Perché anche quella di un assassino non è una vita a perdere di Marina Corradi Avvenire, 9 agosto 2025 Il suicidio in carcere di Stefano Argentino, che aveva ucciso Sara Campanella a marzo, contiene una cupezza straordinaria. Chi ne risponderà, se tutti sembrano aver già dimenticato? Scivola lentamente verso il basso sui siti dei quotidiani il suicidio in carcere di Stefano Argentino, assassino a marzo, a Messina, di Sara Campanella, 22 anni, studentessa di Medicina. Lui, innamorato non corrisposto, ne era ossessionato. 27 anni, da mesi era recluso a Messina. Evidentemente soggetto a rischio suicidio - proposito già espresso ai genitori la sera dell’omicidio -, era stato in regime di sorveglianza speciale. Poi, sembrando più tranquillo, Argentino era stato rimesso in cella con due compagni. Martedì alle cinque di sera è rimasto solo, e si è impiccato. Come scivola giù nei titoli questa storia terrea. In fondo, solo un assassino: cinque premeditate coltellate a una ragazza che forse un anno fa gli aveva, per una volta sola magari, sorriso. E Stefano aveva perso la testa: la inseguiva ovunque, e quei continui, sfinenti messaggi sul cellulare. Sara sempre più netta nel “no”. Lui ormai come un’ombra, appostato negli angoli ad aspettarla. Finché il 31 marzo lei scrive alle amiche: “C’è il malato che mi insegue”. Pochi istanti, le coltellate. Strazianti, il giorno dopo, le parole della mamma: “Eri la mia cometa, ora giro nel vuoto”. Straziante anche la pena dell’altra madre, cui il figlio quel 31 marzo confessa di volere morire. Lo aveva detto chiaro. Lo aveva ripetuto. Tutto il dramma di Stefano, dalla ossessione all’omicidio al desiderio di morte, sembra innestato da uno stato psicotico. Tuttavia, il suo avvocato afferma di avere chiesto al gip una perizia psichiatrica, che sarebbe stata negata. Perché, come è possibile, ci si chiede. Un vuoto a perdere. Così è stato trattato un ventenne evidentemente malato dai magistrati, dalla direzione del carcere, insomma: dallo Stato. Nelle cui prigioni i suicidi si susseguono, normale amministrazione. Dall’inizio dell’anno, oltre 40. Ma questo di Messina contiene in sé una cupezza straordinaria. C’erano un anno fa due ragazzi, che si sono incontrati. Forse, all’inizio, Stefano a Sara era sembrato simpatico. Lui, quel suo sorriso non aveva più potuto scordarselo. Lo rivoleva a qualsiasi costo, era ormai la ragione della sua vita. Era qualcosa forse che sanava il vuoto profondo che, senza saperlo, aveva dentro? E morta lei, nulla aveva più senso. Lo aveva detto subito a sua madre, che voleva morire. Gli antipsicotici sono da decenni in commercio, uno psichiatra avrebbe potuto fermare, se non l’omicidio di Sara, almeno l’autodistruzione di un ragazzo. Sì, di un femminicida. Un malato che aveva solo 27 anni. I genitori di Sara hanno detto ieri di un grande dolore. Umani almeno loro, pure lacerati dal lutto. Ma i giudici, per la perizia non fatta, e quelli che hanno lasciato Argentino da solo, risponderanno forse di qualcosa? Come un vuoto a perdere. Su questi due ragazzi si allarga una cappa di disperazione assoluta. Lei cancellata a 22 anni, lui rinchiuso e buttato via. Abbiamo appena visto la moltitudine dei giovani dal Papa, a Roma. Contro alla luce di quella festa, la fine di Sara e Stefano è il buio di due buchi neri. E questi due? E quanti sono, non visti, quelli nello stato mentale di Stefano? Quasi ogni giorno una giovane donna muore per un “no” E giù decreti legge, e braccialetti elettronici. Ma sembra evidente che siamo oltre la cronaca nera, e dentro a un problema educativo e sociale urgente. Quale rabbia cova, nel terzo millennio, in alcuni figli verso le donne, e da dove viene, e come fermarla? Cercare almeno di cominciare a capire. Prima, assolutamente prima: guardando bene negli occhi quei figli. E, perfino dopo. Perché non finisca come a Messina, in un apparente trionfo della morte. Lo avessero curato, gli avessero offerto una mano, una faccia, a Stefano. Sì, un assassino. Misericordia anche per un assassino. Per lui e per noi, che stiamo a guardare queste due vite finite così presto, e non dovremmo rassegnarcene. La disperazione va riconosciuta e fermata all’origine. O come una sostanza tossica, inavvertita, si allarga. Paura, odio, rabbia, sono reazioni umane. Ma sopra a tutto almeno pietà, alla fine, per Sara e anche per Stefano - come un figlio che si è perso nel buio. Le morti silenziose per inalazione di gas in carcere di Luna Casarotti* napolimonitor.it, 9 agosto 2025 “Un’altra bomboletta. Un altro corpo. Non c’era più ossigeno in cella, ma ce n’era abbastanza per bruciare un’altra vita nel silenzio dell’indifferenza. La libertà non è sempre oltre il muro, a volte è nascosta dietro una valvola, dentro una boccata”. Il giudice sfoglia il codice penale, il ministro pronuncia slogan in conferenza stampa, ognuno ha la sua parte nel teatro della legalità. La pena ha la sua cornice, la colpa la sua misura, l’espiazione il suo recinto. Ma appena cala il sipario pochi metri di cemento, un bagno alla turca, un tavolino inchiodato al pavimento, spazi inospitali, finestre sbarrate e ambienti privi di aerazione. In questo spazio claustrofobico, privo di aria e di orizzonti, un uomo inala gas da campeggio per non sentire più il peso della sua esistenza. Quel gas arriva da una bomboletta acquistata tramite il “sopravvitto”, l’elenco dei prodotti ufficialmente disponibili in carcere. È lo stesso articolo che si trova accanto ai fornelli da picnic nei supermercati. Sull’etichetta una raccomandazione chiara: “Usare solo in ambienti ben ventilati” (la cella è un bozzolo di tre metri per quattro con la finestra “sigillata”). Si censura una lettera, si vieta un accendino, ma il butano industriale è autorizzato. La bomboletta è legale, viene richiesta col modello 72, un modulo con cui ogni detenuto può acquistare, a proprie spese, prodotti extra rispetto alla dotazione di base fornita dallo Stato. È un foglio semplice, da compilare a penna, con il numero di matricola, i codici degli articoli richiesti, la quantità desiderata e la firma. Una volta ordinata, la bomboletta viene custodita in armadietti chiusi a chiave, sotto il controllo degli agenti. Quando finisce, si restituisce e se ne prende un’altra. Tutto tracciato. Eppure “tirarsi il gas”, inalare il butano per evadere non fisicamente ma mentalmente, è una pratica che tutti conoscono ma nessuno affronta, perché cambiare la sceneggiatura significherebbe ammettere che c’è un problema. L’effetto? Un blackout chimico: euforia, vertigini, battito irregolare, labbra anestetizzate, cervello in tilt. Per qualche minuto non c’è più il muro, la cella, la pena. Solo un vuoto ovattato dove la coscienza galleggia o affonda. Per alcuni è tregua, per altri fuga, per altri ancora un addio. Nessuno lo chiama con il suo nome di “evasione tossica” ma dentro c’è chi cerca pace, chi l’oblio, chi non vuole più tornare da quel viaggio. Se non si può evadere con il corpo, ci si dissolve con la chimica, e se non torni non è quasi mai suicidio, ma un “evento imprevedibile”. Tutto questo avviene nel pieno rispetto delle norme. Il modello 72 continua a offrire bombolette. Basterebbe poco per cambiare: una circolare, una revisione del catalogo, una scelta più sensata. Le piastre elettriche? Troppo costose, troppo complicato adeguare gli impianti, dicono. Si potrebbe optare per altre bombole e fornelli, con dispositivi atti a limitarne l’uso improprio. Ma nemmeno questo si fa. Costa sicuramente meno lasciare tutto com’è, e anche le ditte che gestiscono il sopravvitto hanno il loro tornaconto. Offrire soluzioni più sicure significherebbe investire in alternative meno redditizie. E poi aumentano i prezzi, i detenuti protestano, non per capriccio, ma perché molti non hanno soldi, non ricevono pacchi, non fanno colloqui, non hanno familiari su cui contare. In carcere anche pochi centesimi fanno la differenza. E allora, per evitare il problema, si sceglie di non cambiare nulla. Del resto, già la carta igienica, lì dentro, sembra un bene di lusso: la paghi come seta, ma gratta come carta vetrata. Così, la bomboletta resta l’unica opzione disponibile, utile per cucinare o per staccare la spina, a seconda dell’umore. E gli psichiatri? Parlano, ma nessuno li ascolta. Già nel 2019, la Rivista di Psichiatria denunciava l’inadeguatezza dello Stato nel contrastare l’abuso di bombolette in carcere, spesso legato ad atti autolesivi o suicidi. Le morti per inalazione non vengono sempre classificate come suicidi: restano escluse dalle statistiche ufficiali, senza indagini né responsabilità attribuite. Questa contraddizione è grave e preoccupante. Secondo la medicina legale, l’inalazione volontaria di gas con esito fatale è a tutti gli effetti un suicidio, rientrando nella categoria delle asfissie chimiche volontarie. In questi casi, il protocollo medico-legale prevede accertamenti rigorosi: autopsia completa, analisi tossicologiche, ricostruzione della dinamica e valutazione del contesto psicologico. In carcere tutto questo dovrebbe essere obbligatorio, poiché la privazione della libertà impone allo Stato una responsabilità sulla vita e sull’incolumità del detenuto. Tuttavia, l’amministrazione penitenziaria adotta un approccio incerto: se manca una prova esplicita dell’intento suicidario, il decesso viene spesso classificato come “evento accidentale” o “causa da accertare”. Lo stesso gesto, inalare gas con un sacchetto di nylon, può essere interpretato come uso improprio per alterare lo stato di coscienza e non necessariamente come suicidio. Questo porta a sottovalutare il gesto, a non attivare protocolli di prevenzione e a ignorare il contesto psichiatrico. Dalla relazione del 15 dicembre 2024 del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale emerge che lo stesso garante ha classificato diversi decessi in carcere per inalazione di gas come provocati da “cause da accertare” proprio per questa ambiguità interpretativa. Il risultato è che alcune morti restano fuori dal conteggio ufficiale, rendendo più opaca l’analisi del fenomeno. Ma sebbene la morte per inalazione sia formalmente un suicidio, la responsabilità non può ricadere esclusivamente sul detenuto. Lo Stato, fornendo nelle celle bombole di gas butano (prodotto potenzialmente letale) e non adottando protocolli sanitari e di prevenzione adeguati, contribuisce a creare le condizioni che favoriscono queste tragedie. Inoltre il suicidio in carcere non è mai un atto isolato o imprevedibile, ma spesso il risultato di un sistema che non interviene efficacemente. Gli esperti lo dicono con chiarezza: non basta autorizzare un prodotto, quando potenzialmente letale. Serve una valutazione clinica costante, multidisciplinare, attenta al percorso psichico della persona, non solo momentaneo. Serve sapere chi lo richiede, perché e in che condizione psicologica. Serve uno sguardo clinico. Ma manca. La storia di Fabio Romagnoli lo dimostra. Aveva già tentato varie volte il suicidio. Era affetto da disturbi psichiatrici documentati. La sua fragilità era nota. Gli fu tolta la bomboletta, poi riconsegnata dopo una valutazione che non ha saputo o potuto cogliere il disegno più ampio. Così il suo gesto, per il sistema “imprevedibile”, si è compiuto: eppure lo Stato distribuisce gas butano in celle prive di ventilazione, senza protocolli sanitari adeguati, con medici insufficienti. Vietato negli ospedali, sconsigliato nelle case, il butano diventa compatibile con l’ambiente carcerario. Gesto imprevedibile, dicono. In questo contesto la salute mentale è secondaria e la dignità uno slogan. Dopo ogni tragedia si invocano ispezioni, si esprimono cordogli, poi si archivia tutto e si continua a morire in silenzio: per un colpo di gas, un cappio improvvisato, una psicosi lasciata marcire, un abbandono medico travestito da fatalità. Tutti vedono ma nessuno ascolta, al massimo si verbalizza. Eppure in Italia si può morire così, inalando gas in un luogo dove già respirare è difficile, un prodotto pensato per l’escursionismo e divenuto parte dell’arredo carcerario, un veicolo di fuga, non verso un prato o una montagna, ma verso l’oblio. Una fragranza sintetica che non sa di libertà, ma la imita, come un profumo contraffatto. Perché anche l’aria dietro le sbarre può avere il sapore della burocrazia. *Yairaiha Ets Il Miur stanzia 25 milioni per l’istruzione in carcere di Alex Corlazzoli Il Fatto Quotidiano, 9 agosto 2025 Antigone avverte: “Se non dettagliati rischiano di essere usati per i posti letto”. “Se i venticinque milioni stanziati per le scuole in carcere dal ministero dell’Istruzione non vengono finalizzati rischiamo che finiscano ad essere usati per posti letto”. A usare queste parole, alla notizia del decreto firmato dal ministro Giuseppe Valditara per “potenziare l’offerta formativa rivolta agli studenti in condizioni di fragilità o restrizione”, è il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella. Se da una parte, in linea di principio, l’intento di viale Trastevere è nobile perché “vuole una scuola capace di adattarsi alle esigenze di tutti, compresi coloro che si trovano in ospedale e in carcere, attraverso ambienti di apprendimento innovativi e percorsi su misura”, dall’altra chi si occupa da anni delle garanzie dei diritti dei detenuti ha un occhio critico nei confronti di queste misure a pioggia. “Spesso il ministero dell’Istruzione è succube delle scelte dell’amministrazione penitenziaria. In questo quadro c’è il rischio che i fondi destinati alle scuole se non dettagliati finiscano nel capitolo generico del carcere. Chiariamoci: per cosa saranno usati questi soldi? Per l’edilizia scolastica entro le mura? Per l’innovazione? Per la didattica? Spesso durante le nostre visite negli istituti penitenziari abbiamo trovato aule adoperate per far dormire le persone”, spiega Gonnella. Secondo i dati a disposizione di Antigone, nell’anno scolastico 2023-2024 sono stati erogati 1.711 corsi scolastici (primo e secondo livello), con 19.250 persone iscritte (di cui 8.965 straniere). La percentuale di promossi si è attestata al 43,9?%. Riguardo agli spazi per la formazione, al 15 marzo 2024, su 189 istituti penitenziari 164 (86%) hanno fornito dati relativi agli spazi destinati all’istruzione o alla formazione. Sono stati censiti 627 spazi formativi, di cui 365 attivi e 262 inattivi. Sempre nel 2023, circa il 34% dei detenuti erano inseriti in percorsi formativi, con il 45% di essi che conseguiva la promozione; meno del 3?