Casini lancia l’amnistia e l’indulto di un anno: d’accordo Lupi, Mulè e (quasi tutte) le opposizioni di Giacomo Puletti Il Dubbio, 30 aprile 2025 La proposta di legge di Nessuno tocchi Caino: “Fuori i detenuti con 12mesi rimasti da scontare”. No di Lega e Movimento 5 stelle. Una proposta di legge per far sì che escano dalle carceri già sovraffollate tutti i detenuti con ancora soltanto un anno di pena rimasto da scontare. Ci sta lavorando Nessuno Tocchi Caino, e parlamentari di tutti gli schieramenti politici, tranne Lega e M5S, hanno già dato la loro adesione. Si va dal vicepresidente della Camera, l’azzurro Giorgio Mulè, al leader di Noi moderati Maurizio Lupi, fino al deputato di FdI Emanuele Pozzolo (espulso dal partito ma tecnicamente ancora nel gruppo parlamentare), passando per il calendiano Fabrizio Benzoni, i renziani Maria Elena Boschi e Roberto Giachetti, la responsabile Giustizia dem Debora Serracchiani e la deputata Luana Zanella di Avs. All’appello mancano quindi il Carroccio e i pentastellati, mentre altri parlamentari a partire da Pier Ferdinando Casini, che dalle colonne del Corriere si è augurato “interventi concreti” sulle carceri, potrebbero firmare nelle prossime ore. “Ho firmato, e sono stato l’unico di Fi a farlo, una proposta che prosegua nel solco tracciato da papa Francesco e che si concretizza in un indulto dell’ultimo anno di pena - spiega al Dubbio Mulé - Vivendo certi drammi molto da vicino, a cominciare da quello delle tossicodipendenze, sono convinto che serva un percorso di recupero che porti queste persone fuori dalle carceri”. Per l’esponente forzista “serve una spinta al reinserimento che purtroppo, vuoi per un problema di organici dei medici nelle strutture o perché i permessi vengono concessi con il contagocce, spesso non succede”. Senza un tale percorso, aggiunge Mulé, si restituiscono alla società ex detenuti con buona probabilità di recidiva, mentre dopo un percorso di comunità la recidiva è del 10-15%”. Il vicepresidente della Camera definisce le carceri “una stiva sociale” e per questo “non serve il perdono indiscriminato ma certamente c’è bisogno di una misura straordinaria”. E alla domanda sulla contrarietà di Lega e FdI a una proposta del genere Mulè commenta “chissenefrega”, utilizzando tuttavia l’espressione romana che rende più colorito il concetto. “La situazione delle nostre carceri non può essere ignorata e l’articolo 27 della Costituzione ci ricorda che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato e non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità - ci dice un altro esponente di maggioranza, Maurizio Lupi - Eppure nel 2024 i dati sui suicidi tra i detenuti e tra gli agenti penitenziaria, che hanno anche subito circa 2.000 aggressioni, sono stati preoccupanti”. Per questo secondo il leader di Noi moderati “serve un piano urgente per tutelare la dignità dei detenuti, garantire la sicurezza del personale e investire seriamente in strutture più moderne e funzionali” e “abbiamo chiesto a novembre al Ministro della Giustizia di intervenire subito, nel pieno rispetto delle nostre norme costituzionali” perché “il carcere deve essere un luogo di rieducazione, non una trappola di disperazione”. Appena uscita da una visita al carcere di Campobasso dove il sovraffollamento e al 200% Rita Bernardini, che è al sesto giorno di sciopero della fame per cercare un dialogo con i parlamentai sia sul decreto Sicurezza che sulla situazione dei detenuti, spiega che Nessuno Tocchi Caino “chiede l’indulto di un anno per tutti” dicendosi consapevole “che a volte vengono fatte alcune esclusioni” ma ribadendo che “per noi deve valere per tutti, perché “le pene che i detenuti soffrono in carcere sono le stesse per tutti”. Zanettin (Forza Italia): “Un atto di clemenza per i detenuti, in omaggio a Papa Francesco” di Gianluca De Rosa Il Foglio, 30 aprile 2025 “Ai miei colleghi di maggioranza e ai membri del governo che sabato scorso si sono commossi sul sagrato di piazza San Pietro in occasione del funerale del Papa voglio fare un invito alla coerenza, per omaggiare Francesco non solo attraverso il ricordo, ma seguendo i suoi insegnamenti: è ora di intervenire per svuotare le carceri del nostro paese dove la situazione diventa ogni giorno più insostenibile”, dice al Foglio Pierantonio Zanettin, capogruppo di Forza Italia in commissione Giustizia al Senato. “Papa Francesco - ricorda il senatore di Forza Italia - ha spesso denunciato la situazione disperata delle nostre carceri, il suo allarme è proseguito anche tre giorni prima della sua morte, quando, già indebolito dalla malattia, si è comunque voluto recare a Regina Coeli per salutare i detenuti per i quali chiedeva un atto di clemenza. Penso che non ci sarebbe atto migliore per omaggiare il Pontefice che questo. Per la politica - prosegue - può essere l’occasione di ispirarsi davvero al suo magistero, al di là della retorica”. E in effetti l’attenzione di Bergoglio per le carceri italiane è stata costante durante tutti i 12 anni del suo pontificato. Con visite regolari, non solo negli istituti di pena della capitale. Anche qualche mese fa Francesco aveva scelto di aprire l’ultima porta santa del Giubileo della speranza nel carcere di Rebibbia. Un gesto affatto casuale che aveva proprio lo scopo di ricordare alla politica e non solo la condizione in cui vivono i detenuti del nostro paese. Parlano i numeri. Nel 2024 in Italia si è raggiunto il record di suicidi in cella: 88. Un dato che non è cambiato con il nuovo anno: dall’inizio del 2025 sono già più di 25 i detenuti che si sono tolti la vita. Oltre alle vicende personali e psicologiche dei singoli detenuti, pesano le condizioni degradate delle strutture detentive, ma anche una situazione di sempre meno sostenibile sovraffollamento in molti dei più importanti istituti di pena del nostro paese. Bergoglio aveva esplicitato il suo invito al governo nella bolla per il Giubileo Spes non confundit, chiedendo un “condono delle pene”. Di fatto un’amnistia o un indulto. Diceva Papa Francesco: I I detenuti, privi della libertà, sperimentano ogni giorno, oltre alla durezza della reclusione, il vuoto affettivo, le restrizioni imposte e, in non pochi casi, la mancanza di rispetto. Propongo ai governi che nell’anno del Giubileo si assumano iniziative che restituiscano speranza”. Il 2025, da pochi giorni, è anche l’anno della sua morte. Il governo lo ascolterà? Ieri dalle colonne del Corriere della sera, un appello simile a quello di Zanettin è arrivato anche dall’ex presidente della Camera Pierferdinando Casini, che si è rivolto direttamente alla premier Giorgia Meloni per un intervento di deflazione carceraria che consenta di ridurre un po’ il numero di detenuti, rendendo per coloro che rimangono in cella la vita meno gravosa. “Come ha sottolineato anche Casini - dice Zanettin - non sarebbe certo la prima volta che avviene un fatto del genere. Anche nel 2005, dopo la morte di Giovanni Paolo II, è successo qualcosa di simile: non proprio un’amnistia, né un indulto, ma un atto che consentì di ridurre un po’ la popolazione carceraria. Inoltre, tornando ancora un po’ più indietro nel tempo, anche nell’anno giubilare che si svolse nel 1950 un atto di clemenza fu emesso su richiesta di Papa Pio XII”. Spera davvero che la maggioranza di centrodestra possa seguire il suo appello? Nei mesi scorsi voi di Forza Italia avevate già provato a convincere i vostri colleghi di FDI e Lega ad approvare un provvedimento che consentisse una piccola riduzione delle persone detenute, facendo uscire anche solo con sei mesi di anticipo chi ha residui di pena irrisori. Allora non è andata bene, pensa che la morte del Papa possa in qualche modo aver mosso le coscienze? “Spero davvero che possa esserci questa sensibilità. Penso che la scomparsa del Pontefice, in tutti i partiti, abbia suscitato commozione reale e riflessione sui suoi insegnamenti, quindi sarebbe davvero normale cercare di ricordarlo con un atto politico che vada nella direzione di quanto Francesco ha predicato prima della sua morte”. Carcere, il tabù della sessualità si incrina di Sarah Grieco Il Manifesto, 30 aprile 2025 L’immobilismo dell’amministrazione penitenziaria verso il diritto alla sessualità è durato ben oltre un anno. Tanto è il tempo che separa la sentenza della Corte costituzionale (la n.10/2024), che apriva ai colloqui intimi all’interno delle carceri, dalle tanto attese linee guida, emesse dal DAP lo scorso 11 aprile. In questi 14 mesi di “latitanza”, il governo si era limitato all’istituzione di un “gruppo di lavoro multidisciplinare”; in nessun istituto del nostro paese è stato possibile svolgere una visita intima, nonostante l’invito della Consulta ad un’azione concreta dell’amministrazione penitenziaria, in tutte le sue articolazioni. Eppure ne sono successe di “cose” nell’attesa. A settembre 2024, 55 detenuti a Rebibbia inviavano un reclamo collettivo al Garante regionale dei detenuti, per denunciare la mancata concessione di colloqui intimi. Le richieste giungevano anche da alcuni istituti penitenziari, come il carcere “Due Palazzi” di Padova, che si dichiarava pronto a poter svolgere i colloqui intimi in appositi container o prefabbricati posizionati in alcune aree verdi del cortile; iniziative sperimentali a cui il governo poneva un freno. Davanti all’assordante silenzio dell’amministrazione penitenziaria, più voci provenienti da istituzioni, associazioni e dottrina denunciavano la palese violazione di un diritto costituzionalmente riconosciuto. In Parlamento numerose erano le sollecitazioni presentate al ministro Nordio con interrogazioni parlamentari. A gennaio 2025, la Cassazione con la sentenza n.8 del 2025, rimarcava la natura di diritto soggettivo, e non di mera aspettativa, dei colloqui intimi; diritto costituzionalmente fondato e giurisdizionalmente esigibile. Una pronuncia che, di fatto, faceva da “apripista” ad una serie di ordinanze dei magistrati di sorveglianza di accoglimento dei reclami ex art. 35 bis, presentati nei primi due mesi del 2025. La prima, in ordine cronologico, era quella del 29 gennaio 2025 del magistrato di Spoleto Fabio Gianfilippi che accoglieva il reclamo, ordinando all’amministrazione penitenziaria di consentire i colloqui intimi entro 60 giorni, seguita da quella della magistratura di sorveglianza di Reggio Emilia, Pescara e Verona. D’ora in poi, per i quasi 17mila potenziali fruitori, i colloqui intimi saranno concessi nello stesso numero di quelli visivi e avranno durata massima di due ore. Ad usufruirne, come indicato dalla Corte, potranno essere il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona stabilmente convivente. Una priorità verrà accordata a coloro che dovranno scontare lunghe pene e che non hanno potuto accedere a benefici per coltivare l’affettività. Sono esclusi quei detenuti sottoposti a regimi detentivi speciali previsti dagli articoli 41-bis e 14-bis dell’Ordinamento Penitenziario. Coloro che hanno commesso infrazioni disciplinari, per ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina, non potranno ottenere colloqui intimi prima di sei mesi dall’infrazione. In ogni caso non possono accedere al beneficio i detenuti sorpresi con sostanze stupefacenti, telefoni cellulari od oggetti atti a offendere. Dovranno essere i Provveditori a individuare strutture penitenziarie dotate di locali idonei e ad adottare le misure organizzative necessarie. La Polizia penitenziaria sorveglierà solo dall’esterno la camera, arredata con un letto e annessi servizi igienici e senza la possibilità di chiusura dall’interno. Restano alcune perplessità sull’adeguatezza dei tempi, in nome di quell’”adeguatezza” invocata dalla Corte, rispettando la disciplina all’art 61, che prevede colloqui lunghi con la possibilità di consumare un pasto (anziché quella dell’art. 37 del regolamento penitenziario) e sul rischio che prevalga una modalità assimilabile più ad un premio che ad un diritto. Vaccinare chi è recluso protegge anche chi è fuori di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 aprile 2025 La questione non è solo etica o sanitaria. È una questione di intelligenza politica. Chi entra in carcere, nella stragrande maggioranza dei casi, poi torna nella società. Un detenuto vaccinato è un cittadino più protetto. E una comunità più sicura. Per questo motivo sono state pubblicate le prime linee guida a livello europeo per rafforzare i servizi vaccinali negli istituti penitenziari. Il documento, intitolato “Rafforzare i servizi vaccinali negli istituti penitenziari: linee guida di sanità pubblica”, è il risultato del progetto RISE-Vac (Reaching the hard-to-reach: increasing access and vaccine uptake among prison populations in Europe), finanziato dal 3° Programma Salute dell’Ue e coordinato dall’Università di Pisa. L’annuncio arriva in prossimità della European Immunization Week (EIW) 2025, iniziativa dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che quest’anno mette l’accento sull’importanza di garantire coperture vaccinali eque in tutte le comunità, inclusi i contesti più vulnerabili. Il progetto, guidato da Lara Tavoschi, professoressa di Igiene e Medicina Preventiva all’Università di Pisa, ha coinvolto nove istituzioni partner in sei Paesi (Italia, Regno Unito, Francia, Germania, Cipro e Moldova). L’obiettivo è migliorare l’accesso alle vaccinazioni per le persone detenute, spesso esposte a un rischio elevato di malattie infettive a causa di sovraffollamento, scarsa igiene e alta mobilità tra carcere e comunità. “Queste indicazioni - spiega Tavoschi - sono un passo avanti fondamentale per la promozione della salute pubblica in contesti caratterizzati da elevata vulnerabilità. I principali benefici attesi dalla loro adozione sono l’aumento della copertura vaccinale tra le persone detenute, il miglioramento dell’equità e dell’accesso alle cure, il rafforzamento della continuità assistenziale post- detenzione, nonché un coinvolgimento attivo di personale e detenuti tramite strumenti educativi mirati”. Le raccomandazioni sono già state presentate alle istituzioni sanitarie e penitenziarie dei Paesi coinvolti, dove sono in corso le prime applicazioni pilota. Uno degli elementi distintivi del progetto RISE- Vac è stato lo studio sul campo, che ha coinvolto vari istituti penitenziari con un approccio fortemente partecipativo. Detenuti e personale penitenziario, ad esempio, sono stati attivamente coinvolti nella co- creazione di materiali educativi multilingue - tra cui video, opuscoli e percorsi formativi - disponibili gratuitamente sul sito del progetto. “Con la pubblicazione di queste indicazioni - conclude Tavoschi - l’Università di Pisa consolida il proprio ruolo guida nella ricerca europea per la salute pubblica e contribuisce concretamente alla definizione di strategie vaccinali più inclusive ed efficaci, anche nei contesti più complessi”. Come trasformare l’emergenza in routine - Il documento parte da un dato: oltre 11 milioni di persone sono detenute nel mondo. Ogni anno, più di 30 milioni entrano ed escono dal sistema penitenziario. Nella sola regione europea dell’Oms, oltre un milione e mezzo di persone si trovano in stato di detenzione in qualsiasi momento. La prigione è spesso l’approdo di una lunga catena fatta di povertà, marginalità e carenze sanitarie. Eppure, i bisogni sanitari di chi si trova recluso restano troppo spesso ignorati, con conseguenze che vanno ben oltre le mura del carcere. Chi vive in prigione - minorenni, migranti, detenuti in attesa di giudizio - è più esposto a malattie infettive prevenibili da vaccino (VPD), ma risulta frequentemente sottoimmunizzato. La realtà delle carceri - strutture vecchie, sovraffollate, con scarsa ventilazione e popolazione transitoria - le rende un terreno fertile per la trasmissione di virus. Nonostante la scarsità di dati sistematici, le evidenze raccolte parlano chiaro: in prigione la salute è fragile, e i sistemi per proteggerla sono discontinui o frammentati. Eppure, il periodo di detenzione potrebbe essere l’occasione per colmare lacune profonde e garantire interventi sanitari basilari, a partire proprio dalle vaccinazioni. La vaccinazione è uno degli strumenti più efficaci e meno costosi per proteggere la salute pubblica, ma nei penitenziari l’offerta vaccinale è spesso disorganica. In molte realtà europee manca una linea guida uniforme che assicuri pari trattamento, con il risultato che l’accesso ai vaccini varia enormemente da paese a paese e da carcere a carcere. È in questo contesto che nasce il progetto europeo RISE- Vac, cofinanziato dalla Commissione Europea e attivo in sei Paesi dal 2021. L’obiettivo è semplice: migliorare la disponibilità e l’assunzione dei vaccini in ambiente carcerario, mettendo a sistema strategie, strumenti e modelli per rafforzare i programmi vaccinali dietro le sbarre. La logica è quella della parità di trattamento - Le Regole minime standard delle Nazioni Unite per il trattamento dei detenuti (note come Regole Nelson Mandela) richiamano il principio della parità di trattamento: la sanità in carcere è responsabilità dello Stato e deve essere gratuita, indipendente e connessa al sistema sanitario pubblico. Alle Mandela Rules si affiancano le Regole di Bangkok, che sottolineano le esigenze sanitarie specifiche delle donne detenute. Dopo il Covid- 19, anche le Nazioni Unite hanno ribadito