedimenti che dispongono la sospensione del procedimento e delle sentenze che dichiarano estinto il reato per esito positivo della prova in esito alla richiesta di certificati rilasciati a richiesta dell’interessato, del datore di lavoro e della pubblica amministrazione. Proprio sul punto la Consulta aveva osservato che “la menzione nel certificato finisce per contraddire la ragion d’essere della dichiarazione di estinzione del reato (con cui si chiude il processo se la prova è positiva), che è l’esclusione di qualunque effetto pregiudizievole, anche in termini di reputazione, a carico dell’imputato”. Viceversa, le sanzioni sostitutive, proprio perché presuppongono un accertamento di responsabilità, non compaiono tra i casi di esclusione delle iscrizioni nel casellario giudiziale ex articolo 24 del Dpr 313/2022. Afferma quindi la Cassazione che “la sospensione del procedimento con messa alla prova sia più favorevole sul piano sostanziale e processuale, e che tanto consenta di ritenere certamente sussistente l’interesse all’impugnazione del ricorrente, stante l’evidente idoneità del provvedimento giudiziale in esame a produrre la lesione concreta della sua sfera giuridica”. L’accoglimento del ricorso - Il ricorrente si contrappone all’affermazione del Gip che aveva negato all’imputato l’applicabilità dell’istituto della messa alla prova per il delitto ex articolo 624 bis del Codice penale (furto in abitazione o con strappo) ritenendo che il trattamento sanzionatorio previsto fosse superiore al generale limite di legge dei 4 anni edittali previsto dall’articolo 168 bis del Codice penale, modificato dalla Cartabia, e che la fattispecie non rientrasse neanche nell’elenco tassativo dei reati contemplati dall’articolo 550, comma 2, del Codice di procedura penale che indica i casi di citazione diretta in giudizio che sono ugualmente considerati tra i casi ammissibili alla messa alla prova. Su tale ultima considerazione vale la pena riportare il ragionamento della Cassazione dove afferma che - aderendo a giurisprudenza già consolidata - la fattispecie incriminatrice di cui all’articolo 624 bis del Cp rientra nel novero dei reati per i quali è ammessa l’operatività dell’istituto della sospensione del processo per messa alla prova, dal momento che questo è applicabile, secondo la chiara dizione dell’articolo 168 bis del Cp ai delitti indicati nel comma 2 dell’articolo 550 del Cpp sulla citazione diretta a giudizio, tra i quali è certamente da ricomprendere il delitto contestato. La Suprema Corte rilevando la mancanza di coordinamento tra le norme coinvolte, quelle modificate e quelle preesistenti, sostiene che l’impasse vada colmato attraverso un’interpretazione che tenga conto delle diverse epoche in cui le regole in gioco sono state emanate e del criterio sistematico, nonché del principio del favor rei, cui è evidentemente ispirato l’istituto. Si giunge così ad affermare che il Legislatore del 2014 che - con l’articolo 3, comma 11, della legge n. 67 ha introdotto la causa di estinzione - nel definire la tipologia dei reati ammissibili tramite il criterio della citazione diretta a giudizio, ha evidentemente tenuto conto dell’elaborazione giurisprudenziale, che ritiene questo il modo corretto di esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero per il reato ex articolo 624 bis del Cp con conseguente inclusione tra quelli per cui si applica la messa alla prova. Conclude la Corte facendo rilevare poi che secondo interpretazione storico-sistematica la norma incriminatrice autonoma (introdotta nel 2001) ha assorbito le precedenti fattispecie di furto in abitazione e di furto commesso strappando la cosa di mano o di dosso alla persona, previste dagli articoli del Codice penale 624 (furto) e 625, comma 1, numeri 1) e 4) (circostanze aggravanti). E tali ultime figure di reato erano tra quelle per le quali era contemplata la citazione diretta a giudizio, dovendo, così, presumersi che la volontà del Legislatore del 2001 fosse stata quella di immaginare per la nuova figura di delitto, assorbente delle due precedenti, la stessa regola di esercizio dell’azione penale da parte del Pm con citazione diretta, cioè saltando il passaggio dell’udienza preliminare. Lecce. Giovane detenuto muore in carcere: aperta inchiesta di Francesco Oliva corrieresalentino.it, 3 dicembre 2025 Detenuto muore nel sonno nel carcere di Lecce nella notte tra domenica e lunedì. La vittima si chiama Luciano Romano, 36enne residente nel capoluogo salentino, arrestato soltanto pochi giorni fa per questioni di droga. Sono stati gli altri due compagni di cella - uno di Lecce, l’altro di Cerignola (Foggia) - a compiere la triste scoperta, all’alba di lunedì, quando hanno ritrovato il corpo di Romano privo di vita riverso nel letto. La richiesta di soccorso è stata tempestiva così come l’intervento del personale del 118. I soccorritori hanno manovrato, tentato il massaggio cardiaco ma non hanno nemmeno accennato a una corsa disperata in ospedale. Dalle testimonianze fornite dai compagni di cella agli agenti di polizia, Romano non aveva lamentato problematiche particolari nelle ore immediatamente precedenti. Di notte, si era svegliato ma si era addormentato subito dopo e i suoi compagni di cella non avevano sentito nulla di anomalo. Una prima visita sul corpo del detenuto non ha evidenziato alcun tipo di lesioni che possa far ipotizzare a una morte violenta. Sul decesso, la pm Donatina Buffelli ha aperto un fascicolo di indagine con l’accusa di omicidio colposo a carico di ignoti. Giovedì verrà eseguita l’autopsia affidata al medico legale Ermenegildo Colosimo. I familiari del giovane, assistiti dall’avvocato Giancarlo Dei Lazzaretti, sono sicuri che Romano non soffrisse di patologie cardiache: gli unici problemi erano respiratori. L’esame necroscopico dirà se il giovane avesse qualche problema di salute di cui i parenti, così come la vittima, erano all’oscuro. Il 36enne era finito dietro le sbarre il 21 novembre scorso quando venne fermato dalla polizia in città: all’interno della sua auto - in compagnia di un complice - nascondeva 199 panetti di