Caro Governo, sulle carceri ascolta il tuo “amico” Alemanno di Ilaria Dioguardi vita.it, 2 dicembre 2025 Dal 31 dicembre 2024 l’ex ministro ed ex sindaco di Roma Gianni Alemanno è detenuto nel carcere di Rebibbia. Tiene un “diario di cella”, che viene pubblicato periodicamente sulla sua pagina Facebook, insieme a Fabio Falbo. Abbiamo raccolto alcuni passaggi di questi diari, che da quasi un anno raccontano quel che succede davvero dietro le sbarre. Il “diario di cella” di Gianni Alemanno non è un esercizio di memoria personale: apre uno squarcio dove spesso la luce non entra. Dal 31 dicembre 2024 l’ex ministro ed ex sindaco di Roma è detenuto nel carcere di Rebibbia. Il suo racconto della vita dietro le sbarre viene pubblicato su Facebook, sono pagine scritte a quattro mani insieme a Fabio Falbo, lo “scrivano” dell’istituto romano. Alemanno e Falbo dicono di essere “accomunati dallo stesso impegno per rendere pubbliche le drammatiche condizioni in cui si vive negli istituti penitenziari italiani”. Abbiamo raccolto alcune pagine del loro diario. “Stiamo morendo dal freddo” - 23 novembre 2025 - 327° giorno di carcere. Questa è la pagina 33 del suo “Diario di cella”. “Sos aiuto, venite a salvarci! Pronto, qui Rebibbia, abbiamo un problema: stiamo morendo dal freddo. Siamo giunti al 23 novembre e i termosifoni sono completamente spenti, mentre nevica in tutta Italia e le temperature scendono anche a Roma”, scrive Alemanno. “Radio carcere ci dice che le caldaie sono rotte e che anche gli agenti della penitenziaria sono nelle nostre stesse condizioni: non solo qui al braccio ma anche nella loro caserma, attigua a Rebibbia, i termosifoni sono spenti e l’acqua calda dopo le otto di sera non arriva neanche nelle docce, per quelli che smontano dagli ultimi turni di guardia. Siamo anche noi colpiti dal Generale Inverno e, vestiti spesso in modo improbabile per combattere il freddo, sembriamo più dei clochard nei rifugi della Caritas in pieno inverno”. “Come pacchi postali” - “Gli ultimi dati ci dicono che il sovraffollamento carcerario in Italia è giunto al 137,1% (63.467 persone detenute a fronte di 46.304 posti realmente disponibili: 17.163 persone in più del dovuto!)”, si legge sulla pagina di Gianni Alemanno. Il post, del 12 novembre scorso, continua così: “È crollato un pezzo del soffitto del carcere romano di Regina Coeli e adesso tutte le persone che vengono arrestate qui a Roma siamo portate direttamente nell’altro carcere romano di Rebibbia, cioè in quello in cui siamo reclusi noi. Qui il sovraffollamento è schizzato al 152,4% con 1.628 persone detenute su 1.068 posti disponibili secondo regolamento, ma c’è chi scommette che all’inizio dell’anno prossimo saremo più di 2mila”, prosegue. “Risultato? Qui a Rebibbia le persone detenute vengono spostate da una parte all’altra come dei pacchi postali”. “I lavoratori e gli ergastolani rischiano di perdere la cella singola di cui hanno diritto; le salette dedicate alla socialità vengono trasformate in “camerata” con 12-18 persone con un solo bagno; si minaccia di mettere la settima branda in celle che oggi ne hanno sei e che in origine erano state progettate per solo quattro brande; ogni giorno persone detenute vengono trasferite a caso da un braccio a un altro, da un carcere ad un altro. Tutti i “percorsi trattamentali” di studio, di lavoro, di università, di confronto con gli psicologi e gli educatori, vengono bruscamente interrotti e azzerati”. “Asfissianti procedure burocratiche” - Nella sua pagina Alemanno denuncia anche le lungaggini e la farraginosità della burocrazia: “Il Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ndr) si sta esercitando a diramare circolari che sembrano servire solo a rendere più difficili quelle poche attività culturali e formative che sopravvivono nelle carceri. Come quella del 21 ottobre 2025, che impone un controllo centralizzato su tutte le attività trattamentali esterne, ovvero subordina a una decisione dell’amministrazione centrale tutte le autorizzazioni d’ingresso di operatori esterni e di persone di cultura, decisioni che prima, secondo l’Ordinamento penitenziario, spettavano ai direttori delle singole carceri e ai relativi magistrati di sorveglianza”, continuano Alemanno e Falbo. “Certo, questa circolare riguarda solo le carceri che hanno nel loro interno reparti ad alta sorveglianza, ma sono la maggioranza degli istituti penitenziari e spesso per i pochi in alta sorveglianza si rovina la vita a tutte le normali persone detenute (a Rebibbia sono un centinaio in alta sorveglianza a fronte di un totale di 1628 persone detenute)”. Questa circolare impone asfissianti procedure burocratiche: richieste da inviare con largo anticipo, elenchi nominativi, titoli, spazi, pareri, un apparato che scoraggia, rallenta, esclude. Perché? Che senso ha? Università, associazioni e volontari sono in rivolta, ma qualcuno li ascolterà?”. Essere padri dietro le sbarre - “Il carcere ha i suoi “gessetti colorati”, scrive il 14 settembre 2025. Servono “a far giocare i figli più piccoli quando i padri li incontrano nelle ore d’aria. Questi padri detenuti si attrezzano minuziosamente, con fogli di carta, le matite colorate, qualche pallone, altri semplici giochi, per tentare di far vivere spensieratamente ai loro figli quel poco di tempo che passano insieme. Strumenti semplici e disperati per recuperare un poco di paternità e di rapporto con i propri bimbi e i propri ragazzi”, prosegue. “E li vedi aggirarsi per l’”area verde” (lo spazio aperto a lato della Chiesa centrale, in cui si svolgono la maggioranza dei colloqui) questi padri detenuti, che spesso sono degli omoni tatuati, che corrono, giocano, strillano, con i loro figli sulle spalle, presi per mano, inseguiti e abbracciati”. Senza materassi e senza cuscini. E con pochi agenti - “Alcuni dei nuovi venuti si sono trovati senza materassi e senza cuscini, e hanno dovuto dormire una o più notti sul nudo ferro della branda”, denuncia nel “Diario di cella” 28 dello scorso 22 ottobre. “La carenza di organico dei “Baschi Azzurri” è del 16%: 31.332 persone in servizio contro una previsione di organico di 37.181 addetti. Lascia esterrefatti il semplicismo con cui il Governo promette di costruire nuove carceri per 10mila posti di detenzione in più, senza prevedere un massiccio reclutamento di nuovi componenti della penitenziaria: dopo l’ultimo Consiglio dei Ministri dedicato all’emergenza carceri, il presidente Meloni ha annunciato trionfante che nella prossima finanziaria saranno previsti fondi per arruolare altri 1.000 poliziotti penitenziari!”, si legge in un post del 19 agosto scorso. “Cioè quanti ne bastano per vigilare, a seconda dei diversi parametri, dai 1.900 ai 3mila detenuti in più, ma che in realtà è solo un sesto dell’attuale carenza di organico. Il sindacato Sappe denuncia ritardi di mesi nel pagamento degli straordinari, delle missioni e dei buoni pasto (che sono aumentati del 200% per fare fronte ai turni massacranti a cui è sottoposto il personale)”, prosegue il post. “Così, da quando abbiamo cominciato la nostra opera di denuncia contro il vergognoso sovraffollamento nei nostri istituti penitenziari, sono sempre di più gli ufficiali, i sottufficiali e gli agenti della polizia penitenziaria che ci chiedono come sta andando, se ci sono speranze per un intervento concreto del Governo o della politica in generale”. Ritardi per visite, esami ed interventi - “Da qualche tempo una nuova immagine inquietante attraversa i nostri occhi: Franco D. R. che vaga per il reparto con in mano una sacca di plastica più o meno piena di urina, collegata al catetere che si porta addosso con il tubicino che entra nei suoi pantaloni. 78 anni, invalido civile al 90%, malato di cuore e portatore di pacemaker, Franco ha un tumore benigno alla prostata che bisognerebbe operare. Dopo la prognosi a maggio, è stato messo in lista cinque volte per preparare l’operazione, ma non è mai arrivato all’ospedale Pertini perché mancano le scorte per accompagnarlo”, è scritto su un post di un paio di settimane fa. “Operazioni semplicistiche di redistribuzione” - “I tribunali di sorveglianza, soprattutto quello di Roma, non hanno personale (né elasticità mentale) e non riescono a mandare alle pene alternative neppure le persone che hanno tutti i requisiti per ottenere questi benefici previsti dalla legge”, si legge nel “Diario di cella 12” dell’1 luglio scorso dal titolo “Arriva il momento più difficile: il caldo arroventa il sovraffollamento. Ma la politica dorme (con l’aria condizionata”). “Nel mio reparto c’è Mario, arrestato a 81 anni per una condanna definitiva per reati finanziari di quindici anni prima, che, dopo un mese e mezzo di carcere, finalmente cinque giorni fa si è visto riconoscere dal tribunale di sorveglianza il diritto ad andare agli arresti domiciliari. Ma, passati cinque giorni, Mario sta ancora qui! Con le sue gambe piene di piaghe e di croste (non so per quale malattia) in bella vista sotto i calzoncini che pure lui deve indossare per sopportare il caldo. Sta ancora qui e nessuno sa il perché!”. Alemanno con Falbo scrivono: “Il sovraffollamento delle carceri porta anche a questo: operazioni semplicistiche di redistribuzione della popolazione carceraria, basate magari su un astratto dato anagrafico di residenza. La causa principale è sempre questo maledetto sovraffollamento che la politica non vuole vedere”. I suicidi - A luglio, al suicidio in carcere numero 42 dall’inizio dell’anno, Alemanno scriveva: “Quello che le cronache giornalistiche non hanno detto (perché probabilmente non lo sanno) è che, in teoria, anche questo suicidio poteva essere sventato se le ispezioni periodiche notturne avessero funzionato secondo regolamento. Ma questi giri per controllare le celle, per il sovraffollamento e per la carenza di personale della Penitenziaria, sono ridotti e spesso vengono saltati”. Nel 2025, ad oggi, i suicidi tra i detenuti sono 73 (dati del dossier “Morire di carcere” di Ristretti orizzonti). Combattere contro il rischio di diventare “morti viventi” - Il 15 aprile 2025 Alemanno approfondiva il senso religioso negli istituti di pena. “Il carcere spinge verso l’esperienza religiosa, la sofferenza individuale come il rallentamento dei ritmi di vita di tutta la comunità carceraria, costringono a guardarsi dentro, a mettersi in ascolto, a cercare qualcosa. Questo è uno dei più potenti strumenti con cui si combatte il rischio di diventare uno dei “morti viventi” che vegetano tra queste mura”. Nel diario di cella 2, dell’1 aprile 2024, parlava della vita di comunità dei detenuti: “Nelle celle si vive un’intensa esperienza comunitaria, con i forti connotati romantici ed emozionali propri di tutte le vicende comunitarie. Tra i compagni di cella si condivide tutto, dalle derrate alimentari ai lavori quotidiani, dalle emozioni ai ricordi”. “La natura comunitaria dell’esperienza carceraria permette di alimentare la speranza di quella “rieducazione” di cui parla l’articolo 27 della Costituzione. Proprio per questo è un peccato, e anche una vergogna, quando le istituzioni preposte non riescono a valorizzare queste potenzialità”, continua, “non dando coerenza e continuità ai percorsi che dovrebbero portare dalla rieducazione all’accesso alle pene alternative. Non parliamo del personale che lavora nelle carceri (dirigenza e polizia penitenziaria) che sono vittime dei malfunzionamenti e delle carenze di organico quasi quanto le persone detenute. Parliamo di chi fa le leggi e di chi le deve applicare, che può e deve fare di più”. Lettere ai politici - Sulla pagina Facebook di Gianni Alemanno sono pubblicate anche delle lettere indirizzate alle istituzioni. “Oggi ci rivolgiamo a voi, signori presidenti, perché riteniamo che l’unica possibilità di dare una risposta immediata, concreta e adeguata a questa emergenza, sia quella di approvare un provvedimento di legge con il concorso trasversale di forze politiche provenienti da ogni schieramento. Non un indulto o un’amnistia per i quali, non solo sarebbe necessaria una maggioranza qualificata, ma bisognerebbe sfidare un’opinione pubblica giustamente