la necessità di riformare le politiche detentive e affrontare il sovraffollamento e la trascuratezza dei servizi sanitari in carcere, ribadendo un concetto fondamentale: “la salute in carcere è parte integrante della salute pubblica”. Il gruppo di lavoro di RISE- Vac ha definito un approccio integrato, coinvolgendo esperti di vari settori e raccogliendo dati attraverso rassegne, focus group e indagini nelle carceri. Il risultato è una guida pratica per rafforzare l’immunizzazione in ambito penitenziario, con particolare attenzione ai richiami vaccinali e ai programmi di recupero per chi ha perso le dosi previste. Le malattie come difterite, tetano, pertosse, morbillo, rosolia, parotite, varicella e polio non sono scomparse. In ambienti chiusi come le carceri, una sola infezione può trasformarsi in focolaio. Per questo il primo passaggio fondamentale è la verifica dello stato vaccinale all’ingresso, con controlli attraverso certificati, sistemi informativi o test sierologici. Dove i dati mancano, si propone la somministrazione diretta del ciclo completo, senza attendere analisi aggiuntive. Le vaccinazioni devono coinvolgere anche il personale penitenziario, spesso dimenticato nelle strategie di prevenzione. Le difficoltà, certo, non mancano: dalla carenza di risorse alla diffidenza dei detenuti. Per superarle servono privacy, informazione, ascolto, oltre a personale formato e disponibile. Un’attenzione particolare va riservata ai minori e ai migranti. I primi hanno diritti sanitari diversi rispetto agli adulti e devono ricevere lo stesso trattamento dei coetanei liberi. I secondi, spesso privi di documentazione sanitaria, hanno bisogno di approcci flessibili, supportati da mediatori culturali e comunicazione efficace. E poi ci sono le malattie oncologiche prevenibili da vaccino, come quelle legate all’epatite B (HBV) e al papillomavirus (HPV). L’infezione da HBV è particolarmente diffusa tra i detenuti a causa dell’uso di droghe iniettive o di rapporti sessuali non protetti. Anche l’HPV, causa principale del tumore alla cervice uterina e di altre neoplasie, è più diffuso tra le detenute, spesso escluse dai programmi di screening. Qui la raccomandazione è chiara: vaccinare il più possibile, anche con un approccio neutro rispetto al genere, fino ai 45 anni d’età. E quando scoppia un’epidemia? La prevenzione è sempre preferibile alla gestione dell’emergenza. Ma per evitare i focolai serve ben altro: strutture sanitarie adeguate, formazione del personale, controlli regolari, dispositivi di protezione, igiene ambientale. E soprattutto, una strategia che affronti in modo serio il problema del sovraffollamento carcerario. Una sfida non semplice, ma necessaria per raggiungere gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Onu e proteggere la salute di chi vive, lavora o transita nelle carceri. “Grazie all’incontro con il Papa la mia vita è cambiata” di Marco Carta La Repubblica, 30 aprile 2025 La storia di Claudio, ex detenuto. In carcere per reati fallimentari, Claudio Bottan incontra Papa Francesco nel 2016 durante il Giubileo dei detenuti. Nel 2020, poi, viene ricevuto a Santa Marta. Insieme alla sua compagna Simona Anedda racconta la sua storia nelle scuole e nelle università. “Ero abituato a comprarmi tutti con i miei soldi, i miei affetti, le amicizie, quelli che mi stavano intorno. In carcere nel 2016 ho incontrato Papa Francesco e la mia vita è cambiata. Qualche anno dopo gli scrissi una lettera per dirglielo, e lui mi ha voluto vedere di nuovo”. Ci sono storie come quella di Claudio Bottan che non entrerebbero in un romanzo. Imprenditore, accusato di bancarotta, viene condannato a 10 anni. Inizia a girare le carceri di tutta Italia, ma proprio da detenuto la sua vita prende una piega inaspettata. L’impegno in difesa degli altri detenuti, il volontariato, l’amore con Simona Anedda, la donna affetta da sclerosi multipla che non muove più gambe e braccia, ma gira il mondo sulla sua sedia a rotelle. Ma soprattutto il doppio appuntamento con Papa Francesco, che ha segnato la sua esistenza: “La prima volta era il 2016”. Racconti... “Fui scelto come uno dei chierichetti per il Giubileo dei detenuti. E ricordo la sorpresa, lo stupore, il poter stare vicino al Papa. Fu un’emozione immensa. La seconda volta, invece, era il 2020, in piena pandemia. Gli scrissi una lettera senza troppe speranze di risposta, raccontandogli come era cambiata la mia vita dopo quell’incontro. Dopo dieci giorni mi arrivò una telefonata dal suo segretario, Padre Gonzalo, che mi propose di incontrarlo. Tre giorni dopo io e Simona ci trovammo in un’udienza privata a Santa Marta. È stato come vivere un sogno”. Che cosa vi siete detti durante quell’incontro? “Abbiamo parlato della nostra storia. Simona gli ha mostrato i video dei suoi viaggi in sedia a rotelle. Rideva come un matto! Abbiamo ricordato il Giubileo, il cambiamento nella mia vita. È stato un incontro pieno di sorrisi, gesti semplici e profondi. Per questo la sua morte mi ha toccato molto. Sento un vuoto enorme. Ho avuto la fortuna di incontrare Papa Francesco non una, ma due volte, e quei momenti sono rimasti impressi in me”. Torniamo al 2016. Dove si trovava? “A Busto Arsizio. Nei miei sei anni e mezzo di detenzione ho cambiato nove carceri, perché avevo il vizio di scrivere. Scrivere era considerato disturbante: mandavo lettere ai giornali, aiutavo gli altri detenuti a scrivere istanze o reclami, soprattutto chi non sapeva scrivere o gli stranieri. Non fu il Papa a scegliermi come chierichetto: fu il cappellano del carcere. Io venivo da una vita dove mi compravo tutto: affetti, amicizie, rispetto, tutto coi soldi. Quando sono entrato in carcere, quella vita è finita. Sono diventato un povero tra i poveri. Uscito di prigione, grazie ai volontari ho avuto un posto letto, una bicicletta per andare a lavorare. È stata la mia rinascita. Ora sono vice direttore della rivista Voci di Dentro”. Ed è così che ha incontrato Simona? “Sì. Lavoravo nella redazione di un settimanale a Milano. Cercando storie da raccontare, ho trovato quella di Simona, che aveva pubblicato un appello: ‘Non muovo più le gambe, non muovo le braccia, ma voglio portare la mia sclerosi multipla fino ai piedi dell’Himalaya’. Le chiesi di poterla intervistare, premettendole che ero un detenuto. È iniziato un dialogo che dura da nove anni: oggi viviamo insieme e portiamo le nostre testimonianze nelle scuole e nelle università, per abbattere i pregiudizi e la paura verso ciò che non si conosce”. Nel 2020 ha scritto di nuovo al Papa. Perché? “Per ringraziarlo e raccontargli la nostra nuova vita insieme. Gli ho detto che, da quell’incontro del 2016, tutto era cambiato. Che io e Simona eravamo diventati una forza uno per l’altro. È venuto lui stesso a riceverci, senza cerimonie. Era curioso di ascoltare la nostra storia di cambiamento e di coraggio. Abbiamo parlato tanto. Io sono diventato le gambe e le braccia di Simona, ma lei è la mia stampella personale: con la sua forza, la sua vitalità, ha cambiato anche me. C’è una frase del Papa che le è rimasta impressa? “Quando gli abbiamo raccontato la nostra storia mi disse ‘la devi scrivere, va raccontata’. Io gli risposi che sono troppo impegnato a viverla per avere tempo di scriverla. Simona gli chiese un selfie, ma non potendo muovere le mani, chiese al Papa di farlo lui. Lui rispose ridendo che non era pratico con quei “aggeggi tecnologici”. Ma poi, guidato da Simona, riuscì a scattare il selfie! Che eredità lascia Papa Francesco? “Lascia una voce di speranza. Ha sempre chiesto più umanità, più attenzione per i carcerati, ha invocato gesti di clemenza, ma purtroppo le sue richieste non sempre sono state accolte. Ricordo quando, durante un’estate torrida a Rebibbia, arrivarono due gelati per ogni detenuto, inviati dal Papa. Quel gesto fu una carezza più per l’anima che per il corpo. Ho saldato il mio debito con la giustizia. Vivo a Roma con Simona e mi dedico al volontariato. È il mio modo di restituire il bene che ho ricevuto. Non voglio spezzare la catena del bene”. Via al digiuno a staffetta contro il Dl Sicurezza di Angela Stella L’Unità, 30 aprile 2025 A lanciarlo A Buon Diritto, Acli, Antigone, Arci, Cgil, Cnca, Forum Droghe, L’Altro Diritto, La Società della Ragione, Ristretti Orizzonti. Partito ieri il digiuno a staffetta contro il Decreto Sicurezza, che proseguirà fino al 30 maggio, vigilia della manifestazione nazionale a Roma. A lanciarlo le associazioni A Buon Diritto, Acli, Antigone, Arci, Cgil, Cnca, Forum Droghe, L’Altro Diritto, La Società della Ragione, Ristretti Orizzonti. L’azione collettiva prende il via accogliendo anche l’invito di Don Ciotti a digiunare contro le leggi ingiuste, e raccogliendo l’iniziativa lanciata dall’ ex sottosegretario alla Giustizia Franco Corleone, in digiuno dal 13 aprile al venerdì prima di Pasqua. Le organizzazioni promotrici, si legge nel loro comunicato, “intendono denunciare l’approvazione di un provvedimento che limita gravemente lo spazio civico, criminalizza il dissenso pacifico e mette a rischio i diritti fondamentali di cittadine e cittadini”. E ancora: “Il Decreto Legge Sicurezza, privo dei requisiti di necessità e urgenza, è stato emanato scippando il testo su cui era ormai concluso il dibattito parlamentare, con un atto di prepotenza istituzionale, che colpisce il cuore della democrazia italiana. Tra i suoi contenuti più gravi: la criminalizzazione della povertà, delle manifestazioni pacifiche e del dissenso, anche in carcere e nei Cpr; la reclusione di donne incinte o con figli piccoli negli ICAM, che sono veri e propri istituti penitenziari, con la minaccia di separare i bambini dalle madri come sanzione disciplinare; il divieto della coltivazione e commercializzazione della canapa tessile; l’ampliamento dei poteri delle forze di sicurezza; la costruzione di nuovi reati con pene pesanti anche per fatti di sola rilevanza sociale”. Attraverso il digiuno “vogliamo solidarizzare con tutte e tutti coloro che stanno già subendo le conseguenze violente del dl sicurezza, e allargare al massimo il fronte della protesta per l’attenzione ai diritti civili, umani e democratici che questo decreto, presentando evidenti profili di incostituzionalità, mette in discussione”. Intanto arrivano le prime adesioni all’appello degli oltre giuspubblicisti contro il dl sicurezza che “presenta una serie di gravissimi profili di incostituzionalità” e si caratterizza per “torsione securitaria, ordine pubblico, limitazione del dissenso, accento posto prevalentemente sull’autorità e sulla repressione piuttosto che sulla libertà e sui diritti”. Ha scritto sui social Giuseppe Conte, presidente del Movimento 5 stelle: “Aderisco all’appello ‘Per una sicurezza democratica’, contro il decreto-legge sicurezza, promosso e sottoscritto da oltre 250 giuspubblicisti italiani”. Per il leader pentastellato si tratta di “un atto di una gravità assoluta, un ulteriore scardinamento del principio di divisione dei poteri e dei valori liberal-democratici stabiliti dalla nostra Costituzione. È un provvedimento che va oltre le varie forzature già compiute dal governo Meloni”. Per Conte “adesso la battaglia si fa più dura perché al contenuto inquietante per la democrazia si aggiunge, come scrivono i costituzionalisti nell’appello, una forzatura istituzionale di particolare gravità: il Parlamento è stato scippato all’ultimo, dopo centinaia di riunioni e audizioni, e si ritroverà a convertire in legge un decreto legge al quale sarà apposta la fiducia. È un precedente pericolosissimo: mai successa prima una cosa del genere”. Ad aderire anche il segretario e deputato di +Europa, Riccardo Magi: “Non c’era né necessità né urgenza per trasformare il disegno di legge nell’ennesimo decreto legge del Governo. Giorgia Meloni ha forzato la mano per comprimere i diritti e governare con la paura. Come +Europa lo avevamo detto fin dall’inizio dell’iter: questo provvedimento è incostituzionale. E non ci siamo limitati a dirlo: abbiamo depositato una pregiudiziale di costituzionalità per fermarlo. Difendere la democrazia vuol dire difendere la Costituzione, sempre. Anche quando qualcuno pensa di poterla calpestare impunemente”. Perché Mattarella non ha bloccato il Decreto Sicurezza, che è incostituzionale? di Andrea Pugiotto L’Unità, 30 aprile 2025 Oltre 270 costituzionalisti, l’Anm, l’Ucpi. E quando era ancora un disegno di legge, anche l’Osce, il Consiglio d’Europa e l’Onu. Un coro unanime di allarme e denuncia per le violazioni contenute nel provvedimento del governo che baratta la sicurezza dei diritti con un diritto alla sicurezza arbitrario, simbolico, repressivo. Come combatterlo? 1. È raro che oltre 270 costituzionalisti sottoscrivano un appello dove, motivandone i “gravissimi profili di incostituzionalità”, si denuncia di un decreto legge l’”impostazione autoritaria, illiberale e antidemocratica, non episodica od occasionale ma mirante a farsi sistema, a governare con la paura invece di governare la paura”. Allarmismo eccessivo? Il medesimo provvedimento è stato parimenti censurato dall’Associazione Italiana dei Professori di Diritto Penale, dall’ANM ed è causa dell’astensione dalle udienze proclamata, per tre giorni, dall’UCPI. In precedenza, quand’era ancora un disegno di legge all’esame del Parlamento, è stato oggetto di pareri ufficiali egualmente preoccupati da parte dell’OSCE, del Consiglio d’Europa e dell’ONU. Comune la denuncia: il decreto legge n. 48 del 2025 (già in vigore dall’11 aprile) baratta la sicurezza dei diritti con un diritto alla sicurezza arbitrario, simbolico, repressivo. Nel merito, tutti questi avvisi allineano i tanti principi costituzionali e sovranazionali compromessi dall’introduzione - improvvisa e immediata - di oltre una ventina tra nuovi delitti, inedite circostanze aggravanti e giri di vite sanzionatori. A rischio sono l’eguaglianza, la libertà personale e di riunione, la tipicità e determinatezza delle norme penali, la conoscibilità previa e la necessaria offensività delle fattispecie incriminatrici, la sussidiarietà e la proporzionalità nel ricorso alla leva penale. La gravità delle nuove misure - spinta con talune previsioni fino all’odiosità - viene svelata nel loro scopo: reprimere forme di marginalità sociale e di dissenso anche nonviolento, privilegiando un uso esemplare del diritto penale, disinteressandosi dei suoi effetti negativi sulla qualità della vita democratica, sull’efficienza della giustizia, sulle condizioni in carcere e nei centri detentivi per migranti. 2. Non è sempre facile capire ciò che accade mentre accade. Nel diritto, dove la forma è sostanza, c’è un segnale d’allarme inequivocabile: la forzatura delle regole sulla produzione delle norme. La prassi della decretazione d’urgenza, in tal senso, è un catalogo di strappi costituzionali. Decreti legge privi di presupposti (se non esclusivamente mediatici). Reiterati più volte. Adoperati come corsie preferenziali per introdurre - in sede di conversione - norme eterogenee o tutt’altro che necessarie e urgenti. Usati come driver per disposizioni ad efficacia differita, prive di quegli effetti immediati che l’emergenza dichiarata pretenderebbe. Decreti legge omnibus contenenti norme senza un oggetto o una ratio comuni. Oppure confezionati come spiedini, con disposizioni dell’uno infilzate nell’altro, secondo una “tortuosa tecnica di produzione normativa - frutto di un anomalo uso del peculiare procedimento di conversione del decreto legge - che reca pregiudizio alla chiarezza delle leggi e all’intelligibilità dell’ordinamento” (Corte costituzionale, ord. n. 30/2024). Abbiamo visto di tutto, ma non avevamo ancora visto tutto. Sbalorditiva, infatti, è l’attuale scelta del Governo di travasare in un decreto legge un testo legislativo all’esame parlamentare da oltre un anno, già approvato alla Camera e in dirittura d’arrivo al Senato. D’incanto, il decreto legge diventa un disegno di legge governativo a effetto immediato. L’esame parlamentare, se troppo lungo o dall’esito incerto, è interrotto a piacimento dal Governo e surrogato per decreto. I suoi presupposti di straordinarietà, necessità e urgenza tornano ad essere categorie rimesse alla valutazione politica dell’Esecutivo, non più requisiti oggettivi di validità costituzionale riconducibili a situazioni di fatto. 3. Così infragilito e corroso dall’interno, a sgretolarsi definitivamente è il principio (supremo) di separazione dei poteri che serve a prevenire l’arbitrio e a tutelare le libertà. Come insegna la Consulta, il ricorso al decreto legge è prerogativa del Governo, ma entro precisi “limiti costituzionali” e “regole giuridiche indisponibili da parte della maggioranza, a garanzia dell’opzione costituzionale per la democrazia parlamentare e della tutela delle minoranze politiche”: il ruolo propulsore dell’indirizzo politico assunto dall’Esecutivo “non può giustificare lo svuotamento del ruolo politico e legislativo del Parlamento che resta la sede della rappresentanza della Nazione (art. 67 Cost.)” e dev’essere esercitato “nel rispetto degli equilibri costituzionalmente necessari” (sent. n. 146/2024). Di più: abusando della decretazione d’urgenza si altera la Costituzione dei poteri violando - nel contempo - la Costituzione delle libertà, perché la disciplina che regola la produzione di norme primarie (leggi e atti aventi forza di legge) “è anche funzionale alla tutela dei diritti e caratterizza la configurazione del sistema costituzionale nel suo complesso” (sent. n. 171/2007). 