Dimenticate! di Cesare Burdese* Ristretti Orizzonti, 1 dicembre 2205 Procede alacremente l’azione governativa per fronteggiare il sovraffollamento carcerario con la costruzione di nuovi posti detentivi nelle carceri in funzione, “ovunque vi sia dello spazio libero da occupare”. La dove c’è l’erba dei campi da calcio, dove ci sono vigneti e serre, presto ci sarà cemento. Le celle inutilizzate per la mancanza reiterata di manutenzione o perché vandalizzate, saranno riportate all’onore del mondo, auspicabilmente anche ottemperando finalmente ad una normativa che, disattesa sin dal 2000, prevede doccia ed acqua calda in ogni cella. Non importa se il risultato lo si raggiungerà costruendo edifici che sembrano più a contenitori per soggetti inanimati che per esseri umani o allestendo prefabbricati, poco più che ricoveri per animali, che per la loro configurazione architettonica lasciano presagire una conflittualità perenne tra detenuti e detenenti. L’imperativo assoluto è che il sovraffollamento vada prontamente risolto, a qualsiasi costo e così sta avvedendo. Dementicate dunque Voltaire e civiltà, Fedor Dostoevskij e moralità, Cesare Beccaria che la pena deve essere giusta e utile, Victor Hugo che aprire una scuola significa chiudere una prigione, San Giovanni Bosco che è meglio prevenire che punire, meglio educare che reprimere, Gandhi che la prigione è il palazzo della libertà per il satyagrahi. Dimenticate i Papi che le carceri devono essere luoghi di redenzione, non di disumanizzazione. Dimenticate Angela Davis, Loic Wacquant, Erving Goffman, Franco Basaglia, John Howard Griffin, Michel Foucault, Nils Christie, Thomas Mathiesen, ecc. ecc., e astenetevi sul controllo sociale e sulle disuguaglianze. Dimenticate Alvar Aalto, Herman Hertzberger, Hassan Fathy , Le Corbusier, Lina Bo Bardi, Mario Ridolfi, Rem Koolhaas, che al centro della scena architettonica va posto l’individuo con i suoi bisogni materiali ed immateriali. Dimenticate Frank Lioyd Wright che abbiamo costruito troppe prigioni per il corpo e troppo pochi templi per lo spirito. Dimenticate Giovanni Michelucci che un carcere non lo costruirei , lo farei fare ad un altro. In questo caso la mia vigliaccheria arriverebbe fin qui. A meno che non mi facessero costruire una intera città. Dimenticate Sergio Lenci e la dignità e la decenza nelle carceri con interni puliti, luminosi, aerati, e facilmente pulibili, con la vegetazione a contatto con gli edifici, che riduca il tutto murato e pavimentato dello spazio esterno per mantenere un forte inserimento degli edifici nella natura, con la distanza tra gli affacci degli edifici per impedire l’abituale adozione delle “tramogge” davanti alle finestre. Dimenticate Alessandro Margara che questo carcere discarica sociale…deve restare così o deve essere rimosso? Dimenticate Richard Wener e Juhani Pallasma e la neuro architettura ed il design basato sulle evidenze, gli spazi leggibili e intuitivi, l’organizzazione chiara dei percorsi, le proporzioni e le forme che riducono lo smarrimento, l’ambiente che influenza il nostro sistema limbico, l’uso consapevole di luce, colore, materiali, la creazione di atmosfere calibrate per l’attività, la presenza di natura, vista sul paesaggio o aperture verso l’esterno, angoli arrotondati e materiali naturali, la riduzione del rumore e della complessità visiva, le soluzioni che favoriscano relazioni interpersonali e sociali, privacy, partecipazione, percorsi stimolanti, le architetture “esperenziali” che guidano il corpo, la progettazione multisensoriale. Dimenticate Henry Plummer e l’esperienza dell’architettura. Dimenticate i problemi più grossi nelle carceri per un visitatore occasionale: la mancanza di aria e di luce, la forte umidità degli ambienti affollati con assenza di ventilazione, la promiscuità totale nel già insopportabile affollamento, il continuo rumore di fondo sul quale si elevano urla, imprecazioni, richiami, ordini, l’insopportabile cattivo odore, fatto di un misto di emanazioni corporali di tutti i generi, di muffa, di fumo di sigaretta, di soffritto di aglio, ecc. Dimenticate il bisogno di studiare un tipo edilizio rispondente alle esigenze funzionali e anche a quelle della qualità degli ambienti di vita e di lavoro: dalla cella individuale agli spazi collettivi, laboratori, biblioteche, aule scolastiche, locali per gli affetti, ecc., non limitandosi alla semplice applicazione di norme e numeri. Dimenticate la necessità di superare la condizione di un’esistenza infantilizzata e di rendere il dentro il più possibile uguale al fuori. Dimenticate il monito costituzionale che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Dimenticate il “Garante” di Mauro Palma che visitare gli istituti di detenzione e avere accesso alle persone detenute richiede “Terzietà”. Dimenticate e pensate di sistemare tutto in qualche modo, con addizione, sottrazione, moltiplicazione e divisione e senza mai guardare oltre. Ma poi perché dimenticare e capitolare di fronte al nulla? Perché rassegnarsi? Dismettete il pessimismo dell’intelligenza e sposate l’ottimismo della volontà, per agire fiduciosi, con i piedi ben saldi al suolo e con la testa oltre le nuvole. *Architetto Una “fabbrica di recidiva” costosa e illegale: così lo Stato abbandona i suoi minori di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 dicembre 2025 Il report di Radicali italiani e Nessuno Tocchi Caino evidenzia i numeri drammatici dopo l’introduzione del decreto Caivano: dai 392 reclusi del 2022 ai 586 del 2025, più dell’80 per cento sono in attesa di giudizio, nove istituti su 17 risultano oltre la capienza. Diciassette istituti penali per minorenni sparsi per l’Italia. Dentro, ragazzi di appena 14 anni che dormono con i materassi a terra, celle pensate per due persone che ne ospitano cinque, cavi elettrici pericolosamente esposti. E un dato che dovrebbe far riflettere chiunque: oltre il 60% di chi esce da questi luoghi torna a delinquere. Non è un sistema che riabilita. È una fabbrica di recidiva, come la definisce senza mezzi termini il report presentato la scorsa settimana alla Camera da Radicali Italiani e Nessuno Tocchi Caino, insieme al deputato Fabrizio Benzoni di Azione. I numeri parlano da soli. A febbraio 2024 i ragazzi detenuti erano 532, il 30% in più rispetto alla fine del 2022. A marzo 2025 sono saliti a 597, con 9 istituti su 17 oltre la capienza prevista. A Treviso il sovraffollamento ha raggiunto quasi il doppio dei posti disponibili: 21 ragazzi dove ce ne dovrebbero stare 12. Le celle sono indecenti, senza vie di fuga in caso di incendio, con situazioni igienico-sanitarie compromesse. Il punto di svolta è stato il cosiddetto Decreto Caivano, approvato nel settembre 2023 dopo un grave fatto di cronaca. Da allora è diventato più facile mettere in custodia cautelare i minori, mentre sono state ridotte le misure alternative. Risultato: nell’ottobre 2022 i reclusi erano 392, nel giugno 2025 sono arrivati a 586. Un aumento del 50%. E la maggior parte - oltre l’80% - non è nemmeno condannata: sta aspettando il processo. Per quali reati finiscono dentro questi ragazzi? La maggior parte sono reati contro il patrimonio: furti, rapine, danneggiamenti. Solo poco più del 20% riguarda reati contro la persona. Viene punita la povertà, non la pericolosità sociale, scrivono gli autori del report. Gli stranieri sono sovra- rappresentati: pur costituendo il 29% dei minorenni presi in carico dai servizi, rappresentano quasi il 49% degli ingressi negli istituti. Radicali Italiani e Nessuno Tocchi Caino hanno visitato gli istituti uno per uno, raccolto dati, parlato con i ragazzi e il personale. A Milano, al Beccaria in due occasioni recenti gli è stato impedito di accedere alle sezioni e parlare con i detenuti. Un episodio mai verificatosi in nessun altro carcere visitato. Hanno chiesto spiegazioni formali al Direttore e al Capo Dipartimento. Non hanno ancora ricevuto risposta. A Bologna hanno trovato un aeroplanino di carta nel cortile. Dentro, un disegno di una barca e una frase scritta in italiano incerto: “la vita non mi ha dato niente, voglio farla finita”. È l’immagine più sincera di come stiano davvero questi ragazzi, scrivono i visitatori. La struttura, un ex convento, è sporca, con molti casi di scabbia segnalati. Il personale educativo e sanitario è insufficiente. A Nisida - l’Ipm diventato noto al grande pubblico grazie alla serie Netflix “Mare Fuori” - i visitatori chiosano: “Altro che mare fuori, qui è lo Stato a restare fuori”. Si perché la struttura è in condizioni di sovraffollamento cronico e opera con un organico insufficiente. I giovani con condanna definitiva rappresentano solo una piccola parte della popolazione ristretta, mentre oltre ottanta ragazzi vivono in un istituto concepito per numeri decisamente inferiori. La salute mentale è un’emergenza che attraversa tutti gli istituti. Gli atti di autolesionismo aumentano, in particolare i tagli sulle braccia. Nel 2024 al Beccaria sono stati registrati 236 episodi. A Treviso un ragazzo è morto dopo essersi impiccato con un paio di jeans. Non accadeva dal 2003. Gli psicofarmaci - antipsicotici e benzodiazepine - vengono usati sempre di più. In alcuni istituti ‘vengono somministrati come acqua fresca’, hanno riscontrato durante le visite. In altri, la carenza di medici e psicologi lascia i ragazzi soli, “condannati al proprio dolore e alle proprie solitudini”. I mezzi ci sono, ma vengono spesi male. Ogni ragazzo detenuto costa oltre 600 euro al giorno. Più di una scuola privata d’élite, nota sarcasticamente il report. C’è un educatore ogni 10-12 detenuti. Meno del 40% dei giovani ha accesso a corsi di formazione professionale. Le ore fuori dalla cella sono limitate. All’Ipm di Milano la giornata tipo prevede la sveglia alle 8:30, attività dalle 9 alle 12, pranzo, chiusura dalle 14 alle 15, attività o passeggio fino alle 18, cena alle 19 e chiusura dalle 20. Ore e ore di nulla, in spazi inadeguati. Il governo Meloni ha risposto al sovraffollamento aprendo nuovi istituti: Lecce, Rovigo, L’Aquila. Costo totale: quasi 30 milioni di euro. “Spesi per finanziare un sistema che rappresenta un modello di illegalità costituzionale”, attacca il report. Ancora più grave l’apertura, poi chiusa a settembre 2025, di una sezione minorile distaccata nel carcere per adulti di Bologna. Radicali Italiani ha presentato un esposto alla Procura della Corte dei Conti per presunto danno erariale: una struttura non idonea, senza percorsi trattamentali adeguati, in violazione del principio di separazione tra circuito minorile e ordinario. Eppure l’alternativa esiste e funziona. Prima del Decreto Caivano, oltre 2.800 ragazzi erano inseriti in percorsi di messa alla prova - programmi educativi sotto controllo dei servizi sociali che permettono di evitare il processo - contro appena 426 detenuti. Le misure alternative abbattono significativamente la recidiva. Significa reinserire concretamente in società chi commette un reato, prevenire nuovi reati e, se vogliamo buttarla sul tema economico, risparmiare una valanga di denaro pubblico. Lo dimostrano i Paesi nordeuropei. In Finlandia il carcere minorile praticamente non esiste: i ragazzi sotto i 15 anni non sono punibili penalmente e vengono seguiti dai servizi sociali, mentre per i 15-17enni la detenzione è usata solo come estrema ratio. Prevale formazione, lavoro, supporto. Il tasso di recidiva è molto più basso. Anche nei Paesi Bassi, dove i minori sono punibili già dai 12 anni, il sistema punta su educazione, giustizia riparativa e sostegno psico-sociale, con istituti specializzati a forte impronta scolastica e terapeutica. In Italia invece si va nella direzione opposta. Sempre secondo il report di Radicali Italiani, dall’inizio della legislatura tra nuovi reati istituiti e aggravanti il totale di anni di pena aggiunta varia tra i 400 e i 410 anni. Decreto Rave, Decreto anti-Ong, Decreto Cutro, Legge sulla maternità surrogata, Decreto Sicurezza: “Un unico scopo: la propaganda”. Con il Decreto Sicurezza è stato introdotto il reato di rivolta penitenziaria, con pene fino a otto anni anche per la resistenza passiva. Viene applicato a chi contesta le condizioni di vita da recluso. Secondo molti giuristi riguarda anche chi protesta in maniera pacifica: rifiutare di rientrare in cella o fare uno sciopero della fame è diventato, di fatto, un reato. Persino le divise sono tornate. Con una circolare del 2024 è divenuto obbligatorio per gli agenti penitenziari indossare l’uniforme negli istituti minorili. L’ennesimo passo indietro rispetto ai principi del 1988, quando l’Italia aveva approvato un codice di procedura penale per i minorenni all’avanguardia, basato su indagine rapida, specializzazione dei giudici e residualità della detenzione. Le proposte di Radicali Italiani e Nessuno Tocchi Caino sono chiare. Abolire il Decreto Caivano, fermare la legislazione emergenziale, introdurre un controllo esterno sui prescrittori di psicofarmaci, investire nelle comunità educative e terapeutiche, proteggere i minori stranieri non accompagnati. E, alla luce dei dati e delle esperienze internazionali, avviare un percorso per chiudere gradualmente gli istituti penali per minorenni, puntando su misure alternative che hanno tassi di recidiva molto più bassi. “Gli IPM sono fabbriche di recidiva, costose e inutili. Non si riformano: si aboliscono”, conclude il report. I numeri, le testimonianze, le condizioni indecorose documentate nelle visite parlano da soli. Da questi luoghi non si esce “ri-educati”, ma più fragili e più propensi a delinquere. Il carcere minorile, da misura residuale com’era stato pensato, è diventato la scorciatoia di uno Stato che preferisce rinchiudere invece che prevenire. Autolesionismo e disagio mentale: è boom nell’uso di psicofarmaci tra i minorenni detenuti di Emilio Minervini Il Dubbio, 1 dicembre 2025 “Li sedano per calmarli”. I minori detenuti negli Istituti Penali per Minorenni (Ipm) si trovano in molti casi a vivere una doppia reclusione, fisica e psichica. Il rapporto “Bambini dietro le