preoccupata dai problemi della sicurezza e della certezza della pena”, scrivono ai presidenti del Senato Ignazio La Russa e della Camera dei Deputati Lorenzo Fontana. “Pensiamo, invece, a quella che è stata definita la “Legge della buona condotta”, ovvero un provvedimento che preveda una “liberazione anticipata speciale” tale da aumentare lo sconto di pena già previsto quando le persone detenute mantengono un comportamento giudicato irreprensibile dagli uffici di sorveglianza”. Carcere e diritti. L’idea attuale di Vittorio Grevi di Laura Cesaris* Corriere della Sera, 2 dicembre 2025 Negli istituti penitenziari sono presenti ad oggi (secondo i dati di ottobre del Ministero della giustizia) 63.493 persone a fronte di una capienza di 45.651 posti. Questa situazione comporta che quotidianamente siano a rischio di violazione i più elementari diritti riconosciuti dalla Costituzione (basterebbe pensare al diritto alla dignità, alla salute, all’istruzione, al lavoro, alla affettività) e che hanno rappresentato la primaria fonte di ispirazione della legge di ordinamento penitenziario (l. n. 354 del 1975), approvata 5o anni fa, che ha inteso riconoscere il detenuto come persona e porlo al centro della esecuzione delle misure restrittive della libertà personale. Una legge che, accogliendo l’idea del trattamento rieducativo, continua a rivestire il significato di “spinta antitetica rispetto alle ricorrenti tentazioni di imbarbarimento dei sistemi penitenziari”. Con queste parole Vittorio Grevi (1942-201o), professore di procedura penale nell’Università di Pavia, titolare della prima cattedra di Diritto dell’esecuzione penale istituita in Italia, aveva definito, all’epoca, le intenzioni del legislatore del 1975 e il significato che quel corpus normativo avrebbe dovuto avere. Anche se lo stesso Grevi, negli anni successivi, non avrebbe mancato di rilevare “emblematiche involuzioni “ del testo approvato e divenuto legge, determinate da “timori e riserve probabilmente ispirati a diffidenza” verso i contributi che sarebbero potuti derivare da privati cittadini e da associazioni e che avrebbero potuto rappresentare delle “intromissioni nel riservato dominio dell’amministrazione penitenziaria”; e di lamentare che la recrudescenza della criminalità avesse portato a ripercussioni negative nell’opinione pubblica “di per sé tendenzialmente mal disposta verso il mondo penitenziario” e avesse determinato un inasprimento nelle risposte sanzionatorie e l’istituzione di circuiti penitenziari differenziati. Considerazioni che paiono scritte oggi in relazione a una situazione tornata, in termini di tasso di sovraffollamento, critica non ostante i programmi edilizi annunciati dal Governo, e alla conseguente condizione di profondo malessere delle persone recluse e degli operatori, drammaticamente testimoniata dal numero di suicidi (73 detenuti, 1 persona in Rems e 4 operatori penitenziari). Di possibili rimedi a tale situazione, della irrinunciabile valenza educativa della espiazione delle pene, di nuove prospettive nella loro esecuzione si parlerà i13 e 4 dicembre a Pavia, nel convegno che abbiamo organizzato con Paolo Renon, con il patrocinio del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Pavia e del Collegio Ghislieri, per ricordare Vittorio Grevi a 15 anni dalla sua scomparsa. *Docente di Diritto Esecuzione Penale La Russa elogia il ruolo delle Cooperative nel reinserimento dei detenuti Il Dubbio, 2 dicembre 2025 Il presidente del Senato invia un messaggio al convegno Agci-Cnel e ribadisce il suo sostegno ai progetti di lavoro. La centralità del lavoro nel percorso di recupero delle persone detenute torna al centro del dibattito istituzionale grazie all’intervento del presidente del Senato Ignazio La Russa, che ha inviato un messaggio al convegno “Il lavoro che ricostruisce vite”, iniziativa promossa dall’Associazione generale delle Cooperative italiane (Agci) e ospitata questa mattina al Cnel. Un appuntamento voluto per approfondire i nodi della giustizia penitenziaria, analizzare l’applicazione della legge Smuraglia e rilanciare le forme di collaborazione tra pubblico e privato nel campo del reinserimento lavorativo. Nel suo messaggio La Russa ha rivolto un saluto ai promotori dell’evento - dal presidente Renato Brunetta al presidente Massimo Mota, fino ai numerosi relatori presenti - sottolineando il valore strategico di un confronto “ai più alti livelli istituzionali”. Secondo il presidente del Senato, l’iniziativa rappresenta “un’occasione per approfondire le tante complesse questioni legate alle attuali condizioni degli istituti di pena in Italia” e, allo stesso tempo, un’opportunità per “riflettere sulle potenzialità presenti e future delle sinergie tra pubblico e privato”. Il lavoro, ribadisce La Russa, deve restare il pilastro dei percorsi di recupero: “La cooperazione ha già dimostrato di poter essere un fondamentale motore di inclusione, sviluppo e riscatto umano e sociale”. Le cooperative sociali, infatti, operano da anni dentro e fuori gli istituti penitenziari, garantendo attività produttive, formazione e occasioni professionali a persone sottoposte a misure restrittive. Un sistema che ha dimostrato di ridurre la recidiva e facilitare il rientro stabile nella società. Richiamando gli obiettivi della legge Smuraglia, il presidente del Senato ha evidenziato come gli strumenti normativi per favorire il lavoro penitenziario e post-penitenziario esistano, ma richiedano un impegno costante, investimenti adeguati e una cooperazione virtuosa fra amministrazione penitenziaria, enti locali, terzo settore e mondo produttivo. “Una prospettiva - ha osservato - nella quale il mondo delle cooperative, così diffuso e radicato nel territorio nazionale, può continuare a svolgere un ruolo determinante”. La Russa ha quindi concluso rinnovando il proprio sostegno: “Sono certo che il dibattito odierno saprà arricchire un percorso di valori cui non farò mai mancare il mio convinto sostegno”. Un impegno politico chiaro, in un momento in cui il tema del reinserimento sociale torna centrale nel dibattito pubblico e nelle discussioni sulla riforma del sistema penitenziario. Quelle semplificazioni dei “fronti” del No e del Sì oscurano il giusto processo di Alberto Cisterna Il Dubbio, 2 dicembre 2025 Sulla separazione delle carriere è in corso uno scontro a colpi di slogan che banalizzano un tema decisivo. Avviso ai naviganti, si diceva un tempo. Allo sforzo delle Camere penali di recuperare una centralità mediatica nel dibattito sul referendum del marzo prossimo venturo, corrisponde il progressivo ammutolirsi dei rappresentanti politici del fronte del “si” che hanno, finalmente direbbe qualcuno, percepito che intestarsi l’approvazione della legge costituzionale sulla separazione delle carriere è cosa rischiosa assai. Lo si è segnalato - non da soli ovviamente, ma neppure per ultimi - che se il referendum assume connotazioni squisitamente o prevalentemente politiche, la partita potrebbe volgere al peggio per i disegni riformatori e nel fronte del “no” potrebbero tranquillamente trovare spazio intenzioni punitive verso il governo in carica di cui sarebbe sciocco non misurare o ponderare la rilevanza negli umori del paese. Tra spinte interventiste e controspinte immobiliste, quote della maggioranza potrebbero impallarsi e mandare un messaggio poco convincente alla pubblica opinione. Quanto a questa, è lecito prevedere che - con questi chiari di luna - già portare alle urne di marzo un 40% degli aventi diritto al voto sarebbe un successo strepitoso. Oggi i sondaggi danno cifre favorevoli al “si”, ma se si legge nei sottotitoli dei risultati si vede che le proiezioni sono state fatte immaginando (forse sognando) un’affluenza al voto del 56%; un dato che oggi appare irrealistico, a vedere la partecipazione alle ultime tornate, ben più importanti della separazione delle carriere. Più basso sarà il quorum, maggiori le possibilità che un fronte del “no” - politicamente motivato - possa vincere la partita del referendum. Quindi, come si diceva, la politica tende a defilarsi (con rare eccezioni) sia da un fronte che dall’altro, in un gioco degli specchi per cui ciascuno attende che sia l’avversario a dissotterrare l’ascia di guerra e a partecipare effettivamente all’agone del voto. Nel frattempo, Anm e Camere penali, segmenti diversi (ma sempre autorevoli) dell’accademia penalistica e processualpenalistica si danno battaglia a colpi di interviste, di dibattiti televisivi (pochini) e di comunicati (tantini); se i diretti interessati mostrano poca voglia di confrontarsi e di pugnare, non si capisce perché la pubblica opinione dovrebbe considerarsi investita di sacro furore e sgomitare per entrare ai seggi. Certo un confronto puramente tecnico-giuridico sui contenuti veri della legge costituzionale sarebbe la strada maestra, ma insomma si risolverebbe in cavillose, quanto soporifere narrazioni. Quindi, purtroppo, la via che si sta percorrendo resta un po’ quella della truffa delle etichette secondo cui, per il fronte del “si”, la riforma porterà alla fine di soprusi, alla stagione della giustizia giusta, all’avvento della vera parità e all’epifania della luminosa terzietà del giudice; mentre, secondo il fronte del “no”, la collocazione del pubblico ministero in un circuito di autocrazia irresponsabile (Ferrua), non potrebbe che concludersi con l’assoggettamento dello stesso al potere esecutivo e anche con una certa fretta. Sono due estremismi, ma che hanno un punto di visione in comune: entrambi ritengono che la riforma costituzionale sia solo una “pasqua” ebraica, un passaggio; per alcuni verso la terra promessa del giusto processo, per altri verso la trappola del controllo politico; a entrambi occorre ricordare, non solo, che la storia di Mosè si concluse per il diretto interessato non proprio bene e furono necessari agli ebrei 40 anni di peregrinazione nel deserto per vedere la terra di Jahvè (ossia quanti a occhio e croce sarebbero indispensabili per il formarsi, dopo decenni di promiscuità, di una cultura del giudice distinta da quella del pubblico ministero, ammesso che sia possibile e giusto), ma anche invero che in ogni cosa alcune delle soluzioni prospettate avevano e hanno un sostegno non marginale anche tra le toghe. Nelle prossime settimane si vedrà quanto impegno sarà profuso nella battaglia dall’Anm che, per il momento, ha correttamente rifiutato un confronto televisivo con il ministro Nordio non potendo correre il rischio di connotarsi irrevocabilmente con una forza di opposizione politica. Quanto alle Camere penali l’impegno di tutte le sue componenti appare ingente e di notevole livello, anche se resta in ombra un punto centrale: ossia quello di una radicale, ab imis fundamentis, rifondazione del processo penale sia in caso di vittoria del “si” che del “no”; perché non può e non dovrebbe sottacersi che non è stata proprio la comune appartenenza di pm e giudici al medesimo ordine (in cui convivono congelati nei rispettivi ruoli, vista la pratica inesistenza di transiti da una funzione all’altra) ad aver cagionato le storture e le vittime di cui si discute, ma un processo incapace di realizzare l’effettiva parità tra le parti, progressivamente imbottito spesso, su spinta degli stessi avvocati e dell’accademia - di dozzine di precauzioni e minute garanzie, rivelatesi insufficienti, quando non meramente simboliche (v. le regole della Cartabia sull’iscrizione nel registro delle notizie di reato).Ricostruire il processo, soprattutto nella fase delle indagini preliminari, è un’opera a cui nessuno attende e di cui si sussurra soltanto, anche per la difficoltà di immaginare una nuova via al processo accusatorio. I sostenitori del “si” ritengono che solo sulla pietra della riforma costituzionale potrà edificarsi una nuova giustizia; qualche fautore del “no” pensa che un pubblico ministero isolato e incupito dall’obiettivo declassamento ordinamentale (non costituzionale, anzi) non sia il soggetto migliore cui affidare le sorti di un nuovo processo. Insomma, si naviga a vista per acque perigliose. La difesa non è reato: