Edilizia carceraria, c’è il piano. Ma da solo, resta un palliativo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 agosto 2025 Il progetto del Dap senza politiche deflattive servirà a ben poco. Il viaggio fra le mura delle carceri italiane somiglia sempre più a un romanzo a puntate, in cui capitoli di sofferenza si alternano ad altrettanti momenti di attesa. Ma oggi i numeri non solo gridano più forte di qualsiasi parola: urlano un’emergenza che ha raggiunto livelli drammatici, ma che i lavori di edilizia programmati non potrebbero risolvere. Il documento programmatico del Programma Carceri 2025- 2027 da poco reso pubblico sul sito del ministero della Giustizia, ammette senza mezzi termini una realtà allarmante: “Nell’ultimo biennio, peraltro, l’indice di affollamento è aumentato a tassi maggiori rispetto al precedente, attestandosi, al 31 dicembre 2024, a circa il 120%”. La mappatura effettuata dal Dap rivela una carenza complessiva di circa 10.500 posti detentivi all’interno delle strutture penitenziarie nazionali - un dato che, per la prima volta, viene riconosciuto ufficialmente in tutta la sua gravità. Questa crescita esponenziale del sovraffollamento non è casuale: è la diretta conseguenza di una serie di misure securitarie adottate dal governo, che hanno aumentato il ricorso alla custodia cautelare e l’innalzamento delle pene, trasformando le carceri italiane in contenitori umani al limite del collasso. Il quadro si fa ancora più preoccupante se consideriamo che, per la prima volta, si pone anche il problema di costruire nuove carceri minorili, segno che l’emergenza ha ormai investito ogni fascia della popolazione detenuta. Contro questo scenario apocalittico, con 62.569 detenuti stipati in una rete di celle pensate per 51.300 persone - di cui 4.477 addirittura fuori uso proprio per i lavori di manutenzione - il Programma Carceri 2025- 2027 si propone, ed è stato presentato come il colpo di scena risolutivo: ma è davvero così? Nel tentativo di alleggerire subito la pressione delle celle, il Programma affida al Commissario straordinario il potere di avviare sette interventi di manutenzione straordinaria. Questi cantieri, finalizzati all’adeguamento alle norme del Dpr 230/ 2000 e al ripristino dei padiglioni chiusi da anni, promettono di restituire 808 posti detentivi con un finanziamento complessivo di 37,1 milioni di euro. A Santa Maria Capua Vetere, nel carcere di Carinola, il padiglione “Tevere” tornerà operativo dopo un investimento di 5 milioni di euro, recuperando 150 posti entro il quarto trimestre del 2026. A Rebibbia, nel Centro di prima accoglienza, la ristrutturazione della prima sezione detentiva aggiungerà 100 nuovi posti grazie a risorse pari a 3 milioni di euro, con consegna prevista nello stesso arco temporale. Nel carcere di Trani, l’adeguamento funzionale del padiglione “ex blu” offrirà 80 posti attraverso una gara già avviata, mentre a Nuoro gli interventi sulla prima sezione detentiva garantiranno 88 posti al costo di 5 milioni di euro, entrambi con termine lavori nel quarto trimestre 2026. A completare il profilo meridionale e centrale, il nuovo padiglione di Agrigento porterà 150 posti grazie a un impegno di 6,5 milioni di euro, mentre la ex Caserma Barbetti di Grosseto si trasformerà in un’ala detentiva per 204 persone, in un progetto valutato 11,6 milioni di euro e stimato in 22 mesi di lavori. Per rispettare questi obiettivi, ogni impresa incaricata lavorerà senza sosta su tre turni di otto ore, notti e festivi compresi, sulla base di accordi che derogano ai normali tempi delle procedure amministrative. La complessità delle gare d’appalto, le varianti progettuali e le verifiche tecniche, però, potrebbero rallentare la tabella di marcia, rendendo l’apertura “fulminea” più un auspicio che una certezza. Se davvero ogni cronoprogramma verrà rispettato, a fine 2026 la rete carceraria potrà contare su quasi ottocento nuovi posti; anche il minimo slittamento, però, rischia di protrarre ancora l’emergenza delle celle sovraffollate. Se questa prima fase somiglia a un rapido intervento di pronto soccorso, è nella Linea 2 - Ampliamenti che il Programma svela la sua vera scommessa: 1.944 posti ottenuti con la costruzione di 12 nuovi padiglioni e 9 strutture detentive modulari, per un totale di circa 232 milioni di euro. Le strutture prefabbricate, spesso descritte come la “chiave della rapidità”, sono veri e propri container abitativi progettati in fabbrica e assemblati sul posto, per contenere al massimo 24 detenuti a modulo. Il cronoprogramma è serratissimo: appena 10 mesi dal via, con termine lavori previsto nel quarto trimestre 2025. L’uso di prefabbricati punta a rapidità e costi contenuti, ma lascia sul campo diverse ombre. La modularità esasperata riduce l’intervento a una soluzione che, in realtà, è nata per essere provvisoria. Ma soprattutto, anziché risolvere il sovraffollamento, rischia di spostare il problema: i moduli, infatti, mancano di spazi comuni dignitosi, locali trattamentali e aree di socialità, elementi essenziali per qualsiasi progetto di reinserimento. Già il numero dei siti scelti racconta un’Italia carceraria spaccata: da Voghera e Opera in Lombardia, con 48 posti ciascuno, a Biella con 24 posti, fino ad Alba e Agrigento con 48 posti ciascuno, per arrivare a istituti minori dove un unico modulo potrà cambiare la vita di una trentina di persone. In cinque istituti sorgeranno quindi “cittadelle mobili” in grado di accogliere fino a 48 nuovi innesti, ma rimane, come già detto, un punto cruciale: sono strutture pensate come temporanee. In teoria, i prefabbricati avrebbero dovuto livellare le esigenze di ogni regione: montaggio rapido, costi contenuti, nessun bisogno di nuovi terreni. E se i container portano fretta, i nuovi padiglioni tradizionali - ognuno capace di ospitare 120 detenuti e dotato di spazi per servizi accessori e aree di socialità - viaggeranno su un crinale più lento: appaltati in tranche da 15- 20 milioni di euro, con termine lavori fissato tra fine 2026 e 2027. L’analisi dei tempi conferma gli arzigogoli burocratici. Gare e varianti possono aggiungere fino a sei mesi al cronoprogramma, mentre ogni intervento è vincolato a verifiche tecniche, collaudi statici e autorizzazioni paesaggistiche. Il coinvolgimento di tre turni continui di lavoro - festivi e notturni - spinge gli appaltatori, ma non assicura che fondazioni sbagliate o intoppi logistici non rallentino tutto. A completare il quadro, la Linea 4 punta sull’innovazione: una piattaforma digitale nazionale che censisca ogni metro quadrato del patrimonio penitenziario e organizzi manutenzioni ordinarie e straordinarie in base a priorità oggettive. Ma è un investimento che pagherà dividendi solo nel lungo termine, quando i numeri saranno finalmente incrociati con la programmazione puntuale degli interventi. Non basta un’iniezione di miliardi né cantieri superveloci per sanare l’emergenza. Se davvero si vuole voltare pagina, accanto ai pannelli prefabbricati e alle celle nuove di zecca serve una strategia più ampia che includa politiche deflattive, meno inasprimento delle pene e misure alternative alla detenzione per alleviare la pressione fin da subito, oltre al supporto psicologico e alla formazione all’interno degli istituti, perché la dignità non si misura in metri quadrati. Solo così potremo sperare che, una volta terminati i lavori, i corridoi delle carceri non raccontino più soltanto storie di gente ammassata, ma diventino luoghi in cui si coltiva il cambiamento. Perché se i moduli prefabbricati sono una corsia preferenziale, la vera via d’uscita resta il riconoscimento della persona, oltre il muro di cinta. In carcere solo se c’è posto. Soluzione “radicale” al sovraffollamento di Gioele Urso lospiffero.com, 7 agosto 2025 Niente carcere se non c’è posto. Un po’ come succede nelle scuole, in albergo o al cinema. Se si è raggiunto il limite di capienza si sta fuori. A proporre di introdurre il numero chiuso nelle carceri italiane è Europa Radicale che, da una parte, rispolvera la proposta “pannelliana” dell’amnistia e, dall’altra, chiede al Governo di approvare la proposta di legge depositata in Parlamento da Riccardo Magi, di +Europa: ispirandosi al modello britannico, introduce il principio che se il limite di capienza è stato raggiunto, chi dovrebbe entrare rimane fuori. Situazione esplosiva - Quella delle carceri italiane è una situazione esplosiva. I numeri dicono che all’interno degli istituti penitenziari del Paese ci sono 62.000 detenuti, ma di questi circa 12.000 sono in esubero perché la capienza massima è di poco più di 50.000 posti. Sovraffollamento cronico che coinvolge anche il carcere Lorusso e Cutugno: “A Torino ci sono circa 1.456 detenuti a fronte di 1.117 posti di capienza”, racconta Igor Boni di Europa Radicale, “Il record negativo italiano è di Milano e Foggia che segnano un più 200% di sovraffollamento. Però a Torino, come denunciano anche gli agenti di polizia penitenziaria, la situazione è esplosiva. In un solo anno ci sono stati 22 episodi di violenza nei confronti degli agenti, con 31 agenti feriti. Questo, insieme ai 50 suicidi di tutta Italia, è la punta di un iceberg sul quale bisogna fare attenzione”. Carceri a numero chiuso - Sovraffollamento che come conseguenza sfocia in esasperazione e violenza. Così nasce la proposta di introdurre il numero chiuso nelle carceri italiane: “Significa che se un carcere ha 100 posti non si può fare entrare il detenuto numero 101. Prima devo fare uscire qualcuno e lo posso fare con gli arresti domiciliari, con la liberazione anticipata, con programmi di lavoro, con la comunità. Questo accade in Gran Bretagna”. La proposta è stata presentata, oltre che da Boni, da Silvja Manzi di Europa Radicale e Samuele Moccia della Associazione radicale Adelaide Aglietta. Amnistia e indulto - Poi c’è l’altro cavallo di battaglia dei radicali italiani, ovvero la proposta dell’amnistia avanzata già da Marco Pannella: “Amnistia e indulto ridurrebbero da un giorno all’altro il sovraffollamento riportando nella legalità la situazione italiana, perché l’Italia è fuori legge rispetto alla situazione carceraria. Sappiamo benissimo che è un provvedimento molto difficile da ottenere da questo Parlamento, ma ce ne sono altri ottenibili”, spiega Boni. Le altre vie percorribili sono la liberazione anticipata che è già contenuta nella proposta di legge Giachetti-Bernardini che è depositata in Parlamento da molto tempo e della quale lo stesso presidente del Senato, Ignazio La Russa, ha preso atto. E poi, appunto, il numero chiuso: “Questa proposta è diventata un disegno di legge che Riccardo Magi ha già presentato in Parlamento. Chiediamo che venga discussa e che la maggioranza, che utilizza le carceri spesso per conquistare voti dicendo cose come “buttiamo le chiavi” e “lasciamoli marcire in galera”, di fronte al disastro e al collasso del sistema carcerario la attui”. “Digiuno per le carceri” - Intanto un’altra azione di protesta e sensibilizzazione per denunciare le condizioni dei detenuti è stata lanciata dall’avvocato torinese Roberto Capra, presidente della Camera penale del Piemonte occidentale ‘Vittorio Chiusano’, che ha annunciato la decisione di digiunare per le carceri. “Digiuno per 50 persone dimenticate e perché non voglio rassegnarmi a vedere ancora diritti violati e dignità calpestate nelle nostre carceri”, ha scritto sui social. Le persone a cui fa riferimento il penalista sono i detenuti che dall’inizio dell’anno si sono tolti la vita. La campagna è stata organizzata dall’avvocato Valentina Alberta e dal magistrato Stefano Celli, che hanno invitato i colleghi a un digiuno a staffetta: chi aderisce rinuncia per un giorno ai cibi solidi. Uno degli obiettivi e sollecitare il Parlamento a prendere in esame, appunto, la proposta di legge Giachetti sulla liberazione anticipata. Due suicidi, una sola Giustizia smarrita di Patrizio Gabetti laprimalinea.it, 7 agosto 2025 Il 3 e 4 agosto scorsi, in Valle d’Aosta e in Puglia, a poche ore di distanza si sono tolte la vita due persone molto diverse ma unite da un destino tragicamente speculare: Sandra Manfré, vicequestore della Polizia di Stato, e un detenuto del carcere di Brissogne. Entrambi vivevano dentro il sistema della Giustizia, ma lo facevano da versanti opposti: chi ne indossava l’uniforme, chi ne subiva le sbarre. Eppure, tutti e due sembrano esserci precipitati dentro, fino a rimanerne schiacciati. Non è facile, né corretto, azzardare analogie troppo semplici. La morte è un fatto personale, intimo, indicibile. Ma questa sincronia - due suicidi nello stesso giorno, nello stesso universo istituzionale - impone almeno una domanda collettiva: quale giustizia abbiamo costruito, se chi la serve e chi la subisce possono arrivare allo stesso identico gesto estremo? Sandra Manfré era una servitrice dello Stato, apprezzata e rispettata. Era una donna, però, quindi per lei tutto è stato necessariamente più difficile: la carriera, il riconoscimento professionale, il peso delle responsabilità. Dietro la divisa, probabilmente, si agitavano anche dolori, stanchezze, disillusioni che nessuno ha saputo cogliere o lenire. Di contro, un detenuto finito in cella per spaccio di stupefacenti: uno che ha sbagliato, certo, ma che forse non ha trovato, nel carcere, né redenzione né senso. Forse solo abbandono. La giustizia non è una parola neutra. È una promessa, o dovrebbe esserlo. Una promessa di equità per chi sbaglia, ma anche di riconoscimento per chi ogni giorno affronta il male e tenta di contenerlo. Quando entrambe le categorie - i colpevoli e i garanti della legge - cedono nello stesso giorno alla disperazione, è evidente che qualcosa non funziona. Né dentro le celle, né dietro le scrivanie. Il suicidio è sempre una sconfitta. Ma quando riguarda chi sta ‘dentro’ le istituzioni, la sconfitta è anche pubblica. E interroga tutti