Togliersi la vita in carcere di Adriano Sofri Il Foglio, 8 agosto 2025 Alla notizia del suicidio di Stefano Argentino, il giovane tormentatore e assassino di Sara Campanella, c’è chi si rattrista e chi si felicita con fare vendicativo. In ogni caso non c’è nulla di peggio, per un carcerato che vuole mettere fine alla propria vita, dell’accanita sorveglianza tesa a impedirglielo. Capisco le ottime intenzioni di chi si rattrista per il suicidio del giovane tormentatore e assassino di Sara Campanella, e di chi protesta per la leggerezza con la quale si è creduto che avesse rinunciato ai propositi autolesionistici e ai ripetuti tentativi. Capisco meno le felicitazioni vendicative, anche perché commettono l’errore brutto di pensare che la sua fine risarcisca in qualche misura la morte di Sara, come se le due morti fossero anche minimamente comparabili. Voglio però soprattutto ribadire una convinzione che mi viene dall’esperienza: non c’è niente che possa far desiderare a un carcerato di metter fine alla propria vita quanto una meticolosa, accanita, insonne sorveglianza tesa a impedirgli di togliersi la vita. L’insostenibile situazione carceraria: che fare? di Desi Bruno* Ristretti Orizzonti, 8 agosto 2025 Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha di recente incontrato al Quirinale il Capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Stefano Carmine De Michele, ed una rappresentanza della Polizia Penitenziaria in occasione del 208° anniversario della sua costituzione e ha con forza sottolineato che “I luoghi di detenzione non devono trasformarsi in palestra per nuovi reati, in palestra di addestramento al crimine”. Mancano educatori e cure sanitarie. “È drammatico il numero di suicidi nelle carceri, che da troppo tempo non dà segni di arresto. Si tratta di una vera e propria emergenza sociale sulla quale occorre interrogarsi per porvi fine immediatamente”. Il Presidente della Repubblica, rivolgendosi agli agenti di polizia penitenziaria, non si è limitato a ricordare l’emergenza, ma ha anche indicato delle linee guida per affrontarla: per le carceri “servono investimenti in modo di garantire un livello di vita dignitoso ai detenuti e al contempo migliori condizioni di lavoro che voi svolgete con scrupolo. Sono investimenti necessari e lungimiranti. È particolarmente importante che il sistema carcerario disponga delle risorse necessarie, umane e finanziarie, per assicurare a ogni detenuto un trattamento che si fondi su regole di custodia basate su valutazioni attuali, per ciascuno, con l’obiettivo per il futuro”. Il richiamo è, come sempre, all’art. 27 Cost., alla funzione rieducativa della pena e al divieto di trattamenti inumani e degradanti, per i quali l’Italia ha già subito una condanna dalla Corte europea dei diritti umani nel 2013. Mentre da più parti si invocano interventi volti ad alleggerire il sovraffollamento carcerario (è di questo periodo lo sciopero ulteriore della fame di Rita Bernardini, presidente dell’Associazione “Nessuno tocchi Caino” ed ex parlamentare radicale, e la pubblicazione delle lettere dell’ex sindaco di Roma Alemanno che parla di una situazione insostenibile all’interno del carcere di Rebibbia per il caldo e la carenza di spazi, ma non solo) l’entrata in vigore del d.l. n. 48/2025 convertito nella l.n. 80/2025 ha introdotto, tra gli altri reati, quello di rivolta all’interno di un istituto penitenziario, condotta punita con la reclusione da 1 a 5 anni per chiunque partecipi a una sommossa all’interno di un carcere mediante atti di violenza, minaccia ovvero resistenza agli ordini delle autorità. Se la rivolta è organizzata o diretta, la pena aumenta fino a 8 anni. A ciò si aggiunga che se la sommossa comporta lesioni gravi oppure la morte di una persona, le pene possono arrivare fino a 20 anni di reclusione. La norma precisa che costituiscono atti di resistenza anche le condotte di resistenza passiva che, avuto riguardo al numero delle persone coinvolte e al contesto in cui operano i pubblici ufficiali o gli incaricati di un pubblico servizio, impediscono il compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza. E’ stato rilevato come la fattispecie di reato di “rivolta in istituto penitenziario”, introdotta con il nuovo art. 415-bis c.p. (art. 26) possa essere integrata anche da condotte dichiaratamente inoffensive come la resistenza passiva, ovvero da semplice disobbedienza, e che questo costituisca un pericoloso arretramento sul piano della ragionevolezza, perché la norma si presta ad essere applicata anche in casi di inoffensività della condotta, non certo idonea come risposta alle condizioni di degrado e abbandono in cui versavano molti degli istituti penitenziari. Peraltro questo reato viene ad essere inserito nell’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario nel catalogo dei reati cd. ostativi, cioè preclusivi di benefici come l’accesso a misure alternative. Questa norma, che lascia un ampio margine di discrezionalità all’interprete nel riferimento al contesto in cui si possono verificare atti di resistenza passiva, finirà con l’aggravare la già drammatica situazione di sovraffollamento che sta inesorabilmente affliggendo le carceri italiane. Si pensi, per fare un esempio, al rifiuto di più detenuti di rientrare in cella per le condizioni di caldo insopportabile o per la carenza di acqua o il rifiuto del cibo come forma di protesta pacifica contro le condizioni di vita o la scadente qualità dello stesso ovvero a forme di protesta condizionate comunque dal disagio che da vere e proprie spinte criminali. Anche in questi casi potrebbe essere applicata la norma in esame. Dunque, il tema dell’ordine e della sicurezza in carcere, come bene giustamente da tutelare, trova in questo drammatico momento una risposta punitiva che rischia di aggravare il problema. In questa situazione appare necessario percorrere la strada quantomeno del buon senso: 1) dare rappresentanza ai detenuti perché possano indicare da cittadini le doglianze e proposte per migliorare le condizioni di vita all’interno degli istituti penitenziari, depotenziando le norme appena introdotte. 2) è necessario rivedere l’edilizia penitenziaria e costruire istituti a misura di persona, in linea con le indicazioni della Corte Europea, prevedendo spazi per il lavoro dentro le mura, socialità e scuola realmente fruibili. 3) va incrementato il numero degli operatori di polizia penitenziaria, di educatori ed esperti (psicologi), migliorata l’assistenza sanitaria e incrementata la presenza di psichiatri. 4) vanno costruite reali opportunità di lavoro e abitazione sui territori per favorire l’accesso a misure alternative al carcere, attraverso effettivi di strumento di coordinamento tra le realtà interessate e creando banche date utilizzabili anche dalla magistratura e tentando di recuperare i consigli di aiuto sociale di cui all’art. 74 O.P. 5) va incremento il numero di posti disponibili per ospitare detenuti con problemi di tossicodipendenza, che rappresentano circa un terzo della popolazione detenuta, stanziando le opportune risorse, altrimenti l’inserimento comunitario, già adesso largamente possibile a legislazione vigente, rischia di rimanere un mero slogan. 6) va migliorato l’istituto dell’espulsione in fase di esecuzione della pena, con incentivi per il rientro dei condannati non appartenenti all’ UE e garanzie da parte dei Paesi di origine. 6) va approvato, in una situazione di emergenza come quella attuale, il disegno di legge che aumenta le detrazioni di pena per ogni semestre di buona condotta, per favorire la fuoriuscita dal carcere di persone ormai prossime all’espiazione della condanna. 7) va rivista, con urgenza, le legge istitutiva del Garante nazionale, per assicurarne la effettiva terzietà e indipendenza, con un meccanismo di nomina parlamentare che coinvolga maggioranza e opposizione e riconosca il ruolo degli strumenti di garanzia per la loro specificità, prima che l’istituto, pure previsto a livello internazionale, perda ogni reale utilità depotenziando l’opera dei Garanti territoriali. *Avvocato, già Garante delle persone private della libertà personale del Comune di Bologna e della Regione Emilia Romagna L’emergenza dimenticata delle carceri. Non basta un sussulto della politica di Angelo Vitale L’Identità, 8 agosto 2025 L’Italia e il Parlamento vanno in ferie ma, come ogni anno, l’emergenza carceri diventa bollente. La situazione è a dir poco critica, con un sovraffollamento medio del 134% e un sistema che continua a versare in condizioni pesanti, accentuate dal caldo estivo senza adeguate misure di ventilazione o raffreddamento. Sul piano dei numeri, al 30 giugno i detenuti erano 62.728, in aumento rispetto all’anno precedente, mentre i posti disponibili sono circa 51.276, con una carenza di oltre 10mila posti. Una situazione peggiorata anche nel sistema penitenziario minorile, con un aumento del 50% dei giovani detenuti e condizioni degradate. Dal punto di vista politico e istituzionale, il cosiddetto Decreto Carceri del 4 luglio 2024, pensato per affrontare il problema del sovraffollamento, non ha prodotto ancora risultati concreti, come l’elenco delle strutture residenziali per il reinserimento sociale che doveva essere adottato entro sei mesi ma non è stato ancora attuato. Inoltre, il Commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria nominato dal governo aveva il compito di realizzare quasi 7mila nuovi posti entro fine 2025, ma finora l’aumento dei posti è stato modesto. I Radicali Italiani, memori dell’insegnamento e dell’esperienza politica di Marco Pannella che a Ferragosto visitava le carceri, stanno organizzando una mobilitazione nei principali istituti penitenziari, Rebibbia, Poggioreale, San Vittore, Aosta, Torino e Reggio Calabria, evidenziando come l’estate aggravi le condizioni di detenzione, trasformandola in una forma di tortura aggiuntiva per il caldo, nonché per la mancanza dello Stato di diritto percepita nelle carceri. E denunciano anche lo stop del Parlamento, in vacanza, sulle tematiche carcerarie, che limita ogni avanzamento legislativo urgente. Mentre Antigone, il 24 luglio scorso, contava nel 2025 “già 45 i suicidi in carcere, uno ogni 4 giorni, 6 quelli avvenuti solo nel mese di luglio”. Due giorni fa, l’ultimo di cui si ha notizia, quello di Stefano Argentino, reo confesso dell’omicidio di Sara Campanella a Messina. Pure Politico.eu, partendo dalla denuncia puntuale contenuta nei “diari dal carcere” di Gianni Alemanno, rileva lo scandalo dell’emergenza in questa estate contrassegnata dal silenzio istituzionale. Senza entrare nel tema di possibili politiche per assegnare a misure diverse i numerosi detenuti che sono in carcere senza condanna per reati inferiori ai 2 anni di pena, ciò che manca sono proprio le carceri. Lo ha ricordato a chiare lettere l’ultima delibera della Corte dei Conti che ha bacchettato ritardi, criticità e impacci del PNRR. Un primo intervento, per oltre 120 milioni, prevedendo 8 nuovi padiglioni e l’adeguamento delle carceri minorili, sconta il mancato raggiungimento dell’obiettivo previsto per il primo trimestre 2025, consistente nell’avvio dei lavori per il 100% delle gare, risultando ad oggi realizzata una percentuale minima delle opere contrattualizzate, atteso che per la quasi totalità degli interventi non è ancora avvenuta la consegna, nonché criticità attuative per i complessi demaniali Ferrante Aporti di Torino e Il Pratello di Bologna. La situazione, per la Corte dei Conti, è di “generale ritardo” nella progettazione ed esecuzione delle opere: le circostanze del ritardo sono di diversa natura, talvolta perfino per esigenze di bonifiche belliche di un’area. La Corte nutre “il ragionevole timore che i ritardi maturati mettano a rischio il rispetto delle scadenze previste”. La storica militante radicale Rita Bernardini pur apprezzando il sussulto di buon senso della politica per le recenti ammissioni di Ignazio Larussa (“L’emergenza carceri non è stata affrontata con la dovuta celerità”), accusa e rilancia: “Il Parlamento si è congedato per le ferie senza aver ancora incardinato una proposta di legge urgente e risolutiva sull’emergenza umanitaria legata al sovraffollamento delle carceri. Attenderò il rientro dalle vacanze dei parlamentari in sciopero della fame per richiamare tutti, in primo luogo me stessa, al senso di responsabilità di fronte ad una pena illegale che toglie dignità sia ai detenuti che a coloro che in carcere ci lavorano. Riprenderò dunque il digiuno a partire dalla mezzanotte”. Il presidente degli avvocati italiani: “Carceri luoghi di tortura, il piano del Governo è insufficiente” di Marco Billeci fanpage.it, 8 agosto 2025 Come ogni estate, torna alla ribalta il tema del sovraffollamento penitenziario. Il governo ha recentemente approvato un piano carceri, che contiene varie misure, tra cui quella per creare 15mila nuovi posti negli istituti. Fanpage.it ne ha parlato con Francesco Greco, presidente del Consiglio Nazionale Forense, l’organo di rappresentanza degli avvocati, che da tempo si occupa della materia. Presidente Greco, il Cnf da tempo ha acceso un faro sulla questione delle condizioni di vita in carcere. Recentemente, tra l’atro, una delegazione da lei guidata è stata anche in visita al penitenziario femminile di Rebibbia. Quale situazione avete riscontrato e in generale quali testimonianze vi arrivano sullo stato attuale degli istituti nel nostro Paese? Noi come Consiglio Nazionale Forense abbiamo approvato delle linee guida, trasmesse ai nostri referenti nelle 126 Commissioni carcere, costituite all’interno dei 140 Consigli dell’Ordine sul territorio. Abbiamo invitato i nostri colleghi a attivare un monitoraggio, partendo dalle strutture sanitarie interne alle carceri e sull’accesso alle cure, perché questo è un dato che viene spesso preso poco in considerazione. Poi abbiamo chiesto di raccogliere elementi sulle modalità con cui nelle varie strutture vengono consentiti i colloqui tra i detenuti, i loro familiari e i loro avvocati. Noi siamo profondamente convinti che chi ha violato la legge debba scontare una pena, ma l’espiazione non può essere un momento di tortura. Per questo stiamo cercando di capire se c’è nelle carceri italiane un livello almeno minimo di vivibilità. E questo livello minimo esiste? No, oggi chi sta carcere raggiunge uno stato di aberrazione, perde identità di se stesso. Io da tanti anni mi occupo di questo problema: sono convinto che l’avvocato non debba esaurire il suo compito al momento della lettura della sentenza, ma abbia il dovere di verificare se il principio costituzionale della funzione riabilitativa della pena possa realizzarsi. La prima volta che sono entrato in un carcere fu all’Ucciardone di Palermo, tanti anni fa. Trovai l’inferno, con celle riempite da dieci dodici maschi adulti e un solo bagno aperto, senza un minimo di riservatezza. Mi colpì l’incontro con un detenuto anziano, a cui chiesi da quanto tempo era in carcere e quando sarebbe uscito. Lui mi rispose in dialetto siciliano “Nun mi ricordu” e “Nun lu sacciu”. Quest’uomo aveva perso completamente la dimensione del tempo. Il carcere non può essere un luogo di tortura delle persone, oggi invece la prigionia significa questo. Un Paese civile non può permetterselo. Il governo ha recentemente varato un piano, per realizzare, nell’arco dei prossimi cinque anni, 15mila posti in carcere, tra quelli di nuova costruzione e quelli da recuperare. Servirà a risolvere il problema? Il nostro giudizio sul piano è parzialmente positivo, ma si tratta di misure insufficienti. La risposta a questo problema gigantesco non può essere quella di costruire nuove carceri, perché nell’arco di quattro o cinque anni si riempirebbero anche questi nuovi edifici. Le risorse vanno destinate prima di tutto per un intervento immediato, volto a rendere meno invivibili le strutture esistenti, con lavori di ristrutturazione. E poi pensiamo a costruirne altre, ma con il fine di chiudere quelle che oggi si trovano in una condizione di completo decadimento. Le faccio un esempio: noi abbiamo regalato dei ventilatori in tutte le carceri italiane. In realtà avremmo voluto comprare dei climatizzatori portatili, ma ci è stato rifiutato, perché ci è stato detto che il sistema di rete elettrica non avrebbe retto il voltaggio. Nel piano del governo ci sono anche misure per facilitare il percorso di chi ha diritto alla liberazione anticipata e altre per permettere a un certo numero di detenuti affetti da dipendenze, di scontare la pena in centri di recupero. Sono iniziative sufficienti? Condivido alcune delle misure che il ministro Nordio ha approvato, per esempio sul tema delle dipendenze. Sappiamo purtroppo che la tossicodipendenza diventa spesso un circolo vizioso, per cui il tossicodipendente spaccia, per procurarsi i soldi per comprare la droga. Dare una possibilità di recupero costituisce allora anche un modo per far uscire queste persone dal circuito criminale. Per questo abbiamo chiesto ai nostri referenti delle Commissioni carcere di verificare quanto sono i posti disponibili nelle strutture riabilitative e in quali parti dell’Italia si trovano, così da cercare offrire a tutti quest’opzione. Il piano del ministro Nordio prevede la possibilità di affidare a questi centri di recupero solo coloro che hanno una pena inferiore a otto anni da scontare. Io credo che si potrebbe anche allargare il ventaglio, per consentire a più detenuti di usufruire di questo di questo strumento. Cosa manca invece nell’intervento del governo e che secondo voi dovrebbe essere valutato? Un altro tema che è quello dell’ampliamento