crolla il processo alla legale di Pifferi di Simona Musco Il Dubbio, 2 dicembre 2025 Assolta l’avvocata Pontenani, insieme al suo consulente e tre psicologhe di San Vittore: era accusata di aver tentato di far passare la sua cliente per pazza e ottenere una pena lieve nel processo per la morte della figlia. Difendere non è reato. Dice questo la sentenza che blinda il diritto di difesa e smantella il caso Pifferi bis, l’inchiesta parallela che vedeva sul banco degli imputati l’avvocata Alessia Pontenani, il suo consulente, lo psichiatra Marco Garbarini, e le psicologhe di San Vittore. Il Gup di Milano, Roberto Crepaldi, ha assolto tutti gli imputati dall’accusa di falso e favoreggiamento, stabilendo che la strategia difensiva - compresi i contestati test sul QI di Alessia Pifferi - non era una manipolazione criminale, ma l’esercizio di una funzione. Il verdetto suona come un monito chiaro nel complesso dibattito tra accusa e avvocatura: l’eccesso di difesa non esiste in Costituzione. L’inchiesta, voluta dal pm Francesco De Tommasi, si è dunque risolta in un nulla di fatto, ma non prima di aver creato, secondo le difese del processo, un “danno gravissimo” all’interno del processo principale. L’inchiesta era nata come costola del processo per la morte della piccola Diana, lasciata a casa da sola dalla madre Alessia Pifferi e morta di stenti dopo sei giorni, che si è chiuso in appello con una condanna a 24 anni, dopo una prima condanna all’ergastolo. Secondo il pm Francesco de Tommasi, che rappresenta l’accusa in entrambi i tronconi, Pontenani, il suo consulente e le psicologhe di San Vittore avrebbero messo in atto una manipolazione per far passare Pifferi per matta, attraverso dei test che ne avrebbero accertato un Quoziente intellettivo pari a 40, quello di un bambino. Per De Tommasi, però, il test Wais non poteva essere somministrato alla donna, in quanto “non era un soggetto a rischio di atti anticonservativi e si presentava lucida, orientata nel tempo e nello spazio, nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali e determinata”. Da qui l’ipotesi che fosse una strategia per ottenere “la tanto agognata perizia psichiatrica” e tentare di evitare l’ergastolo. Il pm aveva chiesto una condanna a 4 anni per Pontenani e per una delle ex psicologhe, 3 anni e mezzo per lo psichiatra e tre anni per altre due psicologhe. Ma il gup ha deciso che l’accusa non stava in piedi. Rinviata a giudizio, ma solo per falso in relazione a dei corsi di formazione, accusa estranea alla presunta manipolazione, una delle psicologhe. Le motivazioni saranno depositate entro 30 giorni. “Adesso sto meglio - spiega al Dubbio Pontenani -. Avessi preso anche un giorno di condanna non avrei più potuto lavorare. Questa sentenza ha stabilito che il diritto di difesa non è reato e che non esiste il reato di eccesso di difesa, visto che di questo ero accusata. Gli avvocati devono continuare a fare il loro lavoro e ad aiutare e assistere le persone. Tutto qua. E questa sentenza dimostra che ho fatto il mio lavoro in maniera corretta”. Per Pontenani, il processo parallelo ha condizionato anche quello principale a carico di Pifferi. “Se non ci fosse stata questa indagine - ha evidenziato - forse Pifferi avrebbe potuto avere una condanna diversa, però va bene così. Aspettiamo entrambe le motivazioni”. Non bastava che per l’opinione pubblica ci fosse un mostro: ne serviva anche un altro, la sua legale, alla quale, come da prassi, è stata estesa la responsabilità in capo alla sua assistita. E per Corrado Limentani, difensore di Pontenani insieme a Gianluigi Comunello, proprio il processo bis ha rappresentato l’aspetto più grave della vicenda, in quanto “ha condizionato inevitabilmente il processo principale. Questo ha creato danni gravissimi. Ha obbligato il consulente” di Pifferi, Garbarini, “a rinunciare al mandato, le psicologhe hanno perso il lavoro l’avvocato Pontenani ha dovuto difendere” la sua assistita in appello “con una richiesta di condanna sulle spalle”. Soddisfatti anche gli altri legali. “È una sentenza giusta, che noi ci aspettavamo. È un processo che non doveva nemmeno iniziare - ha aggiunto Mirko Mazzali, legale di una psicologa -. Come abbiamo sempre detto stavano processando le idee più che i fatti”. “Raccogliamo una sentenza che restituisce ai professionisti il diritto di decidere come valutare un caso secondo scienza e coscienza”, ha sottolineato Adriano Bazzoni, difensore di Garbarini. Alcune delle psicologhe, dopo la lettura del dispositivo, sono scoppiate in un pianto liberatorio. La vicenda aveva causato notevoli scontri nell’ambiente giudiziario milanese. Non solo tra avvocatura e magistratura, ma anche all’interno della magistratura stessa, col tentativo, andato a vuoto, di far astenere il gup Crepaldi. Per De Tommasi, infatti, il giudice non sarebbe stato abbastanza “terzo” da poter giudicare l’avvocata Pontenani e tutti gli altri professionisti indagati, per aver contribuito - da membro della Giunta Anm di Milano - a un comunicato a tutela della funzione difensiva, diffuso il 13 febbraio 2024. Per de Tommasi si sarebbe trattato di pubbliche critiche all’azione della procura e “sulla piena legittimità e correttezza delle indagini”. Ma non solo: per il pm, nei giorni scorsi, è anche arrivata la bocciatura del Consiglio giudiziario, che all’unanimità ha espresso parere negativo al suo avanzamento di carriera. Quasi un pro forma, nella stragrande maggioranza dei casi, se si pensa che lo stesso Consiglio giudiziario favorevolmente anche per l’allora aggiunto Fabio De Pasquale, poi condannato per aver nascosto prove utili agli imputati del processo Eni-Nigeria. Fu poi il Csm a bocciare la sua conferma. Nel caso di De Tommasi, invece, il niet è arrivato prima. Differimento pena e 41 bis: la necessità “di considerare anche la relazione dei consulenti di parte” terzultimafermata.blog, 2 dicembre 2025 La Cassazione penale sezione 1 con la sentenza numero 38799 depositata il 1 dicembre 2025, segnalataci dal collega Antonino Napoli, che ringraziamo, ha ricordato che, anche per i detenuti al 41 bis la detenzione è incompatibile quando il ristretto non risponde più alle cure disponibili. La Suprema Corte premette che l’art. 146, comma 3, cod. pen. obbliga il giudice al differimento dell’esecuzione della pena in presenza di una “malattia particolarmente grave per effetto della quale le sue condizioni di salute risultano incompatibili con lo stato di detenzione, quando la persona si trova in una fase della malattia così avanzata da non rispondere più, secondo le certificazioni del servizio sanitario penitenziario o esterno, ai trattamenti disponibili e alle terapie curative”. Il differimento è invece previsto come facoltativo dall’art. 147, comma 1, n. 2, cod. pen. nell’ipotesi in cui il condannato risulti affetto da “una grave infermità fisica”. L’art. 47 ter, comma 1 ter, ord. pen. stabilisce, infine, che, nelle anzidette ipotesi di rinvio della esecuzione della pena, il tribunale di sorveglianza può applicare provvisoriamente la detenzione domiciliare. Sulla base di questi dati normativi la giurisprudenza di legittimità è concorde nel ritenere che lo stato di salute incompatibile con il regime carcerario non sia limitato alla patologia implicante un imminente pericolo per la vita, estendendosi esso “ad ogni stato morboso o scadimento fisico capace di determinare una condizione inumana e degradante di espiazione della pena” (Sez. 1, n. 22373 dell’8/05/2009, Aquino, Rv. 244132; Sez.1, n. 16681 del 24/1/2011, Buonanno, Rv. 249966); si è specificato a tale proposito che, ai fini dell’accoglimento di un’istanza di differimento facoltativo dell’esecuzione della pena detentiva per gravi motivi di salute, ai sensi dell’art. 147, comma primo, n. 2, cod. pen., non è necessaria un’incompatibilità assoluta tra la patologia e lo stato di detenzione, ma occorre pur sempre che l’infermità o la malattia siano tali da comportare un serio pericolo di vita, o da non poter assicurare la prestazione di adeguate cure mediche in ambito carcerario, o, ancora, da causare al detenuto sofferenze aggiuntive ed eccessive, in spregio del diritto alla salute e del senso di umanità al quale deve essere improntato il trattamento penitenziario (Sez. 1, n. 27352 del 17/05/2019, Rv. 276413). Il principio di diritto che governa la materia è poi nel senso che, affinché possa disporsi il rinvio dell’esecuzione della pena a causa di grave infermità fisica, occorre la contemporanea presenza di due autonomi presupposti. Deve in primo luogo riscontrarsi la sussistenza di una malattia oggettivamente qualificabile in termini di gravità, che implichi un serio pericolo per la vita del condannato o importi comunque la probabilità di altre rilevanti conseguenze dannose (il requisito della gravità deve qui leggersi attenendosi ad una accezione particolarmente rigorosa, considerando sia il principio di indefettibilità della pena, sia il principio di uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge). Deve inoltre ricorrere la possibilità che il condannato - una volta tornato in libertà - possa fruire di cure e trattamenti sostanzialmente diversi e dotati di efficacia maggiore, rispetto a quelli che possono essere apprestati in ambiente carcerario, magari anche attraverso lo strumento del ricovero in luoghi esterni di cura. Non basta quindi che la patologia incida in modo rilevante sulla salute del soggetto e possa genericamente regredire, attraverso il ritorno alla libertà; la norma postula invece che la malattia si appalesi di tale gravità, da porre la prosecuzione dell’esecuzione della pena in conflitto con il senso di umanità, ispiratore di norme di rango costituzionale (artt. 3, 25, 27 e 32 Cost.). La valutazione sopra delineata è demandata ovviamente al giudice e può eventualmente richiedere l’ausilio di un perito (Sez. 1, n. 1033 del 13/11/2018, Galli, Rv. 276158-01); il ricorso allo strumento della perizia di tipo sanitario assume invece il connotato della doverosità, laddove il giudice - disponendo già di documentazione clinica atta a provare l’incompatibilità delle condizioni di salute del soggetto con il regime detentivo ritenga di non accogliere l’istanza di differimento dell’esecuzione della pena (Sez. 1, n. 54448 del 29/11/2016, Morelli, Rv. 269200). La giurisprudenza di legittimità ha anche avuto modo di chiarire quanto segue: “Il giudice chiamato a decidere sul differimento dell’esecuzione della pena o, in subordine, sull’applicazione della detenzione domiciliare per motivi di salute deve effettuare un bilanciamento tra le istanze sociali correlate alla pericolosità del detenuto e le condizioni complessive di salute di quest’ultimo con riguardo sia all’astratta idoneità dei presidi sanitari e terapeutici disponibili, sia alla concreta adeguatezza della possibilità di cura ed assistenza che nella situazione specifica è possibile assicurare al predetto valutando anche le possibili ripercussioni del mantenimento del regime carcerario in termini di aggravamento del quadro clinico” (Sez. 1, n. 37062 del 09/04/2018, Acampa, Rv. 273699 - 01). Tanto premesso, la motivazione posta a fondamento della decisione impugnata non esprime una logica e coerente applicazione dei principi ermeneutici sopra enunciati. Il grave quadro clinico patologico, emergente dall’ultima relazione proveniente dall’area sanitaria dell’istituto di detenzione del 19/02/2025, è stato ritenuto non incompatibile con il regime detentivo, sul presupposto che le attuali condizioni di salute generale del detenuto fossero stabili, discrete e soddisfacenti, e che lo stesso fosse adeguatamente trattato e monitorato per le patologie delle quali è affetto; precisava il tribunale come la documentazione clinica più recente attestasse che la neoplasia polmonare non presentava segnali di recidiva né di accresciuta criticità o di non rispondenza alle terapie farmacologiche. I giudici hanno, tuttavia, omesso di considerare che la relazione dei consulenti tecnici di parte, dott. e allegata al ricorso in ossequio al principio di autosufficienza, datata 01/04/2025 (successiva