noi. Le Forze dell’ordine, lasciate spesso sole, consumate da turni impossibili, pressioni enormi, solitudini che nessun addestramento può annullare, delusioni al termine di una lunga indagine che può essere ‘rigettata’ da un gip disattento. E i detenuti, che il carcere dovrebbe rieducare, ma che invece - spesso - si limita a custodire in un tempo vuoto, che logora senza prospettiva. Due morti che sembrano lontane, ma che parlano lo stesso linguaggio muto della solitudine e della rassegnazione. Forse la giustizia, per davvero, dovrebbe cominciare proprio qui: dal non lasciare soli né i tutori dell’ordine né i condannati. Perché se entrambi arrivano a togliersi la vita, qualcosa di fondamentale ci è sfuggito. Dalla cella al Papa, il Giubileo a piedi di tre detenuti di Venezia di Maurizio Crippa Il Foglio, 7 agosto 2025 Centoventi chilometri, un’indubbia esperienza di libertà e anche di grande valore simbolico e spirituale, “come segno di un reale percorso di cambiamento”, per usare le parole di don Massimo. Non un’uscita premio, per quanto sorvegliata e accompagnata, ma un vero cammino spirituale, interiore, condiviso, durante il quale queste tre persone stanno raccogliendo pensieri, riflessioni, persino preghiere. Le annotano su un’agenda bianca. L’obiettivo è consegnarla oggi di persona a Papa Leone. Saprà farne tesoro, lui che fra i primi ricordi di Papa Francesco ha voluto proprio citare tutte le volte che ha varcato i cancelli di una prigione. L’iniziativa inedita, fortemente voluta dai responsabili del carcere veneziano e sostenuta dal patriarca Francesco Moraglia, porta con sé anche un significato civile più ampio: serve a ricordare la finalità di reinserimento sociale, e non solo punitiva, che la Costituzione assegna alla pena detentiva. Ma l’aspetto spirituale, personale, è l’obiettivo che don Massimo sottolinea: “Dare fiducia a chi ha sbagliato significa anche creare le condizioni per un ritorno alla società come cittadini consapevoli”. Il cambiamento personale possibile. La memoria di Francesco, ovviamente: “Ci è piaciuto far vivere loro l’esperienza del cammino legata al Giubileo, idea che si è rafforzata dopo la morte di Papa Francesco. Andremo a rendere omaggio alla sua tomba, soprattutto a quanto lui si è speso per la popolazione delle carceri”. È chiara la “speranza che il carcere venga ripensato come struttura e proposta e se possibile arrivare a vivere senza il carcere, cioè pensando a un sistema alternativo”. Negli ultimi giorni è entrata nel linguaggio politico-giornalistico una nuova espressione: il “metodo Giubileo” applicato anche all’emergenza sempre più drammatica delle condizioni carcerarie. È stato il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, a usarla per primo. Se il “modello Giubileo” - la collaborazione bipartisan tra governo di destra e sindaco di Roma di sinistra per la riuscita del grande evento (ma non dovrebbe essere semplicemente normale?) - ha funzionato per la gestione della città nell’anno santo, perché non provare la stessa collaborazione, oltre gli schieramenti, anche per questa emergenza che da tempo ha oltrepassato i limiti dell’inciviltà? Applausi più o meno convinti dalla politica, tra i primi Pier Ferdinando Casini, ma che l’offerta di collaborazione su questo tema venga dal governo più panpenalista e carcerario della storia repubblicana è un indiscutibile segno. In più, la novità politica è che la spinta è venuta direttamente dal presidente del Senato, Ignazio La Russa, che di fronte al collasso degli istituti di pena ha proposto, più che un “modello Giubileo”, un “modello Covid” emergenziale contro il sovraffollamento: “Le condizioni civili devono essere previste per chiunque, soprattutto per chi è in carcere, per chi è nelle mani dello stato: se lo stato ha il dovere di punire chi sbaglia, ha il dovere di assicurare condizioni civili per chi è detenuto”. E il suo nuovo impegno su questo fronte può segnare una svolta, anche se La Russa ha detto, sornione: “Nonostante la mia modestissima moral suasion e l’impegno molto più importante dell’onorevole Rita Bernardini e di altri parlamentari, l’emergenza carceri non è stata affrontata con la dovuta celerità. Ma il tema ha cominciato a prendere piede anche tra i parlamentari con un’indole più securitaria”, una nuova attenzione cui non è estraneo, ha ricordato La Russa, l’impegno di “un mio amico”, che “in questo periodo è ristretto nelle carceri romane”. Non è certo un miracolo del Giubileo, è soltanto un sussulto di buon senso della politica. Ma dal cammino dei tre detenuti di Venezia che si concluderà domani viene chiaro anche il messaggio di un altro “modello Giubileo” possibile: quello che parte dalle persone e dal recupero della loro speranza. Addio Vladimiro Zagrebelsky, l’omaggio della giustizia all’uomo dei diritti di Francesca Spasiano Il Dubbio, 7 agosto 2025 Vladimiro Zagrebelsky era l’uomo del diritto e dei diritti, come gli riconosce chiunque abbia versato una goccia nel fiume di commozione seguito alla sua scomparsa. Il suo sguardo era un po’ più ampio, un po’ meno incrostato, tale da aprire una finestra della nostra cultura giuridica verso l’Europa e il mondo. Magistrato, giurista, docente, giudice della Corte europea dei diritti dell’uomo dal 2001 al 2010, ha allargato il suo pensiero per riempire anche il nostro. Fino all’ultimo, quando ieri se ne è andato all’età di 85 anni nella sua casa di villeggiatura a Gressoney-La-Trinité, in Valle d’Aosta. La Regione che aveva preso a frequentare da anni è stata la prima a ricordarlo, esprimendo il cordoglio di un’intera comunità che ne aveva conosciuto lo spessore e il rigore anche attraverso i suoi corsi universitari. Ma è a Torino che bisogna guardare per la sua formazione culturale e giuridica, con la laurea in giurisprudenza nel 1963 a cui seguì l’ingresso in magistratura due anni dopo, come giudice e pubblico ministero. Nato nel capoluogo piemontese il 25 marzo 1940, era il fratello maggiore di Gustavo, presidente emerito della Corte costituzionale. Entrambi sono cresciuti in una famiglia di origini russe, approdata in Italia nei primi decenni del Novecento, ed entrambi hanno trovato nella Carta la bussola del proprio pensiero. Dalle aule giudiziarie, Vladimiro passò alle stanze dell’autogoverno della magistratura, eletto due volte al Csm. Fu quindi chiamato a dirigere l’Ufficio Legislativo del Ministero della Giustizia e la Direzione generale dell’organizzazione giudiziaria, contribuendo all’attuazione della riforma del codice di procedura penale. La svolta internazionale arrivò nel 2001, quando fu eletto dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa come giudice della Cedu. Rimase alla Corte di Strasburgo per nove anni, e di quell’esperienza resta traccia anche in uno dei suoi ultimi interventi, nel corso dell’audizione in commissione Affari Costituzionali del Senato sul testo relativo al fine vita. Neanche in quell’occasione gli è sfuggita l’essenza dei principi fondamentali posti a tutela dell’individuo, come il diritto all’autodeterminazione. Lo ricorda anche la politica, con le parole della responsabile Giustizia del Pd Debora Serracchiani, che sottolinea il contributo del giurista al dibattito pubblico e alla cultura dei diritti. E quelle del viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto, per il quale - aldilà delle idee - “perdiamo una mente alata, che ha prestato il suo ingegno all’interpretazione delle regole”. Ma è dal mondo della giustizia che si leva l’omaggio più commosso, con il dolore espresso dalla magistratura e dall’avvocatura. Alla famiglia Zagrebelsky sono giunte le condoglianze del Presidente della Corte costituzionale, Giovanni Amoroso, dell’Anm e del Consiglio nazionale forense. Il cui presidente Francesco Greco lo ricorda come “giurista di straordinaria cultura e personalità autorevole nel panorama nazionale ed europeo” che “ha dedicato la sua vita alla tutela dei diritti fondamentali e alla difesa dei principi dello Stato di diritto, divenendo un punto di riferimento nella giurisdizione e nella cultura giuridica italiana”. Una toga “fuori dal comune”, sottolinea il presidente dell’Anm Cesare Parodi, che dedica a Zagrebelsky un ricordo personale. “È stato un grandissimo magistrato, straordinario. Il mio primo capo, con lui ho iniziato a fare il mio lavoro. Una persona di una cultura, di un’intelligenza e di una capacità di prevedere il futuro straordinarie - è l’omaggio di Parodi -. C’è una cosa che verrà ricordata di lui, è stato il primo in Italia a capire che non tutte le notizie di reato potevano essere trattate, e fece le prime linee programmatiche, le prime scelte nella Procura. Quello che adesso tutti fanno. Era un uomo che viveva in un’ottica di efficienza, di legalità e di trasparenza”. Zagrebelsky, il giurista raffinato che si batteva per i diritti di tutti di Cesare Martinetti La Stampa, 7 agosto 2025 L’ex giudice torinese della Corte di Strasburgo dei diritti dell’uomo è morto ieri a 85 anni. Era un positivista convinto della concretezza della legge e si è battuto per una legge sul fine vita. Come un grande attore, Vladimiro Zagrebelsky è uscito di scena recitando. Ieri su La Stampa, c’era il suo ultimo editoriale, consegnato al giornale poche ore prima di avvertire un vago malessere nella passeggiata serale, a Gressoney-La-Trinité, il suo luogo del cuore da tanti anni. Ha chiesto alla figlia di preparargli una boule di acqua calda, ma dopo pochi minuti Irene lo ha trovato sul letto, senza più vita. Se n’è andato così a 85 anni un uomo che ha dato la sua esistenza al diritto. Con quel filo di humour che segnava i loro rapporti, il fratello Gustavo, di tre anni più giovane, diceva spesso che “il giurista di famiglia era Vladimiro”. Nella collaborazione con La Stampa si erano dati il cambio, come due staffettisti. Aveva cominciato Vladimiro, negli anni Ottanta. Ma nel 1991, quando era stato nominato capo della Procura presso la pretura di Torino, aveva interrotto per evitare conflitti di ruolo con le cause Fiat, editore del quotidiano. Il direttore Paolo Mieli aveva così proposto di succedergli al fratello Gustavo, allora ordinario di diritto Costituzionale a Torino. Quando poi quest’ultimo è stato eletto alla Consulta (su nomina del presidente Scalfaro), Vladimiro ha ripreso dopo un po’ il suo posto sulle colonne del giornale. L’ultimo articolo, pubblicato ieri nelle ore stesse della sua scomparsa, è come un sigillo simbolico. L’attività editoriale, per Vladimiro Zagrebelsky, era il suo modo di trasmettere quella certa idea del diritto che ne ha segnato la vita: non un diritto astratto, ma concreto che si doveva coniugare nella vita di tutti in giorni. Un diritto vitale e sensibile che doveva rispondere alla domanda più forte che emerge oggi dalla società: la difesa dei diritti. Anche per questo Gustavo definiva il fratello “un positivista”, per il quale “le cose esistono nella misura in cui si possono pesare, toccare, misurare”. L’ultimo articolo uscito su La Stampa di ieri in tema di clima e ambiente è l’illustrazione di questo metodo. Ed è al tempo stesso una risposta alla diffusa insofferenza di chi accusa i giudici di uscire dalle loro competenze per invadere il campo dei politici: “Il giudice non interviene di sua iniziativa, ma risponde a una domanda, cui è obbligato a dar risposta. La vicenda dei diritti legati all’ambiente è emblematica di come essi prima si manifestino nell’evoluzione della sensibilità sociale e politica e poi prendano corpo e vigore sul piano del diritto”. Nell’articolo c’era un richiamo ai politici che spesso in occasione di grandi Convenzioni internazionali o nell’approvare leggi di tipo generale, proclamano soluzioni che vengono poi del tutto dimenticate sul piano pratico. In questi casi, le denunce dei cittadini che si rivolgono ai giudici per chiedere che quegli impegni vengano rispettati è del tutto legittima. E i giudici hanno il dovere di rispondere. Vladimiro Zagrebelsky era nato a Torino nell’aprile del 1940, ma la famiglia si era presto trasferita a San Germano Chisone, sfollata durante la guerra. Era il paese d’origine della mamma, Elisa detta Lisin, di famiglia valdese. Là è nato Gustavo, nel 1943. Il padre era russo, di Sanpietroburgo. Nel 1914 era venuto con la famiglia a Nizza, dove erano rimasti anche dopo la Rivoluzione d’Ottobre. Papà Zagrebelsky e mamma Lisin si sono conosciuti al mare, a Sanremo, dove lei veniva in villeggiatura estiva. La nuova famiglia si era stabilita a Torino, il padre si è laureato in legge e così hanno fatto Vladimiro e Gustavo, non il fratello più anziano, Pierpaolo. I ragazzi sono cresciuti a Torino, dove hanno frequentato scuole e università. Nel 1965 Vladimiro è entrato in magistratura, dove ha ricoperto vari incarichi, giudice di tribunale e inquirente, sempre a Torino. Per due volte è stato eletto nel Consiglio Superiore della Magistratura, dal 1981 al 1985. Membro della sezione disciplinare, fu incaricato di redigere le sentenze sui giudici iscritti alla P2. È poi tornato a palazzo dei Marescialli tra il 1994 e il 1998. In mezzo a questi due periodi è stato capo dell’ufficio legislativo del ministero della Giustizia retto da Giovanni Maria Flick e successivamente capo della Procura presso la Pretura di Torino. Nel 2001 è stato eletto giudice della Corte Europea dei diritti dell’uomo dall’assemblea del Consiglio d’Europa. È rimasto a Strasburgo fino al 2010. È stata l’esperienza che ha indirizzato l’ultima parte della sua attività pubblica, non più come magistrato ma come docente e responsabile del Laboratorio sui Diritti Fondamentali del Collegio Carlo Alberto di Torino. Un ruolo che ha occupato con un grande investimento di passione, trasferendoci l’esperienza della Corte Europea. C’era sempre da imparare a discorrere con Vladimiro Zagrebelsky. Nel suo tratto umano la squisita cortesia non era mai semplicità, in ogni conversazione