delle ipotesi in cui si può usufruire della semilibertà, andando di giorno a lavorare e rientrando in carcere la notte, mantenendo chiaramente la valutazione caso per caso. E poi c’è la questione dell’aggiornamento del regolamento penitenziario, che norma la vita negli istituti. Il regolamento attuale è antico è modellato su una idea di espiazione della pena che guarda al passato e non tiene conto dei cambiamenti della realtà. Ci faccia capire cosa significa questo nella pratica? Per esempio si parla della possibilità per i detenuti di muoversi all’interno del carcere, deii rapporti con il mondo esterno, dell’accesso agli strumenti di informatica, ovviamente con tutti i controlli necessari. Se vogliamo offrire una possibilità di riabilitazione alle persone incarcerate, tutto questo va riconsiderato. Oggi invece chi sta in carcere è chiuso lì punto e basta. Il governo Meloni si è caratterizzato dall’inizio del suo mandato per la costante creazione di nuovi reati, introduzione di circostanze aggravanti, inasprimenti di pena. Quest’impostazione non rischia tra l’altro di peggiorare ulteriormente il sovraffollamento nelle prigioni italiane? Se la società cambia, emergono nuove fattispecie di reato - quelle legati alla cybersicurezza per esempio - e il legislatore sente la necessità di regolarle, noi non possiamo dire: non facciamolo, perché altrimenti ci sono più detenuti. Il punto è che non tutti i condannati devono andare in carcere. Se la pericolosità sociale di certi crimini è meno rilevante rispetto ad altri, non si deve pensare che la sanzione debba essere necessariamente l’incarcerazione. Ad esempio io non capisco perché non si può immaginare un Daspo come sistema di espiazione della pena, prevedendo dei divieti diversificati, per chi ha commesso un reato e si trova in in condizione di avere un regime di semilibertà. Poi c’è tutta la questione dei detenuti in attesa di giudizio e di quelli senza una sentenza definitiva, per cui si potrebbero immaginare delle misure alternative, come la messa alla prova. Non è possibile che l’unica soluzione per tutti sia: mettiamolo dentro e buttiamo via la chiave. Presidente, per il mondo della giustizia si apre una stagione delicatissima che culminerà nel 2026 con il referendum sulla riforma Nordio. Voi avete promosso il testo, ma come sa una larga parte della magistratura lo considera pericoloso, inutile a risolvere i problemi aperti e punitivo verso i giudici... Io mi sono sforzato di liberare la mia mente da qualsiasi preconcetto, per provare a comprendere le preoccupazioni che arrivano dalla magistratura, ma non ci sono riuscito. Il principio dell’autonomia della magistratura da qualsiasi altro potere non viene scalfito. Anzi, nelle le prime due righe della relazione introduttiva della riforma, c’è scritto esplicitamente che il l’autonomia e l’indipendenza della magistratura non possono essere toccate. Se ci fosse questo rischio noi avvocati scenderemmo in piazza, perché sarebbe un atto gravissimo che andrebbe a incidere sulla libertà di tutti i cittadini. Anche la nostra funzione di avvocati verrebbe compromessa se il giudice non fosse libero, ma sottoposto ai voleri di questo o quell’esecutivo. Ma questo rischio non c’è. Da più parti si ipotizza che la separazione delle carriere possa essere il primo passo per poi mettere i pm sotto il potere politico... Il Pm dovrà sempre e comunque seguire la legge. Non vedo il pericolo che ci siano dei pubblici ministeri che diventano degli sceriffi tipo ai tempi del far west che camminano con la pistola nella fondina, perché anche con questa riforma dovranno applicare la legge come la applicano oggi, quindi credo che anche questa sia una una una preoccupazione che non trova fondamento. Lo scontro tra politica e magistratura è sempre più aspro, lo abbiamo visto anche negli ultimi giorni sulle vicende dei centri in Albania e di Almasri, ma i casi sono innumerevoli. Andare a una battaglia campale come quella del referendum in queste condizioni non rischia di creare dei danni insanabili all’interno del sistema giustizia, qualsiasi sia il risultato? Il centro del problema è proprio lo scontro violentissimo a cui si assiste da anni tra politica e magistratura. Questo perché la magistratura ha più volte invaso i campi della politica, ad esempio cercando di delegittimare i provvedimenti del governo e del parlamento, con le dichiarazioni a mezzo stampa. Così come la politica ha debordato dal suo ruolo, attaccando i magistrati per le sentenze. Le sentenze si impugnano quando sono da impugnare, si commentano se meritano un commento, ma non si possono attaccare. Questo ha creato questo clima infuocato. La soluzione non può essere che il ritorno al principio della separazione dei poteri, in cui ciascuno non può invadere il campo dell’altro. Sei in carcere: niente cure, esami rinviati di Serenella Bettin L’Espresso, 8 agosto 2025 Dalla Sicilia al Veneto, esposti e denunce dei garanti dei detenuti sulle carenze dell’assistenza. A Messina, una Tac inutilizzata perché mancano i soldi per ristrutturare la sala. Esami rinviati per mesi e anche per anni. Ma per queste persone perdere tempo significa vivere o morire, nel silenzio imbarazzante del governo che spicca per la sua inerzia, per la sua desolante assenza”. La denuncia a L’Espresso è di Lucia Risicato, garante dei diritti dei detenuti di Messina. Nel carcere di Gazzi la situazione è oltre il limite. I detenuti scontano i ritardi del servizio sanitario, quelli del reperimento dei farmaci e quelli delle uscite per esami e visite per effetto della carenza di agenti penitenziari. “I pazienti con gravi problemi ortopedici o oncologici sono quelli messi peggio - spiega Risicato - Nella casa circondariale c’era il centro clinico con il blocco operatorio, ma non ci sono medici che possano operare”. Nel frattempo si è ridotto a “un cantinato maleodorante” che però ospita “una Tac da 30 mila euro, nuova. Giace sepolta in una stanza perché dovrebbe essere collocata in una sala per ristrutturare la quale occorrono 200 mila euro”. La direttrice del carcere, Angela Sciavicco, li aveva chiesti invano al ministero. “E pensare - nota Risicato - che l’anno scorso è stato nominato un commissario straordinario all’edilizia penitenziaria”. Non va a meglio a Siracusa. “Al carcere di Brucoli - dice Pino Apprendi, garante dei detenuti di Palermo - per 5 giorni, con 38 gradi, è mancata l’acqua ed è andata via la luce. E i gabinetti sono buche a terra. A Trapani, l’altra sera c’è stato un nuovo suicidio”. Come in Toscana, a Prato, dove nel 2024 in sei si sono tolti la vita. E il 17 luglio è morto un detenuto in isolamento ed è stata aperta un’inchiesta per omicidio. Alla Dogaia in 600, quasi la metà dei reclusi è sottoposta a terapie di tipo farmacologico o psichiatrico. A Gorizia, il primo maggio scorso, è stato stroncato, probabilmente da un malore improvviso, Denis Battistuti Maganuco. Le cronache non se ne sono occupate ma il sindacato di polizia penitenziaria aveva evidenziato l’assenza di cure adeguate per i detenuti, soprattutto per quelli con problemi di salute mentale e dipendenze. E la carenza di assistenza, con una interrogazione del Pd al presidente della Regione Friuli Venezia Giulia, Massimiliano Fedriga, è arrivata in Consiglio. In Veneto, a Montorio, nel carcere di Verona, Franca Berto, la moglie di Massimo Zen, guardia giurata condannata a nove anni e sei mesi per omicidio volontario, da mesi lotta per far cambiare la protesi dentaria al marito. Ma l’intervento “non si può fare perché il carcere non ha le strutture adeguate. Lì dentro ha cominciato anche ad avere problemi al cuore. L’holter per monitorarlo è arrivato dopo tre mesi”. In compenso funzionano le rigide restrizioni alimentari: un cartello affisso a marzo recita che nei pacchi per i detenuti non sono più ammessi “biscotti al cocco, con zucchero, patatine, pentole, sbrisolona, millefoglie, caffè, pasta, sugo, salami interi, barrette di affettato” Ammessi “pesce solo congelato, frutta secca solo sgusciata”. Alimentazione e salute vanno di pari passo. Lo sa bene Maria Angela Distefano, la moglie di Guido Gianni, gioielliere di 65 anni, detenuto a Palermo per una condanna a 12 anni e 4 mesi per duplice omicidio volontario e tentato omicidio dopo aver reagito a una rapina. “In carcere ha perso quasi 50 chili e aspetta da tempo un intervento per un lipoma benigno, ma che se non si sbrigano può solo peggiorare”. L’anno scorso, per potersi curare, Gianni è stato scarcerato. È uscito a febbraio 2024 ma a novembre lo hanno nuovamente portato in cella ma a Catania. A dicembre aveva anche fissato una visita specialistica per programmare l’intervento ma nell’infinito carteggio tra il suo legale, Mario Romeo e il magistrato di sorveglianza che pure aveva autorizzato il controllo preoperatorio è mancato un nulla osta determinante. Il carcere ha infatti eccepito che il detenuto era già stato visitato in precedenza e così non ha dato corso al controllo che serviva per stabilire le modalità dell’intervento. Storie che si ripetono, in cui l’assistenza è negata, tra carenze strutturali, impedimenti burocratici, storture che producono anche sprechi, in ambienti inadeguati e malsani. Con un sovraffollamento record che contrasta con i numeri e i tempi annunciati dal governo per la creazione di nuovi posti. Così accade che L.C., 70 anni, detenuto nel carcere Pagliarelli di Palermo, doveva essere operato alla cataratta, ma a forza di aspettare ha perso l’occhio. “Il 13 luglio 2024, più di un anno fa - spiega il garante Apprendi - il medico aveva detto che era necessario procedere con l’intervento il prima possibile. Adesso è stato convocato dall’ospedale Civico e gli hanno dato appuntamento tra cinque mesi”. Il 22 luglio scorso il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha annunciato le misure del governo sulle carceri, più posti con un piano che vedrà i suoi frutti nel 2027. Sette giorni dopo i garanti di tutta Italia erano in piazza per reclamare condizioni di vita più umane nelle carceri nel rispetto dei diritti. Primo fra tutti quello alle cure. La Russa e quella “breccia” che fa sperare chi, come me, si trova in prigione di Alessandro Cozzi ilsussidiario.net, 8 agosto 2025 Le recenti dichiarazioni di Ignazio La Russa sulle condizioni dei carcerati fanno sperare e devono far riflettere. Quest’anno ricorre il 50° anniversario della promulgazione dell’Ordinamento Penitenziario. Fu pensato e scritto in anni difficili per l’Italia, pieni di tensioni tremende, violenza, crisi a più livelli. Eppure l’Ordinamento nacque, approvato il 26 luglio di 50 anni fa; e fin dal primo articolo riporta la parola “dignità”; infatti, non vi vengono soltanto esclusi i trattamenti “degradanti”: si sottolinea il permanere dei diritti fondamentali della persona, validi anche per i detenuti. E di “dignità” ha insistentemente parlato anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Ma va detto: la conversazione su questi temi in carcere è blanda. Troppe volte, specialmente in estate, il “tema carceri” rispunta. Le condizioni delle carceri italiani sono inaccettabili da decenni, e non solo per il cronico sovraffollamento, ma anche per la fatiscenza delle strutture, la mancanza di personale, l’assistenza sanitaria… Tutti i governanti, quelli di ora come quelli del passato, se ne sono occupati, chi più chi meno, o almeno ne hanno parlato, però senza apprezzabili e duraturi risultati. Del resto è l’intera società che non fa propria la considerazione, sempre ripetuta e poco condivisa, che dalla qualità delle carceri passa la qualità delle Nazioni. Secondo la Costituzione, l’Italia è una Repubblica democratica e giustamente in quel documento si dichiara come non consone a una democrazia la pena di morte e la carcerazione in condizioni degradanti. Di recente, la Corte Costituzionale ha detto che non è democratica nemmeno la carcerazione irrimediabile (l’ergastolo), ma su questo il Parlamento non trova il tempo di legiferare. Tutto ciò è ben noto; lo si scrive per un po’, ma poi rimane tutto com’è; solo un altro po’ di chiacchiere, condite da sfiducia, con frasi come “ma figurati se faranno qualcosa”, “questo Governo, poi”. Però. Non è stato molto sottolineato dai media, ma il Presidente del Senato, Ignazio La Russa, ha stupito. Lui è un esponente di punta e uno dei fondatori di Fratelli d’Italia, partito assai poco incline ad alleggerimenti delle condizioni carcerarie, alla clemenza, alla riduzione della pena. Ma circa un mese fa, in un’intervista su La Stampa, La Russa aveva dichiarato: “più sconti di pena” per affrontare il sovraffollamento delle carceri. Già questo era sorprendente, ma da allora, in più occasioni, il Presidente del Senato ha detto cose simili. Fino a un momento ancor più sorprendente, lo scorso 13 luglio, quando in occasione di un’attività che l’Associazione Nessuno tocchi Caino organizzava nella Casa di Reclusione di Rebibbia, a Roma, ha scritto una lettera a Rita Bernardini e agli altri dirigenti di NtC definendo il carcere un “luogo di degrado e di emarginazione” e “la tutela della dignità un obbligo”. Le parole di La Russa sono importantissime: sembrano abbandonare la tendenza “manettara” di molti e lo fanno alludendo alla Costituzione. Facendone un “obbligo” - parola sua - La Russa riecheggia l’art. 27 ove si dichiara che la detenzione deve essere dignitosa e tendere alla rieducazione del condannato. Deve. Non è un dettaglio, né un’opzione. E non è nemmeno un “far i buoni” rispetto a chi invochi la giusta severità verso i criminali. No. Il Presidente del Senato ricorda che si deve. La Russa in quella lettera, pubblicata su diversi quotidiani e on-line aggiunge: “Resto convinto che ogni iniziativa, anche normativa, tesa ad affrontare questa grave e perdurante problematica, debba essere presa in considerazione senza cadere nel pregiudizio politico o ideologico”. Forse è l’aspetto più interessante, perché pur leggendo con le necessarie cautele, si intravede un’apertura politica, la possibilità che dentro la maggioranza vigente vi sia un movimento che supera la granitica volontà di “buttar via la chiave”, troppe volte espressa. Non si odono ancora echi dalla Lega forse il partito meno disponibile, ma molti esponenti di Fratelli d’Italia cominciano a dire che sia tempo di far qualcosa. L’altro partito di maggioranza, Forza Italia, è da tempo schierato su posizioni garantiste e all’opposizione ci son partiti che ne hanno fatto una bandiera, il Partito democratico ad esempio. Sarà la volta buona? Basterebbe “ripescare” la proposta Giachetti che proponeva di aumentare a 60 giorni la Liberazione anticipata che un detenuto si guadagna ogni semestre con la buona condotta. Oppure rivedere le modalità della Custodia Cautelare che oggi mantiene in carcere circa 15.000 persone prima che sia pronunciato anche solo il giudizio di primo grado; la statistica dice che quasi i due terzi di costoro saranno poi considerati innocenti, ma intanto si saranno fatti mesi di galera, se non di più. Basterebbe poco. Le discussioni in Redazione si spengono: i detenuti sanno sognare, ma lo fanno di rado. Condanna della Cedu, l’Italia non ricorre. Ma il boss novantenne resta ancora al 41 bis di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 agosto 2025 Il 10 aprile scorso la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per aver mantenuto al 41- bis lo storico boss ‘ndranghetista novantenne Giuseppe Morabito, nonostante il peggioramento del suo stato di salute, in particolare il decadimento cognitivo. Il governo non ha chiesto il rinvio alla Grande Camera entro i tre mesi previsti dall’articolo 43, dunque la sentenza è diventata irrevocabile e la Cedu ne ha dato notizia ufficiale. Eppure Morabito resta in carcere duro, e per giunta nonostante la diffida inviata al ministro della Giustizia dall’avvocata Giovanna Beatrice Araniti, sua legale. Ma non finisce qui. Nel frattempo sono state da poco depositate le motivazioni della Cassazione che ha accolto il ricorso (chiedendone il rinvio per una nuova decisione) contro l’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Roma che aveva confermato il 41- bis disposto dal Guardasigilli. La sentenza della Cedu copre il periodo fino al 24 maggio 2023, data in cui Morabito è stato ospedalizzato d’urgenza per un’ernia, con conseguente interruzione del 41- bis. Ma durante la procedura innanzi alla Corte, il regime era stato nuovamente disposto dal Guardasigilli. Decisione poi confermata dal Tribunale di Sorveglianza di Roma con motivazione che puntava sulla “perdurante posizione apicale” e sull’operatività del clan. Motivo per cui l’avvocata Araniti ha presentato ricorso in Cassazione, integrandolo - dopo la sentenza Cedu - con una memoria che evidenzia come la Corte europea abbia giudicato ingiustificata la proroga del regime differenziato nei confronti del detenuto ultranovantenne. L’avvocata Araniti, nel ricorso, ha evidenziato che il Tribunale non ha dato alcun peso alle relazioni cliniche che attestano un netto peggioramento della salute mentale di Morabito, ignorando così l’effettiva compromissione della sua capacità di intendere e di volere. Ancora più grave, secondo il legale, è stato lo scollamento tra il giudizio del perito - che descriveva uno stato di demenza avanzata - e le poche battute intercettate nei colloqui con i familiari, su cui il Tribunale ha invece basato la conferma del carcere duro. Infine, non è stata considerata la sentenza della Corte di Strasburgo del 10 aprile 2025, che ha ribadito come il regime del 41- bis non possa essere mantenuto quando il detenuto mostra un evidente e grave deterioramento