sbarre: la fabbrica di recidiva sul sistema italiano degli Istituti Penali per minorenni”, redatto da Radicali italiani in collaborazione con Nessuno tocchi Caino, delinea un quadro della detenzione minorile gettando luce sul crescente disagio psichico dei ragazzi ristretti e sull’aumento dell’uso degli psicofarmaci. Come è noto, dal 2023 il Decreto Caivano ha introdotto una serie di novità normative relative ai minori, introducendo nuovi reati e aumentando i casi in cui è prevista la custodia cautelare. L’effetto? Un boom di ingressi in carcere: a febbraio 2024 i minori presenti negli Ipm erano 532, con un aumento del 30 per cento sulla fine del 2022. Il numero ha continuato a crescere fino a raggiungere i 597 minori detenuti, determinando situazioni di sovraffollamento in 9 dei 17 istituti minorili presenti in Italia. La maggior parte dei ristetti si trova in regime di custodia cautelare. Nel 2023 il 79,3% degli ingressi è dovuto a misure preventive, mentre solo il 5,7% è legato all’esecuzione della pena. Alle celle piene si aggiunge la crisi sanitaria e sociale. Cresce l’incidenza degli episodi di disagio psichico, degli atti di autolesionismo e dei tentativi di suicidio. Che in certi casi, purtroppo, riescono, com’è successo a Treviso dove un ragazzo si è impiccato usando un paio di jeans. All’interno degli Ipm è considerevolmente aumentato l’utilizzo sia degli psicofarmaci a base di benzodiazepine come Diazepam e Lorazepam, sia degli antipsicotici, normalmente prescritti per il trattamento di patologie come la schizofrenia, e generalmente utilizzati per il controllo di comportamenti antisociali. Nel biennio 2022-2024, in particolare, la spesa per l’acquisto di antipsicotici, secondo i dati riportati da Altreconomia, è considerevolmente aumentata: al Ferrante Aporti (Torino) si è registrato un aumento del 43%; a Casal di Marmo (Roma) del 32%; al Nisida (Napoli) l’incremento è decisamente più considerevole, pari al 237%, così come all’istituto femminile di Pontremoli a Massa Carrara, dove la spesa è cresciuta del 435%. Nel rapporto viene sottolineato come numerosi ragazzi nel corso delle visite negli IPM presentassero chiari “segni dovuti ad atti di autolesionismo e sotto l’evidente effetto di sedativi”. In particolare gli psicofarmaci sarebbero utilizzati allo scopo di sedare i detenuti e mantenere la calma nei reparti. “La cosa che ci ha colpito di più nel corso delle nostre visite è l’autolesionismo dei ragazzi, in alcuni casi anche molto piccoli - spiega Filippo Blengino, segretario di Radicali Italiani - c’è poi la difficoltà legata alla gestione dei ragazzi a cui, ci è sembrato di capire, vengono somministrati psicofarmaci con lo scopo di calmarli, in particolare benzodiazepine, come fossero acqua fresca. Inoltre ci sono ragazzi con diagnosi psichiatriche e in certi casi anche con doppie diagnosi che dovrebbero essere seguiti in strutture diverse dal carcere. Ad esempio l’Ipm di Caltanisetta, per qualche ragione, ne riceve molti, ma il problema è che la copertura infermieristica non è su tutta la giornata, questo determina l’intermittenza della terapia alterandone gli effetti. E la situazione non fa che peggiorare, lo dicono i dati”. “L’attuale incapacità rieducativa del carcere è evidenziata dai numeri che mostrano come si sia superato ogni senso di ragionevolezza”, dice Fabrizio Benzoni, parlamentare di Azione particolarmente attento al dossier. “In alcuni Ipm - aggiunge la situazione è aberrante: materassi per terra, stanze piccole e fatiscenti. Inoltre è stata segnalato più volte nel corso delle visite in questi istituti che tanti ragazzi versavano in stato catatonico. Bisogna capire che in carcere il tema delle dipendenze non riguarda più solo quelle legate all’utilizzo di sostanze stupefacenti ma anche agli psicofarmaci per cui ci sarebbe bisogno di una continua assistenza psicologica e psichiatrica, che manca”. “Quello che abbiamo riscontrato è una composizione della popolazione detenuta che fa poca differenza tra adulti e minori, c’è un’incidenza del disagio psichico e dell’uso di psicofarmaci come sostanze ricreative che negli ultimi 4/5 anni è diventata molto significativa - ribadisce Sergio D’Elia, segretario di Nessuno tocchi Caino -. Negli istituti minorili la questione si pone anche come forma di controllo, cura e di trattamento che dovrebbe, non c’è dubbio, essere fatta fuori dal luogo di reclusione: dovrebbero occuparsene le comunità. Il problema è che è costoso trattare il disagio mentale, che sovente deriva da un disagio sociale, in luoghi più consoni a un minore. Perciò bisogna investire nelle comunità, dove i ragazzi possono coltivare rapporti umani, attraverso strumenti che possano formare lo spirito ed elevare la coscienza”. Susanna Marietti: “È un sistema al collasso: queste carceri minorili non recuperano più nessuno” di Simona Musco Il Dubbio, 1 dicembre 2025 Il caso dei bambini nel bosco ha risvegliato l’attenzione pubblica sul benessere dei minori. Ma non tutti i minori sono uguali: quando si tratta di quelli negli istituti di pena, ad esempio, che rimangono impigliati nelle maglie della giustizia - per un errore o per difficoltà personali - questa attenzione sembra svanire. Eppure, questo vuol dire rinunciare a quei ragazzi forse per sempre. “Le carceri minorili oggi sono luoghi che non hanno alcuna speranza di recuperare nessuno”, dice al Dubbio Susanna Marietti, coordinatrice nazionale dell’associazione Antigone, da trent’anni impegnata nella promozione dei diritti e delle garanzie nel sistema penale e penitenziario. E la giustizia minorile, dice, è al tracollo: sovraffollamento, mancanza di attività, ragazzi imbottiti di psicofarmaci e un sistema che ha perso rapidamente la sua vocazione educativa. Un cambiamento culturale e politico che, secondo Marietti, sta trasformando i minori da soggetti da proteggere a nuovi “nemici” da punire, cancellando il principio del superiore interesse del minore. È possibile pensare che un minore che commette un reato debba essere lasciato in quella che sembra una discarica sociale, senza un vero percorso di recupero, quando proprio per i minori tale percorso potrebbe essere più semplice? Antigone ha acceso molti riflettori sulle vicende della giustizia penale minorile. Se ne è scritto molto, perché negli ultimi due anni la giustizia minorile - e le carceri minorili, che ne fanno parte - hanno subito un forte tracollo. È un sistema che ha perso completamente quella valenza educativa che era nelle sue premesse fin dall’entrata in vigore del codice di procedura penale minorile del 1988. Questo non significa che allora fosse auspicabile che i ragazzi entrassero nel circuito penale, sia chiaro. Credo però che le politiche da mettere in campo - verso tutti, e a maggior ragione verso i minorenni debbano essere politiche sociali, preventive, centrate sulla presa in carico della persona sotto molti aspetti, non solo interventi repressivi quando il danno è fatto. All’epoca, pur con i suoi limiti, il sistema si preoccupava di garantire al ragazzo un recupero sociale a tutti i costi. Prima ancora del potere punitivo dello Stato, veniva, come ci ricorda anche la Corte costituzionale, il superiore interesse del minore. Oggi questo principio si è perso rapidamente. Il minore che entra nel circuito penale, soprattutto se entra in carcere, si ritrova in luoghi che, salvo rare eccezioni, non hanno alcuna possibilità reale di recuperare nessuno. Le carceri minorili, in questo momento, sono luoghi dove le speranze si riducono drasticamente. Un tempo però si parlava delle carceri minorili italiane come modelli in Europa. Com’è avvenuta questa inversione, in un Paese che pure aveva fatto passi da gigante? È difficile riassumerlo in poche parole, ma il cambiamento culturale è stato netto, e si è concretizzato soprattutto con l’attuale governo. Dopo episodi tragici come quelli del parco di Caivano, che tutti ricordiamo, si è scelta una reazione punitiva ed emergenziale: il cosiddetto decreto Caivano, promulgato invocando un’emergenza di criminalità minorile che, nei numeri, non esisteva. Nel 2023, proprio l’anno di Caivano, le denunce a carico di minori erano diminuite di oltre il 4 per cento. Non c’era alcuna emergenza. Eppure i minori sono diventati la nuova frontiera del “nemico da combattere”... Il decreto ha allargato l’uso della custodia cautelare, aumentato pene, modificato la messa alla prova, introdotto norme più dure: tutto ciò ha accelerato l’ingresso dei ragazzi nel circuito penale. Ma soprattutto ha generato un cambiamento culturale. Quel sistema era stato costruito sull’idea che dovesse adeguarsi alle esigenze del ragazzo, che non si dovesse rinunciare a nessuno. Oggi il messaggio è opposto: se sbagliano, sono delinquenti come gli adulti e devono essere trattati con la stessa durezza. Si discute anche, spesso con slogan politici, della necessità di abbassare l’età della punibilità, nonostante molti studi che spiegano perché fino a una certa età non si è imputabili. Cosa comporterebbe questo, in un contesto già così fragile? In molti paesi l’età dell’imputabilità arriva persino a sette anni. Abbassarla significherebbe avvicinarci a sistemi in cui la civiltà giuridica arretra, non avanza. Ogni volta che un fatto di cronaca coinvolge minori, torna questo ritornello. Finora il sistema ha sempre resistito, soprattutto grazie ai magistrati minorili, che hanno fatto muro. Ma con l’attuale clima politico orientato all’ordine e alla sicurezza, chissà: potrebbe diventare realtà anche questa scelta che io considero un’ignominia. Voi come associazione visitate spesso le carceri. Com’era la situazione prima, e cosa vedete oggi? Quali difficoltà vi vengono riportate dai ragazzi? Intanto, in passato i numeri erano più bassi e non avevamo mai visto sovraffollamento nelle carceri minorili. Oggi, per la prima volta, troviamo materassi per terra o letti che occupano interamente le stanze. C’era un’attenzione maggiore al singolo ragazzo: direttori e operatori conoscevano tutti per nome, chiedevano dei percorsi, della scuola, della famiglia. Oggi vediamo attività ridotte, volontari lasciati fuori sempre più spesso. Ci dicono: “Oggi non si entra, c’è tensione”. Le attività si chiudono una dopo l’altra. Ragazzi che passano l’intera giornata in cella, con meno ore d’aria del minimo previsto. Ho visto personalmente celle sovraffollate e sporche oltre ogni limite di decenza, ragazzi lasciati a se stessi e spesso imbottiti di psicofarmaci, il modo più facile per tenerli tranquilli. Non ovunque e non in tutti gli Ipm, non voglio generalizzare, ma queste situazioni esistono. E i ragazzi, cosa vi dicono? Cosa chiedono? Cosa potrebbe migliorare la loro condizione? Molti - circa la metà - sono minori stranieri non accompagnati, che hanno vissuto per anni per strada. L’Italia non è stata capace di accoglierli in modo dignitoso. Dopo anni così, è inevitabile che qualcuno finisca in carcere. Molti hanno dipendenze da droghe a basso costo, come Rivotril o Lyrica, psicofarmaci che circolano nelle strade. Non hanno un’idea strutturata di futuro: sono arrivati sperando in una vita migliore che il nostro Paese non ha dato. Non puoi chiedere a un quindicenne un progetto di vita: dovremmo essere noi a costruirglielo. E invece li ripaghiamo così: arrivano in Italia e finiamo per metterli in galera. Molti operatori dicono che il problema è che i ragazzi non vengono ascoltati. Come si può migliorare, in un sistema basato soprattutto su sicurezza e punizione? Servono soldi. Molti soldi. Devono essere spesi per le persone: per le comunità educative, che oggi sono sottofinanziate e non possono accogliere i ragazzi più difficili. Così finiscono per “selezionare” i minori più gestibili, mentre quelli dell’area penale vengono spostati da una regione all’altra, sradicati continuamente. Serve un piano strutturato di misure di comunità, investimenti, impegno serio. Le strade ci sono: bisogna volerle percorrere. E sul piano culturale? Come tornare ad essere un Paese capace di ascoltare il vissuto dei ragazzi? Per ottenere consenso facile, si crea un nemico. Si racconta che la colpa dei nostri mali è dei ragazzi per strada, della microcriminalità, delle baby gang. Così si alimentano rancore e voglia di vendetta. È ovvio che poi non ci sia solidarietà. Se invece dicessimo la verità, cioè che non esiste alcuna emergenza criminalità minorile, e che i nostri problemi dipendono da altri fattori, si potrebbe restituire un altro sentimento alle persone. E ricordare che questi sono ragazzi da aiutare, non da schiacciare. Quando Eduardo quarant’anni fa chiedeva amore, coraggio e fiducia per portare i ragazzi perduti sulla retta via di Franco Insardà Il Dubbio, 1 dicembre 2025 “Onorevole Presidente, onorevole Ministro, onorevoli colleghi… con tutto il da fare che ho avuto non ho trascurato di occuparmi dell’istituto Gaetano Filangieri di Napoli e dei ragazzi che spesso, a causa di carenze sociali, hanno dovuto deviare dalla retta via; e nei prossimi mesi intendo dedicare a loro più tempo di prima. E su questo vorrei soffermarmi. Si tratta di migliaia di giovani e del loro futuro, ed è essenziale che un’Assemblea come il Senato prenda a cuore la riparazione delle carenze dannose, posso dire catastrofiche, che da secoli coinvolgono quasi l’intero territorio dal Sud al Nord dell’Italia. Sono convinto che se si opera con energia, amore e fiducia in questi ragazzi, molto si può ottenere da loro. Ne ho pensate, di cose, nei mesi scorsi, e c’è da fare, si può fare, ne sono certo”. Sono le parole di Eduardo De Filippo, nominato senatore a vita da Sandro Pertini, pronunciate a Palazzo Madama il 23 marzo 1982, che stridono con l’attuale ondata securitaria. Quei ragazzi ristretti nei 17 “Ipm” italiani avrebbero bisogno di sentire voci come quelle di Eduardo, piuttosto che subire violenze. Di Istituti penali per i minorenni, come di carcere, si parla solo quando “fanno notizia” con torture, pestaggi, suicidi. I reclusi, però, vivono quotidianamente una vita fatta di soprusi, celle sovraffollate