emergeva l’attenzione e perfino il rigore della riflessione, sempre stemperato dall’ironia. Sentiva come un dovere non solo scrivere per il giornale ma anche leggerlo. Per questo aveva l’abitudine di redigere ogni giorno un riassuntino degli articoli più significativi. Nelle conversazioni con gli amici ricordava spesso gli ultimi anni dei suoi genitori, nella casa di riposo di Luserna San Giovanni, dove si vedevano vecchietti non più in grado di badare a se stessi. “Non lasciatemi arrivare a quello stadio”, era il suo commento. L’impegno sulla questione del fine vita è stato un altro diritto sul quale Vladimiro Zagrebelsky ha profuso energie morali e sapienza giuridica. In un editoriale del gennaio 2024, sottolineava la distanza tra le attese della società e le decisioni politiche: “La paralisi derivante dall’inerzia del Parlamento e superata (in parte) dall’intervento di una Corte costituzionale che è istituita semplicemente per giudicare della legittimità delle leggi, mostra ora limiti e distorsioni dell’impianto fondamentale della Costituzione”. E la conclusione era severa: “All’origine di tutto, un Parlamento che rifiuta di adempiere al suo dovere”. La sua morte, brutale ma dignitosa, ha certamente corrisposto a un suo desiderio. Meloni: c’è un disegno politico della magistratura sui migranti di Barbara Fiammeri Il Sole 24 Ore, 7 agosto 2025 Giorgia Meloni ne è convinta: per la premier ci sarebbe un vero e proprio “disegno politico intorno ad alcune decisioni della magistratura” e in particolare “quelle che riguardano l’immigrazione”, come se “si volesse frenare la nostra opera di contrasto all’immigrazione illegale”. Un posizionamento - quello dei giudici - che sempre secondo la presidente del Consiglio sarebbe conseguenza delle scelte del Governo. “Ovviamente a me non sfugge che la riforma della giustizia procede a passi spediti e ho messo in conto eventuali conseguenze”. Parole pesanti quelle pronunciate da Meloni ieri sera al Tg5 da dove è tornata ad attaccare i giudici anche sul caso Almasri: “Ho detto quello che penso: considero surreale la richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti dei ministri Nordio, Piantedosi e del sottosegretario Mantovano che hanno agito nel rispetto della legge per tutelare la sicurezza degli italiani”. Ma, come aveva già detto nel suo post di lunedì, Meloni ha aggiunto che è “ancora più surreale” che invece nei suoi confronti il Tribunale dei ministri abbia chiesto “l’archiviazione”. “I miei ministri non governano a mia insaputa, perché io non sono Alice nel paese delle meraviglie, sono il capo del governo e non sono neanche, diciamocelo, un Conte qualsiasi che faceva finta di non sapere che cosa facesse il suo ministro degli Interni”, ha aggiunto con riferimento alla posizione assunta dall’ex premier e leader M5s nei confronti di Salvini. La reazione di Conte è stata immediata. “Non sono certo una Meloni qualsiasi. E grazie a Dio, non avrei mai rimpatriato una persona accusata di aver stuprato bambini e di crimini contro l’umanità”. Prudente invece continua ad essere Meloni sul fronte economico. Sui dazi ricorda anzitutto che “la competenza è della Commissione europea” e assicura che in ogni caso il governo “continuerà ad aiutare le nostre imprese e i nostri produttori”. Certo “il contesto internazionale è complesso” e pesa sulle prospettive di crescita ma - sostiene - “l’Italia ha le carte in regola per affrontare questa stagione”. La presidente del Consiglio rivendica la “stabilità” dell’esecutivo e anche “fondamentali dell’Italia migliori di quelli di altri grandi Paesi europei”. Significa secondo Meloni che “la strategia adottata è corretta”. Nessuna anticipazione sulla prossima legge di Bilancio. La premier, che nel pomeriggio ha salutato con un biglietto i “chigisti” (i giornalisti che seguono la presidente del Consiglio) augurandogli di riposare perché poi si dovrà correre, si prepara alle sfide dell’autunno. Tra queste c’è ovviamente la manovra che si sovrappone alla campagna elettorale per le Regionali. Meloni si dice certa che il centrodestra “troverà la quadra” sulle candidature. Nel frattempo mette in vetrina il via libera definitivo al progetto per il Ponte sullo Stretto e a Roma Capitale: “Se ne è discusso per decenni, gli altri parlavano noi facciamo”. Meloni: “Riformiamo la giustizia, mi aspettavo conseguenze” di Andrea Bulleri Il Messaggero, 7 agosto 2025 La premier al Tg5: “Una situazione assurda, i ministri non governano a mia insaputa”. Sull’immigrazione i sospetti di un “disegno politico” delle toghe. Sguardo dritto in camera, poi l’affondo: “Su alcune decisioni della magistratura vedo un disegno politico”. Specie “su quelle che riguardano l’immigrazione”. Giorgia Meloni parla nel day after della pubblicazione delle carte del Tribunale dei ministri sul caso Almasri. Lo fa per difendere l’operato del governo: i ministri Nordio e Pianteodosi e il sottosegretario Mantovano, per i quali il tribunale chiede il processo, “hanno agito nel rispetto della legge per difendere la sicurezza degli italiani”, rivendica la premier nell’intervista all’edizione serale del Tg5. Poi, la nuova stoccata ai giudici: “Non mi sfugge che la riforma della giustizia procede a passi spediti”. E “diciamo così, ho messo in conto eventuali conseguenze”. Il contrattacco arriva alla fine di un’altra giornata ad alta tensione sulla vicenda del generale libico accusato dalla Corte penale internazionale di crimini contro l’umanità, arrestato a Torino e poi rispedito in Libia. Con il procuratore di Roma, Francesco Lo Voi, che risponde a tono alle accuse di aver trasmesso in ritardo gli atti del Tribunale dei ministri alle Camere (“Se 24 ore vi sembrano troppe…”) e le opposizioni che martellano la presidente del Consiglio. “Il governo ha raccontato un’incredibile caterva di fregnacce”, riparte lancia in resta Matteo Renzi, mentre per Giuseppe Conte e Avs la premier sarebbe “sotto ricatto” delle milizie libiche. E Calenda: “Potevano mettere il segreto di Stato e chiuderla lì”. Così Meloni, l’unica tra gli esponenti del governo indagati per cui i giudici hanno chiesto l’archiviazione, prende il toro per le corna. Intravede un “disegno politico”, la premier: “Come se in qualche maniera si volesse frenare la nostra opera di contrasto all’immigrazione illegale”. Ciononostante, rivendica, “i flussi illegali sono diminuiti del 60%”. Mentre sulla vicenda del generale libico “ho già detto quello che penso”: è “surreale” la richiesta di autorizzazione a procedere per Nordio, Pianteodosi e Mantovano. E “ancora più surreale che invece per me si chieda l’archiviazione: i miei ministri - scandisce - non governano a mia insaputa, non sono Alice nel Paese delle meraviglie. E non sono neanche un Conte qualsiasi”, che sul caso Open Arms in cui finì a processo l’allora capo del Viminale Salvini “fingeva di non sapere cosa facesse il suo ministro dell’Interno”. Frasi che inevitabilmente tornano a gettare benzina sul fuoco. “Inaccettabili i continui attacchi ai magistrati”, tuona la dem Vincenza Rando. E Nicola Fratoianni di SI: “A Palazzo Chigi sono molto nervosi”. Il dossier del generale libico, in ogni caso, non è l’unico argomento caldo affrontato dalla premier (che prima dell’intervista, ha salutato i cronisti che la seguono con un bigliettino nella sala stampa di Chigi: “Cercate di riposare che alla ripresa si corre!”). A tenere banco c’è pure il nodo dei dazi di Trump. Meloni assicura che “Italia farà del suo meglio per tutelare i propri interessi nazionali”, ad esempio “continuando ad aiutare le nostre imprese e i nostri produttori”. Come si è già cominciato a fare “mettendo un altro miliardo sulle filiere dell’agroalimentare” e con l’ok “a un importante pacchetto semplificazioni”. A sostenere le imprese, almeno quelle del Centro, per la premier contribuirà anche l’estensione della Zes unica a Marche e Umbria decisa nell’ultimo Cdm. Un progetto, quello della zona economica speciale, che al Sud ha “creato decine di migliaia di posti di lavoro”, e “mi dispiace che anche qui l’opposizione riesca a fare polemica”. Poi ripercorre i traguardi raggiunti: dalla legge per dotare Roma di uno status speciale (“sono fiera che lo abbiamo fatto noi”) al Ponte sullo Stretto: “Dibattiti che sono andati avanti per decenni, poi è arrivato un governo che si è messo a fare le cose di cui tutti gli altri parlavano”. E se sulle regionali d’autunno c’è ottimismo (con gli alleati, spiega, “abbiamo sempre trovato la quadra, non ho dubbi che lo faremo anche stavolta”), non nasconde, la premier, che a settembre la ripresa potrebbe essere difficile sotto tanti aspetti. “Sicuramente il contesto internazionale è complesso. Ma l’Italia - assicura Meloni - ha le carte in regola per affrontare questa stagione. I nostri fondamentali dell’economia sono migliori di quelli di molte altre grandi nazioni europee”. Significa “che la strategia che è stata messa in campo è corretta. Non abbiamo risolto tutti i problemi ma dobbiamo continuare a lavorare e a crederci: per quanto possa essere complesso lo scenario in cui ci muoviamo - conclude la leader di FdI - l’Italia c’è”. Carriere separate per vendetta: lo slogan da evitare di Errico Novi Il Dubbio, 7 agosto 2025 Non sappiamo se e quanto la decisione assunta dal Tribunale dei ministri su Almasri fosse attesa dal governo. Non sappiamo se e quanto Giorgia Meloni fosse preparata all’idea di un profluvio di affermazioni “censorie” da parte del collegio delle tre giudici a carico di guardasigilli, capo del Viminale e sottosegretario ai Servizi. Sappiamo però per certo che ora viene la parte più difficile. A dispetto di quanto s’immagina, o si sia finto finora di immaginare. La richiesta di processare l’Esecutivo è, naturalmente, destinata a essere respinta dalla Camera. Ma il difficile viene adesso perché comunque, fino a ottobre, quando l’Aula dovrebbe pronunciarsi sulla richiesta formulata dal Tribunale dei ministri, giornali e note stampa degli avversari gronderanno anatemi contro il governo. E potrebbe non finire lì. Sia perché non si può escludere in senso assoluto un colpo di scena sulle accuse alla premier, che potrebbero riemergere in virtù dei nuovi esposti già annunciati dalle vittime di Almasri, tanto da richiedere un tempo supplementare nella Giunta per le autorizzazioni di Montecitorio, sia perché non ci sarebbe da meravigliarsi se la Procura di Roma iscrivesse Giusi Bartolozzi a registro degli indagati, sempre sulla base dell’istruttoria condotta dal collegio delle tre giudici. Se insomma finora si è dato per scontato che il caso del militare- torturatore libico non avrebbe interferito con la campagna referendaria sulla separazione delle carriere, ora è il caso di essere un po’ più cauti, in proposito. E allora, il punto è un altro, estraneo dalla vicenda processuale: tutto sta a capire se gli esponenti del centrodestra, i leader ma non solo, risponderanno al fuoco nemico con l’accusa secondo cui le toghe consumano, su Almasri, la vendetta per la riforma Nordio. O meglio: finché parlamentari di maggioranza e ministri continueranno a dire questo, come fanno già da tempo, non c’è alcun particolare problema. Il pericolo è che il centrodestra cominci a presentare la separazione delle carriere come una soluzione finale contro le ingerenze della magistratura. Ecco: il nodo, il confine sottilissimo da non oltrepassare, se davvero si vuole portare a casa la riforma, consiste nel non spingersi a dire che il centrodestra separa le carriere per punire giudici e pm. Un simile discorso riprodurrebbe, come la macchina del tempo di Doc Brown in “Ritorno al futuro”, esattamente il clima dell’epopea berlusconiana. Torneremmo al vecchio scontro fatale tra politica e toghe. Col risultato di spaccare l’opinione pubblica, mobilitare ancora di più l’elettorato che non vota centrodestra e rischiare di perderlo davvero, il referendum sulle carriere. Meloni, da quando ha davvero scommesso sul dossier giustizia, si è sempre ben guardata dall’assimilarsi al Cav. Ci ha tenuto così tanto che, prima di salire a Palazzo Chigi, ha respinto le insistenze dello stesso Berlusconi sulla nomina di Maria Elisabetta Alberti Casellati a guardasigilli. Se vuole arrivare dove Silvio non è riuscito, Giorgia dev’essere diversa da lui. Lo sa, certo. Ma mai come adesso deve tenere i nervi saldi e non cadere in tentazione. Le sentenze sulle stragi tornano pubbliche, il Governo cancella il divieto di consultazione di Andrea Palladino La Stampa, 7 agosto 2025 Revocata la circolare che impediva l’accesso, come promesso da Bernini alla commemorazione di Bologna. È stata revocata ieri la circolare della Direzione generale degli archivi del ministero della Cultura che aveva ristretto l’accesso alle sentenze sulle stragi e sul terrorismo. Il direttore generale Antonio Tarasco - che aveva firmato la decisione contestata - ha disposto la revoca del provvedimento. Su questo punto il ministro dell’Università e della ricerca, Anna Maria Bernini, aveva preso un preciso impegno con l’associazione dei familiari delle vittime della strage di Bologna, che - attraverso il presidente Paolo Bolognesi - aveva sollevato la questione. La circolare annullata imponeva ai ricercatori di richiedere “l’autorizzazione preventiva” al ministero dell’Interno per poter consultare le motivazioni delle sentenze, rendendo difficile, se non impossibile, il lavoro a storici, studiosi e giornalisti. Veniva lasciata libera la consultazione esclusivamente del dispositivo, che, d’altra parte, viene letto in aula, durante l’udienza conclusiva di un processo. La decisione era nata da una interpretazione particolarmente restrittiva della normativa sulla privacy e del codice di procedura penale. La nuova circolare che revoca la decisione precedente fa riferimento diretto “agli atti dei procedimenti giudiziari riguardanti casi di terrorismo, stragi ed altri fatti che hanno scosso