cognitivo. La Suprema Corte, accogliendo il ricorso, ha demolito la ricostruzione del Tribunale di Sorveglianza con un’analisi di straordinario rigore metodologico. Il vizio fondamentale dell’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza, secondo i giudici di legittimità, risiede in una carenza motivazionale tanto grave quanto decisiva: l’omessa considerazione dell’effettivo rapporto tra le concrete condizioni di salute di Morabito e l’apprezzamento della sua pericolosità persistente. La Cassazione ha messo in luce come i giudici di merito abbiano sostanzialmente ignorato una serie di elementi probatori di vitale importanza. In primo luogo, l’integrazione della perizia medico- legale resa dal dottor Cirillo, che aveva specificato come le frasi pronunciate dal detenuto nelle conversazioni intercettate fossero del tutto irrilevanti rispetto all’individuazione di qualsiasi forma di elaborazione cognitiva complessa. In altre parole, la capacità di pronunciare frasi di senso compiuto non equivale affatto alla capacità di pianificare o dirigere attività criminali. Ma c’era di più. Il quadro probatorio comprendeva una serie impressionante di elementi convergenti: le assoluzioni pronunciate dai Tribunali di Milano per reati contestati come commessi nel 2020, proprio per incapacità di intendere e volere; l’esclusione della responsabilità disciplinare per comportamenti problematici in carcere, sempre a causa dei disturbi cognitivi; le conclusioni di multiple perizie medico- legali, tutte concordi nel diagnosticare un grave decadimento psichico associato alla demenza senile. Particolarmente significativo è stato il periodo compreso tra il 9 giugno e il 21 giugno 2023, quando Morabito era stato temporaneamente escluso dal regime 41- bis per essere ricoverato in ospedale, per poi essere collocato in regime di alta sorveglianza fino al decreto ministeriale del novembre successivo che ha ripristinato il regime. Durante questi sei mesi di relativa “libertà” dal carcere duro, non erano emersi comportamenti di sorta ascrivibili al detenuto nel senso del tentativo di riallacciare contatti con la cosca o di dare ordini dal carcere. La Cassazione ha sottolineato come questo elemento, lungi dall’essere marginale, avrebbe dovuto formare oggetto di una specifica considerazione da parte del Tribunale di Sorveglianza. Se davvero Morabito conservasse una pericolosità sociale tale da giustificare il regime differenziato, ci si sarebbe dovuti aspettare qualche segnale durante questo periodo di minor restrizioni. L’assenza totale di tali segnali rappresentava un indice probatorio di grande rilievo, completamente trascurato dai giudici di merito. Ma il colpo decisivo alla ricostruzione del Tribunale di Sorveglianza è arrivato da Strasburgo. Nella sentenza del 10 aprile 2025, la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia per violazione dell’articolo 3 della Convenzione, censurando non la detenzione in sé né le cure mediche, ma l’automatica proroga del 41- bis. I giudici hanno stigmatizzato l’assenza di spiegazioni su come un detenuto con evidente deterioramento cognitivo potesse ancora inviare ordini o mantenere legami mafiosi, e hanno messo in guardia contro il rinnovo meccanico di un regime nato per uno scopo ben preciso, se trasforma il regime speciale in un trattamento che lede dignità e salute. Ora, visto che il governo non ha fatto appello, la sentenza Cedu è irrevocabile. Cosa accade ora? Spetta al Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa vigilare sull’esecuzione della sentenza. L’Italia dovrà ottemperare alle misure indicate, compreso l’eventuale risarcimento e il pagamento di interessi di mora, se previsti. La mancata impugnazione presso la Grande Camera segnala che l’Italia ha accettato la sentenza. Ora il governo dovrà dimostrare sul piano pratico di rispettare gli obblighi europei. Il monitoraggio - obbligatorio e trasparente - potrà sfociare in osservazioni pubbliche da parte del Comitato dei Ministri e in richiami formali se le direttive della Corte non verranno messe in atto entro i termini stabiliti. Era già accaduto con l’ex capomafia Bernardo Provenzano, per cui l’Italia è stata condannata con una sentenza del 25 ottobre 2018. All’epoca, la Cedu ritenne lo Stato responsabile di aver violato l’articolo 3 della Convenzione, secondo cui “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti disumani o degradanti”. Il ricorso era stato presentato dall’avvocata Rosalba Di Gregorio: nonostante la grave decadenza delle facoltà fisiche e mentali, a Provenzano fu negata l’uscita dal 41- bis fino alla morte. Basti ricordare che, a causa dello stato neurodegenerativo, non fu in grado di partecipare al processo sulla trattativa Stato- mafia. A firmare il rinnovo del 41- bis per Provenzano fu l’allora ministro Andrea Orlando. E ci costò una condanna. Oggi siamo al bis. Se il carcere duro (che sulla carta “duro” non dovrebbe essere) si trasforma in strumento di tortura, rischia di perdere la sua efficacia. Un gesto formale, paradossalmente, basterebbe a salvare il 41- bis: la firma del ministro Carlo Nordio per revocare il regime nei confronti di Giuseppe Morabito. Giustizia minorile: all’ONU l’allarme per la deriva punitiva dell’Italia Il Manifesto, 8 agosto 2025 Un dossier al Comitato ONU sui diritti dell’infanzia denuncia sovraffollamento, sezioni per minori nelle carceri per adulti, abusi nei trattamenti e perdita dell’approccio educativo. Dall’orgoglio internazionale a un caso da monitorare. Il sistema di giustizia minorile italiano, un tempo considerato un modello in Europa e nel mondo per il suo impianto educativo e rieducativo, è oggi in crisi profonda. Lo denunciano Antigone, Defence for Children International Italia e Libera in un dettagliato rapporto tematico inviato - con l’adesione fra le altre di Forum Droghe, la Società della Ragione e A Buon Diritto - al Comitato ONU sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza, in vista dell’esame periodico sull’Italia. Il dossier - sostenuto da oltre 100 organizzazioni, garanti territoriali e personalità della società civile - descrive un sistema sempre più punitivo, afflitto da gravi problemi strutturali, normativi e culturali. Una situazione tanto allarmante da meritare l’attenzione delle Nazioni Unite. Carceri minorili sovraffollate: mai successo prima - Per la prima volta nella storia del nostro Paese, le carceri minorili italiane sono sovraffollate. Dai 392 detenuti del 2022 si è passati ai 586 del giugno 2025: un incremento del 54% in due anni, reso possibile anche dal famigerato Decreto Caivano, che ha esteso l’uso della custodia cautelare e ridotto le alternative al carcere. Nove IPM (Istituti Penali per Minorenni) su diciassette sono oggi oltre la capienza. A Treviso il numero di detenuti è il doppio di quello previsto, mentre a Milano, Cagliari e Firenze il tasso di sovraffollamento supera il 147%. In alcuni casi si dorme su materassi in terra. Il tempo passato in cella è spesso superiore alle 20 ore giornaliere, senza attività formative, scolastiche o ricreative. Particolarmente drammatica la situazione dei minori stranieri non accompagnati, che rappresentano circa la metà della popolazione detenuta e spesso sono sottoposti a trattamenti farmacologici eccessivi. La Dozza: una sezione minorile in un carcere per adulti - Il dossier denuncia anche la scelta di istituire una sezione minorile all’interno del carcere per adulti della Dozza, a Bologna. Una decisione che viola apertamente i principi internazionali che impongono una netta separazione tra giustizia minorile e ordinaria. L’infrastruttura resta quella di una prigione per adulti, ma viene ora utilizzata per detenere giovani adulti precedentemente in carico al sistema minorile, accentuando la deriva verso un sistema sempre più simile a quello penitenziario per adulti. Criminalizzazione delle proteste e perdita della finalità educativa - Il rapporto sottolinea infine come il sistema abbia smesso di rispondere ai bisogni individuali dei giovani per imporre rigidi standard di comportamento, punendo piuttosto che comprendendo. Le proteste dei ragazzi sono represse duramente e il nuovo reato di “rivolta carceraria”, introdotto dal recente Decreto Sicurezza, prevede fino a otto anni di pena anche per chi oppone resistenza passiva. Il risultato è un sistema che tradisce la propria vocazione rieducativa, punisce la fragilità, ignora i segnali di sofferenza e rischia di aggravare la recidiva invece che prevenirla. Le richieste al Comitato ONU - Tra le raccomandazioni contenute nel documento: l’abolizione del Decreto Caivano; la chiusura immediata della sezione minorile nella Dozza; l’assunzione di educatori e mediatori culturali adeguatamente formati; la garanzia di visite estese, attività educative e formative; la fine dell’isolamento disciplinare e l’applicazione della sentenza della Corte costituzionale n. 10/2024 sul diritto alle relazioni affettive in carcere. Un appello accorato, quello rivolto all’ONU, per restituire al sistema di giustizia minorile italiano la sua anima educativa e rispettosa dei diritti dell’infanzia, prima che sia troppo tardi. Leggi il dossier: https://www.fuoriluogo.it/wp-content/plugins/download-attachments/includes/download.php?id=44994 Carceri. Le agenzie Ue lanciano un nuovo toolkit per contribuire a eliminare l’epatite virale quotidianosanita.it, 8 agosto 2025 Il toolskit Euda ed Ecdc, include anche link a linee guida di salute pubblica pertinenti e strumenti pratici per comprendere il contesto e definire e attuare una strategia di eliminazione all’interno delle carceri. Vengono forniti esempi tratti da carceri in Germania, Spagna, Francia, Italia e Lussemburgo, che illustrano modelli di assistenza. L’Agenzia europea per la droga (Euda) e il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (Ecdc) hanno elaborato congiuntamente un kit di strumenti europeo per l’eliminazione dell’epatite virale nelle carceri. Il nuovo toolkit- lanciato vista della Giornata della Giustizia dei Detenuti del 10 agosto - è progettato per supportare l’implementazione e l’estensione degli interventi contro l’epatite B e C nelle carceri di tutta Europa. Rafforza inoltre il principio di “equivalenza delle cure”, garantendo che le persone in carcere ricevano un’assistenza sanitaria paragonabile a quella disponibile nella comunità. Le persone in carcere, ricorda l’Ecdc, presentano livelli più elevati di epatite virale rispetto alla popolazione generale, il che le rende un gruppo chiave per la prevenzione e il trattamento mirati. In Europa, le persone che entrano in carcere hanno anche maggiori probabilità di avere una storia di consumo di droghe per via parenterale, un importante fattore di rischio per la trasmissione dei virus dell’epatite B e C. La condivisione di attrezzature per l’iniezione e altri fattori di rischio, come le pratiche non sicure di tatuaggi o piercing, la condivisione di rasoi e il sesso non protetto, rendono le carceri un ambiente prioritario per interventi mirati di prevenzione e trattamento dell’epatite virale. Condanne brevi e ripetute incarcerazioni implicano che lo stesso gruppo di persone si sposti spesso tra il carcere e la comunità. Per questo motivo, affrontare problemi di salute come l’epatite virale in ambito carcerario può anche apportare benefici alla salute della comunità in generale, riducendo il carico complessivo di malattie e prevenendo la futura trasmissione di infezioni. Questo è noto come “dividendo comunitario”. Il toolkit si compone di quattro sezioni chiave: contesto, sviluppo della strategia, implementazione della strategia e monitoraggio e valutazione. Include link a linee guida di salute pubblica pertinenti e strumenti pratici per comprendere il contesto e definire e attuare una strategia di eliminazione all’interno delle carceri. Vengono forniti esempi tratti da carceri in Germania, Spagna, Francia, Italia e Lussemburgo, che illustrano modelli di assistenza. Nel toolkit, l’EUDA e l’ECDC forniscono informazioni pratiche e basate su prove per coloro che lavorano nell’assistenza sanitaria in carcere su come impostare interventi per prevenire e controllare l’epatite virale in questi contesti. È probabile che le informazioni siano rilevanti anche per altri pubblici, tra cui decisori politici, personale di sicurezza, persone che vivono in carcere, operatori di supporto tra pari e volontari. Ulteriore supporto per chi lavora nell’assistenza sanitaria in carcere sarà disponibile sotto forma di sessioni di formazione dedicate fornite da EUDA ed ECDC nei prossimi mesi, per facilitare l’implementazione efficace del toolkit e l’ampliamento dei servizi. La Madonna di Fatima sta attraversando le carceri italiane di Roberto Mazzoli Avvenire, 8 agosto 2025 È un viaggio silenzioso, quasi intimo quello che la statua di Maria sta compiendo nei penitenziari italiani. Don De Paoli: abbiamo accolto l’invito di papa Francesco di portare un raggio di sole. Si sta svolgendo in queste settimane un viaggio silenzioso, quasi intimo e carico di umanità che sta portando la statua della Madonna pellegrina di Fatima nelle carceri italiane. L’iniziativa, promossa dall’Apostolato mondiale di Fatima, ha preso avvio il primo luglio dall’Arghillà di Reggio Calabria. Attraverso numerosi luoghi della sofferenza, si snoderà lungo tutto il Paese per terminare domenica 31 agosto alla Giudecca di Venezia. “Con questa proposta pastorale e spirituale - spiega don Vittorio de’ Paoli, assistente nazionale dell’Apostolato - vogliamo portare un raggio di sole nel buio delle carceri, illuminati da papa Francesco che, poco prima di morire, espresse il desiderio di condurre la statua laddove esiste dolore e afflizione, celebrando così il Giubileo della Speranza”. Infatti nella Bolla di indizione dell’Anno Santo 2025, “Spes non confundit” lo scomparso papa Francesco scriveva: “Siamo chiamati a essere segni tangibili di speranza per tanti fratelli e sorelle che vivono in condizioni di disagio. Penso ai detenuti che, privati della libertà, sperimentano ogni giorno oltre alla durezza della reclusione, il vuoto affettivo e le restrizioni imposte. Offriamo loro un segno concreto di vicinanza che trova nella Madre di Dio la più alta testimone della speranza”. E poi non va dimenticato che l’attenzione di papa Bergoglio lo ha portato ad aprire una Porta Santa nel carcere di Rebibbia a Roma il 26 dicembre 2024, la seconda in ordine di tempo in questo Giubileo. La statua è una delle immagini ufficiali realizzata secondo le indicazioni di suor Lucia, una dei tre pastorelli di Fatima, concessa dal rettore del Santuario portoghese appositamente per questo pellegrinaggio. Dal 1947 viaggia per il mondo, portando con sé un messaggio di pace, amore e preghiera. Ad accompagnare il cammino della Vergine è la “chitarra del mare”, usata anche dal musicista inglese Sting in alcuni dei suoi concerti. Si tratta di uno strumento realizzato dai detenuti del carcere di Secondigliano di Napoli con il legno delle barche cariche di migranti naufragati e morti in prossimità di Lampedusa. “Vogliamo così ricordare - spiega don Vittorio - le persone che hanno perso la vita nel Mediterraneo alla ricerca di un futuro migliore ma anche offrire un’opportunità per riflettere e pregare per loro”. Oltre a quelli di Reggio Calabria e Venezia, gli altri penitenziari coinvolti nel pellegrinaggio sono: Vibo Valentia, Saluzzo, Civitavecchia, Ferrara, Ancona, Pesaro, Varese, Padova e Verona. Tra le tappe del percorso si trovano anche i luoghi del disagio giovanile. Sono realtà collaterali al carcere come la comunità “Il cenacolo” di suor Elvira a Saluzzo; la clinica “Caminiti” di Villa San Giovanni; la casa-famiglia “Nazareth” di Vibo Valentia; la comunità per detenute “Don Guanella” a Barza d’Ispra sul lago Maggiore, la “Piccola città dell’Immacolata” di Genova. In alcune date saranno presenti anche i vescovi diocesani. “Oggi posso testimoniare che davvero Maria sa parlare al cuore di ciascuno - prosegue don Vittorio - e che un figlio resta tale anche quando ha sbagliato”. Durante il pellegrinaggio mariano saranno organizzate all’interno delle strutture detentive: celebrazioni eucaristiche, confessioni, recite del Rosario e catechesi sui messaggi di Fatima. “Finora abbiamo riscontrato una grande partecipazione e commozione dei detenuti, delle detenute e di tutti i soggetti coinvolti nell’ambito lavorativo carcerario - conclude don Vittorio - tutte persone che svolgono compiti difficilissimi ma fondamentali. Per questo ci teniamo a ringraziare gli agenti della polizia penitenziaria, il personale educativo e amministrativo, i direttori, i cappellani e i numerosi volontari. Abbiamo portato dietro le sbarre tanto amore ma altrettanto ora lo porteremo all’esterno”. “Abbassate i toni”, Mattarella e lo scontro fra Meloni e toghe di Simone Canettieri Il Foglio, 8 agosto 2025 La giustizia e il fronte del Colle: il patto di non belligeranza sulla riforma, il pasticcio del caso Almasri e la freddezza con il ministro della Giustizia Carlo Nordio. C’è la “preoccupazione” di chi segue in silenzio un dibattito fra governo e magistratura sempre più aspro. E quindi “l’auspicio che i toni si abbassino da ambo le parti”. Ma nei pensieri del presidente Sergio Mattarella c’è anche la consapevolezza che questo clima potrebbe continuare ad alimentarsi a vicenda. D’altronde ieri mattina la premier Giorgia Meloni, prima di partire per la Grecia come anticipato dal Foglio, ha bollato l’iniziativa di Avs di voler denunciare il governo alla Corte penale internazionale su Gaza come “il tentativo di provare a liberarsi degli avversari