% risultava iscritto all’Università. “C’è un altro problema che Valditara dovrebbe tenere in considerazione dialogando - sottolinea il presidente di Antigone - con il ministero della Giustizia: ai detenuti iscritti ai corsi va garantita la continuità scolastica. Oggi assistiamo spesso a “sfollamenti” che non tengono conto dei percorsi fatti dalle persone e nemmeno del lavoro degli insegnanti”. A Gonnella piacerebbe che quei soldi fossero destinati anche alla formazione dei docenti che vanno in carcere. Infine, il tema università. Nell’ultimo rapporto sulla condizione della detenzione, Antigone scrive: “Sui cinquanta Istituti penitenziari in cui sono presenti più di dieci iscritti a corsi universitari, secondo la Conferenza dei Rettori degli atenei solo 14 dispongono di “sezioni dedicate” per gli studenti, ovvero camere o reparti adeguati allo svolgimento dello studio e locali comuni, la cui assegnazione avviene ove possibile sulla base di decisioni prese dalla direzione dei singoli istituti. Di queste quattordici, dieci sono sezioni diurne e notturne, mentre quattro solo diurne, ossia il cui accesso è limitato alle sole ore di studio e attività”. Le carceri italiane sono al collasso. Soluzioni? Serve il numero chiuso di Francesco Rosati Il Riformista, 9 agosto 2025 Il sovraffollamento dei penitenziari in Italia è in media del 130%, un numero che potrebbe essere abbattuto seguendo il modello di rieducazione britannico. “Frate Beppe, se non aggiustate la scuola, la camorra vincerà sempre. Perché la camorra ha paura della scuola. Perché vive di silenzio, mentre a scuola si imparano le parole”. Non è un politico a parlare, né un sociologo. È un detenuto del carcere di Alessandria, rivolgendosi al frate Beppe Giunti. Una frase semplice, ma potentissima, che fa emergere la visione distopica di istituti penitenziari privi della funzione rieducativa, ridotti a contenitori disumani che moltiplicano povertà, violenza e illegalità. Sul sovraffollamento - in media al 130% - e sull’abbandono sanitario e psicologico si è scritto molto. Ma questa realtà, ormai talmente consolidata, non suscita più stupore, solo un triste e rassegnato oblio. Di fronte a questo disastro, che non fa più notizia, c’è chi rilancia una proposta concreta: il numero chiuso in carcere, sul modello britannico. A riproporlo in Italia è il movimento Europa Radicale, con una veglia notturna organizzata di fronte al carcere torinese “Lorusso e Cutugno”. “Nel Regno Unito - spiega Igor Boni, coordinatore di Europa Radicale - se la capienza di una struttura è di 100 posti, non è consentito superarla. Se arriva il 101esimo detenuto, è obbligatorio liberare un posto tramite misure alternative: arresti domiciliari, affidamento ai servizi sociali, comunità. Questo costringe lo Stato a usare davvero tutto l’arsenale delle pene non detentive, già previste dalla legge ma raramente applicate.” A Milano e Foggia il sovraffollamento raggiunge il 200%. Il sistema è al collasso. Il carcere, così com’è oggi, non funziona: non rieduca, non protegge, non previene. In gran parte degli istituti penali le condizioni strutturali sono disumane: ambienti degradati, muffa, infiltrazioni d’acqua, scarsa aerazione, docce fatiscenti. Tutto ciò ha impatti gravi sulla salute fisica e mentale dei detenuti. È utile ricordare che è ferma in Parlamento la proposta di legge Giachetti-Bernardini sulla liberazione anticipata, che permetterebbe a migliaia di detenuti di uscire dal carcere. Tra richieste di amnistia e indulto, e provvedimenti straordinari per riportare lo Stato nella legalità, in mezzo a una diffusa confusione, resta una sola certezza: servono decisioni politiche chiare e coraggiose. Il modello del numero chiuso potrebbe essere una di queste. Di certo, non possiamo più assistere inermi al tragico bollettino quotidiano di suicidi e violenze. Da medico che salvava vite nei campi profughi dico: il carcere è peggio di Mimmo Risica L'Unità, 9 agosto 2025 Sono luoghi che dovrebbero rieducare, ma a farla da padrone è il sovraffollamento e la carenza di personale, di risorse e di progettualità. Dopo tanti anni di esperienza da medico con missioni in Africa, Afghanistan e Iraq, operando in ospedali e campi profughi, in Italia nelle zone di lavoro di migranti e nel Mediterraneo centrale in salvataggio, pensavo di aver già visto abbastanza del degrado che la nostra (in)civiltà è riuscita a diffondere. Ma quando con Nessuno tocchi Caino ho avuto occasione di vistare le nostre carceri, mi sono reso conto che ancora non avevo visto il peggio. È stato scioccante entrare come medico in istituzioni ufficialmente create per contenere, ma anche rieducare e reinserire chi ha commesso degli errori e verificare come invece siano stati trasformati in luoghi dove la dignità dell’uomo non ha domicilio, dove il sovraffollamento, la carenza di personale, risorse e progettualità rende la vita di detenuti e detenenti una continua afflizione. Una buona parte degli ospiti delle nostre galere sono dipendenti da sostanze, indotti a delinquere dalla loro dipendenza, immigrati che non hanno trovato un sistema di accoglienza, costretti a delinquere per sopravvivere e permanere reclusi non avendo un domicilio dove poter scontare una detenzione domiciliare, persone con patologie psichiatriche. Queste, anche se non evidenti prima dell’ingresso, vengono slatentizzate dalla detenzione, portando a comportamenti incongrui (e quindi ulteriormente puniti) o autolesionistici. Se si evitasse di rinchiudere queste persone, già il problema principale, il sovraffollamento, potrebbe essere superato. Ma non si supererebbe comunque la patogenicità degli istituti di pena. Nei briefing che precedono le visite di NTC gli operatori ci comunicano la presenza di pochi detenuti con problemi psichiatrici, intendendo quelli con una diagnosi precisa (schizofrenia, disturbo bipolare...), spesso già antecedente l’arresto. È di per sé evidente che essi non dovrebbero stare in carcere, ma essere presi in carico dai servizi psichiatrici. Ma se poi si va a vedere quanti detenuti assumono psicofarmaci, per combattere l’ansia e la depressione indotte dal sistema, facilmente si arriva a percentuali attorno al 90%. Questo ci indica che il carcere di per sé è patogeno, cioè genera malattia mentale, e non c’è da stupirsi: in molti casi le celle sono chiuse 20 ore al giorno, l’accesso al lavoro è limitato a poche unità, le attività trattamentali sono limitate dalla carenza di personale e così via. Le tristissime statistiche sui suicidi (20 volte l’incidenza della popolazione generale) testimoniano come la carcerazione sia inevitabilmente patogena. Ma la nostra Costituzione (art.32) impone “la tutela della salute come diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività” e non consente, oltre alla limitazione della libertà personale, di minare la salute di persone affidate alla custodia dello stato. La sua tutela è ora affidata alle aziende sanitarie, ma i pochi medici messi a disposizione, con i loro pochi mezzi, non possono che cercare di limitare il danno indotto dalla carcerazione, non certo ambire a prevenirlo. La situazione detentiva nei vari istituti può essere anche molto diversa: recentemente ho visitato il Carcere di Trapani e di Favignana. Si passa dal totale degrado di Trapani, dove l’attività trattamentale o il lavoro, interno o esterno che sia, sono una chimera, a quella di Favignana, dove, nonostante sia un carcere “chiuso”, circa la metà dei detenuti gode di attività trattamentali o di lavoro dentro o fuori dal carcere. Non che siano tutte rose e fiori: le celle, pur ampie rispetto ad altri istituti, sono progettate per 3 detenuti, ma occupate da 4 o 5, e non è un cambio di poco conto. Non si capisce poi perché un carcere nel quale la conflittualità è minima e l’accesso a misure “premianti” alto, debba ancora mantenere un regime “chiuso”. Come è possibile, mi domando, che si possa ancora tollerare che la maggioranza, temo, degli istituti nel nostro paese siano solo luoghi di pena e afflizione, pur contando realtà che - con tutti i problemi e difetti - sembrano rispettare la dignità delle persone recluse, tendono a rispettare il mandato costituzionale e normativo di rieducazione e reinserimento, salvaguardano un’attività lavorativa se non gratificante, almeno accettabile per i detenenti. Speriamo che l’attività di monitoraggio che NTC svolge anche per il DAP sia un incentivo a uniformare verso condizioni migliori tutti gli istituti. È anche stradimostrato che, laddove i detenuti sono rispettati come persone, la probabilità di reiterazione dei reati crolli, con un evidente vantaggio per tutta la società, anche da un punto di vista strettamente “economico”. Investire sulle carceri (strutture, personale, attività) significa non solo migliorare gli esiti, ma anche ridurre le spese. Come medico mi è chiaro che prevenire è molto meglio che curare sia in termini di esiti che di spesa. Non penso sia diverso nell’amministrazione penitenziaria. Oltre al reo, il sistema penitenziario condanna i familiari di Cesare Battisti L'Unità, 9 agosto 2025 Oggi l’ex ufficiale della Marina ha qualcosa che non va, ma non dice niente. Ha ripreso il suo andirivieni come niente fosse, magari aspettandosi che sia io a dar voce al suo turbamento. È così che qui funziona, le domande infastidiscono, ma se non ce le fanno non vediamo l’ora di rispondere. E si capisce, chi avrebbe voglia di tornarsene in cella con un peso sul cuore e poi lasciarlo lievitare fino all’indomani? L’ora d’aria in carcere serve proprio a questo, a toglierci i sassolini dalle scarpe e a svuotare il secchio della spazzatura. Con qualche variazione, ma non le barzellette, qui non fanno ridere. Ci vuole ben altro per scalfire lo spesso strato di malinconia del detenuto. Qui, l’attività più comune è fingere di ascoltare le altrui vicende giudiziarie. Sempre le stesse, cambiano le sfumature e col tempo si diventa bravi a insaporirle con un po’ di umorismo. C’è anche chi parla di lavoro e lo fa con tale applicazione che sembra vero. Parlano di professioni, le più svariate, di quando erano liberi. Mi è capitato di passeggiare all’aria con un tale sulla trentina che era già stato saldatore, camionista, poi sommozzatore in Sardegna, bagnino ad Acapulco. Il resto me lo sono dimenticato, ma si trattava di piccole funzioni di ripiego. Da chiedersi dove aveva trovato il tempo di farsi una quindicina di anni di galera. Ma a nessuno verrebbe in mente di mettersi a fare il pignolo, quando toccherà a lui esagerare, non gliela perdoneremmo. Anche il mio ex ufficiale parla delle proprie sfighe. Racconta storie, come me, qui lo facciamo tutti. Ma lui è uno di quelli che sintonizza la sua TV su programmi di politica e di scienza, cose impegnate e grazie alle quali ha il vantaggio di intrattenere senza farsi capire. Tranne quando ha bisogno di sfogarsi per una iettatura, allora mi affianca all’aria perché crede che io non sia capace di fingere di ascoltare come fanno tutti. È un progressista, di sinistra non si dice più ormai, e poi da queste parti sarebbe una rarità. Uno che non parlerebbe mai di una donna nei modi come una volta succedeva solo al bar, ma che adesso si sente dire anche alla televisione. D’altronde, quello della donna qui è un argomento a rischio, non si sa mai: sulla scala dell’alto fattore troneggiano le mamme, ben al di sotto se la giocano le mogli e le sorelle - salvo invertire i ruoli dopo una lite al colloquio. Le altre sono tutte poco di buono, i più scafati dicono escort. A questa ultima categoria vanno spesso ad aggiungersi le ex mogli, il cui disprezzo aumenta secondo la quantità di beni, spesso immaginari, che si sarebbero fatte marito galeotto, intestare dal prima di dileguarsi. L’eventualità che la donna, invece, lo abbia abbandonato solo per disperazione sembrerebbe tanto remota quanto azzardato sostenerla. L’ex ufficiale di marina di sua moglie parla poco e quando lo fa sceglie le parole. Un vero gentleman, alla nostra Gruber piacerebbe averlo a tavola a discutere. Certo, qualche problemuccio ce l’ha pure lui, e quale coppia non ce l’ha? Solo chi ha perso le speranze di farne una, di coppia, può considerarsi dispensato da dispiaceri simili. I crucci di coppia tendono ad aumentare in modo esponenziale quando uno dei partner sta dentro e l’altro o l’altra sta fuori. Lui tutto questo lo capisce, ma l’aver letto e studiato le Luci di Toni Morrison, o anche tifato per le femministe in certi comodi salotti, qui non aiuta. Il dubbio che rode l’anima per la donna lasciata in libertà è affar privato. Nessuno qui oserebbe confessarlo senza passare per un debole, o anche per cornuto. Tranne, come dicevo prima, avendo già provveduto a modificare la qualifica della donna in questione. Non è il caso dell’ex ufficiale, lui sa ricorrere alla ragione, analizza i suoi timori, li scompone e ricompone fino a farne un’arma contro un sistema penitenziario che, oltre al reo, condanna i famigliari, distruggendone l’affettività: dividi la famiglia e impera, sembra il motto della giustizia penale. Anche se fatta per lo più di occhiate, questa nostra conversazione potrebbe degenerare, l’intimità è una cosa sacra, inconfessabili sono i desideri. L’ex ufficiale di marina è prudente, gira sui tacchi e con me cambia esca: “Hai visto? Ieri alla televisione i politici hanno ricordato gli anni di piombo, ma per le stragi nere nemmeno una parola”. Ho alzato gli occhi al cielo. Nella porzione di azzurro che spetta a noi, nemmeno un batuffolo bianco per tamponare la ferita. Appena il fiato per dire: “Già, se le commemorassimo tutte, le stragi, vecchie e nuove, non ci basterebbe un calendario.” Ma già stavo pensando ad altro, che sarebbe lo stesso, ma visto da un ragazzo di cinquanta anni fa. L’autunno difficile tra politica e giustizia di Stefano Folli La Repubblica, 9 agosto 2025 Dalla riforma Nordio al caso Almasri, stavolta non è una scaramuccia bensì una vera battaglia. È ormai chiaro che il tema politico dell’autunno-inverno sarà l’ennesimo conflitto tra il centrodestra di governo e una parte non secondaria della magistratura. Come mille volte in passato, ma stavolta con maggiore enfasi. Perché siamo arrivati al nocciolo di un tema che investe il rapporto di potere fra due protagonisti da anni del dibattito pubblico: con ruoli e responsabilità diversi, ma tant’è. In tal senso, è persino positivo che il caso Almasri sia esploso. Dopo anni di reciproche accuse, usate come una clava, e di invasioni di campo più o meno vere o verosimili, ora si potranno forse fissare nuovi confini. La stabilità del sistema ne ha urgente bisogno. Stavolta però non è una scaramuccia, bensì una vera battaglia. La riforma Nordio, quale che sia il giudizio che se ne può dare, è destinata a ridefinire gli equilibri della magistratura: con i due Csm derivanti dalla separazione delle carriere e il riordino delle correnti, nulla sarà più come prima. E il successivo referendum confermativo della legge costituzionale sarà un passaggio cruciale per le sorti della cosiddetta Seconda Repubblica. Per l’esecutivo di Giorgia Meloni si tratta di un percorso in salita appena cominciato. Gli sviluppi del caso Almasri richiedono di essere affrontati con un misto di determinazione e di nervi saldi. Gridare ai “complotti” delle toghe serve solo a intorbidire le acque. Così come adombrare tentazioni eversive della destra, senza