4. Come combattere una simile metastasi? Il Giudice delle leggi e degli atti con forza di legge può molto, ma non è abbastanza. Quello della Corte costituzionale, infatti, è un sindacato frammentato e occasionale. Richiede un giudizio in corso, dove trovi applicazione la norma di dubbia legittimità, e un giudice che la impugni. Difficilmente la sua sentenza può intervenire nei 60 giorni di vigenza del decreto. Potrà colpire la relativa legge di conversione, ma raramente lo fa per vizi formali. È certo che molte norme del decreto legge “sicurezza” - una volta convertito in legge - cadranno sotto la scure della Consulta perché illegittime nel merito, ma ci vorrà tempo. Nell’attesa, produrranno i loro effetti incostituzionali spesso irreversibili, specialmente in ambito penale (come in questo caso). Potrebbe molto il Parlamento chiamato a convertire in legge il decreto governativo, diversamente destinato a morire ab origine. Lo imporrebbe la difesa del proprio ruolo, altrimenti subalterno. Ma il suo è un esame che risponde a logiche più politiche che giuridiche, spesso forzato dal “voto in blocco” determinato dalla questione di fiducia posta dal Governo (nell’attuale legislatura è accaduto in una camera nel 59,2% dei casi di conversione, in entrambe nel 42,2%). Un esame, per di più, soffocato dall’invalso “monocameralismo alternato”, dove un ramo del Parlamento si limita a prendere atto della conversione in legge deliberata dall’altro (com’è accaduto per il 100% dei 77 decreti legge convertiti nella legislatura in corso). Che fare, allora? 5. Insufficienti o inefficienti i rimedi successivi all’entrata in vigore del decreto legge, andrebbe esercitato quello preventivo spettante al Presidente della Repubblica: è lui, che “emana i decreti aventi valore di legge” (art. 87, comma 5, Cost.). Qui, davvero, la quantità è qualità delle cose. Con l’unica eccezione avvenuta il 6 febbraio 2009 in una nota vicenda (il “caso Englaro”), non si è mai pubblicamente registrato il rifiuto presidenziale di emanare uno qualsiasi degli innumerevoli decreti legge governativi. Eppure essi vengono “presentati” al Capo dello Stato (art. 15, legge n. 400 del 1988) e non trasmessi perché, se la loro adozione è responsabilità del Governo, la relativa emanazione è atto presidenziale mediante il quale esercitare un controllo “di intensità almeno pari a quello spettante allo stesso Presidente sulle leggi” (sent. n. 406/1989). Un controllo in cui far valere i limiti alla decretazione d’urgenza elaborati da un’articolata giurisprudenza costituzionale che nel Capo dello Stato (più che nel Governo e nel Parlamento) cerca - finora inutilmente - il suo diretto interlocutore. Servirebbe dal Quirinale un segnale di discontinuità: a difesa della regola costituzionale che attribuisce la funzione legislativa al Parlamento (e non al Governo) e a tutela dei diritti fondamentali, se esposti a grave pericolo dagli effetti pro tempore di un decreto legge che entra in vigore immediatamente. Per come sono andate le cose, ahimè, l’emanazione dell’abnorme decreto legge n. 48 del 2025 rappresenta un’occasione non colta. Il fronte unito dei costituzionalisti contro il Decreto Sicurezza di Montesquieu La Stampa, 30 aprile 2025 Se è vero, e lo è sacrosantamente, che al verificarsi di forzature istituzionali di particolare gravità l’insieme dei costituzionalisti deve fare corpo, sostituirsi alle voci dei singoli, e prendere pubblica, ufficiale, preoccupata posizione, si deve apprezzare che ciò sia successo quando il già inquietante disegno di legge “sicurezza”, nel mezzo di un laborioso cammino parlamentare, è stato inopinatamente trasformato, previa acrobatica trasfusione, in un decreto legge. Con quale improvvisa, quasi esplosiva presenza dei requisiti richiesti dalla Costituzione si può ben immaginare. Correggendo però un antico e saggio proverbio, è il caso di dire che, in questa circostanza almeno, il buon giorno si può vedere non solo dal mattino; ma anche dal pomeriggio, quando una denuncia come questa si è materializzata, rispetto alla crisi annosa in cui versano le Camere. Pomeriggio inoltrato, addirittura. È il caso dell’allarme citato, lanciato da un numero continuamente crescente di giuspubblicisti, guidato da alcuni dei presidenti emeriti della Consulta: spesso meritevoli di guidare il gruppo più per la loro personale qualità, che non per un incarico che premia una burocratica anzianità ben più del merito. Sta di fatto che il documento dei costituzionalisti si sostituisce a un brusio, tutt’al più, che ha fatto nel tempo da flebile sottofondo a una progressiva e massiccia spoliazione delle principali funzioni e prerogative dei due rami del Parlamento, da parte di tutte le categorie e le sedi istituzionali interessate. Spoliazione che dura da anni, meglio decenni, indisturbata, fino a essere stabilizzata nella sede delle nuove funzioni, l’esecutivo. Un processo che prende le mosse da quel triennio iniziale degli anni Novanta che ha visto, insieme: la caccia ai politici corrotti da parte di una procura implacabile; e, di conseguenza, la dissoluzione di partiti di una quarantennale, stessa (almeno nel nucleo centrale) maggioranza, che ha lasciato orfani i rispettivi militanti ed elettori. Pronti, o costretti, a tuffarsi nelle braccia accoglienti di un astuto e geniale politico non politico, meno populista di quanto lo si voglia dipingere, almeno a guardare i suoi rapporti storici con i politici che si è indotto a sostituire, non potendo più contare su di loro. Non che non vi fossero già spuntati, nella fase finale della quarantennale Prima Repubblica, i primi, allora innocui maxiemendamenti: ad opera non di governi insofferenti della strabordante centralità del Parlamento, ma della totalità dei partiti, che non sopportava la presenza di quattro, all’inizio, deputati radicali, aggrappati come provocatorie sanguisughe alla lettera dei regolamenti di Montecitorio, almeno su certi temi. Ad esempio, sul tema del finanziamento pubblico ai partiti, avversato dalla piccola strabiliante pattuglia pannelliana, a tal punto da spingere gli altri seicento circa a permettere al governo un cosiddetto maxiemendamento (piccola roba rispetto al dopo): presentato con la clausola che al “nemico” fosse consegnato allo scadere del termine per la presentazione di subemendamenti. Il tutto con la spudorata fantasia di definire il gruppuscolo radicale “antisistema”, senza tema del ridicolo. Nulla rispetto a quanto successo, con implacabile gradualità, negli anni successivi allo sconquasso che portò alla rivoluzione berlusconiana. Uno scontro istituzionale tra neogovernisti e vetero-parlamentaristi: stravinto dai primi, per acquiescenza, perché governare senza doversi trascinare la zavorra delle strettoie parlamentari piaceva, nei turni di proprio governo, anche agli eredi dei partiti fedeli alla nostra Costituzione. Con il trasloco degli strumenti per azionare le funzioni e le prerogative dalle Camere e dai parlamentari al vicino palazzo Chigi. Da qui, un processo che ha portato, con successivi passaggi, alla massima prevaricazione costituzionale immaginabile: quella di un iter legislativo nel quale nessun passaggio fosse gestito dagli organismi delle Camere (Commissioni, persino Assemblee), e nessun potere rimanesse ai singoli parlamentari. Né di emendamento, né di voto di merito. Eccezion fatta per quello che diveniva, via via, lo strumento ordinario della relazione tra esecutivo e Camere, un continuo, ininterrotto voto di fiducia di queste ultime nel primo. Questo sul terreno legislativo: dovendosi a ciò aggiungere la scomparsa di un rapporto tra ministri e Camere che non fosse lasciato alla piena discrezionalità dei primi. In sintesi assoluta, obiettivo ricercato e raggiunto, la riduzione del terreno costituzionale di confronto tra maggioranza e opposizioni a una partita con un solo giocatore, il governo. Ora, la scesa in campo formale della cultura della Costituzione sembra diretta a rimettere in funzione una relazione corretta tra i due principali poteri del confronto istituzionale e costituzionale, legislativo ed esecutivo. Proprio mentre nel resto del pianeta sembrano perdere i connotati principali, una via l’altra, le altre democrazie, a partire da quella, simbolicamente principale, finita per volontà dei propri elettori nelle mani di un presidente che sembra sconfessare tutti i tratti fondamentali di un sistema liberale, all’interno e nelle proprie relazioni internazionali. Per queste ragioni, da unirsi alla rarefazione della cultura costituzionale nella nuova, potente maggioranza estranea da sempre al lavoro e al prodotto dei Costituenti, e per l’impostazione complessiva del documento dei costituzionalisti, legata a un declino complessivo del ruolo delle Camere più che a un pur grave sopruso singolo, può darsi che sia la tanto attesa volta buona: per un ritrovato rispetto della nostra Costituzione, da parte dei partiti che hanno fin qui trascurato la propria matrice costituzionale, e degli organi di garanzia della nostra Carta, fino a oggi lasciati nella condizione di spettatori, per promuoverne un intervento oramai troppo atteso. Decreto Sicurezza. “Incostituzionale, è deriva autoritaria” di Angelo Picariello Avvenire, 30 aprile 2025 Documento dei giuristi. Il testo proposto da tre presidenti emeriti della Consulta (Zagrebelsky, Silvestri e De Siervo) e gli ex vicepresidenti Cheli e Maddalena, ha già superato le 3mila firme. Sono già 3.500, in continuo aumento, le firme in calce all’”appello per una sicurezza democratica” lanciato da un gruppo di 236 giuristi, fra cui tre presidenti emeriti della Consulta, contro il “decreto legge sicurezza” per i profili di incostituzionalità che ancora conterrebbe, malgrado le modifiche dopo la sua trasformazione dall’iniziale ddl. Il testo aperto alla firma di intellettuali ed esponenti della società civile, vede la convergenza di tutte le forze di opposizione. “Ci sono momenti nei quali accadono forzature istituzionali di particolare gravità, di fronte alle quali non è più possibile tacere ed è anzi doveroso assumere insieme delle pubbliche posizioni”. Il riferimento è al testo cambiato in corso d’opera del ddl sicurezza, che “dati i discutibilissimi contenuti, è stato trasformato dal Governo in un ennesimo decreto legge, senza che vi fosse alcuna straordinarietà, né alcun reale presupposto di necessità e di urgenza, come la Costituzione impone”. Il decreto, come si ricorderà, era stata la soluzione di ripiego che la maggioranza aveva escogitato, mentre l’iniziale proposta di legge, già approvata dalla Camera era in seconda lettura al Senato ma emergevano dagli uffici giuridici del Quirinale dei punti critici - che la maggioranza accettava di correggere - in relazione ad esempio alla “stretta” sulle detenute madri e al divieto ai migranti irregolari di detenere delle “sim” telefoniche. La Lega accettava la soluzione del decreto in quanto il testo, sebbene emendato, sarebbe diventato immediatamente operativo, inclusa la previsione per la copertura delle spese legali per le forze dell’ordine sotto processo. Il testo ha avuto il via libera del Quirinale ma la promulgazione del capo dello Stato (che, come Mattarella ha già avuto modo di chiarire in riferimento alla legge sulla autonomia differenziata, non comporta di per sé condivisione del contenuto, e non pregiudica l’esame di legittimità costituzionale, che compete alla Consulta) non chiude il caso. Per i firmatari del documento il decreto, definito “l’ultimo anello di un’ormai lunga catena di attacchi volti a comprimere i diritti e accentrare il potere”, presenta una serie di “gravissimi profili di incostituzionalità, il primo dei quali consiste nel vero e proprio vulnus causato alla funzione legislativa delle Camere, attraverso un plateale colpo di mano del Governo”. Il documento reca la firma dei presidenti emeriti della Consulta Zagrebelsky, Silvestri e De Siervo, degli ex vicepresidenti Cheli e Maddalena, dell’ex procuratore capo di Milano Eugenio Bruti Liberati, dell’ex procuratore Antimafia Franco Roberti, dell’ex presidente del Consiglio di Stato Alessandro Pajno, dell’ex procuratore di Torino Armando Spataro, figura di punta della lotta al terrorismo. Ai giuristi si sono aggiunti intellettuali come i filosofi Massimo Cacciari, Mauro Ceruti ed Eugenio Mazzarella, gli storici Agostino Giovagnoli e Alessandro Barbero, lo storico dell’arte Tommaso Montanari, l’economista Gianfranco Viesti, la politologa Nadia Urbinati, il sociologo Nando Dalla Chiesa, don Virginio Colmegna, il presidente delle Acli Emiliano Manfredonia. Poi è stata la volta dei politici. A Giuseppe Conte che ha parlato di norma “liberticida”, si è aggiunto il verde Angelo Bonelli, per Avs che ci vede un “modello di repressione delle libertà democratiche”. Fra le firme quella del leader di +Europa Riccardo Magi e, in area dem, Giorgis, Alfieri, Toia, Tarquinio e Castagnetti. Le critiche nel merito si intrecciano con quelle sul metodo: i firmatari vedono “un disegno estremamente pericoloso di repressione di quelle forme di dissenso” e, per di più “un irragionevole aumento qualitativo e quantitativo delle sanzioni penali che - sostengono i giuristi - sconsiglierebbero il ricorso alla decretazione d’urgenza, dal momento che il principio di colpevolezza richiede che chi compie un atto debba poter sapere in anticipo se esso è punibile come reato mentre, al contrario, l’immediata entrata in vigore di un decreto legge ne impedisce la preventiva conoscibilità”. Inoltre, viene denunciata la violazione di svariati principi costituzionali, da quello di uguaglianza, alla libertà personale, alla libera manifestazione del pensiero. Il principio di uguaglianza, in particolare “non consente in alcun modo di equiparare i centri di trattenimento per stranieri extracomunitari al carcere o la resistenza passiva a condotte attive di rivolta”. In contrasto con l’articolo 13 della Costituzione e la tutela della libertà personale viene invece considerato “il cosiddetto “daspo urbano” disposto dal questore che equipara condannati e denunciati”, ma anche” la previsione con cui si autorizza la polizia a portare armi, anche diverse da quelle di ordinanza e fuori dal servizio”. Nel mirino anche la genericità dell’aggravante “che l’illecito avvenga “in occasione” di pubbliche manifestazioni”. Viene denunciata una vera e propria “torsione securitaria”, una “limitazione del dissenso”, e “un’impostazione autoritaria, illiberale e antidemocratica mirante a farsi sistema. Confidiamo - conclude il documento - che tutti gli organi di garanzia costituzionale mantengano alta l’attenzione e censurino questo allontanamento dallo spirito della nostra Costituzione”. “Nel Decreto Sicurezza norme repressive incostituzionali e inutili”. Parla Petrelli di Ermes Antonucci Il Foglio, 30 aprile 2025 “Nessuno dei nuovi reati e nessuno degli spropositati aumenti di pena contenuti nel decreto Sicurezza modificheranno qualcosa sotto il profilo della sicurezza reale. Con un provvedimento che appare violare numerosi princìpi costituzionali (come proporzionalità, ragionevolezza, offensività e tassatività), il governo incide sulla sicurezza percepita, ammettendo la propria impotenza rispetto al controllo dei fenomeni criminali, ben sapendo che non sono certo gli aumenti di pena a dissuadere gli autori dei reati”. Lo dichiara, intervistato dal Foglio, Francesco Petrelli, presidente dell’Unione delle camere penali italiane (Ucpi), che proprio per protestare contro l’adozione di “politiche securitarie e carcerocentriche inutili e inique” ha deliberato tre giorni di astensione, dal 5 al 7 maggio, con una manifestazione nazionale a Roma. Il presidente dei penalisti denuncia innanzitutto “l’abuso della decretazione d’urgenza” del governo, che ha trasformato in decreto legge un disegno di legge che era in discussione in Parlamento da oltre un anno: “La Corte costituzionale in passato ha ritenuto che fosse possibile la trasposizione dei contenuti da un disegno di legge in un decreto legge, ma al tempo stesso è sempre stata molto severa nell’imporre l’individuazione dei presupposti della necessità e dell’urgenza, ai quali invece il decreto Sicurezza fa riferimento in termini assolutamente generici”, sottolinea Petrelli. Ma ad apparire del tutto irragionevoli sono soprattutto i contenuti del decreto. “Ci sono norme, come quella relativa all’aggravante dei reati commessi all’interno o nelle adiacenze delle stazioni ferroviarie o metropolitane, che appaiono veramente senza senso. Intanto il governo dovrebbe spiegare il bisogno di aggravare i reati commessi nelle stazioni e non quelli commessi in un centro commerciale, un altro luogo molto frequentato nel quale i profili della sicurezza assumono uguale pertinenza”, dice il presidente dell’Ucpi. “Poi faccio notare un dettaglio - prosegue - È vero che rispetto al testo originario l’applicazione dell’aggravante è stata limitata ai reati contro la libertà della persona e il patrimonio. Però ci si dimentica che esistono dei reati che sono plurioffensivi. Ad esempio il peculato, che è un reato contro la Pa, è anche un reato contro il patrimonio, di conseguenza sarebbe punita più gravemente la condotta di