per via giudiziaria”. Reazione di Elly Schlein: “Insinuazioni eversive”. Il clima è questo. In realtà tra il Colle e Palazzo Chigi c’è un patto di non belligeranza sulla riforma costituzionale della giustizia: il capo dello stato, che è anche il capo del Csm, non si è mai espresso nel merito. E addirittura alla premier alla conferenza stampa di inizio anno scappò che il Quirinale non fosse contrario alla separazione delle carriere. Questo non vuol dire certo che i toni di Meloni di questi ultimi giorni - “c’è un disegno della magistratura per frenarmi” - non siano arrivati a graffiare le vetrate del Quirinale. Episodi che contestualizzati con gli scontri del passato fra il Cav. e la magistratura non stupiscono certo i solidi frequentatori del Colle. Meloni e Mattarella si sono parlati al telefono tre giorni fa per il decreto Sport: braccio di ferro perso dal governo costretto a togliere gli emendamenti sgraditi al Quirinale. Il presidente nelle prossime ore si trasferirà in montagna per le ferie con la famiglia. Al momento non sono previsti interventi pubblici su questo spinoso argomento. Discorso ancora più sottile per la vicenda della scarcerazione e del rimpatrio del torturatore libico Almasri. “Un pasticcio”. Sul quale il Quirinale non ha avuto voce in capitolo, se non essere stato informato a decisioni prese. Ma questa vicenda illumina un altro dettaglio: la freddezza dei rapporti tra Sergio Mattarella e il ministro Carlo Nordio. Un feeling mai nato in questi quasi tre anni, caratterizzati anzi da diverse tensioni: dalle incomprensioni con il vicepresidente del Csm Fabio Pinelli, ora rientrate, alla gestione dell’emergenza carceri. E poi ci sono vocabolari e modi di porsi che non coincidono, mondi che non si parlano. E ufficiali di collegamento che non funzionano. E’ il caso di Giusi Bartolozzi, figura centrale al ministero della Giustizia, ormai in ascesa e finita con tutte le scarpe (anche se finora non risulta indagata) nel caso Almasri. Un capo di gabinetto con poteri così speciali e quasi leggendari al punto che Nordio ieri con una nota inconsueta ha dovuto ribadire che “le decisioni ministeriali sono le mie”. Il rischio che Bartolozzi finisca nel procedimento c’è, così come il tentativo che in caso di indagine nei suoi confronti il governo cerchi di scudarla chiedendo che anche su di lei si esprima la giunta per le autorizzazioni della Camera e poi in ultima istanza l’Aula. I tecnici legislativi del centrodestra hanno scovato un precedente curioso. Risale al 2006 quando per l’allora ministro dell’Agricoltura Gianni Alemanno di An il Tribunale dei ministri chiese l’autorizzazione a procedere per finanziamento illecito ai partiti insieme all’ex patron della Parmalat Calisto Tanzi a un dirigente della società di Collecchio Romano Bernardoni. Questi ultimi due, al contrario di Alemanno, non erano parlamentari, né membri del governo né ricoprivano ruoli pubblici. Si trattava due normali cittadini. Il tribunale dei ministri chiese il processo per Alemanno (e gli altri due) accusato di aver preso 85mila euro attraverso spazi pubblicitari pagati da una società di Tanzi alla rivista vicino ad An “Area” in cambio di un interessamento del ministero al prodotto “Latte fresco blu” della Parmalat bloccato dai giudici di Bologna dopo il ricorso della Granarolo. Alla fine Alemanno rinunciò all’immunità e con lui quindi anche Tanzi e Bernardoni. Il processo non portò a nulla, ma questo precedente adesso viene ricordato nel centrodestra con una certa enfasi perché potrebbe tornare utile nel caso di un coinvolgimento giudiziario di Bartolozzi. Pensieri che forse stanno lambendo, o forse no, la mente della premier da ieri in vacanza in Grecia con famiglia e amici, fra cui il sottosegretario Marcello Gemmato. Le ragioni (e i torti) su Almasri di Antonio Polito Corriere della Sera, 8 agosto 2025 Lo scontro tra governo e giudici accompagna da anni le vicende politiche italiane. Lo scoglio del “moralismo”. Giorgia Meloni ha ragione sul caso Almasri, e anche torto. Ha ragione quando dice che i suoi ministri hanno agito per “tutelare il Paese”. Ma ha torto quando aggiunge che la richiesta del processo da parte del Tribunale dei ministri è parte di un “disegno politico” della magistratura contro il governo. Sul primo punto: sembra molto difficile immaginare che Nordio, Piantedosi e Mantovano abbiano rilasciato e rimpatriato il “generale” libico, accusato di crimini orribili dalla Corte penale internazionale, perché gli stava simpatico, erano in affari con lui e ne erano stati corrotti, o per accrescere la loro popolarità. L’hanno fatto perché temevano ragionevolmente, su segnalazione dei nostri servizi segreti, vendette anti-italiane da parte della milizia di cui quel brutto ceffo era a capo, e che nello stato semi-fallito di Libia detiene un notevole potere di ricatto basato sull’uso della forza. Del resto, era accaduta da poco una vicenda per molti aspetti istruttiva. Il regime dell’Iran aveva arrestato (rapito) la nostra Cecilia Sala per ritorsione: perché in Italia era detenuto, su richiesta della giustizia statunitense, l’”ingegnere dei droni”, un cittadino iraniano accusato di terrorismo. Che cosa ha fatto il governo in quel caso, con l’unanime consenso del Parlamento? Ha chiesto agli Usa di chiudere un occhio e ha rilasciato l’iraniano, restituendo così la libertà alla nostra connazionale. Nel caso Almasri si può dire che il governo italiano si sia mosso per analogia, ma preventivamente; prima cioè che si manifestasse la ritorsione. Ovviamente non possiamo sapere se ci sarebbe stata, e di che tipo. Ma era legittimo temerla. E in ogni caso chi, se non il governo e i suoi servizi di informazione, poteva valutare la gravità del rischio? Ora il Parlamento, a maggioranza di centrodestra, respingerà la richiesta di processo per i tre membri del governo. È la legge a dire che può farlo “ove reputi, con valutazione insindacabile, che l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rivelante o per il perseguimento di un preminente interesse pubblico”. Insomma: se invece di un “programma criminoso”, come scrive il Tribunale dei ministri, si sia trattato di ragion di Stato. La vera domanda allora è: perché il governo non l’ha detto subito, invece di infilarsi a gennaio in un’imbarazzata e imbarazzante pochade di piccole bugie e grandi scaricabarile, tentando di attribuire la colpa del pasticcio ai presunti errori della Corte di Appello di Roma o della Corte penale internazionale? La stessa premier, che oggi espone fiera il petto assumendosi la personale responsabilità della decisione, si era guardata bene all’epoca dal metterci la faccia in Parlamento, dove avrebbe potuto agevolmente sostenere ciò che ora sostiene. Rispondere a questa domanda è importante perché spiega anche la seconda parte del nostro teorema: cioè perché Giorgia Meloni ha torto nell’accusare la magistratura di un complotto. E la risposta si chiama “moralismo”: il marchio di fabbrica della Seconda Repubblica, nata non a caso da un’inchiesta giudiziaria. L’unica, vera Grande Riforma finora realizzata in Italia è infatti la riscrittura dell’articolo 68 della Costituzione nel 1993. Cancellando l’immunità parlamentare, si consegnò simbolicamente nelle mani dei giudici l’autorità morale del controllo sull’azione politica; con effetti immediati, già in Procura, ben prima del processo, dal momento dell’avviso di garanzia. La destra italiana, Lega compresa, nata nel brodo di coltura dell’antipolitica, è figlia legittima di quella svolta. Non è senza significato che i tre ministri indagati, Nordio, Piantedosi e Mantovano, siano due magistrati e un prefetto. Ecco perché un governo di destra non ha avuto il coraggio di sostenere subito la ragion di Stato davanti all’opinione pubblica: perché temeva che la scarcerazione di Almasri potesse apparire “immorale”. Cosa che sulla base di criteri etici certamente è: ma la ragion di Stato contiene una sua superiore moralità, e cioè l’interesse pubblico. Così oggi, in difesa di una presunta “immacolatezza” già qua e là scardinata dalle inchieste, il governo non può fare a meno di attribuire a una vendetta la procedura alquanto trasparente seguita dalla magistratura, una volta venuta a conoscenza di una notizia di reato e una volta accertata che può portare a una “ragionevole previsione di condanna”. Del resto, era già successo anche a Salvini per il caso dei migranti trattenuti sulla Open Arms, ed è finita con un’assoluzione. Anche se queste inchieste fossero davvero una ritorsione per la riforma della Giustizia, e sicuramente ci sono magistrati animati da tali intenti vendicativi, non cambierebbe niente. Negli Usa si contano a decine i giudici che indagano sui decreti di Trump. La terzietà del giudice è scritta nella nostra Costituzione e vale in entrambi i sensi: pensate che cosa si sarebbe detto del Tribunale dei ministri se avesse deciso invece di archiviare le accuse ai tre ministri. La destra di governo ha educato il suo elettorato a identificare l’azione penale con un verdetto di moralità. Lo stesso vale per la sinistra di opposizione. La quale, in più, ha una certa disinvoltura nel valutare caso per caso. Avendo appena politicamente “assolto” il sindaco Sala e l’ex sindaco Ricci poiché “perseguivano l’interesse pubblico”, ora può tranquillamente negare la stessa presunzione di innocenza ai tre ministri sotto accusa. E così non ne usciremo mai. Caso Almasri, le motivazioni politiche (taciute fino all’ultimo) dell’arresto negato di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 8 agosto 2025 La dirigente del ministero, Cristina Lucchini: “Capii che c’erano ragioni non giuridiche”. La mattina di martedì 21 gennaio, quando il generale libico Osama Najeem Almasri era detenuto da due giorni e la corte d’appello di Roma stava per decidere se tenerlo in carcere oppure no, ai magistrati in servizio al ministero della Giustizia che lavoravano per risolvere ogni problema giuridico e consegnare il ricercato alla Corte penale internazionale, parve evidente che ne rimaneva uno per loro insormontabile. Un problema politico. Come ha spiegato al Tribunale dei ministri la dottoressa Cristina Lucchini, che dirigeva l’ufficio Cooperazione giudiziaria internazionale, dalle varie riunioni e consultazioni con la capo di gabinetto del Guardasigilli Carlo Nordio, Giusi Bartolozzi, “era chiaro che le valutazioni non erano solo giuridiche, ma implicavano contesti ai quali loro, essendo un ufficio tecnico, non potevano avere accesso”. I collaboratori di Nordio avevano preparato il provvedimento da far firmare al ministro che avrebbe sanato ogni eventuale vizio del fermo di Almasri; compresa la questione del periodo dei reati contestati dalla Cpi al generale libico, che il Guardasigilli avrebbe poi bollato in Parlamento come “vizio assoluto”. Loro l’avevano superato indicando nella bozza le date esatte, ricavate dall’esame dei documenti inviati dall’Aia. Segreto percepito - Ma quel pezzo di carta è rimasto sulla scrivania della capo di gabinetto, così come è rimasto muto il telefono e vuota la casella di posta elettronica del funzionario della Cpi che a più riprese aveva chiesto di interloquire con gli uffici ministeriali per fugare eventuali dubbi. Un appuntamento era stato fissato, ma saltò. Le valutazioni non solo giuridiche evocate dalla dottoressa Lucchini (e prima ancora dall’allora capo del Dipartimento Affari di giustizia Luigi Birritteri, che parlò di “possibile valenza politica di non trascurabile entità” nella mail inviata domenica 19 gennaio anche a Bartolozzi, che si limitò a raccomandare “massimo riserbo e cautela”) riguardavano i rischi di ritorsioni libiche segalati dal capo dell’Aise Giovanni Caravelli nelle riunioni segrete convocate da Palazzo Chigi, a cui partecipò anche la capo di gabinetto di Nordio. Che infatti davanti ai giudici ha ammesso: “Non era solo il problema dell’ordinanza, non era il tema spicciolo... qui c’era il problema del segreto di Stato”. Evidentemente lei aveva percepito che ci fosse, ma in realtà nessuno ha mai apposto quel vincolo. Né è stato opposto dall’Aise quando il Tribunale dei ministri ha acquisito la documentazione sul caso Almasri. Compresa la relazione redatta da Caravelli (classificata “segreta”, allegata agli atti ma con le “modalità che ne tutelino la riservatezza” previste dalla legge) di cui il direttore dell’Aise ha ampiamente parlato nella sua deposizione. Illustrando i pericoli che avrebbero corso gli italiani in Libia come ritorsione per la cattura del generale e la sua eventuale consegna alla Corte dell’Aia. A giustificazione dell’utilizzo dell’aereo dei servizi segreti per riaccompagnare Almasri a Tripoli, Caravelli ha citato il precedente di Argo 16, l’aereo del Sid che nel settembre 1973 riportò in Libia alcuni terroristi palestinesi; l’apparecchio precipitò poco dopo in circostanze tuttora misteriose e al giudice istruttore di Venezia Carlo Mastelloni che indagava sull’incidente il governo oppose il segreto di Stato. Stavolta non è accaduto. Come emerge dalla relazione del Tribunale dei ministri, il governo ha spiegato il rilascio del ricercato con versioni sempre differenti tra loro: dalla responsabilità esclusiva della Corte d’appello ai presunti errori del mandato d’arresto, fino alla necessità di valutare una “concorrente” richiesta di estradizione libica. Che però è arrivata quando Almasri era già stato rimpatriato, e i tecnici del ministero della Giustizia l’avevano bollata come “strumentale, totalmente sprovvista di provvedimenti e documenti”. Giustificazioni tutte smontate, una per una, dall’indagine condotta dai giudici inquirenti. L’ultima carta - Non a caso, dopo aver analizzato ogni atto del procedimento e forse intuito che quelle spiegazioni non reggevano ai riscontri cercati dai magistrati, la difesa dei tre membri dell’esecutivo indagati ha invocato come ultimo atto la carta dell’”interesse essenziale” dello Stato “a fronte di un pericolo grave e imminente”. Quindi una questione di “sicurezza nazionale” fondata su motivi diversi da quelli addotti fino a quel momento, che forse non si potevano dichiarare pubblicamente perché legati alle relazioni con la Libia e le milizie di cui faceva parte Almasri, da salvaguardare anche a costo di non rispettare le leggi che regolano i rapporti tra l’Italia e la Corte penale internazionale. Ma una volta valutato che anche i rischi paventati dal governo non avevano le “caratteristiche di indilazionabilità e cogenza tali da non lasciare altra alternativa che quella di violare la legge”, ai giudici non restava che valutare i fatti ricostruiti e specificare i reati che hanno ritenuto di ipotizzare. Non spetta a loro, infatti, decidere se “l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo”. Questa è la prerogativa riservata dalla legge costituzionale al Parlamento, che con una propria “valutazione insindacabile” può bloccare l’azione penale. È ciò che aveva intuito la funzionaria del ministero già due giorni dopo l’arresto di Almasri, quando si rese conto che tutto il lavoro fin lì svolto si sarebbe rivelato inutile perché erano in corso “valutazioni non solo giuridiche”. Torino. Un altro suicidio al carcere Lorusso e Cutugno Di Alberto Giulini Corriere di Torino, 8 agosto 2025 L’uomo, 45 anni, in carcere per furto e ricettazione era stato condannato in via definitiva. Ancora un suicidio in carcere, il secondo episodio in Italia in meno di ventiquattro ore. Gabriele Dandolo, 45 anni, si è tolto la vita nella prima sezione del padiglione C della Casa Circondariale Lorusso e Cutugno di Torino. L’uomo si è impiccato in cella con un cappio rudimentale ricavato da un lenzuolo. In carcere per furto e ricettazione, il detenuto aveva da poco visto la sentenza di condanna diventare definitiva. “Era un uomo fragile e di questa fragilità i genitori avevano avvisato l’amministrazione penitenziaria - spiega l’avvocata Roberta Di Meo. Chiederò al magistrato di fare chiarezza con accertamenti per verificare eventuali responsabilità e negligenze. Tuteleremo la sua memoria e i suoi familiari”. La Procura di Torino aprirà un’inchiesta, intanto il cinquantatreesimo episodio di suicidio in carcere apre a diversi spunti di riflessione sulle criticità del mondo delle carceri. “Ho dato disponibilità personale a partecipare alle visite di Ferragosto organizzate storicamente dal partito Radicale” spiega Bruno Mellano. L’ex garante regionale dei detenuti sarà al Lorusso e Cutugno il 14 agosto. Al suo posto, nei giorni scorsi, è stata nominata Maria Spadafora. La solidarietà alla famiglia di Gabriele Dandolo è arrivata anche dalla garante comunale Monica Cristina Gallo. La morte del 45enne si verifica a meno di ventiquattro ore da quella di Stefano Argentino. Il 22enne, accusato dell’omicidio di Sara Campanella, si è tolto la vita nel carcere di Messina. Dandolo porta a 54 il numero di suicidi negli istituti penitenziari italiani nel 2025. Di questi, tre episodi sono avvenuti in Piemonte: due morti al Lorusso e Cutugno di Torino e uno al Cerialdo di Cuneo. “Il 54° suicidio in Italia mette in discussione l’organizzazione dell’amministrazione penitenziaria - attacca Leo Beneduci, segretario generale dell’osapp, organizzazione sindacale autonoma di polizia penitenziaria. Noi sosteniamo che questo sia solo una delle punte dell’iceberg penitenziario che, oltre ai suicidi, comprende anche risse e aggressioni. Ma perfino traffici di telefoni, di sostanze stupefacenti e sindromi psichiatriche in assenza di assistenza sanitaria per i malati. Tutto è gestito dal personale di polizia penitenziaria, privo di mezzi e organici, su cui pende la costante