la coscienza civile del Paese”. Tra questi rientrano le stragi di Piazza Fontana a Milano, di Brescia, dell’Italicus e di Bologna, che proprio le sentenze della magistratura - in gran parte passate in giudicato - hanno ricondotto all’eversione di estrema destra, con la complicità ormai acclarata dei servizi di intelligence e della loggia P2. Gli ultimi due processi relativi alla strage del 2 agosto 1980 - 85 morti e 200 feriti - ha visto nei mesi scorsi la Cassazione pronunciarsi in via definitiva, consolidando e confermando la responsabilità dei Nar, di esponenti di Avanguardia nazionale (Paolo Bellini), indicando come mandanti e finanziatori Licio Gelli e Umberto Ortolani. Lo scorso primo luglio è stata poi depositata la sentenza di condanna di primo grado nei confronti di Marco Toffaloni per la strage di Brescia; questo processo - insieme ad un secondo procedimento ancora in corso contro Roberto Zorzi - riporta diverse novità sull’attentato e sul contesto eversivo dell’epoca. La consultazione, dunque, delle sentenze è lo strumento fondamentale per ricostruire l’epoca della strategia della tensione e dell’eversione di destra. L’accesso alla documentazione è stato un passaggio chiave anche a livello investigativo. L’ultimo processo sui mandanti si è basato, tra l’altro, sulla consultazione incrociata dei faldoni di decine di procedimenti sull’eversione nera, da Piazza Fontana in poi. Un’operazione che è stata resa possibile dalla digitalizzazione degli atti, rendendo utilizzabili milioni di pagine relative ad inchieste del passato sul terrorismo nero. Da alcuni anni questi documenti sono disponibili presso una sezione speciale dell’Archivio centrale dello Stato, grazie a tre provvedimenti dei governi Prodi (del 2008, sul caso Moro), Renzi (del 2014, sulle stragi neofasciste) e Draghi (del 2021, sulla loggia P2 e sull’organizzazione Gladio). Questo passaggio, però, non è ancora stato completato. Secondo le relazioni del comitato di vigilanza sulla declassificazione costituito appositamente per attuare le direttive dei precedenti governi, vi sono ancora alcune difficoltà sul riversamento dei documenti da parte delle amministrazioni dello Stato. Particolarmente critico è lo stato degli archivi del ministero dei Trasporti e delle Infrastrutture, che ha reperito pochissimi documenti. Una task force del comitato di vigilanza ha effettuato un’ispezione nel deposito di Ciampino del ministero, non rivenendo però atti significativi. Secondo quanto si legge nell’ultima relazione manca “del tutto la documentazione relativa al Gabinetto del ministro dei Trasporti pro tempore”, dalla fine degli anni 60 fino agli anni 80. E la data è particolarmente significativa: il 1980 è stato l’anno della strage di Ustica, che coinvolse un aereo civile dell’Itavia. C’è infine il problema della digitalizzazione, la cui mancanza a volte diventa un ostacolo per la consultazione. Ad oggi moltissimi documenti devono essere ancora lavorati, anche se alcune fonti degli Archivi assicurano la ripresa dell’attività il prossimo settembre. L’appello non si pesa per numero di parole: lo dice la Cassazione di Antonio Alizzi Il Dubbio, 7 agosto 2025 Accolto il ricorso di un uomo accusato di tentato furto: il caso torna davanti alla Corte d’appello di Bologna. La quinta sezione penale della Corte di Cassazione, con sentenza n. 28468/2025, ha chiarito che l’inammissibilità dell’appello per aspecificità dei motivi non può fondarsi su criteri puramente quantitativi o formali, ma richiede un’analisi puntuale della coerenza critica tra il motivo di impugnazione e la sentenza di primo grado. La decisione ribalta l’ordinanza della Corte d’appello di Bologna che aveva rigettato il ricorso di un uomo imputato per tentato furto e possesso ingiustificato di chiavi alterate. L’imputato, secondo quanto si legge in sentenza, era stato condannato nel 2022 per aver tentato di forzare il lucchetto di una bicicletta, venendo trovato in possesso di grimaldelli. In appello, il suo difensore aveva chiesto l’assorbimento del reato contravvenzionale (articolo 707 codice penale) nel delitto tentato (articolo 624 codice penale), nonché una rivalutazione del trattamento sanzionatorio. La Corte territoriale aveva però rigettato l’impugnazione per difetto di specificità. La Suprema Corte, accogliendo il ricorso, ha ricordando che la specificità dell’appello non si misura sulla quantità di parole, ma sulla rilevanza critica rispetto ai motivi della sentenza impugnata. Inoltre, l’inammissibilità può essere dichiarata solo quando i motivi siano del tutto scollegati dalle ragioni della sentenza di primo grado. Nel caso di specie - evidenziano gli ermellini - la censura sull’assorbimento era coerente con quanto esposto in primo grado, dove non era stato chiarito se gli strumenti rinvenuti fossero stati effettivamente utilizzati. La Corte ha così disposto l’annullamento senza rinvio dell’ordinanza impugnata e la trasmissione degli atti alla Corte d’appello di Bologna per il giudizio nel merito, eccetto che per il reato minore, ormai prescritto. Nella stessa pronuncia si fa riferimento anche alla prescrizione (norma transitoria del 2017). La Cassazione, in tal senso, ha dichiarato prescritta la contravvenzione di cui all’articolo 707 codice penale, accertata nel 2017, in virtù della sospensione limitata prevista dalla riforma Orlando (legge 103/2017). Secondo l’articolo 159, comma 3, codice penale, infatti, il decorso del termine non può essere sospeso una volta che la condanna di primo grado venga annullata per vizio non meramente formale. Tale principio è confermato dalle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione (sentenza Polichetti, n. 20989/2025). Nella sentenza n. 28468/2025 viene ribadito che la sospensione opera solo se la condanna viene confermata o annullata solo per vizi formali. In caso contrario, il tempo (cosiddetto) “guadagnato” si perde retroattivamente e la prescrizione torna a decorrere con i limiti originari. Il giudizio di legittimità, le cui motivazioni sono state depositate il 4 agosto 2025, rafforza la tutela del diritto di difesa e riequilibra i poteri di filtro del giudice d’appello, in quanto, l’impugnazione, per quanto sintetica, non può essere dichiarata inammissibile se contiene rilievi pertinenti al ragionamento giuridico della sentenza contestata. In caso contrario, fa intendere tra le righe la Suprema Corte di Cassazione, si rischia di sanzionare la povertà stilistica più che la debolezza giuridica. Pena, sconto di un sesto solo per abbreviato non viola i principi di uguaglianza e giusto processo di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 7 agosto 2025 La Cassazione sposa la scelta del Legislatore della Riforma Cartabia di non premiare in sede di esecuzione chi non abbia appellato la sentenza di condanna ma che non ha preliminarmente optato per il rito alternativo all’ordinario. Il doppio sconto di pena previsto nel caso in cui si venga condannati con rito abbreviato e non si appelli la sentenza di primo grado passa ancora una volta indenne al vaglio dei giudici di legittimità che decidono appunto di non rinviare alla Consulta la questione di legittimità costituzionale sollevata nell’ambito del ricorso di una persona che condannata con rito ordinario invocava in base agli articoli 3 e 111 della Carta, ossia i principi di uguaglianza e del giusto processo. La Corte di cassazione penale - con la sentenza n. 28322/2025 - ha infatti confermato l’ordinanza del Tribunale di Roma con cui veniva respinta l’istanza proposta in sede di esecuzione dove il ricorrente aveva domandato che gli venisse applicato lo sconto di pena di un sesto per non aver appellato la condanna comminatagli in primo grado nell’ambito del giudizio condotto con rito ordinario. Invocava il ricorrente l’applicazione costituzionalmente orientata del comma 2 bis dell’articolo 442 del Codice di procedura penale introdotto dalla Riforma Cartabia con la lettera c) del comma 1 dell’articolo 24 del Dlgs 150/2022 o in alternativa chiedeva al Tribunale quale giudice dell’esecuzione di rinviare alla Corte costituzionale la novella legislativa per la mancata considerazione di un regime premiale anche per chi determina un risparmio di giustizia non appellando la condanna subita in primo grado. Oggi la Suprema corte conferma il no sia al riconoscimento dello sconto sia a sollevare la questione in sede di rinvio pregiudiziale. Nel nuovo regime premiale previsto solo per chi abbia già optato per lo strumento deflattivo per il sistema giudiziario del rito abbreviato a cosiddetta “prova contratta” al già previsto sconto di pena di un terzo applicato direttamente dal giudice di merito si somma ora l’ulteriore sconto di un sesto in sede di esecuzione quando la condanna risulti definitiva perché non impugnata in secondo grado né dal difensore né dal condannato. Il ricorrente chiedeva appunto la riduzione di un sesto sostenendo che questa non sia da riconnettere solo a chi abbia preventivamente optato per il rito deflattivo - cioè l’abbreviato - ma anche a chi non impugnando la sentenza abbia comunque consentito un risparmio di giustizia non instaurando un nuovo giudizio. La Cassazione ritiene che la scelta del Legislatore di non considerare la “non impugnazione” come comportamento da premiare anche quando sia stata elevata condanna col rito ordinario sia scelta legittima e da cui - si può ben dire - emerge la precisa volontà di incanalare il giudizio penale il più frequentemente possibile verso la scelta dei riti abbreviati che comportano minor dispendio di tempo e di denaro. Patteggiamento, non annulla l’intero accordo il ricorso per la condizionale ignorata dal Gup di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 7 agosto 2025 Se la richiesta di applicazione della pena cui aderisce il Pm è subordinata al riconoscimento della sospensione condizionale, l’impugnazione può determinare l’annullamento con rinvio solo sullo specifico punto. La sentenza di patteggiamento è annullabile solo parzialmente quando non abbia disposto il beneficio della sospensione condizionale della pena se l’accordo tra le parti la ricomprendeva e il giudice non offre alcuna motivazione sulla sua esclusione. Questo è quanto affermato dalla sentenza n. 29884/2025 della Corte di cassazione penale. In applicazione dell’articolo 448, comma 2 bis, del Codice di procedura penale in un caso del genere sussiste quel vizio di non correlazione tra richiesta e sentenza che giustifica il ricorso della parte di fronte alla Cassazione. Infatti, in base a tale norma il Pm o l’imputato possono proporre ricorso per cassazione contro la sentenza di patteggiamento e solo per motivi attinenti all’espressione della volontà dell’imputato, al difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza o all’erronea qualificazione giuridica del fatto e all’illegalità della pena. Di regola l’accoglimento dell’impugnazione travolge l’intero accordo. Ma nel caso specifico della pretermessa sospensione condizionale della pena da parte del giudice che pronuncia la sentenza di patteggiamento, recependo l’accordo tra l’imputato e il Pm che abbia aderito alla sua richiesta subordinata all’applicazione della sospensione condizionale della pena, opera il disposto del comma 3 dell’articolo 444 del Codice di procedura penale secondo cui se la parte formulando la richiesta della pena per patteggiamento la subordini alla concessione della sospensione condizionale con recepimento nell’accordo col Pm il giudice se non la ritenga applicabile può rigettarla recependo nel resto l’accordo. Ma se, come nel caso concreto, il giudice pronuncia la sentenza omettendo di maniera del tutto silente l’applicazione del beneficio concordato tra le parti la decisione sarà ricorribile anche impugnando solo la parte pretermessa dell’accordo che non sarà travolto dalla decisione di annullamento del giudice di legittimità. Messina. Suicida in carcere Stefano Argentino, l’assassino di Sara Campanella di Salvo Palazzolo La Repubblica, 7 agosto 2025 Nel pomeriggio di ieri, intorno alle diciassette, si è allontanato dai suoi compagni ed è stato trovato poco dopo da alcuni agenti della Polizia penitenziaria ormai senza vita. Sì è tolto la vita, impiccandosi, il ventiduenne Stefano Argentino, detenuto nel carcere di Messina con l’accusa di avere ucciso la giovane Sara Campanella, il 31 marzo scorso. Già un mese dopo l’arresto e la confessione aveva manifestato l’intenzione di togliersi la vita, ma poi dopo colloqui con medici e psicologici il giovane era tornato alla vita comune all’interno del penitenziario della città dello stretto. La procura di Messina diretta da Antonio D’Amato ha aperto un’inchiesta su quando accaduto. Per il femminicidio di Sara Campanella era stata già fissata la prima udienza, il 10 settembre. La procura aveva contestato la premeditazione al giovane. Le indagini dei carabinieri hanno svelato che da mesi Stefano Argentino pedinava la compagna di facoltà Sara Campanella e annotava i suoi deliri sul telefonino: “Dal sognarmi a essere il tuo peggiore incubo”, scriveva nel mese di ottobre del 2024, cinque mesi prima del femminicidio avvenuto davanti allo stadio di Messina. Sara Campanella aveva provato a resistere alle continue avance, alla tempesta di messaggi, ai pedinamenti. Il pomeriggio in cui uscì per l’ultima volta dall’università si era accorta che Argentino la seguiva. Per questo aveva mandato un messaggio alle amiche: “Il malato mi segue”. Ma le compagne di università erano ormai andate via. E a Sara Campanella non era rimasto che attivare il registratore del suo smartphone, come aveva fatto altre volte, per documentare le molestie. Ma questa volta le molestie avevano avuto il peggiore degli esiti. Messina. Via la grande sorveglianza, si uccide in cella. Aveva assassinato Sara Campanella di Lara Sirignano Corriere della Sera, 7 agosto 2025 Il suo legale: è colpa