hashish per un peso complessivo di 20 chili. A quel punto sono scattate le manette e l’immediato trasferimento in carcere dove il giovane è deceduto nelle scorse ore. Milano. Università in carcere, quei 175 studenti ristretti della Statale di Ilaria Dioguardi vita.it, 3 dicembre 2025 Mille ore di lezione in un decennio per il Polo penitenziario universitario dell’ateneo milanese è il più grande in Italia e tra i più grandi in Europa. La rettrice Marina Brambilla: “Ci ha regalato un primato nazionale che ci rende davvero orgogliosi: realizza un dettato costituzionale, insegna e dà consistenza ad una solidarietà giusta e necessaria, forma e allena alla coesione sociale nella pratica dell’insegnamento e dell’amicizia, nutrendo una delle identità più importanti di questa università”. All’interno del progetto è nato anche il primo Osservatorio sul diritto allo studio in carcere italiano. Da 10 anni l’Università degli studi di Milano porta avanti il progetto Carcere, il Polo penitenziario della Statale è il più grande in Italia e tra i più grandi a livello europeo per numero di studenti ristretti iscritti e per la partecipazione di tutor e docenti. Attualmente sono 175 gli iscritti detenuti, da otto istituti penitenziari lombardi in 34 corsi di laurea, 170 i tutor coinvolti. Dalla sua nascita ha permesso a 24 persone in esecuzione penale di laurearsi. Oltre 1.000 ore di lezione - Nato nel novembre 2015, il progetto Carcere ha saputo trasformare il Polo universitario penitenziario della Statale in un punto di riferimento. Nel corso di questi 10 anni, il progetto ha coinvolto circa 600 tutor, 35 docenti titolari di corsi, oltre a moltissimi altri che hanno contribuito con singole lezioni. Sono stati organizzati 55 laboratori e corsi didattici, per un totale di oltre 1000 ore di lezione, che si sono svolti negli istituti penitenziari con la presenza congiunta di studenti ristretti e liberi e che hanno portato quasi 1.200 studenti esterni a confrontarsi direttamente con la realtà carceraria. Filosofia il corso più frequentato - Degli attuali 175 studenti ristretti iscritti, nove sono studentesse e 166 gli studenti. L’offerta formativa seguita dagli iscritti comprende 34 corsi di laurea, con una particolare concentrazione nei corsi triennali. Filosofia, il dipartimento in cui il progetto è nato, resta il corso più frequentato, seguito da Scienze Politiche, Scienze Umanistiche per la Comunicazione, Scienze dei Servizi Giuridici e Giurisprudenza. La maggior parte degli studenti ristretti ha più di 30 anni, con una significativa partecipazione di persone oltre ai 60 anni. Gli studenti provengono prevalentemente dal circuito di media sicurezza, ma il progetto raggiunge anche chi si trova in alta sicurezza, nel regime del 41 bis, in comunità o in misure alternative. Il ruolo chiave dei tutor - Nel 2024 sono stati sostenuti 255 esami, mentre nel 2025 sono già 250 le prove con cui gli studenti si sono misurati. I tutor svolgono un ruolo chiave per traduzione pratica del diritto allo studio: accompagnano gli studenti ristretti in ogni fase del percorso accademico, aiutandoli a costruire un metodo di studio efficace, a preparare gli esami e a gestire i materiali didattici tra carcere e biblioteche di ateneo. Dal 2022 all’interno del progetto Carcere della Statale è nato anche il primo Osservatorio sul diritto allo studio in carcere italiano, con lo scopo di garantire il coinvolgimento attivo degli studenti detenuti, monitorare le loro condizioni di studio e svolgere attività di ricerca sull’impatto degli interventi formativi in carcere. Due i risultati più importanti frutto dell’attività dell’Osservatorio. Il primo è la decisione del Consiglio regionale di sollevare tutti gli studenti universitari ristretti in Lombardia dal pagamento della tassa regionale per il diritto allo studio. Il secondo è la stipula di un contratto di comodato tra ateneo e casa di reclusione di Opera per fornire agli studenti che vi sono ristretti pc e stampanti. Nel 2024, inoltre, grazie alla sinergia tra la Statale di Milano, l’Università di Milano-Bicocca e l’Università Bocconi, è stata inaugurata un’aula informatica nella casa di reclusione di Bollate, per dare agli studenti detenuti uno strumento in più per il loro corso di studi. “Il progetto Carcere ci ha regalato un primato nazionale che ci rende davvero orgogliosi: realizza un dettato costituzionale, insegna e dà consistenza ad una solidarietà giusta e necessaria, forma e allena alla coesione sociale nella pratica dell’insegnamento e dell’amicizia, nutrendo una delle identità più importanti di questa università”, ha detto la rettrice dell’Università degli Studi di Milano Marina Brambilla, in occasione della celebrazione del decennale. “È stato fondamentale per le persone ristrette, aiutate a riprendere il corso della propria vita con un bagaglio di conoscenza e competenza utile a dare il proprio contributo positivo alla società, recuperando fiducia e autostima. Ma non è stato da meno per i nostri studenti”, prosegue Brambilla, “che hanno sempre risposto con entusiasmo e hanno avuto l’opportunità di fare un’esperienza formativa e di crescita personale e umana di inestimabile valore sociale: conoscendo direttamente vicende difficili, non così rare ma spesso ai margini della nostra attenzione, hanno infatti potuto dare al proprio percorso formativo anche un significato di profondo valore civile”. “Il nostro progetto si è tradotto nella costruzione di un ponte civico che unisce la Statale e quella particolare porzione della comunità circostante che sono gli istituti penitenziari, con lo scopo di portare quotidianamente l’università in carcere, mettendo chi vi è ristretto in condizione di esercitare in concreto il proprio diritto allo studio”, dice Stefano Simonetta, prorettore ai Servizi agli studenti e Diritto allo studio della Statale e referente di ateneo per il progetto Carcere. “Nato con l’intenzione di contribuire al reinserimento sociale di chi è temporaneamente separato dal resto della società per aver commesso reati, il progetto si è poi rivelato anche una straordinaria occasione di