quindi all’ultima relazione proveniente dall’area sanitaria del carcere), avesse evidenziato un aggravamento delle condizioni del detenuto, essendo specificato che la malattia oncologica, con particolare riferimento alle metastasi al cervello, non è in regressione. Nella relazione di parte si evidenzia poi il mancato rispetto dei tempi consigliati per i controlli, e l’eccessivo lasso temporale tra esami strumentali e consulenza specialistica oncologica, con riflessi sulla mancanza di cure idonee e tempestive; si specifica infine che la struttura carceraria è inadeguata per la gestione di un paziente oncologico con metastasi cerebrali. A fronte di una relazione medico legale di parte che attestava l’incompatibilità delle condizioni di salute del detenuto con il regime carcerario, il tribunale di sorveglianza non ha fatto buon governo del principio di diritto affermato più volte dalla Suprema Corte secondo cui il giudice che, in presenza di dati o documentazione clinica attestanti l’incompatibilità delle condizioni di salute del condannato con il regime carcerario, ritiene di non accogliere l’istanza di differimento dell’esecuzione della pena o di detenzione domiciliare per motivi di salute deve disporre gli accertamenti medici necessari, nominando un perito (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 54448 del 29/11/2016, Rv. 269200 - 01; Sez. 1, Sentenza n. 39798 del 16/05/2019, Rv. 276948 - 01). Sul punto, il percorso argomentativo dell’ordinanza impugnata appare, invece, del tutto inadeguato rispetto alla conclusione cui approda - in punto di adeguatezza delle cure prestate al detenuto e di compatibilità dello stato di salute del predetto con il regime carcerario -, in quanto carente di obiettivi supporti medico-scientifici, che il tribunale avrebbe potuto acquisire ricorrendo eventualmente allo strumento peritale. Le carenze ed incoerenze valutative appena evidenziate hanno, infine, inficiato il bilanciamento del diritto del condannato a ricevere le più appropriate cure mediche in ambiente extra murario con le istanze sociali correlate alla pericolosità del predetto, in quanto la non compiutamente accertata curabilità in carcere delle patologie del detenuto ha reso indefinito il primo dei due poli del giudizio, facendo sì che al secondo venisse accordata una indebita valenza primaria. Le considerazioni sopra svolte impongono l’annullamento dell’ordinanza impugnata, con il conseguente rinvio al Tribunale di sorveglianza di Milano, per un nuovo esame, che dovrà essere eseguito nel rispetto dei principi che si sono enunciati. Lombardia. “Nelle carceri caos e diritti costituzionali negati, portiamo il caso al Pirellone” Il Giorno, 2 dicembre 2025 “Dovremo assolutamente portare il tema al centro del consiglio regionale e lo faremo, come consiglieri del Pd, con un atto che possa essere discusso e approfondito in Aula”. Lo ha spiegato Roberta Vallacchi, consigliera regionale del Pd e componente della Commissione speciale sulle carceri, dopo che in quest’ultima si è tenuta l’audizione in merito alla circolare inviata lo scorso 21 ottobre dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) a tutti i provveditorati generali e direttori penitenziari, sulla “Integrazione disposizioni relative ai provvedimenti autorizzativi degli eventi di carattere educativo, culturale e ricreativo presso gli istituti penitenziari”. Una circolare che centralizza l’iter autorizzativo delle attività educative, culturali e ludiche nelle quali siano coinvolti i detenuti che abbiano intrapreso un percorso finalizzato al reinserimento sociale e ne irrigidisce le norme al punto, come denunciato dal garante regionale Gianalberico De Vecchi, da renderne quasi impossibile l’osservanza. “Dall’audizione è emerso un quadro ancora più grave di quello che si era prospettato in un primo momento - sottolinea Vallacchi -. La dimostrazione della difficoltà che sta già creando si è vista proprio in audizione: avevamo chiesto di partecipare al garante regionale dei detenuti, Gianalberico De Vecchi, che infatti c’era, ma anche al provveditore regionale all’amministrazione penitenziaria, Maria Milano Franco d’Aragona, che invece non ha potuto esserci perché, nonostante avesse chiesto l’autorizzazione alla Direzione generale del Dap di Roma almeno da una settimana, non ha ricevuto nessuna risposta. Sono gli effetti della circolare, cioè tutto deve essere autorizzato a livello centrale. Irrigidendo le norme - conclude la consigliera - non si fa altro che porre ostacoli al percorso di educazione e reinserimento previsto dalla nostra Costituzione”. Sardegna. Todde: “Per L’Isola è insostenibile ospitare altri detenuti al 41 bis” di Andrea Sechi L’Unione Sarda, 2 dicembre 2025 La governatrice a margine della riunione a Uta sul trasferimento nell’Isola di altri reclusi in regime di massima sicurezza: “Pronti a fare la nostra parte, ma anche a difendere la nostra sicurezza”. “La nostra posizione è cristallina: siamo una regione responsabile e pronta a fare il proprio dovere, ma non siamo disponibili a subire scelte unilaterali a detrimento dei sardi”. Lo ha affermato la governatrice Alessandra Todde a margine dell’assemblea organizzata a Uta per discutere dell’impatto dell’annunciato, imminente arrivo di 92 detenuti al 41 Bis - regime di massima sicurezza - nel carcere Ettore Scalas. “Già ospitiamo detenuti al 41 bis, ma non possiamo accoglierne altri, in un numero che non è sostenibile né dalla nostra economia né dalla nostra sicurezza”, ha spiegato Todde, visto che quando avvengono questi trasferimenti, “non si spostano solo singoli detenuti, ma interi contesti”. Quanto al rischio di possibili infiltrazioni della criminalità in Sardegna, ha aggiunto la governatrice, “è un dato di fatto, perché ci sono in programma grandi opere, dunque abbiamo la necessità di avere la certezza di poter fare le cose per bene”. Per questo, ha concluso Todde, è necessario “lavorare per mantenere la nostra terra e la nostra economia sana, collaborando sì con le istituzioni centrali, ma difendendo il contesto sardo da scelte non condivise”. Abruzzo. I medici delle carceri chiedono “più dignità” a Regione e Asl certastampa.it, 2 dicembre 2025 I medici di medicina penitenziaria convenzionati della Regione Abruzzo denunciano una situazione ormai insostenibile, aggravata dall’orientamento espresso dalle parti pubbliche durante la trattativa per l’Accordo Integrativo Regionale. Nonostante quanto previsto dall’Accordo Collettivo Nazionale, si continua a rifiutare l’integrazione delle sezioni dedicate alla medicina penitenziaria, negando diritti, tutele e riconoscimenti indispensabili per garantire un servizio sanitario adeguato all’interno degli istituti di pena. Negli istituti penitenziari abruzzesi si gestiscono quotidianamente emergenze complesse, episodi di autolesionismo, pazienti psichiatrici, persone con dipendenze e condizioni di fragilità estrema. Tutto questo senza ferie riconosciute, senza malattia, senza indennità di rischio, senza remunerazione dei festivi e senza un sistema di reperibilità adeguato. Un quadro privo delle garanzie minime previste in qualunque altro ambito del SSN. A peggiorare ulteriormente il contesto, la medicina penitenziaria abruzzese si trova oggi davanti a una crescita obbligata delle esigenze: è stato recentemente aperto il nuovo istituto penale per minorenni dell’Aquila, che richiede personale dedicato e risorse proporzionate; a Sulmona, a Pescara, a Teramo la popolazione detenuta è oltre la soglia critica di sovraffollamento. Le carceri abruzzesi stanno aumentando per numeri, complessità e domanda assistenziale. Di fronte a questi dati, la prospettiva di tagliare fondi e ridurre tutele è incomprensibile. In questo scenario già critico l’ipotesi di una riduzione dello stipendio di circa un terzo rappresenta un colpo gravissimo, una prospettiva che molti colleghi giudicano non più sostenibile e che sta portando la quasi totalità dei professionisti con incarico a valutare concretamente le dimissioni dall’incarico. Con le condizioni attuali, e ancor più con una riduzione economica di questa portata, diventerà impossibile mantenere presidi sanitari sicuri e funzionali, in modo continuativo nelle carceri. La medicina penitenziaria è un servizio pubblico essenziale, non un settore marginale da comprimere. Senza un intervento immediato della Regione Abruzzo e senza un integrativo regionale che riconosca e migliori quanto previsto dall’ACN, il rischio concreto è il collasso dell’assistenza sanitaria nelle carceri, con conseguenze dirette sulla salute delle persone detenute e sulla sicurezza di tutto il personale penitenziario. Chiediamo alla Regione e alle ASL di rivedere con urgenza le proprie posizioni, riconoscere ciò che è dovuto e garantire condizioni di lavoro dignitose, eque e conformi all’ACN. Senza questo passo, sarà impossibile chiedere ai medici di continuare a sostenere un carico di responsabilità tanto elevato in un quadro contrattuale tanto fragile. Como. Dopo la rivolta al Bassone trasferiti 44 detenuti e cambio di direzione di Paola Pioppi Il Giorno, 2 dicembre 2025 Deciso un cambio nella direzione della Casa circondariale di Como. Giro di vite in seguito alle violenze, il ferimento di quattro agenti e un suicidio. Cambio alla direzione della casa circondariale di Como: Roberta Galati, proveniente da Monza dove era vicedirettore, sostituisce Fabrizio Rinaldi, che lascia Como dopo sei anni. La formalizzazione dell’incarico è stata divulgata ieri, assieme al bilancio finale dei trasferimenti di detenuti coinvolti nella rivolta del 13 novembre, finiti in altre strutture penitenziarie: in 44, sono stati mandati a Varese e Monza quella stessa notte, e nei giorni successivi in Piemonte, Campania e Sardegna. Tra i soggetti identificati come partecipi, c’era anche un nordafricano di 24 anni, che si era tolto la vita dopo qualche giorno. Protesta particolarmente violenta, che aveva causato il ferimento di quattro agenti, uno in modo grave. Al momento, il Bassone di Como ospita 390 carcerati, a fronte di una capienza di 240. Lo sfoltimento di queste ultime settimane è scaturito da motivi disciplinari, dopo aver identificato buona parte dei partecipanti alla rivolta, ma anche dalla necessità di abbassare il numero dei detenuti presenti nell’istituto comasco, da sempre sovraffollato, che negli anni scorsi ha vissuto anche periodi in cui convivevano 600 detenuti. Numeri che si scontrano con un organico di agenti perennemente al di sotto dei numeri previsti sulla carta. Il punto è stato fatto ieri mattina dal sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari, al termine di una visita all’interno della casa circondariale. “Abbiamo deciso di investire in una pianta organica che merita più attenzione - ha detto - con una programmazione che nel 2026 vedrà quello di Como tra gli istituti che otterranno le maggiori risposte non solo in termini di agenti e assistenti ma anche in termini di sovrintendenti e ispettori”. Brescia. Canton Mombello, sovraffollamento record al 213% di Manuel Colosio Corriere della Sera, 2 dicembre 2025 Nel carcere al 30 novembre si trova oltre il doppio dei detenuti consentiti. Fondazione comunità Bresciana propone un patto di comunità attraverso il progetto “Vite in attesa”. Qualsiasi locale pubblico o privato verrebbe immediatamente chiuso se ospitasse oltre il doppio della capienza consentita. Su questo le carceri rappresentano ancora una volta l’eccezione, Brescia compresa con la casa circondariale di Canton Mombello che rimane sempre in cima alle classifiche per sovraffollamento. A fine novembre sono 388 i detenuti costretti all’interno di questa fatiscente struttura, di fronte ad una capienza che è fissata a 182 posti, pari ad un tasso che la pone al 213%. In una parola: invivibile. È noto che Nerio Fischione presenti numerose criticità e partendo da queste, unita alla consapevolezza che il tema carcere non riguarda solo le istituzioni coinvolte, ma debba essere una priorità dell’intera comunità, scende in campo anche la Fondazione comunità bresciana (Fcb) che ha deciso di porsi come