precisare fatti e circostanze, significa uscire di strada. Si capisce che il presidente della Repubblica sia sulle spine. Senza dubbio, all’inizio la torbida vicenda Almasri era stata sottovalutata: il cinismo della realpolitik avrebbe imposto subito il segreto di Stato, accettando lo strascico delle inevitabili polemiche. Invece si è preferito adombrare il punto centrale della sicurezza nazionale, ma senza trarne tutte le conseguenze. Si pensava che fosse più utile provare a minimizzare, segno che forse qualcuno, in qualche ministero, aveva qualcosa da farsi perdonare, magari una o più leggerezze. Nel frattempo la miccia si è consumata e ora siamo al Tribunale dei ministri, il cui esito è scontato, ma soprattutto all’ipotesi - secondo molti più di un’ipotesi - che nell’inchiesta sia coinvolta la più stretta collaboratrice del Guardasigilli, la sua capo di gabinetto. Su questo giornale Lorenzo De Cicco ha riassunto i termini della questione, citando il caso dell’ex sindaco di Roma, Alemanno. Detto che la vicenda attuale è in parte diversa, i costituzionalisti, sia pure senza negare la complessità della matassa, tendono ad ammettere che lo “scudo” protettivo a tutela dei ministri si estende ai loro collaboratori “connessi” al caso di cui si discute. Così Ceccanti, Azzariti, Celotto e altri in varie interviste. Questo non significa che il problema si stia avviando a un esito non conflittuale. Tutt’altro. Il livello dello scontro politico deve ancora essere esplorato. Finora siamo rimasti, diciamo così, nel campo giuridico. L’opposizione ha colto un motivo non secondario per tenere sotto tiro il governo: vedi Matteo Renzi che in queste circostanze, pur avendo subito negli anni non poche inchieste giudiziarie, è svelto a scagliare il dardo contro il quartiere generale. E in termini politici, non si può dargli torto. Ma la premier, per quanto in difficoltà, ha il temperamento per trarsi d’impaccio. È da capire chi saprà muoversi con senso della misura. Intanto a palazzo Chigi ha ottenuto che l’intero governo resti compatto. Per cui Nordio ripete alla lettera l’ordine superiore: “Mi assumo la piena responsabilità politica, nessun collaboratore si è mosso in autonomia”. E il costituzionalista Celotto, che pure considera giustificato ricorrere allo “scudo” ai vari livelli, dichiara al Foglio che “in ogni caso la democrazia impone obblighi di trasparenza e legalità. Siamo tutti soggetti alla legge”. Caso Almasri, lo scudo non basta a salvare la capa di gabinetto di Mario Di Vito Il Manifesto, 9 agosto 2025 L’immunità a Bartolozzi è per i reati in concorso con Nordio, ma non copre le dichiarazioni “mendaci” al tribunale dei ministri. Attesa per l’iter parlamentare, ma la procura vuole andare fino in fondo. La città giudiziaria di piazzale Clodio, a Roma, è praticamente deserta in questi primi giorni di agosto. La pratica Almasri, con il tribunale dei ministri che ha terminato il suo lavoro venerdì scorso e il procuratore Francesco Lo Voi che ha trasmesso gli atti al parlamento nella giornata di martedì, è sostanzialmente sbrigata. Restano poche cose da fare tra chi già è in ferie e chi ci andrà a breve, le indagini non faranno grandi progressi finché la Camera e il Senato non si saranno espressi sulle richieste di autorizzazione a procedere nei confronti di Mantovano, Nordio e Piantedosi. Con la posizione della capa di gabinetto di via Arenula Giusi Bartolozzi che resta sospesa: benché non indagata, tutti - a partire dal governo e dalla maggioranza - sono convinti che presto o tardi la sua iscrizione arriverà. Ad ogni modo il cavillo salvifico per lei è già stato trovato in una legge del 1989 che estende l’immunità anche a chi è indagato per reati in concorso con dei parlamentari. Per la procura di Roma, che vorrebbe andare fino in fondo sulla storiaccia della liberazione dell’aguzzino libico Osama Almasri, il problema non risiede nella dubbia interpretazione di una norma sin qui mai utilizzata - i costituzionalisti si interrogano ma nessuno dà risposte definitive -, perché in ogni caso per dirimere la controversia verrebbe sollevato il conflitto d’attribuzione e ci sarebbe poi da aspettare il pronunciamento della Consulta. Vorrebbe dire mettere una pietra sopra il caso Almasri per diversi mesi. Vorrebbe dire azzoppare fatalmente l’indagine. Ma forse il punto è un altro: se ci fosse stata l’intenzione di indagare Bartolozzi per concorso in un reato ministeriale - è il ragionamento che si fa in piazzale Clodio - sarebbe già stato fatto. E allora bisogna rileggere gli atti del tribunale dei ministri, soprattutto nella parte in cui le giudici Maria Teresa Cialoni, Donatella Cesari e Valeria Cerulli bollano la testimonianza della capa di gabinetto come “inattendibile e, anzi, mendace” da più punti di vista. La strada è dunque quella di un’ipotesi di falsa dichiarazione all’autorità giudiziaria. Che aprirebbe il secondo tempo dell’inchiesta e andrebbe oltre i reati (favoreggiamento, omissione d’atti d’ufficio e peculato) per i quali con ogni probabilità il parlamento negherà l’autorizzazione a procedere, mettendo di fatto quel segreto di stato che Meloni proprio non vuole apporre. In questo scenario non si parlerebbe più del caso Almasri e di quello che è successo tra il suo arresto (il 19 gennaio) e il suo rimpatrio (il 21 gennaio), ma di un qualcosa che è accaduto in un altro momento. C’è di più: così facendo sarebbe inoltre possibile chiamare ministri, sottosegretari e premier a dire la loro in qualità di testimoni o persone informate dei fatti. Si vedrà, anche perché bisogna sottolineare che la decisione del tribunale dei ministri è andata molto oltre il parere del procuratore Lo Voi, che avrebbe voluto archiviare non solo Meloni, ma anche Piantedosi e Mantovano. Vero è che l’epicentro della questione è il ministero di via Arenula, che la decisione di Piantedosi di muovere un aereo per riportare il boia di Tripoli a casa sua ne era una conseguenza e che Mantovano, in quanto autorità delegata alla sicurezza della Repubblica, potrebbe - con qualche ragione - opporre il segreto di stato di fronte alle inevitabili domande sui rapporti del nostro paese con la Libia. Ad ogni modo, e al di là di ogni distinguo giudiziario, il governo ha deciso di assumersi la piena responsabilità politica dell’affaire Almasri. Già lunedì sera, dopo aver annunciato via social di essere stata archiviata, Meloni ha rivendicato tutto quanto: “Ogni scelta, soprattutto così importante, è concordata”. E la stessa cosa, si parva licet, ha fatto anche Nordio giovedì, quando - “inorridito” e “con raccapriccio” - ha commentato l’ipotesi di incriminazione di Bartolozzi sostenendo che lei non avrebbe mai e poi mai fatto nulla senza il suo assenso (anche se lui è rimasto a casa sua a Treviso durante il weekend decisivo, mentre lei a Roma si dava molto da fare e ha partecipato pure a una riunione con i servizi segreti). Del resto, a destra, è parere diffuso che in ogni storia di immigrazione il governo non abbia che da guadagnare consensi. Anche se si parla di aver fatto fuggire un ricercato dalla Corte penale internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità. Non conta il merito di una storia che, a conti fatti, per Meloni e soci è solo l’ennesimo atto della guerra alla magistratura. Sullo sfondo c’è sempre il referendum costituzionale sulla riforma della giustizia previsto per la prossima primavera. Un evento che agli italiani verrà presentato come una scelta di campo priva di sfumature e distinguo: o state dalla parte del governo o state dalla parte dei giudici. “Bartolozzi a processo? La legge sui ministri riguarda anche i funzionari” di Ruggiero Montenegro Il Foglio, 9 agosto 2025 “Bartolozzi potrebbe essere chiamata a rispondere”. Il professore di Diritto costituzionale spiega perché anche per la capo di gabinetto di Nordio potrebbe essere necessaria l'autorizzazione a procedere da parte della Camera. Un disegno dei magistrati contro il governo? “È una dinamica ricorrente, evitare il complottismo”. Alfonso Celotto lo premette: “Occorre muoversi con la massima cautela, siamo di fronte a una vicenda complicatissima, che ha anche risvolti costituzionali e internazionali”. Il professore di diritto costituzionale all’Università Roma tre parla del caso Almasri, per cui il Tribunale dei ministri ha chiesto l’autorizzazione a procedere nei confronti dei ministri Carlo Nordio e Matteo Piantedosi e per il sottosegretario Alfredo Montavano. Una vicenda in cui avrebbe avuto un ruolo, tutto da verificare, anche la capo di gabinetto Giusi Bartolozzi - figura centrale al ministero della Giustizia. Anche per lei c’è il rischio di un processo? “Tutti i pubblici dipendenti sono soggetti a responsabilità, come ribadisce l’articolo 28 della Costituzione. Ora, i fatti su Almasri non li conosciamo, c’è un procedimento in corso. Però anche un capo di gabinetto, che per di più è un magistrato, in linea teorica potrebbe essere chiamato a rispondere, sia dinanzi al Tribunale dei ministri, per connessione rispetto ai ministri, sia davanti alla giustizia ordinaria”, spiega Celotto - che nella sua carriera ha ricoperto più volte l’incarico di capo di gabinetto (fino a febbraio 2023 lo è stato al ministero per le Riforme istituzionali con Casellati). E’ anche sulla base di questa possibilità che il governo starebbe studiando le carte, e le leggi, per capire se è possibile “scudare” Bartolozzi. Mentre ieri Nordio si è assunto ogni responsabilità: “Le azioni della capo di gabinetto sono state esecutive dei miei ordini”, ha detto il ministro. “Ovviamente - ragiona il costituzionalista - la competenza del Tribunale dei ministri, ai sensi della legge costituzionale n. 1-89, e della modifica dell’articolo 86 cost., riguarda i ministri. Poi per connessione può riguardare altre persone”. Se Bartolozzi dovesse rientrare in questa casistica sarebbe la Camera a decidere, prevedibilmente respingendo le richieste dei giudici. “Qui - continua il costituzionalista - siamo di fronte a un caso molto particolare e intrecciato. Solo leggendo le carte è possibile capire davvero i vari profili di responsabilità”. Ci si interroga inoltre su quale, eventualmente, possa essere l’accusa per Bartolozzi: secondo gli atti arrivati alla Camera avrebbe reso ai giudici “una versione mendace” dei fatti. Non si può escludere nemmeno che a occuparsi della capo di gabinetto possa essere un tribunale ordinario. “La possibilità in linea teorica esiste”, conferma Celotto. Mentre quanto ai capi di imputazione non è detto che siano uguali a quelli formulati per gli esponenti di governo - favoreggiamento, omissione di atti d’ufficio e peculato. “Il caso più famoso di processi ai ministri riguarda il caso Lockheed, negli anni Settanta”. Toccò vari ministri, tra cui Luigi Gui e Mario Tanassi, con ripercussioni significative su tutta la politica italiana. “Quel procedimento - ricorda il professore - venne consumato addirittura davanti alla Corte costituzionale. In quel caso furono coinvolti ministri e persone a loro connesse, con varie accuse. I profili di responsabilità insomma possono anche essere diversi. Quel che poi andrà valutato è comunque la politicità dei fatti, se una determinata condotta è giustificata dalla funzione che si ricopre. Per questa ragione esiste l’autorizzazione a procedere”. Anche questo si vedrà, ma nel frattempo ci si chiede se il tentativo di “scudare” Bartolozzi non possa in qualche modo creare un caso scuola (e qualche sussulto negli altri ministeri). Celotto non la vede così: “Non si crea un precedente, non penso. Quelli che riguardano le responsabilità dei ministri sono accadimenti estremi, non comuni. Al di là di Bartolozzi, c’è sempre una valutazione che va fatta caso per caso”. Sullo sfondo resta infine lo scontro tra politica e giustizia. La premier Giorgia Meloni ha parlato di “disegno politico intorno ad alcune decisioni della magistratura”. Professore, il caso Almasri rientra in questa prospettiva? “Se il Tribunale dei ministri ha ritenuto che c’è un fumus per andare avanti, penso che nelle loro carte qualche dubbio ci sarà”, risponde Celotto. “Ma è arduo giudicare dall’esterno una questione che potrebbe arrivare sino al segreto di stato. D’altra parte il conflitto politica-magistratura è antico, risale almeno a Mani Pulite ma ci sono esempi precedenti. E poi Berlusconi E Renzi. È una dinamica ricorrente in cui è sempre complicato capire dove sono i limiti della politica e quelli dei pm. In ogni caso - conclude il professore - la democrazia impone obblighi di trasparenza e legalità, siamo tutti soggetti alla legge. Non conviene assumere che tutti i magistrati siano politicizzati, altrimenti il rischio è di scivolare nel complottismo”. “Nordio non è più un ministro, ma uno scudo. I pm hanno fin troppo riguardo per Meloni” di Carmelo Caruso Il Foglio, 9 agosto 2025 Parla Andrea Orlando: “Nordio non guida più il ministero. Pm? Proteste fiacche. Hanno troppo riguardo per Meloni”. “Caso Almasri? Gestione psichedelica, Bartolozzi capro espiatorio, Nordio è ormai uno scudo umano. Troppi pm cercano buone relazioni con Meloni”. Intervista all'ex ministro della Giustizia. Orlando, sul caso Almasri, lei avrebbe suggerito di porre il segreto di stato? “Non ravvedo le ragioni. Sento parlare solo ora di interesse nazionale ma l’interesse non si tutela violando le richieste della Corte Penale internazionale, un sistema a cui abbiamo aderito, o oltrepassando istituti”. Da ex ministro si è mai trovato di fronte a un caso simile? “Sì, e una cosa è certa: sono stato supportato da figure di una professionalità incomparabile rispetto a chi ha seguito la vicenda Almasri”. Una curiosità: ha mai incontrato Nordio? Gli ha mai chiesto un appuntamento? “L’avevo chiesto a inizio governo, quando Renzi lo descriveva come una sorta di aderente a Italia viva. Volevo ragionare di giustizia e carceri”. E lo ha avuto? “No. Successivamente l’ho incontrato alla Camera e scambiato qualche frase”. La premier parla “di disegno della magistratura” mentre lei, fa sapere, sui suoi social, che procura generale di Roma e la Corte d’appello, su Almasri, hanno chiesto una sorta di via libera al governo. Sta dicendo che la magistratura è sottomessa a Meloni? “Alla Procura generale e alla Corte d’appello non serviva la valutazione di Nordio. Credo che sia il momento di dirlo, di chiedere un chiarimento. Era una valutazione che non competeva a Nordio, che peraltro non si è sottratto a essa”. Ribalta dunque l’accusa della premier”? “Offro una lettura diversa, generale. Non c’è una risposta omogenea da parte della magistratura e non siamo ai tempi di Berlusconi. Una parte reagisce con i soliti richiami alla Costituzione, tra l’altro un po’ più fiacchi, ma un’altra mi sembra che cerchi buone relazioni con l’esecutivo”. In cosa si traduce la ricerca di “buone relazioni”? “Rispetto al passato noto una maggiore attenzione, un particolare riguardo, e tutela. Metà governo e congiunti sono interessati da inchieste, inchieste che sono andate avanti con riserbo e giustamente, ma diversamente dal passato”. C’è o non c’è l’assedio dei pm a Meloni? “C’è l’assedio del governo alle toghe. Le inchieste estive su esponenti del centrosinistra smentiscono questo teorema”. Anche lei definisce Nordio il “capo di gabinetto del ministro Bartolozzi”? “Mi sembra che il giudizio del ministro su Bartolozzi non sia lo stesso di quello di Palazzo Chigi”. Orlando, in questi anni hanno lasciato Via Arenula capi di gabinetto, capi Dap, Dag… E’ un inferno quel ministero o Nordio ha perso la guida degli uffici? “Hanno abbandonato figure che hanno servito, con valore, impegno, anche governi precedenti di centrodestra. Si è creato un cattivo rapporto fra il ministro e i dipartimenti, si è alterato e compromesso un equilibrio. Anche la volontà di scegliere alla guida del Dap una figura che non si è occupata di carceri la trovo inquietante”. Bartolozzi verrà indagata? “Rischia di diventare un capro espiatorio e invece è solo la manifestazione di un fenomeno complessivo”. Quale sarebbe? “L’insofferenza di questo governo rispetto alle strutture tecniche. Ogni richiamo all’ordinamento vigente viene definito boicottaggio e il funzionario ritenuto ostile rimosso e marginalizzato. Il risultato è l’accentramento dei poteri”. E’ vero che cercate l’alleanza con i magistrati e che la decisione del Tribunale dei ministri è solo un modo per sabotare la riforma Nordio? “E’ l’argomento che usa la destra e la novità è che non lo usa solo la destra italiana. E’ in atto il tentativo della destra globale di mettere in discussione la separazione dei poteri, di abolire l’autonomia della magistratura. La condizionabilità della magistratura riguarda tutti. Cosa accade quando un potere è condizionato da un nostro nemico politico? Ma aggiungo: cosa accade quando un potere è condizionato da un nostro compagno di partito in lotta contro di noi?”