crescita umana e culturale per tutti coloro che vi prendono parte da cittadini liberi”. L’idea del progetto Carcere “è nata perché, poco più di 10 anni fa, sono andato a fare un esame della Storia della filosofia in carcere e mi sono reso conto, dalla testimonianza del detenuto a cui stavo facendo l’esame, che sarebbe stato importante aiutare chi voleva studiare all’università, pur essendo in un istituto penitenziario”, continua Simonetta. “Avevamo quattro studenti iscritti nel 2015, ora ne abbiamo quasi 180. Noi facciamo lezione in carcere insieme ai nostri studenti esterni, è una delle cose di cui siamo più orgogliosi tenere delle lezioni in cui chi è ristretto, segue un corso insieme ai compagni che vengono dall’esterno. È importante anche la dimensione relazionale e di socializzazione. Si creano delle relazioni sia fra i ragazzi che frequentano che vengono dall’esterno e i loro compagni detenuti, ma soprattutto fra i tutor e i loro studenti ristretti”. “La cosa che più colpisce me, i miei colleghi, gli studenti sono i racconti delle persone che ci dicono come i libri hanno cambiato loro la vita. Mi ricordo uno studente che ci ha raccontato di aver trovato un giorno sul tavolino un libro lasciato dal suo compagno di cella, che aveva terminato di scontare la sua pena. “Non avevo mai letto un libro di filosofia in vita mia e ben pochi libri in generale. Lettere a Lucilio di Seneca, mi ha veramente cambiato la vita”. Questo ristretto si è iscritto alla facoltà di Storia e poi di Filosofia come seconda laurea”. Stefano Simonetta, prorettore ai Servizi agli studenti e Diritto allo studio della Statale e referente di ateneo per il progetto Carcere Il progetto Carcere è rivolto a quella parte della popolazione penitenziaria “che manifesta interesse per un corso e che, su indicazione degli educatori, ha gli strumenti minimi per seguirlo. C’è anche chi si iscrive per cultura personale, per formazione, per un forte interesse”, prosegue Simonetta. “Ci sono alcuni studenti che, non essendo neanche diplomati, non possono conseguire la laurea. Frequentando questi corsi, alcuni decidono di prendere la maturità da privatisti e poi di iscriversi all’università con noi. Su 25-30 studenti ristretti, in media almeno una decina frequentano non per conseguire una laurea”. Milano. Corso in carcere di fashion design. Ecco le borse delle detenute-stiliste di Roberta Rampini Il Giorno, 3 dicembre 2025 Da semplice (ma non ordinario) accessorio a percorso di rinascita. La borsa, oggetto di culto per le donne, è diventata simbolo di memoria, autonomia e riscatto per un gruppo di donne detenute nel carcere di Milano-Bollate. È questo il senso di Unlimited Edition: The Bag, il progetto di formazione ideato dalla Fondazione Francesco Morelli per le detenute della sezione femminile della casa di reclusione, con la collaborazione dell’Istituto Europeo di Design e la partecipazione di Ethicarei e della Fondazione Severino. Obiettivo: utilizzare il design come strumento per sviluppare e sostenere la capacità di immaginare una trasformazione di sé. Al corso di formazione di Fashion Design hanno partecipato Elena, Veronica, Fanny, Tatiana, Lucia, Patrizia, Fortunata e Wilma, otto detenute selezionate da un’ampia rosa di candidature, 33 ore di corso da fine settembre al 4 novembre, guidate da docenti e professionisti dello Ied. Partendo dalla parola “tempo” hanno sviluppato idee e pensieri, poi hanno disegnato la loro borsa attraverso lo studio del cartamodello. Non una semplice borsa, ma una borsa che rappresenta la loro vita e la loro visione del loro futuro. C’è chi l’ha voluta molto grande, per mettere dentro tutte le sue cose e ritornare nel Paese d’origine una volta scontata la pena. Chi sulla fodera interna ha scritto il testo di una sua poesia. Chi l’ha voluta rigida all’esterno e morbida all’interno per rappresentare la sua personalità. Le borse disegnate durante il percorso sono state realizzate con tessuti naturali dai professionisti della Cooperativa Alice e il percorso si è concluso con la consegna alle detenute delle borse da loro progettate, insieme agli attestati di partecipazione al corso. “Crediamo che la cultura del design possa generare un cambiamento positivo soprattutto dove ci sono marginalità e fragilità - dichiara Maria Teresa Coradduzza, vicepresidente Fondazione Francesco Morelli -. Offrire un’opportunità di sviluppare competenze utili e concrete a persone che purtroppo solitamente hanno accesso scarso o nullo alla formazione è per noi un’azione di responsabilità sociale che interpreta con coerenza la visione e l’eredità di Francesco Morelli”. Oltre alla consegna delle borse è stato presentato il documentario che racconta tutte le fasi di lavoro realizzato da Oxymoro e il servizio fotografico che ha come protagoniste le otto borse, firmato dall’artista Rita Lino. Il progetto “The Bag” si inserisce all’interno di Unlimited Edition: Life, designed by you, un ciclo di iniziative avviato nel 2025 dalla Fondazione Francesco Morelli. Firenze. Il concerto della speranza. Gli strumenti musicali nascono dal legno dei barconi di Olga Mugnaini La Nazione, 3 dicembre 2025 Appuntamento il 14 dicembre (dalle 20) al Teatro del Maggio con l’Orchestra del Mare. Sono stati i detenuti a dare nuova vita al materiale recuperato dopo gli sbarchi. Si chiama l’Orchestra del Mare, forse per ricordare speranza e disperazione di quel carico di umanità che attraverso i barconi approda sulle nostre coste. Chi arriva stremato ma vivo; chi senza vita, arreso a quello stesso mare. I resti di quelle disgraziate imbarcazioni sono diventati qualcosa di più di fragili appigli a cui aggrapparsi nella furia delle onde. Sono diventati musica. Nelle mani di detenuti del carcere di Milano-Opera quei legni scrostati sono stati tagliati e levigati, curvati e rigenerati nella forma di strumenti musicali. E adesso suonano, come per restituire la voce all’intero popolo dei migranti. Questa sorta di prodigio nasce dal progetto “Metamorfosi” della Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti, che in città è stato sposato dalla Fondazione CR Firenze, la