collettore di risorse umane ed economiche per istituire alleanze che mettano le basi per un miglioramento condiviso e di lungo termine. Il progetto, denominato “Vite in attesa”, è stato presentato il 1 dicembre al Teatro sociale in città in occasione della messa in scena dello spettacolo “La terza branda”, realizzato dagli stessi detenuti e che pone al centro proprio il tema del sovraffollamento. “Si tratta di una causa che riguarda gli ultimi degli ultimi - ricorda il presidente di Fcb Mario Mistretta, precisando come intervenire sul tema non sia -questione di buonismo, ma di consapevolezza che il carcere non può e non deve essere luogo di tortura” e proponendo ad attivare una sorta di patto di comunità che possa offrire concretezza alle azioni future che sono spiegate dalla direttrice di Fcb Orietta Filippini: dall’imprescindibile lavoro sulla prevenzione, ovvero attivando un maggior numero di mediatori, assistenti sociali e volontari, passando per il potenziare gli strumenti per l’assistenza sanitaria e psichiatrica ed offrire anche un maggiore riconoscimento del ruolo degli agenti di polizia penitenziaria. Inoltre c’è la volontà di mettere in campo iniziative per ovviare ai limiti strutturali dell’edificio ed intervenire nel cambiare la narrazione verso l’opinione pubblica “operazione necessaria per facilitare l’inclusione post detenzione: trovare un lavoro dignitoso e regolare, case in affitto ed offrire una solida rete di sostegno”. Per attivare la responsabilità di ognuno ci si appella a tutto il territorio, chiamato a fare la sua parte anche rispondendo ad una campagna di raccolta fondi lanciata sempre ieri dall’ ente filantropico. Reggio Emilia. Morì in cella per troppo metadone: percorso di giustizia riparativa per gli imputati di Alessandra Codeluppi Il Resto del Carlino, 2 dicembre 2025 Faranno un percorso di giustizia riparativa il medico e l’infermiera imputati di omicidio colposo per la morte di Giuseppe Convertino, 39enne venuto a mancare il 10 aprile 2022 nel carcere della Pulce. Nella sua breve esistenza si condensarono la dipendenza da droga e alcol più qualche problema con la giustizia, soprattutto furti per pagarsi le sostanze. Entrò nel carcere di Reggio il giorno prima della morte: non emersero segni di violenza, ma la famiglia chiese un’autopsia. Risultò che il 39enne morì per edema polmonare emorragico dovuto a un’insufficienza respiratoria: la causa fu un’intossicazione acuta da metadone. Il pm Stefano Finocchiaro ha chiesto il rinvio a giudizio per i due professionisti accusati di omicidio colposo in cooperazione nell’esercizio dell’attività sanitaria. Davanti al giudice Matteo Gambarati è iniziata l’udienza preliminare, ora sospesa a seguito dell’iter che sarà seguito dagli imputati e rinviata a maggio, quando si verificherà l’esito del loro percorso e avverrà la scelta del rito processuale. È stato il pm Finocchiaro, in base alle peculiarità che caratterizzano la vicenda, a proporre l’accesso alla giustizia riparativa, che prevede la partecipazione della vittima e del presunto responsabile alla risoluzione delle questioni emerse dall’illecito, in genere con l’aiuto di un mediatore. In aula giovedì c’erano due donne, a chiedere giustizia per il 39enne. La madre Lorena Incerti aveva inviato una lettera al nostro giornale che aveva di recente sollevato il caso: “Non spegnete i riflettori su questo dramma sociale”, aveva scritto. Lei e la sorella Lorenza hanno criticato la gestione di Convertino in carcere e aggiunto che si sarebbero aspettate una parola di conforto dagli imputati. La zia si è definita, ripensando al 39enne, “una seconda madre”. Le due parenti sono assistite dagli avvocati Tommaso Creola, Emanuel Napoleone e Gianluca Tallarico: “Da quando Giuseppe è morto - dice Napoleone - solo la Procura ha dimostrato vicinanza alla famiglia”. Gli avvocati Paolo Nello Gramoli per l’infermiera e Cosimo Zaccaria per il medico si sono associati alla richiesta del pm: i loro assistiti inizieranno il percorso al centro ‘Anfora’. “La scelta della giustizia riparativa - dichiara Zaccaria - ha lo scopo importante di rasserenare il contesto e favorire una reciproca comprensione delle parti. Il rispetto per Covertino e i suoi familiari non è mai stato messo in discussione. Sul piano processuale ribadiamo l’estraneità del medico a questa triste vicenda”. In aula era presente l’avvocato Vito Daniele Cimiotta per Yairaiha onlus, associazione con sede a Cosenza che si era costituita parte civile anche nel processo reggiano con imputati agenti della polizia penitenziaria per tortura a un carcerato, reato riqualificato nella sentenza di primo grado in abuso di autorità: “Siamo pronti a costituirci parte civile anche nel procedimento per Convertino”, annuncia il legale. Verona. Riciclare la plastica diventa occasione di riscatto per i detenuti veronasera.it, 2 dicembre 2025 Il progetto, supportato e cofinanziato anche dal Comune di Verona, sarà operativo dal 2026 e darà la possibilità ai detenuti di produrre manufatti realizzati da materiale di scarto che saranno vendibili sul mercato. Da un lato la gestione sostenibile dei rifiuti, con la trasformazione della plastica di scarto in risorsa produttiva e formativa. Dall’altro, la creazione di nuove opportunità di crescita e riscatto per le persone detenute, coinvolte in percorsi di formazione professionale, sensibilizzazione ambientale e inserimento lavorativo. Precious Plastic fonde insieme questi due aspetti in un progetto che unisce innovazione sociale, sostenibilità ambientale e responsabilità nei confronti della comunità. L’iniziativa ha come scenario la Casa Circondariale di Montorio, selezionata e finanziata dalla Fondazione Cariverona nell’ambito del Bando Sinergie che promuove forme di collaborazione tra realtà profit e non profit per generare valore condiviso sul territorio. “Questo progetto - ha spiegato Andrea Di Fabio, dell’ufficio comunicazione di Cariverona - segue tre punti chiave della nostra fondazione: l’aspetto ambientale, con il riciclo della plastica, l’aspetto umano, la formazione dei detenuti, e l’aspetto sociale, trasformando il carcere in un luogo generativo di nuove possibilità. Precious Plastic non è solo un laboratorio di trasformazione della plastica all’interno del carcere ma è anche un prototipo di futuro perché mette in piedi una filiera che avrà capacità di reggersi nel tempo”. Nel laboratorio, che sarà operativo dal 2026, verranno prodotti i materiali da immettere poi sul mercato. I detenuti potranno così acquisire competenze tecniche spendibili nel mondo del lavoro che ridaranno loro dignità, motivazione e nuove possibilità. Precious Plastic è supportato e cofinanziato dal Comune di Verona, che valuta l’integrazione dei prodotti riciclati nei programmi di rigenerazione urbana. “Questo progetto - ha affermato l’assessora ai Servizi Sociali Luisa Ceni - dimostra cosa vuol dire una comunità che si attiva e che lavora insieme per un unico scopo: il recupero, che può essere inteso in tante accezioni: in questo caso, la plastica che viene buttata via e che Amia recupera. Però siamo portati anche a pensare alle persone che vengono scartate, come quelle che vanno in carcere di cui tendiamo a dimenticarci perché non vogliamo vederle. Invece non si scarta nessuno; dobbiamo recuperare tutti, come dice la nostra Costituzione, lavoriamo sulle persone, perché a ogni persona va offerta una seconda possibilità. Progetti di questo tipo possono cambiare il volto della nostra città. I manufatti che verranno realizzati avranno un mercato che può essere ampissimo”. “La Costituzione - ha sottolineato la direttrice del carcere di Montorio Maria Grazia Bregoli - afferma che il diritto al lavoro è un diritto; non fa distinzioni fra cittadini liberi e detenuti. Afferma inoltre che la finalità della pena è la rieducazione. Questo progetto riassume questi fondamentali principi: nessuno viene scartato, tutti vengono valorizzati, perché saranno cittadini che torneranno nel nostro contesto sociale. Il progetto non ha solo valore di inclusione sociale ma lancia un messaggio educativo e di civiltà, perché oggi più che mai è importante fare attenzione anche all’ambiente”. Il progetto, partito a settembre 2025, sta vivendo ora una prima fase di sperimentazione con la realizzazione dei primi pannelli in plastica riciclata. L’obiettivo è dare il via alla produzione interna alla casa circondariale con la primavera. Precious Plastic è il risultato di un’alleanza ampia e virtuosa, che vede coinvolte istituzioni, imprese, enti del terzo settore e realtà associative del territorio veronese, ciascuna con un ruolo fondamentale. Capofila del progetto è Reverse che con la sua esperienza decennale all’interno del carcere con la falegnameria Reverse In è responsabile della progettazione e produzione dei manufatti in ottica di economia circolare, lavorando in stretta connessione con i fornitori, i progettisti e il personale detenuto. “Precious Plastic può essere prototipo di filiera sostenibile e inclusiva, replicabile in altri territori con bisogni simili - ha spiegato Federica Collato vicepresidente di Reverse - È un ecosistema di collaborazione, un progetto pilota che possiamo immaginare replicato in altre realtà che condividono sfide e bisogni simili. È la dimostrazione che, grazie alla cooperazione tra pubblico, privato e terzo settore, è possibile generare impatti positivi tangibili: riducendo l’impatto ambientale, creando opportunità di lavoro, offrendo nuove prospettive a chi sta costruendo la propria futura versione di sé”. A supportare con attività formative e a cofinanziare il progetto insieme al Comune, è Amia. “Appoggiamo volentieri una start-up che si occupa del recupero di materiale plastico e con l’obiettivo che diventi poi indipendente e ovviamente con grande piacere visto che oltre all’ambiente si parla anche di recupero sociale e di offrire formazione e opportunità di impiego ai cittadini detenuti”, ha sottolineato il presidente di Amia Roberto Bechis. Il progetto coinvolge inoltre Meg Srl, eccellenza veronese nel trattamento dei rifiuti che condividerà il proprio know-how tecnico per garantire l’alta qualità del materiale rigenerato contribuendo in maniera determinante all’efficienza della filiera e fornirà la plastica da avviare al riciclo. “Siamo orgogliosi di partecipare al progetto Precious Plastic Verona - ha affermato Andrea Bovelli, amministratore delegato Meg Srl - un’iniziativa che dimostra come l’economia circolare possa generare valore e inclusione. Mettiamo a disposizione la nostra esperienza e quella di tutto il Gruppo Acea nel riciclo delle plastiche per sostenere un laboratorio che è non solo produzione, ma anche formazione e reinserimento sociale”. Sono inoltre coinvolte nel progetto Giracose Odv, che con la sua esperienza nella lavorazione artigianale della plastica sta collaborando a questa prima fase iniziale del progetto testando e sviluppando tecniche di trasformazione del materiale, la fondazione Edulife Ets che curerà i percorsi formativi rivolti ai detenuti, monitorando l’efficacia degli interventi e misurandone l’impatto economico e sociale, Fondazione Esodo e My Planet 2050 Aps. Alba (Cn). “Carceri e riforma delle case lavoro” ampia partecipazione al dibattito lavocedialba.it, 2 dicembre 2025 Azione ha ricordato che: “Continuerà a lavorare perché questo cambiamento venga approvato in Parlamento e possa finalmente restituire dignità a chi è rimasto intrappolato in un sistema che non funziona”. Sala gremita sabato pomeriggio nella sede cittadina di Azione in corso Michele Coppino 31 per l’incontro “Carcere: liberi di ricominciare”, appuntamento pubblico dedicato alla proposta di riforma delle case lavoro sottoscritta da Azione in Parlamento. Cittadini, operatori del settore, rappresentanti delle istituzioni e del volontariato penitenziario hanno animato un confronto vivo e partecipato su un tema che tocca direttamente la realtà albese, dove da alcuni anni è operativa una casa lavoro all’interno dell’Istituto penitenziario “Montalto”. Casa lavoro visitata nel primo pomeriggio, prima dell’evento, proprio