. Abbiamo il “liberale” Andrea Orlando? “La mia interpretazione è più larga rispetto a quella del liberale Nordio. Rivolgendosi a Raffaele Piccirillo, un magistrato di valore, che spiegava come nella vicenda Almasri ci fosse stata un’invasione di campo della politica, il ministro ha risposto alle critiche con un sostanziale ‘come si permette”. Ricordo ancora Nordio magistrato criticarmi da ministro ma a differenza di Nordio non ho mai risposto con un ‘come si permette’”. Perché Giuseppe Conte si può permettere di fare il giudice di Cassazione del Pd e leggere le “carte” dei vostri candidati? “Non c’è nulla di scandaloso e anche noi del Pd lo abbiamo fatto con gli alleati. La differenza è che noi lo facciamo senza il tono professorale di Conte”. Crede sul serio che il referendum sulla separazione delle carriere possa essere vinto? “Sì. Si vince”. È estate e si legge sotto l’ombrellone: quale libro vuole consigliare al dotto Nordio? “Montesquieu, De l’esprit des lois”. Veneto. Celle sovraffollate e pure bollenti: digiuno a staffetta per le carceri Raffaella Forin Corriere del Veneto, 9 agosto 2025 Ci sono docenti, imprenditori, avvocati, studenti, architetti, operatori socio-sanitari, consiglieri comunali (Riccardo Poletto, Manuel Remonato e Parolo Retinò), l’assessore di Cassola Oscar Mazzocchin tra i 34 bassanesi che hanno aderito allo “sciopero della fame a staffetta” proclamato nelle scorse settimane “per evidenziare la situazione carceraria italiana tra temperature insopportabili e sovraffollamento e difendere la salute dei carcerati”. Hanno tra i 24 e gli 88 anni. L’iniziativa è partita dall’avvocato Valentina Alberta e dal magistrato Stefano Celli di Milano per poi estendersi in tutta la penisola, Bassanese compreso. Sono oltre 60 mila le persone che, secondo un’espressione gergale ampiamente diffusa, si trovano “al fresco”, ovvero in prigione oggi in Italia. “È beffarda e lo è ancor più nei mesi estivi nei quali le celle raggiungono spesso temperature roventi - spiegano i bassanesi aderenti - E non è l’unico, né il più grave, dei problemi che affliggono le prigioni italiane. Anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha recentemente ricordato che il sistema carcerario è contrassegnato da una grave e ormai insostenibile condizione di sovraffollamento”. Il gruppo si è creato spontaneamente e in modo informale sul territorio, aderendo all’appello arrivato da Milano che invita “a digiunare a staffetta per provare a partecipare, un giorno ciascuno, a una parte infinitesimale della sofferenza che gli uomini e le donne detenute vivono”. “L’abbiamo raccolto e ci passiamo il testimone - proseguono gli aderenti del Bassanese. Molti di noi neppure si conoscono, eppure ogni giorno, dal 14 luglio fino al 13 agosto, ci asteniamo dall’assumere cibi solidi per tentare di provare sulla nostra pelle un po’ della sofferenza della popolazione detenuta.Lo facciamo secondo lo spirito dell’iniziativa: tentare di richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica, e soprattutto della politica, sull’emergenza carceraria che da anni affligge il Paese e che ogni estate, nei limiti del possibile, si fa più allarmante. La diffusa partecipazione a questa mobilitazione è la dimostrazione che il tema è sentito dalla società civile e non solo dagli addetti ai lavori. Il governo ha più volte annunciato interventi, ma alle parole non sono mai seguiti dei fatti. Intanto in carcere si continua a morire: l’anno scorso si è raggiunta la cifra record di 90 suicidi e quest’anno, all’ 8 agosto, sono arrivati già (altri) 53”. Per i bassanesi che stanno digiunando si tratta di un “piccolo ma significativo gesto di vicinanza, anche se la sofferenza provata nell’astenersi dai cibi solidi per un’intera giornata non è neppure lontanamente paragonabile a ciò che oltre 60mila persone quotidianamente patiscono nelle nostre prigioni”. Concludono rifacendosi ad una frase attribuita a Voltaire: “Il grado di civiltà di un Paese si misura dalle sue carceri”“, evidenziando che “se così fosse, ancora oggi potremmo tranquillamente affermare che l’Italia non è, da tempo, un Paese civile”. Hanno aderito: Paolo Banfi, Devis Baggio, Riccardo Nardelli, Alex Vidale, Chiara Pozzi Perteghella, Giuseppe Dall’Omo, Caenaro Nives, Dario Lunardon, Lucia Mongelli, Giada Marin, Elisa Artuso, Egidio Zilio, Prisco Maria Rebellato, Gianfranco Cipresso, Riccardo Poletto, Manuel Remonato, Adriano Zanolla, Paola Facchinello, Anna Stevan, Greta Cammisa, Oscar Mazzochin, Lucia Cuman, Paola Mastella, Daniela Belfatto, Fausto Taras, Enrico Botteon, Stefania Spada, Maria Caterina Bonotto, Paolo Retinò, Francesca Campodonico, Barbara Vangelista , Elisa Zoccarato, Fabio Anedda, Arianna Cortese. Campania. Carenza di braccialetti elettronici, il Garante dei detenuti scrive al prefetto di Napoli Ristretti Orizzonti, 9 agosto 2025 Ciambriello: “c’è un’illegittima permanenza in carcere, una violazione di un diritto già riconosciuto dalla magistratura”. Il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Campania, Samuele Ciambriello, ha inviato una lettera al Prefetto di Napoli, Dott. Michele Di Bari, per segnalare una grave e persistente criticità riguardante la carenza di dispositivi elettronici di controllo i cosiddetti “braccialetti elettronici” necessari all'esecuzione delle misure alternative alla detenzione. “Decine di detenuti attualmente reclusi presso gli istituti penitenziari di Poggioreale e Secondigliano - spiega il garante - risultano destinatari di provvedimenti giudiziari che prevedono la detenzione domiciliare o gli arresti domiciliari. Tuttavia, la mancanza di dispositivi elettronici ne impedisce la tempestiva scarcerazione, generando un’inaccettabile permanenza in carcere nonostante l’autorizzazione dei magistrati competenti”. Secondo quanto emerso, le difficoltà sarebbero riconducibili a problematiche nella fornitura dei dispositivi da parte della società Fastweb, fornitura affidata a livello ministeriale e di competenza del Ministero dell’Interno. Nel concreto, decine di persone attualmente ristrette presso gli istituti penitenziari di Poggioreale e Secondigliano, pur avendo ricevuto dai magistrati competenti l’autorizzazione a scontare la pena in forma meno afflittiva, permangono in stato detentivo esclusivamente per l’indisponibilità dei dispositivi elettronici. Il garante regionale Ciambriello prosegue: “Siamo di fronte a una situazione che rischia di compromettere gravemente l’efficacia delle misure alternative previste dal nostro ordinamento penale, generando un evidente danno ai diritti fondamentali delle persone coinvolte. Non si può tollerare che provvedimenti dell’autorità giudiziaria restino inattuati per mancanze organizzative o contrattuali: ne va della credibilità dello Stato di diritto è un’illegittima permanenza in carcere, si nega un diritto già riconosciuto dalla magistratura”. Il Garante ha quindi chiesto un intervento urgente da parte del Prefetto, affinché si attivi, per sollecitare una risoluzione immediata del problema che è a livello nazionale. Messina. L’avvocato di Argentino scrive al Garante: “Un suicidio annunciato” Il Dubbio, 9 agosto 2025 L’avvocato Giuseppe Cultrera, legale di Stefano Argentino - il 27enne morto suicida nel carcere di Messina Gazzi, reo confesso dell’omicidio della compagna di università Sara Campanella - continua a puntare il dito contro la gestione del caso, denunciando falle e scelte che, a suo dire, avrebbero contribuito a un epilogo che definisce “annunciato”. Cultrera ha scritto al Garante dei detenuti, chiedendo un intervento urgente e parlando apertamente di “suicidio annunciato” e di “errore valutativo grave e non scusabile” nella decisione di ridurre la vigilanza nei confronti del suo assistito. Per il legale, la morte di Argentino non è un fatto imprevedibile, ma il risultato di valutazioni errate e mancate cautele in un contesto già critico come quello penitenziario. “È una morte che si poteva evitare - ha dichiarato all’AdnKronos - e il mio interesse non è meramente speculativo, laddove rappresento la famiglia, ma è finalizzato alla corretta applicazione delle norme di legge e a evitare che simili situazioni si ripetano”. Secondo Cultrera, fin dal suo ingresso in carcere Argentino aveva manifestato istinti suicidi, tanto da essere inizialmente sottoposto a un regime di massima sorveglianza. “Improvvisamente - spiega - e senza che ne fossi informato, è stato disposto il declassamento, una decisione che sarebbe stata presa oltre due settimane prima della sua morte”. Un cambiamento di regime, quello della sorveglianza, che secondo il legale non trova giustificazione, soprattutto alla luce delle condizioni psichiche di Argentino. Cultrera si domanda come sia stato possibile che “quattro psicologi e uno psichiatra non abbiano rilevato la fragilità mentale” di un detenuto che non solo aveva minacciato il suicidio, ma che in passato era arrivato a non bere acqua per oltre 17 giorni, finendo ricoverato in infermeria. Per l’avvocato, la questione è anche di principio: “Privare un cittadino della libertà personale significa consegnarlo alla custodia dello Stato, che ne diventa unico responsabile, soprattutto in caso di fragilità mentale”. Le parole di Cultrera si inseriscono in un dibattito più ampio sul sistema penitenziario italiano, segnato da casi di suicidio, sovraffollamento, carenze di personale e insufficiente assistenza psicologica ai detenuti. Il caso Argentino, secondo il legale, rappresenta l’ennesima dimostrazione di un sistema incapace di prevenire tragedie pur in presenza di segnali evidenti. Intanto, la Procura di Messina, diretta da Antonio D’Amato, ha disposto il sequestro della salma di Stefano Argentino e l’autopsia, nell’ambito di un fascicolo di inchiesta al momento senza ipotesi di reato e senza indagati. Gli accertamenti punteranno non solo a chiarire l’esatta dinamica dell’accaduto, ma anche a verificare la correttezza della perizia medica che aveva portato al “declassamento” del regime di sorveglianza all’interno del penitenziario di Gazzi. Piemonte. La Garante: “Servono percorsi di recupero concreti per spezzare la solitudine” di Marco Turco La Stampa, 9 agosto 2025 Si riaccendono i riflettori sul tema dei suicidi nelle carceri. Ieri, nella casa circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino, un detenuto di 45 anni originario di Genova si è tolto la vita, impiccandosi nel bagno della sua cella utilizzando un lenzuolo. Si tratta, secondo i dati, del 53esimo morto per suicidio in carcere nel 2025, a un giorno di distanza da quella avvenuta a Messina (si è tolto la vita Stefano Argentini, il 27enne detenuto con l’accusa di aver ucciso Sara Campanella, 22 anni). È intervenuta sul tema la neo Garante regionale dei detenuti, Monica Formaiano, che si è recata immediatamente presso la struttura detentiva delle Vallette e ha commentato: “Sono profondamente scossa per quanto accaduto. Un episodio così drammatico non può lasciare indifferenti. Desidero esprimere sincera e profonda vicinanza alla famiglia dell’uomo, colpita da una perdita dolorosa e improvvisa. È necessario affrontare con urgenza le condizioni di vita all’interno degli istituti penitenziari: la privazione della libertà non deve mai trasformarsi in privazione di dignità e di speranza. La solitudine, l’assenza di prospettive concrete e il senso di abbandono possono diventare un macigno insostenibile per chi vive dietro le sbarre. È indispensabile investire in percorsi effettivi di riabilitazione sociale che abbiano un reale valore di recupero e reinserimento, coinvolgendo istituzioni, operatori, volontariato e comunità esterna. Solo così possiamo evitare che i detenuti restino soli di fronte alle proprie fragilità”. E ha aggiunto: “Questo decesso è il 53º suicidio nelle carceri italiane dall’inizio del 2025, un dato che deve interrogarci tutti e spingerci ad agire, perché ogni vita persa è una sconfitta per l’intera società”. Milano. Ipm Beccaria, 42 indagati per torture: calci, pugni, cinghiate ai genitali di Andrea Siravo La Stampa, 9 agosto 2025 Richiesto l’incidente probatorio, sono 33 le parti offese. Sputi in faccia, calci e pugni sferrati sull'intero corpo - in un caso anche un colpo alla testa con uno stivale - il tutto condito da insulti irripetibili e spesso razzisti. Sono le scene che la richiesta di incidente probatorio - avanzato dalla Procura di Milano nei confronti di 42 indagati - restituisce di quanto avvenuto, per mesi, nel carcere minorile Beccaria. Maltrattamenti, lesioni e torture che ora vedono salire la lista dei presunti responsabili - i primi 13 arresti risalgono all'aprile 2024 - e mettono in fila più episodi di violenza, dal 2021 al marzo 2024. Nel novembre 2023 un ragazzo di origine araba è stato colpito da alcuni agenti della penitenziaria con “più cinghiate anche sulle parti genitali fino a provocarne il sanguinamento”. Frequenti le violenze psicologiche e fisiche e le umiliazioni: in più occasioni