spada di Damocle dei procedimenti disciplinari e penali”. Secondo Beneduci “l’amministrazione centrale, così come è organizzata, è costosa e inutile: il Dap va commissariato o chiuso del tutto. La polizia penitenziaria è l’unico corpo con funzioni risocializzanti: deve essere gestita da un’amministrazione appropriata che non può essere l’attuale”. Il Lorusso e Cutugno di Torino torna intanto a fare i conti con un altro suicidio, il secondo del 2025. Il 19 maggio del 2025 Hamid Badoui si era tolto la vita impiccandosi con i lacci delle scarpe all’interno della cella poche ore prima dell’udienza di convalida dell’arresto. L’uomo, arrestato in Barriera di Milano, era entrato in carcere il giorno precedente. Torino. Detenuto suicida in cella al Lorusso e Cutugno. La Garante: “Tragedia continua” di Caterina Stamin La Stampa, 8 agosto 2025 Vittima un 45enne, la cui pena era da poco diventata definitiva. L’avvocato: “Un ragazzo fragile e di queste fragilità era stata informata la direzione del carcere”. L’Osapp: “Sistema allo sfascio”. Tragedia al carcere Lorusso e Cutugno di Torino. Questo pomeriggio un detenuto di 45 anni, residente a Genova, si è tolto la vita impiccandosi con un lenzuolo, nel bagno della sua cella. Era stato condannato per furto e ricettazione e la pena da poco era diventata definitiva. A trovarlo gli agenti della polizia penitenziaria, che hanno segnalato l’accaduto alle autorità competenti. “Era un ragazzo fragile e di queste fragilità era stata informata la direzione del carcere dalla famiglia - spiega l’avvocata Roberta Di Meo, che lo assisteva - Chiederemo al magistrato di fare accertamenti per verificare eventuali responsabilità e negligenze e tuteleremo la sua memoria e quella dei suoi familiari”. La garante dei detenuti: “Tragedia continua” - Monica Gallo, garante dei detenuti di Torino, parla di una “tragedia continua”. L’uomo era detenuto nel Padiglione C del Lorusso e Cutugno, “dove il sovraffollamento raggiunge il 130%” sottolinea Gallo. Un dato a cui si aggiungono la solitudine e il disagio. Lo spiega la garante: “D’estate la situazione delle persone detenute si aggrava perché si va in vacanza: diminuiscono gli agenti, gli educatori, gli psicologi. In più, il padiglione ha delle condizioni strutturali fatiscenti: da anni si attende una ristrutturazione completa, promessa dal Dipartimento”. Il sindacato Osapp: “Sistema allo sfascio” - Si tratta, fa i conti il sindacato di polizia penitenziaria Osapp, del 53esimo suicidio nelle carceri italiane da inizio anno: “Sosteniamo che sia solo una delle punte dell’iceberg penitenziario, che comprende risse e aggressioni, traffici di telefoni e di sostanze stupefacenti, sindromi psichiatriche e assenza di assistenza sanitaria per i malati”. Va avanti: “Tutto gestito da personale di polizia penitenziaria privo di mezzi e di organici e su cui pende la costante spada di Damocle dei procedimenti disciplinari e penali”. L’avvocato in sciopero della fame: “Spirale senza fine” - “È una spirale senza fine” dichiara l’avvocato Roberto Capra, che ha iniziato un digiuno proprio per denunciare i suicidi in carcere, aderendo a una campagna lanciata il mese scorso a livello nazionale. “Ci sono disagi personali acuiti da una situazione nelle carceri inammissibile - aggiunge il presidente della Camera penale Vittorio Chiusano - Il problema è che chi dovrebbe prendere delle decisioni non lo fa e quindi noi urliamo ma nessuno ascolta. Continuiamo a vedere la gente che si toglie la vita a un metro da noi, ma immagino che a qualcuno vada bene così”. Messina. Il suicidio di Argentino riaccende i riflettori sulle carceri di Hermes Carbone Quotidiano di Sicilia, 8 agosto 2025 Presa di posizione netta quella annunciata ai nostri microfoni dalla garante dei detenuti del Comune di Messina, professoressa Lucia Risicato. La morte di Stefano Argentino in carcere a un mese dall’inizio del processo, è una sconfitta per lo Stato”. Presa di posizione netta quella annunciata ai nostri microfoni dalla garante dei detenuti del Comune di Messina, professoressa Lucia Risicato. “La magistratura sta indagando - premette - quindi non mi esprimo sul merito dei fatti. Ma è evidente che un suicidio in carcere, a prescindere dal reato contestato, è il segno di un sistema che continua a non garantire abbastanza sul piano della tutela psicologica e della dignità umana”, sottolinea la garante. “Un’amara beffa” - Il processo “avrebbe potuto rappresentare un’occasione preziosa per comprendere le motivazioni del gesto”, per scavare dentro la complessità di una storia che ha distrutto due famiglie. “È un’amara beffa”, dice, “e ciò che mi sconvolge di più - purtroppo senza sorprendermi - sono le manifestazioni di giubilo lette sui social. Gioire per una morte è spaventoso. Significa avere perso il senso stesso del rispetto per la persona umana, per la legge, per la giustizia”. La garante allarga poi il campo, andando oltre il singolo caso. “Il suicidio di Argentino rilancia, per l’ennesima volta, il problema della carenza di attenzione psicologica nelle carceri”. Un tema noto, affrontato a più riprese in recenti inchieste del Quotidiano di Sicilia, ma mai risolto. Nel silenzio generale anche del Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria Sicilia, retto da Maurizio Veneziano. Le parole di Veneziano - “Appena la scorsa settimana - ricorda - con la Conferenza nazionale dei garanti abbiamo promosso iniziative in tutta Italia per denunciare le carenze strutturali degli istituti penitenziari: mancano psicologi, educatori, medici. Manca una visione complessiva del trattamento rieducativo. La pena, così, non ha senso”, incalza la Risicato. Il nodo è anche istituzionale. “Abbiamo chiesto più volte un incontro al provveditore dell’amministrazione penitenziaria, il dottor Veneziano, senza ottenere risposte. Il garante regionale, il dottor Consolo, si è dimesso lo scorso primo aprile proprio per la totale mancanza di comunicazione tra lui, l’amministrazione e noi garanti cittadini”. Verso un’iniziativa congiunta - Adesso Messina, Palermo e Siracusa stanno valutando un’iniziativa congiunta: “Chiederemo al presidente della Regione di nominare un nuovo garante regionale. Serve una figura terza, indipendente, competente e autorevole. Tre garanti comunali, da soli, non bastano per fronteggiare i problemi di un’intera regione”. I problemi, anche dietro le sbarre, restano. Come nel caso di quelli vissuti nel carcere di Brucoli, dove “pochi giorni fa si è rimasti per cinque giorni senza luce e senza acqua. Siamo in piena estate, è un fatto catastrofico. Eppure, anche questo, sta diventando ordinaria amministrazione. È questo lo scenario in cui si consumano drammi come quello di Argentino - aggiunge la garante - E finché non cambierà, ne vedremo altri. Nel silenzio delle istituzioni”. Messina. Il suicidio in carcere di Stefano Argentino mette sotto accusa un sistema al collasso di Antonio Alizzi Il Dubbio, 8 agosto 2025 Il 27enne, reo confesso dell’omicidio di Sara Campanella, era da 10 giorni senza sorveglianza. Il legale Cultrera accusa: “Colpa dello Stato”. Il suicidio di Stefano Argentino, reo confesso dell’omicidio della studentessa Sara Campanella, ha scosso nuovamente l’opinione pubblica. Una vicenda già atroce che si è chiusa con un epilogo ancora più drammatico: la morte in cella del giovane detenuto nel carcere di Messina. Una tragedia nella tragedia che interpella la coscienza collettiva e solleva questioni scomode: il diritto alla cura, la dignità anche del colpevole, le falle di un sistema penitenziario ormai esausto. Aldo Di Giacomo, segretario del sindacato di polizia penitenziaria Spp, non ha usato mezzi termini: “Una tragedia annunciata”. Argentino aveva già manifestato intenti suicidari subito dopo l’arresto, ma dieci giorni prima del gesto gli era stata revocata la sorveglianza. Questo dettaglio, apparentemente tecnico, pesa come un macigno sulle responsabilità istituzionali. Le prime settimane di detenzione - ricorda Di Giacomo - sono quelle più a rischio, soprattutto per giovani alla prima reclusione, con reati di sangue e fragilità evidenti. Eppure, il controllo costante non c’era più. Il caso di Stefano Argentino si inserisce quindi in un contesto nazionale segnato da numeri allarmanti: 51 suicidi in carcere dall’inizio dell’anno, uno ogni quattro giorni. Almeno una trentina le morti in circostanze simili a quelle che hanno portato al decesso del giovane siciliano. “Il carcere non può essere un luogo di morte”, ha ammonito ancora Di Giacomo, denunciando l’inefficienza della task force voluta dal ministro Nordio e il paradosso di spese elevate (150 euro al giorno per detenuto) a fronte di servizi carenti. L’assistenza psichiatrica e psicologica è praticamente inesistente, il personale sanitario ridotto all’osso. “Con l’aggravante che medici e personale sanitario, non adeguatamente tutelati e vittime di continue aggressioni e minacce dei detenuti, vanno via. Il sovraffollamento e l’assenza di servizi di assistenza psicologica e sanitaria sono le prime cause mentre il costo complessivo di ciascun detenuto per lo Stato sfiora i 150 euro al giorno che non trova riscontro nell’assistenza da garantire”. E mentre si progettano celle-container per tamponare l’emergenza, la seconda carica dello Stato, il presidente del Senato Ignazio La Russa, propone un percorso parlamentare sul sovraffollamento. Ma basterà? Al suo fianco anche il vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, l’avvocato Fabio Pinelli, che auspica provvedimenti immediati affinché il carcere non diventi soltanto una “scuola del crimine”. Sull’altro fronte, l’avvocato Giuseppe Cultrera, legale di Stefano Argentino, è netto: “È il triste, drammatico, epilogo di una storia di cui si supponeva già il finale. Sara è stata uccisa, Stefano si è tolto la vita e l’unica responsabilità è da attribuire allo Stato”. Aveva chiesto una perizia psichiatrica per il suo assistito, proprio per comprendere se al momento del fatto fosse capace di intendere e volere. “Il gip l’ha negata”, ha precisato. Una scelta che oggi pesa più di una sentenza, perché quella perizia - dice il legale - “avrebbe potuto salvare almeno una delle due vite”. Anche questo aspetto apre un nodo giuridico cruciale: nonostante la gravità del reato, Argentino aveva diritto - come ogni imputato - a una valutazione sulla sua salute mentale. Quel “no” ha cancellato un passaggio fondamentale del processo, negando di fatto l’accertamento della sua piena responsabilità psichiatrica mentre stava per compiere un terribile omicidio. In un cortocircuito che solo lo Stato di diritto può spiegare, la famiglia di Stefano Argentino - proprio per effetto dell’omessa vigilanza - potrebbe ricevere un risarcimento. Al contrario, la famiglia di Sara Campanella, vista l’estinzione del procedimento penale per morte del reo, non riceverà alcuna forma di giustizia. È un effetto crudele, ma previsto dalla legge. Comprensibile, dunque, il dolore dei genitori di Sara, come lo smarrimento della famiglia Argentino. E come auspicato dallo stesso avvocato Cultrera, solo il silenzio rispettoso potrà contenere il frastuono di questa doppia tragedia. “Auspico solo che le due famiglie, accomunate da un immane dolore di un destino avverso, possano trovare la pace terrena in un abbraccio silenzioso di dolore, antefatto ed epilogo di un qualcosa che non sarebbe mai dovuto succedere e che avrebbe potuto essere evitato”. Milano. Un detenuto è morto nel carcere di Opera: si indaga per omicidio colposo milanotoday.it, 8 agosto 2025 Un detenuto senegalese, Makhtar Gaye, è morto nel carcere di Opera nel pomeriggio di venerdì 1° agosto. Sulle cause del decesso sono in corso accertamenti da parte della procura di Milano che ha aperto un fascicolo senza indagati per omicidio colposo. L’inchiesta è stata affidata dal procuratore Marcello Viola alla pm Ilaria Perinu che era di turno il giorno del decesso. Il decesso e i punti oscuri - Secondo quel che ha ricostruito Milano Today l’uomo, detenuto nel secondo reparto sezione “B”, posto al terzo del piano penitenziario dell’hinterland di Milano, sarebbe morto tra le braccia di un compagno di cella. L’esatta dinamica di quanto accaduto non è ancora chiara e le cause del decesso sono tutte da accertare. Stando a quanto trapelato, pare che Gaye abbia riferito di sentirsi poco bene in mattinata. Intorno alle 16 sarebbe stato accompagnato in infermeria e successivamente riaccompagnato in cella, dove poi è spirato. La direttrice del carcere, Stefania D’Agostino, interpellata da questa testata, non ha confermato né smentito questa ricostruzione, trincerandosi dietro un “no comment”. In ogni modo sul corpo del detenuto è stata già effettuata l’autopsia e dai suoi risultati si potrebbe capire qualcosa in più nei prossimi giorni. Nessuna segnalazione al consolato - Tra i lati oscuri della vicenda ci sarebbe anche la mancata segnalazione del decesso, per le vie ufficiali, al consolato del Senegal. La struttura avrebbe saputo dell’accaduto solo mercoledì 6 agosto e per vie informali, perché dalle autorità italiane non sarebbe arrivata nessuna conferma ufficiale, inviata dalla direzione del carcere solo alla procura. Gli inquirenti hanno allegato al fascicolo d’indagine anche un esposto presentato dal garante dei detenuti che chiedeva delucidazioni su quanto accaduto. Palermo. L’appello del Garante dei detenuti: “Nelle carceri si muore di abbandono” di Serena Termini ilmediterraneo24.it, 8 agosto 2025 Pino Apprendi denuncia le condizioni disumane negli istituti penitenziari siciliani: carenza di personale, razionamento dell’acqua, visite mediche ritardate e strutture fatiscenti. “Il caldo estivo aggrava una situazione già drammatica”. Il sovraffollamento, il caldo, la carenza di acqua e le lentissime risposte sanitarie fanno soffrire ancora di più le persone recluse che hanno delle patologie o disabilità fisiche o psichiche. C’è la forte carenza del personale penitenziario e una sanità, completamente inadeguata, che non riesce a dare, in tempi brevi, le risposte neanche a chi è colpito da gravi patologie. A dirlo è Pino Apprendi, garante dei diritti delle persone detenute di Palermo. Nei giorni scorsi, davanti alla Casa di reclusione Ucciardone si è svolto, aderendo ad una manifestazione nazionale, il sit-in di solidarietà “Per il diritto di vivere”, organizzato e promosso dal Garante dei Detenuti di Palermo, Messina e Siracusa. Soprattutto, in relazione al sovraffollamento delle carceri, si chiede di fare uscire dagli istituti le persone detenute che abbiamo meno di un anno da scontare attivando le misure alternative alla detenzione carceraria. In Italia su un totale di circa 63mila detenuti, uscirebbero circa 10 mila persone. In Sicilia, ci sono 6300 detenuti, tra uomini, donne e minori. “Il carcere resta un luogo pieno di persone prevalentemente povere - dice Pino Apprendi. La maggior parte è gente che si dispera in vario modo. Alcuni giovani mi dicono che, in futuro, non vorranno entrare più in carcere. Su di loro, si deve investire affiche con la scuola e i tirocini lavorativi si offrano strade di vita nuove”. “A Palermo abbiamo il carcere Pagliarelli - afferma Pino Apprendi - che è tra i più grandi d’Italia con 1400 persone detenute. Per un errore di progettazione dell’impianto idrico l’acqua è razionata e arriva a fasi alterne. Se viene utilizzata l’acqua in un piano non arriva negli altri tre piani. Non funzionando gli ascensori da 15 anni, la situazione più grave riguarda le persone che hanno problemi di salute e sono pure anziane”. Il grave problema è anche la carenza del personale penitenziario tra polizia, educatori e medici. “La polizia penitenziaria è, rispetto ai bisogni, sottodimensionata e sotto organico - continua Pino Apprendi -. Mi raccontano che ci sono notti ‘infernali’ in cui ci sono solo 100 agenti di polizia che non sanno come rispondere prima a tutti i bisogni di chi sta male, ha crisi o altre situazioni, tra i 1.400 reclusi. I medici sono assolutamente insufficienti; per una visita medica specifica in ospedale i tempi sono lunghissimi. Abbiamo persone che hanno cataratte, diabete, tumori e tanto altro che nel frattempo peggiorano la loro salute. Ci sono stati casi in cui era arrivata una ambulanza, pronta a portare la persona per una visita ospedaliera ma che è stata costretta a tornare indietro perché mancava la polizia per la scorta. Ricordiamoci che, in molti casi, si entra in buona salute e ci si ammala dentro il carcere. A non essere adeguati numericamente sono anche i psicologi, educatori, assistenti sociali ed infermieri”. Il caldo estivo aumenta ancora di più la sofferenza di queste persone. “In ogni cella ci sono più persone in letti a castello che convivono in uno spazio piccolo - continua Apprendi -. Ci sono i ventilatori ma non per tutti. Alcuni di questi sono arrivati da benefattori”. Nel carcere Ucciardone, con circa 600 detenuti, la situazione più critica è quella, soprattutto, della nona sezione. “Da tempo denunciamo i problemi della nona sezione dove sono recluse le persone con problemi di salute mentale e le persone sottoposte a provvedimenti disciplinari, in isolamento - sottolinea Apprendi -. Questa sezione non è mai stata ristrutturata; ha servizi igienici vecchi e le pareti tutte scrostate. Inoltre, non tutti hanno ventilatori e frigorifero. C’è un progetto la ristrutturazione che dovrebbe iniziare nel 2026. Intanto si continua a soffrire”. Secondo il garante bisognerebbe anche, creare le condizioni per portare il detenuto nella propria città di origine affinché possa stare vicino ai suoi familiari. “L’allontanamento