ed emarginazione. Dietro ogni ragazzino che finisce in un Istituto c’è un disagio derivante da un vuoto culturale, da un sottosviluppo economico, da diritti negati e da politiche sociali inesistenti. “Chi è disposto a dare fiducia e lavoro ad un avanzo di galera?”, si chiedeva ancora Eduardo nel suo discorso in Senato. “Questa non è una domanda che mi sono posto io, che non conoscevo il Filangieri. È una domanda angosciosa che si pongono gli stessi ragazzi dell’istituto, che mi dissero: ‘Non usciamo da qui con il cuore sereno, in pace e pieno di gioia, perché se quando siamo fuori non troviamo lavoro né un minimo di fiducia, per forza dobbiamo finire di nuovo in mezzo alla strada! La solita vita sbandata, gli stessi mezzi illeciti, illegali per mantenere la famiglia: scippi, furti, la rivoltella, la ribellione alla forza pubblica. Insomma siamo sempre punto e daccapo’”. L’impegno di Eduardo per i minori a rischio continuò: venne promulgata una legge regionale, la “Legge Eduardo”, utilizzata per pochissimi progetti tra Nisida e Benevento. Garantì fondi al Filangieri, e nella Napoli di Maurizio Valenzi l’istituto divenne un esempio di socializzazione, nel quale i ragazzi potevano andare a scuola e frequentare laboratori, sperimentando un vero modello di rieducazione. Un’idea a cui ha lavorato da sempre don Gino Rigoldi, storico cappellano del “Beccaria”, fondatore della Comunità Nuova e della Fondazione, che porta il suo nome, con la quale aiuta i giovani in difficoltà a trovare lavoro, e che ospita donne sole con figli. Per don Gino, è “illusorio pensare di risolvere tutto aumentando le pene per i ragazzi difficili”. Parliamo di giovani detenuti negli “Ipm”, gli Istituti penali per i minorenni, nei quali la popolazione straniera ormai è in maggioranza, con molti minori stranieri non accompagnati. Al punto che lo stesso don Gino Rigoldi ci confidò come sia lui che don Claudio Burgio, il sacerdote che lo ha sostituito, da un mese, al Beccaria, sono quasi ‘disoccupati’, mentre ci sarebbe bisogno di un imam. Situazione simile al “Ferrante Aporti” di Torino, raccontata con il documentario “I Cinque Punti”. Il viaggio di una madre verso il primo colloquio con il figlio detenuto all’interno di un Ipm, con il commento in lingua araba. Al Sud, invece, come ha più volte spiegato il Garante della Campania, Samuele Ciambriello, la popolazione minorile detenuta è formata da chi evade l’obbligo scolastico, da altri che vivono un disagio, poi ci sono i bulli e infine quelli che appartengono in qualche modo alla criminalità organizzata e mitizzano i boss. Per tutti il carcere dovrebbe essere l’extrema ratio e non la prima misura da adottare. Sono ragazzi ai quali bisognerebbe “dare la speranza e la fiducia di una vita nuova che restituisca loro quella dignità a cui hanno diritto, e che giustamente reclamano”. Parole di Eduardo, morto quarant’anni fa, che conservano una incredibile attualità. Le cento vite di Daniele tra comunità, galera e nessuna famiglia “Fuori non ho nulla...” Il Dubbio, 1 dicembre 2025 Un estratto del libro “Vite minori. Storie vere di ragazzi dietro le sbarre” di Raffaella Di Rosa (ed. Il Millimetro) Capitolo IX - Il ragazzo che legge Dumas. “Devo essere spontaneo e dirti quello che direi io o devo rispettare i canoni del carcere?”. Daniele fa questa domanda, ma si capisce subito che dirà solo quello che vuole. Ha 19 anni, indossa una tuta rossa e le ciabatte con i calzini, quasi una divisa d’ordinanza dietro le sbarre. Ha i capelli biondi a caschetto che cadono un po’ sugli occhi. Due occhi azzurri di ghiaccio, velati di tristezza, una tristezza che Daniele non ha nessuna intenzione di trasmettere con le parole. Ha vissuto cento vite nei 19 anni della sua. Ha cambiato nove comunità per minori, quattro o cinque famiglie affidatarie, diverse carceri. Ha dormito da amici e per strada e definisce questa la sua forza, la palestra che lo ha reso chi è oggi. Ha letto il Conte di Montecristo. “Me lo ha regalato il Pubblico Ministero, se non lo hai ancora letto fallo subito, è bellissimo”, dice. È evidente che non sta mentendo, anche se Daniele le bugie un po’ ha imparato a dirle, per sopravvivere. Nel carcere minorile di Casal Del Marmo, a Roma, è entrato la prima volta due anni e mezzo fa. Era stato prima a Nisida, cinque mesi libero per poi tornare nel minorile di Roma dove si capisce che gli piace stare. Parlare con lui è come salire su una giostra di emozioni contrastanti, ascoltare la vita che sembra quella di un film in cui piangi dall’inizio alla fine, ma resti inchiodato per sapere come va a finire. Vuoi stare dalla sua parte, anche se certe volte è impossibile. “Sono italiano - dice - nato a Roma. Ho vissuto a Ravenna, Pescara, Salerno, Napoli, poi in Puglia”. I luoghi che cita sono le case famiglia da cui è transitato: “Mia nonna non era in grado di badare a me”. “La mia famiglia? Un vero disastro. Papà non l’ho mai conosciuto, mamma è morta per droga”. Ha il 17 tatuato sul braccio, il giorno in cui sua madre se ne è andata. Anche il nonno era tossicodipendente e la nonna, l’unico suo riferimento al mondo, è rimasta sola. “Sono cresciuto con gli zii, ma mio zio era cattivo, mi sfondava di mazzate, mi legava al tavolo e mi picchiava. Qualche giorno fa è morto e sono contento”. Non esita quando lo dice, sembra sincero. Daniele parla di sé come di un bambino vivace e iperattivo. “Dieci adulti non sono stati capaci di prendersi cura di me”, dice sorridendo con un po’ di amarezza. Parla a scatti, quasi mangiandosi le parole, a volte, guarda spesso in basso; ricordare i luoghi e le persone che lo hanno attraversato non è facile, ma lui cerca di non tradire alcuna emozione. L’immagine che deve dare di sé è la corazza con cui cerca di essere qualcuno anche in questo luogo, il carcere con le sbarre e le regole che nessuno gli ha mai dato. “Ti piacciono le regole?”. “Solo se conosco il loro fine”. Le emozioni sono sempre state un problema per questo ragazzino cresciuto da solo. “Anche quando succedevano cose belle io scleravo, quando le emozioni erano troppo forti non riuscivo a contenermi ed ero violento. Ho anche menato mia nonna”, dice mordendo le parole, forse le più difficili da pronunciare. Racconta di una coppia che lo aveva “scelto”, usa lui questa parola per sottolineare la differenza con le altre famiglie dalle quali era arrivato come un pacco postale. Due nuovi genitori, brave persone, che lo portavano spesso al maneggio e gli piaceva. A volte ci vuole così poco per scoprire le proprie passioni. Daniele aveva scoperto di amare i cavalli, la sua nuova famiglia era a posto, attenta alle sue esigenze, ma è durata poco anche questa. Un giorno una lite in macchina rompe l’incantesimo, Daniele riceve uno schiaffo e non la prende bene. Sarà lui a chiedere a questi nuovi “genitori”, che avevano avuto l’ardire di sceglierlo, di lasciarlo andare: “Mi stavo affezionando ma sapevo che sarebbe finita male”. Del resto, tutte le altre famiglie lo avevano rifiutato, non erano riuscite a capirlo. Perché questa volta avrebbe dovuto funzionare? È tornato così a essere un nomade. Uno che scappa, sempre. Da tutti. “Per sopravvivere nel mondo da solo facevo furti e scippi. Era il mio modo di vivere. A un certo punto però ero stanco, in una delle comunità in cui mi avevano mandato ho provato a fare il bravo. Un giorno ho visto uno dei responsabili picchiare un ragazzo. Mi sono messo in mezzo, stava menando anche me e l’ho accoltellato”. Il confine tra realtà e immaginazione, tra verità e volontà di stupire è sottile in questo giovane cresciuto da solo con una vita così lontana da quella di qualsiasi altro ragazzo della sua età. Daniele finisce in una sperduta comunità di campagna con gli asinelli a Olevano sul Tusciano, in provincia di Salerno. Un luogo lontano da tutte le insidie che lo stavano trascinando sempre più giù, ma da cui non riusciva ad allontanarsi. Scappa un’altra volta, sarà il carcere a fermare la sua fuga. “Sono tre anni che sto qui dentro, fine pena novembre 2026, ma ne ho due di sospensione e due processi a settembre. Qualche giorno fa mi hanno trovato il fumo nel telefono. Mi tengono d’occhio”. Sì, a Casal Del Marmo Daniele è da tenere d’occhio. E non solo qui. Perché quell’aria da ragazzo disincantato, divoratore di libri che molti adulti non hanno mai letto, simpatico e scaltro, nasconde un profilo che chi lavora in carcere conosce bene. Daniele è un leader per gli altri detenuti, uno che sa e vuole farsi rispettare, non sempre con metodi leciti, capace di guidare rivolte che fanno male soprattutto a lui. “Le rivolte? Io cerco di non farmi vedere. Ma non ho mai bruciato una cella perché è denigrante per un detenuto. In cella ci devi stare tu, se spacchi le finestre muori di freddo, se rompi il riscaldamento anche. Se bruci la camera poi ti spostano e siamo già troppi. Allora mena le guardie, tanto sempre una denuncia ti prendi”. Molti di questi ragazzi hanno paura di uscire, se non è paura è una forte repulsione per il mondo fuori che non li ha mai accolti, fatti sentire a casa. “Uno può dire: “Non vedo l’ora di andare fuori” ma io no. Non lo dico. Perché fuori non ho niente”. È il paradosso e la realtà di certi ragazzi che trovano dietro le sbarre un modo di stare al mondo migliore di quello che hanno conosciuto da liberi. Daniele fuori ha solo la nonna, 70 anni, una donna piccola e sciancata con dei forti dolori a una gamba che le rendono difficile camminare. Anche venirlo a trovare è complicato. La vita di questa nonna è stata complicata. Ha perso tre figli tra droga e malattie. “Nessuno le ha mai dato una gioia - sorride Daniele - pensa che mi dice: tu sei il meglio che ho. E io sto in galera”. “Come vedi il tuo futuro?”. “Non lo so, me lo chiede sempre anche la psicologa, ma non so rispondere. A me piace scrivere canzoni. Io scrivo e canto. Non mi fa schifo il lavoro perché io voglio essere libero economicamente, ma non voglio fare il muratore. Vorrei fare qualcosa di grande e per farla devi avere un’idea e crederci. Pensa a Jeff Bezos, è stato furbo, ha avuto un’idea e adesso è l’uomo più ricco del mondo, ma cosa ha più di me?”. La risposta a questa domanda la lascia lì, appesa. Dice di avere anche lui un paio di idee che deve ancora organizzare meglio. Daniele conosce gli equilibri del carcere e di chi lo abita. Con una certa sicurezza di sé traccia il quadro delle vite dietro le sbarre: ci sono gli abusati “e quelli li difendo sempre”. Ci sono i malavitosi che fanno il casino vero, “ma quelli alla fine escono”. E poi ci sono gli stranieri, “che non hanno nulla da perdere, vogliono stare qui, a volte rientrano apposta”. È strano vedere come un giovane diciannovenne possa raccontare la cultura del carcere come un adulto. Racconta che, quando stava a Nisida, facevano le pizze. “Ne fai settanta la mattina, impari davvero, non come qui”. A Napoli ci sono le regole, i codici e fai la galera meglio. I ragazzi napoletani non si ammazzano tra di loro dentro, ma si ammazzano fuori. Ci sono regole che tutti rispettano per il bene comune. Perché l’obiettivo di tutti è uscire. E poi ci sono i codici: a Nisida, per esempio, quando uno fa una chiamata nessuno parla. Racconta anche una cosa che lascia tutti un po’ interdetti. “Il giorno dei colloqui nessuno si masturba”, dice. “Perché?”. “Perché potresti farlo pensando al familiare di un detenuto, non esiste proprio. Si chiamano regole”. Passa da un discorso all’altro, da una suggestione a una illuminazione. All’improvviso torna sul suo futuro, mette a fuoco una di quelle idee da strutturare meglio: “Voglio fare l’educatore”. È confuso, però, perché dice che il suo obiettivo è la libertà economica. “Io devo fare i soldi perché la società in cui viviamo è materialista. E voglio anche un figlio”. Nonostante non abbia idea di cosa sia una famiglia, Daniele non mette in conto nemmeno per un istante di non averne una. La rabbia lo tiene sempre acceso. “Sai cosa penso? Mia nonna aveva problemi economici: prendeva 300 euro al mese. Lo Stato ha pagato le comunità in cui mi hanno mandato fino a 900 euro al mese e se quel denaro lo avesse dato a mia nonna per crescere me magari stavo meglio”. L’idea è contorta ma si capisce dove vuole andare a parare. C’era bisogno di un po’ di famiglia nella vita di un ragazzo a cui hanno cercato di darne cento per poi lasciarlo solo al mondo. La violenza per Daniele è uno strumento, lo spiega lui stesso. “Da piccolo ero violento e basta, ora la uso se mi serve. Per esempio in galera”. Quello che succede la stessa sera di questa conversazione è l’esempio concreto di ciò che voleva dire. Daniele scopre dagli agenti che il giorno dopo dovrà essere trasferito a Catanzaro per esigenze “organizzative”. La verità è che hanno capito che per la sopravvivenza degli equilibri è meglio spostare questo ragazzo con una personalità così forte e in grado di condizionare gli altri. Funziona così il trasferimento, te lo dicono solo poche ore prima, quando tutto è già deciso, per evitare casino. Ma Daniele a Catanzaro non ci vuole andare e organizza una protesta violenta, schiera gli altri detenuti in blocco, si presenta con un pezzo di ferro nella stanza del direttore minacciando di usarlo se non bloccheranno il suo trasferimento. Quella sera ottiene il risultato sperato, la scorta venuta da Catanzaro per portarlo via torna indietro senza di lui. Il trasferimento viene bloccato per motivi di ordine pubblico. E alla sua fedina penale si aggiunge un altro reato. Passa un po’ di tempo e si decide che Daniele, ormai maggiorenne, non andrà in un altro minorile. Oggi è in un carcere per adulti. “Agg perz ‘o cunto r’e città cagnate/E a casa nun tengo né mamma né pate./Aggia ricere ‘a verità ‘nteng manco ‘a casa/ nun l’aggio scigliuto ma l’aggio truvato “. Sono alcuni versi della canzone che Daniele aveva scritto quando stava al minorile di Nisida, a Napoli. Dove si impara a fare le pizza davvero e il profumo del forno si confonde con quello della salsedine. Torino. Il presidente del Tribunale di Sorveglianza: “Valutiamo le