i detenuti vengono portati all'interno di una stanza priva di telecamere e aggrediti in gruppo, anche utilizzando le manette per immobilizzarli. “Compare io ti mangio il cuore” è una delle frasi pronunciate da un poliziotto della penitenziaria prima di colpire un ragazzino. Tra gli indagati anche le ex direttrici Cosima Buccoliero e Maria Vittoria Menenti e Raffaella Messina, per un periodo reggente dell'istituto. A loro viene contestato dai pm Rosaria Stagnaro e Cecilia Vassena, coordinate dalla procuratrice aggiunta Letizia Mannella, di non aver esercitato “i poteri di controllo, vigilanza, coordinamento agli stessi conferiti, omettevano di impedire le condotte reiterate violente e umilianti all’interno dell’Ipm Beccaria commesse dagli agenti della polizia penitenziaria a loro sottoposti, ai danni di numerosi detenuti”. Le accuse, a vario titolo, sono di torture, maltrattamenti, lesioni e falso. Tra i nuovi indagati figurano anche professionisti del personale medico-infermieristico accusati di aver redatto referti falsi sulle lesioni subite dagli ospiti. Alcuni di loro oggi sono irreperibili, detenuti in comunità o altri carceri minorili. La scelta degli inquirenti milanesi dopo aver richiesto e ottenuto nell’aprile 2024 21 misure cautelari (13 arresti e 8 sospensioni) è quella di procedere con le audizioni dei detenuti. Già ascoltati dagli investigatori della nona sezione Squadra mobile e dal pm Stagnaro dovranno confermare i loro racconti davanti alla gip Nora Lisa Passoni e rispondere alle domande dei difensori degli indagati. Testimonianze che diventeranno le principali prove dell’eventuale processo. Milano. Gli agenti tornati al lavoro. Nessun contatto con i detenuti: “Noi non siamo torturatori” di Andrea Gianni Il Giorno, 9 agosto 2025 Gli arresti del 2024 e il ritorno in libertà, in attesa dell’esito delle indagini. Rischiano pesanti condanne. La corsa per “cristallizzare” le testimonianze dei ragazzi: su 33 persone offese 5 sono già irreperibili. Gli agenti che furono arrestati un anno fa respingono le accuse e, tornati in libertà, la maggior parte di loro continua a lavorare per l’amministrazione penitenziaria ma con un ricollocamento in altri uffici con mansioni che non comportino contatti con detenuti. Una misura in attesa dell’esito delle indagini preliminari, che ad aprile dell’anno scorso avevano portato a 13 arresti facendo esplodere il caso delle presunte violenze e torture nel carcere minorile Beccaria. “Auspichiamo che vengano presto conclusi tutti gli accertamenti necessari e ancora da compiere perché il mio assistito porta sulle spalle il peso di fatti su cui non ha responsabilità”, spiega l’avvocato Massimiliano Cataldo, difensore di un poliziotto 28enne che l’anno scorso finì in carcere, sotto accusa per uno degli episodi contestati. Al termine dell’interrogatorio di garanzia, la gip concesse gli arresti domiciliari modificando la misura cautelare. “È rimasto per alcuni mesi ai domiciliari e ora è a piede libero - spiega il suo legale - sta lavorando a Roma ed è stato ricollocato dall’amministrazione penitenziaria, come i suoi colleghi, in un altro ufficio con un incarico che non prevede contatti con detenuti. I tempi lunghi di questa indagine stanno avendo ripercussioni anche sulla sua vita personale, e auspichiamo che la Procura tiri al più presto le fila”. Anche gli altri agenti che finirono agli arresti sono ora a piede libero, e attendono l’esito delle indagini. Rischiano una pesante condanna, oltre alla perdita del posto di lavoro. All’epoca, negli interrogatori, avevano spiegato di aver reagito ad aggressioni da parte di detenuti e di aver colpito per difendersi. E avevano sostenuto di essere stati “abbandonati” in un carcere con problemi cronici di sovraffollamento, mandati allo sbaraglio “senza controlli gerarchici, senza aiuto da parte della struttura, incapaci di gestire le situazioni”. Violenze che, come emerge dalla richiesta di incidente probatorio avanzata dalla procuratrice aggiunta Letizia Mannella e dai pm Rosaria Stagnaro e Cecilia Vassena per “cristallizzare” i racconti di 33 ragazzi (diversi di loro sono di origini straniere o senza fissa dimora, elementi che rendono necessario raccogliere le loro testimonianze prima dell’eventuale processo), venivano scatenate anche da tentativi di suicidio o da gesti di autolesionismo da parte di detenuti. Maltrattamenti gratuiti più che reazioni, tentativi di contenimento o “punizioni” nei confronti di detenuti che si erano resi responsabili di risse, incendi o tentativi di evasione. “Questo è uno schiaffo educativo”, ha urlato secondo le accuse uno degli agenti indagati dopo aver colpito alla guancia sinistra, il 10 marzo 2022, un ragazzo che “era in stato di agitazione per la morte di un cane cui era affezionato”. Nella primavera del 2023, invece, cinque agenti se la sono presa, nella cella dell’infermeria, con un detenuto che aveva tentato il suicidio. “Dopo il risveglio dalla perdita di coscienza - annotano i pm - lo prendevano a schiaffi”. Una delle guardie lo avrebbe “sbattuto al muro” e colpito “con una ginocchiata al fianco, mentre il detenuto continuava a ripetere di voler morire”. Infine lo hanno ammanettato, e lasciato nella cella “immobilizzato”. Un’aggressione, il 18 maggio 2023, sarebbe avvenuta anche all’interno dell’ospedale San Carlo di Milano, dove un detenuto era stato ricoverato per “aver ingerito un ingente quantitativo di farmaci”. Due agenti lo avrebbero aggredito, prendendolo a calci. Un altro ragazzo, a novembre 2023, è stato picchiato in bagno, dopo essere stato sorpreso mentre cercava di tatuarsi, provocando delle fiamme alla presa elettrica. Un’infrazione alle regole che gli è costata schiaffi, capelli tirati e la testa sbattuta contro il muro, fino a farlo svenire. Le “lezioni” contro alcuni detenuti comportavano, secondo le accuse, anche cinghiate e spray al peperoncino, l’isolamento in celle dove dovevano rimanere per ore in mutande e con le manette ai polsi. I giovani che hanno denunciato le presunte violenze potrebbero quindi essere convocati dal gip, dopo l’estate, per confermare i loro racconti. La maggior parte di loro, emerge dalla richiesta di incidente probatorio, si trovano attualmente in altri istituti penali minorili, sono passati nelle carceri per adulti, sono stati trasferiti in comunità o nella Rems di Castiglione delle Stiviere. Cinque figurano come “attualmente non reperibili”, di loro è persa ogni traccia. Nuoro. La denuncia dei detenuti: “Acqua sporca, cibo non adatto a tutti, mancano medici” sassaritoday.it, 9 agosto 2025 Una lettera firmata da un gruppo di detenuti del carcere di Badu e Carros e inviata all’Associazione Luca Coscioni accende i riflettori sulle condizioni igieniche, sanitarie e strutturali dell’istituto penitenziario nuorese. Secondo quanto riportato, l’acqua fornita all’interno della struttura sarebbe di qualità tale da compromettere la preparazione dei pasti, l’igiene personale e la pulizia degli indumenti. A questo si aggiunge - scrive l’Associazione in una nota - un regime alimentare “esiguo”, incapace di soddisfare le esigenze di chi soffre di allergie o intolleranze. Particolarmente grave, sottolinea il comunicato, la situazione sanitaria: da mesi mancano il dentista e il dermatologo, e “si va avanti con antidolorifici e siringhe”, raccontano i detenuti, mentre l’accesso alle visite specialistiche esterne risulterebbe difficoltoso. La lettera descrive anche un “clima di tensione” legato non solo alle problematiche materiali, ma anche “alla continua pressione degli operatori, a loro volta pressati dall’Ufficio Comando e da un gruppo di viceispettori da poco arrivati”. L’Associazione Luca Coscioni denuncia come tali criticità rappresentino una violazione delle finalità rieducative e di reinserimento sociale del carcere, aggravata - si legge - dall’assenza di risposte da parte dell’amministrazione penitenziaria e del magistrato di sorveglianza. Una situazione che rischia di peggiorare nei prossimi giorni con la riduzione del personale per le ferie estive. Alla fine del 2024 l’Associazione aveva già acquisito le relazioni delle visite effettuate dalle Asl nei penitenziari sardi. Ma il quadro descritto dai detenuti di Badu e Carros - sostiene - sarebbe “ben più problematico” di quello tracciato dall’Azienda sanitaria di Nuoro, la quale avrebbe fornito “un’esigua documentazione sull’organizzazione dei servizi sanitari, poco aderente al contesto attuale”. Per questo motivo, l’Associazione invita le autorità sanitarie locali a effettuare un nuovo sopralluogo con particolare attenzione alle segnalazioni contenute nella lettera, e annuncia “ulteriori azioni, anche legali, affinché negli istituti di pena non si ripetano violazioni dei diritti fondamentali, a partire da quello alla salute”. Lamezia Terme. La Camera penale in visita al carcere di Siano lametino.it, 9 agosto 2025 “Nell’ambito dell’iniziativa indetta dall’Ucpi “Ristretti ad Agosto”, i penalisti Lametini rappresentati dal Presidente Avv. Renzo Andricciola, dal Segretario Avv. Antonio Muscimarro e dal responsabile locale Osservatorio Carceri Avv. Antonio Gigliotti, unitamente ai giovani colleghi della Scuola Territoriale (Resp. Avv. Tiziano Lione) agli iscritti al corso di difensore d'ufficio, hanno reso visita ai detenuti presso il carcere di Siano” è quanto si legge in una nota. “L'iniziativa finalizzata a prendere contezza della situazione detentiva, ed a sensibilizzare l'opinione pubblica e la classe politica sul problema carceri. I suicidi - spiegano - dall’inizio dell’anno sono già 53, le condizioni dei detenuti sempre più precarie, sovraffollamento, carenza di personale, carenza di strutture, carenza di personale socio sanitario. Riferiscono il Presidente Andricciola unitamente a Muscimarro e Gigliotti, dopo aver incontrato la Direttrice Dr.ssa Delfino, ed il primo dirigente dell’istituto penitenziario Dr. Carnevale: “Nonostante le criticità fisiologiche, la Casa Circondariale di Catanzaro mantiene con tanti sforzi dell’Amministrazione Penitenziaria e del personale, un livello accettabile di condizione di detenzione, questo quanto abbiamo riscontrato dalla visita odierna. Il problema è su scala nazionale dove ci sono istituti a limite della decenza, dove si nasconde una profonda crisi del senso comune di umanità. Se ci fosse stato in questi anni un senso di umanità non saremmo stati qui a contare le centinaia di morti. Le carceri italiane sono al collasso sotto ogni profilo, ma la cosa che più preoccupa è l’inerzia della politica. La Costituzione calpestata quotidianamente su quella che deve essere la finalità della pena e sulle modalità di esecuzione. Per “alleviare” questa situazione tragica, ci sarebbe la possibilità immediata di intervento legislativo, tramite una liberazione anticipata speciale, una amnistia oppure un indulto, atti di clemenza più volte invocati anche dal Santo Padre. Lo stato di disperazione delle condizioni dei detenuti non è più prorogabile. La politica è ancora in tempo a recuperare il gap di civiltà assente nelle carceri”. Pesaro. Nel carcere di Villa Fastiggi: anime sospese nel cemento di Tiziana Petrelli Il Resto del Carlino, 9 agosto 2025 Viaggio all’interno della struttura che ospita 247 persone, tra uomini e donne, ben oltre la capienza regolare. “Se arrestano qualcuno oggi, non sappiamo dove metterlo”. Lasciare tutto: il telefono, la borsa, il documento. Non solo per sicurezza. È un rito di passaggio. Ogni oggetto resta fuori, come a dire che anche la propria identità, per un momento, va messa da parte. Si entra in un’altra dimensione. Quella del carcere. Villa Fastiggi, la casa circondariale di Pesaro, appare da fuori come un edificio austero. Ma è solo oltre il primo cancello - aperto con un suono secco di metallo e un dito che preme un pulsante - che il mondo cambia davvero. Si cammina scortati. Cancello dopo cancello. Bussare, attendere, attraversare. È un movimento lento, cadenzato, che impone rispetto e misura. Il gruppo è composto da 17 persone, tra avvocati della Camera Penale - l’ingresso è stato reso possibile grazie a loro - giovani, amministratori e cittadini. A guidare il percorso ci sono la direttrice Annalisa Gasparro e il comandante della Polizia penitenziaria Cesari. Con calma e precisione ci accompagnano in un viaggio che dura un paio d’ore ma rimane dentro molto più a lungo. Per permettere la nostra visita, i detenuti sono stati chiusi nelle stanze, anche se al mattino solitamente possono muoversi nei bracci. È un gesto che pesa. Il nostro passaggio toglie loro l’aria. Ce ne rendiamo conto quasi subito, quando si incrociano i primi sguardi dalle grate socchiuse. La struttura ospita 247 persone, ben oltre la capienza regolamentare. Alcuni reparti sono inagibili dopo i danneggiamenti di aprile, durante una sommossa nell’area dell’alta sicurezza. Questo ha costretto a riorganizzare tutto. “Se arrestano qualcuno oggi, non sappiamo dove metterlo - dice la direttrice -. Ne mandiamo via due, ne arrivano quattro”. Il colore dominante è il grigio: cemento, pavimenti, pareti, persino l’aria. L’altro colore è il blu, quello delle inferriate e delle porte blindate. Ma dove possono, i detenuti hanno portato il colore: disegni appesi, foto e poster di Maradona. Uno ha costruito un letto a baldacchino. Un altro ha tappezzato la parete di immagini della fidanzata. C’è una cella con una porta dipinta di bianco e grandi fiori, una con appesi cornetti rossi, aglio e immaginette sacre. In tutte, le vite si intravedono tra le crepe. In fondo a una stanza luminosa con un calciobalilla al centro, si apre un piccolo cortile, due metri e mezzo per cinque. Sopra le teste, fili da stendere con i panni. Sotto, sedie bianche da bar, tutte rotte e tenute insieme con corde e lacci. Un’umanità che si ripara con quel che c’è. Tutto intorno, telecamere. Ovunque. Invisibili, discrete, ma presenti. I detenuti, sorpresi dal nostro arrivo, si accalcano ai vetri: “Chi è sta gente?”