dagli esponenti locali di Azione guidati dal Segretario Provinciale Giacomo Prandi, accompagnati dagli onorevoli Fabrizio Benzoni, Daniela Ruffino, Bruno Mellano e dal Garante Comunale Emilio De Vitto. All’evento, dopo i saluti introduttivi del coordinatore cittadino Massimo Giachino, sono intervenuti il deputato Fabrizio Benzoni, il segretario provinciale di Azione Giacomo Prandi, Bruno Mellano - già garante regionale dei detenuti -, l’assessora comunale Donatella Croce, il garante dei detenuti del Comune di Alba Emilio De Vitto e Domenico Albesano, presidente dell’associazione Arcobaleno. A concludere i lavori la segretaria regionale di Azione Daniela Ruffino. “La grande partecipazione di oggi dimostra quanto questo tema sia sentito ad Alba e nel nostro territorio - dichiarano Giacomo Prandi e Massimo Giachino -. Le case lavoro sono un’istituzione superata, un residuo del Codice Rocco che non risponde più né alla Costituzione né ai bisogni reali delle persone che vi sono destinate. Parliamo di persone che hanno già scontato la loro pena e che spesso convivono con dipendenze o fragilità psichiatriche: non servono nuove mura, serve un percorso di cura, assistenza e reinserimento. Il confronto di oggi, con una sala piena e interventi di alto livello, conferma la necessità di una riforma coraggiosa e urgente. Azione continuerà a lavorare perché questo cambiamento venga approvato in Parlamento e possa finalmente restituire dignità a chi è rimasto intrappolato in un sistema che non funziona.” Azione ringrazia tutti i partecipanti e gli ospiti che hanno contribuito a un dibattito costruttivo e necessario, nella convinzione che il rispetto della dignità umana e la centralità del reinserimento sociale debbano tornare a essere pilastri del sistema penitenziario italiano. Roma. “Oltre il carcere”: a Tor Vergata un evento per riflettere sulla funzione della pena di Gianluca Miserendino whatsupmedia.it, 2 dicembre 2025 Un confronto sullo stato detentivo reale, sulla funzione della pena e sulle scelte pratiche da attuare nell’anno giubilare. Mettendo a fuoco condizioni di vita e tutela della salute, proporzionalità e differenziazione della risposta sanzionatoria, effettività dell’esecuzione penale esterna, standard europei del Comitato per la prevenzione della tortura (Cpt), riduzione del sovraffollamento e tempi della giurisdizione. Tutto questo è stato affrontato durante la conferenza organizzata dal CREG (Centro di Ricerche Economiche e Giuridiche) dal titolo “Oltre il carcere. Giubileo 2025 dialogo sul rinnovamento”, che si è svolta nella facoltà di Economia dell’università di Roma Tor Vergata. I saluti istituzionali sono stati affidati a Nathan Levialdi Ghiron, rettore dell’università di Roma Tor Vergata, Francesco Paolo Sisto, vice ministro della Giustizia, Loredana Mirra, coordinatrice CREG e Paolo Giordani, presidente Istituto Diplomatico Internazionale. Intervento introduttivo di Enzo Rossi, presidente CREG e ordinario di Economia Politica presso l’università di Roma Tor Vergata, cui hanno fatto seguito quelli di Paolo Iafrate, CREG, e diversi rappresentanti del mondo delle associazioni, dei dipartimenti di giustizia e di amministrazione penitenziaria, ha affrontato il tema in oggetto. Il carcere non deve essere solo un luogo di espiazione, ma uno spazio di responsabilità, rieducazione e reinserimento sociale, come previsto dall’articolo 27 della Costituzione. Partendo da questo assunto, si è affrontato il tema cruciale della funzione della pena nel presente e nel prossimo futuro. Se la pena penitenziaria resta l’extrema ratio, occorre potenziare le forme di esecuzione penale esterna, garantendo strumenti efficaci e credibili per chi sceglie percorsi di giustizia riparativa e di responsabilizzazione. Altra questione importante discussa è quella legata alle criticità strutturali. In particolare il tasso di sovraffollamento nelle carceri italiane, che secondo l’associazione Antigone ha superato il 135%, con oltre 63.000 persone detenute per meno di 47.000 posti realmente disponibili. In un solo anno la popolazione detenuta è cresciuta di 1.336 unità. Soprattutto nel panorama globale attuale, la sovrappopolazione carceraria contribuisce a rendere le carceri vere “accademie del crimine” dove delinquenti alle prime armi possono essere facilmente reclutati dalle reti della criminalità organizzata. È pertanto più che mai indispensabile affrontare il problema in maniera razionale e strategica. E poi, tra le difficoltà strutturali da affrontare, si è parlato delle complessità di accesso alle cure, la carenza di personale e i ritardi della giurisdizione. Si è discusso inoltre durante il meeting su come migliorare gli spazi di vita, garantire la salute mentale e fisica, rafforzare i servizi territoriali e investire sulla formazione degli operatori. Al tempo stesso, su come sarebbe opportuno investire nei programmi di reinserimento sociale, offrendo una varietà di misure che possano sostenere il percorso individuale di ogni detenuto verso una vita nel rispetto della legge. Tutto questo per costruire un sistema penitenziario più giusto, umano e sostenibile, capace di coniugare sicurezza e dignità. Il Giubileo 2025, con il suo significato di rinascita e riconciliazione, diventa così occasione concreta per oltrepassare la logica punitiva e aprire un cammino di rinnovamento. Catania. Al carcere di Bicocca detenuti in scena sulle orme di Omero di Raffaella Tallarico gnewsonline.it, 2 dicembre 2025 “Iliade, la discordia” segna il debutto della compagnia gli ir-ritati in Catarsi, attiva nella casa circondariale di Catania Bicocca. Lo spettacolo, con 25 detenuti-attori diretti da Ivana Parisi, si è tenuto il 27 novembre. Dopo la messa in scena dell’Orlando furioso nel 2024, i detenuti appartenenti all’alta sicurezza si sono misurati con la figura dell’eroe: cosa lo rende tale, quali sono i suoi punti deboli. Con il corso di scrittura creativa, in parallelo con il laboratorio teatrale, i reclusi hanno reinterpretato il testo omerico, con uno sguardo al mondo di oggi, e al proprio vissuto. All’inizio del percorso laboratoriale, la compagnia coinvolgeva circa 40 detenuti, alcuni dei quali sono stati trasferiti. Ma ciascuno degli attori conosceva la parte dell’altro, così è stato possibile portare in scena l’intero spettacolo. Ciascuno di loro, spiega la regista Ivana Parisi, contattata da GNews, “ha protetto ciò che è stato scritto; anche per dare la dimostrazione a chi se ne va che il lavoro che è stato fatto non è andato perduto”. Oltre all’Iliade, i detenuti si sono confrontati con l’Aiace di Sofocle e Le troiane di Euripide. Lo spettacolo non si conclude con la presa di Troia, ma con l’uccisione di Elena per mano di Menelao. Da questo finale - la donna uccisa dal marito per il suo tradimento -, i detenuti prendono le distanze portando in scena il loro dissenso. E l’evento si trasforma in un’occasione per riflettere sulla violenza di genere. “La donna va rispettata e amata, - ha detto un detenuto-attore durante il confronto con il pubblico sul tema - va protetta e incoraggiata. Regaliamo una rosa alla nostra compagna di vita”. Il direttore di Catania Bicocca, Giuseppe Russo, ha accolto con entusiasmo l’iniziativa, mentre la sinergia tra l’area educativa, con il responsabile Maurizio Battaglia, e il personale di Polizia penitenziaria, ne ha reso possibile la buona riuscita. “ILIADE, la discordia” è infatti l’ultimo atto del laboratorio teatrale RigenerAzioni, avviato nel 2025 dall’associazione La poltrona rossa Ets e sostenuto dal dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria del Ministero. L’iniziativa fa parte di un progetto più ampio, con una rete di diverse realtà del terzo settore, sviluppato anche nell’istituto catanese di Piazza Lanza e nelle carceri di Giarre e di Caltagirone. Anche quest’anno, la compagnia ha potuto beneficiare di costumi e scene offerti dal teatro stabile di Catania. Tra i ringraziamenti più sentiti c’è proprio quello del direttore Marco Giorgetti, che ha sottolineato il coraggio della compagnia di detenuti-attori “di mettersi in gioco facendosi avanti ed esponendosi per dare vita ad altri esseri umani, mettendoci davanti ai nostri sogni e ai nostri limiti, alle piccolezze come alle grandezze, agli orrori come alla bellezza. Voi, oggi, siete la luce della speranza”. Lo spettacolo, aperto al pubblico esterno, ha visto la partecipazione, tra gli altri, del direttore dell’Ipm - l’istituto minorile è ospitato nello stesso complesso penitenziario della casa circondariale - e di studenti e docenti dell’università di Catania. Ferrara. I detenuti diventano attori: “Il teatro è libertà” di Ludovica Zambelli Il Resto del Carlino, 2 dicembre 2025 “Where Have All the Flowers Gone?” è il titolo dello spettacolo che va in scena da domani a venerdì. Il progetto coinvolge 18 detenuti che hanno preso parte al percorso laboratoriale nella Casa Circondariale, alcuni come attori ed altri come tecnici delle luci e del suono. Lo spettacolo è parte del Festival “Trasparenze di Teatro Carcere”, sostenuto dal ministero della Cultura e dalla Chiesa Valdese. Il laboratorio, guidato da Marco Luciano viene promosso dall’associazione Carpa aps. insieme alla direzione dell’istituto, con il sostegno del ministero della Giustizia e un contributo di 15mila euro dell’Assessorato alle Politiche Sociosanitarie del Comune. “Appoggiare iniziative di questo tipo ha un valore concreto per chi vi prende parte: favorisce il benessere personale, aiuta a riconoscere e modulare le emozioni, stimola la cooperazione e permette di intravedere possibilità nuove per il proprio futuro. È un cammino che incide positivamente sulla qualità della vita dei detenuti e che, al tempo stesso, offre un arricchimento umano a chi lo guida e lo accompagna”, afferma l’assessore alle politiche sociosanitarie Cristina Coletti. Marco Luciano, regista e responsabile del laboratorio teatrale, ha raccontato il lavoro. “Il tema di quest’anno nasce dal saggio di botanica L’intelligenza dei fiori di Maeterlinck. Il fiore - dice Luciano - offre un esempio di coraggio e perseveranza. Questa immagine ci è sembrata ideale e simbolica per i detenuti”. Where Have All the Flowers Gone? intreccia storie, provenienze e lingue diverse. “Il nostro gruppo conta venti persone di nazionalità differenti. Attraverso la metafora del fiore è emerso il loro desiderio di raccontarsi”. Da questo interrogativo nasce un percorso scenico che racconta come, anche negli spazi più costretti e nelle zone d’ombra della nostra società, persino mentre il mondo è attraversato da conflitti e instabilità, resista ostinato il bisogno umano di rinascere e fiorire. È intervenuta anche Veronica Ragusa, presidente dell’associazione Carpa - Centro Artistico di Periferie Attive: “Siamo una realtà giovane, nata nel 2020, composta in prevalenza da donne under 35. Lavoriamo nelle periferie fisiche ed emotive”. Maria Martone, direttrice del carcere, e Annamaria Romano, funzionario giuridico-pedagogico, hanno ribadito il valore del teatro nel percorso trattamentale: “Il teatro crea uno spazio di libertà e incontro tra persone diverse, favorisce introspezione, bellezza e cambiamento. Apriamo così le porte dell’istituto alla città, un’apertura che, grazie a progetti come questo, diventa ogni anno più concreta”, ha affermato la direttrice. Roma. Presentazione del numero 8 del notiziario “Non tutti sanno” garantedetenutilazio.it, 2 dicembre 2025 Il Garante Anastasìa ha partecipato all’incontro per il nuovo numero del notiziario della Casa di Reclusione di Rebibbia. Si è svolta lunedì 24 novembre 2025, presso Il Seminterrato di Via Siena 2, a Roma, la presentazione del numero 8 del notiziario “Non tutti sanno”, un’uscita speciale, dedicata al recente monito del presidente della Repubblica Sergio Mattarella sulla dignità della detenzione. All’incontro - promosso dall’Associazione Laura Lombardo Radice e introdotto dal presidente Mattia Ciampicacigli - sono intervenuti Stefano Anastasia, Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, la giornalista Maria Corbi e Roberto