persone, non i reati” di Antonella Frontani Corriere di Torino, 1 dicembre 2025 Marco Viglino è il presidente del Tribunale di Sorveglianza, istituzione preposta alla vigilanza sull’esecuzione della pena che ha competenza su questioni come la concessione o la revoca delle misure alternative alla detenzione (affidamento in prova, detenzione domiciliare, semilibertà), l’applicazione di misure di sicurezza, la riabilitazione e la gestione dei reclami dei detenuti. Un ruolo che presuppone un’attenta applicazione della norma e un’implicazione umana, tenuto conto che ha facoltà di ridurre o concedere uno dei principali diritti umani: la libertà. Quale peso emotivo comporta il suo lavoro? “Un grande peso, soprattutto pensando che i provvedimenti del Tribunale di Sorveglianza, a differenza di altri provvedimenti giudiziari, sono immediatamente esecutivi, seppur impugnabili in Cassazione”. In quale momento interviene il vostro giudizio? “Dopo che la sentenza è diventata definitiva, oltre tutti i gradi di giudizio o riti abbreviati. La sentenza penale rappresenta il punto di partenza del nostro lavoro dal quale dobbiamo partire per valutare se il periodo di detenzione debba essere mantenuto o, invece, trasformato in misure alternative”. Quali sono le misure alternative? “La semi-libertà, la detenzione domiciliare, l’affidamento in prova, ordinario o terapeutico, fino al differimento della pena”. Su cosa si basa la vostra valutazione? “Sulla personalità dell’individuo. Non siamo chiamati a valutare il fatto in sé, ormai accertato, ma valutiamo la personalità per capire se sia in grado di gestire la pena con modalità più favorevoli o più restrittive considerando la pericolosità residuale del soggetto. Un antico presidente sosteneva che la pena deve “calzare come un guanto”“. Quali sono gli altri aspetti che dovete valutare? “L’istruttoria è molto complessa e comprende tutte le informazioni disponibili, in particolare le indagini della polizia e le relazioni dei sevizi sociali. Inoltre, bisogna tener presente se il soggetto, nel frattempo, è incorso in nuove vicende criminose, oppure, per esempio, se è tossicodipendente e, nel caso, se segue un programma terapeutico. Può incidere molto anche il contesto familiare”. Ha mai paura di prendere decisioni sbagliate? “Sempre, c’è sempre il rischio di poter commettere un errore. È una paura sana che deve accompagnare il mio lavoro insieme ad un’attenta osservanza della legge e delle circostanze concrete. Ma i fatti dimostrano che nel 99% dei casi le decisioni prese sono risultate corrette”. Qual è il metro per valutare l’esattezza delle scelte fatte? “La scelta si può considerare corretta quando il soggetto non compie nuove violazioni nell’arco di tempo relativo alla pena alternativa che gli è stata concessa”. Un esempio di scelta sbagliata? “Il tragico caso di Angelo Izzo, uno dei tre autori, insieme a Gianni Guido e Andrea Ghira, del cosiddetto “Massacro del Circeo”. Dopo la detenzione, le “collaborazioni” e i tentativi di evasione, ottenne, dai giudici di Palermo, la semi-libertà dal carcere di Campobasso. Purtroppo, divenne artefice del massacro di Ferrazzano in cui morirono Maria Carmela Linciano e Valentina Maiorano”. Chi sono i soggetti “sospesi”? “Sono le persone che hanno ricevuto una condanna inferiore a 4 anni. Per legge, non vanno in galera, a meno che il Tribunale di sorveglianza non disponga il contrario dopo aver valutato la personalità del condannato e tutte le circostanze che lo riguardano”. Una grande responsabilità… “Enorme. Non ci si abitua a valutare la libertà di un uomo, ma è un grande errore. È meglio che subentri l’esperienza, in luogo dell’abitudine. Senza adagiarsi mai”. Esistono anche le pene pecuniarie... “Di solito accompagnano alcuni tipi di reato come quelli per droga o i procedimenti fallimentari”. In che modo intervenite? “Possiamo modificarle o, addirittura, eliminarle quando si verificano condizioni particolari come l’impossidenza, oppure, qualora il soggetto abbia tenuto un comportamento encomiabile durante la misura alternativa”. In quali casi non è possibile risarcire la vittima? “Per esempio, quando si chiude un procedimento fallimentare come quello di Parmalat, in cui non è possibile risalire alla totalità delle persone colpite; in caso di violenza ad una donna straniera irrintracciabile; in ipotesi di sofisticazione di bevande o alimenti; il grande spaccio”. Dove finiscono questi soldi? “Per quanto possibile, in iniziative a favore della collettività, come quella in collaborazione con la Fondazione Ricerca Molinette per la ristrutturazione del reparto di Chirurgia Generale 1 universitaria diretta dal professor Mario Morino. Da qui il detto “ex malo bonum”“. Qual è stato il periodo più difficile? “Quando ho svolto il ruolo di giudice penale. Quel compito mi procurava molto turbamento: dovevo comminare gli anni di reclusione, ossia, stabilire la pena da espiare. Oggi sono chiamato a valutare le misure alternative a una pena già disposta da altri con sentenza definitiva”. Ci si abitua a valutare la libertà di un uomo? “Ci si abitua, ma è un grande errore. Ogni caso implica peculiarità, circostanze e personalità diverse. È meglio che subentri l’esperienza, in luogo dell’abitudine. Senza adagiarsi mai”. Stabiliamo i limiti della sua responsabilità... “Nel mio lavoro non mi sento responsabile solo nei confronti del condannato ma anche, e soprattutto, della vittima e della collettività”. È più facile restringere o allargare una pena? “È ugualmente complicato”. Viene mai colto da una crisi di coscienza? “Più probabile che venga colto dal dubbio”. Il suo lavoro può comportare il rischio di “delirio di personalità”? “Ahimè, talvolta sì, ma non dovrebbe accadere mai”. È favorevole all’indulgenza sul punto di morte? “Sì. Venni attaccato per aver dichiarato che avrei concesso la sospensione della pena a Totò Riina nei suoi due mesi di vita”. Un ricordo indelebile? “Due. Un ragazzo mi ringraziò per averlo messo in carcere, esperienza traumatica che permise di uscire dal tunnel della droga e del malaffare. Poi, una signora che, conscia del divieto di fare doni ai magistrati, mi regalò una confezione di tre cioccolatini dicendomi “Sappia per che me, il suo, sarà sempre il volto della giustizia”. Roma. Ha solo 14 anni: torturato e picchiato dagli altri detenuti nel carcere minorile Il Fatto Quotidiano, 1 dicembre 2025 Il padre: “Non lasciatelo morire”. Il ragazzino è in carcere minorile con l’accusa di abusi sessuali ai danni di una giovane di Sulmona. L’avvocato ha chiesto già da 20 giorni e già per tre volte il trasferimento del suo cliente. “Non lasciatelo morire dietro quelle sbarre”. A parlare è il padre del 14enne arrestato un mese fa con l’accusa di aver ricattato per mesi e violentato una ragazzina di Sulmona appena 12enne. Con lui erano stati arrestati il cugino 18enne del ragazzo e un 17enne. L’appello del padre è scattato dopo una visita al figlio nel carcere minorile di Casal del Marmo (Roma). Il 14enne, presente all’incontro visibilmente sfigurato, avrebbe raccontato al padre le sevizie e i dispetti quotidianamente subiti dagli altri detenuti. Segnalate anche minacce di morte e richieste di droga da parte dei detenuti al giovane, che si ipotizza possa essere stato preso di mira per la gravità del reato contestato. “Ho paura che esca lì morto - ha riferito l’uomo in questura - Aveva profonde ferite in volto, sul torace e sulle braccia. Mi ha raccontato di essere stato immobilizzato da due detenuti più grandi di lui e picchiato, torturato con una spatola di ferro. Almeno quattro volte mi ha raccontato di essere stato picchiato e derubato delle scarpe e del cibo che gli ho portato in carcere, ma l’altro giorno lo hanno sfigurato”. Ora il padre del giovane ha deciso di denunciare i fatti, ma anche chi aveva il compito di vigilare sul figlio “Vi prego, fate qualcosa per lui, ha solo 14 anni. Se ha sbagliato pagherà, quello che sta subendo a Casal del Marmo non serve a raddrizzarlo, semmai a farne un delinquente quando ne uscirà. Seguirà un percorso riabilitativo con gli psicologi, ma non lasciatelo morire dietro quelle sbarre. In questa storia lui è rimasto coinvolto suo malgrado, si è lasciato trascinare da quei ragazzi più grandi che per lui erano gli unici punti di riferimento. Siamo stranieri e viviamo in un piccolo paesino: non è facile per un bambino di sette anni, tanto aveva quando ci siamo trasferiti qui, farsi delle amicizie” A parlare è anche l’avvocato della famiglia Alessandro Margiotta, che chiarisce di aver chiesto già da 20 giorni e già per tre volte il trasferimento del suo cliente. Il legale definisce l’accanimento verso il ragazzino “tortura di stampo medievale” e conclude dicendo: “Ha solo 14 anni e la tipologia di reato per il quale è rinchiuso, lo rende un facile bersaglio per gli altri detenuti. Sembra esser stato torturato con una spazzola di ferro e lamette. Credo lo facciano per gioco, probabilmente per il tipo di reato, ma anche probabilmente perché racconta di queste violenze e loro lo puniscono sempre di più. Ma il mio assistito è stato anche minacciato: agli altri detenuti gli hanno detto di riferire al padre di portare droga da fumare, altrimenti lo ammazzeranno. Il ragazzino si trova in cella con il 17enne, l’altro minore coinvolto nello stesso caso, altrettanto sconvolto perché hanno picchiato anche lui ma non ha nessuno che lo va a trovare, non ha i genitori qui. Bisognerà che la procura di Roma si attivi per verificare le condizioni di tutti i ragazzi lì dentro”. Roma. Social in “festa” per le torture al 14enne detenuto all’Ipm, il padre annuncia querele di Andrea D’Aurelio Il Centro, 1 dicembre 2025 Il ragazzo, in carcere a Roma, è oggetto di post d’odio. Chiesto il suo trasferimento. La Garante Scalera: “La reclusione non può diventare disumanità”. “Adesso ha incontrato i più forti, finalmente qualcuno che gli insegna il rispetto e soprattutto che cos’è un bullo. Non ti vergogni a difenderlo?”. È uno dei numerosi commenti apparsi sui social all’indomani della denuncia presentata dal padre del 14enne accusato di violenza sessuale nei confronti di una dodicenne, torturato e derubato nel carcere minorile di Roma. Il genitore, dopo aver letto la valanga di commenti dal tenore offensivo e diffamatorio, ha chiamato la polizia per denunciare anche gli haters che, a suo dire, sarebbero andati ben oltre il confine della libera manifestazione del pensiero. “Troppo poco quello che gli hanno fatto”, si legge altrove, mentre c’è chi si dichiara “contento perché così ora (il minore, ndc) capisce come vanno le cose nella vita”. “Che pensava di trovare un hotel a cinque stelle? Ci doveva pensare prima invece di stuprare la ragazzina”, ha aggiunto una donna. Il padre del ragazzo ha deciso quindi di integrare la denuncia per sottoporre tali commenti all’attenzione dell’autorità giudiziaria. Un dramma nel dramma per il genitore del 14enne che, lo scorso 28 novembre, dopo aver avuto un colloquio con il figlio, si è accorto dei segni che aveva in volto, sulle braccia e sul petto, frutto di ben quattro pestaggi con arnesi in ferro e lamette. Inoltre, il minore sarebbe stato derubato e lasciato per giorni senza viveri né vestiti. Per questo il genitore, assistito dall’avvocato del foro di Sulmona Alessandro Margiotta, ha deciso di denunciare tutto al commissariato di Sulmona per chiedere di individuare i responsabili tra i detenuti del carcere minore e quanti avrebbero permesso le torture. I reati ipotizzati sono quelli di lesioni aggravate, minacce, omissioni d’atti d’ufficio e tortura. La Procura della Repubblica di Sulmona ha aperto un fascicolo sulla vicenda e nelle prossime ore potrebbe decidere di trasmettere gli atti ai magistrati capitolini per competenza territoriale. Sulla vicenda è intervenuta Monia Scalera, garante regionale dei detenuti, che chiede l’immediato trasferimento del 14enne in altro istituto. “Una vicenda gravissima, che non può lasciarci indifferenti indipendentemente dal reato contestato, che rimane oggetto dell’autorità giudiziaria”, afferma Scalera. “Ogni minore ristretto ha diritto alla tutela della propria integrità fisica e psicologica. Le pene non possono mai trasformarsi in trattamenti inumani o degradanti. Mai. Le circostanze descritte dovranno essere accuratamente verificate dalle autorità competenti, perché lo Stato ha il dovere non solo di giudicare, ma anche di proteggere. Il sistema non può e non deve tollerare violenze all’interno delle proprie strutture, perché perderebbe credibilità, in quanto tradirebbe la sua funzione educativa. Ancor di più quando parliamo di giustizia minorile”. Da qui la richiesta. “In questo quadro, auspico l’immediato trasferimento del minore all’Aquila, in attuazione del principio di territorialità che tutela il diritto dei ragazzi ristretti a restare quanto più possibile vicini alle loro famiglie e ai propri affetti”. Il 14enne era finito dietro le sbarre lo scorso 24 ottobre, assieme a un 17enne e un 18enne, tutti accusati di aver abusato e filmato una minore. Video poi finiti sulle chat degli amici, tanto che sarebbero almeno in 40 a rischiare di finire sotto inchiesta per il reato di revenge porn. Palermo. Pagliarelli e Ucciardone non trovano “locali idonei”, niente incontri intimi per i detenuti di Antonio Giordano La Sicilia, 1 dicembre 2025 I due Istituti di pena cittadini hanno avviato le procedure per le camere dell’affetto, ma sovraffollamento e vincoli strutturali ne impediscono al momento l’istituzione. Non c’è spazio nelle carceri palermitane per i colloqui intimi per i detenuti, almeno per il momento. A comunicarlo sono i direttori dell’Ucciardone e di Pagliarelli in due note ufficiali di risposta al garante per i diritti dei detenuti di Palermo Pino Apprendi, che aveva chiesto chiarimenti sulla creazione di stanze in cui le persone in carcere potessero incontrare i propri partner senza sorveglianza a vista da parte della polizia penitenziaria. I due istituti di pena precisano di avere già attivato le procedure per trovare le