dalla famiglia fa soffrire molto la persona detenuta che non riesce a vedere più la moglie, i genitori e i figli”. Prato. Sospesi i corsi di formazione in carcere per mancanza di personale Il Tirreno, 8 agosto 2025 La visita del presidente della Provincia Calamai: “Così diventa più difficile il recupero dei detenuti”. Il sindaco di Montemurlo, Simone Calamai, nella sua doppia veste di presidente della Provincia di Prato, ieri mattina, 6 agosto, ha fatto visita al carcere della Dogaia. Con lui erano presenti il consigliere regionale Marco Martini, gli avvocati della Camera penale di Prato Elena Augustin, Silvia De Natale, Sara Mazzoncini, Gabriele Terranova, la presidente del Consiglio comunale di Montemurlo, avvocato Federica Palanghi, il consigliere comunale di Montemurlo, Fabrizio Botarelli ed altri esponenti politici, tra cui l’ex presidente del consiglio comunale di Prato Lorenzo Tinagli. La delegazione ha avuto modo d’incontrare la direttrice dell’istituto penitenziario Patrizia Bravetti e il nuovo comandante della polizia penitenziaria. La visita arriva a seguito degli ultimi gravi fatti che hanno visto il carcere della Dogaia al centro di episodi di violenza ed è stata finalizzata alla verifica delle condizioni penitenziarie. Il sopralluogo segue quello che Calamai ha fatto al carcere lo scorso 19 novembre 2024 sempre nell’ottica di una verifica delle condizioni detentive. “Abbiamo voluto verificare nuovamente e in prima persona le condizioni del carcere a partire dal problema del sovraffollamento, che coinvolge soprattutto il settore della media sicurezza, e della cronica carenza di personale della polizia penitenziaria - racconta Calamai - Tutto ciò ha riflessi diretti sulle condizioni di detenzione e sulle attività di recupero dei detenuti in carcere, a partire dalla formazione e dai corsi di istruzione superiore che dal prossimo settembre non potranno più essere garantiti, proprio per la mancanza di personale di sorveglianza”. Calamai ha quindi rivolto un appello all’amministrazione penitenziaria e allo Stato affinché la situazione carceraria pratese possa essere affrontata in maniera efficace attraverso un investimento forte sul numero di agenti di polizia penitenziaria in servizio presso la struttura: “L’istruzione e la formazione professionale sono elementi cruciali per il recupero e la reintegrazione dei detenuti e per la prevenzione delle recidive dei reati - continua Calamai -Purtroppo, come emerge da uno studio Istat del 2023, il 40 per cento dei detenuti ha un titolo inferiore o pari alla scuola media. L’istruzione e la formazione professionale, invece, sarebbero elementi fondamentali per ri-scrivere storie di vita diverse per queste persone. Faccio ancora appello ancora una volta all’amministrazione penitenziaria e allo Stato affinché la casa circondariale di Prato possa trovare rapidamente risposte concrete per migliorare la situazione dei detenuti e del personale della polizia penitenziaria in servizio costretto al lavorare in condizioni di forte stress e disagio”. Forlì. Visita ispettiva al carcere, i detenuti sono 163. “Occorre rafforzare gli organici” forlitoday.it, 8 agosto 2025 “Il nostro scopo non era solo visitare una struttura, ma testimoniare l’attenzione concreta e la vicinanza dello Stato al sistema penitenziario - le parole di Tassinari -. È così che si rafforza la fiducia nelle istituzioni”. La deputata e coordinatrice regionale di Forza Italia per l’Emilia-Romagna, Rosaria Tassinari, ha effettuato una visita ispettiva al carcere di Forlì insieme ad una delegazione delle Camere Penali della Romagna. “Il nostro scopo non era solo visitare una struttura, ma testimoniare l’attenzione concreta e la vicinanza dello Stato al sistema penitenziario - le parole di Tassinari -. È così che si rafforza la fiducia nelle istituzioni”. La parlamentare ha voluto ringraziare “l’avvocato Licia Zanetti, presidente delle Camere Penali della Romagna, per aver promosso questa iniziativa, e la direttrice del carcere, Carmelina De Lorenzo, per la piena disponibilità e il dialogo aperto”. La struttura ospita attualmente 163 detenuti e risente di carenze di personale, anche a causa di distacchi temporanei non ancora rientrati. “È evidente - osserva Tassinari - che occorre rafforzare gli organici e dare supporto a chi opera quotidianamente in un contesto complesso, svolgendo un lavoro delicato e fondamentale per la sicurezza e la legalità”. “La visita - prosegue - si inserisce nella linea di continuità con la campagna estiva avviata lo scorso anno da Forza Italia, che ha portato parlamentari e amministratori nei penitenziari italiani per raccogliere istanze reali e riportarle al centro dell’agenda politica. E esempi concreti non mancano. Il Piano carceri, sostenuto dal ministero delle Infrastrutture e trasporti, con il fondamentale apporto del vicepremier Matteo Salvini e del sottosegretario Tullio?Ferrante, ha stanziato 335 milioni di euro per oltre 2.500 nuovi posti da realizzare entro i primi mesi del 2027. Tra gli interventi previsti, uno dei più significativi riguarda proprio il carcere di Forlì, a conferma dell’attenzione che il Governo riserva anche alle strutture del nostro territorio. È un segnale forte di vicinanza istituzionale”. Inoltre, Tassinari ha ricordato anche il progetto del nuovo carcere di Forlì, che ospiterà oltre 250 detenuti, con un investimento di 59 milioni di euro e previsione di completamento entro il 2028. “Un’opera attesa da anni - conclude - che darà una risposta concreta sia alle esigenze della città che a quelle del sistema penitenziario regionale e nazionale”. Alla vista era presente anche la consigliera regionale Valentina Ancarani, che ha parlato di “importante occasione di confronto con operatori e rappresentanti del sistema penitenziario. Un ringraziamento particolare alla presidente delle Camere Penali Zanetti, e alla direttrice del carcere, dott.ssa Carmelina De Lorenzo, per l’accoglienza e la disponibilità al dialogo”. “La grave carenza di personale - soprattutto tra la Polizia Penitenziaria e i servizi di supporto - rappresenta una criticità strutturale che desta da tempo forte preoccupazione - afferma Ancarani -. Allo stesso tempo, il carcere di Forlì presenta elementi di valore, come i laboratori interni di inserimento lavorativo e la presenza continuativa dei servizi sanitari gestiti dalla struttura semplice interdipartimentale di medicina penitenziaria dell’Ausl Romagna, attivi 24 ore su 24 e con la presenza settimanale di medici specialistici, che testimoniano la volontà di offrire percorsi di presa in carico, cura e riabilitazione”. “Mantenere alta l’attenzione su questa realtà è fondamentale, soprattutto in vista dell’apertura del nuovo istituto penitenziario prevista entro il 2028 nella zona del Quattro - sottolinea -, una struttura moderna, più ampia e capace di accogliere circa il doppio dei detenuti, motivo per cui ho sottolineato l’urgenza di avviare una riflessione pubblica”. “A questo percorso manca ancora un tassello importante: la figura del Garante comunale dei detenuti, che a Forlì non è stata ancora istituita e di cui è incomprensibile la sua assenza - conclude la consigliera regionale dem. Una presenza che sarebbe ancora più significativa in questa fase di cambiamento”. Pistoia. Avvocati in visita al carcere: “Situazione peggiorata in termini di presenze” valdinievoleoggi.it, 8 agosto 2025 Aderendo all’iniziativa “Ristretti in agosto”, promossa su tutto il territorio nazionale dall’Unione camere penali italiane, la mattina dello scorso 6 agosto, la camera penale di Pistoia, rappresentata nell’occasione dagli avvocati Daria Bresciani, Lorenzo Cerri e Maurizio Bozzaotre (rispettivamente: presidente, vicepresidente e segretario), ha fatto visita alla casa circondariale Santa Caterina di Pistoia. nDi seguito una nota del consiglio direttivo. “Il primo dato da riscontrare è che, purtroppo, la situazione in termini di presenze è assai peggiorata. Attualmente i detenuti sono più di 80 (di cui circa la metà in attesa di giudizio), con un notevole incremento verificatosi negli ultimi tempi a causa del generale sovraffollamento carcerario. Per ospitare i nuovi arrivi sono stati aggiunti posti letto nelle varie stanze, in alcuni casi fino a giungere a 6 persone per stanza. È evidente che tutto ciò non può essere ulteriormente sostenibile, non solo per i detenuti ma anche per il personale di polizia penitenziaria (quest’ultimo invece, manco a dirlo, sottodimensionato) e dunque è necessario che ci si attivi urgentemente nelle sedi competenti per alleggerire il sovrannumero di cui soffre il Santa Caterina. In tale direzione - ed è la nota positiva che abbiamo riscontrato - entro la fine dell’anno dovrebbe (ma il condizionale sembra d’obbligo) essere inaugurata la nuova sede destinata ai detenuti “semiliberi” (ossia coloro ammessi al beneficio di uscire durante il giorno ed essere ristretti solo per la notte), nell’ex convento francescano di via degli Armeni. Altra nota positiva consiste nelle molteplici attività di carattere culturale e rieducativo portate avanti da assistenti sociali e funzionari socio-pedagogici (purtroppo anch’essi sotto organico rispetto alle presenze e all’importante lavoro da svolgere). A tale proposito, all’interno e attorno al “pianeta carcere”, abbiamo avuto il piacere di incontrare e conoscere tante persone (agenti e ufficiali di polizia penitenziaria, personale sanitario, funzionari, assistenti sociali, volontari “esterni”) che ogni giorno, nonostante le grandi difficoltà logistiche e pratiche, svolgono il loro lavoro con dedizione e passione, cercando meritoriamente di attuare quel principio rieducativo che la nostra Costituzione pone necessariamente quale scopo ultimo della sanzione penale. Per parte nostra, continueremo a monitorare la situazione e non esiteremo a denunciarne le criticità”. Catania. Alberghina (MpA): “Bene l’istituzione del Garante dei diritti delle persone detenuti” cataniatoday.it, 8 agosto 2025 La coordinatrice del Movimento per l’Autonomia di Catania, Pina Alberghina, ha commentato positivamente l’istituzione della figura del garante dei diritti del cittadino per le persone detenute, definendola una “decisione importante” e “una risposta concreta” da parte dell’amministrazione comunale e dell’assessorato alle Politiche Sociali. “La situazione delle strutture penitenziarie - ha sottolineato Alberghina - è segnata da sovraffollamento, carenza di risorse e condizioni spesso invivibili, che mettono a dura prova non solo i detenuti ma anche tutto il personale addetto, compromettendo la dignità umana e il rispetto dei diritti fondamentali”. Secondo la rappresentante degli autonomisti, per affrontare queste criticità è necessario attuare politiche strutturali e coordinate, che includano misure di prevenzione, percorsi alternativi alla detenzione e soprattutto programmi di reinserimento sociale. Questi dovrebbero coinvolgere non solo il sistema penitenziario, ma anche quello delle politiche sociali, dell’istruzione e del lavoro. “Solo attraverso un impegno concreto e trasversale - ha concluso Alberghina - sarà possibile garantire il rispetto dei diritti e promuovere un reale percorso di recupero e inclusione”. Udine. “Non siete soli”: raccolta fondi per il carcere fuoriluogo.it, 8 agosto 2025 In occasione del ferragosto raccolta fondi promossa dal Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Udine, da La Società della Ragione e da Icaro Volontariato Giustizia ODV, con la collaborazione di Coop Alleanza 3.0. Dopo il grande successo dell’anno scorso con la raccolta fondi per l’acquisto dei frigoriferi per le celle, torna anche quest’estate l’iniziativa solidale per il carcere di Udine. L’obiettivo è semplice quanto importante: far arrivare un segnale di vicinanza e umanità alle persone detenute, attraverso la distribuzione di pacchi dono con generi alimentari e voluttuari in occasione di Ferragosto. Mentre molti di noi saranno in vacanza, al mare o in montagna, o magari a casa ma comunque liberi, le persone recluse continueranno a vivere una condizione di sospensione e isolamento. Un piccolo gesto, come quello di partecipare a questa raccolta fondi, può contribuire a trasformare la quotidianità del carcere, dando un segnale concreto che nessuno deve essere lasciato solo. La campagna, promossa dall’Ufficio del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Udine, da La Società della Ragione e da Icaro Volontariato Giustizia ODV, con la collaborazione di Coop Alleanza 3.0, vuole anche essere un invito più ampio alla riflessione: la solidarietà non è un’alternativa alla giustizia, ma ne è parte integrante. E il carcere non può essere riformato se non ricominciamo a guardarlo con occhi umani. Chi vuole sostenere l’iniziativa può contribuire con una piccola donazione. Bonifico intestato a Icaro Volontariato Giustizia Odv. Iban: IT92J0708564300000000038035. Causale: “Ferragosto in carcere”. Condividete l’iniziativa, aiutateci a far arrivare la voce del “fuori” dentro le mura del carcere. Perché nessuno è davvero libero, se qualcun altro è dimenticato. Napoli. Carcere di Poggioreale, ora nuovo cortile: “Detenuti da tutelare” di Giuliana Covella Il Mattino, 8 agosto 2025 Un’opera voluta dal Provveditorato assieme a Carcere possibile e architetti. Un campetto, una palestra, un’area relax e una zona per la socialità. Rinasce così dopo anni di abbandono uno dei cortili destinati al passeggio nel carcere di Poggioreale, dove ieri ha visto la luce un ambizioso progetto costato 70mila euro, finanziato dalla Cassa delle ammende e nato nel 2016 grazie a una rete di soggetti come l’amministrazione penitenziaria, l’associazione Il Carcere Possibile Onlus e la direzione della casa circondariale “Giuseppe Salvia”. Al taglio del nastro sono intervenuti Lucia Castellano, provveditrice amministrazione penitenziaria della Campania, Mara Esposito Gonella, presidente Il Carcere Possibile, Stefano Martone, direttore del carcere, Stefano Carmine De Michele, capo Dipartimento amministrazione penitenziaria, Maria Rosaria Covelli, presidente Corte d’Appello di Napoli, Samuele Ciambriello, garante regionale detenuti. Ha mangiato la pizza con i detenuti che la preparano ogni giorno, ha fatto visita al reparto dei nuovi giunti e ha toccato con mano la realtà di un carcere che, a dispetto delle criticità, cerca di mettere in campo numerose attività per la rieducazione dei reclusi. Il nuovo capo del Dap ha partecipato con entusiasmo alla cerimonia che si è svolta a Poggioreale per inaugurare palestra e campetto nell’ex cortile passeggio del padiglione Livorno. “Sono molto contenta che abbia voluto iniziare da qui e da altre due carceri campane, Secondigliano e Santa Maria Capua Vetere - dice Castellano - e nonostante le difficoltà che ha Poggioreale con i suoi 2.070 detenuti rispetto a una capienza di circa 1.600, De Michele ha avuto modo di vedere le numerose buone prassi che vi sono. Riguardo al restyling del cortile pensiamo di ripetere l’intervento in altre strutture”. L’iniziativa è stata promossa dall’associazione Il Carcere Possibile, con il sostegno del provveditorato regionale e il contributo della onlus Made in heart. Tutto è partito dal progetto “Il carcere nella città la città nel carcere”, nato nel 2016 da una comunione di intenti tra amministrazione penitenziaria e Il Carcere Possibile allo scopo di restituire dignità architettonica ai cortili, trasformandoli da spazi vuoti in luoghi dove trascorrere il tempo in modo quanto più possibile analogo a chi vive all’esterno. Grazie al supporto di Made in Heart, uno dei cortili è stato ripensato per stimolare la socialità e favorire il processo rieducativo. Data la sua collocazione nel tessuto cittadino, Poggioreale è parso il luogo ideale per dare avvio al progetto, come spiegano Castellano e Martone: “Un’area di defaticamento e incontro tra chi vive in spazi limitati è fondamentale e abbiamo deciso di inaugurarla proprio ora, quando la quotidianità in carcere diventa ancora più complessa. Siamo felici che sia stato il capo del Dipartimento a tagliare il nastro perché testimonia la presenza concreta dell’Amministrazione nelle carceri non solo per i detenuti, ma anche per chi vi lavora in condizioni spesso difficili con impegno, serietà e spirito di sacrificio”. Uno spazio dinamico, del relax, dell’aggregazione ma anche del benessere e della cura del corpo, oltre che della mente. Questo vuole essere il rinnovato cortile passeggio del padiglione Livorno del carcere di Poggioreale, secondo il progetto curato da un’associazione di architetti, Made in heart. “Lo abbiamo fortemente sostenuto come progetto sin dal 2015 quando fu proposto dall’ex direttore Antonio Fullone - ricorda la presidente de Il Carcere Possibile - partendo dall’idea di trasformare quegli spazi da ex cortili abbandonati a luoghi di socializzazione. Così l’architetto Giancarlo Artesi immaginò di portare la città nel carcere, ricreando gli spazi presenti all’esterno. L’incontro “magico” è poi avvenuto mesi fa col direttore Martone in sinergia con la provveditrice Castellano. Nel 2016 l’idea fu pubblicizzata al Pan e ci fu un lavoro di grande impegno, ma il Covid bloccò tutto e oggi finalmente il progetto vede la luce. È un orgoglio infinito aver visto nascere qualcosa che si era immaginato - aggiunge - perché l’intento della nostra associazione è la salvaguardia dei diritti dei detenuti. La possibilità di donare quegli spazi restituendo loro un momento di dignità e parziale benessere è una grande soddisfazione”. Gorgona (Li). L’isola-carcere unica al mondo che rieduca i detenuti di Niccolò Di Francesco