dello Stato. Gli avvocati della famiglia della vittima: un dolore. Dal giorno del suo arresto la famiglia e l’avvocato avevano espresso il timore che potesse uccidersi. Era depresso, per giorni non ha toccato cibo Stefano Argentino, 27 anni e l’accusa gravissima di aver sgozzato per strada, a Messina, davanti a decine di passanti, Sara Campanella, la collega di università 22enne che perseguitava. Ieri l’epilogo drammatico di una vicenda terribile. Lo studente si è ucciso nel carcere messinese di Gazzi, impiccandosi. Solo pochi giorni fa si era deciso di attenuare la sorveglianza a cui era stato sottoposto nel timore che potesse togliersi la vita. Una scelta concordata con gli psicologi con cui Stefano aveva incontri dal giorno dell’arresto. Negli ultimi tempi infatti sembrava meno cupo, più sereno e aveva anche ripreso a mangiare. Il 27enne della provincia di Siracusa era così tornato a un regime carcerario ordinario e in una cella con altri detenuti. “È il triste, drammatico epilogo di una storia di cui si supponeva già il finale: Sara è stata uccisa, Stefano si è tolto la vita e l’unica responsabilità è da attribuire allo Stato”, commenta l’avvocato di Argentino, Giuseppe Cultrera. “Avevo chiesto una perizia psichiatrica - rivela il legale - perché avevo compreso lui e i suoi problemi... mi ero fatto portavoce degli stessi fuori dal carcere e il gip me l’ha negata. Lo Stato avrebbe potuto salvare almeno una delle due vite, invece non lo ha fatto”. “Ora - dice - spero solo che le due famiglie, accomunate da un immane dolore, possano trovare la pace terrena in un abbraccio silenzioso”. Sulla tragica fine di Stefano interviene anche la legale della famiglia di Sara: “E l’epilogo terribile di una storia terribile - commenta la penalista Concetta La Torre - ha deciso lui le sorti di due famiglie. Per noi è un colpo molto doloroso. Non possiamo che essere addolorati in questo momento. Non ci sono parole per descrive i sentimenti che prova la famiglia Campanella”. Stefano sarebbe dovuto comparire davanti alla corte d’assise di Messina il lo settembre per la prima udienza del processo. Per lui la procura aveva chiesto il giudizio immediato per omicidio aggravato dalla premeditazione e dalla crudeltà. Aveva confessato ma non ha mai davvero spiegato cosa l’abbia spinto a togliere la vita a Sara e non si è mai detto pentito. Il giorno del delitto la ragazza, che più volte l’aveva allontanato, si era accorta di esser seguita e aveva inviato un messaggio alle amiche: “Il malato mi segue”. Per documentare le molestie aveva registrato la loro conversazione. Non sapeva che sarebbe stata l’ultima. “Non voglio nulla con te - gli aveva detto secca - spero ora, dopo un anno, di essere stata chiara. L’ultima volta ti ho detto di lasciarmi in pace, cosa hai capito di questa cosa? Tu te ne torni a casa tua, io continuo per la mia strada, o mi devi seguire fino... Mi stai seguendo”. Un audio drammatico finito agli atti dell’inchiesta. L’assassino, che aveva con sé un coltello mai ritrovato, a quel punto ha colpito la 22enne alla gola. Sul cellulare i carabinieri del comando provinciale hanno trovato una foto di Sara scarabocchiata. E la scritta: “Dal sognarmi, a essere il tuo peggiore incubo”. Per l’accusa, avrebbe studiato sul web, diversi mesi prima, come e in quale parte del corpo colpire e avrebbe acquistato su Amazon il coltello. L’arma, che, secondo gli inquirenti, sarebbe compatibile con quella usata per sgozzarla. Torino. Appello per Mellano: “Lo Russo lo nomini Garante comunale dei detenuti” La Stampa, 7 agosto 2025 Dopo gli attacchi di Fratelli d’Italia, già raccolte oltre 200 firme. “L’equilibrio, il rigore, la tenacia e l’indipendenza di Bruno Mellano sono la scelta migliore per succedere a Monica Gallo come Garante dei detenuti di Torino”. Parola di Franco Corleone, presidente del Comitato scientifico della Società della ragione (associazione che si occupa di giustizia e diritti, ndr), ma anche di oltre duecento persone. Sono quelle che in due giorni, insieme a tantissime onlus e realtà della società civile, hanno firmato l’appello lanciato in difesa dell’ex Garante regionale dopo l’attacco di Fratelli d’Italia. Il caso è scoppiato nell’ultimo giorno di luglio, quando il capogruppo Carlo Riva Vercellotti e il vice Roberto Ravello del partito di Meloni a Palazzo Lascaris hanno attaccato Mellone, tacciato di “strabismo ideologico” e di aver difeso troppo i detenuti e poco la Polizia penitenziaria. Parole che la Camera penale ha attaccato con ironia ma anche forza: “Ci scusiamo con Bobbio” per aver consentito che costoro occupassero “il Consiglio regionale”; la difesa è poi arrivata anche dal portavoce della Conferenza nazionale dei garanti, Samuele Ciambriello. Ma il caso non si spegne, e Corleone dà la sua lettura: “Io non credo che quello di FdI fosse un attacco diretto a Mellano spiega ma probabilmente un modo per lanciare un messaggio alla nuova Garante: noi ti abbiamo nominato, ora devi seguire le nostre indicazioni. Ma si tratta di un messaggio che mette in discussione il senso di una figura è rivolta ai più deboli non a chi ha già fortissimi diritti sindacali”. Come la Polizia penitenziaria. “Ecco perché, di fronte a una nomina regionale “sotto tutela”, a Torino serre un controcanto autorevole: è questo che chiediamo al Comune”. Sarà il sindaco Stefano Lo Russo, dopo un confronto con i capigruppo, a scegliere il futuro Garante tra una rosa di nove nomi. Anche se “a livello nazionale c’è un accordo con l’Anci per cui questa figura dovrebbe essere scelta dal Consiglio comunale, in molte città è già stato recepito. Vediamo se lo farà anche Torino”, continua Corleone. Tra le firme locali, quelle di Andrea Polacchi dell’Arci Piemonte, i radicali Igor Boni e Andrea Turi (ma anche il segretario di +Europa Andrea Magi), la capogruppo di Stati Uniti d’Europa in Regione Vittoria nullo e a docente di Diritto penitenziario di Unito Giulia Mantovani. “Tutta questa partecipazione, che non mi aspettavo conclude Corleone dimostra come ci sia consapevolezza dei rischia cui bisogna far fronte”. Cagliari. Detenuti al 41 bis a Uta, i parlamentari sardi del Pd chiedono lo stop L’Unione Sarda, 7 agosto 2025 “Scelta pericolosa”. Incontro con il direttore del Dap: “Su un’unica regione un peso sproporzionato e insostenibile, rischi per la sicurezza e l’ordine pubblico”. I parlamentari sardi del Pd chiedono a gran voce di fermare il trasferimento di 92 detenuti in regime di 41 bis nel carcere di Uta. Marco Meloni e Silvio Lai, assieme alla responsabile giustizia dei dem Debora Serracchiani hanno incontrato il capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Stefano De Michele, a cui hanno espresso tutte le loro preoccupazioni per la disposizione del ministero della Giustizia. Tante le criticità evidenziate: “I rischi sul piano della sicurezza e dell’ordine pubblico: la possibilità di nuove infiltrazioni criminali, le carenze strutturali del personale della polizia penitenziaria, le gravissime difficoltà della sanità penitenziaria. Non esiste, allo stato attuale, alcuna garanzia in grado di assicurare un presidio efficace di legalità e sicurezza in rapporto all’aumento di detenuti in regime di carcere duro”. Un trasferimento da fermare assolutamente, “la Sardegna non può farsi carico, da sola, di un terzo dell’intera popolazione detenuta in 41 bis in Italia”, è una scelta “sbagliata e pericolosa, che scarica su un’unica regione un carico sproporzionato e insostenibile”. Una decisione che non è di competenza del Dap, ha spiegato De Michele. Per questo i parlamentari ritengono urgente un’informativa dei ministri Nordio e Piantedosi. Fondamentale anche superare (“In merito abbiamo ricevuto rassicurazioni”, precisano i parlamentari) “l’inaccettabile” ordine ministeriale (“Confermatoci dallo stesso De Michele”), ai vertici delle carceri sarde di “disertare” il consiglio regionale, che aveva chiesto un’audizione. I dem sardi chiedono inoltre una modifica delle norme che individuano le aree insulari come destinazione prioritaria per i detenuti in 41 bis. “Norme superate dai fatti”, sottolineano. “In vent’anni, il contesto sociale, istituzionale ed economico è profondamente mutato, e oggi queste disposizioni si traducono in un’ingiustizia evidente e in un rischio concreto per la sicurezza e la tenuta del territorio”. E sollecitano tutte le forze politiche, in primis i parlamentari eletti in Sardegna, a battersi per scongiurare questo trasferimento. Roma. La Russa e Pinelli a Rebibbia: si risponda subito all’emergenza di Franco Insardà Il Dubbio, 7 agosto 2025 Il presidente del Senato e il vicepresidente del Csm si sono confrontati coi reclusi nel laboratorio “Spes contra spem” promosso da Nessuno tocchi Caino. Un dialogo senza precedenti tra istituzioni e detenuti si è svolto ieri nel carcere romano di Rebibbia, dove il laboratorio “Spes contra spem” promosso da Nessuno tocchi Caino ha ospitato due figure di vertice dello Stato: Fabio Pinelli, vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, e Ignazio La Russa, presidente del Senato. La loro presenza ha assunto un valore simbolico e politico forte, dimostrando un impegno concreto nell’affrontare quella che viene ormai definita da più parti un’emergenza umanitaria: il sovraffollamento carcerario. Fabio Pinelli ha voluto interrogarsi a fondo sulla funzione rieducativa della pena, chiedendosi se la privazione della libertà sia ancora oggi lo strumento più adeguato per rispondere al reato. Il vicepresidente del Csm ha sottolineato che bsogna interrompere quella che è una violazione costante dei diritti umani fondamentali con gli strumenti che la politica ha a disposizione. Richiamando le parole di Gaetano Silvestri, Pinelli ha ribadito che la dignità della persona viene prima di tutto, e che solo una pena che rispetti tale principio può dirsi legittima. In questa prospettiva, ha rilanciato la proposta di Nessuno tocchi Caino e Roberto Giachetti per una liberazione anticipata speciale, arrivando a ipotizzare un’estensione del beneficio da 75 a 90 giorni ogni semestre per chi si comporta bene in carcere. Di tono altrettanto deciso l’intervento del presidente del Senato, Ignazio La Russa, che ha sottolineato la necessità di una risposta parlamentare unitaria. La Russa ha sottolineato come il sovraffollamento generi sofferenze non previste dalla legge, e va affrontato come priorità. Ha ribadito il suo impegno a lavorare anche durante la pausa estiva per favorire una convergenza tra i gruppi parlamentari su una proposta di legge. Due le strade su cui sta lavorando: da un lato la proposta di detenzione domiciliare per i detenuti a fine pena, sul modello della legge 199 adottata durante l’emergenza Covid; dall’altro la già citata liberazione anticipata speciale, che garantirebbe un’applicazione più generalizzata e meno discriminatoria. Secondo Sergio D’Elia, segretario di Nessuno tocchi Caino, il laboratorio ha avuto un valore straordinario perché “ha messo in contatto diretto detenuti e detenenti - come diceva Marco Pannella - con le più alte cariche dello Stato. Il sovraffollamento è oggi una violazione permanente dei diritti umani, e i nostri laboratori servono a far emergere questa verità. Oggi abbiamo ascoltato una vera e propria lezione magistrale da parte di Pinelli, che ha posto il tema della legalità della pena in questi contesti”. D’Elia ha poi espresso apprezzamento per l’impegno espresso da La Russa a favore di una soluzione parlamentare rapida e condivisa. Rita Bernardini, presidente di Nessuno tocchi Caino, ha voluto sottolineare il valore dell’incontro avvenuto nel reparto G8 di Rebibbia: “È stato un esempio di rieducazione e risocializzazione in atto”, ha detto. Bernardini, ricordando gli interventi tra gli altri di Gianni Alemanno e fabio Falbo, ha insistito sulla forza simbolica della partecipazione istituzionale: “Pinelli ci ha richiamato alla necessità di riflettere non solo sul senso della pena, ma sulle ostilità culturali al reinserimento sociale. Ha proposto un confronto tra giuristi di diverse scuole per ripensare il diritto penale nella modernità”. Secondo Elisabetta Zamparutti, tesoriera di Nessuno Tocchi Caino, la giornata ha rappresentato un punto alto nel dibattito pubblico sulla questione carceraria. “Oggi è stato possibile mettere insieme detenuti, autorità e società civile in un confronto che ha toccato il cuore del problema: trasformare uno stato di torto in uno stato di diritto”. Per Zamparutti, è fondamentale che tanto Pinelli quanto La Russa abbiano posto l’accento sulla dignità umana come limite invalicabile, richiamando l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Infine, Massimo Arlecchino, presidente del Movimento Indipendenza, ha parlato con una duplice emozione: “Orgoglio per far parte di Nessuno tocchi Caino e per l’attenzione che oggi siamo riusciti a ottenere; ma anche sconforto nel constatare, ancora una volta, gli effetti devastanti del sovraffollamento sulla vita quotidiana dei detenuti”. Arlecchino ha denunciato situazioni in cui detenuti saltano cicli di chemioterapia o sedute di dialisi per carenza di personale. Rita Bernardini ha sottolineato la forte carica umana e trasversale dell’iniziativa. Presenti anche giovani volontari di Fratelli d’Italia della sezione Prati, interessati a capire come poter essere utili dentro il carcere: “Segno - ha concluso Bernardini - che su certi temi, quando si parla di umanità, non ci sono confini politici”. Torino. Il Presidente della Camera Penale digiuna per i detenuti morti in carcere di Emiliano Rozzino giornalelavoce.it, 7 agosto 2025 Digiuna per chi in carcere non ha più voce. “Oggi digiuno per 50 persone dimenticate e perché non voglio rassegnarmi a vedere ancora diritti violati e dignità calpestate nelle nostre carceri”. È questo il messaggio - breve, forte, incisivo - con cui Roberto Capra, avvocato penalista