stessa che ha contribuito a realizzare il concerto di domenica 14 dicembre alle 20, al Teatro del Maggio, con i patrocini del Comune di Firenze e della Fondazione Cariplo. Il violoncellista Mario Brunello e il violinista Sergej Krylov insieme ai musicisti dell’Orchestra Giovanile Italiana della Scuola di Musica di Fiesole suoneranno così come l’Orchestra del Mare, con strumenti realizzati da legni che hanno solcato il Mediterraneo in forma di barconi. Il programma prevede il “Concerto per 2 violini in re minore” di Bach; Campanella, estratto dal “Concerto per violino e orchestra n. 2” di Niccolò Paganini; Adios Nonino di Astor Piazzolla e Violoncello vibrez! Di Giovanni Sollima. Ai maestri Brunello e Krylov saranno donati, dalle stesse persone detenute coinvolte nella costruzione degli strumenti musicali, un violoncello e un violino della liuteria del carcere di Milano-Opera. I due artisti diventeranno dunque “ambasciatori” dell’iniziativa. Il ricavato della serata andrà al sostegno dello stesso progetto Metamorfosi, finanziando i laboratori di liuteria nelle carceri di Opera e Secondigliano, di Rebibbia e Monza. “Sostenere l’Orchestra del Mare significa dare valore a un progetto che unisce arte, impegno civile e un’idea concreta di riscatto - afferma Bernabò Bocca, presidente di Fondazione CR Firenze -. Gli strumenti costruiti con il legno dei barconi e realizzati dalle persone detenute portano con sé storie difficili, che qui si trasformano in musica e in una potente testimonianza di umanità”. “L’Orchestra del Mare cerca di trasformare ciò che viene ritenuto, come diceva Papa Francesco, scarto, in armonia e speranza. Sono grato al Maggio Fiorentino per dare voce a tutto questo”, spiega il presidente della Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti, Arnoldo Mosca Mondadori. “Questo concerto è un vero e proprio messaggio - conclude Mario Brunello -. Gli strumenti trasmetteranno un appello di speranza da condividere con il pubblico”. C’è troppa rabbia in giro, evitiamo di abboccare di Gerolamo Fazzini Avvenire, 3 dicembre 2025 Per l’Oxford Dictionary la parola dell’anno è “rage bait”, cioè pubblicare contenuti che catturano l’attenzione scatenando rabbia. Chissà come reagirebbe, se fosse viva, Simone Weil. Cosa direbbe la filosofa e mistica francese, che lasciò scritto “L’attenzione è la forma più rara e più preziosa della generosità”? La notizia è questa: l’Oxford Dictionary ha selezionato come parola dell’anno rage bait (“esca per la rabbia”), riferendosi al fenomeno per cui, pur di catturare l’attenzione di chi transita sul web, si utilizza un contenuto online deliberatamente progettato per suscitare rabbia o indignazione attraverso un atteggiamento provocatorio o offensivo, pubblicato per aumentare il traffico. Certo, ai tempi di Simone Weil non esisteva Internet e il mondo era radicalmente diverso dall’attuale. Tuttavia, le parole della mistica - scritte nel 1942 - non hanno perso il loro valore. Di più: suonano come una provocazione, in un mondo, quello virtuale, nel quale non solo si sgomita in ogni modo per conquistare l’attenzione, ma si titillano persino gli istinti più bassi pur di ottenere una reazione, un like in più. Se teniamo presente che, come parola dell’anno 2024, l’Oxford Dictionary aveva individuato brain rot (“marciume cerebrale”), il cerchio sembra chiudersi. Con quell’espressione, infatti, si intende il deterioramento cognitivo e psicologico causato dal consumo eccessivo di contenuti online futili, spesso caratterizzati da stimoli visivi e sonori rapidi e senza significato. Avete letto bene: “futili” e “senza significato”. Col rage bait assistiamo a un salto di qualità (si fa per dire). “È molto interessante che la rabbia, come motore commerciale, stia sopravanzando gattini e tette-e-culi, cioè la tenerezza e l’eros”, ha osservato Concita Di Gregorio su “Repubblica”. Molto interessante sì, e altrettanto inquietante. Già, perché - come sottolinea Casper Grathwohl, presidente di Oxford Languages - “prima, Internet si concentrava sull’attirare la nostra attenzione suscitando curiosità in cambio di clic, ma ora abbiamo assistito a un cambiamento radicale, in quanto dirotta e influenza le nostre emozioni e il modo in cui reagiamo”. Secondo il saggista indiano Pankaj Mishra stiamo vivendo nell’”età della rabbia” (dal titolo di un suo famoso libro). Altri due volumi pubblicati di recente sembrano confermare tale lettura; alludo a Cinquecento anni di rabbia. Rivolte e mezzi di comunicazione da Gutenberg a Capitol Hill dello storico Francesco Filippi e a Vent’anni di rabbia. Come il risentimento ha preso il posto della politica, a firma di Carlo Invernizzi-Accetti, docente di Scienze politiche a New York. A dar retta a tutti costoro, non si spiegano fenomeni quali i “gilet gialli” francesi, gli indignados spagnoli, la Brexit o il consenso per Trump, se non con un sentimento di rabbia collettiva che serpeggerebbe, seppur in forme diverse, un po’ in tutto mondo. La rabbia - cieca, ideologica, immotivata - è stato il carburante che ha spinto un manipolo di pro-Pal ad assaltare la redazione del quotidiano “La Stampa”. La rabbia è pure l’ingrediente pericolosissimo col quale spesso sul Web si cerca l’engagement (ovvero il coinvolgimento attivo) del pubblico. Tutto ciò produce una comunicazione sempre più avvelenata. Dannosa, perché inguaribilmente polarizzata. Ebbene. Chi pensa all’utente solo come cliente non ha problemi a sfruttare la rabbia come benzina. Al contrario, chi comunica adottando stile e parametri del “giornalismo civile” - avendo perciò a cuore il destinatario come cliente e cittadino insieme - preferisce vigilare. Perché sa bene che la rabbia è materiale infiammabile e rischia di far danni irreversibili, se non la si governa. Pensiamoci, la prossima volta che ci verrà spontaneo sui social rispondere a un commento di Vongola85. Giornata dei disabili e ritardi della politica di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 3 dicembre 2025 La marcia dei diritti. Ogni giorno i partecipanti percorrono un minimo di dodici chilometri a piedi e spesso sotto la