. Alcuni rientrano infastiditi, altri curiosi salutano. L’aria odora di fumo e rimbomba di musica: ogni stanza ha una radiolina accesa, ogni cella una colonna sonora. Araba, latina, italiana. Poi, la sezione femminile. Un altro mondo. Tutto, qui, profuma di cura. Le pareti sono bianche e azzurre, come a Mykonos; quadri, murales e disegni ovunque; una macchina da cucire Singer con sopra piante rigogliose e una biblioteca. Una madre è in videochiamata con la figlia: “Quanto sei bella, amore mio”. Le camere sono piene di foto di bambini, disegni, affetti. Quando si esce, i cancelli si richiudono. Si riprendono gli oggetti, il nome, il ritmo. Ma qualcosa è cambiato. Dentro, ci sono corpi, sì. Ma ci sono anche anime, desideri, amori, nostalgia, speranza. E se si riesce a vederli, anche solo per un attimo, non si torna mai davvero gli stessi. La Spezia. “Per Aspera ad Astra” a Sarzana. Debutto al Festival della Mente di Chiara Tenca La Nazione, 9 agosto 2025 Il progetto, promosso da Acri e giunto alla settima edizione, coinvolge dodici carceri italiane. Un esempio di formazione nei mestieri del teatro per incentivare l’inclusione dei detenuti. Il progetto “Per Aspera ad Astra - Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza” promosso da Acri e sostenuti, tra gli altri, anche da Fondazione Carispezia debutta quest’anno, per la prima volta, all’interno del programma bambini e ragazzi del Festival della Mente di Sarzana con “Favola di Cì (che è partito bambino e si è fermato vecchio)”, uno spettacolo per bambini dai 6 anni in su che andrà in scena venerdì 29, sabato 30 e domenica 31 agosto alla Fortezza Firmafede. Lo spettacolo è la produzione finale della settima annualità del progetto “Per Aspera ad Astra”, avviato nel 2018 e che attualmente coinvolge dodici carceri italiane in percorsi di formazione professionale innovativi e duraturi nei mestieri del teatro riguardanti non solo attori e drammaturghi, ma anche scenografi, costumisti, truccatori, fonici, addetti alle luci. L’esperienza condivisa nell’ambito di questa iniziativa nazionale - che ha coinvolto in tutta Italia oltre mille detenuti in più di trecento ore di formazione - testimonia come sia possibile lavorare nelle carceri mettendo al centro la cultura, lasciando che essa possa esprimersi a pieno e compiere una rigenerazione degli individui, in grado di favorire il riscatto personale e avviare percorsi per il reinserimento del detenuto nel mondo esterno. Ad alimentare e rendere fattibile quest’esperienza c’è un’inedita comunità, composta da una molteplicità di soggetti, coinvolti ciascuno con ruoli diversi: Fondazioni di origine bancaria, compagnie teatrali che curano la formazione, direttori e personale degli istituti di pena, detenuti. Scarti - Centro di Produzione Teatrale d’Innovazione, che sin dalla prima edizione sono alla guida della direzione artistica del progetto sul territorio, presso la casa circondariale della Spezia, hanno scelto di intraprendere un percorso innovativo: realizzare uno spettacolo teatrale per l’infanzia interpretato da detenuti-attori, rompendo gli schemi tradizionali del teatro in carcere e aprendosi così a una sperimentazione che mette in dialogo due mondi apparentemente lontani attraverso il linguaggio universale del teatro, della fiaba e dell’immaginazione. Nasce così la storia di Cì, il primo bambino del mondo, che dopo aver commesso un errore fugge e si ritrova a vagare per cent’anni, in compagnia di uno strano personaggio, che lo infastidirà per tutto il cammino. Dignità e sicurezza, la lezione di Marcinelle di Chiara Saraceno La Stampa, 9 agosto 2025 La tragedia di Marcinelle, in Belgio, dove persero la vita 262 uomini, di cui più della metà, 136, italiani, 95 belgi, 31 di altre nazionalità, fu una tragedia del lavoro, ma anche della emigrazione causata dalla povertà e dalla mancanza di opportunità. Nel caso del lavoro nelle miniere di carbone, come a Marcinelle, stante il crescente rifiuto dei belgi di fare uno dei lavori più pericolosi e comunque insalubre, l’emigrazione era persino l’esito di un accordo formale tra governo italiano e governo belga, il Protocollo italo-belga del giugno 1946. Esso impegnava l’Italia a inviare (quindi reclutare tra i contadini poveri, soprattutto nel Mezzogiorno) 50.000 lavoratori in cambio di carbone. Non so dire quanto lo scambio fosse vantaggioso per l’economia e il bilancio pubblico italiano, o per chi doveva acquistare il carbone sul mercato (sono abbastanza vecchia per ricordare che ancora dopo la guerra a Milano in molte case ci si scaldava con stufe a carbone o legna). Per quei minatori migranti, così come per molti altri lavoratori che dalle campagne o dalle montagne migravano come manovali in Francia o Svizzera e più tardi anche in Germania, spesso stagionalmente, dall’autunno alla primavera, perché il magro raccolto non bastava a far fronte alle necessità delle famiglie, significava lunghi mesi, quando non anni, lontani dalle proprie famiglie, per fare un lavoro faticoso e non sempre con le adeguate protezioni, cercando di risparmiare il più possibile per avere un gruzzolo consistente da portare a casa. Ne parla anche Donatella Pietrantonio a proposito della famiglia dei nonni paterni della voce narrante, in Mia madre è un fiume. Trattati da estranei, insieme un po’ inferiori e un po’ pericolosi, dalla popolazione locale, vivevano spesso tutti insieme in baracche con servizi al minimo, in una sorta di mondo a parte, per lo più tutto maschile, spesso diviso al proprio interno per luogo di provenienza, per altro un po’ come succedeva anche per i migranti interni. La responsabilità nei loro confronti da parte del paese da cui venivano per lo più si fermava alla frontiera e per il paese dove lavoravano l’importante era che non dessero fastidio. Strage di Marcinelle, Mattarella: “Diventi monito ineludibile per la sicurezza e la dignità sul lavoro” Lavoro duro, spesso pericoloso, povertà e necessità di migrare altrove non sono cose del passato, anche se oggi l’emigrazione da parte di italiani ha cambiato forma e riguarda sempre più lavoratori altamente qualificati, non costretti dalla povertà, consapevoli dei propri diritti ed in grado di scegliere tra le alternative disponibili. Ma quel nesso, che riduce non solo le possibilità di scelta, ma anche il potere di contrattare le stesse condizioni di sicurezza e dignità del lavoro, continua a esistere, per alcuni italiani e soprattutto per chi arriva da paesi poveri o in conflitto. Ne è testimonianza la forte presenza di stranieri tra i morti sul lavoro a causa di condizioni di sicurezza non osservate, in rapporti di lavoro spesso irregolari. Insieme all’edilizia, il settore più pericoloso per un lavoratore/lavoratrice con scarsa o nulla possibilità di contrattazione oggi è quello più lontano dalla miniera: il lavoro di raccolta in agricoltura. All’aria aperta, sì, senza timori di corti circuiti, gas, incendi, frane nelle gallerie, ma sotto il sole cocente, curvi/e per molte ore e con abitazioni rispetto alle quali le baracche in cui vivevano i migranti italiani negli anni Quaranta e Cinquanta sembrerebbero quasi da invidiare. Nelle parole di Mattarella, la tragedia di Marcinelle, per l’enormità del numero delle vittime e del modo in cui sono morte, “evoca il dovere di promuovere la dignità del lavoro in tutte le sue manifestazioni, affinché quanto accaduto non debba ripetersi in futuro”. Ecco, non dimenticarla significa non solo operare sistematicamente e costantemente perché la sicurezza sul lavoro non sia solo un auspicio, o un insieme di norme, di cui non si cura l’attuazione. Significa anche operare concretamente perché non vi siano lavoratori e lavoratrici privi delle condizioni che consentono loro di rivendicare condizioni di lavoro dignitoso e in cui la loro vita non sia esposta ad incuria e svalutazione. Significa anche essere consapevoli che la condizione di migrante di necessità (per motivi politici, di persecuzione, o economici) pone le persone, i lavoratori/lavoratrici in condizioni di particolare vulnerabilità, che va protetta e non aggravata da norme e procedure che ne ostacolano la regolarità. Significa, infine, che anche quando l’immigrazione è concordata con lo stato di provenienza, non si accolgono solo braccia, strumenti di lavoro. Si accolgono persone cui va riconosciuta non solo la dignità del lavoro, ma anche quella della vita, nella sua interezza e complessità. Meno armi più giustizia sociale: le ong non si danno pace di Daniela Zero collettiva.it, 9 agosto 2025 Un cartello internazionale invita i governi a eliminare gli arsenali nucleari, riequilibrare ricchezza, sostenere salari dignitosi e investire in welfare. In occasione dell’80esimo anniversario dei bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki, un’ampia alleanza di organizzazioni internazionali ha lanciato un appello ai governi di tutto il mondo: è il momento di “riaffermare il loro impegno per un mondo libero dalle armi nucleari, onorando la richiesta degli hibakusha e del Premio Nobel per la pace 2024 Nihon Hidankyo, e di dare priorità allo sviluppo sostenibile rispetto al militarismo”. Una chiamata all’azione urgente che arriva mentre la crisi democratica globale si intreccia con la crescita delle spese militari, l’avanzare dell’autoritarismo e l’aggravarsi della crisi climatica. Un golpe invisibile - “Ci troviamo di fronte a una crescente minaccia alla nostra sicurezza collettiva”, si legge nell’appello, “derivante dalla concentrazione di potere e ricchezza nelle mani di un’alleanza scellerata tra miliardari e forze politiche di estrema destra”. Gli estensori denunciano “un colpo di Stato dei miliardari contro la democrazia”, che starebbe “sovvertendo le istituzioni multilaterali” e ridisegnando politiche ed economie “a proprio vantaggio, minando il bene comune”. Il risultato è la crescita di regimi autoritari, “il rafforzamento delle strutture militari e il cambiamento climatico”, mentre “le risorse vengono sottratte allo sviluppo umano e alla costruzione della pace”. Una spirale pericolosa - L’impatto sociale ed economico è devastante. “Nel 2024, l’1% più ricco della popolazione mondiale possedeva più ricchezza del 95% più povero messo insieme”. Le disuguaglianze estreme alimentano povertà, instabilità e un’autorità statale sempre più repressiva. A fare da collante, il militarismo. “Con l’affermarsi del militarismo, le risorse che potrebbero essere utilizzate per affrontare le sfide urgenti del cambiamento climatico, della povertà e della disuguaglianza vengono dirottate verso i sistemi d’arma”. Nel 2024, le spese militari globali hanno toccato i 2.718 miliardi di dollari, con un incremento del 9,4% rispetto all’anno precedente. Gli eserciti, denuncia l’appello, hanno oggi “la quarta impronta di carbonio più grande dopo Cina, Stati Uniti e India”, senza contare le conseguenze dei test nucleari, delle deforestazioni causate da operazioni militari e dell’inquinamento bellico. Un cambio di paradigma - Le organizzazioni promotrici, tra cui Ituc, Greenpeace, Ican, Oxfam e Rete Italiana Pace Disarmo, chiedono “una sicurezza comune e una solidarietà globale in cui lo sviluppo umano, la sostenibilità ambientale, la democrazia e il multilateralismo abbiano la precedenza sul dispiegamento di potenza militare”. “Ogni individuo ha diritto all’accesso ai servizi di base, alla protezione sociale e a una vita dignitosa”, scrivono, con un’attenzione speciale a donne, lavoratori migranti ed economia informale. Le occasioni del 2025 - Il documento richiama le tappe internazionali dei prossimi mesi: l’Assemblea Generale dell’Onu, il Vertice sociale mondiale a Doha, il G20 in Sudafrica, la Cop30 in Amazzonia. Tutti appuntamenti da trasformare in svolte politiche concrete. “Chiediamo ai governi di adottare un nuovo contratto sociale che garantisca la giustizia economica e lo sviluppo umano”. Il G20, in particolare, è invitato a “impegnarsi a ridurre le spese militari e a investire in politiche che favoriscano la prosperità condivisa”. Il messaggio conclusivo è netto: “Li esortiamo a imparare dal passato, a non ripeterlo, e a costruire un mondo migliore in cui la minaccia delle armi nucleari sia sradicata, in cui la democrazia garantisca pace e prosperità per tutti e in cui la sicurezza comune sia assicurata attraverso la solidarietà e lo sviluppo sostenibile”. Fine vita, il numero bianco squilla 44 volte al giorno di Gilda Maussier Il Manifesto, 9 agosto 2025 Nell’ultimo anno, all’associazione Luca Coscioni 580 richieste di aiuto per morire. Il Numero Bianco che l’associazione Luca Coscioni ha dedicato a chi cerca informazioni per orientarsi sulle scelte di fine vita ha squillato nell’ultimo anno in media 44 volte al giorno; il 14% in più rispetto all’anno precedente. Tante sono infatti le richieste ricevute negli ultimi dodici mesi dagli operatori coordinati da Valeria Imbrogno, compagna di Dj Fabo (al secolo Fabiano Antoniani, che nel 2017 si suicidò in una clinica Svizzera aiutato da Marco Cappato e la cui vicenda aprì la strada alla sentenza pilota 242/2019 della Corte costituzionale). Mentre al Senato si attende la ripresa dei lavori parlamentari dopo le ferie estive per vedere come procederà l’iter del ddl sul Fine vita il cui testo base adottato nelle commissioni a colpi di maggioranza si discosta completamente dalle raccomandazioni della Consulta. “Negli ultimi 12 mesi sono arrivate 16.035 richieste di informazioni sul fine vita” tramite le email dell’associazione e il Numero Bianco 06.99313409. Il servizio è attivo tutti i giorni “per ascoltare, orientare e informare sulle possibilità offerte oggi dall’ordinamento italiano in materia di Fine vita, su temi come eutanasia e suicidio medicalmente assistito, testamento biologico, interruzione delle terapie e sedazione palliativa profonda”. Entrando nel dettaglio del report, “le richieste hanno riguardato soprattutto eutanasia e suicidio medicalmente assistito (circa 5 al giorno), ma anche interruzione delle terapie e sedazione palliativa profonda (più di una al giorno)”. In particolare, spiega l’Associazione, “sono aumentate le domande pratiche per accedere alla morte volontaria medicalmente assistita in Svizzera o attraverso percorsi legali in Italia, arrivate da 580 persone (51% donne, 49 % uomini), contro le 533 dell’anno precedente”. Dai dati elaborati, i volontari hanno stilato una classifica delle regioni con il maggior numero di richieste rapportate a 100.000 abitanti: al primo posto si trova la Liguria, con 48 ogni 100.000 abitanti (722 contatti), seguita dal Lazio con 43 richieste. Al terzo posto si posiziona la Toscana con 35, affiancata dal Friuli Venezia Giulia. Seguono Umbria, Emilia-Romagna e Lombardia con 33 richieste. Poi Piemonte con 28, il Veneto e le Marche con 26. Più giù si trova la Sardegna con 23 e il Molise con 22. Mentre in fondo alla classifica ci sono la Basilicata, la Calabria e la Valle d’Aosta con 12 richieste di aiuto per morire in piena libertà di scelta ogni 100 mila abitanti. Va ricordato che si tratta di persone affette da patologie irreversibili fonti di insopportabili sofferenze psichiche e fisiche. La depressione non è contemplata. Per questa malattia invece proprio l’associazione Coscioni ha lanciato una petizione alla Commissione europea (sottoscritta già da 15 mila persone) per agevolare l’accesso “alle innovative terapie assistite da psichedelici”. A Gradisca di Isonzo i migranti sono rinchiusi tra topi e degrado di Andrea Ceredani Avvenire, 9 agosto 2025 Camere sovraffollate, persone migranti costrette a dormire in tenda, topi che infestano gli alloggi e cure mediche inadeguate. Queste sarebbero le condizioni del Centro di accoglienza per richiedenti asilo (Cara) di Gradisca d’Isonzo, in provincia di Gorizia, denunciate dalla ong No Name Kitchen, che da dicembre 2024 a giugno 2025 ha intervistato decine di ospiti sulle condizioni