un capostazione che commette un peculato nel suo ufficio rispetto a quella di un direttore del ministero che commette un analogo reato nel suo ufficio ministeriale. Sono situazioni paradossali che si spiegano solamente con questa spinta securitaria, più simbolica che reale”. “Si pensi anche al reato di occupazione di immobili - aggiunge Petrelli - La condotta era già punita, seppur con pene meno elevate. È chiaro l’ambito in cui si inserisce quest’opera repressiva: quello delle occupazioni che hanno origine da un evidente disagio sociale, da una carenza di controlli di tipo amministrativo e dalla scarsissima o nulla presenza delle forze dell’ordine in determinati contesti. È agendo su queste leve che si risolvono quei problemi, non prevedendo giri di vite di chiara marca repressiva. Tutto questo sta a significare la volontà di voltare pagina rispetto ai princìpi fondamentali del diritto penale liberale, che vede nel ricorso allo strumento penale l’extrema ratio”. “Un’altra materia delicatissima è quella della rivolta in carcere. Anche qui c’è da ricordare che le condotte di minaccia, violenza, lesioni e danneggiamento in carcere venivano già punite”, afferma Petrelli. “Col decreto si è però voluto criminalizzare addirittura la resistenza passiva, che se commessa al di fuori di un carcere non è punita, ma se viene commessa all’interno di un carcere diventa un reato punito con una pena severissima (fino a cinque anni di reclusione). Tra l’altro, la condanna implica l’ostatività all’eventuale futura concessione di misure alternative alla detenzione”. “Come se non bastasse, analoga norma si applica ai Cpr e ai centri di trattenimento dei migranti. Siamo di fronte a una violazione clamorosa del principio di uguaglianza, perché in questi centri sono ristrette persone che non hanno commesso alcun reato”. L’introduzione di nuovi reati, l’aumento delle pene e le nuove ostatività, sottolinea Petrelli, “finiranno inevitabilmente per determinare un aumento del fenomeno del sovraffollamento carcerario, che è già drammatico, contribuendo anche all’aumento dei suicidi in carcere”, 29 nei primi quattro mesi dell’anno, un record. “Il governo è rimasto sordo alle nostre segnalazioni e agli inviti del presidente della Repubblica Mattarella, del vicepresidente del Csm Pinelli e di Papa Francesco di adottare provvedimenti di clemenza come amnistia e indulto o anche provvedimenti di liberazione anticipata speciale. Neppure la morte di Papa Francesco sembra aver modificato questo atteggiamento di totale chiusura”. “Dal 5 al 7 maggio ci asterremo dalle udienze, svolgendo una manifestazione a Roma, proprio per indicare la necessità di soluzioni di questo genere, che vanno in senso totalmente difforme rispetto a provvedimenti securitari come il decreto adottato”, conclude Petrelli. “Sul Decreto Sicurezza il Parlamento è stato esautorato” di Emilio Minervini Il Dubbio, 30 aprile 2025 La modalità con cui è stato approvato il decreto sicurezza è un vero e proprio “scippo alle Camere”. Non ha dubbi Roberta Calvano, ordinario di Diritto Costituzionale, che parla di “salto di qualità” di questo governo riguardo all’utilizzo della decretazione d’urgenza. Si può dire che il Parlamento sia stato zittito in questo caso? Il disegno di legge era all’esame del Senato, dopo lunghi mesi passati alla Camera. L’esame era ancora in corso: il Parlamento più che zittito direi che sia stato esautorato. I parlamentari sono stati privati della loro funzione, se anch’essi sono acquiescenti e non difendono le loro prerogative, questo potrebbe essere un ulteriore aspetto da segnalare di questo modo di procedere. Il Governo ha deciso di adottare un decreto legge in assenza di casi straordinari di necessità e urgenza. Il Parlamento non è privato della possibilità di lamentare questo modo di procedere, così come in sede di conversione in legge i parlamentari hanno modo di esprimersi. Entrando nel merito del decreto, potrebbe rappresentare un modo per controllare e punire il dissenso? Per quanto riguarda il dissenso ci sono specifici articoli che riguardano la possibilità di esprimere dissenso e rispetto a quelli si diceva che era un tentativo di reprimere il dissenso. C’è la criminalizzazione di determinati tipi di protesta, come i blocchi stradali, o anche di manifestazioni di protesta passiva nelle carceri. Alcuni articoli sono destinati a questo. C’è più in generale un utilizzo abnorme del diritto penale con l’introduzione di un numero significativo di nuovi reati o l’aggravamento di fattispecie già previste. A differenza delle leggi ordinarie, caratterizzate da un periodo di vacatio legis, normalmente di 15 giorni, prima della loro entrata in vigore, l’art. 77 Cost. stabilisce che il decreto legge entri immediatamente in vigore: ciò porta ad una compressione del principio di colpevolezza, il quale prevede che la norma sia conoscibile in anticipo per poter essere sanzionato l’illecito che essa descrive. La decretazione d’urgenza tradisce la volontà esautorare parlamento o è una tendenza dei tempi in un mondo immerso nell’immediatezza? Qui c’è un salto di qualità. Lamentavamo da decenni l’abuso dei decreti legge rispetto alle precedenti legislature c’è stato un ulteriore incremento durante la pandemia dovuto all’emergenza, ed un ulteriore abuso successivamente. Ora noi assistiamo a un ulteriore aggravamento della situazione. Il governo, in carica dal 2022, ha ulteriormente incrementato l’utilizzo, ma in questo specifico decreto legge io trovo un salto di qualità per il fatto che c’è stato uno “scippo” alle Camere. “Scippo” che è grave a maggior ragione se si tiene conto che il testo del ddl è stato discusso 6 mesi alla camera e più di 6 mesi al Senato, questo per l’elevato numero di criticità presenti nel testo e l’ostruzionismo fatto delle opposizioni proprio per queste criticità. Le camere penali insieme a costituzionalisti, professori di diritto penale, molti magistrati hanno sollevato diversi rilievi nel corso delle audizioni parlamentari. All’esito di queste criticità denunciate da tutte le parte audite, che in genere è difficile si trovino così d’accordo, si sottrae il provvedimento all’esame del Parlamento. Questo è il cambio di paradigma. Quando il Parlamento evidenzia nel suo dibattito una problematica, una criticità di un provvedimento, l’esecutivo avoca a sé la funzione legislativa. È un’alterazione della fisiologia dei rapporti tra parlamento e governo. L’urgenza qui sembra derivare dalla necessità di aggirare il dibattito parlamentare. Le norme inserite nel decreto sono omogenee? Il decreto è fortemente disomogeneo, tratta temi diversi. Lo stesso capo dello Stato in passato ha scritto alle Camere per lamentare la disomogeneità dei decreti legge come problema nel problema dell’abuso della decretazione d’urgenza. C’è poi un altro tema, ci sono due binari nell’ambito dei lavori parlamentari: un binario è il procedimento legislativo ordinario, l’altro è quella della conversione dei decreti legge, che è diverso. Non è soltanto una corsia preferenziale ma la legge di conversione del decreto legge ha una competenza specializzata, può fare solo quella cosa circoscritta, quindi sostanzialmente non ci sono gli stessi margini di manovra che le camere hanno nell’esaminare un disegno di legge. Se si sceglie una via si deve seguire fino in fondo. Così si spogliano le Camere della funzione legislativa, perché adesso in sede di conversione del decreto legge agiranno su un testo già in vigore, gli eventuali emendamenti avranno efficacia solo per il futuro e potrebbero esserci anche procedimenti penali in corso nel momento della conversione. Sulla separazione delle carriere ora il Governo ha un problema di Valentina Stella Il Dubbio, 30 aprile 2025 Le opposizioni hanno presentato mille emendamenti e ci vorrebbero sei mesi per esaminarli tutti: la maggioranza garantirà il confronto o forzerà la mano? La maggioranza è a un bivio: garantire il confronto sulla riforma costituzionale della separazione delle carriere al Senato o mettere in atto qualche forzatura del regolamento per arrivare quanto prima all’approvazione, sacrificando il dialogo con le opposizioni. Nel primo caso per i partiti azionisti del Governo Meloni c’è il rischio, come ipotizzato dal presidente della commissione Affari costituzionali Alberto Balboni ieri su questo giornale, che per votare i mille emendamenti presentati da Pd, Movimento Cinque Stelle e Alleanza Verdi e Sinistra si impieghino addirittura sei mesi. Per i promotori della riforma targata Nordio sarebbe troppo: significherebbe procrastinare la data del referendum popolare e farla avvicinare non senza timore alle elezioni del rinnovo del Parlamento, quando fisiologicamente cala il consenso verso la maggioranza e avendo concesso più tempo all’Anm per fare campagna comunicativa contro la modifica dell’ordinamento giudiziario. Dall’altra parte però c’è il pericolo che l’Esecutivo e i partiti che lo appoggiano possano divenire facile bersaglio delle opposizioni, facilitati nel compito di accusarli di voler modificare la Costituzione senza interloquire con le minoranze parlamentari. Non dimentichiamo poi il contesto in cui ci muoviamo. Secondo Openpolis “il governo Meloni ha raggiunto il numero più alto in valori assoluti di decreti legge pubblicati nelle ultime 4 legislature (84)” ed è di queste settimane la continua polemica per aver trasformato il ddl sicurezza in un dl. La mossa politica di Meloni e soci è riuscita persino a compattare nelle critiche al metodo e al merito Anm, Ucpi e accademia dei giuristi. Se a questo scenario si aggiungesse anche una ennesima esautorazione del Parlamento per mettere in tasca la riforma costituzionale della separazione delle carriere il prima possibile, e sulla quale puntano molto Meloni e Nordio, le opposizioni, sul piano generale della dialettica dentro e fuori il Parlamento, avrebbero un ulteriore e forte argomento per parlare di “strappo alla democrazia in una logica autoritaria”. E si arriverebbe così al referendum di primavera quasi in un clima di accusa contro una “destra golpista”. Ma praticamente cosa potrebbe accadere in questi giorni nelle commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia di Palazzo Madama, dove ieri è iniziato il voto sugli emendamenti? Potrebbe essere messo in atto il cosiddetto “canguro”, espressione puramente giornalistica inesistente nella normativa, ma che consiste in una prassi parlamentare anti- ostruzionismo, per cui si votano gli emendamenti accorpando quelli in tutto simili e quelli di contenuto analogo? Come ci spiega il senatore del Pd Andrea Giorgis, ordinario di diritto di costituzionale e già sottosegretario alla Giustizia, “non è mai successo né in Commissione né in Aula che la maggioranza di governo stroncasse il confronto su di una riforma costituzionale ricorrendo alla cosiddetta tagliola. E sarebbe anche una forzatura che non ha precedenti quella di decidere di impedire la discussione e il voto sugli emendamenti in commissione, e andare in Aula senza la nomina di un relatore” per poi votare, come se nulla fosse, la riforma costituzionale. Secondo Giorgis “è abbastanza curioso chiedere alle opposizioni, come fa Balboni, di ridurre gli emendamenti per discuterli più a fondo se contemporaneamente si dice - come ha fatto Nordio - che la proposta di riforma del Governo non è modificabile. Balboni sta cercando di dire che le parole di Nordio non vanno prese sul serio e che anche la maggioranza sta pensando di correggere le parti più insostenibili della riforma? Se è così lo dica con chiarezza, dica che anche la maggioranza si è resa conto che la separazione dei Csm, il sorteggio, un’Alta Corte per la sola magistratura ordinaria non hanno senso e rischiano solo di minare l’autonomia della magistratura”. E rispondendo al suo collega Giovanni Guzzetta, che in una precedente intervista ci disse che “la Costituzione consente alla maggioranza di fare una riforma senza l’accordo con l’opposizione, salvo poi esporsi al rischio del referendum” e che “ovviamente, anche ai fini di un maggior consenso, si può valutare questo aspetto, ma non è un problema di costituzionalità, bensì di opportunità politica”, il senatore Giorgis replica: “In ogni caso le norme costituzionali, per loro natura, non dovrebbero mai essere norme definite e volute dalla sola maggioranza di governo. Si tratta di una questione di costituzionalità sostanziale, materiale”. Rispetto all’appuntamento plebiscitario ha concluso: “Il ricorso al referendum di cui all’art 138 è l’eccezione, non la regola: la regola dovrebbe essere l’accordo, il compromesso, la condivisione. È molto grave, e in palese spregio della natura costituzionale delle norme che si vorrebbero introdurre, rinunciare fin da subito a ricercare un accordo”. Purtroppo “questo modo di procedere della maggioranza e del Governo mostra una insofferenza a rispettare i limiti posti dalla costituzione a tutela del pluralismo e delle minoranze. Nello Stato costituzionale di diritto, chi vince le elezioni non può tutto”. Femminicidi, i braccialetti non bastano di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 30 aprile 2025 Non funziona se resta monco sia di informazione per chi lo deve indossare, sia di formazione per chi ne deve controllare gli avvisi. Il paracadute è una bella sicurezza, ma, se sull’aereo lo si butta in mano al passeggero senza istruzioni d’uso e senza che a terra ci sia poi chi dia assistenza, non evita ci si sfracelli. Stesso rischio corre il braccialetto elettronico se resta monco sia di informazione per chi lo deve indossare, sia di formazione per chi ne deve controllare gli avvisi. A Torino l’ergastolo è stato inflitto al maltrattante che - inibito dai giudici dall’avvicinare la madre dei suoi figli, ma da lei ammesso di nuovo in casa come spesso capita in questi rapporti malati - il 23 settembre 2024 l’ha uccisa senza che gli abbinati sensori di lui e lei lo evitassero. C’è chi si schiera col pm e presidente Anm Cesare Parodi (“il braccialetto va ricaricato come un cellulare, qui non lo è stato né dall’imputato né dalla donna”), e chi con le associazioni insorte (“inaccettabile dare ancora una volta la colpa alla donna sostenendo sia stata lei a sbagliare”). Ma il punto è un altro. Se un braccialetto si sta per scaricare, genera avvisi di esaurimento batteria; quando si spegne, emette segnali di “shutdown”; e quando va in “shutdown”, ogni 70 minuti genera un segnale di “missing status check”, cioè di dispositivo non raggiungibile. Dal 19 agosto al 23 settembre il tracciatore dell’uomo generò allarmi “missing” tutti i giorni ogni 70 minuti, idem quello della donna. In altri Paesi la donna riceve spiegazioni su come funziona e come va manutenuto il sensore anti avvicinamento; chi è deputato ai controlli è istruito da protocolli di condotta; il monitoraggio degli allarmi è separato dall’intervento delle polizie, affidato a società esterne o tenuto nell’alveo pubblico ma sempre con operatori formati per contattare le persone, avvisarle che la batteria sta per scaricarsi, spiegare cosa fare, testare lo stato psichico dell’interlocutore, decidere se allertare le polizie. Senza una rete intorno, resta solo un pezzo di plastica. Che, per paradosso, dà alla vittima una falsa percezione di sicurezza, e all’aggressore nessun concreto freno. Violenze nella caserma di Aulla, 22 carabinieri condannati: “Qui menavamo di brutto” di Luigi Mastrodonato Il Domani, 30 aprile 2025 Il tribunale di Massa ha emesso la sentenza di primo grado che commina in totale 70 anni di carcere nei confronti degli uomini in divisa. Tra le contestazioni ci sono i reati di lesioni, violenza sessuale e sequestro di persona. Le indagini partite nel 2011, con l’esposto di un cittadino di origine marocchina. Sono quasi 70 gli anni totali di carcere comminati a 22 carabinieri della caserma di Aulla. Nell’aula gremita del tribunale di Massa è arrivata la sentenza di primo grado di un’indagine iniziata nel 2011, quando un cittadino di origine marocchina aveva presentato un esposto per lesioni, denunciando di aver subito maltrattamenti da parte dei carabinieri. Da lì a cascata sono arrivati altri esposti e nuove testimonianze su presunti abusi in divisa a carattere sistematico e metodico, dal momento che riguardavano diversi militari operanti nella Lunigiana. I reati sono quelli, tra gli altri, di lesioni, violenza sessuale, sequestro di persona e abuso d’ufficio. E non mancano, nelle intercettazioni, riferimenti ai metodi mafiosi e frasi razziste. Violenze sistematiche e metodiche - “Quello che succede all’interno della macchina rimane all’interno della macchina, non deve scoprirlo nessuno, dal brigadiere in su. È cosa nostra, proprio come la mafia!”