torinese e presidente della Camera Penale del Piemonte Occidentale “Vittorio Chiusano”, ha annunciato la sua adesione pubblica alla campagna nazionale di digiuno a staffetta. Un gesto simbolico. Un atto di denuncia. Un modo per scuotere le coscienze di un Paese che continua a ignorare quello che succede dentro i muri delle sue prigioni. Le “50 persone dimenticate” non sono numeri: sono i detenuti che, dall’inizio dell’anno, si sono tolti la vita negli istituti penitenziari italiani. Una cifra che fa paura. Una cifra che parla di abbandono, solitudine, disperazione. A lanciare l’iniziativa - che ha raccolto l’adesione di molti avvocati e magistrati - sono stati Valentina Alberta, avvocata, e Stefano Celli, magistrato. La formula è semplice: un giorno di rinuncia al cibo solido per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica e del Parlamento. E proprio il Parlamento è il destinatario diretto della protesta: tra gli obiettivi c’è infatti quello di sollecitare l’esame della proposta di legge Giachetti sulla liberazione anticipata, un provvedimento che punta a ridurre la pressione detentiva e ad arginare il sovraffollamento. In poche righe, Capra condensa un’urgenza civile che troppi preferiscono ignorare. Le carceri italiane continuano a essere luoghi di pena e non di rieducazione. Luoghi dove i diritti vengono sistematicamente calpestati. Luoghi dove chi sbaglia paga, ma spesso paga due volte: con la condanna e con condizioni di vita che scivolano oltre i confini della dignità. E allora ecco che il digiuno - piccolo, personale, silenzioso - diventa un gesto potente. Per ricordare i morti. Per dire che no, non è normale morire in cella. Per dire che no, non è accettabile far finta di nulla. La battaglia di Capra e dei suoi colleghi è anche la battaglia per uno Stato che non rinunci alla propria umanità. Uno Stato che, anche nel momento della punizione, sappia rispettare la persona. Perché, come diceva Pannella, “nessuno si salverà da solo, nessuno sarà libero se non lo saranno anche i detenuti”. Cremona. Carcere sovraffollato: “Investire nel lavoro” di Daniele Rescaglio Il Giorno, 7 agosto 2025 Una popolazione carceraria troppo numerosa rispetto ai posti disponibili. Anche il carcere di Cremona vive la condizione che riguarda molte strutture penitenziarie, con un numero di detenuti ad oggi pari a 550 contro i 380 posti disponibili. Ieri mattina il consigliere regionale Dem, Matteo Piloni, ha incontrato la direttrice della struttura, Giulia Antonicelli, e la comandante della polizia penitenziaria, Letizia Tognali, e con loro ha visitato la struttura di via Ca’ de Ferro. “Ringrazio la direttrice Giulia Antonicelli e la comandante della polizia penitenziaria Letizia Tognali, della casa circondariale di Cremona per la disponibilità a ricevermi per una visita e un colloquio. Nel nostro carcere ho trovato una situazione in linea con quanto già rilevato durante il mio precedente sopralluogo per quanto riguarda numeri e criticità, ma è positivo constatare l’apertura di una nuova sezione che ospita circa 60 detenuti con un regime di 12 ore di cella aperta. È un passo avanti importante per favorire un percorso di responsabilizzazione delle persone ristrette” ha affermato Piloni al termine della missione che ha svolto nell’istituto penitenziario. Durante l’incontro sono stati approfonditi in particolare due temi ritenuti centrali dal consigliere Pd: il lavoro e la sanità in ambito carcerario, insieme alle condizioni in cui si trovano i detenuti, soprattutto d’estate. Investire sul lavoro dei detenuti sembra una delle strade più percorribili per alleggerire la situazione. “Oggi sono 20 i detenuti impegnati in attività lavorative con contratti a tempo determinato o in tirocini. Un dato più alto rispetto al passato e che spero possa crescere” continua Piloni, ricordando i tavoli interistituzionali sul carcere promossi dal Comune di Cremona, con la partecipazione della direzione della struttura di Ca’ del Ferro e rappresentanti delle associazioni di categoria ed economiche. “Come Gruppo regionale del Pd abbiamo ottenuto l’impegno della Regione ad acquistare ventilatori e deumidificatori da distribuire poi nelle carceri lombarde dove, in questi mesi, si sta soffrendo un gran caldo. Una proposta a cui abbiamo lavorato, seppur non di competenza regionale, ma che abbiamo ritenuto necessaria, ottenendo l’impegno da parte della Giunta a stanziare centomila euro, nel solco di quanto fatto recentemente anche dalla meritoria iniziativa della Camera Penale” conclude Piloni. Salerno. Caf a beneficio dei carcerati grazie alla Uil cronachesalerno.it, 7 agosto 2025 La Uil Campania entra nelle carceri di Salerno e Vallo della Lucania per essere al fianco dei detenuti come persone e come cittadini: è stata avviata, infatti, una convenzione grazie alla quale il patronato Ital e il Caf della Uil, offrono servizi gratuiti ai detenuti, come la consulenza legale, l’assistenza di un medico per le richieste di invalidità e tutte quelle pratiche che si fanno in un patronato e in un Caf. “Il sindacato, la Uil - sottolinea Giovanni Sgambati, segretario generale della Uil di Napoli e Campania - entra nelle carceri con i suoi servizi, lo fa per la prima volta a Salerno, a Vallo della Lucania, per sostenere i detenuti i quali, a prescindere dai reati che hanno commesso o dalle pene che stanno scontando, restano persone che necessitano di servizi e di tutele. Anche questo è un modo, uno strumento, per reintegrarli socialmente e per dare loro una nuova possibilità di riscatto e di nuova scelta di vita”. La convenzione è stata possibile grazie alla collaborazione con la Uilpa di Salerno. La segretaria generale territoriale della Uilpa, Marianna De Martino, infatti, durante la sua attività sindacale e tramite l’ascolto delle problematiche del personale delle case circondariali, ha raccolto le difficoltà degli educatori con i detenuti tra cui quelle legate al disbrigo delle pratiche del patronato. Da questo incontro è nata l’idea della Uil di portare i propri servizi nelle carceri. Con l’aiuto preziosissimo della dottoressa Livia Bonfrisco, educatrice alla CC di Salerno che ha consentito di risolvere le innumerevoli difficoltà burocratiche, il comandante della Polizia Penitenziaria Carolina Arancio e con il consenso delle direttrici della struttura di Salerno dottoressa Gabriella Niccoli e di quella di Vallo della Lucania dottoressa Caterina Sergio, che hanno compreso l’importanza della convenzione, la Uil Campania ha potuto avviare le attività del patronato Ital. “L’approccio a questa realtà è stata fonte di emozione e riflessione - afferma la segretaria della Uilpa Salerno - Marianna De Martino, chi ha sbagliato è giusto che paghi per il proprio errore, ma è anche giusto che possa redimersi dal proprio errore. E assistere, ascoltare chi ha bisogno del nostro aiuto, trattarli e pensarli come persone, senza pregiudizi, siamo convinti che possa aiutarli anche nel percorso di riabilitazione e di reinserimento nella società. Questo è la Uil, questo significa essere il sindacato delle persone”. Giustizia, istruzione, ricerca: il popolo degli illusi dal Pnrr di Cristina Palazzo La Repubblica, 7 agosto 2025 “Tra un anno finisce tutto”. Decine di migliaia le assunzioni a tempo fatte grazie ai fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza, che però giungerà al termine a metà 2026. In tribunali, scuole e atenei monta l’ansia: “Dateci un futuro”. Lavoratori e ricercatori che con il Pnrr hanno avuto la possibilità di avere un impiego ma che alla sua scadenza rischiano di restare a casa. Illusi dalla possibilità di crearsi una strada verso la stabilizzazione e che ora vedono il loro futuro legato a doppio filo alla lancetta che scandisce il countdown per la fine del Piano nazionale di ripresa e resilienza che, nelle intenzioni iniziali, doveva essere attuato entro il 30 giugno 2026. A un anno da questa data, la preoccupazione di tanti è già alta. Anche perché il Piano ha dato lavoro a tanti, professionisti e consulenti, addetti all’edilizia e infrastrutture, figure legate ai cantieri pubblici, come ingegneri, architetti, geometri spesso chiamati per consulenze. Ma ad avere proprio paura per il proprio futuro è chi con il Pnrr ha avuto l’opportunità di un contratto a tempo determinato in cui ha intravisto la possibilità di un trampolino di lancio verso la tanta agognata stabilità professionale. In primis nel settore della giustizia, quindi addetti all’ufficio del processo o data entry che proprio con i fondi europei sono stati inseriti nei tribunali per soppiantare le carenze gestionali, o il mondo della ricerca universitaria che con il Pnrr ha vissuto un boom di risorse economiche che si è trasformato in un investimento in risorse umane, quindi talenti e cervelli, che in termini numerici non ha precedenti. Ora tutti temono che il Piano nazionale di resistenza e resilienza sia un’illusione. E una parte ha già iniziato a fare concorsi pubblici in altri ambiti pur di ottenere stabilità. Nel mondo della giustizia, dal 2022 al 2024 in tutta Italia sono stati 12mila i nuovi assunti, di questi solo in Piemonte con il Pnrr sono stati inseriti in organico 661 addetti all’ufficio del processo, di cui oltre la metà a Torino e 159 operatori data entry, anche qui la metà nel capoluogo sabaudo. E ancora 55 tecnici di amministrazione. “Figure che non sono previste nella pianta organica del ministero della Giustizia. C’è un piano strutturale ma prevede la stabilizzazione di 6mila precari italiani, la metà del totale, ma addirittura nella legge di bilancio sono stati stanziati i fondi solo per 3mila persone”, precisa Lucrezia Meini, rappresentante sindacale della Corte d’Appello. I dubbi, spiega, sono tanti: “Chi sarà stabilizzato? Ci sarà un concorso ma con quali criteri? Titoli? Anzianità? Performance? E non so quanti di questi in Piemonte, dove continuano a scorrere le graduatorie e i precari aumentano”. Torinese di 28 anni, Meini racconta che, come tanti colleghi, ha scelto di fare il concorso appena laureata “perché c’era un punteggio più alto se avevi appena terminato gli studi, inoltre per noi laureati in giurisprudenza il mondo del lavoro non è facile, gli studi di avvocati non pagano abbastanza e oramai gli sbocchi nel privato sono pochi”. Quei punti aggiuntivi per i giovani, precisa, “ci hanno fatto credere che il bando Pnrr fosse pensato per agevolarci nell’ingresso e per poi essere integrati, ma a oggi, un anno prima, non ne sappiamo nulla. E molti di noi, senza una prospettiva, sono ancora costretti a vivere con le proprie famiglie. La precarietà logora le persone, alcuni colleghi stanno male, vanno in psicoterapia o addirittura prendono farmaci perché la paura di perdere il lavoro non ti abbandona mai. Io per reagire sto trasformando tutto questo in energia positiva e mi batto per farci ascoltare”. Trema anche il mondo della ricerca universitaria. Per l’associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani, “il Pnrr in questi anni ha rappresentato una dose di morfina nel sistema: miliardi di euro utilizzati per coprire il sottofinanziamento strutturale del sistema italiano, investiti in infrastrutture e personale precario, quindi dottorandi, assegnisti, Rtda, ossia ricercatori a tempo determinato di tipo A”, sottolinea Irene De Blasi, ricercatrice dell’Università di Torino e vicesegretaria nazionale di Adi, associazione dottorandi italiani. Proprio la loro indagine nazionale, aggiunge, “mostra come più dell’85% del personale precario in università finirà il contratto entro un anno: senza un investimento serio a favore di reclutamenti stabili, queste persone, dopo anni di ricerca e specializzazione di altissima eccellenza, non avranno una prospettiva. Questo impatta anche sull’efficacia stessa del Pnrr, poiché larghissima parte delle risorse investite risulterà, nei fatti, dispersa. Piuttosto che investire in migliaia di posizioni precarie sarebbe stato meglio impiegare i grossi finanziamenti del Piano con contratti in tenure track, suscettibili di trasformarsi in posizioni stabili a tempo indeterminato”. Parlano quindi di un Pnrr che rischia di “trasformarsi in una vera e propria bomba a orologeria sociale”. Solo a Torino, tra l’Università di Torino e il Politecnico sono circa 2.500 i dottorandi e gli assegnisti di ricerca. Dato che è quindi destinato a calare con la fine del piano. “Impossibile per noi dire quanti di questi sono a rischio con la fine del Pnrr perché siamo tutti precari e quindi siamo tutti a rischio ma il discorso da fare è ben più ampio”, racconta Eleonora Priori di Assemblea precaria. “Il problema non è che il Pnrr ha distribuito fondi “creando illusioni” ma il fatto stesso che quei fondi mancavano e ancora sono insufficienti. Servono delle forme strutturali di finanziamento alla ricerca per stabilizzare tutti i precari: le università sono in strutturale carenza di numeri e hanno bisogno come il pane del lavoro che facciamo, i rettori lo sanno, devono capirlo anche alo ministero”. A livello nazionale i ricercatori a tempo determinato assunti con i fondi Pnrr hanno scritto al governo, quindi alla presidente Giorgia Meloni e alla ministra Bernini, per avere prospettive sul futuro. Tra i firmatari ci sono anche ricercatori da Torino, che segnalano il loro stato di incertezza, visto che i contratti si avvicinano alla fine, e il timore di dover “investire all’estero le competenze che abbiamo maturato o di dover abbandonare il percorso accademico”. Tra i banchi di scuola il Pnrr è diventato sinonimo di “opportunità di stabilizzazione, ma senza che ci sia trasparenza o chiarezza”, tuona Giulia Bertelli della Cub Scuola. Con il Piano, il ministero ha indotto due concorsi diversi, oramai per tutti noti come Pnrr1 e Pnrr2. Il primo è stato bandito per 44.654 nuovi docenti di ruolo, tra posto comune e sostegno, riuscendo a raggiungere il target di 20mila