pioggia. “Raggiungiamo a Chiusi la marcia del dolore. Sono i ciechi civili partiti da Firenze e diretti a Roma. Hanno scritto sui cartelli ciò che chiedono. Alla partenza erano poche decine, ora sono già più di cento. Per le svolte giovani ragazze li accompagnano, qualcuno ha regalato scarpe ai camminanti. Ostacoli attraversano la via ma loro hanno detto “non conosceremo ostacoli”. Ogni giorno percorrono un minimo di dodici chilometri a piedi e spesso sotto la pioggia, alcuni si coprono con i cartelli delle richieste, se esse saranno accolte tutti saranno al riparo delle umiliazioni e degli stenti. Vogliono una pensione dignitosa riscuotibile alla Posta con libretto personale, come già avviene in altri paesi. Alzano gli occhi, qualcuno li ha avvertiti: “Siete davanti al duomo di Orvieto”. A Roma la meta è il Parlamento, sanno che i ciechi inglesi con una marcia a Londra han fatto migliorare la legge. Montecitorio, essi dicono, non sarà da meno di Westminster. Basterebbero quel video dell’Istituto Luce del 20 maggio 1954, quei cartelli che dicevano “Abbiamo anche noi diritto alla vita” e vari titoli dei giornali del dopoguerra (su tutti: “Gazzarra alla camera per la manifestazione degli invalidi”, nel ‘61) a ricordare come i disabili abbiano impiegato decenni per ottenere alcuni riconoscimenti che oggi, in una società molto più anziana (da 30 a quasi 47 anni di età media) ci sembrano il minimo del minimo. Eppure, trentatré anni dopo l’istituzione da parte dell’Onu del 3 dicembre, oggi, come Giornata internazionale delle persone con disabilità, restano ancora un mistero le ragioni che spingono larga parte della politica, con l’eccezione di Sergio Mattarella (non a caso ha 84 anni) a ragionare sul tema come Josif Stalin quando nel 1935 chiedeva ironico all’allora premier francese Pierre Leval perché mai dovesse preoccuparsi delle opinioni del Vaticano: “Quante divisioni ha il Papa?” Un’idea di quanto possa pesare una rivolta morale, a dire il vero, si è già vista. Pochi anni fa, a Palermo. Quando un gruppo di disabili, in testa i più gravi, esasperati dai ritardi e appoggiati dalle Iene e da Pif, Fiorello e Jovanotti, fecero scoppiare il bubbone della mancata assistenza ai “figli d’un dio minore” manifestando davanti alla Presidenza della Regione siciliana. Ricordate? Dopo un drammatico confronto con l’allora presidente Rosario Crocetta i soldi saltarono fuori. E ti chiedi: perché non prima? Quando il lavoro è inclusione, ecco il metodo PizzAut di Rosella Redaelli Corriere della Sera, 3 dicembre 2025 Percorsi e distacchi con formazione e assunzioni. Acampora: “Così collaboriamo con le aziende”. Per la Giornata delle persone con disabilità un viaggio fra le realtà che ci provano (e riescono). Tre nuovi assunti: c’è un modo migliore per festeggiare la Giornata delle persone con disabilità? “Contratti autentici, che trasformano questi ragazzi da assistiti a contribuenti”, riassume Nico Acampora, fondatore di PizzAut. Il primo contratto di lavoro a tempo indeterminato lo aveva firmato il 1° maggio 2021: un modo esemplare per celebrare la Festa dei lavoratori. Da allora PizzAut, la prima pizzeria in Italia gestita da ragazzi autistici, ha continuato a crescere, ha aperto un nuovo ristorante a Monza nell’aprile 2023 alla presenza del Presidente Sergio Mattarella. “Abbiamo già - spiega Acampora - 41 ragazzi con contratto a tempo indeterminato. Alcuni sono assunti direttamente da noi, altri sono in distacco, assunti da altre aziende. Noi li formiamo nella nostra AutAcademy, fanno un tirocinio retribuito e poi sono pronti a iniziare il percorso in altre realtà”. È successo così a Chiara che dal 2 aprile di quest’anno ha preso servizio al ristorante dell’Hotel Hilton di Milano; per Edoardo che oggi lavora in Autogrill, Simone con un posto fisso in Danone, Beatrice in Coop, Giulia in Toys Center. Oggi viene annunciato un nuovo progetto: “PastAut” in collaborazione con Barilla i cui chef seguiranno i ragazzi per la preparazione di piatti di pasta da mettere in menù e l’annuncio delle assunzioni di Matteo e Marco (in distacco da Barilla) e di Giacomo (assunto da TxT). “La nostra storia dimostra - commenta Acampora- che l’autismo non è un limite quando si offrono le giuste opportunità e il giusto supporto. Il lavoro trasforma questi ragazzi, tira fuori il meglio da ognuno di loro. Ogni giorno misuriamo i loro progressi, diventano più comunicativi, ricominciano a scrivere le comande, fanno progetti. Tra loro c’è chi risparmia per comprare casa e chi è felice di offrire una cena ai propri genitori. Questa è inclusione”. Migranti. L’Ue vota sui Paesi terzi sicuri. Ma la “fortezza” immaginata da von der Leyen finirà nei tribunali di Franz Baraggino Il Fatto Quotidiano, 3 dicembre 2025 Il testo al voto tra le riserve dell’Unhcr e il monito del Consiglio d’Europa: secondo l’esperto Gianfranco Schiavone è “insanabilmente illegittimo”. Altro che sanare il Protocollo Italia-Albania: la proposta della Commissione Ue - sostenuta da popolari ed estrema destra - ha ben altri piani. Cambiando la definizione di “Paese terzo sicuro”, punta a rendere inammissibili le domande d’asilo e a trasferire i richiedenti, mettendo a rischio i diritti fondamentali e la stessa convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati. Una deriva “palesemente illegittima”, secondo l’esperto di migrazioni internazionali Gianfranco Schiavone, che mira a liberare l’Unione dai suoi obblighi giuridici violando le norme sul funzionamento dell’Ue, e destinata quindi a un inevitabile scontro nelle aule di tribunale e fino alla Corte di giustizia. L’esperimento italiano in Albania ha già mostrato i suoi limiti ai partner europei. Con la giurisdizione italiana resta in vigore il diritto Ue, ma il patto con Tirana non consente di garantire le tutele che, almeno sulla carta, si possono rivendicare in Italia. Nemmeno l’atteso Patto europeo sull’asilo, operativo da giugno, supera l’ostacolo. Per questo la proposta della Commissione guidata da Ursula von der Leyen vuole affidare i richiedenti direttamente a Paesi terzi. Basterà che, nel viaggio verso l’Europa, siano