. Ecco come parlavano alcuni dei carabinieri della caserma di Aulla, in provincia di Massa-Carrara, secondo quanto emerso dalle intercettazioni. Quello che succedeva erano abusi in divisa di ogni tipo, come stabilito nella giornata del 28 aprile dalla giudice Antonella Basilone, che al tribunale di Massa ha emesso la sentenza di primo grado comminando pene fino a 9 anni e 8 mesi a 22 carabinieri della caserma della Lunigiana. I capi d’imputazione erano addirittura 189 e tra i reati contestati ci sono le lesioni, il falso in atti, l’abuso d’ufficio, il rifiuto di denuncia, il sequestro di persona, il possesso abusivo di armi e perfino la violenza sessuale. Un primo esposto nel 2011 da parte di un cittadino di origine marocchina che denunciava maltrattamenti in caserma ha portato all’attivazione delle intercettazioni telefoniche. Un nuovo esposto coerente con il primo, arrivato nel 2016, ha portato alla disposizione delle intercettazioni ambientali. E con il passare del tempo si sono accumulate decine di nuove testimonianze da parte di persone fermate e che hanno in qualche modo interagito con quei militari, a denunciare sempre lo stesso schema di presunte violenze in divisa. Razzismo e violenze sessuali - “Qui menavamo di brutto”. “Lo hanno gonfiato come una zampogna”. Sono alcuni degli elementi, emersi dalle intercettazioni dei carabinieri, della violenza sistemica che si consumava nella caserma di Aulla. Ci sono episodi di persone fermate che vengono minacciate con la pistola in bocca. C’è un caso di violenza sessuale, con un uomo sempre di origine straniera sottoposto a una perquisizione rettale non giustificata. C’è un carabiniere che dice di aver sparato a un fermato durante l’interrogatorio, senza che si sappia che ne è stato poi della persona colpita. Ci sono persone multate e sanzionate senza motivo, solo come forma di esercizio del potere e dell’autorità. Dalle intercettazioni emergono anche tanti insulti razzisti a sfondo violento. “Sono scimmie”, “devono mangiare banane”, “mettere le mani addosso ai marocchini mi fa schifo perché puzzano”, sono alcune delle frasi che emergono nei dialoghi tra i carabinieri di Aulla. Alcuni cittadini stranieri hanno denunciato di aver subito violenze e umiliazioni in caserma anche in situazioni apparentemente non conflittuali, come in occasione del rinnovo dei documenti. Nelle carte dell’inchiesta si legge poi di scomparsa della droga sequestrata e di alterazione dei verbali. Come la caserma Levante - In attesa delle motivazioni della sentenza di primo grado, che verranno pubblicate nel giro di 90 giorni, lo schema che emerge riguardo alla caserma di Aulla ricorda sotto molti aspetti i fatti della caserma Levante di Piacenza. Quella fu la prima volta in Italia in cui venne sequestrata un’intera caserma, con sette militari arrestati nel 2020 e condanne fino a 12 anni comminate nel 2021. Nel caso di Aulla il numero di carabinieri coinvolti è però tre volte tanto e questo dà un’impronta ancora più sistematica, e grave, alla vicenda. Nel 2017, nei primi mesi dell’inchiesta di Aulla, l’onorevole Maurizio Gasparri e altri politici, anche di centrosinistra come il sindaco della città toscana Roberto Vallettini (avvocato di alcuni dei militari indagati), avevano organizzato presidi e manifestazioni di solidarietà ai carabinieri. Ora per quegli stessi carabinieri è arrivata la condanna di primo grado, che riaccende il dibattito sull’annoso problema degli abusi in divisa in Italia. La difesa in questi anni ha contestato la validità delle prove, parlando perfino di un complotto da parte di cittadini stranieri organizzati contro le forze dell’ordine. E ora ha annunciato che la sentenza verrà impugnata. Bologna. “Giovani adulti alla Dozza. Promiscuità e problemi” di Nicoletta Tempera Il Resto del Carlino, 30 aprile 2025 Non solo al Pratello. Anche alla nuova sezione dei giovani adulti aperta alla Dozza sono stati registrati i primi problemi, legati alle intemperanze dei giovani detenuti. “Alcuni dei ristretti - denuncia Salvatore Bianco della Fp Cgil - si stanno rendendo protagonisti di eventi critici, come quelli accaduti lo scorso 24 aprile, quando un detenuto avrebbe dato alle fiamme un materasso della sua camera. Grazie all’intervento della penitenziaria si è evitato il peggio. Un altro detenuto avrebbe anche tentato più volte il suicidio, e anche in questo caso è stato il personale a scongiurare un’ennesima tragedia”. Bianco sottolinea inoltre come “il personale di polizia penitenziaria che attualmente presta servizio nella sezione, come avevamo purtroppo previsto, non risulta sufficiente a gestire la struttura e tutte le altre incombenze quali accompagnamenti nei tribunali, visite ospedaliere e le varie criticità che si verificano, tant’è che diversi agenti hanno dovuto prestare servizio anche per 12 ore continuative”. A fare le spese della problematicità dei giovani ospiti sono anche i detenuti adulti lavoratori, che per arrivare al lavoro devono passare sotto la sezione dei giovani e in questa circostanza sarebbero stati bersagliati con il “lancio di oggetti”. Un trattamento riservato anche al personale addetto alla pulizia della zona, “dove giornalmente viene raccolta una notevole quantità di piatti e residui di generi alimentari lanciati dalle finestre dai giovani adulti”. Una situazione che per il sindacalista evidenzia come “una vera e propria separazione tra i giovani adulti e i detenuti della casa circondariale non è attuabile”, visto anche che “al piano terra della struttura (ex Reparto Penale) nonostante il cancello che delimita gli spazi tra i giovani adulti e la zona dove alcuni detenuti svolgono attività e altri lavorano, questi hanno la possibilità di entrare in contatto e di conversare brevemente”. Bologna. Giovani detenuti, cinque ricorsi alla Dozza di Antonella Baccaro Corriere di Bologna, 30 aprile 2025 Cinque giovani detenuti nella sezione separata del carcere della Dozza hanno fatto ricorso contro il trasferimento dagli istituti penali minorili di Treviso, Torino, Bologna e Firenze. Il 23 maggio l’udienza davanti al magistrato di sorveglianza presso il Tribunale per i minorenni di Bologna per discutere il reclamo con cui i detenuti chiedono il rientro nel carcere di provenienza. Lo conferma il Garante dei detenuti dell’Emilia-Romagna, Roberto Cavalieri, fortemente critico con l’operazione voluta dal ministero della Giustizia: per la prima volta, infatti, persone che hanno compiuto reati da minorenni sono state collocate in un carcere per adulti. Il Garante, con il supporto dell’associazione L’Altro Diritto, il 12 aprile ha visitato la sezione minorile della Dozza e svolto 13 colloqui con i giovani detenuti. Sono 22 i giovani detenuti trasferiti da tutta Italia, su una capienza di 50 posti che però non sarà verosimilmente raggiunta per la carenza di personale. Diversi sarebbero stati i gesti di autolesionismo all’interno della sezione. Bologna. Il Garante sui giovani alla Dozza: “Una manovra politica” di Ludovica Addarii incronaca.unibo.it, 30 aprile 2025 “La sezione dei giovani adulti alla Dozza è un progetto partito male. Penso che prima si concluderà questa esperienza e meglio sarà. Io ho fatto una visita ieri alla sezione della Dozza dei giovani adulti. Non è un progetto sostenibile perché è dentro un carcere di persone grandi”. Così Roberto Cavalieri, Garante dei detenuti dell’Emilia-Romagna, commenta l’operazione di trasferimento dei 50 giovani dal carcere minorile del Pratello alla Dozza. “Le influenze su questi giovani adulti ci sono tutte. Il limite per porre fine al progetto è di tre mesi più tre. Se è partito il 24 marzo vuol dire che terminerà a settembre. Bisogna aspettare settembre per capire se riescono a smantellare questa presenza del minorile dentro la Dozza”. Poi aggiunge: “Anche quella è un’esperienza molto politica. Non riguarda la tecnica di gestione delle persone detenute. È un totem politico dei giovani adulti alla Dozza. L’hanno passata come misura per ridurre le presenze nelle carceri minorili, ma è più un arrivo da una lettura politica. Anche per i costi non ha senso. Era meglio aprire una comunità di accoglienza per ridurre il numero di presenze in carcere”. Gli stessi ragazzi al Pratello, tra il 18 e il 19 aprile, sono stati protagonisti di una protesta contro questa misura. L’operazione aveva già provocato forti critiche da parte del Garante, che proprio ieri ha annunciato che il magistrato di sorveglianza presso il Tribunale per i minorenni di Bologna ha fissato una udienza il 23 maggio. L’obiettivo è discutere il reclamo per ottenere il rientro nel carcere di provenienza di cinque giovani adulti presenti nella sezione minorile della casa circondariale di Bologna. La rivolta al Pratello ha rappresentato solo l’ultimo di una serie di episodi, che ogni volta riportano alla luce i problemi di welfare nelle carceri, accedendo i riflettori su temi che vanno dal sovraffollamento ai suicidi negli istituti penitenziari. “La situazione tende sempre a peggiorare. Si riducono sempre più i limiti della disponibilità di posti liberi o disponibili nelle carceri. Piacenza, Parma, Modena, Bologna hanno dei tassi di sovraffollamento molto elevati”, ribadisce Cavalieri. Il Garante commenta anche la proposta l’amnistia avanzata da Casini. “La maggioranza fa decisamente fatica a riconoscere gli sconti di pena a chi ha compiuto dei reati. La scomparsa di un Papa e il lutto che un tale evento comporta, favorisce l’approvazione di una misura indultiva. Non so quanto il momento sia fertile per arrivare a una decisione di questo tipo. È sicuramente auspicabile, però non so quanto sia realizzabile. Sono un po’ rigido in questo: l’unica forza politica ad essersi aperto a questa ipotesi nella compagine di governativa è stata Forza Italia con Taiani, non altre”. Cuneo. Nel carcere presto apriranno due nuove sezioni per i detenuti del 41 bis di Gianpaolo Marro La Stampa, 30 aprile 2025 Attualmente sono quattro alternativamente chiuse. L’annuncio al convegno con l’appello per rivedere il regime detentivo speciale. “Nel carcere di Cuneo presto riapriranno due sezioni del 41 bis. Attualmente sono quattro alternativamente chiuse: i detenuti sono 46 e la capienza è di 92. A breve arriveranno altri 22 reclusi con questo regime detentivo speciale”. Così Bruno Mellano, garante regionale dei detenuti ha annunciato ieri (martedì 29 aprile) al convegno a Cuneo nella sala Giolitti della Provincia, organizzato per far conoscere nel dettaglio la realtà del 41 bis, i numeri e soprattutto riflettere su questa misura. La critica al provvedimento - “Condividiamo con la Camera penale la critica per questo provvedimento: alcune delle norme del regolamento sono davvero capziose e non hanno nulla a che fare con la sicurezza nazionale. C’è un’attenzione spasmodica rispetto a queste regole - ha aggiunto -. Il riferimento è ad esempio al numero massimo di pennarelli (12) che il detenuto può avere, la dimensione delle fotografie dei familiari da tenere in cella e ancora la limitazione del numero di libri a disposizione. Queste restrizioni non hanno nessuna ricaduta evidente sulla sicurezza nazionale. Rischia di essere una cattiveria voluta contro il detenuto per costringerlo a collaborare o confessare. Dopo molti anni di polemiche e appelli ci sono le prime sentenze della Corte Costituzionale, ad esempio quella sulle ore d’aria in deroga all’ordinamento penitenziario. Adesso sono due al giorno (una al mattino e una al pomeriggio, con altri detenuti per un massimo di quattro). Dopo il pronunciamento dei giudici gli istituti si devono organizzare per garantire quattro ore al giorno (due al mattino e altrettante al pomeriggio). Cuneo ha problemi perché gli spazi del passeggio sono particolarmente sacrificati”. La notizia dell’imminente apertura di nuove sezioni per i detenuti in regime di 41 bis è stata confermata da Alberto Valmaggia, garante cuneese delle persone detenute. “Presto il Cerialdo raddoppierà la capienza per quanto riguarda le sezioni dei detenuti con regime speciale. Il 41 bis è uno degli elementi critici che ci sono all’interno del carcere di Cuneo. Un tassello di questa realtà, ma aggiungo il tema dell’accoglienza e il caso del reparto sottoterra. Il carcere è un sistema complesso”. La situazione in Piemonte - In Piemonte oltre a Cuneo anche l’istituto penale di Novara ha una sezione 41 bis con 70 posti e 68 reclusi. In Italia i detenuti sottoposti a questo regime sono 749 (13 sono donne) in 12 sezioni specifiche. “Possibile che siano tutti capi mafia - è la domanda del garante regionale - o ci sono anche persone che si vogliono spingere a collaborare?”. Al convegno è stata fatta una riflessione sulla logica e la natura dell’esecuzione penale del 41 bis. Dora Bissoni presidente della sezione di Cuneo della Camera Penale del Piemonte Occidentale e Valle d’Aosta: “Quest’anno ricorre il 50° dell’ordine penitenziario, sicuramente l’articolo 41 bis ha bisogno di una ristrutturazione e un adeguamento ai tempi”. “Serve un riequilibrio della gestione del regime di detenzione speciale. Difficile trovarne un’utilità sociale. Norme capziose - ha aggiunto Mellano, in scadenza di mandato da garante regionale - che finiscono per oberare i magistrati di sorveglianza. Ci sono richieste paradossali presentate dai detenuti che sperano di ottenere cose normali nella vita in carcere. Ma anche quando ci sono ordinanze della magistratura di sorveglianza di accoglimento delle richieste del recluso spesso l’amministrazione di oppone e gli avvocati devono così chiedere il giudizio di ottemperanza. Il dubbio? Si tratta davvero di uno strumento eccellente di lotta alla mafia o invece è una sorta di tortura democratica?”. La difficoltà - Una radiografia del lavoro del magistrato di sorveglianza è stata tracciata da Elisabetta Piccinelli, in servizio a Cuneo e come magistrato è in prima linea nei colloqui nelle carceri del Cerialdo, a Fossano e Saluzzo: “Per quanto riguarda il regime del 41 bis ricevo segnalazioni e reclami per tanti casi quotidiani: dall’impossibilità di consegnare direttamente ai figli dolci e giochi, alla richiesta di acquistare riviste, usare pentolame e ancora il problema dei colloqui con i famigliari solo dietro a un vetro divisorio. Emblematico il caso del detenuto che chiedeva di abbracciare il figlio di 14 anni e non è stato possibile. Spesso è leso il diritto soggettivo. Non si possono sospendere i diritti fondamentali. E poi c’è il divieto di acquistare quotidiani regionali e locali dell’area geografica di appartenenza”. Secondo Davide Bianchi ricercatore di diritto penale a Giurisprudenza di Torino quella del 41 bis “è una tormentata storia normativa con critiche e appelli alla revisione e alla riforma. Un’esorbitanza di costrizioni. Si tratta di un istituto per finalità collaborative ai fini investigativi e per finalità simbolica. Necessaria una riforma al più presto. I detenuti, anche quelli che sono responsabili dei reati più gravi, sono persone”. “Si deve attuare in modo intelligente il 41 bis - ha detto Mellano -. Teniamo conto che è una norma eccezionale e temporanea, nata con le stragi di mafia e l’attacco alle istituzioni. La sua stabilizzazione e permanenza nell’ordinamento non è proprio un meccanismo liberale”. Anche Alessandro Brustia avvocato penalista già presidente della Camera penale di Novara ha portato alcuni esempi significativi: “Quella del 41 bis è una norma nata in una stagione per fortuna superata, quella dello stragismo mafioso e quindi a distanza di 33 anni mantenere nel nostro ordinamento una norma emergenziale è ridicolo. Questo regime si è trasformato da istituto preventivo quale era in un sostanziale sadico aggravamento di pena. Ipotizzare una modifica del 41 bis non può più essere nella patria di Cesare Beccaria una bestemmia. Si tratta di una guerra dichiarata dallo Stato alle persone sottoposte a questo regime a cui vengono negati i diritti più elementari. L’ultimo ricorso che ho seguito per un detenuto è stato per il divieto all’utilizzo della melatonina per dormire”. “Da 22 anni si parla sempre dello stesso argomento - così Alessandro Ferrero presidente dell’ordine degli avvocati di Cuneo -. Ci sono stati interventi della Corte costituzionale e della giurisprudenza. Forse basterebbe il buon senso per l’applicazione delle regole. Un detenuto anche condannato con gravi reati che reclama il pane morbido o quello integrale: ma dove siamo, non deve esistere? Negare l’acquisto di una rivista porno è tortura non per finalità di sicurezza. La filosofia è se non collabori o non confessi non ti concedo un beneficio anche a costo di violare i diritti essenziali. Non è ammissibile. Ci deve essere sempre un limite”. Asti. Inneggiò al Duce sui social, Sterpetti getta la spugna: “Mi dimetto da Garante dei detenuti” di Paolo Viarengo La Stampa, 30 aprile 2025 Così si conclude la polemica scoppiata ad Asti. Stefania Sterpetti, garante dei detenuti di Asti, rinuncia all’incarico. Dice: “Con profondo rammarico, comunico la mia decisione di rinunciare all’incarico di Garante delle persone private della libertà per il carcere di Asti, conferitomi dal Consiglio Comunale il 22 aprile 2025”. Comincia così la lettera con cui Stefania Sterpetti, 67 anni, medico in pensione, decide di non proseguire nell’incarico affidatole pochi giorni fa. “Una scelta dolorosa” - “Questa scelta, dolorosa ma necessaria, nasce dalla volontà di garantire che il ruolo di Garante possa essere esercitato con la serenità e l’autorevolezza indispensabili, senza che il dibattito pubblico venga distolto dal merito delle questioni carcerarie per concentrarsi su polemiche legate al mio passato”. Subito dopo la sua nomina infatti, si era scatenata la polemica per alcuni post pubblicati da Sterpetti sui suoi profili social inneggianti al duce e di stampo razzista e discriminatorio. In uno, a commento della notizia dello sciopero della fame di Cesare Battisti, si leggeva: “Visto che non c’è la pena di morte, fosse la volta buona