tpi.it, 8 agosto 2025 Mentre altri penitenziari sono sovraffollati e registrano numeri record di suicidi, la colonia penale agricola situata nell’Arcipelago Toscano spicca come esempio di inclusione e riabilitazione. Un modello che sfida le tradizionali logiche della pena. Mentre le carceri italiane sono sovraffollate e registrano numeri record di suicidi a causa delle condizioni spesso disumane in cui si trovano i detenuti, che non ricevono nessuna formazione rieducativa, nel cuore del Mar Tirreno, a ventisette chilometri da Livorno, c’è un istituto penitenziario che negli anni è diventato un vero e proprio modello di inclusione e riabilitazione. Si tratta della Casa di reclusione di Gorgona, situata sull’omonima isola, la più piccola dell’Arcipelago Toscano. Qui, attualmente, vi sono circa 90 detenuti che lavorano e “vivono” l’isola a 360 gradi occupandosi anche della manutenzione del carcere stesso. Dramma carcerario - Per comprendere appieno l’eccezionalità del carcere di Gorgona occorre prima capire in quali condizioni versa attualmente il sistema penitenziario italiano. Luogo di compressione più che di reinserimento, contenitore sociale più che uno spazio di rieducazione, le carceri italiane nel 2025 ospitano oltre 61mila detenuti a fronte di una capienza di circa 50mila posti. Questo significa che il sovraffollamento supera il 120% con picchi ancora più alti che si registrano in regioni quali Lombardia, Campania e Sicilia. Questo crea un vero e proprio paradosso facendo perdere al sistema carcerario la sua funzione rieducativa, così come stabilito dall’articolo 27 della Costituzione secondo cui “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”. A conferma di ciò vi sono i numeri: la recidiva, ovvero il ritorno in carcere dopo una condanna già scontata, sfiora l’80%. Questo significa che otto detenuti su dieci tornano a delinquere entro pochi anni dal primo reato commesso. Nelle carceri italiane, poi, spesso si registrano condizioni igieniche precarie con accessi alle cure difficoltose e mancata assistenza psicologica. C’è un dato inquietante al riguardo: nel 2024 si sono registrati 67 suicidi tra i detenuti, il numero più alto degli ultimi decenni. La media è di uno ogni cinque giorni. A questo si sommano le condizioni di stress degli agenti e degli operatori sociali oltre alla carenza cronica di personale. Ecco perché, di fronte a questi dati drammatici, il carcere di Gorgona appare non solo come una vera e propria isola felice ma come un modello da seguire. Una storia straordinaria - Citata, insieme a Capraia, da Dante Alighieri nel Canto XXXIII dell’Inferno, l’isola di Gorgona diventa una colonia penale già nella seconda metà dell’Ottocento. Roccaforte militare e monastica, abitata prima dai Benedettini e poi abbandonata, dopo l’Unità d’Italia il ministero di Grazia e Giustizia la sceglie nel 1869 come luogo ideale per installarvi una colonia penale agricola, ispirandosi ai modelli francesi e inglesi, e risolvere così il problema della criminalità e della sovrappopolazione carceraria. La scelta non è casuale: l’isola, infatti, non è inaccessibile ma al tempo stesso è ovviamente isolata, è aspra ma comunque fertile. Un mix perfetto dove coniugare punizione e rieducazione. I primi detenuti arrivati a Gorgona disboscarono, costruirono muretti a secco, piantarono viti e olivi con il compito di rendere coltivabile l’isola. La colonia penale crebbe nel corso degli anni arrivando a ospitare oltre trecento reclusi durante il periodo fascista. La struttura - La casa circondariale di Gorgona, che comprende una biblioteca, ambienti dedicati al lavoro, spazi dedicati alla formazione e alla scuola, sala musica, una palestra, campo da calcio e di bocce e degli spazi dedicati all’istruzione e alla socializzazione, è suddivisa in due sezioni dette “Capanne” e “Transito”. Le “Capanne” ospitano le celle dei detenuti, ognuna delle quali arredata con due letti singoli e due armadi. Sono garantiti 3 metri quadri per ogni detenuto, mentre il bagno si trova in un ambiente separato con porta. In ognuno c’è una doccia che garantisce l’acqua calda mentre le celle sono tutte dotate di un riscaldamento funzionante. Lontano dagli spazi detentivi vi è un’area verde in cui si svolgono i colloqui settimanali con le famiglie che comprende una piccola cucina interna, dei tavoli esterni e dei giochi per bambini posti in prossimità. Destinata a detenuti di sesso maschile, senza alcuna distinzione tra giovani e anziani, la struttura ospita condannati per reati spesso gravi, che stanno scontando l’ultima parte della loro condanna. Dal 2019, inoltre, i detenuti hanno la possibilità di partecipare a un laboratorio teatrale, sotto la direzione di Gianfranco Pedullà, come avviene già in numerose carceri italiane. Lavoro come riscatto sociale - La peculiarità di Gorgona è che i detenuti non vivono in celle chiuse, ma in una sorta di villaggio agricolo. Le celle, infatti, sono aperte dalle 7 alle 21 con i detenuti che impiegano la maggior parte del tempo a lavorare nei campi, ad allevare animali e a produrre vino, olio e pane. Nei momenti di libertà, i detenuti non vivono nella cella ma possono usufruire del cortile esterno, del refettorio o della sala attrezzi. Il lavoro non è solo una forma di impiego ma un vero e proprio percorso di recupero finalizzato al reinserimento sociale dei detenuti. La preparazione che viene fornita loro in campi quali agricoltura, allevamento, vinificazione, caseificazione, falegnameria, idraulica, muratura, provvederà, infatti, a creare un fondo finanziario e culturale di risorse funzionale alla reintroduzione nella società civile. Progetto Marchesi Frescobaldi - Dopo aver rischiato più volte la chiusura, in particolare modo tra gli anni Settanta e Ottanta, il carcere di Gorgona ha vissuto una vera e propria svolta nel 2012 quando il ministero della Giustizia ha autorizzato un progetto senza precedenti che vede protagonista la nota azienda vinicola Marchesi de’ Frescobaldi. L’azienda, infatti, inizia a collaborare con l’istituto per produrre vino di alta qualità, coinvolgendo i detenuti in tutte le fasi della lavorazione. Nasce così il “Gorgona”, un vino bianco a base di Vermentino e Ansonica, commercializzato a circa 100 euro a bottiglia, e arrivato quest’anno alla tredicesima vendemmia. In una recente intervista a “Il Gusto”, Daniele, uno dei detenuti-vignaioli, ha raccontato: “Lavorare qui è gratificante, ti viene data una responsabilità. E questa responsabilità devi saperla rispettare e mantenere. È qualcosa che a livello umano ti dà grande conforto, in un ambiente come quello del carcere, dove vivere non è facile. Ma stare nella natura aiuta. Passare il tempo fra i filari è un’emozione grandissima, qui la giornata di lavoro è piena e il tempo scorre più velocemente. In questo periodo, che precede la vendemmia, lavoriamo molto. Ho iniziato nel giugno 2023: da allora ogni mattina ho un motivo per alzarmi. Una chance del genere non va sciupata”. Un progetto che commuove e rende orgoglioso lo stesso Lamberto Frescobaldi: “Un bicchiere di vino non è solo l’occasione per dire “mi piace” o “non mi piace”. Racchiude giornate di sofferenze, dolori, voglia di riscatto. Noi non pensiamo solo a produrre vino, noi siamo una ragione per svegliarsi la mattina. Qui in Gorgona abbiamo preso l’impegno di portare avanti il vigneto fino al 2050. E speriamo che il vino faccia bene perché vogliamo vivere a lungo nel rispetto dell’ambiente e delle persone. Il nostro mondo è bellissimo, non c’è mai nulla di codificato in una vendemmia”. Esempio virtuoso di partenariato pubblico-privato, replicato anche per l’olio, la panificazione e l’orticoltura, la collaborazione ha un fine rieducativo: i detenuti, infatti, vengono retribuiti regolarmente, ricevono una formazione certificata e acquisiscono competenze spendibili una volta liberi. Il senso di comunità - I tanti pregi del sistema penitenziario di Gorgona non rendono certo il posto, che resta pur sempre un carcere, un’oasi di pace. L’accesso limitato rende difficile l’arrivo di medici, avvocati, educatori, il turnover degli operatori è alto e la scarsità di personale incide sulla qualità dei percorsi. Alcuni detenuti spesso lamentano l’eccessivo isolamento e la difficoltà di mantenere rapporti con le famiglie. I trasferimenti sono complicati e le visite scarse. Tuttavia anche queste difficoltà si sono tramutate in un vero e proprio punto di forza per il penitenziario. I detenuti, infatti, negli anni hanno sviluppato un senso di comunità raro nelle carceri italiane. I detenuti, gli agenti penitenziari, i funzionari e i volontari condividono gli spazi, si conoscono per nome e collaborano mentre il direttore dell’istituto non è una figura lontana e distante ma parte stessa del progetto rieducativo. Un modello che funziona - Gorgona rappresenta un’anomalia positiva nel sistema carcerario italiano: le celle non sono sovraffollate, i detenuti sono impegnati in numerose attività agricole o artigianali, apprendono mestieri, guadagnano, mangiano il cibo che producono. I tassi di recidiva a Gorgona sono inferiori al 20% mentre le attività proposte sembrerebbe aver cambiato il carattere di molti detenuti. Molti di loro, infatti, hanno deciso di prendersi cura degli animali allevati sull’isola, che sarebbero altrimenti finiti al macello. Un altro carcere è possibile - Soprannominata “l’isola dei diritti” e definita da Papa Francesco come un esempio “di giustizia che non rinuncia alla speranza”, Gorgona ha attirato l’interesse di numerose delegazioni europee, ma anche di scrittori, registi e docenti. Pur essendo un sistema difficilmente replicabile in altre carceri, sia per la sua posizione geografica che per le peculiarità precedentemente elencate, il carcere di Gorgona può essere comunque fonte di ispirazione per far sì che le carceri trasformino la pena in una rinascita o seconda occasione che dir si voglia. Un modello che si rifà all’articolo 27 della Costituzione secondo cui “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Parole che, non a caso, riecheggiano in un murales presente sull’isola dell’Arcipelago Toscano e che rappresentano il vero e proprio manifesto nonché l’essenza del carcere di Gorgona: la pena può essere redenzione, non solo reclusione. Ragusa. Progetto Labirinti: l’incontro di detenuti e famiglie nel cortile della Casa circondariale siracusa2000.com, 8 agosto 2025 Sorrisi, giochi, colori e abbracci alla Casa Circondariale di Ragusa, dove, mercoledì si è svolto “Merenda col mio papà”, iniziativa promossa dalle associazioni i clown dottori di Ci Ridiamo Sù (referente Fabio Ferrito), Crisci Ranni (referente Cristian Modica) e Facciamo Scuola (referente Giulia Trecosta). Restituire ai detenuti e alle loro famiglie momenti di genitorialità autentica e gioiosa. Questo lo scopo che, per l’occasione, ha visto il cortile trasformato in festa: bibite, biscotti, colori, hula hoop, funi e foulard variopinti hanno fatto da cornice a un incontro carico di emozione. I bambini e gli adolescenti, protagonisti indiscussi dell’evento, hanno potuto condividere momenti di gioco libero e divertimento con i propri papà. Presenti per l’Uepe Giuseppina Genco, con gli assessori comunali alla Pubblica Istruzione ed ai Servizi Sociali, rispettivamente Catia Pasta ed Elvira Adamo, e Rosetta Noto, Capo Area Trattamentale. “Merenda col mio papà”, organizzata nell’ambito del Progetto Labirinti, coordinato a livello regionale da Officina SocialMeccanica di Catania e finanziato da Impresa Sociale Con i Bambini, coinvolge le Case Circondariali di Catania, Palermo, Ragusa e Sciacca. La Spezia. “Per Aspera ad Astra”: i detenuti-attori debuttano al Festival della Mente gazzettadellaspezia.com, 8 agosto 2025 Il progetto “Per Aspera ad Astra - Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza”, promosso da Acri, debutta quest’anno, per la prima volta, all’interno del programma bambini e ragazzi del Festival della Mente di Sarzana con “Favola di Cì (che è partito bambino e si è fermato vecchio)”, uno spettacolo per bambini dai 6 anni in su che andrà in scena venerdì 29, sabato 30 e domenica 31 agosto alla Fortezza Firmafede di Sarzana. Lo spettacolo è la produzione finale della settima annualità del progetto “Per Aspera ad Astra”, avviato nel 2018 e attualmente attivo in dodici carceri italiane, con percorsi di formazione professionale innovativa nei mestieri del teatro: attori, drammaturghi, scenografi, costumisti, truccatori, fonici, tecnici luci. L’iniziativa ha coinvolto oltre mille detenuti in più di 300 ore di formazione, dimostrando che la cultura può essere uno strumento potente di riscatto personale e reinserimento sociale. A rendere possibile questo progetto è una rete di soggetti uniti in una inedita comunità: Fondazioni di origine bancaria, compagnie teatrali, direzioni e personale carcerario, detenuti. SCARTI - Centro di Produzione Teatrale d’Innovazione, che dalla prima edizione guida la direzione artistica del progetto presso la Casa Circondariale della Spezia, ha scelto una strada innovativa: creare uno spettacolo per l’infanzia con detenuti-attori. Un esperimento che rompe gli schemi del teatro in carcere e apre a un dialogo tra mondi apparentemente lontani, uniti dal linguaggio universale del teatro e della fiaba. Nasce così la storia di Cì, il primo bambino del mondo, che dopo un errore fugge e vaga per cent’anni accompagnato da uno strano personaggio. Un viaggio surreale che parla di errori, crescita e nuovi inizi. Liberamente ispirato al mito di Caino, lo spettacolo coinvolge i giovani spettatori in una narrazione partecipata, dove il pubblico contribuisce a costruire il sogno del protagonista. Il debutto al Festival della Mente rappresenta un’importante occasione per valorizzare il progetto a livello nazionale e punta a essere il primo passo verso un inserimento nel circuito del teatro per l’infanzia e le nuove generazioni. “Per Aspera ad Astra” è un progetto promosso da Acri (Associazione delle Fondazioni di origine bancaria) e sostenuto da: Fondazione Cariplo, Fondazione Carispezia, Fondazione Cassa di Risparmio di Cuneo, Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia, Fondazione Cassa di Risparmio di Volterra, Fondazione Compagnia di San Paolo, Fondazione Con il Sud, Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna, Fondazione di Sardegna, Fondazione Tercas, Fondazione Caritro. Parlare di droga oltre la miopia del proibizionismo di Francesco Muser L’Espresso, 8 agosto 2025 Una raccolta dei suoi saggi ripercorre il pensiero di Grazia Zuffa su sostanze, dipendenze e repressione. Svelando il fallimento della visione penale/morale. Il volume “Stigma e pregiudizio. Uno sguardo dissacrante sulle droghe” raccoglie alcuni saggi significativi sulla politica delle droghe e dà una idea della ricchezza dello sguardo affilato di Grazia Zuffa, parlamentare, militante, studiosa. Emerge un’elaborazione originale, capace di rompere paradigmi banali e consolidati sul senso comune e impegnata a contestare il modello penale/morale, secondo cui il consumatore di sostanze vietate è ridotto alla categoria riduttiva di “deviante” e soprattutto preda del dominio incontrollato della “droga”, impossibilitato a determinarsi e pressoché incapace di intendere e volere; un chiaro rifiuto della sua vittimizzazione. Un altro terreno di scontro ancora attuale è quello del rifiuto della categoria strumentalmente usata della “dipendenza”. Infatti, è incredibilmente riemersa l’immagine del “tossicodipendente” da salvare, con tutti i mezzi, con le catene fisiche o metaforiche. L’ideologia salvifica è interpretata da Alfredo Mantovano, che propone per i detenuti, etichettati come malati da curare, il trasferimento in comunità chiuse, in cui i corpi siano costretti all’espiazione per il peccato compiuto per raggiungere quindi la perfezione dell’anima. Il modello proibizionista italiano, sempre più isolato, contesta anche la politica della riduzione del danno, intesa come un pilastro per una pratica tesa a rafforzare le soggettività, i saperi e le pratiche sociali non stigmatizzanti. Ovviamente avere sprovincializzato la dimensione del confronto culturale imponendo la dimensione del “consumo controllato” e rielaborando le tesi di Norman Zinberg, Peter Cohen, Tom De Corte e Jean-Paul Grund appare ai sanfedisti una bestemmia. D’altronde la persecuzione mediatica e penale della canapa, anche di quella light, rappresenta una furia iconoclasta contro una sostanza innocua, ma vista come l’origine del Male, della corruzione dei giovani e dell’ingresso in un tunnel di depravazione. “Il vecchio ritornello “spinello brucia cervello” è di nuovo servito come piatto di nouvelle cuisine”. Parole da ricordare per respingere le sirene dei miti della patologizzazione della tolleranza zero. L’interesse per la questione delle droghe iniziò negli anni della discussione al Senato della legge Iervolino-Vassalli, che fu approvata nel 1990. Zuffa fu protagonista della battaglia contro la legge Fini-Giovanardi iperproibizionista e iperpunitiva, senza distinzione tra le droghe cosiddette pesanti e leggere. Una deriva autoritaria e contro le regole del Parlamento che oggi viene ancor più enfatizzata. Il volume si chiude con un saggio sulla bocciatura del referendum Cannabis legale deciso dalla Corte costituzionale il 16 febbraio 2022 con motivazioni spiegate da Giuliano Amato, che accusò i promotori di un clamoroso errore nel quesito. Zuffa segnala con severità “tutti gli errori del Presidente”, giuridici e sulla interpretazione delle Convenzioni internazionali soprattutto dopo la sconfitta della “war on drugs” e