passati da un Paese considerato sicuro per dichiarare inammissibili le loro domande di asilo e trasferirli altrove, anche senza un reale legame con quello Stato. E se il transito non è dimostrabile, basterà un accordo - anche informale - con un Paese terzo. Al voto mercoledì 3 dicembre in Commissione Libertà civili, Giustizia e Affari interni (LIBE), la proposta ha i voti del Partito popolare europeo, dei conservatori di ECR, ma anche dei Patrioti e dei sovranisti dell’ESN. Difficile che le cose cambino in plenaria a Strasburgo. Lo scontro, prevedibilmente, si sposterà nei tribunali. Ma su quali basi? La convenzione del 1951 prevede la possibilità di collaborazione tra Stati quando si tratta di alleggerire un Paese da un onere che non può ragionevolmente sostenere in modo adeguato. Ma se lo scopo è liberarsi degli obblighi di protezione, si tratta di esternalizzazione ed è illecito. Col 73% dei rifugiati in Paesi a medio o basso reddito, il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Michael O’Flaherty, ricorda che gli Stati europei sono spesso tra i Paesi col più alto Pil pro capite, hanno sistemi di asilo più solidi e un numero relativamente basso di rifugiati e richiedenti: “Difficile capire come il trasferimento dagli Stati europei in altri Paesi - soprattutto se questi non hanno le capacità di accoglienza e i mezzi di protezione necessari - non equivalga a un trasferimento di responsabilità”. Certo, i Paesi terzi riceveranno ingenti finanziamenti. Ma pagare non basta, come ha dimostrato la Corte Suprema britannica bocciando il memorandum tra Regno Unito e Ruanda. “Anche con investimenti pesanti nel sistema di asilo del Paese terzo, si tratterebbe di un’impresa complessa che richiederebbe molto tempo per produrre risultati sufficienti”, avverte il Commissario O’Flaherty. Anche l’Unhcr, l’Agenzia Onu custode della convenzione di Ginevra, ammette che, in condizioni specifiche, un trasferimento può essere legale, ma ribadisce che servono garanzie concrete e standard elevati. Senza tali garanzie - ha sempre precisato - “l’Unhcr rimane fermamente contrario agli accordi che mirano a trasferire rifugiati e richiedenti asilo”. Peggio ancora se si tratta di accordi informali: “Gli accordi di trasferimento dovrebbero essere accessibili al pubblico e incorporati nell’ordinamento giuridico degli Stati partecipanti”, ha scritto l’Unhcr ad agosto nella guida ‘Accordi internazionali per il trasferimento di rifugiati e richiedenti asilo’. Quanto a garanzie, il nuovo regolamento Ue sembra adottare una nozione piuttosto debole di “protezione effettiva”, considerandola valida anche in Stati che non hanno ratificato la convenzione o che non garantiscono uno status giuridico di protezione e l’accesso ai diritti, “ma solo la possibilità di essere temporaneamente tollerati”, spiega Schiavone. “Senza la garanzia di uno status giuridico le persone rischiano di finire in un limbo senza limiti di tempo”. Pericolo tanto più concreto se gli accordi non sono giuridicamente vincolanti e le persone vengono trasferite in Paesi coi quali non hanno alcun legame. Nel commentare la proposta della Commissione, l’Unhcr ha chiesto accordi vincolanti, procedure rigorose, tutele legali come la sospensione automatica del trasferimento in caso di ricorso giuridico e protezioni specifiche per i soggetti vulnerabili, tutte condizioni oggi assenti. Ma le destre non hanno sentito ragioni e il testo è rimasto praticamente invariato. Inascoltata in Parlamento, che ruolo potrà avere l’Agenzia quando si tratterà di controllare? Se Donald Trump le ha tagliato i fondi, l’Ue finanzia l’Unhcr solo per progetti coerenti con le proprie politiche migratorie, per lo più in Nord Africa. E mentre la capacità dell’Agenzia di vigilare si riduce, i governi la usano spesso come una foglia di fico. Così non resta che il controllo giurisdizionale. Senza modifiche, avverte Schiavone, “le nuove norme non potranno non essere impugnate davanti ai tribunali nazionali”. I possibili rilievi vanno dalla violazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Ue che garantisce, tra gli altri, il diritto d’asilo “nel rispetto delle norme stabilite dalla convenzione di Ginevra”, al contrasto col Trattato sul funzionamento dell’Unione, che impone piena conformità alla convenzione. Toccherà ai giudici, ancora una volta, decidere se fermare i trasferimenti e rinviare tutto alla Corte di giustizia europea. Migranti. L’Ue toglierà gli sconti sui dazi a chi non favorisce i rimpatri di Giovanni Maria Del Re Avvenire, 3 dicembre 2025 Nell’intesa siglata tra Europarlamento e Consiglio, si prevede la possibile revoca delle agevolazioni commerciali per quei Paesi che non collaborano sul fronte delle espulsioni dei migranti. Nel territorio dei Ventisette, solo il 20% degli allontanamenti viene effettivamente completato. I Paesi poveri che non cooperano sul fronte dei rimpatri dei propri connazionali potranno vedersi revocate le agevolazioni commerciali Ue. Si tratta di uno dei punti cruciali dell’intesa raggiunta lunedì sera tra il Parlamento Europeo e il Consiglio Ue (che rappresenta gli Stati membri), le due istituzioni legiferanti dell’Unione Europea, per una riforma delle norme sul Sistema generalizzato Ue sulle preferenze sui dazi (Gsp). E cioè le agevolazioni commerciali (dazi zero o fortemente ridotti) per 65 Paesi in via di sviluppo più vulnerabili (per un totale di circa due miliardi di persone). Soprattutto le capitali insistevano per introdurre il criterio della cooperazione sul fronte della riammissione in patria tra quelli già presenti come condizioni per la concessione del Gsp (e cioè rispetto dei diritti umani e dell’ambiente, delle convenzioni internazionali e altro). Sullo sfondo, la difficoltà degli Stati Ue ad eseguire i decreti di espulsioni: al momento in media nell’Ue solo il 20% dei rimpatri viene effettuato, la causa è soprattutto (ma non solo) il rifiuto di vari Paesi di origine di riprendersi i propri cittadini emigrati irregolarmente in Stati Ue. “Abbiamo chiarito - ha spiegato, per la presidenza di turno Ue, il ministro degli Esteri danese Lars