igienico-sanitarie della struttura, raccogliendo a fine luglio i risultati nel report “Benvenuti nel vuoto”. Al momento, la crisi sembra rientrata: la prefettura di Gorizia, contattata a inizio agosto da Avvenire, assicura che il Cara non è sovraffollato e che “i posti occupati, dei 300 in convenzione, sono circa 250”. Sono gli stessi uffici, però, a confermare che in passato il centro ha affrontato problemi di sovraffollamento: “Le tende sono state usate anche la scorsa estate”, spiegano. Le testimonianze dei richiedenti asilo a Gradisca d’Isonzo, raccolte in 21 visite, denunciano condizioni abitative e igieniche precarie. “Adesso vivo in un stanza - racconta un ospite accolto al suo ingresso in una tenda -, ma ci è voluto un mese e mezzo prima di essere trasferito”. Secondo una mappatura di No Name Kitchen, nel dicembre 2024 erano presenti 44 tende, di cui almeno 24 occupate stabilmente da 8 persone ciascuna. Per un totale di 192 residenti in tenda, che negli scorsi mesi hanno anche affrontato infestazioni: “Ci sono topi nella mia tenda - denuncia un richiedente asilo -. L’ho detto agli operatori, ma non hanno fatto nulla. Dobbiamo eliminarli da soli”. Gli intervistati sostengono che le tende siano dotate di otto brandine ciascuna, appoggiate su un telo plastificato a contatto diretto con il suolo. D’inverno, perciò, il freddo aggraverebbe l’abitabilità degli alloggi, riscaldati, secondo le testimonianze, da una sola stufa elettrica. “L’elettricità è un problema serio - lamenta un ospite -. Abbiamo solo due ore di elettricità al giorno”. Per la precisione, come puntualizzano altri residenti, dalle 22 alle 24. Fuori dagli alloggi, quando il Cara è sovraffollato, anche le strutture sanitarie rischiano di essere insufficienti. “Ci sono solo due stanze con docce per tutto il centro”, racconta un ospite che lamenta lunghe attese per i bagni e condizioni igieniche precarie. Secondo No Name Kitchen, “la promiscuità, l’insufficienza igienica e l’esposizione a parassiti” riscontrate a Gradisca d’Isonzo violerebbero l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu), che vieta il “trattamento inumano e degradante”, ma la prefettura di Gorizia ribatte che “nelle ispezioni, effettuate regolarmente, non sono state riscontrate situazioni di questo tipo”. E aggiunge: “Al più, abbiamo avuto difficoltà nella gestione dell’immondizia davanti al Cara, ma abbiamo già fatto richiesta di raccolte aggiuntive all’azienda municipalizzata che se ne occupa”. Alcuni ospiti intervistati da No Name Kitchen, malati durante i mesi invernale, hanno denunciato anche diversi ostacoli all’assistenza medica: “Ci sono troppe persone malate nelle tende - spiega un richiedente asilo -. Tossiscono, hanno febbre, sinusite. Ma nessuno viene davvero curato. Si limitano a dire: “Prendi una compressa e torna domani”“. E ancora un altro ospite: “Dopo sei mesi in tenda, ho iniziato ad avere sintomi simili all’influenza. Il medico mi ha dato solo una pastiglia di ibuprofene al giorno. Non mi ha visitato”. La Prefettura spiega che tutti i richiedenti asilo, al loro ingresso, vengono iscritti al Servizio sanitario nazionale (Ssn) e che “hanno a disposizione un infermiere per 24 ore al giorno” ma, secondo testimonianze raccolte da No Name Kitchen, nella prassi quotidiana “molti residenti del Cara non risultano iscritti al Ssn” per “ragioni non del tutto chiare”. Secondo Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio italiano di solidarietà con sede a Trieste, il sovraffollamento nel Cara di Gradisca d’Isonzo non è una novità: “È una situazione già verificata in passato. In una visita ispettiva, anni fa, vidi le stesse tende e le condizioni precarie denunciate oggi”. Il vicedirettore della Caritas di Gorizia Adalberto Chimera, però, spiega ad Avvenire che molti problemi nascono prima ancora che le persone entrino nel Cara: “La nostra diocesi vede arrivare molte persone dalla rotta balcanica e ciclicamente il sistema, per chi attende di entrare nei percorsi di protezione del ministero degli Interni, va in affanno. Ora non lo è, ma in inverno sono molte parrocchie e volontari ad aiutare le persone migranti a trovare un posto per dormire, lavarsi e mangiare in sicurezza”. Minori stranieri soli: nei Comuni italiani mancano i fondi per l’accoglienza di Eleonora Camilli La Stampa, 9 agosto 2025 Diminuiti i rimborsi da parte dello Stato, i centri più in difficoltà sono Milano e Roma, ma anche Trieste, Bergamo, Genova e Napoli. Nei Comuni italiani mancano i fondi per l’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati e i sindaci lanciano l’allarme per una situazione che rischia di diventare “insostenibile”. In ballo non ci sono solo i diritti dei migranti minorenni arrivati da soli nel nostro Paese ma anche i bilanci degli enti locali. Con una circolare di giugno, infatti, il Viminale ha cambiato le regole per il contributo alle spese di accoglienza già anticipate dai comuni italiani: di fatto verrà rimborsata solo il 35% del totale. “Da alcuni mesi è emersa un'insufficienza di copertura delle spese dei comuni italiani connesse all'accoglienza dei minori stranieri non accompagnati a valere sul Fondo nazionale dedicato, che sta preoccupando molto i sindaci e che allo stato non trova risposte rassicuranti”, si legge in una nota dell’Anci. L’associazione il mese scorso aveva già sollecitato con una lettera i ministri di Interno ed Economia, Matteo Piantendosi e Giancarlo Giorgetti, senza però ottenere risposta. Tra ritardi e nuovi provvedimenti l’ammanco stimato da Anci è di almeno 190 milioni negli ultimi due anni (80 milioni per il 2023 e 110 milioni nel 2024). A questi si aggiunge una previsione di buco per il primo trimestre del 2025 di almeno 53 milioni. Tra i comuni più penalizzati oltre alle grandi città come Roma e Milano, Trieste con un ammanco di 10 milioni, Bergamo con 8, Genova e Napoli, rispettivamente 6 milioni e 2 milioni di euro. In totale i minori non accompagnati attualmente accolti in Italia sono 16.497 ma, solo poco più di 6.000 sono i posti dedicati nel sistema governativo Sai e 1500 in quello prefettizio. Il resto viene preso in carico dai comuni presso strutture dedicate all’accoglienza dei minorenni, come le case famiglia. “È necessario, oltre a ristorare i Comuni delle spese finora sostenute, ampliare in modo significativo, come ormai si prospetta da tempo ma senza passaggi conclusivi, la capienza del Sistema di accoglienza e integrazione (Sai) dedicato ai minori - continua la nota di Anci - così da consentire a tutti i minori di essere presi in carico all'interno di un sistema che coniuga sostenibilità economica e buona integrazione”. L'Associazione nazionale comuni italiani ricorda anche che “le risorse afferenti al Fondo hanno natura di contributo 'nei limiti delle risorse disponibili. Aspetto particolarmente scivoloso, come l'ammanco di risorse oggi evidenzia”“. La questione, conclude la nota dell'Anci, “è tanto più complessa nelle città in cui il numero di msna presi in carico diventa talmente alto da risultare insostenibile. Anche da questo punto di vista il Sai, se adeguatamente potenziato, può rappresentare un meccanismo naturale di governance e leva di equa distribuzione, per piccoli numeri, sull'intero territorio nazionale”. A protestare sono anche le associazioni che tutelano i diritti dell’infanzia come Save the children, Arci, Caritas , Centro Astalli. “Gli stanziamenti per il Fondo nazionale per l'accoglienza dei minori stranieri non accompagnati non sono sufficienti a coprire le spese sostenute dai comuni per l'accoglienza dei minori migranti che arrivano soli in Italia”, sottolineano in un appello firmato da 20 ong del terzo settore. E chiedono al governo di “prevedere adeguati fondi a copertura delle spese del biennio pregresso e del prossimo triennio, nell'ambito di un confronto con Anci rispetto alle previsioni di spesa e alle necessità dei Comuni”. Se la situazione non cambierà “finirà inevitabilmente per ripercuotersi sui diritti di migliaia di adolescenti e bambini/e non accompagnati presenti in Italia, che rischierebbero di non essere adeguatamente seguiti e supportati e, di conseguenza, di sprofondare in situazioni di marginalità, nonostante l'esiguità del loro numero attuale - poco più di 16mila - che invece consentirebbe una programmazione organica e un impegno economico del tutto sostenibile per lo Stato”. Migranti in coda per i permessi, condannato il Viminale di Giulia Ricci La Stampa, 9 agosto 2025 Class action di 18 immigrati, per la prima volta un tribunale condanna il ministero: procedure che ostacolano i diritti. Una prassi che impone “condizioni mortificanti” e dagli effetti “discriminatori” per i richiedenti asilo. E l’obbligo di cambiare il proprio modello organizzativo. Con una sentenza destinata a fare giurisprudenza in tutta Italia, il Tribunale di Torino definisce così le lunghe code (e le inutili attese) davanti agli uffici della Questura per la richiesta di protezione internazionale. La decisione del giudice Andrea Natale arriva in risposta ad una complessa azione collettiva antidiscriminatoria, la prima giunta ad una analisi di merito in Italia, portata avanti da 18 richiedenti asilo e dall’Asgi, l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, contro il Ministero degli Interni e la Questura di Torino. Dopo anni di denunce e presidi, mesi fa nel capoluogo sabaudo è divampato il caso di corso Verona, dove uomini e donne di ogni età, con bambini al seguito, si accampavano per giorni per ottenere il rinnovo del permesso di soggiorno. Da marzo, quegli uffici per metà inagibili sono stati chiusi, con l’illusione che quel capitolo buio per l’inclusione e i diritti dei migranti fosse finito. Gli sportelli sono stati delocalizzati e, al netto di disagi e attese, le polemiche si sono placate. Nel frattempo, però, c’erano centinaia di persone che alle dieci del mattino lasciavano affranti via Dorè, in pieno centro, senza avere risposte, ma soprattutto il via libera per accedere all’accoglienza, trovare un medico o cercare un lavoro. Il tutto rischiando, come si legge nel ricorso, “misure privative della libertà personale”, Cpr compreso. O, peggio, di essere espulsi e tornare nel Paese in cui sono perseguitati o subiscono violenza. Tutti i diciotto ricorrenti hanno tentato di entrare in quegli uffici decine di volte, arrivando alle prime luci dell’alba. Non c’è infatti possibilità di prenotazione online (la motivazione, anche questa scardinata dai ricorrenti, sarebbe la “mancanza di documenti”), e nemmeno di prendere un appuntamento una volta arrivati lì. Maria Lolas (i nomi sono di fantasia, ndr) scappa insieme alla figlia da un marito violento; Santa Perrua racconta, davanti ai giudici, come un “poliziotto in divisa” le abbia spiegato “che davano priorità alle famiglie con bambini e di Paesi diversi dal suo, come la Cina”. All’ennesimo tentativo, si sono rivolti tutti a un avvocato. “Ogni giorno - spiega l’Asgi - solo circa 10 persone possono presentare la domanda e i criteri di scelta non sono trasparenti”. Da qui, il moltiplicarsi di ricorsi “che non è dovuta alla nostra intraprendenza - spiega l’avvocata del Foro di Torino Silvia Franceschini -, ma ad un problema pratico: ci siamo resi conto che non esistono soluzioni alternative per formalizzare la richiesta di asilo. Le gravi carenze nella gestione degli appuntamenti e nella ricezione delle domande è ormai un problema endemico, giustificato da scarsità di risorse, eccessivo numero di utenti e dalla rivendicata discrezionalità di operato della Pa. Per questo - aggiunge - abbiamo ritenuto opportuno ricorrere ad un nuovo strumento: l’azione collettiva, infatti, non mira semplicemente a ripristinare i diritti individuali lesi, ma a combattere un pregiudizio sistematico e a garantire che le politiche e le prassi che lo perpetuano vengano corrette”. La situazione delle code, infatti, si ripete in tantissime altre città, da Firenze a Bologna fino a Roma. Un’azione che vuole quindi essere uno stimolo “per affrontare con onestà intellettuale - conclude l’avvocata - il grave problema della sistematica lesione di diritti soggettivi di una categoria di persone vulnerabili e senza nascondersi dietro il paravento della discrezionalità amministrativa, ma iniziando a pensare a soluzioni pratiche per evitare il perpetrarsi della medesima violazione”. La richiesta degli avvocati, quindi, non è stata solo quella di “condannare la Pa all’accesso e registrazione della domanda di asilo con contestuale rilascio del verbale”; ma anche di accertare e dichiarare “il carattere discriminatorio” della Questura. A fondamento, le possibilità di prenotazione dei servizi e modalità molto più semplici per i cittadini italiani e gli stranieri con permesso di soggiorno. E il giudice ha dato loro ragione: “Le procedure adottate” sono “illegittime” “in quanto ostacolano, ritardano e rendono eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti” conferiti dall’Unione europea e dalle leggi italiane. Ma l’impossibilità di prenotazione, le code e i criteri “oscuri, siccome non resi noti agli interessati”, sulla cui base gli agenti “operano la scelta per individuare tra le persone” in attesa quali far arrivare agli sportelli (oltre all’impossibilità di capire con un “contatto fugace” quali siano, ad esempio, le donne in gravidanza e quindi con precedenza) costituiscono “una discriminazione” “per motivi nazionali”. Da qui, l’obbligo per la Questura torinese di seguire il “modello Milano”, con un sistema di calendarizzazione degli appuntamenti attraverso una piattaforma informatica e con l’aiuto di enti del terzo settore, con la distinzione tra richiedenti protezione che hanno documenti di identità e chi non li ha: “Questa vittoria - conclude l’Asgi - pone un tassello fondamentale nell’ambito della lotta alle prassi illegittime adottate dalle Questure sull’intero territorio nazionale ed apre la strada a nuove possibili azioni strategiche, stabilendo il principio per cui l’assenza di modelli organizzativi trasparenti e rispettosi della dignità personale costituisce una discriminazione diretta”. È compito dello Stato “trovare risorse adeguate e strumenti efficaci”. Sabino Cassese: “Giustizia e immigrati, scontro tra corporazioni” di Raffaele Marmo La Nazione, 9 agosto 2025 Il giurista: ogni giorno migliaia di magistrati prendono decisioni. “La cura per ridurre le polemiche è una maggiore partecipazione dei cittadini”. Perché l’Italia non trova pace nello scontro tra politica e giustizia e sulla questione immigrazione? “Prendiamo i due temi su cui si sta svolgendo l’accademia estiva sui media: giustizia e immigrazione. E proviamo a metterli nella dovuta prospettiva, cominciando dalla giustizia”, esordisce Sabino Cassese, uno dei più autorevoli, se non il più autorevole, tra i giuristi italiani con un’attenzione precipua anche ai processi politici e sociali. Professore, quale è la “dovuta prospettiva” per inquadrare il