reclutamenti entro il 2024 richiesto dall’Europa. Invece con il Pnrr 2 i posti banditi sono 3059 per la scuola secondaria e 3060 per infanzia e primaria, sia per posto comune che per il sostegno. Questo si è tradotto in Piemonte con 22mila candidature nel primo concorso per ambire a 4.137 posti tra infanzia e superiori mentre il concorso Pnrr 2 ha visto 1.803 posti a disposizione per circa 15mila candidati. Quindi circa 6mila nuove cattedre di ruolo per professori. Un numero che ha fatto esultare molti ma ha scatenato anche critiche per le modalità. “I concorsi sono un’occasione importante per i precari ma devono rispettare anche chi, già vincitore di concorso in passato, è in graduatoria in attesa di stabilizzazione. Invece con il Pnrr non è così. Inoltre non ci sono delle graduatorie pubblicate che permettano di capire punteggi e posizioni raggiunte e questo vuol dire dare vita a operazioni poco trasparenti e rispettose di chi aspetta di avere finalmente la cattedra di ruolo che si è meritata”. Dalle corsie d’ospedale alle celle del carcere, la scuola non si ferma di Andrea Carlino orizzontescuola.it, 7 agosto 2025 Il piano da 45 milioni di Valditara per portare istruzione e futuro dove il diritto allo studio è più fragile e a rischio. Il Ministero dell’Istruzione e del Merito ha destinato 45 milioni di euro per rafforzare il diritto allo studio degli studenti che si trovano in condizioni di particolare vulnerabilità. Con la firma di due decreti specifici da parte del Ministro Giuseppe Valditara, si è dato il via a un importante stanziamento di fondi: 25 milioni saranno indirizzati alla scuola in carcere, mentre 20 milioni andranno a beneficio dell’istruzione domiciliare e ospedaliera. L’obiettivo primario è quello di potenziare l’offerta formativa per gli alunni in stato di restrizione o fragilità, garantendo continuità e qualità al loro percorso educativo. Il Ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, ha sottolineato l’importanza di un sistema scolastico che non lasci indietro nessuno. “Garantire il diritto allo studio significa non lasciare indietro nessuno e assicurare a ogni studentessa e a ogni studente in condizioni di fragilità o restrizione la possibilità di proseguire il proprio percorso formativo”, ha affermato. La visione ministeriale punta alla creazione di una scuola flessibile, capace di modellarsi sulle necessità specifiche di ciascuno. Si mira a realizzare ambienti di apprendimento innovativi e a sviluppare un’istruzione personalizzata, costruendo percorsi didattici “su misura” anche per chi frequenta le lezioni tra le corsie di un ospedale o all’interno di un istituto penitenziario. “Si tratta di un segnale concreto dell’attenzione che questo Governo riserva agli studenti in condizioni particolari, affinché il diritto allo studio sia effettivamente garantito a tutti, senza eccezioni”, dichiara Paola Frassinetti, Sottosegretario all’Istruzione e al Merito, sottolineando come “sia fondamentale offrire percorsi personalizzati e ambienti di apprendimento innovativi anche per chi vive situazioni di degenza o restrizione. Nessuno deve essere lasciato indietro, la scuola deve essere sempre un presidio di inclusione e riscatto”. Fondi europei e nazionali per progetti futuri Le risorse economiche stanziate provengono da due canali di finanziamento distinti ma complementari. Una parte deriva dal Programma Nazionale “PN Scuola e Competenze” 2021-2027, mentre la restante quota è attinta dal Programma operativo complementare al PON “Per la Scuola” 2014-2020. Grazie a questi fondi, sarà possibile allestire spazi didattici tecnologicamente avanzati e implementare metodologie didattiche all’avanguardia. Il Ministero dell’Istruzione e del Merito ha annunciato che pubblicherà a breve un avviso pubblico per raccogliere le proposte progettuali direttamente dalle istituzioni scolastiche, che saranno le protagoniste di questa nuova fase di inclusione. Caso Almasri, ora il Governo dovrà resistere a due lunghi mesi di assedio di Simona Musco Il Dubbio, 7 agosto 2025 Prevista a settembre la relazione della giunta per l’Aula. Meloni al Tg5 attacca: “Disegno politico intorno ad alcune decisioni sull’immigrazione”. Dopo i feroci attacchi seguiti all’invio degli atti al Tribunale dei Ministri, difficile, all’esito della lettura della richiesta di autorizzazione a procedere, attribuire al procuratore di Roma, Francesco Lo Voi, l’intento di colpire per via giudiziaria il governo. Compare alle prime pagine del documento, infatti, la sua richiesta di archiviazione non solo della premier Giorgia Meloni - poi effettivamente archiviata - ma anche, seppur in parte, per gli altri indagati. Lo Voi aveva proposto il proscioglimento per tutti dal peculato, e per il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi anche dal reato di favoreggiamento. Di fronte ai dubbi sui tempi - martedì sera molti avevano criticato il ritardo nella trasmissione degli atti - Lo Voi ha chiarito di aver impiegato solo 24 ore, necessarie per leggere tutto e sistemare il fascicolo da mandare alla Camera. Un timing più che ragionevole. È il presidente dei senatori di Forza Italia, Maurizio Gasparri, a trascinarlo di nuovo nell’arena e a rilanciare il refrain più efficace degli ultimi 30 anni: “Non è vero che Lo Voi ha agito fuori tempo - ha dichiarato -. La sua azione è in perfetto sincronismo con la tradizione dell’uso politico della giustizia. Accuse infondate a politici del centrodestra per montare campagne politiche. È chiaro a tutti. Pertanto nessun ritardo. Ma una tempistica consueta e ben conosciuta”. Niente da fare, dunque. Il procuratore è tornato ad essere il bersaglio numero uno, nell’ottica di una strategia comunicativa che mira a spostare l’attenzione sul tema principale: la politicizzazione della magistratura. Che Lo Voi - tradizionalmente non una toga rossa - ha sempre negato. Lo scontro tra toga e politica è feroce. E in serata è anche Meloni, dal Tg5, a rilanciarlo, anche se usando un argomento collaterale alla vicenda Almasri. “Io vedo un disegno politico intorno ad alcune decisioni della magistratura particolarmente quelle che riguardano i temi dell’immigrazione come se in qualche maniera ci volesse frenare la nostra opera di contrasto all’immigrazione illegale - ha affermato -. Ciononostante i flussi di immigrati illegali in Italia sono diminuiti del 60% e lavoriamo per fare ancora meglio”. Dato che pare esagerato, stando ai report del Viminale. Poco importa: è un tiro al bersaglio. Sul suo setaccio di Lo Voi erano rimasti solo il sottosegretario Alfredo Mantovano e il ministro della Giustizia Nordio. Le giudici, però, lo hanno seguito solo su Meloni, attribuendo un preciso peso penale a scelte pure politiche che il governo aveva però rappresentato in maniera diversa al Parlamento, giustificandole come frutto di presunti cavilli che avrebbero impedito di dare seguito alla richiesta della Cpi. Si tratta di questioni che un eventuale processo avrebbe potuto chiarire - come avvenuto con Matteo Salvini nel caso Open Arms - ma che qui sono destinate a sfumare di fronte al prevedibile rifiuto dell’Aula di autorizzare il procedimento nei confronti di mezzo governo. Rimane in sospeso il ruolo di Giusi Bartolozzi, capo di Gabinetto, la cui versione è stata definita dal Tribunale “inattendibile” e “mendace”. Parole dure, che sembrano prefigurare una possibile trasmissione di atti alla procura ordinaria, per ora non confermata ma evocata da molti, forse anche per infastidire - riuscendoci - Nordio. Qualora finisse sotto indagine, il suo destino sarebbe diverso da quello dei politici, non essendo necessaria alcuna autorizzazione. E questo significherebbe mettere concretamente sotto accusa il braccio operativo del ministro, la funzionaria a lui più vicina e sicuramente quella di cui si fida di più. Il leader di Italia viva, Matteo Renzi, ne approfitta subito per ribaltare lo slogan tanto caro alla maggioranza: altro che toghe rosse, il problema sarebbero le “toghe brune”. “Se Giorgia Meloni crede davvero nella separazione delle carriere - ha dichiarato su X - dovrebbe iniziare a separare le carriere dei politici da quelle dei magistrati. Sulla vicenda Almasri, i tre magistrati Mantovano, Nordio e Giusy Bartolozzi stanno trascinando il governo in uno scandalo senza precedenti. Non mi interessano i profili giudiziari: mi basta constatare che siamo governati da dilettanti allo sbaraglio. Meloni non tocca palla: fa la bella statuina, prepara i tweet e i post, viene bene in foto. Chi governa questo Paese sono magistrati, toghe brune, che usano i servizi segreti e le istituzioni come milizie private”. E si è rammaricato, l’ex premier, che lo scenario del dibattito sia la Camera, non il Senato, dove avrebbe potuto incalzare il governo. Ora sarà l’Aula a stabilire i contorni - letteralmente - del “politicamente corretto”. “La valutazione - aveva d’altronde dichiarato Bartolozzi al Tribunale dei Ministri - era prima di tutto politica”. È proprio ciò che le opposizioni chiedono venga ammesso, invocando una spiegazione plausibile a fronte delle “bugie”, affermano, degli esponenti coinvolti. Ma al di là del perimetro autorizzativo, la situazione espone il governo e la sua politica giudiziaria - protagonista assoluta della stagione - a due mesi di attacchi serrati, proprio mentre la riforma della separazione delle carriere avanza verso il referendum della prossima primavera. Il primo atto della Giunta per le autorizzazioni presieduta da Devis Dori sarà la nomina di un relatore. Poi, nei primi giorni di settembre, inizieranno le sedute, durante le quali “inviteremo anche i due ministri e il sottosegretario a rendere chiarimenti”, ha spiegato Dori. Entro la fine di settembre sarà pronta la relazione per l’Aula - basata su 1300 pagine di allegati - con tre voti distinti: palesi in Giunta, segreti in Aula, che si esprimerà definitivamente entro ottobre. In questo lasso di tempo, Meloni e i suoi dovranno respingere il fuoco delle opposizioni. Che puntano non solo a chiedere conto dei rapporti con la Libia - “il governo italiano ha fatto patti con i trafficanti di esseri umani”, dice Angelo Bonelli di Avs - ma anche a ingrossare la percentuale dei contrari alla separazione delle carriere, attraendo gli indecisi. La strategia della premier, per ora, è quella di rivendicare la responsabilità politica dell’azione dei suoi ministri, compattando il governo. “Non sono Alice nel Paese delle Meraviglie - ha dichiarato sempre al Tg5 -, sono il capo del governo e non sono neanche, diciamocelo, un Conte qualsiasi che faceva finta di non sapere che cosa facesse il suo ministro degli Interni”. La replica del leader 5 Stelle non si è fatta attendere. “Non sono certo una Meloni qualsiasi. Lei è ricattabile?” - ha risposto con un video su Facebook -. Il governo ha mentito anche al Parlamento, fornendo 5, 6, 7 versioni diverse per quanto riguarda le ragioni che hanno portato a offrire un salvacondotto a chi è accusato di stupri di bambini e di crimini contro l’umanità. Non ci è ancora chiaro perché lo hanno fatto”. Il piano è tutto politico. “L’archiviazione - tuona Nicola Fratoianni - non cancella le sue responsabilità politiche, al pari degli altri”. La destra, però, è di tutt’altro avviso. A ribadirlo è ancora Gasparri: “Tutto finirà nel nulla, perché le accuse sono infondate. La giusta e sacrosanta azione del governo sarà salvaguardata”. È una guerra tra toghe e politica. Ed è appena cominciata. La vera posta in gioco dell’affaire Almasri: gli accordi con la Libia sull’immigrazione di Paolo Delgado Il Dubbio, 7 agosto 2025 Il Governo invoca la tutela della sicurezza nazionale ma glissa sul contenuto delle intese con Tripoli. Nelle 91 pagine stilate dal Tribunale dei Ministri per sostenere la richiesta di autorizzazione a procedere contro due ministri e un sottosegretario che pesa più di quasi tutti i ministri, quel che colpisce è la sostanziale sintonia con la più concisa e furibonda replica di Giorgia Meloni. La premier difende e rivendica “la correttezza dell’operato dell’intero Esecutivo”, cioè la liberazione di Almasri, in quanto dettata dalla “tutela della sicurezza degli italiani”. Secondo i giudici i ministri Pantedosi e Tajani, il sottosegretario Mantovano, i capi della polizia e del Dis Pisani e Rizzi avrebbero in apposito vertice sottolineato la preoccupazione per “possibili ritorsioni libiche”. Il governo avrebbe pertanto effettivamente deciso di liberare Almasri per “tutela la sicurezza”, in particolare dei 500 italiani residenti in Libia, a maggior ragione essendo allora recente il caso dell’arresto in Iran della giornalista Cecilia Sala. La preoccupazione del governo non si limitava alla sorte di quei 500 concittadini. Altrettanta se non maggiore ansia provocavano le possibili rappresaglie sull’economia e in particolare sullo stabilimento Eni- National Oil di Mellitah. Anche l’energia e i suoi prezzi, in fondo, sono questione di sicurezza nazionale. Non si capisce bene perché il Tribunale definisca “irrazionale” la scelta del governo che, casomai, può essere accusata di eccesso di realpolitik ma appare assolutamente razionale. Meno razionale è invece l’assoluta assenza nel documento degli accordi con la Libia sull’immigrazione. Che siano stati citati o meno è comunque certissimo che la preoccupazione per la sorte di quegli accordi e per le possibili rappresaglie libiche declinate in barconi fosse a livello di allarme rosso acceso. La più temuta reazione di Tripoli era probabilmente proprio l’allentamento della sorveglianza sulle partenze e la possibile rimessa in discussione dell’intesa (siglata per primo dal ministro Pd Minniti) in base alla quale la guardia costiera libica fa per contro nostro gran parte del lavoro sporco e soprattutto sanguinoso. Il dossier del Tribunale dei Ministri smantella le risibili giustificazioni addotte, spesso con dovizia di contraddizioni, da