Løkke Rasmussen - che questi vantaggi commerciali devono esser legati al rispetto dei diritti umani, buon governo, protezione ambientale e, per la prima volta, la cooperazione sul rimpatrio dei propri cittadini illegalmente nell’Ue”. Un nuovo tassello, si potrebbe dire, della sempre più avanzata costruzione della “Fortezza Europa” che è sempre più la priorità di Bruxelles e della maggior parte delle capitali. Una questione che ha visto un lungo braccio di ferro tra Parlamento e Consiglio. Il primo insisteva per tenere separate la questione della migrazione dalle agevolazioni commerciali, alla fine è arrivato il compromesso. Il quale prevede che, si legge in un comunicato del Consiglio, “le preferenze Gsp possono essere revocate se un Paese beneficiario non coopera con l’Ue sulla riammissione dei propri cittadini”. La Commissione Europea “monitorerà il rispetto degli obblighi di riammissione e avrà la possibilità di agire”, dopo aver informato il Consiglio e il Parlamento. Gli eurodeputati hanno ottenuto almeno di rendere più rigorosi i criteri per la revoca del Gsp. Anzitutto sarà necessaria una procedura di valutazione con l’obbligo di dialogo con il Paese terzo in questione per un periodo di almeno dodici mesi. Inoltre, il Parlamento ha ottenuto un rinvio di due anni per gli Stati più poveri nell’applicazione della condizionalità legata alla riammissione. “Il Parlamento - ha commentato l’eurodeputato socialdemocratico tedesco Bernd Lange, presidente della Commissione Commercio dell’assemblea Ue - riteneva che commercio e migrazione dovessero esser tenuti separati. Il Consiglio si è mosso in modo considerevole per rispondere alle preoccupazioni del Parlamento, creando un sistema equilibrato con chiari paletti e un sistema differenziato almeno per i Paesi meno sviluppati”. Per la cronaca, l’intesa riguarda aspetti più squisitamente commerciali. Anzitutto, su pressing soprattutto di Italia e Spagna, è stata introdotta una salvaguardia specifica sul riso: secondo la nota del Consiglio, nel caso di “una significativa impennata di importazioni di riso (si parla del 45%, ndr) al di sopra dei livello storici per l’Ue”, saranno ripristinati i dazi ordinari previsti nel quadro del Wto, “in modo da impedire gravi turbolenze nel mercato Ue del riso”. Salvaguardie previste anche per il tessile e le importazioni di etanolo. Infine, viene complessivamente abbassata dal 57% al 47% la soglia di importazioni in uno specifico settore da un Paese al di sopra della quale il Gsp viene sospeso. Ora l’intesa dovrà essere formalizzata con un voto a maggioranza qualificata degli Stati membri al Consiglio Ue e da un voto a maggioranza in plenaria al Parlamento Europeo. Quindi la normativa entrerà in vigore dal 2027. Migranti. Cecilia Strada: “I nuovi regolamenti sui Paesi sicuri sono la fine del diritto d’asilo” di Michele Gambirasi Il Manifesto, 3 dicembre 2025 Intervista all’eurodeputata Cecilia Strada. Oggi il voto in commissione Libe su “paesi terzi sicuri” e “Paesi di origine sicuri”. “Rischia di essere la fine del diritto d’asilo, una conquista nata dalle tragedie e dalle deportazioni del ‘900”. Cecilia Strada, europarlamentare eletta da indipendente nelle liste Pd, commenta così i nuovi regolamenti sui paesi sicuri oggi al voto in commissione al Parlamento europeo. Oggi la commissione Libe vota in merito ai “paesi terzi sicuri” e “paesi di origine sicuri”. Lei ha più volte denunciato i rischi che queste nuove norme comportano in materia di diritti... Questi due file che votiamo oggi vanno visti insieme al nuovo regolamento rimpatri che voteremo presto, e di fatto sanciscono la fine del diritto d’asilo. I paesi di origine sicuri sono un concetto molto semplice: se vieni da un paese che consideriamo sicuro la tua richiesta di asilo sarà esaminata in modo accelerato e senza le stesse garanzie. Quali sono questi paesi? Innanzitutto i paesi candidati Ue, che lo sono considerati automaticamente, e già questo dovrebbe far discutere. Ci sono poi paesi extra europei che sono imbarazzanti: Tunisia, Egitto, Bangladesh, Colombia. L’altra cosa imbarazzante della Commissione è che non rende pubbliche le schede paese: l’Agenzia europea dell’asilo le ha prodotte e la Commissione le ha usate come base per decidere. Ma non possono essere rese pubbliche. E dentro queste stesse schede c’è scritto che non sono sicuri, perché vengono riportati fatti che noi tutti sappiamo: pena di morte e carcere a oppositori politici, ad esempio. Cosa vanno a modificare le nuove norme? Ai paesi terzi sicuri viene tolto il criterio di connessione: finora per la legge europea non è possibile mandare persone in un posto con cui non abbiano un significativo legame. Questa cosa viene sostituita da altre due opzioni: se hai transitato in quel paese, il che è già ridicolo, oppure se è un paese con cui lo Stato membro ha un accordo. E questo invece è devastante. Un punto che dovrebbe preoccupare anche la destra e non solo chi ha a cuore i diritti fondamentali: per quale motivo questi paesi dovrebbero accettare? Soldi. Eticamente ci stiamo mettendo nella condizione di spostare soldi ed esseri umani attraverso i confini, quello che fanno i trafficanti che diciamo di combattere. Politicamente invece cosa accadrà quando questi Stati vorranno più soldi? Che i paesi europei saranno ricattabili. Stiamo istituzionalizzando l’ingiustizia e la stupidità. La Commissione europea, poi, quando legifera sulle migrazioni non produce più una valutazione d’impatto, che sarebbe obbligatoria. Dicono che sia per l’urgenza di dare una risposta: Frontex invece dice che gli arrivi sono in calo e le previsioni per il 2026 fanno vedere una diminuzione ancora più marcata, cosa che non è necessariamente una bella notizia, perché vuol dire che magari gli individui sono bloccati in qualche lager libico. Per cui stiamo parlando solo di propaganda. Presto entrerà in vigore il nuovo Patto migrazione e asilo, che contiene i “return hubs”. Questi non sono la stessa cosa dei centri in Albania, che erano pensati invece per le procedure accelerate di frontiera, ma anche di recente il commissario europeo