stanze idonee. La ricerca di spazi per l’affettività è iniziata in tutti gli istituti di pena italiani dopo che una sentenza della Corte costituzionale del 2024 ha dichiarato illegittimo l’articolo dell’ordinamento penitenziario che vieta i colloqui intimi con i partner. Un anno dopo, nell’aprile del 2025, una circolare del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha stabilito le regole per i detenuti che vogliono avere questi incontri, prescrivendo tra le altre cose l’istituzione di apposite camere riservate. Proprio dalle camere riservate però passa la linea che separa la burocrazia da una realtà in cui le strutture carcerarie italiane sono in condizioni croniche di sovraffollamento e in cui è spesso impossibile trovare spazio persino per fare dormire i detenuti. In questa situazione è difficile trovare dei locali per l’affettività, e i due istituti palermitani soffrono proprio di questo problema di spazi. Scrive il direttore del carcere Ucciardone nella sua mail al garante per i detenuti Apprendi: “Sull’istituzione delle camere dell’affetto, si comunica di avere avviato la procedura per l’individuazione, laddove possibile, dati i vincoli strutturali di questo istituto, di locali idonei”. Per il momento c’è l’impegno a trovare le stanze, dunque, ma reso difficile anche dai vincoli della vecchia fortezza borbonica. Anche Pagliarelli ha avviato le ricerche delle stanze e sta già valutando le domande di colloqui intimi da parte dei carcerati: “Al momento - scrive la direttrice - l’istituto non presenta locali idonei allo svolgimento dei colloqui riservati. Da parte di questa direzione è stato tuttavia formulata ai superiori uffici una proposta di adeguamento delle aree all’uopo individuate ancora in corso di valutazione. Le istanze dei ristretti volte ad ottenere la possibilità di incontro riservato con le rispettive compagne e mogli, nelle more pervenute, sono in corso di istruzione secondo quanto previsto dalle linee guide ministerialmente impartite”. Torino. Manifestazioni per l’imam Shahin: “Detenuto per una frase, rischia deportazione e torture” di Andrea Bucci La Stampa, 1 dicembre 2025 Presidio davanti al Cpr in corso Brunelleschi per chiedere la liberazione dell’imam di via Saluzzo e contestare i Centri di permanenza per i rimpatri. Due manifestazioni si sono svolte per esprimere solidarietà e chiedere la liberazione di Shanin, l’imam trattenuto da giorni al Cpr di Caltanissetta. La prima, più rumorosa, ha visto un centinaio di esponenti della galassia antagonista - tra cui “Torino per Gaza”, “Progetto Palestina” e “Corso Gabrio” - manifestare davanti al Cpr di corso Brunelleschi. Qui i partecipanti hanno urlato la loro solidarietà a Shanin e a tutte le persone trattenute nei centri di permanenza in tutta Italia. In serata si è svolta la seconda manifestazione, decisamente più silenziosa, organizzata dal quartiere San Salvario insieme alle associazioni attive sul territorio, alla Casa del Quartiere e alle comunità musulmana e valdese di Torino. Sull’aiuola Natalia Ginzburg è comparsa la scritta “Shanin libero”, composta con bicchieri di carta contenenti lumini. Elisabetta Riber, teologa in servizio presso la chiesa valdese, ha spiegato: “Vent’anni di dialogo non si possono cancellare così. Siamo molto tristi. L’imam fa parte del quartiere e lavora per abbattere le barriere; è strano non vederlo più per un provvedimento amministrativo discutibile. Se c’è una persona di pace, è sicuramente lui”. Solidarietà è arrivata anche da docenti, ricercatori e ricercatrici delle università italiane: in 181 hanno aderito all’appello. “Esprimiamo profonda preoccupazione per la situazione di Mohamed Shahin, imam della moschea Omar Ibn al-Khattab di Torino”, si legge nel testo. L’appello prosegue: “La prospettiva di un suo ritorno forzato in Egitto lo esporrebbe concretamente a rischi di persecuzione, detenzione arbitraria e trattamenti inumani. Le motivazioni alla base della revoca del permesso di soggiorno sembrano collegate alle sue dichiarazioni pubbliche sulla situazione a Gaza e alle sue posizioni critiche rispetto all’operato del governo israeliano. Se così fosse, ci troveremmo di fronte a un precedente estremamente preoccupante: l’uso di strumenti amministrativi per colpire l’esercizio della libertà di opinione”. Alessandria. “Idee in Fuga” ospite a “Che tempo che fa”: l’esperienza che cambia la vita ilpiccolo.net, 1 dicembre 2025 Carmine Falanga (con Andrea Ferrari e Monica Ripamonti) ha raccontato i progetti che formano e avvicinano al lavoro le persone recluse nel nostro istituto penitenziario. Sorpresa questa sera nella trasmissione “Che tempo che fa” sul canale Nove. Tra gli ospiti di Fabio Fazio e Luciana Littizzetto, infatti, anche Carmine Falanga, anima e fondatore della cooperativa sociale Idee in Fuga di Alessandria. Già insignito dell’onorificenza di Cavaliere Ordine al Merito della Repubblica dal presidente Sergio Mattarella, Falanga ha ripercorso in diretta il cammino di una realtà che ha saputo innovare il mondo dell’economia carceraria. Idee in Fuga nasce nel 2020 con l’obiettivo di creare formazione e lavoro all’interno delle carceri alessandrine: la Casa di Reclusione San Michele e la Casa Circondariale Cantiello e Gaeta. Un progetto nato per dare risposta alla necessità di costruire opportunità professionali dentro e fuori dal carcere. Promuovendo così un modello capace di favorire il reinserimento sociale e di tradurre concretamente la funzione rieducativa della pena, come sancito dall’Articolo 27 della Costituzione. Il lavoro, spiegano dalla cooperativa, è il motore del cambiamento: offre dignità, responsabilità e una prospettiva nuova a chi vive la detenzione. Contribuendo a ridurre la recidiva e quindi il costo sociale che ricade sull’intera comunità. Progetti che uniscono città, territorio e carcere - Dalla prima Bottega Solidale sulle mura di un carcere italiano alle iniziative pubbliche in piazza, l’attività di Idee in Fuga ha dialogato fin da subito con la città di Alessandria. Una scelta strategica, pensata per creare relazioni, abbattere barriere culturali e avvicinare la cittadinanza a un’idea di giustizia fondata su inclusione e responsabilità. Tra i percorsi più significativi spiccano il luppoleto e Ora d’arnia, attivo nella Casa di Reclusione di San Michele. Un progetto del polo agricolo sociale che ha formato tre detenuti nella gestione di 20 arnie e nella produzione di miele di acacia, lavanda e millefiori. Formazione, mestiere e reinserimento - L’attività legata alle arnie ha un duplice obiettivo. Far conoscere un insetto fondamentale per l’equilibrio del pianeta e offrire ai detenuti una professione spendibile una volta scontata la pena. L’apicoltura, settore in crescita, rappresenta infatti un’opportunità reale per riacquistare autonomia e costruire un futuro stabile. Un altro pilastro della cooperativa è il laboratorio Fuga di Sapori Bakery, nato all’interno della Casa di Reclusione San Michele. Qui i detenuti vengono formati professionalmente nel campo della pasticceria artigianale, acquisendo competenze immediatamente utilizzabili nel mercato del lavoro. Il laboratorio è collegato direttamente al bistrot Fuga di Sapori, aperto sulle mura della Casa Circondariale. Un autentico ponte concreto tra “dentro” e “fuori”. Gli obiettivi del progetto sono chiari: creare posti di lavoro, offrire formazione qualificata a persone in articolo 21 o messe alla prova e garantire un’attività produttiva capace di autosostenersi nel tempo, in linea con gli Sdg 8 dell’Agenda Onu sul lavoro dignitoso. Il bistrot che porta “il Buono che viene da Dentro” - Il percorso trova il suo compimento con Fuga di Sapori Bistrò, punto di ristoro aperto all’interno della Casa Circondariale di Alessandria. Qui una brigata formata da detenuti, guidata dallo chef Luca Gatti, prepara piatti della tradizione italiana con un tocco di innovazione. Il bistrot rappresenta l’ultima tappa di un cammino che unisce formazione, responsabilità e professionalità. Creando una filiera carceraria virtuosa capace di offrire opportunità lavorative concrete a detenuti in uscita, in articolo 21 o inseriti in percorsi alternativi alla detenzione. E i prodotti sono stati messi in vetrina anche sul canale Nove, insieme a Fabio Fazio e Luciana Littizzetto. Roma. Il collasso delle carceri italiane: domani la presentazione del libro di Alemanno e Falbo di Giorgio Brescia L’Identità, 1 dicembre 2025 Martedì a Roma la presentazione di “L’emergenza negata - Il collasso delle carceri italiane”, un libro di Gianni Alemanno e Fabio Falbo. Promuove l’appuntamento l’associazione Nessuno Tocchi Caino, interverrà il presidente del Senato, Ignazio La Russa. I due autori sono attualmente detenuti nel carcere di Rebibbia: provenienti da esperienze e storie personali diverse, uniti nella comune battaglia contro il pregiudizio e l’indifferenza che avvolgono il sistema carcerario italiano. Oltre a La Russa, interverranno la vicepresidente del Senato, Anna Rossomando, gli onorevoli Roberto Giachetti, Simonetta Matone, Renata Polverini, i senatori Filippo Sensi e Luigi Manconi, il vicepresidente del Csm Fabio Pinelli, gli avvocati Francesco Petrelli (presidente Ucpi), Beppe Belcastro (presidente Camera Penale di Roma) e Gian Paolo Catanzariti (responsabile Osservatorio Carceri Ucpi), le professoresse Marina Formica e Serena Cataldo dell’Università di Tor Vergata. La denuncia - Nel libro, una denuncia lucida e profonda sulle condizioni di degrado e sulla drammatica quotidianità delle persone detenute, evidenziando l’emergenza del sovraffollamento. Non solo l’evidenza di criticità e pregiudizi ma un messaggio di speranza e la richiesta di interventi tempestivi e di una riforma radicale. Gianni Alemanno scrive: “Le condizioni di vita nelle carceri italiane sono inimmaginabili in qualunque altro contesto della società. Il principale motore di questo degrado, il sovraffollamento che ha raggiunto il 137% e livella verso il basso ogni percorso di reinserimento per chi sta scontando una pena”. E aggiunge: “La politica italiana preferisce non vedere l’emergenza che si aggrava nei nostri istituti penitenziari, ignorando il divario devastante tra i principi costituzionali e la realtà concreta vissuta dalla popolazione detenuta”. Fabio Falbo sottolinea: “Sovraffollamento, suicidi, tossicodipendenze: le carceri italiane sono al collasso. Una crisi sistemica, dove la funzione rieducativa della pena viene tradita ogni giorno. Punire o rieducare? L’articolo 27 della Costituzione è smentito dalla realtà”. E ancora: “Non possiamo accettare che chi ha più di settant’anni muoia dietro le sbarre, che genitorialità e affettività siano diritti negati, che la vita quotidiana sia un tempo sospeso, senza speranza”. Conclude: “Quando la pena si trasforma in vendetta, lo Stato perde la sua anima”. Per Rita Bernardini, “un prezioso strumento di riflessione, sia dal punto di vista storico-politico sia per le prospettive concrete di riforma del sistema”. Parma. Una parrocchia incontra il mondo del carcere di Elvis Ronzoni e Raffaele Crispo gazzettadellemilia.it, 1 dicembre 2025 “Quando ti abbiamo visto in carcere e siamo venuti a visitarti?”, sono queste le parole della locandina che nei giorni scorsi annunciava l’incontro tra la Dottoressa Veronica Valenti, Garante comunale per le persone private della libertà, e la comunità parrocchiale di San Lazzaro. L’incontro intitolato, le carceri: specchio della nostra civiltà o delle nostre paure? prendeva spunto dal versetto 25 di Matteo che per l’appunto dice: “Signore, quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. Dinanzi a un bel gruppo di persone riunite nel salone dell’oratorio la Valenti ha raccontato in breve tutta la sua esperienza maturata in tre anni da quando ha ricevuto l’importante incarico di garante; il suo intervento è stato preceduto dalle parole del parroco don Luciano Genovesi che ha fatto presente che tale iniziativa era inserita a pieno titolo tra le attività parrocchiali. A fargli eco Luigi Delendati, anima della parrocchia di San Lazzaro il quale ha detto che si parla di carceri solo quando ci sono rivolte o suicidi e ha sottolineato il fatto che la pena non può essere lesiva della dignità umana ma deve tendere principalmente alla riabilitazione. La Valenti ha ricordato che negli anni è cambiata l’idea iniziale che aveva del carcere e ha fatto un breve excursus dei provvedimenti presi dagli anni 90 ai giorni nostri. Ci sono stati due indulti da parte di due governi di colori diversi ed ora siamo ritornati ad avere un sovraffollamento pari al 136%. Non a caso Papa Francesco ha iniziato il giubileo aprendo una porta santa proprio nel carcere di Rebibbia e, seppure siano tante le forze politiche e culturali che chiedono l’indulto, ancora non si è raggiunto un accordo. Tante le cose dette e raccontate dalla chiarissima professoressa di Diritto Costituzionale come il fatto che l’Ufficio del Garante Nazionale è stato istituito nel 2013 e da allora sono stati nominati oltre 100 garanti cittadini e molti garanti regionali. A suo dire il privilegio di un garante è quello di potere entrare in carcere ogni volta che si vuole, senza avvertire per fare colloqui, visionare lo stato delle cose e raccogliere reclami. Triste e amara la pagina dei suicidi che solo nel 2024 ha visto oltre 70 detenuti togliersi la vita nonché sei agenti della Polizia Penitenziaria. Pertanto, l’impegno diventa una sfida a portare quanto prima un po’ di conforto a chi vive il mondo carcerario. Nell’ultimo anno sono aumentati anche i bambini che in carcere sono con le mamme, nonché i disagi per molti detenuti che sono affetti da malattie fisiche e psicologiche. C’è anche una forte carenza di educatori, solo 1000 in tutta Italia, ma anche di agenti, solo 18.000 addetti alla sicurezza e al controllo. C’è qualcosa che non va, che non funziona nell’idea di carcere che la società civile ed il mondo politico ha. Le risorse destinate alle esigenze dei penitenziari sono sempre meno e nessun candidato, in occasione