Monteforte, coordinatore della rivista. Il coordinatore della redazione del notiziario Non Tutti Sanno, il giornalista professionista Roberto Monteforte, spiegando perché il numero della rivista è stato dedicato al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha sottolineato l’importanza dei suoi moniti al governo e alle istituzioni, perché alle persone private della libertà siano sempre garantiti i diritti fissati dalla Costituzione a partire dalla dignità della persona, alla salute e alle cure, all’affettività e al lavoro, assumendo misure adeguate per superare il sovraffollamento e la fermare piaga dei suicidi nelle carceri . “Non più un’emergenza ma una condizione strutturale che viola la Costituzione”, le parole del Capo dello Stato. “Chi sconta la pena ha diritto a condizioni di vita dignitose e a reali opportunità di rientro nella società”. Monteforte, che ha offerto una panoramica sulla vita “ristretta” e sull’attività della redazione di Non Tutti Sanno all’interno della Cr Rebibbia, ha quindi sottolineato come gli appelli del Capo dello Stato siano rimasti in gran parte inascoltati: “Il governo continua con la politica degli annunci. Mentre gli annunci non costano, il prezzo che pagano le persone in carcere è altissimo”. La voce di Mattarella come quella di papa Francesco restano per il giornalista un riferimento importante per chi non si rassegna alle logiche securitarie che si vogliono imporre alla popolazione detenuta, al volontariato e agli stessi operatori penitenziari, alimentando tensione e insicurezza. La Giornata mondiale della Disabilità e le parole dell’inclusione: non “per” ma “con” gli altri di Guido Marangoni* Corriere della Sera, 2 dicembre 2025 Il 3 dicembre si celebra la ricorrenza dedicata dall’Onu alle persone con disabilità. Basta una piccola parola, la congiunzione “con”, per rimarcare l’essenza della reciprocità. Sono più di trent’anni che, grazie alle Nazioni Unite, il 3 dicembre celebriamo la Giornata internazionale delle persone con disabilità. E ogni volta mi prende quel timore sottile che l’appuntamento diventi scontato, quasi un’abitudine che riguarda “altri” e non tutti noi. È un po’ come i compleanni: non servono a festeggiare un merito, ma a ricordarci le persone che fanno parte della nostra vita. Il tema scelto dall’Onu quest’anno è “Fostering disability inclusive societies for advancing social progress”. Con un paio di click lo traduciamo come “Favorire società inclusive per le persone con disabilità per promuovere il progresso sociale”. Tutto corretto, certo, ma non senti anche tu una certa distanza? Una direzione unica di “alcuni” che includono “altri”. Funziona, ma manca un ingrediente fondamentale. Un po’ come cucinare senza sale o senza lievito. Basterebbe aggiungere una parola minuscola per far respirare meglio la frase: CON. “Favorire società inclusive con le persone con disabilità per promuovere il progresso sociale”. All’improvviso cambia tutto. Diventa una faccenda che riguarda tutti, insieme. Non è un gioco di parole, è l’essenza della reciprocità, quell’andare e tornare che tiene in piedi le cose più importanti della vita: amicizia, amore, giustizia, inclusione, speranza. Forse dovremmo proporlo davvero: “International day WITH disabled persons”. Perché ogni volta che parliamo di persone, di diritti, di futuro, dovremmo ricordarci quel piccolo promemoria a forma di CON. È lì che comincia il progresso sociale: non per, ma con. *Scrittore, attore, papà di Anna Perché anche l’inclusione si crea con la competenza di Giovanni Ferrero* La Stampa, 2 dicembre 2025 Il 3 dicembre, Giornata Internazionale delle Persone con Disabilità, Torino e tutta l’Italia si animano di eventi e iniziative dedicate ai diritti, alla partecipazione e alla piena cittadinanza delle persone con disabilità. Nella nostra città, per un’intera settimana, si svolgerà il DisFestival, promosso dalla Cpd - Consulta per le Persone in Difficoltà, un percorso pubblico e diffuso che invita cittadini, scuole, imprese e istituzioni a confrontarsi con l’inclusione in modo concreto e non retorico. È proprio in questo contesto che nasce la riflessione che vorrei condividere. Sono figlio di Paolo Osiride Ferrero, figura nota a Torino per le sue battaglie civili, per il suo ruolo nella vita culturale e sociale della città e per essere stato il presidente storico della Cpd. Mio padre ha lavorato per decenni perché le persone con disabilità potessero essere riconosciute non per la loro condizione, ma per il valore che portano alla società. E prima ancora di essere un attivista, era un professionista: un musicista, un insegnante, un lavoratore stimato, che si è fatto strada in anni privi di tutele e di leggi adeguate. La sua autorevolezza non nasceva dal “raccontarsi come disabile”, ma dal contributo che portava. Non chiedeva spazio: se lo conquistava con la competenza. Come lui, tanti della sua generazione hanno aperto sentieri che oggi consideriamo scontati. Oggi, però, vedo un rischio diverso. Nell’epoca dei social, molte delle voci più visibili sulla disabilità parlano principalmente della propria condizione, senza un percorso professionale solido riconosciuto al di fuori di essa. La visibilità diventa un fine in sé, misurata in like, presenze ai convegni, testimonianze emozionanti che colpiscono il pubblico ma non sempre generano cambiamento. Il problema non riguarda solo chi si espone così, ma anche chi alimenta questo meccanismo: aziende, istituzioni e organizzatori che preferiscono invitare “storie che commuovono” anziché professionisti con disabilità in grado di portare contenuti, analisi e competenze. È una forma contemporanea di pietismo travestito da inclusione. Il risultato è una cultura in cui essere “in scena” conta più dell’essere autorevoli. Una cultura che rischia di ridurre le persone con disabilità a testimoni della propria condizione, invece che protagonisti della vita sociale, economica e politica. Ricordo un episodio che mio padre raccontava spesso: un ragazzo con disabilità chiedeva aiuto per cercare lavoro, ma, di fronte alla richiesta di correggere il curriculum, rispose: “Tanto sono disabile, la legge 68 mi tutela”. Mio padre s’infuriò: non perché non credesse nella legge, ma perché vedeva in quella frase la rinuncia ad ambire a un ruolo vero nella società. È una rinuncia che, a volte, ritrovo oggi in certe dinamiche di rappresentazione pubblica: si chiede un cachet per una testimonianza che sui social viene definita “militanza”; si cerca visibilità più che impatto; si parla di disabilità più che di competenze. Eppure, se c’è un messaggio che la generazione di Paolo Osiride Ferrero ci ha lasciato è che l’inclusione si costruisce con il merito, con l’impegno, con la fatica, con la competenza, anche quando il contesto non ti facilita. Lo slogan storico era: “Nulla su di noi senza di noi”. Oggi dobbiamo completarlo: “Nulla su di noi senza di noi, con competenza”. Perché una società realmente inclusiva non si costruisce con la spettacolarizzazione della disabilità, ma con il contributo qualificato delle persone con disabilità. Non con la commozione di un momento, ma con la loro autorevolezza, la loro presenza nei luoghi decisionali, la loro capacità di incidere. Il 3 dicembre non dovrebbe essere la giornata del “raccontiamo storie che emozionano”, ma la giornata in cui ricordiamo che - come dice la Costituzione - è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che impediscono a ogni persona di partecipare pienamente alla vita del Paese. E questo avviene solo quando le persone con disabilità non vengono applaudite perché disabili, ma riconosciute per ciò che sanno fare. - *Direttore della Consulta per le Persone in Difficoltà Migranti. Minori non accompagnati, il sistema è al collasso di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 dicembre 2025 Oltre 18mila ragazzi stranieri arrivati in Italia senza genitori. Posti insufficienti, rimborsi in ritardo, strutture che scoppiano. E mentre il governo promette fondi, le associazioni denunciano: stiamo smantellando l’accoglienza proprio quando servirebbe rafforzarla. I numeri parlano chiaro. Al 31 ottobre scorso i minori stranieri non accompagnati ospitati nelle strutture italiane erano 18.038. La maggior parte ha tra i 16 e i 17 anni. Le ragazze sono solo il 12% del totale, ma vivono situazioni drammatiche: quasi una su cinque ha subito torture o violenze, più di una su cinque è stata vittima di tratta, l’11% era incinta al momento dell’arrivo. Sono dati che emergono da un’analisi del Sole 24 Ore e che fotografano un sistema al limite. La Sicilia regge sulle spalle il peso maggiore: da sola ospita il 26,8% di tutti i minori soli presenti in Italia, quasi un terzo del totale. È l’effetto di essere la principale porta d’ingresso dal Mediterraneo. La Lombardia segue con il 12,7%, ma con una differenza enorme: lì l’accoglienza è più strutturata, in Sicilia si fa quello che si può. Il problema vero non sono i numeri degli arrivi. È la disorganizzazione del sistema. Lo scorso agosto i sindaci hanno lanciato l’allarme attraverso l’Anci: mancavano 200 milioni per coprire le spese già sostenute dai Comuni per l’accoglienza. Il governo ha risposto promettendo rimborsi: 80 milioni per il 2023, 120 per il 2024 e altri fondi per il 2025. Ma i soldi arrivano in ritardo e non risolvono il nodo principale: i posti disponibili sono troppo pochi. I centri del sistema Sai, quelli gestiti dai Comuni che offrono anche percorsi scolastici e formativi, hanno 5.977 posti. Nel 2024 sono riusciti ad accogliere 9.510 minori solo grazie al turnover: ragazzi che compiono 18 anni e lasciano il posto ad altri. A marzo sono stati autorizzati altri mille posti, ma è una goccia nel mare. Secondo i dati dell’Anci, a fronte di 16.497 minori presenti sul territorio, i posti Sai dedicati ai ragazzi soli sono poco più di 6mila, a cui si aggiungono appena 1.500 nei centri di accoglienza straordinaria per minori. Il risultato è che molti ragazzi restano bloccati nei centri di prima accoglienza, i Cas, che dovrebbero essere usati solo per periodi brevissimi e che spesso garantiscono solo un letto e un pasto. Al 30 giugno il 16% dei minori era ancora lì. Il 63% si trovava in soluzioni di seconda accoglienza, tra Sai e comunità educative. Il 21% era in famiglia, soprattutto rifugiati ucraini. Ma c’è di peggio. Dal decreto legge 133 del 2023 è possibile inserire minori stranieri in centri di accoglienza per adulti. Una scelta che l’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione denuncia nel suo comunicato di ottobre 2025: “Sempre più spesso minori vengono inseriti in centri per adulti, senza un vaglio effettivo sulle loro vulnerabilità”. È come buttare un ragazzo di 16 o 17 anni in un mondo che non è fatto per lui, senza tutele. In Friuli Venezia Giulia è andata anche oltre. La legge regionale del 21 marzo 2025 ha introdotto l’obbligo di un parere vincolante per autorizzare nuove comunità per minori stranieri, basato su criteri che di fatto impediscono di aprirle nei capoluoghi e nei centri urbani principali. Secondo Asgi si tratta di “disposizioni di dubbia legittimità costituzionale” che invadono competenze dello Stato e vogliono “deliberatamente ostacolare l’apertura di nuove strutture”. Il risultato pratico è che i ragazzi finiscono in comuni isolati, lontani da scuole, servizi sanitari, possibilità di integrazione reale. Il disagio, come già abbondantemente riportato nel settimanale de Il Dubbio, esplode nelle carceri minorili. Nel 2024 ci sono state 28 rivolte negli Istituti Penali per Minorenni. La risposta? Psicofarmaci. Sempre più psicofarmaci. Tra il 2022 e il 2024 la spesa per antipsicotici è aumentata in modo vertiginoso: a Torino del 43%, a Nisida del 237%, a Pontremoli del 435%, a Roma del 32%. Farmaci pensati per patologie come la schizofrenia, usati per contenere comportamenti difficili. A Milano, all’Istituto Beccaria, sono 42 gli indagati tra ex direttori, comandanti, agenti e operatori sanitari per maltrattamenti e torture ai danni di 33 giovani detenuti. I fatti risalgono al periodo tra il 2021 e il 2024. Ci sono stati 13 arresti e 8 sospensioni. Ma il segnale più drammatico è arrivato dal carcere minorile di Treviso. Danialo Riahi, 17 anni, minore straniero non accompagnato tunisino, si è impiccato con i suoi jeans nella cella del centro di prima accoglienza ed è morto in ospedale il 12 agosto scorso. Era passato solo qualche ora dal suo arresto. È il primo suicidio in un carcere minorile da 22 anni. “Quale sintomo più dirompente della crisi in cui versa il sistema?”, si chiede Asgi nel suo comunicato. Le Questure non aiutano. Le prassi diventano sempre più restrittive: pretendono l’esibizione del passaporto per rilasciare il permesso di soggiorno per minore età, anche se la legge non lo prevede. Respingono le richieste di conversione del permesso alla maggiore età per inadempimenti imputabili ai Consolati o ai servizi pubblici, non ai ragazzi. E il prosieguo amministrativo, lo strumento pensato per sostenere i più fragili oltre i 18 anni, spesso fallisce per carenza di risorse nei servizi territoriali. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha già condannato più volte l’Italia per l’inadeguata accoglienza dei minori stranieri non accompagnati. Le sentenze non hanno trovato piena esecuzione. Il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha aperto una procedura di supervisione per monitorare cosa sta facendo il governo. “Invece di rafforzare il Sistema di Accoglienza e Integrazione, il governo sta procedendo al suo progressivo smantellamento”, denuncia Asgi. I servizi di neuropsichiatria infantile sono al collasso, con tempi di attesa lunghissimi. Mancano mediatori culturali nei servizi pubblici. Le comunità educative sono poche e spesso gli operatori hanno contratti inadeguati che non permettono una presenza continuativa. Il coordinamento tra carcere ed esterno è insufficiente. I ragazzi vengono trasferiti da un istituto all’altro, dal Nord al Sud, perdendo i legami con l’esterno. “La narrazione va invertita”, scrive Asgi. “I ragazzi non sono problemi a cui far fronte in modo semplicistico, ma portatori di risorse potenziali che occorre riconoscere e rafforzare”. Le risposte servono ora. Il sistema è già al limite. Senza un intervento rapido e strutturale, la situazione rischia di diventare ingestibile. E a pagarne il prezzo saranno proprio quei ragazzi che la Costituzione, all’articolo 31, impone allo Stato di proteggere. La stretta della Tunisia: meno partenze e più espulsioni di Francesca Ghirardelli Avvenire, 2 dicembre 2025 Un rapporto di Amnesty International denuncia le violazioni dei diritti umani ai danni dei profughi. Il commissario Grandi (Unhcr): qui c’è una repressione più severa rispetto alla Libia. Senza dubbio ha funzionato, lo si vede chiaro dai numeri e dalle percentuali che precipitano se confrontate con quelle libiche. Dalla Tunisia si registrano meno viaggi irregolari verso le coste italiane, dopo quasi tre anni di contrasto ai flussi migratori da parte delle autorità locali, a cui ha dato manforte il Memorandum d’intesa firmato con l’Ue nel 2023. Quello che, invece, si vede di meno è l’impatto reale delle misure adottate sulla vita di chi, su questa rotta, cercava protezione ma è stato efficacemente tenuto fuori dai confini europei. “La fame, le espulsioni verso il deserto, la prigione: sono numerosi i rischi nella vita di un richiedente asilo”, confida ad Avvenire, dalle campagne della città tunisina di Sfax, il giovane I. F., originario della Sierra Leone. Nei primi otto mesi del 2025, sul totale delle persone arrivate in Italia via mare in maniera irregolare l’88% è partito dalla Libia e solo l’8% dalla Tunisia. Nel 2023, le percentuali erano invertite: il 62% si era imbarcato dalle coste tunisine, il 33% da quelle libiche. Proprio quell’anno nelle politiche migratorie della Tunisia si è assistito a un “cambiamento radicale”. Così lo definisce Amnesty International in un rapporto pubblicato il 6 novembre con nuove testimonianze di violazioni dei diritti umani ai danni di migranti subsahariani nel Paese. Si aggiungono alle storie già diffuse in questi tre anni su intercettazioni violente in mare, arresti, detenzioni ed espulsioni collettive verso Libia e Algeria. Rispetto a queste ultime, “poco frequenti prima del 2023”, il report riferisce che “Guardia Nazionale tunisina, esercito e polizia hanno collaborato per espellere sommariamente e collettivamente rifugiati e migranti su base sistematica, compresi bambini e donne incinte”. Sarebbero “almeno 11.500” gli espulsi tra giugno 2023 e maggio 2025, al di fuori di qualsiasi controllo giudiziario. “Ci sono ancora partenze da Sfax verso l’Italia, ma di solito finiscono in Libia o nel deserto per le operazioni della polizia”, conferma I. F. al telefono. “La macchina delle espulsioni collettive rimane in funzione”, assicura anche un esponente della società civile che chiede l’anonimato. “Chi è intercettato in mare viene fatto sbarcare ed espulso verso le frontiere quasi automaticamente. L’area intorno a Sfax è monitorata persino con i droni, con radar e “tre livelli di difesa” in mare, anche con imbarcazioni fornite da italiani e altri europei”. Durante le intercettazioni, scrive Amnesty, in questi anni “la Guardia Marittima Tunisina ha fatto ricorso ad azioni sconsiderate, illegali e violente, tra cui manovre ad alta velocità che hanno creato onde che minacciavano di capovolgere le barche dei migranti, lacrimogeni a distanza ravvicinata, collisioni”. In una comunicazione alle autorità tunisine il 1° ottobre 2024, un gruppo di esperti delle Nazioni Unite valutava che “la Tunisia non soddisfa le condizioni per condurre operazioni di ricerca e soccorso e garantire l’identificazione e la protezione al momento dello sbarco, in conformità con gli obblighi internazionali”“ Eppure da oltre un decennio, l’Ue e gli Stati membri le forniscono supporto e denaro per contenere i flussi, prima nell’ambito dell’”Eu Trust Fund for Africa” poi dello “Strumento di vicinato e cooperazione internazionale” e ora con il Memorandum del 2023 “firmato - sottolinea il rapporto - senza efficaci garanzie per i diritti umani, in un contesto di retorica razzista ben documentata e crescente da parte dei funzionari pubblici e poco dopo la prima ondata di espulsioni collettive”. A Tunisi o nelle aree rurali in attesa di prendere il mare, i subsahariani “sono costretti a essere invisibili negli spazi pubblici perché le autorità conducono campagne di arresti in modo sistematico. E sono abbandonati perché nessuna organizzazione statale, né della società civile, né internazionale fornisce aiuto”, aggiunge la fonte ben informata. Persino il lavoro dell’Onu è ostacolato negli aspetti più essenziali. A luglio, l’Alto Commissario per i rifugiati (Unhcr), Filippo Grandi, ha dichiarato che in Tunisia “la repressione è ancora più severa che in Libia... Non ci lasciano più registrare i richiedenti asilo”. Da un anno e mezzo, infatti, non è possibile chiedere protezione. Una carta dell’Unhcr in tasca, per la verità, in questi anni non ha protetto da arresti ed espulsioni, però dava qualche speranza di lavorare nel settore informale o di affittare una stanza. “La sospensione della registrazione di nuovi richiedenti è iniziata nel giugno 2024 su richiesta delle autorità tunisine e rimane in vigore - ci conferma Tarik Argaz, responsabile della comunicazione dell’agenzia per il Nordafrica -. Mentre l’Unhcr continua a rinnovare i documenti per i registrati prima del giugno 2024, l’accesso all’asilo per i nuovi richiedenti rimane congelato. L’Unhcr l’ha comunicato all’Ue”. Intanto, è in corso una repressione senza precedenti contro almeno quindici Ong che davano assistenza ai subsahariani. Tra queste, il Consiglio tunisino per i rifugiati (Ctr), che collaborava con Unhcr. Il 24 novembre sono stati condannati a due anni di carcere (ormai già svolti) il fondatore del Ctr, Mustapha Djemali, e un collega. A ottobre sono arrivati nuovi ordini giudiziari di sospensione per altre Ong come il Ftdes e la sede locale dell’Organizzazione mondiale contro la tortura. Così, non solo migranti e richiedenti asilo sono costretti a rimanere invisibili. “Anche ogni forma di solidarietà verso di loro - conclude l’esponente della società civile - deve restare ugualmente invisibile e nascosta”. Cupola blu, una battaglia per la vita nel ricordo di Tamara e per Djalali di Barbara Cottavoz La Stampa, 2 dicembre 2025 La donna uzbeka accolta dalla Comunità di Sant’Egidio a Novara lottò contro la pena capitale nel mondo. L’iraniano in cella dal 2016. La Cupola si è illuminata di blu ieri e sabato notte per ricordare la battaglia contro la pena di morte. Il 30 novembre infatti ricorre la Giornata internazionale “Città per la vita - Città contro la pena di morte” lanciata dalla Comunità di Sant’Egidio nel 2002. Qui ha un significato particolare: a Novara ha vissuto i suoi ultimi anni ed è sepolta Tamara Chikunova, che lottò e riuscì a far abolire la pena di morte in Uzbekistan applicata al suo unico figlio, e la città ha concesso la cittadinanza onoraria e si batte per liberare Ahmadreza Djalali, lo scienziato condannato alla pena capitale in Iran. La Giornata ricorre il 30 novembre a ricordo della prima abolizione della pena capitale, avvenuta nel Granducato di Toscana nel 1786. Molti secoli fa ma ancora oggi sono numerosi i Paesi che la contemplano. Come l’Iran dove è detenuto da quasi dieci anni Djalali, ricercatore del Centro Crimedim di Novara dove lavorò e visse con la famiglia per tre anni, dal 2012 al 2015, pochi mesi prima di essere arrestato e condannato a morte per spionaggio a favore di Israele. Senza prove e senza una vera difesa, con una confessione estorta, come ricordano sempre Amnesty Internazional e i suoi colleghi dell’Università del Piemonte Orientale. E’ detenuto da 3.506 giorni nel carcere di Evin, a Teheran. Ma a Novara si è svolta una parte importante anche della vita di Tamara Chikunova, ingegnere in Uzbekistan e docente al Politecnico di Mosca e Pietroburgo e moglie di un militare dell’Armata Rossa, che vide la sua esistenza crollare quando nel 1999 fu arrestato il figlio Dmitrij, 29 anni. Era ingiustamente ritenuto un assassino e fu fucilato nel Duemila, salvo poi essere riabilitato cinque anni dopo. Lei non venne avvisata dell’esecuzione, non lo salutò né riebbe mai il corpo per seppellirlo. Tamara trovò la forza di reagire e fondò l’associazione “Madri contro la pena di morte e la tortura”. Invisa al Governo uzbeko, dovette fuggire e nel 2009 trovò riparo a Novara, grazie alla Comunità di Sant’Egidio. Viveva in incognito in un alloggio di via Leone Ossola ma era instancabile nel girare le scuole per raccontare l’assurdità di uno Stato che uccide i suoi cittadini e nel promuovere la cancellazione della pena di morte. Studiava le leggi di ogni Paese, poi scriveva ai capi di stato e ai ministri. “Grazie all’operato e alla mediazione della sua organizzazione, Tamara ha contribuito a salvare le vite di 23 condannati alla pena capitale - racconta Daniela Sironi, presidente della Comunità di Sant’Egidio a Novara e in Piemonte -. Il suo impegno, sostenuto a livello internazionale da noi e da altre organizzazioni come Amnesty, ha condotto all’abolizione della pena capitale in Uzbekistan, il 1° gennaio 2008, e ha dato un contributo decisivo per lo stesso risultato in Kirghizistan, Kazakistan e Mongolia, recandosi personalmente in tutti questi Paesi”. Negli ultimi tempi era malata ma instancabile e dieci giorni prima della sua morte, avvenuta il 31 marzo 2021 a Novara, scrisse ancora a Aleksandr Lukašenko, il presidente bielorusso, su incarico del Consiglio d’Europa che l’aveva nominata delegata per la questione della pena capitale in quel Paese: “Affrontava la battaglia contro le esecuzioni con un grande cuore ma anche tanta testa e lavoro perché era preparatissima sui dossier e le leggi di ogni Stato, studiava continuamente - sottolinea Sironi. Viveva in modo nascosto ma era una persona luminosa”. Due storie che Novara non dimentica: “Ci hanno portato il mondo in casa - conclude Sironi -. Comprendiamo il dolore di tante persone in modo concreto e umano”.