che si toglie di mezzo da solo”. “Negli ultimi giorni - prosegue Sterpetti - la mia nomina è stata oggetto di un’accanita controversia, alimentata da vecchi post pubblicati sul mio profilo personale Facebook, estrapolati dal contesto e utilizzati per costruire un’immagine distorta della mia persona. Ribadisco che tali contenuti, risalenti al 2015 e al 2020, non riflettono il mio operato né i valori che hanno guidato la mia vita professionale e personale”. Sottolinea: “In oltre trent’anni di carriera come dirigente medico all’Asl di Asti, ho sempre agito con competenza, serietà e profonda umanità, senza mai distinguere tra le persone, offrendo attenzione e rispetto a chiunque si trovasse in condizioni di fragilità. Il mio impegno nelle Commissioni Pari Opportunità del Comune e della Provincia di Asti testimonia ulteriormente la mia dedizione alla tutela dei diritti e alla promozione dell’inclusione. Tuttavia, sono consapevole che il ruolo di Garante richiede un clima di fiducia e collaborazione, condizioni che, alla luce delle recenti polemiche, ritengo difficili da garantire, anche se non per mia colpa”. Il passo indietro - Conclude: “Non intendo alimentare ulteriori divisioni né permettere che il mio passato venga strumentalizzato a puri fini politici. Per questo, fedele al mio senso di responsabilità verso la comunità e le istituzioni, scelgo di fare un passo indietro, augurando che chi mi succederà possa operare con la tranquillità necessaria per affrontare le complesse sfide di questo incarico. Ringrazio il Consiglio Comunale e, in particolare, il gruppo di Fratelli d’Italia per la fiducia accordatami. Continuerò a servire la mia comunità con l’impegno e la passione che hanno sempre caratterizzato il mio percorso, guardando al futuro con la serenità di chi sa di aver agito con integrità”. Roma. La pasta della speranza: ecco a cosa servirà l’ultima donazione di Papa Francesco di Ilaria Dioguardi vita.it, 30 aprile 2025 Ecco la storia del pastificio Futuro, nato nell’istituto penale minorile di Casal del Marmo nel 2013 dopo la visita di Bergoglio. A loro papa Francesco, poco prima di morire, ha fatto una donazione di 200mila euro. Il cappellano Nicolò Ceccolini: “Useremo i soldi per il mutuo, ma il Papa ci ha dato soprattutto una grande iniezione di fiducia”. Dodici anni fa Papa Francesco andò a visitare l’istituto penale minorile-Ipm “Casal del Marmo” di Roma. All’allora cappellano padre Gaetano Greco disse che occorreva “dare non solo una casa ai ragazzi, ma anche un lavoro. Per non farsi rubare la speranza”. Dal 2017 cappellano del carcere minorile è don Nicolò Ceccolini che, due anni fa, quando Bergoglio tornò all’Ipm, gli fece benedire una prima trafila di pasta da vendere al pastificio Futuro: “Così si chiuse un cerchio”, dice. Prima di morire, Francesco ha lasciato la sua ultima donazione di 200mila euro proprio a quest’azienda artigianale. Don Ceccolini, come nacque il pastificio Futuro all’interno dell’istituto per minori Casal del Marmo? L’idea del pastificio nacque dopo la prima visita del Papa nel 2013, quando venne la prima volta a Casal del Marmo per il Giovedì Santo. In quell’occasione Bergoglio disse a padre Gaetano Greco, che fu cappellano dell’Ipm dal 1982 al 2017, che occorreva “dare non solo una casa ai ragazzi, ma anche il lavoro. Per non farsi rubare la speranza”. Così padre Gaetano cominciò a cercare all’interno del carcere un edificio dove poter fare qualcosa. Venne trovato questo stabile, abbandonato da una ventina d’anni, venne demolito e ricostruito ex novo, con l’idea di offrire lavoro ai ragazzi. Soprattutto perché, dopo il 2014, ci fu la modifica legislativa che introdusse i giovani adulti nelle carceri minorili: i ragazzi con reati fatti da minorenni potevano restare negli Ipm dai 18 ai 25 anni. Si pose il grande problema di cosa far fare a tutti questi ragazzi. L’idea nacque per offrire lavoro ai maggiorenni. Per inaugurarlo ci vollero 10 anni di burocrazie e di accordi vari con il Dipartimento della Giustizia minorile. Quando ha aperto il pastificio? È da due anni che è attivo. L’inaugurazione ufficiale è stata a novembre 2023, ma già era aperto da qualche mese. Quando ritornò il Papa ad aprile di due anni fa, gli dissi: “Santità, quel sogno che aveva lanciato, durante la prima visita, di offrire lavoro ai ragazzi per non farsi rubare la speranza, si è concretizzato”. Gli facemmo benedire una prima trafila di pasta da mettere al pastificio. Il cerchio si chiuse con la sua seconda visita. Finora quanti ragazzi ci hanno lavorato? Nel pastificio sono passati una decina di ragazzi, sia dell’area penale esterna sia tra quelli detenuti a Casal del Marmo. Un ragazzo sta continuando a lavorare, anche dopo aver scontato la sua pena. Per un’altra ragazza è stato il trampolino di lancio per trovare un suo lavoro all’esterno, essere assunta e fare ciò per cui aveva studiato. Era arrivata al carcere che doveva ancora diplomarsi e, negli anni di detenzione, si è laureata in Psicologia: il pastificio è stato un passaggio intermedio. Lei aveva cominciato a entrare ed uscire dall’istituto grazie all’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario, usciva dal carcere per lavorare e rientrava la sera. Futuro, un nome che dice già tutto... Il nome è stato scelto perché questa sia una realtà che possa guardare al di là delle mura di cinta, che permetta di progettare qualcosa per il dopo. Il Papa, nel 2013, diede una spinta a questo progetto, la sua è stata una continua attenzione al mondo del carcere. Un mondo che è invisibile e fa notizia solo quando ci sono i problemi. La notizia di questa donazione che il Papa ha lasciato a pastificio Futuro, di 200mila euro, com’è stata accolta? Con grande gioia. Il Papa ha dato un sostegno, oltre che economico, morale e spirituale. Ha dato al progetto una grande iniezione di fiducia. Mentre per alcuni ragazzi il percorso è stato positivo, altri non hanno saputo cogliere l’opportunità: sono rientrati in carcere, oppure uscivano dall’istituto per venire a lavorare ma la direzione ha deciso di non farli più uscire perché avevano avuto un comportamento sbagliato. È chiaro che il nostro progetto non ha solo lo scopo di dare lavoro ai ragazzi, ma anche di far loro riscoprire una dignità: si viene educati a una vita nuova, alla cura di sé. A fianco dei ragazzi c’è un’équipe di educatori e anche un esperto agronomo, che accompagnano i ragazzi nella produzione della pasta. Come si pensa di utilizzare la donazione di Francesco? La donazione serve per sanare parte del mutuo bancario che il pastificio ha contratto per sistemare la struttura. All’interno, i ragazzi curano tutti i passaggi, si è cercato il più possibile di rendere meno meccanici e industriali possibili i processi per poter assumere il più possibile. Noi potenzialmente potremmo assumere 20 ragazzi, sia del carcere che dell’area penale esterna. I ragazzi seguono tutta la produzione, dal mettere la farina dentro la macchina impastatrice fino all’impacchettamento e al deposito in magazzino, e anche alla consegna nei supermercati, nei luoghi dove la pasta viene richiesta. I prodotti del pastificio dove si possono acquistare? C’è un punto vendita interno, a cui le persone possono accedere dall’esterno per acquistare i prodotti. Poi è possibile l’acquisto online e su Roma e provincia alcune catene di supermercati - le principali sono Esselunga, Coop, Conad - hanno dato la loro disponibilità a inserire la pasta nella propria offerta. Poi ci sono singoli operatori nel campo della ristorazione, che soprattutto in questo periodo si sono affacciati a noi con interesse. Senza Francesco, il pastificio non ci sarebbe stato? Il Papa ha messo il suo grande contributo, la sua forte presenza, la sua spinta ideale, morale, spirituale, la sua continua attenzione alle carceri. Poi c’è stata anche la tenacia, la forza che padre Gaetano ha avuto in questi anni nel portare avanti e concretizzare il progetto. Senza la spinta del Papa e senza la tenacia di padre Gaetano, che non si è lasciato scoraggiare dalle difficoltà, anche in termini di rapporti con l’istituzione, il pastificio non ci sarebbe stato. Tutto è nato grazie ai fondi della Caritas Italiana e al contributo dell’8 per mille della Cei. Se non ci fosse stato questo coinvolgimento diretto non sarebbe nato nulla. E ora quanti ragazzi lavorano nel pastificio? Adesso, compresi gli educatori, sono in tutto una decina di persone e i ragazzi sono solo tre. Avendo noi il carcere minorile di Casal del Marmo come bacino principale in cui prendere il personale, visti gli ultimi mesi molto burrascosi nell’istituto, c’è stata una grande difficoltà. A volte mi sembra che l’istituzione carceraria sia miope di fronte a certe risorse che potrebbe impiegare, che potrebbe mettere in campo per cogliere le opportunità che ci sono. C’è un grande impegno, un grande dispendio di energia anche in questo gesto del Papa, però vediamo che non viene colta l’importanza, da chi dovrebbe coglierla. Bisogna dare ai ragazzi non solo una casa, ma anche un lavoro, per non farsi rubare la speranza... Secondo me il problema principale è legato a questioni organizzative interne al carcere. I ragazzi che lavorano, quelli più meritevoli, quelli che escono grazie all’articolo 21, i “permessanti” dovrebbero essere in una zona del carcere a parte, non a contatto con tutti gli altri. Perché altrimenti il rischio è di vivere sempre sotto ricatto degli altri detenuti, invece potrebbero fare una vita più tranquilla e serena. Ma è una decisione che deve essere presa dall’istituzione. Finché non si crea una separazione di questo tipo, anche il pastificio ne risente perché dal carcere, se la situazione continua a essere questa, non si riescono a prendere altri ragazzi per il momento. Ma il pastificio esiste per i ragazzi, non per noi. Francesco, gli ultimi e perché devono tornare ad essere i primi di Diego Motta Avvenire, 30 aprile 2025 Gli ultimi della fila dovrebbero essere in testa all’agenda. È una verità semplice ma tutt’altro che scontata, quella che i giorni della morte di papa Francesco consegnano ai potenti del mondo. Aver concesso l’ultimo omaggio a Bergoglio alle figure a lui più care, i senza niente, è un segno che oggi interpella tutti. L’agenda degli ultimi sta infatti crescendo a dismisura, perché in questi anni si è allargato il popolo dei dimenticati. Di chi stiamo parlando? Di persone che non fanno notizia. Invisibili perché nascosti ai nostri occhi e invisibili perché strutturalmente in secondo piano nella comunicazione. Forse non ce ne stiamo accorgendo, ma lentamente si stanno spegnendo i riflettori sui più fragili. Se “il mondo sta diventando un inferno”, come ha denunciato ieri Amnesty International, è perché nessun diritto è più al sicuro, nell’era degli egoismi globali. Lo vediamo su larga scala, in modo eclatante, e anche nel nostro piccolo. Ci sono minuscole galassie, dentro la nostra società, che lentamente paiono scomparire, costrette dentro un oblio mediatico inspiegabile. Sono i giovani disoccupati e i precari che vivono di lavoro povero, i vinti dei nuovi nazionalismi, gli stranieri che si vedono ridurre opportunità di cittadinanza e i migranti trattati come pacchi postali, le famiglie numerose che non arrivano alla fine del mese, i detenuti ammassati nelle carceri, gli abitanti di tante periferie geografiche ed esistenziali. I braccianti, i rider, le donne di strada. Pochi tra loro hanno fatto errori, eppure colpevolizzarli è diventato facile e redditizio. La stragrande maggioranza sogna soltanto normalità. Per istituzioni e governi invece non sono storie, ma numeri da citare e di solito finiscono in statistiche più o meno benevole e autoassolutorie. Sono parte di quei mondi tenuti ai margini, perché fanno paura. Eppure la loro vita rappresenta già un grande interrogativo per i governi e le opinioni pubbliche: chi si occuperà di loro? E in che modo? In fondo, almeno in Italia, l’agenda degli ultimi è coincisa e coincide con quella che potremmo chiamare “l’agenda Mattarella”: non c’è discorso del nostro presidente della Repubblica che non abbia dato voce a chi non ha voce. L’ultimo messaggio è arrivato ieri sulle vittime del lavoro, altro grande capitolo colpevolmente trascurato e su cui non bastano provvedimenti spot dell’ultimo minuto per invertire la rotta. “Nessuno deve sentirsi scartato o escluso”, ha detto il capo dello Stato, in occasione dell’imminente Festa del Lavoro. “I care”, mi prendo cura, diceva don Lorenzo Milani. Possiamo ancora credere che queste parole tramandate per generazioni siano patrimonio comune del Paese? Chiudere gli occhi finora non si è mostrato lungimirante, perché a problemi si sommano problemi. Basta pensare all’irrisolto dramma dei suicidi in cella e all’annoso problema del sovraffollamento (uscito dall’agenda proprio nell’anno giubilare) al moltiplicarsi delle fragilità e alla faticosa ricerca di soluzioni che poi non si trovano. Pensiamo sia sufficiente incasellare gli ultimi nelle strutture e nei centri di nuova costruzione e non ci rendiamo conto che invece si sta clamorosamente perdendo di vista l’attenzione alla persona e a chi dovrà farsene carico. Non è solo un problema di polizia, per dire, ma anche di professionalità socioeducative, di educatori, di assistenti sociali, di mediatori culturali, vocazioni e mestieri su cui sarebbe giusto investire. Perché il punto sembra essere proprio questo: escludere dall’orizzonte di un’azione politica determinati soggetti a cosa serve? E ancor di più: quanto funziona realmente continuare a far finta di nulla o, peggio, intervenire riducendo le questioni che riguardano questi temi soltanto in chiave di repressione e di ordine pubblico? In un appello appena presentato da centinaia di giuristi e sottoscritto da diverse personalità del mondo politico e culturale sul controverso decreto sicurezza, si parla di “impostazione autoritaria” e “torsione securitaria”, a seguito della compressione dei diritti che si rischia con le nuove misure. È proprio all’altra faccia della luna che bisogna guardare: quella che va aiutata e non subito criminalizzata. Accanirsi sugli ultimi della fila non avrebbe senso. Se la società del narcisismo sdogana la violenza di Gilda Sciortino vita.it, 30 aprile 2025 I nostri giovani? Vittime di una società che non li aiuta a elaborare un pensiero critico che li blocchi quando la rabbia esplode, facendo pensare loro che la violenza sia la risposta giusta. Per Claudia Bongiorno, psicoterapeuta dell’Asp nel carcere Pagliarelli di Palermo, la rissa che lo scorso fine settimana è sfociata nel triplice omicidio di alcuni ragazzi lancia l’allarme su quanto i giovani abbiano bisogno di aiuto. Sono ragazzi i protagonisti dell’ultima tragedia in ordine di tempo avvenuta in quello che, sino a poche ore prima era una tranquilla notte tra sabato e domenica, in uno dei più tranquilli comuni a pochi chilometri da Palermo. È, infatti, a Monreale che futili motivi hanno portato a una sparatoria nella quale hanno peso la vita tre giovani e sono rimasti feriti altri due. Ma quando possono essere banali, inconsistenti, le motivazioni che possono provocare tali tragedie? Per Claudia Bongiorno, psicoterapeuta del Servizio di Salute Mentale dell’Asp nel carcere Pagliarelli di Palermo, bisogna partire dal livello di violenza in cui si trovano immersi i giovani di oggi, protagonisti di crimini sempre più efferati. Un fenomeno da indagare dal punto di vista sociologico? È da circa vent’anni che c’è una sorta di sdoganamento della violenza, già a partire dai videogame. Già vent’anni fa ricordo l’uscita di tutta una serie di videogiochi, tipo “Assassin’s Creed”, con una tecnologia talmente realistica da fare impressione. E ricordo che allertavo mio figlio, oggi ventisettenne, sulla consapevolezza che si trattasse di videogame e non di verità. I ragazzi, fin da piccolissimi, sono stati abituati a tutto questo. Quelli che oggi hanno 20 o 25 anni risentono dell’essere cresciuti in un sistema in cui la violenza è stata sdoganata come normalità, dai videogiochi ai film. Inoltre, prima i film violenti andavano in seconda serata, quanto i bambini erano già a letto. Adesso, accendi la tv alle quattro del pomeriggio e vedi cose talmente violente senza nessunissima protezione, senza nessunissimo filtro. Perché dico questo? Perché, in una società diventata sempre più violenta, il fenomeno si è normalizzato. A noi, giovani di allora, faceva impressione la violenza, infatti tutt’ora, quando vediamo un film violento ci giriamo impressionati, mettendoci le mani davanti alla faccia. Claudia Bongiorno Ma come si passa dai videogiochi al mettere mano a un’arma e sparare? Cosa fa esplodere tanta rabbia? Il punto è la disinibizione. Se prima, in uno scatto di prepotenza, si finiva alla scazzottata, adesso si va oltre. Ma questo perché l’elemento violento si è normalizzato, non lo si considera più neanche una cosa particolarmente deprecabile. Questa è la cosa che fa impressione. Ma anche perché, dietro a queste azioni così incontrollate, a volte c’è proprio un’assenza di pensiero. Manca la funzione pensiero. Per cui, passano subito all’azione. Sono arrabbiato, mi hai provocato e devo reagire, devo dimostrare quanto valgo. Questo passaggio all’azione presuppone che la funzione pensiero sia veramente scarsa, minima. A volte proprio non c’è. Quindi, il