delle elezioni, affronta l’argomento perché fortemente impopolare e divisivo. La Valenti ha proseguito parlando in modo specifico del carcere di via Burla, delle sue sezioni dal 41 Bis alla Media Sicurezza passando per l’Alta Sicurezza 3. Per chi non lo sapesse il carcere di Parma avendo un Sistema di Assistenza Sanitaria (SAI) riceve molti detenuti che hanno bisogno di cure, ma i posti di questa speciale sezione sono solo 16. La Valenti ha parlato di situazioni gravi, disumane difficili da gestire anche a causa del sovraffollamento. Se da un lato la popolazione carceraria invecchia è pur vero che sono anche tanti i giovani che commettendo reati attraversano la soglia delle carceri italiane. La Valenti ha ricordato i tre suicidi che ci sono stati nel 2024 presso il nostro carcere cittadino, tre sconfitte nella sfida continua all’umanizzazione del nostro istituto penitenziario. A suo dire occorre uno sguardo collettivo diverso su tale questione perché ci sono troppi pregiudizi e troppi stereotipi che bloccano una soluzione seria e rispettosa dei vari problemi. A dire della garante ora, non solo i volontari, ma anche i Magistrati di Sorveglianza e i Sindacati della Polizia Penitenziaria chiedono che ci sia una misura deflattiva della pena, che sia un indulto o altro, l’importante è migliorare le condizioni di vita dei detenuti italiani. Al termine dell’intervento della Valenti ci sono state le parole di don Augusto Fontana, prete operaio, da sempre vicino ai detenuti, il quale ha scosso le coscienze di tutti i presenti sul problema della prevenzione del crimine, perché sono sempre più i giovani che commettono reati in questa società che sembra essere distratta e indifferente. Anche la volontaria Anna Vergano ha raccontato una pillola della sua esperienza dicendo che ha imparato da un detenuto a respirare l’umanità dentro l’infinito. Al termine c’è stato un appello affinché tra i presenti qualcuno desse la propria disponibilità nella gestione di un appartamento che l’Associazione Per Ricominciare mette a disposizione dei detenuti in semi libertà o permesso premio che vogliono incontrare i loro famigliari. La speranza è che le carceri diventino uno specchio positivo della nostra civiltà e non della indifferenza che continua a regnare. Napoli. Emozioni oltre le sbarre con “I figli degli altri”: matrioske contro la rabbia di Valentina Santarpia Corriere della Sera, 1 dicembre 2025 Nel carcere minorile di Nisida un’iniziativa sperimentale realizzata dalla Fondazione “I figli degli altri”. Così viene data un’alternativa ai ragazzi dopo la pena. Le emozioni sono come matrioske, dove ogni pezzo va svelato dopo l’altro, con cautela: e non a caso proprio la celebre bambola russa è uno degli strumenti utilizzati nel primo progetto terapeutico per gestire la rabbia e l’aggressività, realizzato dalla Fondazione I figli degli altri nell’istituto penale minorile di Nisida in via sperimentale, e che ora sarà replicato in 5 Paesi europei. Come spiega la presidente della Fondazione, la psicologa Rosetta Cappelluccio “le attività creative, come le matrioske e le maschere, permettono ai ragazzi di portare fuori quello che hanno vissuto, le esperienze traumatiche, i reati, la rabbia, la paura, la vulnerabilità. Il vissuto traumatico impedisce a questi ragazzi di avere ricordi ed emozioni perché fanno male, e aumenta la difficoltà a stare nelle proprie vite. Ragazzi che arrivano da un ceto basso, famiglie assenti, dove esiste una normalizzazione del reato, non riescono a vedere alcuna prospettiva diversa da quella che vivono in carcere. E invece lavorando sulla capacità riflessiva, sulla umanizzazione di ciò che sono stati per gli altri e per loro stessi, instaurando un processo relazionale dove si sentono al sicuro, dando loro fiducia in un contesto dove tutto è basato su regole e punizioni, possono cambiare”. Il risultato? “Riduzione dei comportamenti impulsivi, sviluppo della capacità di capire cosa provano, miglioramento del rispetto delle regole, maggiore attenzione, e soprattutto una consapevolezza di ciò che hanno fatto, con maggiore senso critico”. Il progetto, suddiviso in dodici incontri sulla dialectical behavior therapy (dbt) ha coinvolto nella scorsa primavera 15 detenuti di età compresa tra i 15 e i 18 anni e rappresenta un unicum in Italia, dove nelle carceri non esiste un vero servizio di psicoterapia. Nelle aule del carcere, dove ci sono in totale 75 detenuti minorenni con pene dai 4 ai 7 anni per reati a volte molto gravi, il momento di incontro con il team di esperti è diventato un confronto con se stessi sulla mancanza di amore ricevuto, sul dolore che diventa rabbia, sui pensieri negativi e sull’importanza di esternare le proprie emozioni. “Abbiamo dovuto abbattere - spiega ancora Cappelluccio - un muro di diffidenza. I ragazzi erano chiusi, imbarazzati ma soprattutto non avevano fatto i conti con le proprie emozioni. Per molti lo stato dissociativo è sopravvivenza, non è un sintomo: la mente traumatizzata non può avere una funzionalità, per potersi salvare da tutto il peso del senso di non appartenenza, nella famiglia o nelle relazioni tra pari, devono tenere a bada tutto il contenuto emotivo. Essere aggressivi e respingenti è necessario: se rifletto, se penso, se divento consapevole di quello che ho vissuto, muoio. Far immaginare loro che possono vivere, sentire, è il primo passo”. Il passaggio successivo è quello di dare loro un’alternativa: “Se vengono abbandonati, continuano a commettere reati - spiega Cappelluccio, che ai bambini abusati ha dedicato un libro, I figli degli altri - Bisogna pensare alla possibilità di seguirli anche dopo la pena, con l’inserimento lavorativo: tutto il sistema deve mettersi in discussione per accoglierli e modificare lo stigma che pende su di loro. Parliamo di ragazzi che non si sentono riconosciuti, non si sentono amati. Giovanissimi che hanno bisogno di adulti significativi che gli mostrino la possibilità di un nuovo percorso di crescita, di un nuovo inizio. E non bisogna deluderli”. “Tgr Giubileo - Cammini di Speranza”: oggi una puntata dedicata al Giubileo dei Detenuti rai.it, 1 dicembre 2025 Sarà dedicata al Giubileo dei Detenuti la puntata di “Tgr Giubileo - Cammini di Speranza” in onda lunedì 1° dicembre alle 15.20 su Rai Tre. In questa occasione verrà anticipato il tema dell’ultimo grande evento dell’Anno Santo. Ospiti di Isabella Di Chio, negli studi Rai di Saxa Rubra, saranno Monsignor Marco Fibbi, Coordinatore dei cappellani delle carceri della Diocesi di Roma e Cappellano di Rebibbia Nuovo Complesso e Claudio Bottan, ex detenuto, Vicedirettore della rivista “Voci di dentro” e volontario dell’omonima associazione che si occupa del reinserimento di persone che provengono da condizioni di marginalità sociale. Danilo Fumiento sarà in diretta dal “Pastificio Futuro”, dove lavorano i detenuti del Carcere minorile di Roma Casal del Marmo, nato da un progetto della Cooperativa sociale “Gustolibero Onlus” che ha messo in pratica l’esortazione di Papa Francesco “Non lasciatevi rubare la speranza”. In occasione della visita di Papa Prevost in Turchia e Libano, che si concluderà il 2 dicembre, in diretta da Beirut si collegherà il Vaticanista del Tg1 Ignazio Ingrao per raccontare il primo viaggio apostolico di Leone XIV. Dalle regioni, i servizi su alcune iniziative che vedono protagonisti i detenuti. Prima tappa a Roma nella casa circondariale di Rebibbia, dove si trova la Porta Santa aperta il 26 dicembre del 2024 e che ha dato la possibilità a chi si trova in carcere di vivere il Giubileo. Antonio Sgobba della Tgr Lombardia presenterà il progetto dell’Università degli Studi di Milano che dal 2015 ha permesso a 24 detenuti di laurearsi. Nel servizio di Max Franceschelli della Tgr Abruzzo il progetto “Bella dentro” che si è svolto negli istituti penitenziari di Teramo e Chieti, in occasione della giornata internazionale contro la violenza sulle donne. La rubrica “Tgr Giubileo - Cammini di Speranza” è affidata alla Tgr Lazio, caporedattrice centrale Antonella Armentano, con la cura e il coordinamento editoriale di Rossella Alimenti e Paolo Bernardi e la supervisione del condirettore della Tgr Antonello Perillo. La violenza cieca e quel patto sociale da difendere di Andrea Malaguti La Stampa, 1 dicembre 2025 È tutto per aria. I libri, giornali, le sedie. E i muri sono pieni di scritte. “Fanculo Stampa”. “Liberate l’Imam”. L’irruzione violenta, vigliacca e stupida come tutte le aggressioni, è avvenuta in un raro giorno di sciopero nazionale, quando la redazione era praticamente deserta. Un centinaio di teppisti invasati, antagonisti fuoriusciti da un corteo pro-Palestina, hanno scorrazzato come bufali nella nostra redazione centrale dopo avere riempito di letame le scale di ingresso, divelto la porta del bar, terrorizzato chi era nei locali intonando cori feroci: “Giornalista, sei il primo della lista”. “Giornalista, ti uccido”. Slogan da Brigate Rosse, chissà se lo sanno. Suppongo di no. Un’eredità inconscia che fa venire i brividi. Ora c’è puzza di fumo ovunque. Un quarto d’ora di follia, registrato minuto per minuto da telecamere che restituiscono occhi, gesti e voci di ragazze e ragazzi giovanissimi, direi ventenni, appena usciti dal liceo, forse poco più, guidati da una rabbia ideologica e senza senso, manipolata e manipolabile in un gioco più grande di loro che mette a rischio tutti. Ragazzi ai quali, nel giornale di Carlo Casalegno, uno vorrebbe ricordare il delirio omicida e fuori controllo degli Anni Settanta: lo sapete a che cosa portano certe derive? Conoscete la fortuna, straordinaria, di vivere in un’epoca ammaccata e in ritirata, dove però potete tutto - manifestare, arrabbiarvi, chiedere, rivendicare - ma questo no. Questo non è concesso. Questo non ha ragione, motivo, legittimità. È solo sporcizia controproducente. Utile a deprimere qualsiasi causa, a umiliarla fino a farla sparire. Mentre voi avreste (dovreste avere) l’energia e la forza per pulire, non per sporcare. Se no non siete la soluzione siete parte del disastro. E chi vi sta di fianco dovrebbe passare le giornate a dirvelo. A prendere le distanze. A impedirvi di muovervi in modo così cretino e pericoloso. Chiedete la libertà di parola per un Imam che rivendica la legittimità dell’orrore inumano del 7 ottobre, ma pretendete che noi non ne parliamo? Vale la sua libertà di pensiero ma la nostra no? Avete idea di che cos’è un giornale? Di che cosa rappresenta? Del valore della libertà di informazione? Sapete chi siamo? Del dibattito ininterrotto sul massacro compiuto a Gaza? Domande retoriche. Non sapete nulla. Sarebbe interessante sedersi ad un tavolo comune, guardarsi negli occhi, parlare civilmente, provare a ragionare. Venite, se volete. Non avete bisogno di spaccare nulla. Siamo un luogo abituato ad aprire le porte, non a chiuderle. Invece siamo nell’era dell’istinto animalesco da social, da chiamata alle armi emotiva. Estrapoli un pezzo di un giornale, non lo capisci, lo strumentalizzi e ne fai un selvaggio grido di battaglia. Mi domando se questi teppisti, che minacciano le nostre giovani professioniste colpevoli di fare bene il proprio mestiere, abbiano mai letto un giornale dall’inizio alla fine. Ragazzi incattiviti, ai quali viene voglia di dire, col cuore pieno di amarezza: dai, tornate a casa, guardatevi allo specchio, vergognatevi e rimettetevi a studiare, perché la responsabilità del mondo è anche vostra, non solo di chi è venuto prima di voi. Bisognerebbe appendere nelle loro camere il motto del Mahatma Gandhi: “La nonviolenza e la verità sono inseparabili e si presuppongono a vicenda”. Basterebbe questo come punto di partenza condiviso. Pensieri confusi, mentre adesso, in questo pomeriggio assurdo, i colleghi arrivano uno ad uno al giornale, spinti da un richiamo invisibile e irresistibile, non tanto per valutare i danni, quanto per testimoniare il loro legame con questo posto che è parte integrante della loro vita, della nostra, di queste terre, il luogo in cui ogni giorno, con una capacità invidiabile, raccontano con lucidità, serietà e onestà, quello che succede nel pianeta, da Torino a Gaza, da Roma a New York, da Cuneo a Kiev. È un posto speciale La Stampa. Con un parco collaboratori senza uguali. Gente che sa fare il proprio mestiere, che ne rivendica e ne conosce la centralità, con una sola regola inderogabile: non barare mai. Anche quando ti attaccano, distorcono le tue parole, ti dicono che sei fascista o comunista, filo-palestinese o schiavo del governo di Israele, putiniano ma anche zelenskyano, meloniano e schleiniano assieme, in un continuo ribaltamento del senso in cui ciascuno si prende arbitrariamente un pezzo del nostro lavoro lasciando a tutti noi l’impressione di andare nella direzione giusta. Quella che dà spazio alla parola e alle idee, per quanto diverse e urticanti, senza rinunciare ai nostri principi (banalmente quelli della Costituzione) e ai nostri dubbi. Abbiamo la forza di una comunità che produce informazione da quasi centosessant’anni. Un patrimonio di tutti. Cambiano le tecnologie, le piattaforme e i meccanismi informativi. Non il nostro modo di raccontare le cose in modo autonomo, libero e scrupoloso. Confesso che, alla fine di un pomeriggio che definire triste è riduttivo, ci ha incoraggiato la solidarietà bipartisan arrivata dai Palazzi e dalla gente comune. A cominciare da quella del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, per passare a Giorgia Meloni, Elly Schlein, Matteo Piantedosi, Giuseppe Conte, Stefano Lo Russo, Alberto Cirio. E potrei continuare per un’ora con nomi noti, meno noti e ignoti, utili a sottolineare che di fronte a gesti irricevibili, sgangherati, incomprensibili, questo Paese scopre di avere ancora un tessuto connettivo. Mi viene quasi da dire dei “valori”, parola che pensavo defunta e sepolta tra le piccole macerie di casa nostra. Serve un enorme sforzo comune per non perderli. Anche per questo non mi va di infilarmi sulla polemica legata alla sicurezza, alla necessità di proteggere un giornale