Brunner ha ribadito di apprezzare la linea di Meloni... I regolamenti in parte modificano già il Patto che sarà in vigore dal 2026, cosa che ha fatto arrabbiare diversi colleghi. Una cosa molto poco rispettosa del parlamento, cambiare le regole a sei mesi dall’entrata in vigore dopo anni di negoziazioni. La Commissione europea esprime una maggioranza di centrodestra che guarda anche all’estrema destra, per cui c’è evidentemente consonanza di vedute. Poi quando dicono che l’Albania ha fatto scuola sanno anche loro che stanno mentendo. Ho fatto 8 giorni di ispezioni a Gjader e la violazione dei diritti è palese. Per cui l’Albania insegna che se volete un modello che funzioni, fate tutto l’opposto. Anche su questi regolamenti il Partito popolare sembra pronto a votare insieme alle altre destre, creando una maggioranza senza i voti dei socialisti. Lo abbiamo fatto presente alla relatrice del regolamento: come fa il Ppe, che si definisce campione dei diritti europei, ad allearsi ora con forze che invece vogliono smontare l’Europa e distruggere i diritti? È oggettivamente una pessima fine per il Partito popolare. Migranti. Milioni in fumo e appalti opachi la denuncia di Action Aid sui Cpr in Albania di Angela Stella L’Unità, 3 dicembre 2025 L’associazione presenta i risultati del progetto “Trattenuti” con dati inediti sulle spese per il fallimentare accordo con Tirana: tanto caro a Meloni, carissimo per gli italiani. Oltre alla denuncia per danno erariale, segnalate all’Anac presunte irregolarità negli affidamenti per la gestione dei centri. ActionAid ha depositato alla Corte dei Conti un esposto di 60 pagine per denunciare lo spreco di risorse “dell’operazione Albania”, il famoso protocollo nato dall’accordo tra Giorgia Meloni e Edi Rama per spedire oltre l’Adriatico i migranti irregolari e quelli trasferiti all’esito di procedure di soccorso in mare. Secondo quanto riportato in una nota di ActionAid “la procura regionale del Lazio dovrà valutare se esercitare l’azione erariale alla luce delle violazioni contestate”. Mentre all’Autorità Nazionale Anticorruzione (Anac) sono state segnalate presunte irregolarità nell’affidamento dell’appalto da 133 milioni per la gestione dei centri: “non è stata verificata nemmeno la rilevanza internazionale dell’appalto, che avrebbe richiesto una procedura più trasparente e aperta”. A giudizio di ActionAid si tratta di uno “sperpero ingiustificabile” di risorse pubbliche, secondo i dati inediti del progetto ‘Trattenuti’ di ActionAid e dell’Università di Bari sui costi dei centri in Albania. La realizzazione dei centri in Albania, ricostruisce l’associazione, è partita con 39,2 milioni di euro stanziati dalla legge di ratifica del Protocollo. Appena dieci giorni dopo, con il “Decreto Pnrr 2”, la competenza è passata dal ministero dell’Interno e della Giustizia alla Difesa e le risorse sono state aumentate fino a 65 milioni. Da allora a fine marzo 2025, ActionAid è riuscita a fornire dati inediti grazie a richieste di accesso civico: “la Difesa ha bandito gare per 82 milioni, firmato contratti per oltre 74 milioni - quasi tutti tramite affidamenti diretti - ed erogato più di 61 milioni per gli allestimenti”. “Soldi pubblici sottratti alla salute, alla giustizia e a welfare e servizi - ha spiegato l’avvocato Antonello Ciervo che ha coordinato il team legale di ActionAid composto da Giulia Crescini, Gennaro Santoro e Francesco Romeo -, ma anche a fondi per la gestione di emergenze. Una distorsione nell’uso di risorse pubbliche ancora più grave, vista l’illegittimità del modello dei centri albanesi”. A seguito degli stop arrivati dalla magistratura nazionale e dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, il Governo ha reagito “cercando di piegare la normativa per adattarla” al protocollo Italia-Albania. “Nonostante ciò, i centri - ha sostenuto sempre l’associazione - sono ancora ben lontani dall’essere pienamente funzionanti (a marzo 2025 era stato attivato solo il 39% dei posti da capienza ufficiale), e costano molto più di quanto si spenda per strutture analoghe sul territorio nazionale”. A fine 2024 il prezzo giornaliero per detenuto del Cpr di Gjader è quasi tre volte quello di un Cpr su suolo italiano. Nel mentre il 20% dei posti effettivamente disponibili nei Cpr italiani non erano occupati. Anche l’analisi delle spese accessorie (missioni, logistica, facchinaggi, etc) mostra che questo “passaggio aggiuntivo” della detenzione off shore contribuisce solo a bruciare denaro pubblico. Nel dettaglio, la Difesa, oltre agli allestimenti iniziali dei centri, ha speso oltre 2,6 milioni per un intervento di manutenzione e forniture per la nave Libra - inizialmente usata nei trasferimenti e poi ceduta a Tirana -, ma soprattutto per viaggi e indennità di missione per Carabinieri e militari della Marina. Il Ministero dell’Interno ha speso 630mila euro tra trasferimenti e acquisti di tecnologie per il controllo. Una somma esorbitante riguarda il vitto e l’alloggio delle forze dell’ordine: se nel 2024 per il Cpr di Macomer (NU) è costato € 5.884,80 al giorno, in Albania, per 120 ore di concreta operatività tra ottobre e dicembre, si è speso quasi 18 volte in più, € 105.616 al giorno. Il Ministero della Giustizia ha stipulato contratti per quasi 2 milioni ed effettuato pagamenti (a maggio 2025) per € 1,2 mln per il penitenziario di Gjader, mai utilizzato e consegnato al 70%. Il Ministero della Salute ha autorizzato spese per quasi 4,8 milioni e speso già 1,2 milioni. Ciononostante, gli uffici dell’Usmaf Albania, ufficio sanitario di frontiera appositamente creato, sono deserti dal marzo 2025, e la “commissione vulnerabilità” si riunisce esclusivamente “da remoto”, solo in caso di “evidenze oggettive (referti e consulenze mediche specialistiche)” da parte del medico dell’ente gestore. La sanità pubblica non garantisce, nei fatti, il diritto alla salute. “La richiesta di un controllo alla Corte dei Conti e ad ANAC diventa quindi cruciale nel caso di persone formalmente in custodia dello Stato, ma concretamente in mano a società private e cooperative” conclude il lungo comunicato.