nostro lavoro è spessissimo proprio questo: attivare una funzione rielaborativa critica e autocritica. Per far sì che queste persone, se non ce l’hanno, maturino una consapevolezza di sé, della vita, di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, ma anche delle conseguenze delle proprie azioni. Partendo dal presupposto che nessuno vuole rimanere in carcere per trent’anni, se commetti reati come quello a cui ci riferiamo e pensi di farla franca… significa che la consapevolezza non l’avevi proprio. Consapevolezza che torna quando si confrontano con il carcere? Il lavoro è duro quando arrivano ragazzi che incappano in situazioni di questo genere. Generalizzare non si può, non ha senso, ma posso dire che arrivano quelli totalmente inconsapevoli, quelli che si giustificano come se fosse un banale errore, incuranti del fatto che magari è morto qualcuno. Ovviamente ci sono anche quello che capiscono ciò che hanno fatto e si disperano, ma naturalmente é troppo tardi. Se, poi, dobbiamo fare uno sforzo di media statistica, dobbiamo considerare che molto spesso sono ragazzi che usano il crack. E sono quelli che fanno cose tanto violente e incomprensibili. Anche perché tutte le nuove droghe sono eccitanti, disinibenti, in qualche modo rendono più onnipotenti, incapaci di gestire l’impulsività. Il crack disinibisce, quindi da semplici rapine si può passare a lesioni gravi, anche a omicidi come accaduto pochi giorni fa. Ovviamente non può essere una giustificazione ma, anche se non in tutti i casi, l’utilizzo di droghe, di sostanze, spiega molti dei reati che vanno a finire malissimo. Che tipo di lavoro vi trovate a fare in carcere quando arrivano questi giovani? Lavoriamo su quei passaggi di pensiero mancanti e cerchiamo di ricostruirli. Li accompagniamo in un’esperienza durissima, come è solitamente la detenzione, aiutandoli anche quando c’è di base l’uso di sostanze. Proviamo a fare capire loro tutto quello che significa avere affidato alle droghe il proprio cervello. Il nostro lavoro è aiutarli a ragionare, a sviluppare un pensiero. Quanto il carcere riesce a svolgere la sua funzione rieducativa? Ovviamente il carcere dovrebbe essere l’ultima ratio, purtroppo in tantissimi casi diventa la prima risposta. Nella nostra società per primi abbiamo tolto potere alle agenzie educative che devono avere cura deii nostri figli. Se tu prima prendevi quattro a scuola, nessun genitore si sognava di andare a minacciare i professori perché ti avevano dato un brutto voto, che peraltro ti meritavi. Se deleggittimiamo l’istituzione preposta all’educazione dei nostri figli, al contenimento dei fenomeni devianti, succede che l’unico baluardo diventa la legge, la giustizia, quindi il carcere nei casi più gravi. Che sia difficile educare lo sappiamo tutti, ma se non riusciamo a trasmettere i valori della legalità nella società, a scuola, in famiglia, non potremo mai immaginare di avere e ottenere giustizia. Gino Cecchettin: “Basta violenza e sopraffazione, la musica cambi linguaggio” di Laura Berlinghieri La Stampa, 30 aprile 2025 Il papà di Giulia scrive agli artisti: “Evitare stereotipi e frasi tossiche. Anche Vasco componeva brani impubblicabili, poi ha mutato stile”. La richiesta alla fondazione Giulia di partnership a un evento benefico, l’Aperyshow Charity Event, organizzato ad Arsego, cittadina della provincia di Padova. “Ma, di fronte all’elenco dei cantanti che si sarebbero esibiti sul palco, mi sono reso conto che alcuni di loro in passato avevano scritto testi misogini e non rispettosi delle donne” spiega Gino Cecchettin. Bello Figo, quello di: “Io sono un maschio / Cucina la donna / Io c’ho fame / Cucina la donna”. O Boro Boro: “Bevo una tequila / E dopo glielo pongo a ritmo”. E lì, di fronte a quei nomi in fila, la scelta: “Ritirare l’accordo oppure fare qualcosa”. Il papà di Giulia ha seguito la seconda possibilità, ancora. Ha preso carta e penna e ha scritto ai cantanti: gli idoli dei più giovani. Dicendo loro di scegliere le parole con cura, mettendo da parte quelle che incitano alla sopraffazione. “Semplicemente, ho detto agli artisti di preferire le parole d’affetto a quelle d’odio, la comprensione al biasimo, l’empatia alla violenza”. Un messaggio per gli artisti e un messaggio per i giovani. Ne ha parlato con i suoi figli? “Ne ho parlato con Elena e Davide, ma ne ho parlato anche con altri ragazzi. Mi rivedo in loro, pensando a quando da giovane ascoltavo i Black Sabbath, le cui canzoni avevano testi abbastanza discutibili. Ma allora avevo la giustificazione - che poi, giustificazione non era - della barriera linguistica, che non mi permetteva di capire quello che dicevano. Ma ora è diverso: sembra quasi che ad attrarre siano proprio le parole di violenza”. Perché, secondo lei? “Non lo so. Forse funziona come con le sigarette, che fanno sentire grandi. E così avere un’arma in tasca - anche se solo attraverso il testo di una canzone, magari trap - fa sentire i ragazzi qualcosa che non sono. La musica li aiuta a diventare lo stereotipo a cui un’intera generazione aspira. Ma bisogna spiegare ai giovani che esistono modelli positivi, migliori di questi e che fanno vivere meglio. Modelli ai quali magari non è facile aderire, in un immaginario collettivo che indica strade diverse, ma noi adulti non ci possiamo rassegnare”. È un discorso da estendere a cinema e serie tv? Certa cronaca, soprattutto quella che coinvolge giovanissimi, mostra la ripetizione di riti ed esecuzioni, solitamente proprie della fiction, più che della realtà… “Non è soltanto la musica, ma tutto il mondo della cultura e dell’arte a essere coinvolto: sicuramente il cinema, le serie tv, ma anche la carta stampata sono stati veicolo di messaggi sessisti. Ma è avvenuto in tutte le epoche: evidentemente la violenza vende bene”. A proposito di epoche: la sensibilità è cambiata. Certi testi di Vasco Rossi o Riccardo Cocciante adesso sarebbero impubblicabili. Potrebbe essere utile chiedere proprio a questi artisti - e ad altri, come loro - di esporsi in prima persona, per spiegare ai ragazzi che è importante che la rivoluzione culturale parta dalle parole? “Sicuramente. Ma devo dire che tanti degli artisti che, in passato, avevano scritto testi di questo tipo ora hanno imboccato un percorso diverso. In ogni caso, ogni canzone va contestualizzata nel suo tempo”. E il tempo di oggi qual è? “È quello di artisti che hanno un seguito enorme. E veicolare certi messaggi, tra i giovani che li ascoltano, può essere pericoloso. Io non biasimo i ragazzi: capisco la loro voglia di ribellione, che si accompagna al desiderio di esprimere determinati sentimenti con un certo accento. Ma le parole sono pietre: hanno un significato e possono portare a delle conseguenze”. Quali sono i consigli che ha dato agli artisti, nel suo vademecum? “Consigli molto semplici, in un vademecum: evitare gli stereotipi, la romanticizzazione della violenza o linguaggi tossici nei testi delle canzoni. E poi abbiamo inviato delle indicazioni anche alle case discografiche, per promuovere le pari opportunità, la sicurezza e l’inclusione nel mondo della musica”. Gli artisti potrebbero rispondere che questa è censura, come fecero schierandosi dalla parte di Tony Effe, escluso dal concerto di Capodanno organizzato dal Comune di Roma, a causa dei testi misogini e violenti di alcune sue canzoni. Lei cosa risponde? “Rispetto all’evento padovano, sicuramente non ho chiesto agli artisti di non esprimersi, ma di farlo in modo rispettoso, utilizzando le parole giuste. È sacrosanto che ognuno, nell’arte, si esprima come vuole, senza censure. Purché, però, non ci sia offesa. E, se qualcuno si sente offeso da certe parole, bisogna riflettere su quello che si è detto. Mettere il bavaglio è sempre brutto, allora invito questi artisti a stimolare un’elaborazione dei testi più edificante”. Lei, con la fondazione dedicata a sua figlia, a questa stimolazione di una rivoluzione culturale affianca il lavoro con le strutture che si occupano di violenza di genere. Strutture la cui stessa sopravvivenza è a rischio, a causa di una serie di vincoli burocratici imposti dall’intesa siglata dalla conferenza Stato-Regioni. È una mortificazione di tutto il lavoro fatto finora? “In Veneto, le strutture a rischio sono 15. Se dovessero effettivamente chiudere, sarebbe un disastro. E quindi io mi appello alle istituzioni, alla politica, perché facciano tutto quello che è nelle loro possibilità per salvare questi centri. Stiamo parlando di strutture che salvano vite umane. Chiuderle significherebbe mettere a repentaglio queste donne”. Quando la solidarietà ai migranti viene criminalizzata: 142 casi nel 2024 di Youssef Hassan Holgado Il Domani, 30 aprile 2025 Nel 2024 142 difensori di diritti umani hanno affrontato procedimenti giudiziali nei paesi Ue, tra questi 88 persone per attività collegate con la ricerca e il soccorso in mare dei migranti (le operazioni delle navi delle ong); 21 per aver fornito assistenza umanitaria (acqua, cibo, vestiti etc.); 17 per azioni di disobbedienza civile; 3 per aver fornito un rifugio ai migranti e 13 per altre motivazioni. Nel 2024 almeno 142 persone nei paesi Ue hanno subito procedimenti penali o amministrativi per aver agito in solidarietà con i migranti. È la preoccupante panoramica che emerge dal rapporto di Picum (Platform for international cooperation on undocumented mMigrants) che da tre anni monitora i fenomeni di criminalizzazione della solidarietà nei confronti dei migranti. Inoltre, secondo lo studio, almeno 91 migranti sono stati oggetto di criminalizzazione nel 2024, con trend in crescita rispetto ai due anni precedenti. A tutto questo si sommano episodi di strette e minacce a difensori di diritti umani e organizzazioni della società civile attive nella ricerca e nel soccorso in mare che operano all’interno dei 27 paesi membri dell’Unione europea. Secondo il monitoraggio dei media di Picum, Grecia e Italia hanno registrato il maggior numero di persone criminalizzate per solidarietà (rispettivamente 62 e 29), seguite da Polonia (17), Francia (17), Bulgaria (11), Malta (3), Lettonia (2) e Cipro (1). La maggior parte dei casi di criminalizzazione di persone che attraversano le frontiere è stata registrata anche in Grecia (45) e in Italia (40), e con intensità minore a Cipro (3), in Spagna (2) e in Francia (1). Altri casi di molestie e intimidazioni sono stati registrati in Italia, Francia, Cipro, Bulgaria, Polonia e Spagna. Come spiegano dall’organizzazione, si tratta di stime conservative, vista la carenza di dati statistici sul tema. Secondo Picum i dati contenuti nel rapporto evidenziano tendenze preoccupanti. “Nell’attuale sistema giuridico, le accuse di favoreggiamento possono essere usate per criminalizzare i migranti o le persone senza residenza regolare e coloro che agiscono in solidarietà con loro. Nonostante i numerosi e lunghi procedimenti giudiziari, le condanne effettive rimangono basse”. Spesso i migranti devono affrontare accuse infondate, subiscono processi giudiziari duri e affrontano misure di detenzione preventiva senza reali motivi se non per il “solo fatto di essere migranti”. E i numeri di questa criminalizzazione sono in aumento rispetto al 2023 quando Picum ha contato più di 117 persone criminalizzate per aver agito in solidarietà con i migranti, erano 102 nel 2022 fino ad arrivare a 142 lo scorso anno. Nel 2024 142 difensori di diritti umani hanno affrontato procedimenti giudiziali nei paesi Ue, tra questi 88 persone per attività collegate con la ricerca e il soccorso in mare dei migranti (le operazioni delle navi delle ong); 21 per aver fornito assistenza umanitaria (acqua, cibo, vestiti etc.); 17 per azioni di disobbedienza civile; 3 per aver fornito un rifugio ai migranti e 13 per altre motivazioni. L’83 per cento affronta procedimenti già iniziati nell’anno precedente. Il rapporto di Picum riporta anche fatti di cronaca accaduti lo scorso anno come ad esempio quelli di Polonia e Bulgaria. In Polonia cinque persone sono a processo per aver fornito aiuti umanitari a persone migranti; in Bulgaria le autorità hanno preso di mira attivisti che forniva assistenza. Sette volontari internazionali sono stati arrestati a ottobre per aver aiutato persone in difficoltà lungo il confine con la Turchia. Nel 2024 per 43 persone si sono conclusi procedimenti giudiziari: solo due di loro sono state condannate. In media ogni processo dura circa tre anni. Per quanto riguarda l’Italia viene citato il processo Iuventa contro i salvataggi dei migranti. Imputati nel processo erano dieci membri degli equipaggi di Medici senza frontiere, dell’ong Jugend Rettet e di Save the children. Alcuni di loro erano stati accusati dalla procura di essersi accordati con i trafficanti in Libia per il salvataggio delle persone partite dalle coste libiche, senza che i migranti avessero un regolare permesso di soggiorno. Dopo sette anni di indagini l’impianto accusatorio è stato però definitivamente smontato. Secondo Picum il rischio è un aumento dei processi nei confronti di chi cerca di aiutare i migranti con l’entrata in vigore della nuova direttiva sul favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, attualmente in discussione al parlamento europeo. “La proposta di direttiva sull’agevolazione rischia di far sì che un numero maggiore di persone venga arrestato o processato per aver aiutato persone in difficoltà e che gli stessi migranti vengano accusati di contrabbando. Con l’avanzare dei negoziati, il Parlamento europeo deve spingere per ottenere le più forti garanzie affinché nessuno venga perseguito semplicemente perché ha attraversato un confine o ha aiutato persone in difficoltà”, dice Silvia Carta, advocacy officer di Picum. Accuse contro i migranti - Nel 2024 91 migranti sono stati criminalizzati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, traffico di esseri umani e altre ragioni. Di questi, 78 sono cause cominciate precedentemente mentre 13 sono i procedimenti iniziati lo scorso anno. “La criminalizzazione della solidarietà con i migranti è profondamente legata alla criminalizzazione della migrazione stessa. Non si tratta di due questioni separate, ma dovrebbero essere considerate in un continuum con le politiche migratorie restrittive che rendono insicuro l’attraversamento delle frontiere e creano un ambiente ostile nei confronti di coloro che sono considerati entrati in modo irregolare”, spiega Carta. Nel suo monitoraggio Picum cita due casi giudiziari, quelli che riguardano Maysoon Majidi e Marjan Jamali entrambe accusate di essere scafiste una volta giunte in Italia dall’Iran. Strette alle ong - Picum riporta anche una serie di sanzioni amministrative e strette non giudiziarie contro ong attive nella ricerca e soccorso in mare avvenute in sette paesi membri dell’Ue (Belgio, Bulgaria, Cipro, Francia, Grecia, Italia e Polonia). Tra le altre cose hanno subito attività di sorveglianza (come accaduto nel caso Paragon); fermi e identificazioni da parte delle autorità di polizia e la mancata protezione da minacce e attacchi da parte di gruppi privati o anonimi. Divisi dalla canapa, Lega veneta contro il Governo di Eleonora Martini Il Manifesto, 30 aprile 2025 Divisi dalla canapa: Regioni contro esecutivo, Lega di “popolo” contro Lega di governo. È l’effetto del decreto Sicurezza, e in particolare dell’articolo 18 che ha già creato il parapiglia nella filiera industriale della Cannabis sativa L., soprattutto al nord, contro il quale si è schierata ieri gran parte della Commissione politiche agricole della Conferenza delle Regioni. Quasi tutti gli assessori regionali all’Agricoltura - esclusi quelli del Lazio e della Lombardia - coordinati dal veneto Federico Caner, leghista fedele al governatore Zaia, chiedono in una lettera al ministro Lollobrigida la revisione della norma che dal 12 aprile, dopo l’entrata in vigore del Decreto sicurezza, vieta la commercializzazione delle infiorescenze di canapa a bassissimo contenuto di Thc. Immediata la risposta da Palazzo Chigi che chiude ogni possibilità di dialogo direttamente con una nota del Dipartimento delle politiche antidroga. Nel frattempo, dopo l’”Appello per una Sicurezza democratica” promosso da oltre 257 giuspubblicisti di tutte le università italiane, contro l’intero decreto Sicurezza criticato nel metodo e nel merito, ieri decine di associazioni (tra le quali A Buon Diritto, Acli, Antigone, Arci, Cgil, Cnca, Forum Droghe, L’Altro Diritto, La Società della Ragione e Ristretti Orizzonti) hanno dato il via ad un digiuno a staffetta che proseguirà fino al 30 maggio, vigilia della manifestazione nazionale a Roma indetta dalla Rete “A pieno regime”. “Tutti i rappresentanti delle Regioni si sono trovati a riconoscere all’unanimità che il Decreto sicurezza mette in difficoltà il settore della canapa, che in Italia conta 3.000 aziende con 30.000 addetti, 500 milioni di fatturato e il 90% di export. Chiediamo perciò ufficialmente una revisione dell’articolo 18 del dl, che vieta la coltivazione della canapa anche a bassissimo contenuto di Thc”, per “permettere l’utilizzo delle infiorescenze di canapa contenenti cannabidiolo anche per usi diversi dal florovivaismo professionale”, scrive l’assessore Caner ricordando che la filiera della canapa è sostenuta da anni da “finanziamenti regionali, statali ed europei”. A sera però le Regioni Lazio