come il nostro, da sempre obiettivo automatico degli antagonisti, almeno con una volante. I prossimi giorni chiariranno il quadro. Sapendo che in Italia, comunque, su dodicimila manifestazioni (un numero esorbitante e per certi versi confortante), solo il 3% si porta dietro degli scontri, grazie al lavoro delle forze dell’ordine e alla civiltà di chi protesta. La democrazia è faticosa. Apparentemente fuori sincrono. Richiede dialogo, compromesso, impegno. Comprensione dei fatti, degli angoli bui, sguardo sull’altro. Capacità di fare un passo indietro, di scommettere più sulle domande che sulle risposte, come suggerisce Vittorio Lingiardi in un magnifico libro, Farsi male, capace d spiegare perché siamo chiamati a confrontarci con l’aggressività mediatica, il rancore sociale, il fanatismo religioso. Siamo costretti a fare i conti con gli effetti del male del mondo sulla nostra vita interiore. Tutto, nel discorso pubblico ci spinge al muro contro muro. Chi ha la forza di dire basta? Possiamo scommettere almeno sulle nuove generazioni? E sull’equilibrio di chi ci guida? È complicato spiegare che cosa si prova quando si vede la propria redazione presa d’assalto. Come ci si sente violati. Esposti. Si percepisce un senso di fallimento, che serve comunque da stimolo per ricominciare da capo, con sempre maggiore convinzione, con sempre maggiore attenzione, moltiplicando la cura per le parole, la loro scelta, cercando di renderle meno contundenti, come ci ha spiegato, qui in redazione, Gino Cecchettin. Non si risponde alla violenza con la violenza. Lo si fa con il ragionamento. Richiesta complicata e sempre più necessaria in una società senza strumenti per affrontare la complessità. Citando ancora Lingiardi, e Calvino, è come se avessimo un sabotatore interno che ci porta ad “accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Seguiamo la rotta del dispiacere incapaci di cambiare direzione. Testimoni impotenti dello sterminio palestinese, dell’occupazione ucraina, della crisi umanitaria nel Darfur”. Il livello di tensione cresce di giorno in giorno. Abbassare i toni è una responsabilità collettiva. Mi ha molto colpito, nella marea di messaggi di solidarietà, quello di Noemi Di Segni, presidente dell’Unione delle comunità ebraiche, con la quale in questi anni complicati abbiamo avuto confronti profondi e spigolosi, sempre con l’obiettivo di distinguere. A proposito dei teppisti fuoriusciti dal corteo pro-Palestinese mi ha scritto: “Sono sicura che non sono quelle le persone che intendono tutelare diritti e percorsi sui quali ci impegniamo e ci confrontiamo quotidianamente. La preoccupazione per queste forme sempre più violente che sfruttano le vere situazioni di criticità è tantissima, spero si possa recuperare serenità”. Lo spero anch’io. È vergognoso sfruttare le “situazioni di criticità”, rifiutando il dibattito, per quanto duro, per sostituirlo con l’idiozia che annichilisce ogni cosa. Mi rifugio ancora una volta in Lingiardi. “È venuta a mancare la fiducia epistemica, ossia la capacità di considerare la conoscenza trasmessa da un’altra persona come degna di credito, generalizzabile e rilevante per sé”. Condivido ogni sillaba. “La società si divide tra sospetto da un lato, credulità indiscriminata dall’altro, oscillando tra chiusura paranoide e adesione acritica”. Non possiamo permetterci la disgregazione. Un suicidio mascherato da ribellismo giovanile. È un dovere etico e politico ricostruire gli argini attorno a questo dilagante fiume d’odio ebete e cieco. Scrive Wislawa Szymborska: “Chi sapeva di che si trattava, deve far posto a quelli che ne sanno poco. E meno di poco. Infine, assolutamente nulla”. A questo servono i giornali, a fermare la corsa verso il vuoto. La violenza è il ritiro dal campo della politica: così il dissenso muore di Francesca Mannocchi La Stampa, 1 dicembre 2025 La parola è il suo presidio più esigente. Quando un giornale viene colpito, il bersaglio è il lettore con il suo diritto a essere informato. Il dissenso, se vuole restare democratico, ha bisogno di luoghi dove possa essere raccontato e riconosciuto. Una redazione è uno di quei luoghi e assaltarla significa decidere che il dissenso non deve essere esercitato dentro la democrazia, ma contro di essa. Un gesto di violenza come l’assalto alla sede de La Stampa rivela con chiarezza una deriva pericolosa, in cui il dissenso viene sostituito dalla coercizione: chi irrompe in una redazione non sta dicendo soltanto “non sono d’accordo”, sta pretendendo di decidere unilateralmente cosa sia legittimo dire e cosa no, chi possa raccontare e chi debba tacere, affermando con la forza che la propria voce valga più delle altre. Un simile gesto non esprime una critica al potere: manifesta la volontà di esercitarlo, di esercitarlo con violenza. Chi lavora in una redazione non chiede immunità dalle critiche. Le redazioni possono sbagliare: talvolta si chiudono in sé stesse, altre volte mancano di ascolto, e le piazze - quando sono vive - possono ricordare al giornalismo ciò che rischia di non vedere, le fratture sociali, le biografie che restano ai margini del discorso pubblico. Quel confronto è necessario e, quando serve, deve essere anche duro. Ma esiste un limite che, se superato, svuota la critica del suo senso: quando il confronto degenera in violenza, non si pretende più di migliorare il lavoro dell’informazione, si mette in discussione la sua stessa ragion d’essere, quella di costituire uno spazio pubblico in cui una comunità può riconoscersi, interrogarsi, trasformarsi, perché in un momento storico in cui la realtà rischia di frantumarsi in narrazioni isolate, la stampa difende la possibilità che il reale non sia soltanto percezione individuale, ma una dimensione comune su cui misurarsi da costruire insieme. Non su posizioni, ma su contraddizioni. La delegittimazione della stampa è il segnale di una società che da tempo ha cominciato a smontare i propri strumenti critici, ma forse dovremmo tenere a mente un po’ di più che la relazione tra un giornale e i suoi lettori non è una dinamica unidirezionale: è una forma di collaborazione alla costruzione del reale. I lettori non sono consumatori di notizie, ma co-autori del senso che alle notizie viene attribuito. Ogni articolo è un invito alla discussione, non una sentenza chiusa. Una società resta viva finché chi racconta e chi ascolta riconoscono di essere parte della stessa ricerca di verità: un processo sempre aperto, sempre esposto al rischio del conflitto, sempre perfettibile. La violenza, invece, interrompe questo processo: trasforma la parola in possesso, la verità in proprietà privata, e l’informazione in campo di battaglia. Non rappresenta un eccesso di radicalità politica: è la sua cancellazione. Perché rinuncia alla costruzione condivisa di senso e sceglie l’imposizione, sostituendo la responsabilità del confronto con la pretesa di avere l’ultima parola. Cioè il verbo. Quando una redazione viene colpita, il bersaglio non è il giornalista che scrive: il bersaglio è il lettore, perché la libertà di informare è inseparabile dalla libertà di essere informati. Chi attacca la prima sta minacciando la seconda, e quindi la capacità stessa della società di comprendere ciò che accade e di formare un giudizio, e in una democrazia, l’informazione non è un privilegio di categoria: è un bene comune che si alimenta proprio del confronto più critico e serrato con i suoi destinatari. Essere giornalisti non significa sottrarsi alle contestazioni - significa accoglierle, farne carburante per migliorare il proprio sguardo, correggere errori, includere ciò che rischia di essere escluso. La critica è parte del metabolismo della stampa, senza di essa il giornalismo si spegne nel compiacimento o nel dogma. Ma proprio perché la critica è imprescindibile, la violenza la tradisce: la svuota, la rende cieca e regressiva. Quando si tenta di intimidire o zittire una redazione, non si sta chiedendo più voce: si sta negando lo spazio in cui tutte le voci dovrebbero poter risuonare. La violenza sottrae l’informazione al pubblico dibattito, la strappa al lettore e la riduce a terreno di conquista. Ogni forma di censura - compresa quella che passa per il terrore - non colpisce chi scrive perché ha scritto, ma chi legge perché deve poter leggere. La libertà di essere informati è la forma contemporanea della sovranità popolare: senza di essa, la partecipazione politica si riduce a scenografia, per questo attaccare una redazione significa colpire al cuore la possibilità che una comunità possa riconoscersi nei fatti e nelle parole che la riguardano, e possa criticarle per trasformarle. Difendere la stampa, dunque, non significa proteggerla dalle critiche, ma salvarne la condizione che rende possibile criticarla ancora. Per questo oggi dobbiamo ribadire che la parola non è un ornamento della politica, ma il suo cuore: è la parola che rende il conflitto pensabile prima che sia praticato, discutibile prima che sia agito, trasformabile prima che degeneri. Ogni attacco a una redazione mira dunque a sottrarre alla comunità uno dei suoi strumenti essenziali di mediazione: se viene meno il luogo in cui le differenze si esprimono e si riconoscono reciprocamente, ciò che rimane non è un dissenso più radicale, ma l’impossibilità stessa del dissenso. È qui che il gesto violento rivela la sua natura profondamente antipolitica: ogni volta che un giornale viene attaccato non sta accadendo “troppa” politica: ne sta accadendo troppo poca. Perché la politica - quella degna di questo nome - è ciò che riconosce la parola dell’altro come condizione della propria. La vera radicalità, oggi, non è sfondare una porta: è rimanere nel conflitto delle idee senza cercare di abolire chi le oppone. È assumersi la responsabilità di stare dentro la democrazia, persino quando la democrazia ci frustra, ci delude, ci contraddice. Premio Save the Children per la ricerca scientifica sui diritti dei bambini di Paolo Foschini Corriere della Sera, 1 dicembre 2025 Verrà assegnato mercoledì 3 dicembre al Museo della scienza e tecnologia di Milano. Per valorizzare i contributi scientifici che migliorino l’impatto sulla vita dei bambini, per promuovere il concetto di “cittadinanza scientifica” e per contribuire a politiche innovative concrete sui minori e le loro famiglie. Un Premio per sostenere l’attività di ricerca a favore dell’infanzia e dell’adolescenza. Per valorizzare i contributi scientifici che aiutino a interpretare i cambiamenti cogliendone l’impatto sulla vita dei bambini. Per promuovere il concetto di “cittadinanza scientifica”. E perché attraverso questo approccio, in concreto, si possano definire politiche innovative che promuovano i diritti dei minori e delle loro famiglie. È il “Premio Save the Children per la ricerca” - prima edizione - e verrà assegnato alle 10:30 di mercoledì 3 dicembre al Museo nazionale della scienza e della tecnologia “Leonardo Da Vinci” di Milano. Il Premio sarà attribuito da una giuria di esperti in pedagogia, economia, statistica, sociologia e comunicazione, ad autori/autrici di una ricerca realizzata in Italia che abbia contribuito ad ampliare la conoscenza su una o più dimensioni della vita dell’infanzia e dell’adolescenza con un significativo impatto sui diritti. A sostegno di giovani ricercatori e ricercatrici verrà premiata con una dote formativa di 10mila euro anche una ricerca coordinata e/o realizzata da under 35. Save the Children attribuirà inoltre due menzioni speciali a una ricerca internazionale e a un progetto di cittadinanza scientifica che abbia avvicinato bambini e bambine alla scienza. A promuovere il Premio è il nuovo Polo Ricerche di Save the Children, struttura interamente dedicata ad ampliare e diffondere le conoscenze sulla condizione dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia e nel mondo, allo scopo di promuovere i diritti di tutti i bambini e le bambine e di incidere concretamente - attraverso i dati e le analisi - sulle politiche e sulle prassi di soggetti istituzionali, privati e non profit. Le attività del Polo Ricerche si articolano in quattro ambiti focalizzati su ricerca, analisi dei dati (anche attraverso un portale consultabile on line), formazione e promozione della cittadinanza scientifica. Alla cerimonia, oltre alla vicesindaca di Milano Anna Scavuzzo, saranno presenti autorevoli esponenti del mondo della ricerca tra cui l’economista e direttore scientifico di Asvis Enrico Giovannini, i docenti Anna Maria Ajello e Paola Milani, l’economista Tito Boeri, l’astronauta Paolo Nespoli, le giornaliste Francesca Mannocchi e Mariangela Pira. All’iniziativa del Premio, patrocinato dal Comune di Milano e del Mur, è stata conferita la Medaglia del Presidente della Repubblica. La realizzazione è stata sostenuta da Poste Italiane e Aon SpA Assicurazioni, con il contributo dello Ied e della Fondazione Francesco Morelli. Venezuela. Una mobilitazione per Alberto Trentini di Carlo Verdelli Corriere della Sera, 1 dicembre 2025 Alberto è prigioniero in Venezuela da 381 giorni: media, intellettuali, politici, gente dello spettacolo e dello sport fanno troppo poco. È ora di liberarlo. Siamo diventati irriconoscibili a noi stessi oppure stiamo sbagliando tutti qualcosa. È evidente che è così, altrimenti non si spiega. La cosa che non si spiega è come sia possibile che ancora non si sia creato un movimento forte e pressante a favore della liberazione di Alberto Trentini. E quel poco che la famiglia, la madre Armanda, l’avvocato Ballerini, riescono ad alimentare come fiammella di attenzione, subito torna a spegnersi e il silenzio ricopre la scena su una vita italiana rubata e non ancora restituita. Se facciamo un sondaggio tra mille persone a campione, mostrando loro una foto di Alberto, è altamente probabile che nemmeno il 10 per cento sappia chi è. Eppure ormai dovrebbero riconoscerlo tutti, come quando ti mettono davanti la foto di un fratello, un figlio, un nipote. Questo è Alberto Trentini: un italiano uguale, finito per i giochi della politica internazionale in