rapporto tra giustizia e politica? “Ogni giorno l’ordine giudiziario prende migliaia di decisioni, spesso di annullamento di atti dell’esecutivo. Decine di funzionari vengono sottoposti a procedure che riguardano responsabilità contabile e penale. I circa 9mila magistrati svolgono tranquillamente il proprio lavoro. Dunque, non c’è una tensione tra politica e magistratura. C’è solo una tensione tra un ristretto numero di magistrati militanti e una parte dell’attuale maggioranza che sostiene il governo”. E l’altro tema, l’immigrazione? “Vediamo i numeri. Nel 2022 di circa 53mila domande di protezione internazionale esaminate, il 48% ha avuto un esito positivo. Nel 2023, l’esito favorevole è stato del 37%. Nel 2024, delle 159mila domande di protezione ne sono state esaminate 78 mila e di queste quasi il 36% ha avuto una forma di protezione. L’Italia è tra i primi Paesi dell’Unione europea per tasso di accoglienza degli stranieri, insieme con Germania e Spagna. La media dei rimpatri nel periodo 2022 - 2024 è stata di circa la metà rispetto a quella del periodo 2008 - 2019”. Quali effetti produce, invece, questa polarizzazione del dibattito sulle due questioni? “Le accademie giuridiche che si svolgono in questi mesi sui media mostrano la lontananza del dibattito in corso dai problemi del Paese e spingono gli stessi protagonisti politici a confondere tra competizione e duello, e a ingigantire i problemi, confondendo percezioni della realtà con la realtà stessa. Nella competizione, quelli che gareggiano hanno alcune finalità e valori comuni, che non vi sono tra quelli che duellano, perché l’uno vuole la morte dell’altro. Tutto questo non corrisponde all’agone politico nella realtà, ma al modo in cui viene rappresentato. Quindi c’è un agone politico e una sua rappresentazione, che vanno per strade diverse”. Con quali conseguenze? “Questo spinge i duellanti a gareggiare più sui torti dell’altro, che sulle proprie ragioni. Se, invece, diamo la giusta proporzione ai problemi, esaminando le questioni nei loro contesti, la politica può ritrovare il suo spazio. Infatti, il duello finisce per coprire l’assenza di politica, di proposte, di programmi”. Le questioni accennate, dunque, sono più una contesa tra corporazioni che un oggetto di interesse davvero reale per l’opinione pubblica? “Venuto a mancare lo strumento fondamentale della politica, il partito politico, che era tradizionalmente il legame tra la società e lo Stato, la rappresentanza politica viene sostituita dalla rappresentanza corporativa. Quindi, sia chi governa, sia chi è all’opposizione cerca di colmare questo vuoto di trasmissione attraverso i legami con le organizzazioni di interesse. Esempio: forze di governo e di opposizione cercano di dividersi il consenso dei grandi sindacati”. Che cosa non funziona in questo rapporto? “Tutte le corporazioni e le organizzazioni degli interessi hanno diritto di cittadinanza. Tuttavia esse rappresentano interessi e non opinioni, e questi interessi vanno tradotti in opinioni, un’attività che una volta svolgevano i partiti”. Quali processi degenerativi sono in atto e con quali conseguenze negli ambiti che lei cita? “L’elenco sarebbe lungo. Si sta verificando un progressivo distacco tra Paese reale e Paese legale, un’accumulazione nel Paese reale di una serie di domande sociali che non trovano ascolto e riscontro nel Paese legale e, nello stesso tempo, una rappresentazione del Paese legale che la società non riesce ad accettare o nella quale la società non riesce a riconoscersi. Questo progressivo allontanamento può produrre, con il passare del tempo, ulteriori e più gravi tensioni”. Quale via suggerisce per raggiungere almeno un equilibrio accettabile? “La via maestra è una maggiore partecipazione dei cittadini alla politica. Non dimentichiamo che una volta era iscritto ai partiti l’8% della popolazione, ora non più del 2%. Più del 9% degli italiani con più di 14 anni svolge un’attività di volontariato. Il contrasto tra questi due indicatori è molto significativo. La società civile è molto più vivace di quanto non appaia, non c’è apatia politica, c’è una reazione di rigetto che deriva dal modo in cui la politica si rappresenta e viene rappresentata dai media”. Ci sono speranze o vie d’uscita per una società tanto polarizzata e divisa tra Paese reale e Paese legale? “La polarizzazione e il conflitto servono ad attrarre l’attenzione. Vengono ingigantiti dai media e accentuati dalla comunicazione tramite il web, che consente a tutti di dialogare con tutti. Vorrei risponderle con le parole di quello che è forse il maggiore filosofo vivente, Jürgen Habermas, che ha scritto quaranta anni fa un libro sull’agire comunicativo, da lui definito come l’atto linguistico che è in grado di creare consenso. La comunicazione razionale e libera può creare un terreno in cui le persone raggiungono un’intesa”. “Nessuno Stato può negare l’accoglienza ai richiedenti asilo” di Gianfranco Schiavone L'Unità, 9 agosto 2025 La Corte di giustizia Ue: sussiste senza eccezioni “un obbligo di risultato diretto ad assicurare a chi chiede protezione internazionale il soddisfacimento delle loro esigenze essenziali”. Nessuno Stato dell’Unione europea “può sottrarsi alla sua responsabilità ai sensi del diritto dell’Ue invocando l’esaurimento temporaneo delle capacità di alloggio normalmente disponibili”. Coperta mediaticamente dalla molto più nota ed attesa sentenza della Cgue (Corte di Giustizia dell’Unione Europea) sui paesi di origine sicuri, un’altra non meno rilevante sentenza della stessa Corte è stata pubblicata il primo agosto: si tratta della sentenza nella causa C-97/24 c. Irlanda relativa all’accoglienza dei richiedenti asilo. Due richiedenti asilo (un cittadino afgano ed uno indiano) che avevano presentato domanda di asilo il 15.02 e il 20.03 2023 erano rimasti privi di accoglienza per diverse settimane, dormendo nel frattempo in strada o in alloggi precari comunque non forniti dallo Stato. Circa un mese prima della fine del periodo di abbandono assistenziale, terminato con l’inserimento in accoglienza rispettivamente il 27.04 e il 22.05.25 avevano intanto ricevuto, con effetto retroattivo, un sussidio economico settimanale di 38 euro. I due richiedenti hanno proposto ricorso per quanto era loro successo chiedendo all’Alta Corte irlandese di disporre a loro favore un risarcimento danni. Il governo irlandese si era opposto riconoscendo che c’era stata una violazione della legge ma sostenendo nello stesso tempo che la mancata accoglienza era stata causata da “un numero senza precedenti di cittadini di paesi terzi”che chiedevano asilo in Irlanda. L’Alta Corte irlandese ha quindi effettuato un rinvio pregiudiziale alla Cgue per sapere se sussisteva una situazione di “forza maggiore” e in tal caso se ciò avrebbe escluso la negligenza dello Stato irlandese nel non aver fornito tempestivamente un’accoglienza. A partire da caso concreto, la Cgue veniva dunque chiamata a enunciare quali siano i principi di diritto, validi per tutti gli Stati della Ue che vanno seguiti in materia di obbligo di assicurare accoglienza ai richiedenti asilo privi di mezzi propri di sostentamento. La Corte opera un ragionamento molto stringente destinato ad avere come vedremo, un grande impatto, specie su Stati come l’Italia. La Corte ritiene che le disposizioni contenute negli articoli 17 e 18 della Direttiva 2013/33/Ue sull’accoglienza, interpretate alla luce dell’articolo 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea “ostano a che un richiedente protezione internazionale venga privato, anche solo temporaneamente, della protezione conferita dalle norme minime dettate da tali direttive” . La Corte osserva infatti che la norma europea prevede che “in caso di esaurimento delle capacità di alloggio normalmente disponibili (…) uno stato membro dispone di una scelta tra due possibilità”: può decidere di fornire al richiedente asilo un alloggio temporaneo che soddisfi le esigenze essenziali derogando dunque provvisoriamente ad alcuni servizi specifici rivolti ai richiedenti asilo, oppure fornire un sussidio economico sufficiente a garantire “un livello di vita dignitoso”. La mancanza di posti ordinariamente destinati all’accoglienza obbliga gli Stati ad agire in via temporanea attraverso l’una o l’altra delle due misure derogatorie sopra indicate o una combinazione delle stesse. Non senza prima rimarcare che la situazione di lamentata emergenza da parte dell’Irlanda non sussisteva affatto, la Corte conclude che sussiste senza eccezioni “un obbligo di risultato diretto ad assicurare comunque ai richiedenti protezione internazionale il soddisfacimento delle loro esigenze essenziali” e che uno stato membro “non può sottrarsi alla sua responsabilità ai sensi del diritto dell’Unione invocando l’esaurimento temporaneo delle capacità di alloggio normalmente disponibili (…) a causa di un afflusso di richiedenti (…) che, per il suo carattere ingente e improvviso, sarebbe stato imprevedibile e ineluttabile”. Le carenze irlandesi censurate dalla Cgue appaiono ben modeste rispetto alle enormi disfunzioni del sistema di accoglienza in Italia. Il fatto che i richiedenti asilo, in particolare coloro che entrano via terra, e dunque non sono collocati dal Ministero a seguito degli sbarchi, rimangano anche mesi abbandonati in strada senza alcuna accoglienza, è un fatto divenuto così comune che tale disfunzione è percepita quasi come normale e quando alcuni episodi più eclatanti vengono alla luce, come in questi giorni l’abbandono a Trieste di centinaia di richiedenti asilo in arrivo dalla rotta balcanica (situazione sistemica documentata da anni), si è spinti a pensare che si tratti di esecrabili ma singole eccezioni, mentre non è affatto così. Da un monitoraggio parziale condotto ancora nella primavera 2024 da Associazione studi giuridici sull’immigrazione emerge che “in 23 province d’Italia ai richiedenti asilo venga impedito l’accesso all’accoglienza durante l’intero procedimento e ciò, come indicato dai soci con risposta singola, spesso sulla base di una presunta “indisponibilità di posti nel circuito di accoglienza”. La violazione del diritto dell’Unione Europea sull’accoglienza (e sull’accesso stesso alla procedura di asilo che ne è la premessa) è una realtà così sistematica da essere divenuta ordinaria illegalità di cui quasi nessuno si occupa. Eppure è necessario ed inderogabile far cessare questo inaccettabile stato delle cose e, anche grazie alla sentenza della Corte di Giustizia, ripristinare anche nel nostro Paese il rispetto delle norme sull’accoglienza di chi chiede asilo. La nuova ossessione dei leader: il controllo dei dati e della comunicazione di Diego Motta Avvenire, 9 agosto 2025 La piega “orwelliana” di Trump e i rischi per l’opinione pubblica. L’ossessione del controllo sta contagiando i leader politici mondiali, mettendo a rischio la tenuta delle democrazie. Non c’è più Occidente che tenga, perché ormai la sfera d’influenza per chi comanda è soltanto una: quella legata al dominio dei dati e della comunicazione. Chi guida Stati e governi oggi non vuole più solo dettare l’agenda: vuole sapere in anticipo cosa si scriverà e come, anche in sfregio della verità. Vuole poter piegare a proprio uso e consumo statistiche, report, ricerche. Qualche giorno fa, il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha licenziato Erika McEntarfer, la direttrice del Bureau of Labour Statistics, agenzia che fotografa i dati sul mercato del lavoro Usa. Il motivo? “Ha pubblicato dati falsi” secondo il primo cittadino Usa. Meglio cambiare chi sta al vertice, per ottenere i numeri “giusti” sulla crescita delle opportunità occupazionali, quelli richiesti dalla Casa Bianca. Lo stesso potrebbe accadere con il numero uno della Fed, Jerome Powell, già bollato come “troppo stupido” per guidare la Banca centrale americana, perché a dire dell’inquilino della Casa Bianca non ha ancora tagliato i tassi d’interesse. Qui lo spoil system, cioè la selezione degli uomini di governo su base fiduciaria (chi vince determina gli organigrammi, cambiando uomini e poltrone, in pratica) non c’entra nulla. Siamo oltre. Siamo all’addomesticamento sistematico dei dati ufficiali, all’uso capzioso delle cifre. La questione rientra nel ben più ampio capitolo del controllo della comunicazione come arma di distrazione di massa e orientamento del consenso. Non si tratta soltanto di compiacere al sovrano di turno, ma di assecondare le traiettorie scelte per parlare all’opinione pubblica. Se la prova del voto è diventata una specie di consacrazione per chi ne esce vincitore, l’azione di governo deve sottostare da tempo alle logiche della campagna elettorale permanente. Ma non secondo i consigli dei vecchi guru della pubblicità e della televisione, bensì secondo la volontà stessa del leader, chiamato a seguire un percorso da cui non può assolutamente deragliare, pena l’indebolimento del messaggio e il disorientamento degli elettori. Siamo davanti a una “piega orwelliana”, per citare l’espressione usata recentemente dagli analisti politici della Cnn? Di certo, si intuisce una deriva nella direzione del controllo a tutti i costi del lavoro di informazione, dai meccanismi ai contenuti diffusi. Un’ossessione, appunto, clamorosamente importata da Est a Ovest, sull’esempio di regimi autoritari e Paesi illiberali, come Cina e Russia, che si distinguono per propaganda e scarsa trasparenza. Neppure l’Europa e l’Italia sono immuni da questo virus. I numeri sono sempre più funzionali a un racconto di parte e questo accade su tutti i fronti caldi del dibattito, dagli investimenti per il riarmo ai flussi migratori, dalla produzione industriale al lavoro. Le strategie dei governi appaiono chiare: nella comunicazione pubblica, oggi, è sempre più necessario anticipare l’avversario o il nemico, predisponendo per tempo un’offensiva in grado di disinnescare le risposte di chi è contro di te. Non c’è più tempo per analizzare una notizia che si viene sopraffatti da chiavi di lettura, commenti, provocazioni. Cosa può fare dunque l’opinione pubblica, per non finire nella nebbia dell’incertezza sui fatti e delle verità di comodo? Nel suo discorso agli operatori della comunicazione, appena eletto, Papa Leone XIV ha invitato i giornalisti a “promuovere una comunicazione capace di farci uscire dalla “torre di Babele” in cui talvolta ci troviamo”. Riconoscere il caos informativo in cui siamo immersi, e i tentativi di chi tiene le leve del potere di manipolare fatti e persone, può essere un buon primo passo in questa direzione. Gli anticorpi contro bramosie di dominio e controllo dei nostri dati (assicurato anche dall’alleanza dei governi con le big tech e i signori dell’intelligenza artificiale) vanno trovati al più presto. Per iniziare a risanare le nostre democrazie ma-late, non c’è bisogno dell’uomo forte che piega le istituzioni ai suoi voleri, ma di persone e voci libere e indipendenti.