e Lombardia smentiscono di aver sottoscritto il testo. In ogni caso, l’assessore leghista del Veneto fa notare che “il dl non vieta l’importazione del prodotto, consentita dalla norma europea, ma solo la coltivazione nazionale”. Nega tutto, il Dipartimento antidroga: nessun divieto di coltivazione della Cannabis sativa L. (con Thc sotto i limiti di legge) e nessun rischio per la filiera. Secondo Palazzo Chigi, l’articolo 18 del dl non modifica la legge 242/2016, nata per promuovere la coltivazione e la filiera agroindustriale della canapa, ma ne ribadisce soltanto “l’ambito di applicazione” in modo da fermare la “commercializzazione nei “cannabis shop”, di inflorescenze e suoi derivati, acquistati per un uso ricreativo, insinuando la falsa idea di legalizzazione di una cannabis definita erroneamente “light”“. Per il Dipartimento, infine, “resta vietata anche l’importazione delle inflorescenze, in linea con quanto sancito dalla Cassazione”. Il riferimento è alla sentenza delle Sezioni unite penali del 2019 ma l’avvocato Giuseppe Libutti dell’associazione Canapa sativa italiana spiega che né una sentenza né una norma possono negare il Trattato sul funzionamento dell’ Ue e i suoi Regolamenti attuativi che, affermando i principi di “concorrenza, libertà di stabilimento e libera circolazione delle merci”, “non restringono affatto la filiera produttiva della canapa alla produzione dei soli semi e derivati dei semi, ma, al contrario, sono finalizzati a promuovere la realizzazione di un mercato comune europeo della canapa, considerando la pianta nella sua interezza”. Il “caso Regno Unito” arriva alla Cedu: giudice trans ricorre contro la definizione legale di donna di Francesca Spasiano Il Dubbio, 30 aprile 2025 Per l’ex magistrata Victoria McCloud, la sentenza della Corte Suprema britannica viola il diritto a un giusto processo: la Suprema Corte britannica le aveva negato l’accesso alla causa sollevata dalle femministe scozzesi. C’era da aspettarsi che la parola dei giudici inglesi sulla definizione legale di donna non sarebbe stata l’ultima. E infatti, ecco la notizia: il caso arriva alla Corte europea dei diritti dell’uomo. A farvi appello è Victoria McCloud, prima giudice trans del Regno Unito, che ha presentato ricorso alla Cedu contro la sentenza della Corte Suprema britannica sostenendo la violazione dell’articolo 6 della Convenzione sul diritto a un giusto processo. “Il motivo è che la Corte Suprema si è rifiutata di ascoltare me o le mie prove per fornire loro informazioni sull’impatto della sentenza sulle persone transgender e non ha fornito alcuna motivazione”, spiega al Guardian McCloud. Che intanto, dopo 14 anni, ha dismesso la toga da magistrata per reindossare quella da avvocata: classe 1969, legale ma anche psicologa, nel 2010 era diventata la prima transgender ma anche la più giovane giudice in assoluto dell’Alta Corte di Giustizia. Preoccupata per le conseguenze che la sentenza avrebbe avuto sulla tutela legale delle persone trans, McCloud aveva chiesto l’autorizzazione per intervenire nel contenzioso sollevato dal gruppo femminista For Women Scotland contro il governo scozzese, che si è concluso con il verdetto del 16 aprile. Ne avrebbe avuto facoltà pur non essendo tra le parti, ma la sua richiesta è stata respinta. E ora che la sentenza inglese comincia ad avere ricadute pratiche sulla comunità trans, la giudice ha intenzione di dare battaglia. Il nodo riguardava la definizione legale di donna ai fini della normativa britannica sulle pari opportunità, l’Equality Act del 2010. Con una sentenza di 88 pagine, i cinque giudici della Corte Suprema britannica hanno stabilito all’unanimità che l’interpretazione debba basarsi sul sesso biologico. E ciò vuol dire che alle persone trans che abbiano ottenuto un “certificato” di genere non possono essere estesi tutti gli spazi e tutte le tutele previste per chi è donna dalla nascita. Come chiedeva il gruppo di femministe “critiche del genere” sostenuto dalla scrittrice JK Rowling: le attiviste scozzesi, che hanno vinto il ricorso, avevano portato in tribunale il governo di Edimburgo per una legge del 2018, che fissa quote rosa del 50 per cento nei consigli di amministrazione degli enti pubblici locali. Includendo nella definizione di donna anche le persone trans che abbiano ottenuto il riconoscimento di genere secondo i requisiti stabiliti dal Gender Recognition Act del 2004. La normativa approvata in risposta alle sentenze della Cedu contro il Regno Unito che ha permesso anche alla giudice McCloud di modificare legalmente il sesso di appartenenza dopo la transizione di genere compiuta alla fine degli anni ‘90. “In questo caso giudiziario c’erano gruppi di protesta che si sono espressi a nome delle donne. Ma le donne comuni non erano effettivamente rappresentate nel loro insieme - sottolinea la giudice al Guardian - I disabili non erano rappresentati, e ora vediamo i conservatori affermare che le persone transgender devono usare i bagni per disabili, il che ha un impatto sulla vita delle persone disabili. Le conseguenze di tutto questo non sono state affrontate”. A seguito della sentenza, infatti, il governo di Keir Starmer, in bilico fino ad oggi nello schieramento ideologico sul tema, si è subito allineato alla decisione dei giudici. E la Commissione per le pari opportunità del Regno Unito ha fatto sapere che emanerà nuove linee guida sugli spazi riservati in base al sesso biologico. Spazi “esclusivi” per donne, che probabilmente riguarderanno bagni, spogliatoi, reparti ospedalieri, ostelli, prigioni, rifugi per donne vittime di violenza domestica e molto altro. Un “aggiornamento provvisorio” del regolamento emanato dalla stessa Commissione ha già stabilito che nei luoghi di lavoro e nei servizi pubblici le persone trans non potranno usare i bagni riservati alle donne e agli uomini (biologici). Ma non è chiaro quali dovranno utilizzare, e con quali conseguenze: probabilmente avranno accesso soltanto alle strutture “intersex”, anche se “non ci sarà una polizia dei servizi igienici”, chiarisce la Commissione. Intanto nel Paese il caos e le polemiche dilagano, avvelenando il dibattito anche dentro il movimento femminista, spaccato tra chi difende i diritti della comunità Lgbtq+ e chi rivendica i diritti delle “donne biologiche”. Un clima “tossico” di cui vi è traccia anche nella lettera con la quale Victoria McCloud lo scorso anno ha comunicato le sue dimissioni: “Sono giunta alla conclusione - scriveva - che nel 2024 la situazione nazionale e l’attuale quadro giudiziario non saranno più tali da rendere possibile in modo dignitoso essere allo stesso tempo “trans” e giudici stipendiati e di un certo prestigio nel Regno Unito”. Sansal e gli altri. Sempre più scrittori in carcere, si allarga la geografia della repressione di Adalgisa Marrocco huffingtonpost.it, 30 aprile 2025 Il Freedom to Write Index 2024 di PEN America registra 375 scrittori incarcerati nell’ultimo anno per aver espresso il proprio pensiero, un numero in crescita costante da sei anni. Dalla Cina all’Iran, dalla Russia alla Turchia, passando per Israele e gli Stati Uniti, un tempo considerati bastioni della libertà di pensiero. Le parole fanno paura. Soprattutto quando cercano la verità e interrogano il potere. Sempre più spesso, chi le pronuncia - e soprattutto le mette nero su bianco - paga un prezzo altissimo. A testimoniarlo, con cifre e nomi, è il nuovo Freedom to Write Index 2024 pubblicato da PEN America, organizzazione che tutela la libertà d’espressione: nel 2024 sono stati 375 gli scrittori incarcerati nel mondo per aver espresso liberamente il proprio pensiero. L’anno scorso erano stati 339. E da sei anni la curva non smette di salire. Tra i casi più recenti ed emblematici, quello dello scrittore franco-algerino Boualem Sansal, condannato da un tribunale di Algeri a cinque anni di prigione per le sue opinioni. Né gli appelli internazionali né le pressioni diplomatiche della Francia sono riusciti finora a ottenerne la liberazione. A colpire non sono solo i numeri, ma anche la geografia della repressione: sempre più estesa, non più limitata a regimi notoriamente autoritari. Con 118 scrittori detenuti, la Cina si conferma al primo posto. Segue l’Iran con 43 autori arrestati, e poi Russia, Arabia Saudita, Egitto. Non manca la Turchia, ancora formalmente democrazia sotto la guida del presidente Recep Tayyip Erdo?an. Ma nel rapporto viene segnalato anche Israele: ventuno gli autori incarcerati, di cui otto in detenzione amministrativa. Ed emerge un’attenzione crescente anche verso gli Stati Uniti, dove il clima intorno alla libertà di espressione sta cambiando. “Con i cambiamenti geopolitici in corso e l’ascesa di tendenze autoritarie in Paesi un tempo considerati baluardi dell’apertura, vediamo la libertà di espressione - e quindi gli scrittori - sempre più nel mirino della repressione in un numero crescente di nazioni”, si legge nel Freedom to Write Index. A lanciare l’allarme è Karin Deutsch Karlekar, direttrice del programma Writers at Risk di PEN America, citata dal Guardian. “Negli Stati Uniti non si vedeva un attacco così vasto e profondo alle idee dai tempi della caccia alle streghe maccartista degli anni Cinquanta”, dichiara. La repressione postbellica di intellettuali, scrittori e accademici sospettati di simpatie comuniste viene oggi paragonata alla campagna condotta dall’amministrazione guidata da Donald Trump contro le università, con tagli ai finanziamenti e l’espulsione di studenti e docenti stranieri. “Le persone vengono arrestate per le loro idee e i loro scritti. È qualcosa di profondamente allarmante”, osserva Karlekar. “Probabilmente è solo questione di tempo prima che anche negli Usa si debba includere nel nostro database il primo scrittore detenuto. Mi aspetto che accada già nel prossimo anno”. Il Freedom to Write Index si concentra su autori di narrativa, poeti, cantautori, saggisti e scrittori online, escludendo i giornalisti di cronaca. Ma secondo la direttrice del programma Writers at Risk, la pressione è ormai palpabile anche nel mondo accademico e culturale. “Su temi come Israele e Palestina, negli ultimi diciotto mesi si è osservato un marcato effetto inibitorio”, spiega. E aggiunge: “È possibile che crescano i timori di esporsi anche su altri fronti: clima, diritti transgender, diritti delle donne. La conseguenza? Un aumento dell’autocensura”. Ciò che accade negli Stati Uniti, avverte Karlekar, ha ripercussioni ben oltre i confini nazionali. “Gli Stati Uniti sono sempre stati un forte sostenitore della libertà di espressione a livello globale. È fondamentale che governi come quello statunitense o britannico prendano posizione pubblicamente. Se Washington si tira indietro, sarà un colpo durissimo, non solo per le speranze di liberare scrittori detenuti altrove, ma per l’intero equilibrio democratico nel mondo”. Le autocrazie, ammonisce infine il rapporto, hanno imparato a temere - e dunque a reprimere - il potere della parola: “I governi riconoscono la forza delle parole nel riaffermare verità storiche, nel dare voce a chi è stato cancellato dai registri ufficiali, nel custodire e trasmettere la cultura, nel chiamare le istituzioni alle proprie responsabilità. Le democrazie, invece, sono state lente a comprendere che gli attacchi agli scrittori sono insieme preludio e sintomo di più ampie violazioni dei diritti umani, della democrazia e della libertà di espressione”. Il prossimo Freedom to Write Index, quindi, potrebbe raccontare un mondo ancora più cupo per chi scrive. E per chi, scrivendo, osa essere libero. Messico. Le sparizioni sono sparite di Daniele Nalbone Il Manifesto, 30 aprile 2025 Dal 2006 a oggi sono scomparse 127mila persone. Sulla spinta dei familiari il caso arriva all’Assemblea generale dell’Onu, ma la reazione della politica locale è “scomposta”. Può un Paese che conta più di 127mila persone scomparse dal 2006 a oggi scandalizzarsi e parlare di “ingerenze” e “intromissioni” da parte dell’Onu per aver aperto un procedimento urgente sul tema? Nel caso del Messico, è successo proprio questo: sulla scorta di informazioni raccolte in quattordici stati, infatti, il Comitato sulle sparizioni forzate dell’Onu, al termine della sessione che si è conclusa lo scorso 4 aprile a Ginevra, ha deciso di attivare l’articolo 34 della Convenzione per la protezione delle persone dalle sparizioni forzate per chiedere chiarimenti e cooperazione al Messico, con la possibilità concreta di portare il caso fino all’Assemblea generale Onu. La decisione ha fatto scattare la reazione delle istituzioni messicane. Il primo a insorgere è stato Gerardo Fernández Noroña, presidente del Senato, per il quale l’Onu sta adottando misure “senza alcuna prova” e con l’unico obiettivo di “intromettersi” nella politica messicana “contribuendo ai tentativi della destra di mostrare un legame tra il governo” di Claudia Sheinbaum “e i gruppi criminali”. Quindi è stato il turno di Rosario Piedra Ibarra, alla guida della Commissione nazionale dei diritti umani, la quale ha dichiarato che in Messico “non c’è nessuna crisi di sparizioni” e, soprattutto, che questa “sia conseguenza delle scelte politiche” del Paese. Una posizione, quella di Piedra Ibarra, che ha fatto infuriare le associazioni dei familiari delle persone scomparse e delle ong, a partire da Amnesty International. Ma cosa comporta la decisione dell’Onu? E, soprattutto, perché dal Messico è arrivata una simile risposta? Per Gabriella Citroni, professoressa di Tutela internazionale dei diritti umani all’università di Milano-Bicocca e presidentessa del Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite contro le sparizioni forzate, “il caso delle fosse clandestine ritrovate nello Stato di Jalisco” in un ranch trasformato in quello che potremmo definire un campo di sterminio, “ha creato un clima di tensione in Messico che ha travolto anche la politica” e fatto da sfondo alla reazione delle istituzioni messicane “al ricorso, per la prima volta nella storia del Comitato sulle sparizioni forzate, all’articolo 34”. In concreto, però, quello che il Comitato sta facendo è dare la possibilità al Messico di chiarire se ci sia una pratica sistematica di sparizioni forzate nel Paese prima di arrivare al cospetto dell’Assemblea generale. “Una richiesta - spiega Citroni - nata sulla spinta dei familiari delle migliaia di persone scomparse e iniziata quattro anni fa, sotto il governo Obrador”. Il Messico, precisa Citroni, “non è sotto accusa ma è stato messo nelle condizioni di spiegare, di dialogare, di entrare finalmente nel merito e al cospetto della comunità internazionale. Ovviamente, se nella prossima sessione del Comitato prevista per settembre si deciderà di portare la questione al cospetto dell’Assemblea generale, dipenderà dalle spiegazioni che verranno date” alla domanda centrale della questione: esiste una pratica sistematica di sparizioni forzate nel Paese? Se la risposta al quesito sarà affermativa, “significa che si stanno commettendo crimini contro l’umanità, con la conseguente possibilità che si attivino altri organi internazionali per accertare la responsabilità degli individui”. Altro elemento che Citroni tiene a chiarire è come “la questione non riguardi il partito di Morena, fondato da Obrador e oggi guidato da Sheinbaum, ma l’intera storia recente del Messico”. Ciò che però non può essere accettato sono le reazioni “scomposte” degli esponenti del governo: “Negare l’esistenza di una crisi delle sparizioni è ri-vittimizzare i familiari delle persone scomparse. Potevano dire “non le ho fatte sparire io”, ma non negare il fenomeno”. Ed è proprio ai parenti che guarda invece Citroni e, in generale, il comitato Onu. “Le famiglie possono essere fonti importanti e fornire informazioni sull’accaduto. Devono essere parte attiva del sistema di ricerca e di tutela”. Invece sono viste “quasi come parte del problema”. Lo stesso vale per le associazioni e le ong: “Contrastare la società civile è un errore sociale, politico e strategico. Tenerle ai margini di una strategia di contrasto del fenomeno, che viene costantemente sminuito, ha come obiettivo quello di tenere a freno la possibile indignazione della popolazione”. Da qui, è inevitabile pensare che a infastidire il governo sia stata la volontà dell’Onu di accendere i riflettori sulla questione: “L’accusa sembra essere quella di aver portato alla ribalta internazionale il problema in un momento delicato, con la scoperta delle fosse di Jalisco”. Per il comitato, quindi, il governo Sheinbaum è ora a un bivio. Ricevere l’assist dell’Onu e fare finalmente luce sul fenomeno o farsi autogol, mostrandosi restii a dare una risposta a livello locale e internazionale. Rispondere in maniera viscerale a una richiesta di informazioni va nella seconda direzione. “L’augurio - conclude Citroni - è che queste risposte siano state, diciamo così, sfortunate e poco ragionate e che il governo decida invece di lavorare insieme al Comitato, alle ong, alle associazioni. E soprattutto alle famiglie”. In fondo, i numeri non mentono e non possono essere più nascosti: solo a Jalisco, lo stato messicano in cui è avvenuto il macabro ritrovamento delle fosse comuni, dal 1° dicembre 2018, giorno dell’inizio del governo Obrador, al 21 marzo 2025 - data ultima di aggiornamento del triste dato - sono scomparse quasi 12mila persone.