un carcere del Venezuela dove era andato per dare una mano a gente oltre la miseria, perché questo è il mestiere che si è scelto. Dottor Alberto Trentini da Venezia, 46 anni, cooperante professionista da almeno 20, pronto a infilarsi dovunque la terra bruci per portare un poco di ristoro. Il problema enorme per chiunque abbia conservato almeno un pallido senso di umanità e di comunità è che questa persona perbene sta in una cella due metri per due di un carcere infernale di Caracas. E sta lì dentro da più di un anno. E non c’è una sola accusa che sia stata mossa contro di lui. E il suo avvocato non hai mai potuto neanche visitarlo. Che cosa sta facendo lo Stato Italiano, il governo italiano, il popolo italiano per porre fine immediatamente a questa infamia? Che cosa stanno aspettando lo spettacolo italiano, lo sport italiano, gli intellettuali e le grandi firme italiane per spendere un po’ della loro popolarità al servizio di una causa sacrosanta? E l’informazione italiana è proprio sicura di aver lavorato a dovere per far almeno conoscere il caso a quanto più pubblico possibile, a portare la faccia di Alberto nelle famose case degli italiani, a insistere e insistere e insistere perché diventi uno di famiglia, e allora per uno di famiglia ci si muove, ci si danna, ci si batte finché non torna a casa. Il fatto è che Alberto Trentini è esattamente uno di famiglia. Ma questa semplicissima verità non è passata. Per una minoranza troppo esigua la sua vita ha un valore che cresce coi giorni che si sommano di prigionia, mentre per tutti gli altri non è neanche un problema o una vergogna nazionale: semplicemente non esiste, forse un’eco lontana di qualcuno che se stava a casa sua era meglio e si è andato a infilare in un guaio e adesso se la sbrighi. Altri e altre, in condizioni simili, non se la sono sbrigata da soli. Anche questo andrebbe ricordato, magari dai politici che affollano gli schermi tv dall’alba ai tg della sera, fino ai talk seguitissimi che arrivano a notte. Perché deputati e senatori non spendono, prima di ogni loro dichiarazione, una frase così: “Detto che vorrei la liberazione di Alberto Trentini e che mi impegnerò per ottenerla, aggiungo che considero la riforma della legge elettorale eccetera”. Invece, l’urgenza che dovrebbe tormentare ognuno e ognuna di loro, indipendentemente dall’appartenenza politica, li lascia indifferenti. E così i Comuni, con i loro bei palazzi su belle piazze, che cosa aspettano per esibire uno striscione per Alberto come è stato fatto giustamente per altre cause? Perché lui non è degno e altri sì? Quale mistero respinge i nostri cuori e le nostre volontà di persone libere dalla presa di coscienza che è in gioco la libertà di un cittadino come noi, anche meglio di tanti di noi? Da oggi questo giornale, dove ho l’onore di collaborare, metterà un banner fisso sulla prima pagina del sito con la faccia di Alberto Trentini, la scritta “liberatelo”, e un contatore con i giorni che sta passando innocente in una cella. E, pur senza avere alcun mandato né titolo per farlo, mi permetto di chiedere la stessa attenzione a tutti i direttori/direttrici di quotidiani, cartacei-televisivi-radiofonici-digitali, talk televisivi, riviste settimanali, mensili, maschili o femminili. È la cosa giusta, al punto in cui siamo, l’unica che resta, a parte confidare in una sempre più vaga e incerta soluzione politica. Da 381 giorni il bravo dottore Alberto Trentini sta aspettando che la sua patria, la sua gente, batta i pugni sul tavolo per lui. Cominciamo che è tardi. E se diventasse troppo tardi non c’è dio che ce lo perdonerà. Medio Oriente. L’indignazione è finita, le bombe no: cosa succede se ci dimentichiamo di Gaza di Anna Foa La Stampa, 1 dicembre 2025 Il mondo crede che tutto vada bene, ma dal 10 ottobre sono stati uccisi 354 palestinesi. Usa e arabi si muovono per interessi. Sembra che ci siamo dimenticati di Gaza. Dopo tante manifestazioni a sostegno della Palestina che hanno riempito di grandi folle le strade italiane come quelle di molte altre parti dell’Italia e del mondo, dopo tanto parlare e scrivere, dopo che la distruzione di Gaza e l’uccisione di tante migliaia di palestinesi erano diventate l’argomento del giorno nelle nostre scuole, nelle nostre università, nei nostri talk show televisivi, a partire dal 10 ottobre, data di inizio della tregua, su Gaza e sulla questione palestinese è sceso il silenzio, o almeno qualcosa di molto simile al silenzio. Forse perché la tregua regge? Perché non ci sono più bombardamenti sulla Striscia martoriata di Gaza? Non è così, la tregua regge, ma una tregua che consente ancora bombardamenti e uccisioni. Dal 10 ottobre ad oggi sono stati uccisi 354 palestinesi. Sembra poco, se paragonati ai numeri precedenti, ma provate ad immaginarveli tutti in fila, nei loro sudari. O forse perché i rifornimenti bloccati alla frontiera sono stati lasciati passare, la popolazione rifornita di cibo ed acqua, i medicinali tornati in ciò che resta degli ospedali? Non è così, Israele apre e chiude i valichi, e le chiusure corrispondono ai momenti di tensione, quasi i rifornimenti fossero in realtà ostaggio dello svolgimento delle operazioni legate alla tregua. Non restituisci tutte le salme degli ostaggi, noi teniamo in ostaggio cibo, acqua, medicine sembra dire la chiusura a singhiozzo dei valichi. Ma gli ostaggi sono tornati, e con loro sono stati liberati i prigionieri palestinesi chiusi nelle carceri di Israele. È un risultato importante. Che gli ostaggi nascosti da Hamas nei tunnel di Gaza tornino alle loro famiglie, che si possano seppellire i morti, è cosa che ha fatto tirare un sospiro di sollievo ad Israele, come ha fatto tirare un sospiro di sollievo ai palestinesi la liberazioni di famigliari spesso detenuti sulla base di semplici sospetti e in condizioni che gli ultimi scandali ci hanno rivelato non aver poi molto da invidiare a quelle degli ostaggi israeliani di Hamas. Eppure, sia Gaza che Israele hanno accolto con speranza e favore la tregua. Perché ha significato l’idea, almeno l’idea, di non essere più in guerra. Ma più le settimane passano, più questo sollievo diminuisce, più le speranze sfumano. Ma se possiamo capire e condividere il sollievo che la tregua ha procurato ad israeliani e palestinesi, riesce meno facile capire perché anche il mondo sembra credere che tutto stia andando per il meglio. Le grandi manifestazioni, importanti nonostante le sbavature politiche e gli accenni antisemiti, sembrano aver dato luogo al vecchio copione dei gruppi sociali che se la prendono a caso con tutti quelli che considerano espressione del “potere”, come dimostra la devastazione di questo giornale, devastazione che di “Pro-Pal” ha solo il nome e ci ricorda invece l’inizio del fascismo un secolo fa, con gli attacchi e le devastazioni squadriste a l’Avanti, l’organo del Partito Socialista. Sul fronte dell’alta politica, gli Stati dell’Ue tacciono, o sono invece impegnati a disquisire sull’antisemitismo crescente, senza vedere che soprattutto di una conseguenza di quanto succede si tratta, non di una sua spiegazione. Solo Trump e in parte i Paesi arabi insistono, e per motivi loro, tutti diversi. E se fosse tutto, sul fronte mediorientale, si potrebbe anche trarre un sia pur piccolo sospiro di sollievo. Ma, intanto, se Gaza non è più sulle bocche di tutti, la Cisgiordania è in fiamme, e non solo ad opera dei coloni che aspettano il Messia sbarazzandosi dei palestinesi e distruggendone case e campi, ma ormai direttamente ad opera dell’esercito. I video che ci arrivano mostrano episodi che suscitano in noi una sorta di inorridita incredulità, come quello dei due palestinesi - terroristi o no, che importa, dal momento che si arrendevano con le mani alzate? - assassinati a sangue freddo dai militari. A Gaza è subentrata la Cisgiordania, ma sembra che non susciti nel mondo una pari indignazione. O forse, l’indignazione è a tempo, ad un certo punto si esaurisce, la clessidra ha versato tutta la sua sabbia, parliamo d’altro. Si parlasse almeno dell’altro fronte di guerra, quella scatenata dallo Zar della Russia. Ma di quella si è già smesso di parlare da tempo. E non perché fosse arrivata la questione di Gaza, evidentemente. È perché l’attenzione di chi vive tranquillo nel tepore della sua casa è limitata. La abbiamo consumata già tutta? E su quanto succede oggi in Cisgiordania, niente o poco da dire? Haiti. La guerra sporca tra guardie e ladri nell’assedio a Port-au-Prince di Lucia Capuzzi Avvenire, 1 dicembre 2025 Con le forze di sicurezza in agonia, a guidare gli attacchi contro le bande sono le squadre di autodifesa. Nel caos di Haiti, linciaggi e violenze sono prassi. “O noi o loro, non c’è altra scelta”. “Amour, Jesus, King”. Annerite e leggermente deformate, le tre parole sono sopravvissute alle fiamme. È tutto quello che resta del murale che Mandela aveva realizzato nella sua camera. L’ultima opera. Scomparsa. Proprio come il corpo dell’artista 32enne e del padre che dormiva nella stanza di fronte. “So che sono morti, ho sentito gli spari, ho visto il sangue per terra. Ma, al contempo, non lo so. Alcuni giorni mi sveglio convinto che le gang li abbiano portati via, da qualche parte. Hanno perso molte truppe e magari li hanno fatti prigionieri per costringerli a lavorare per loro…”, racconta suo fratello Holly mentre si lascia alle spalle lo scheletro della casa. Fuori l’afa di Port-au-Prince si è sciolta in un’aria frizzante, la vegetazione tropicale si è trasformata in una distesa di pini e querce. Le montagne di Kenscoff, propaggine meridionale della capitale, sono tra le ultime distese verdi dell’isola: altrove gli alberi sono stati divorati dalla fame di legname, tagliato ed esportato dalle compagnie francesi a cui il regime dei Duvalier aveva concesso mano libera. La dittatura è finita nel 1985 ma il manto tropicale non è ricresciuto. Al contrario, la deforestazione è proseguita. Per questo, fino a qualche anno fa, Kenscoff era il luogo in cui l’esigua élite haitiana trascorreva i fine settimana in baite in legno e pietra, al riparo dal caldo e dal caos metropolitano. Quante di quelle villette sono rimaste in piedi, sono vuote da tempo. Come l’orfanotrofio Sainte-Hélène, sulla vetta dell’altopiano. Ad agosto, la struttura, gestita dall’associazione Nuestros pequeños hermanos per dare rifugio a 270 bimbi, è stata assaltata: la direttrice, la missionaria statunitense Gene Heraty, sette collaboratori e una piccola disabile sono stati sequestrati per settimane. L’apparenza bucolica del paesaggio non deve ingannare: Kenscoff è zona di guerra. Fra i suoi boschi si consuma la battaglia per il controllo dell’ultima “porta” di Port-au-Prince. Le gang, riunite nella coalizione “Viv ansanm”, sono a decise a “sprangarla”, come hanno fatto con le altre, una dopo l’altra. Il controllo delle rotte commerciati - e dei “pedaggi” - ha sostituito i sequestri come fonte principale del business criminale. Per Kenscoff passa una direttrice fondamentale: quella per Jacmel che conduce al sud e al sud-ovest del Paese. Nonché la via d’accesso alla porzione meridionale di frontiera con la Repubblica Domenicana, bacino di rifornimento di merci legali e illegali. Le forze di sicurezza superstiti non vogliono cedere l’area. Su una delle alture - Femat - c’è l’antenna di Teleco, da cui dipendono telecomunicazioni e traffico degli aerei e, soprattutto, dei droni, la nuova arma anti-bande dei mercenari di Erik Prince, fondatore di Blackwater, assoldati dal premier Alix Didier Fils-Aimé con il sostegno - non solo morale - di Donald Trump. Il conflitto, così, va avanti ormai da nove mesi, tra momenti di “calma esclusivamente apparente”, come ha appena denunciato il sindaco Jean Massillon, e attacchi feroci. Solo nei primi due sono state uccise oltre 250 persone. Centinaia di case sono state date alle fiamme. In ventimila hanno dovuto sfollare per aggiungersi al fiume di rifugiati interni: quasi 1,4 milioni di persone. Gracielle ha rifiutato di andarsene. “Non è una scelta, non ho altro posto dove andare”, racconta la donna mentre trasporta le assi con cui, pezzo a pezzo, cerca di ridare forma alla casa, ridotta a un rudere. “Ho provato ad andare nel campo che il municipio ha cercato di allestire. Ma era un disastro. Non avevamo nemmeno un telo per ripararci. E poi vivevo nel terrore: la notte accadeva di tutto. Anche qui ho paura. Le gang sono nascoste poco più in alto. Ma almeno ci sono i Bwa Kale”. Bwa Kale, così gli haitiani chiamano le squadre di autodifesa che si moltiplicano nel caos generale. “Nella nostra siamo in trecento”, dice con una punta di orgoglio Walf. Alto e muscoloso, con lunghi rasta nerissimi, presidia la strada principale a bordo di una moto scassata, con la pistola ben in vista. Ad Haiti non c’è una sola fabbrica d’armi ma, per strada, grazie ai carichi illegali dalla Florida, si trovano facilmente fucili di ultima generazione. “Così quando i banditi si presentano, come cinque notti fa, noi li aspettiamo. A volte diamo loro la caccia. Cosa accade quando ne prendiamo uno?”. Walf fa una pausa e sorride: “Li portiamo dai vicini della comunità. Loro sanno cosa fare…”. Con i tribunali di fatto chiusi da un anno e mezzo, il sistema giudiziario è paralizzato. L’impunità, dunque, è pressoché totale e prolifera la “giustizia fai da te”: i linciaggi sono prassi quasi quotidiana mentre gli agenti ancora in servizio fanno finta di non vedere e la forza internazionale anti-gang - decisa dall’Onu su pressione Usa a settembre - esiste solo sulla carta. “Devi solo sperare che quelli che prendono siano davvero banditi. Chi può dirlo: si basano sulla provenienza. Se non hai con te i documenti o vieni da quartieri considerati “caldi”, come Martissant o Cité Soleil, sei morto”, dice a bassa voce Gideon. Non vuole che qualcuno riferisca ai Bwa Kale. “Spesso fanno cose sbagliate. In fondo, però - sospira - sono sempre meglio delle bande”. “O noi o loro. Che altro dobbiamo fare?”, domanda Walf. Ha fretta, deve riprendere la ronda. La battaglia di Kenscoff continua.