la scelta della legalizzazione in molti Paesi. Denuncia la responsabilità di Amato nell’avere colpito i diritti dei cittadini e cambiato il corso della storia, con l’intransigenza della politica come passione. Legge sul fine vita: i Lincei tra scelte etiche e incertezze giuridiche di Gilberto Corbellini Il Dubbio, 8 agosto 2025 Il documento dell’Accademia, presentato come contributo tecnico per il legislatore, interviene su questioni sensibili. Il documento dell’Accademia dei Lincei sul fine vita è presentato come un contributo tecnico, indirizzato al legislatore al fine di dotare il Paese di una legge sicura ed efficace. Da un’accademia scientifica ci si aspetterebbe qualcosa di meno assertivo ed esoterico, stante la natura eticamente dibattuta del tema e leggibile da cittadini con una cultura media. Un documento scritto con l’intento dichiarato dovrebbe giustificare e dire quali risultati, positivi o negativi, si possono prevedere su basi fattuali e non speculative, seguendo una o l’altra strada, tra le opzioni possibili. Se si ragiona solo in modi risoluti, si fa del diritto paternalista, o politica. Si dovrebbe forse dire che fare una legge in materia è importante sulla base dell’epidemiologia medica del fine vita, dei dati empirici relativi al modo in cui avvengono le scelte individualmente e come sono governate nei Paesi senza leggi e in quelli dotati di leggi, considerare in che modo hanno funzionato i criteri che sono stati adottati da altri Paesi che hanno legalizzato l’aiuto a morire, eccetera. Il documento da un lato dice di non voler entrare in questioni teoriche e quindi prendere posizione su aspetti controversi, d’altro canto si esprime sulle implicazioni del personalismo costituzionale, sulle cure palliative, sulla natura della scelta da parte del paziente, sul ruolo del giudice, eccetera. I Lincei dicono che esiste il diritto di rifiutare un trattamento, ma “che questo non significa rinunciare alle cure palliative”. Cosa voglia dire non è chiaro, dato che le cure palliative sono trattamenti controllati. Le cure palliative sono forse pensate come un sistema per prevenire le richieste di aiuto a morire? Se si guarda al di sopra dell’ombelico italiano, si scopre che i Paesi che hanno i migliori sistemi di cure palliative sono quelli dove l’eutanasia è legalizzata: Olanda, Belgio e Canada - fonti, Global Atlas of Palliative Care 2020 e Oecd - Heath at a Glance 2023. In questi Paesi le cure palliative non sono brandite contro l’aiuto a morire, ma sono una scelta sullo stesso piano, per cui i pazienti posso prendere diverse direzioni se intendono concludere la loro esistenza, sapendo che le strade possibili sono percorsi efficienti, sicuri e collegati. Il documento si sofferma su come governare le procedure decisionali in modi medicalmente e giuridicamente validi. La questione è affrontata in astratto, sul piano della definizione delle condizioni cliniche ritenute dirimenti e dell’accertamento della volontà “autentica” di chi fa la richiesta. La freddezza del ragionamento contrasta con la variabilità e individualità irriducibili di ogni situazione: il fine vita di chi è avviato a morire per sclerosi multipla è diverso da quello di colui che sta morendo per carcinoma epatocellulare avanzato o di chi sta per entrare nella dolorosa terra incognita della demenza da Alzheimer, eccetera. L’aiuto a morire, in una società e con una medicina più complesse di quelle di un secolo fa, dovrebbe essere visto come parte integrante delle cure o dei trattamenti: se una malattia ha raggiunto gradi di sofferenze, fisiche e psicologiche, intollerabili (a prescindere se la morte sia imminente o non prevedibile nel tempo) e se il dovere del medico è di trattare la condizione clinica o lenire le sofferenze, in ultima istanza è un’opzione nel quadro delle possibili scelte cliniche, quando il paziente la identifica come soluzione preferita della propria condizione. Il documento dice che l’aiuto a morire fornito dall’esterno deve valere solo per coloro che non sono in grado (tecnicamente?) di farlo da soli? Perché mai? Coloro i quali sarebbero in grado tecnicamente di “suicidarsi” da soli sono forse figli di una Dio minore? Una persona in fase terminale dovrebbe poter scegliere l’opzione che preferisce in termini di aiuto a morire, tanto più che, come dicono i Lincei, non vi è differenza sul piano morale tra condotte che hanno come risultato il decesso. Lascia perplessi il fatto che se fosse seguita l’indicazione del documento, l’Italia sarebbe l’unico Paese, dove viene legalizzato il suicidio medicalmente assistito, che attribuisce al giudice un ruolo decisionale preventivo in ordine alla accettazione della richiesta di aiuto a morire. Non se ne comprende la ragione. Forse così la “condizione giuridica” per la decisione, sottrae l’aiuto morire al suo esclusivo significato medico? Anche se si dice che il giudice non dovrebbe mettersi contro il parere del medico, va de plano che si tratta di wishful thinking. In tutti i Paesi con leggi in materia, il giudice entra in gioco a valle, quando vi siano denunce di abusi, e, preventivamente, solo nei casi vi siano incertezze sulla volontà del richiedente. Avendo seguito da vicino il dibattito in Francia, spicca che qui, a parte l’Associazione Luca Coscioni, nessuno ascolta o si rivolge alle persone concrete. La discussione si svolge in forme astratte o paternalistiche o da resa dei conti - tipico dei politici italiani - ovvero lasciando prefigurare scenari desolanti e ancor più dolorosi di quelli attuali. Migranti. Gli errori del governo e di Sabino Cassese sulla sentenza della Corte Ue sui Paesi sicuri di Vitalba Azzollini* Il Domani, 8 agosto 2025 La nota diffusa da Palazzo Chigi dopo la sentenza della Corte di Giustizia Ue in tema di paesi sicuri e un’intervista del professore sollevano alcune perplessità. Può essere utile chiarirle. Tra i molti commenti sulla sentenza con cui la Corte di giustizia dell’Unione europea ha sancito che un paese può dirsi “sicuro” solo quando lo sia per ogni categoria di persone, quelli contenuti in una nota diffusa da Palazzo Chigi e in un’intervista rilasciata dal professor Sabino Cassese sollevano alcune perplessità. Può essere utile chiarirle. Il primato del diritto Ue - Secondo la Presidenza del Consiglio, “la giurisdizione, questa volta europea, rivendica spazi che non le competono, a fronte di responsabilità che sono politiche”, riducendo così i “margini di autonomia dei Governi e dei Parlamenti” nell’affrontare il fenomeno migratorio. Parallelamente, il professor Sabino Cassese interpreta il testo della normativa applicabile, cioè la direttiva Procedure, nel senso di escludere che i giudici possano intromettersi nelle scelte del legislatore. Queste affermazioni paiono non considerare il principio del primato del diritto dell’Ue, che porta a conclusioni opposte: ogni giudice nazionale deve verificare la conformità della normativa interna con quella dell’Unione, “disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione” in contrasto. In tema di protezione internazionale, la sicurezza di un Paese - presupposto della procedura accelerata di esame delle domande di asilo - deve basarsi sui criteri fissati dalla normativa europea, e il giudice è tenuto a valutare se essi siano rispettati da quella interna in tema di Paesi sicuri. Inoltre, l’ordinamento Ue sancisce il principio del diritto a un “ricorso effettivo”. Quando un richiedente si veda negare l’asilo a esito di una procedura accelerata, il suo ricorso deve poter riguardare anche il presupposto dell’applicazione di tale procedura, vale a dire la sicurezza del paese di provenienza. La procedura accelerata offre meno garanzie rispetto a quella ordinaria, e perciò ne vanno vagliate le condizioni a monte. Pertanto, dice la Corte Ue, i richiedenti protezione e i giudici devono poter, “rispettivamente, contestare e sindacare l’inserimento del paese di origine (…) nella lista di quelli sicuri”. Palazzo Chigi critica la Corte Ue anche perché, nell’individuazione dei paesi sicuri, fa “prevalere la decisione del giudice nazionale, fondata perfino su fonti private, rispetto agli esiti delle complesse istruttorie condotte dai ministeri interessati e valutate dal Parlamento sovrano”. In realtà, la sentenza dice qualcosa di diverso. Le fonti del giudice acquistano rilievo rispetto a quelle del governo quando quest’ultimo abbia omesso di verificarne alcune, reperite dal giudice, o se la situazione del paese si sia modificata dopo la sua designazione come sicuro. Inoltre, le fonti del giudice non sono insindacabili: esse vanno rese note alle parti, che possono vagliarle, e anche contestarle, nel corso del giudizio. Il professor Cassese lamenta pure che la Corte di giustizia, obbligando il governo a indicare le fonti di informazione usate per stabilire la sicurezza di un paese, chiederebbe di introdurre in Italia il principio costituzionale di motivazione delle leggi. Anche su questo punto servono alcuni chiarimenti. La trasparenza pretesa dalla Corte è il fondamento del diritto al ricorso effettivo sopra richiamato: solo conoscendo tutti gli elementi su cui si fonda la qualificazione di un paese come sicuro il migrante può decidere, “con piena cognizione di causa, se gli sia utile adire il giudice competente”, e quest’ultimo può esercitare “pienamente” un “controllo di legittimità della decisione nazionale”. Peraltro, il principio di trasparenza delle leggi non l’ha introdotto la Corte Ue, ma esiste in Italia da quando è stata prevista l’analisi di impatto della regolazione (2005), con il dovere per il governo di rendere note le valutazioni alla base delle normative che adotta. Il nuovo Regolamento Ue - Sia Meloni che Cassese osservano, al di là di quanto dispone la sentenza della Corte Ue del 1° agosto scorso, che dal 2026 entrerà in vigore un nuovo Regolamento europeo (2024/1348), in base a cui la designazione di paese sicuro potrà essere fatta anche con eccezioni per categorie di persone. Essi, tuttavia, omettono di dire che, secondo lo stesso Regolamento, un paese sarà qualificabile come sicuro solo se “sulla base della situazione giuridica, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che non ci sono persecuzioni (…) né alcun rischio di danno grave”. Dunque, i giudici potranno comunque sindacare l’inserimento di un paese nella lista di quelli sicuri in base a questi criteri. E non potrebbe essere diversamente. Un governo non può sottrarsi ai limiti di legge e ai relativi controlli giurisdizionali, se lo stato di diritto ha ancora un senso. *Giurista La Cpi va difesa perché nessuno è al di sopra del diritto, neanche a Gaza di Associazione italiana dei professori di diritto penale Il Domani, 8 agosto 2025 Se, a livello globale, non sarà posto un freno all’indebolimento dello stato di diritto e delle società democratiche, e alla correlata crisi del diritto internazionale, il rischio, come la vicenda di Gaza mostra in modo evidente, è di un balzo indietro nella storia e di un marcato arretramento della civiltà del diritto. L’Associazione italiana dei professori di diritto penale (Aipdp) unisce la propria voce a quelle delle associazioni scientifiche, delle istituzioni pubbliche e private e delle autorità, laiche e religiose, che stanno denunciando all’opinione pubblica la situazione in atto nella Striscia di Gaza, drammaticamente sempre più grave e intollerabile. Ci turbano profondamente, come docenti di diritto e come penalisti - formati ai principi costituzionali e agli irrinunciabili valori della vita, della dignità umana, della pace, del ripudio della guerra e di ogni forma di violenza arbitraria - le notizie e le immagini strazianti che, anche secondo numerosi rapporti di organizzazioni internazionali, testimoniano sistematiche violazioni dei diritti fondamentali di uomini, donne e bambini da parte del governo israeliano. Ferma l’esigenza di vedere accertati i fatti e le relative responsabilità da parte di organi imparziali a ciò deputati, costatiamo che le gravissime violazioni del diritto internazionale e umanitario riferite nei citati rapporti integrano crimini internazionali. Con le parole del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, “è disumano ridurre alla fame un’intera popolazione, dai bambini agli anziani” nonché, come denunciano numerose organizzazioni umanitarie, colpire operatori sanitari e civili indifesi, prendere di mira e uccidere bambini e persone in cerca di acqua o cibo, e distruggere ospedali e luoghi di culto. Come giuristi rileviamo che queste atrocità sono il segno tangibile di un sensibile indebolimento dello stato di diritto e di una preoccupante crisi di effettività del diritto internazionale e dei diritti umani che - come ha ricordato papa Leone XIV - deve invece essere inderogabilmente rispettato “come fondamento dell’ordine internazionale, anche nel corso dei conflitti armati”. Come penalisti denunciamo inoltre con seria e profonda preoccupazione - anche con riferimento a quanto avviene in contesti diversi da quello di Gaza, come quello russo-ucraino - la crisi di effettività che a livello globale investe il diritto penale internazionale, al cui sviluppo è legato non solo il nome di autorevoli Maestri delle discipline penalistiche, tra cui Giuliano Vassalli, Cherif Bassiouni e Giovanni Conso, ma anche quello del nostro Paese, nel quale fu firmato lo Statuto della Corte penale internazionale (Cpi). Eppure, proprio mentre a Gaza, nei territori palestinesi occupati in Cisgiordania e in altri contesti bellici, come in Ucraina, si consumano gravi crimini internazionali, la Cpi è oggetto di attacchi, campagne di delegittimazione e tentativi di ostacolarne l’azione investigativa. È la stessa Corte che ha emesso mandati d’arresto nei confronti del presidente russo Putin e del primo ministro israeliano Netanyahu per crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Ed è - non si dimentichi - la stessa Corte che ha emesso mandati d’arresto anche nei confronti di alcuni leader di Hamas. La giustizia penale internazionale, infatti, ha già riconosciuto l’efferata ed estrema gravità dell’attacco criminale compiuto nel sud di Israele da Hamas e altri gruppi armati palestinesi il 7 ottobre 2023, con l’uccisione di oltre mille israeliani, civili e militari, e la cattura di centinaia di ostaggi (fonte Unhrc, 10.05.2024). Siamo convinti che difendere la Cpi significa difendere il principio secondo cui nessun autore di crimini internazionali, da qualunque parte provenga e a qualunque parte appartenga, possa ritenersi al di sopra del diritto e dei diritti umani. Se, a livello globale, non sarà posto un freno all’indebolimento dello stato di diritto e delle società democratiche, e alla correlata crisi del diritto internazionale, il rischio, come la vicenda di Gaza mostra in modo evidente, è di un balzo indietro nella storia e di un marcato arretramento della civiltà del diritto. D’altra parte, in un contesto geopolitico, storico e culturale complesso, da decenni e ancor più oggi teatro di conflitti irrisolti, l’atroce violenza del 7 ottobre 2023, in una tragica e perversa spirale, ha chiamato altra atroce violenza, che, a sua volta, ha anche finito per rinfocolare esecrabili sentimenti di antisemitismo ai quali come studiosi delle scienze penalistiche guardiamo con grande preoccupazione, perché alla radice di alcune delle pagine più tragiche e ripugnanti della storia dell’umanità. Nondimeno, restiamo fermamente convinti che i conflitti non si risolvano mai con la violenza, ma con il dialogo e la riconciliazione, sotto lo scudo del diritto e dei suoi principi di civiltà, che devono essere difesi strenuamente e mai abbandonati a tutela dei diritti intangibili di qualsiasi essere umano. Tanto premesso, l’Aipdp, nel ripudiare con forza ogni forma di violenza arbitraria e di violazione del diritto penale internazionale e delle norme umanitarie: accoglie con favore la Dichiarazione congiunta dei ministri degli Affari Esteri di 25 paesi del 21 luglio 2025 su Gaza e i territori palestinesi occupati, firmata anche dall’Italia, con la quale: a) si invita il governo israeliano a revocare immediatamente le restrizioni al flusso degli aiuti e a consentire con urgenza alle Nazioni Unite e alle Ong umanitarie di svolgere pienamente la propria missione; b) si chiede a tutte le parti di proteggere i civili e di rispettare gli obblighi previsti dal diritto umanitario internazionale; c) si esorta la comunità internazionale a unirsi in uno sforzo comune per porre fine al conflitto, attraverso un cessate il fuoco immediato, incondizionato e permanente; auspica e sollecita l’impegno del governo e del parlamento italiano, nonché quello di tutti gli stati membri, a rafforzare i meccanismi esistenti di giustizia penale internazionale, difendendo l’indipendenza e il mandato della Corte penale internazionale; si impegna a promuovere attraverso i propri soci, nelle diverse sedi universitarie, in concomitanza con l’inizio del prossimo anno accademico, momenti di studio, approfondimento e confronto, aperti all’ascolto e alla comprensione delle ragioni contrapposte e alla valorizzazione del diritto e della giustizia penale internazionale, nonché della giustizia di transizione e della giustizia riparativa; comunica infine che, in occasione del proprio convegno nazionale in programma il 24/25 ottobre 2025 presso l’Università di Palermo, dedicato al più generale fenomeno della violenza sempre più diffusa nella società, un momento di riflessione della comunità scientifica dei penalisti sarà dedicato proprio alla violenza bellica e alla prevenzione e repressione dei crimini internazionali.