Nordio e Piantedosi, secondo cui a imporre la rimessa in libertà dell’aguzzino erano stati soli anonimi vizi di forma. Ma non contrasta affatto con la versione fornita, dopo la richiesta di rinvio a giudizio, dalla premier. Anzi, i magistrati si premurano di specificare che spetta al Parlamento “valutare la rilevanza di eventuali ragioni politiche poste a fondamento delle condotte degli indagati, sì da incidere sul rilascio dell’autorizzazione a procedere”. Gli stessi magistrati, dunque, riconoscono la possibilità che la decisione “irrazionale” sia stata presa in nome dell’interesse di Stato. Non ci sono dubbi sulle mosse sgangherate con le quali il governo ha sin qui reagito allo scandalo. Non ha apposto il segreto di Stato, probabilmente per paura di indicare così l’esistenza di accordi poco confessabili con i signori della guerra libici. Ha cercato alibi e giustificazioni risibili, di nuovo per non confessare quali interessi erano in ballo. La premier non si è mai espressa personalmente in Parlamento, spalleggiando così la pirotecnica girandola di ricostruzioni addomesticate dei suoi ministri. Ma al netto di questi clamorosi strafalcioni resta il fatto che la vicenda non si può ridurre alla complicità di un governo nell’evasione di un lestofante. In ballo c’è la politica e all’opposizione converrebbe riconoscerlo invece di ridurre tutto a una questione di codici trasgrediti. Sulla politica il governo e chi lo guida andrebbero incalzati, costringendoli a fare chiarezza una volta per tutte sugli scellerati e oscuri accordi che legano l’Italia alla Libia. Il piglio mussoliniano dell’ormai celebre post della premier non deve trarre in inganno. Giorgia Meloni afferma combattiva che rivendicherà l’operato del governo sedendosi a fianco dei ministri contro i quali è richiesta l’autorizzazione a procedere quando la Camera, in ottobre, discuterà la vicenda. Ma se la scelta fu politica e se di quella scelta il capo del governo è primo responsabile, come la stessa premier afferma, il suo posto non è seduta accanto ai ministri ma di fronte al microfono: è lei che deve spiegare e assumersi così non solo sulla carta la responsabilità delle decisioni prese. Né ci si può accontentare della versione per cui in ballo c’era solo la sicurezza degli italiani in Libia, essendo invece chiaro che la posta in gioco era più alta e molto meno ammissibile. Su questo un’opposizione politica dovrebbe saper dare davvero battaglia. L’Aja offrì il suo aiuto per l’arresto, ma a Roma hanno fatto finta di niente di Mario Di Vito Il Manifesto, 7 agosto 2025 Un “pasticcio frettoloso di cui chiederò chiarimenti”. Era lo scorso 5 febbraio quando, prima alla Camera e poi al Senato, il ministro della Giustizia Carlo Nordio, con la modestia che lo contraddistingue, così bollava le carte della Corte penale internazionale su Osama Almasri. Un testo pieno di errori e incongruenze, disse il ministro, per giunta scritto in inglese, “un complesso carteggio” difficile da decodificare. Per questo - anche per questo - le interlocuzioni con la Corte d’appello di Roma, durante le 48 ore di fermo del boia libico, sono state pressoché assenti. E però una via d’uscita c’era e l’aveva offerta direttamente la Cpi in maniera piuttosto esplicita. La ricostruzione è nelle 92 pagine con cui il tribunale dei ministri chiede l’autorizzazione a procedere per Mantovano, Piantedosi e per lo stesso Nordio. La prima richiesta di cooperazione era stata formalmente inviata già venerdì 18 gennaio al magistrato di collegamento all’Aja Alessandro Sutera Sardo che poi l’aveva trasmessa al consigliere diplomatico Augusto Massari e all’ambasciatore Giorgio Novello. È da questo momento che l’Italia deve ritenersi informata della vicenda. In fondo alle carte della Cpi vengono indicati due nominativi a cui rivolgersi “per qualsiasi comunicazione e domanda”: Nayeer Nolte e Rod Rastan. Alle 13 e 57 di lunedì 20 gennaio, Nolte scrive al ministero della Giustizia un’email in inglese nella quale si dichiarava disponibile a “discutere le procedure applicabili” e proponeva di svolgere una call per le 15 dello stesso giorno. Nulla accade e alle 23 e 05 si fa allora vivo sempre via email, Rod Rastan, capo della sezione di supporto alla cooperazione giudiziaria della Cpi. Dice che invierà a breve la traduzione in italiano del mandato e chiede di sapere data e orario dell’udienza di Almasri. Infine ribadisce la disponibilità “a fornire assistenza in qualsiasi modo, anche tramite la presenza fisica durante la procedura di consegna nazionale”. Le ore passano, l’avvocato del libico presenta istanza di scarcerazione, la decisione della Corte si avvicina e da via Arenula continua a non farsi sentire nessuno. Alle 15 e 50 del 21 gennaio, Rastan scrive di nuovo all’ambasciatore Novello e ribadisce l’offerta di “supporto” in qualsiasi forma necessaria, aggiungendo che, se serve, all’Aja possono “coordinare i successivi passaggi procedurali concernenti l’arresto e la consegna” di Almasri. Scrivono a questo proposito le magistrate del tribunale dei ministri: “A tali richieste non è stato dato alcun seguito, ad eccezion fatta della risposta meramente diplomatica, inviata alle ore 15 e 57 del 21 gennaio, dall’ambasciatore, che ringraziava Rastan dellla gentile email, di cui aveva preso debita nota e della sua disponibilità”. Com’è finita si sa: Almasri è stato liberato e riaccompagnato a Tripoli. E la procura della Cpi vuole deferire l’Italia davanti all’Onu per la sua palese mancanza di cooperazione. Gestione dei migranti, troppe zone grigie di Fabrizia Giuliani La Stampa, 7 agosto 2025 È un groviglio intricato, il caso Almasri. Una storia lunga e terribile che coinvolge Paesi diversi e vede il nostro protagonista, una storia che ha al centro i diritti umani - la loro programmatica e sistematica violazione - la giustizia fino al livello della Corte penale internazionale, la politica - estera e interna - e le istituzioni. Una storia documentata, di cui cominciamo a sapere molto, ma ancora segnata da zone grigie, interrogativi inevasi. Una storia ancora in fieri, segnata fin dall’inizio da scontri aspri tra i Paesi coinvolti ma non solo. Come emerge in queste ore, il conflitto più duro è quello interno ed è di natura istituzionale, investe il rapporto tra governo e magistratura. La fibrillazione che ne deriva si riflette nello scontro politico ma soprattutto nello sconcerto della società civile. Perché il merito, che in questa vicenda sembra il fanalino di coda, pesa. Ed è esattamente il filo che non si deve smarrire per venirne a capo e capire cosa è in gioco in questa storia, tra ciò che vediamo e ciò che non riusciamo a distinguere perché in certe zone d’interesse la luce non arriva mai. Ma ripartiamo dall’inizio, ossia dal gennaio scorso, quando la Corte penale internazionale dell’Aja spicca un mandato d’arresto per il generale libico Nijeem Osama Almasri, capo della polizia giudiziaria libica, per crimini di guerra e contro l’umanità commessi nella prigione di Mittiga dal febbraio 2011. In quel carcere sotto il suo comando sarebbero stati commessi uccisioni, stupri e torture che non hanno risparmiato nemmeno i bambini. Almasri è in Europa, in quei giorni, le ricostruzioni segnalano un primo viaggio a Londra, con scalo a Fiumicino, poi Bruxelles, Monaco e Torino, dove va per vedere la Juventus e dove viene fermato e arrestato. Due giorni dopo viene rilasciato un errore di procedura: l’Aja non aveva trasmesso gli atti per tempo al Guardasigilli. Almasri torna con un volo di Stato in Libia: l’immagine del largo sorriso all’atterraggio a Tripoli e della piccola folla in festa sono sui siti di tutto il mondo. Il rimpatrio del comandante produce un moto di proteste, insorge l’opposizione e la Cpi. Il governo parla invece di espulsione, provocata dalla “pericolosità del soggetto” e polemizza con l’Aja. La procura di Roma apre un’inchiesta che investe la premier e il governo - Piantedosi, Nordio e Mantovano - accusati di favoreggiamento e peculato. E siamo all’oggi: l’archiviazione di Meloni che difende i membri del governo, assumendosi ogni responsabilità. Il merito, dicevamo. Lo ha mostrato ieri Camilli su queste pagine, raccogliendo la testimonianza di Lam Magok, rifugiato originario del Sudan, costretto per 5 anni nelle carceri libiche, che porta sul corpo i segni della prigionia a Mittiga e degli abusi di Almasri. Come altri, si chiede cosa ne è della giustizia, davanti alla scelta del rimpatrio. Se lo chiedono in molti, davanti alle zone oscure della Realpolitik e alle scelte del governo. Ma il punto che Magok mostra è che non usciamo dai grovigli, dalle ambiguità, dalla debolezza nazionale - chiamiamola per nome - finché non si affronta con chiarezza la questione migratoria. Questo è l’elefante nella stanza, il nodo politico tenacemente ignorato, la radice della fragilità. Sarebbe tempo di comprendere che non possiamo più permetterci di farlo, che piegare il tema alla sola logica del consenso va contro l’interesse nazionale, ci rende ostaggi. Se le zone d’ombra un tempo erano tollerate, accettate, oggi non lo sono più: l’opinione pubblica riconosce il merito e rifiuta di arretrare nella difesa nell’umanità. Migranti. Torture e stupri nei campi libici: parlano le vittime di Almasri di Daniela Fassini Avvenire, 7 agosto 2025 La giovane ivoriana Mariam: “Lui e i suoi uomini mi hanno stuprato ogni notte per un anno, voglio giustizia”. L’avvocata: “Presto un esposto alla Procura contro l’archiviazione della premier”. La stupravano ogni notte, all’interno della prigione di Mitiga, in Libia. Lo facevano a turno: prima lui, il generale Almasri e poi tutti gli altri suoi uomini. Oggi Mariam (nome di fantasia per garantirne la privacy, ndr) è in Italia, ha un lavoro e cerca di farsi una nuova vita. Ma è difficile, ogni notte, rivive lo stesso incubo. “Mi dice che non si sente donna, è una persona distrutta: dalla testa ai piedi”, spiega la sua legale, l’avvocata Angela Maria Bitonti che lo scorso febbraio ha depositato alla Procura della Repubblica di Roma una denuncia in cui si ipotizzano “reati di omissione e favoreggiamento” contro lo Stato italiano per la vicenda di Njem Osama Almasri, il capo della polizia libica inseguito da un mandato di arresto della Corte penale internazionale e a gennaio riportato in Libia a bordo di un volo di Stato. “Presenteremo un esposto alla Procura di Roma contro l’archiviazione della premier sul caso Almasri. Giorgia Meloni ha, infatti, detto di aver condiviso le decisioni”, aggiunge in merito all’archiviazione di Giorgia Meloni da parte del Tribunale dei ministri. “Aspettiamo anche le decisioni parlamentari sull’autorizzazione a procedere nei confronti dei due ministro e del sottosegretario - dice - Se non dovesse arrivare il via libera, valuteremo quali azioni mettere in campo”. Intanto non nasconde la soddisfazione. “È stata fatta chiarezza- aggiunge - qualcuno è responsabile di quello che è accaduto”. Mariam non chiede risarcimenti danni, ma vuole giustizia. “È una persona che va protetta perché è testimone di crimini contro l’umanità. È arrivata in Italia su un gommone: era riuscita a scappare dalla prigione scavando un buco, giorno dopo giorno, con una pietra, insieme a un’altra ragazza che aveva subito come lei tutti quegli abusi. Sono partite su due gommoni diversi, lei è arrivata in Italia. Dell’altra ragazza non si sa più nulla, forse è stata vittima di un naufragio”. “Faremo, inoltre, una nuova istanza per visionare gli atti visto che la precedente è stata rigettata in quanto la mia assistita è stata considerata una vittima indiretta”, aggiunge la legale. “Non condividiamo questa visione - sottolinea - riteniamo sia una vittima diretta perché il rimpatrio di Almasri e la mancata consegna alla Corte penale internazionale non consente il processo. Significa aver impedito alle vittime di crimini cosi atroci di ottenere giustizia”. Ma Mariam non è l’unica vittima che ha denunciato prima la liberazione e poi il ritorno in Libia di Almasri con un volo di Stato italiano. “È stato sorprendente, per me, in quanto vittima, sapere dell’archiviazione della Presidente Meloni da un post su Facebook”, esordisce Lam Magok, anche lui arrivato in Italia dal Sud Sudan con un barcone partito dalla Libia dove era stato detenuto per diversi mesi nel centro gestito dal generale Almasri. Il giovane sudanese lo scorso febbraio ha denunciato il governo italiano per favoreggiamento. E oggi non nasconde la rabbia. “Vorrei che venissero in tribunale a spiegarmi tutto questo. Essere vittima di tortura è un incubo che torna tutte le notti. Leggere in quel post che la leader di un paese democratico rivendichi di aver coperto un criminale come Almasri, mi spaventa e mi addolora”. Lam accusa l’Italia di inadempienza per la mancata esecuzione del mandato di arresto nei confronti di Osama Elmasri (detto Almasri) e per il suo trasferimento in Libia a bordo di un volo di Stato. Anche David Yambio, sudanese di 27 anni, attivista dell’Ong Sea Watch e portavoce di Refugees in Libya è stato torturato dal generale Almasri. “Nel novembre 2019 sono stato catturato nel Mediterraneo e riportato in Libia - racconta David -. Sono stato messo in un centro di detenzione. In seguito, sono stato trasferito ad Al-jadida, dove comandava Almasri e dove mi ha torturato personalmente. Da lì sono stato portato alla base aerea di Mitiga, dove ho assistito a molte atrocità che non posso descrivere. Oggi molti di noi si pongono domande sul perché il governo italiano abbia lasciato andare un criminale ricercato dalla Corte penale internazionale. Lo ha fatto. Perché l’Italia ha tradito lo Statuto di Roma?”, chiede. Lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale, chiamato anche Statuto di Roma, è il trattato internazionale istitutivo della Corte penale internazionale. Proprio quella Corte che dovrebbe giudicare i crimini commessi da Almasri.