L’emergenza carceri e l’atteggiamento di chiusura demagogica del Governo di Francesco Compagna Il Foglio, 6 agosto 2025 L’emergenza carceri rivela l’anima più identitaria e demagogica dell’Esecutivo. Nel passaggio dall’opposizione al governo, Fratelli d’Italia ha moderato il suo profilo su economia e politica estera, ma non sulla giustizia. I mille giorni dall’insediamento dell’esecutivo Meloni, due settimane fa, sono stati l’occasione per discuterne, da angolature diverse, meriti, colpe e limiti. E a prescindere dagli opposti punti di vista, è parso a tutti evidente che il passaggio dall’opposizione al governo abbia coinciso, per Fratelli di Italia e per la sua indiscussa leader, con un approccio più pragmatico e meno ideologico su due questioni di enormi rilievo politico, quali la stabilità finanziaria del paese e la sua politica estera. Per estremo paradosso è invece proprio sul tema della giustizia penale e delle libertà individuali che la scelta di un ministro apparentemente estraneo all’humus ideologico della destra italiana si è purtroppo accompagnata a un deprecabile rafforzamento della sua deriva identitaria. E così, il progressivo passaggio da una vera e propria propaganda antieuropea a un “europeismo critico” è rimasto sorprendentemente sordo rispetto al riconoscimento dei valori e dei princìpi scolpiti nelle costituzioni nazionali, ancor prima che nella convenzione europea sui diritti dell’uomo e del cittadino. Al continuo proliferare di nuovi reati, di nuove aggravanti e di nuove misure di sicurezza, si sono da ultimo aggiunte anche le più fragorose assurdità del dl Sicurezza, che definisce quale rivolta in carcere anche il semplice inadempimento di un ordine e che esclude qualsiasi alternativa alla detenzione per l’inafferrabile delitto di “istigazione a disobbedire alle leggi”. Sullo sfondo, c’è l’idea che si debbano rafforzare con ogni mezzo i poteri della polizia, proprio in quanto agevolmente controllabile dal governo e sufficientemente incline ad assecondarne le esigenze politiche del momento. In questo quadro, più dei timidi distinguo di Forza Italia, a squarciare il velo di demagogia che accompagna la criminalizzazione degli “avversari” (immigrati, manifestanti, detenuti) sono però intervenute le lettere da Rebibbia di Gianni Alemanno, grazie alle quali la destra post missina è stata improvvisamente chiamata - quasi senza accorgersene - a mettersi nei panni dell’altro. Sì, perché rispetto al cittadino comune il detenuto è “altro” per eccellenza: come lo straniero, come il diverso, il detenuto incarna tutto ciò che si pensa di non poter assolutamente essere. Ed è proprio per difendere chi appare “altro” rispetto agli interessi di una determinata comunità sociale che si è giunti nei secoli ad affermare alcuni diritti inalienabili, che fanno da specchio alla dignità umana. Per questo motivo, è stato allora profondamente sbagliata - da parte del governo - la scelta di selezionare i garanti nazionali dei detenuti secondo criteri di appartenenza partitica, piuttosto che per la loro competenza o sensibilità in materia, ed è stato poi ancor più grave lasciare serenamente al suo posto un sottosegretario che a quei detenuti vorrebbe togliere persino il respiro. Nelle ultime settimane gli interventi sul tema del presidente del Senato hanno avuto allora il merito di innescare un nuovo dibattito sul sovraffollamento carcerario. È ancora troppo presto per illudersi, perché nemmeno le iniziative di Papa Francesco e le parole del presidente della Repubblica hanno finora consentito di superare quell’atteggiamento di chiusura demagogica, ancora prima che ideologica, che ha sinora permeato l’approccio governativo. E perché l’istituzione di una commissione, come sa bene il ministro della Giustizia che ne è stato di recente il promotore, è spesso il modo migliore per procrastinare in incertum la soluzione di un problema urgente. Vale però la pena di sperarci perché l’argomento carcere resta la cartina di tornasole della cultura dei diritti e della credibilità dello stato. I dem e il “metodo Giubileo”: sì al dialogo sul Piano carceri di Andrea Bulleri Il Messaggero, 6 agosto 2025 Proposta bipartisan in Senato. Verini (Pd): “Sì a procedure sprint e cabina di regia per i penitenziari, ma agire subito”. Anche Calenda apre. Il governo lancia la palla, Pd e Azione rispondono. L’idea di estendere il “metodo Giubileo” anche al piano carceri, lanciata sul Messaggero dal sottosegretario di Palazzo Chigi Alfredo Mantovano e apprezzata anche da Pier Ferdinando Casini, trova sponde nelle opposizioni. “Facciamolo, ma facciamolo seriamente”, è la replica, di fronte alla proposta di una cabina di regia che coordini i vari enti che si occupano della gestione di detenuti e penitenziari. Obiettivo: accelerare le procedure, far ripartire i progetti fermi nel cassetto in attesa delle autorizzazioni. Insomma “abbattere le barriere burocratiche con poteri in deroga”, per usare le parole di Mantovano. Un po’ come si è fatto a Roma in occasione dell’Anno santo, con un tavolo di raccordo a Palazzo Chigi tra le molte istituzioni coinvolte che ha permesso (per esempio) di chiudere a tambur battente il cantiere di Piazza Pia. Un modello esportabile, per gestire un’emergenza con cui tutti i governi hanno dovuto fare i conti come quella carceraria? “Sì, sarebbe auspicabile”, risponde Walter Verini, senatore dem da anni in prima linea sul fronte delle condizioni dei detenuti. “Le carceri rappresentano un grande problema nazionale, che riguarda non solo chi sta dentro, ma anche chi sta fuori. Se chi sconta la pena è trattato umanamente, più difficilmente tornerà a delinquere una volta espiato il proprio debito”. Il punto però per Verini è fare in fretta. “Il metodo Giubileo va applicato hic et nunc, subito, perché è in questo momento che le carceri stanno esplodendo”. Verini di recente ha visitato il penitenziario delle Sughere di Livorno, “una muffa con celle senza docce”, e il carcere di Terni, “dove con 40 gradi non arriva l’acqua”. Dunque, è l’appello, “noi siamo pronti ma vogliamo risposte da parte del governo, e le vogliamo subito, domani mattina”. Verini ne è convinto: “Se si vuole si può agire in quindici giorni. Con una cabina di regia al ministero della Giustizia, ma che sia una regia vera, con la volontà di risolvere i problemi: non bastano le conferenze stampa”. L’altro punto su cui insiste il Pd sono forme di “detenzione alternativa, spiega Verini, con la possibilità per i detenuti di lavorare e di trascorrere la notte a casa per chi sconta pene minori. “Discutiamone”, è l’appello. Così come sul modello Giubileo. “E visto che parliamo di Giubileo - chiosa Verini - invito il governo a rileggere le parole di Papa Francesco e poi di Papa Leone sui detenuti”. All’idea di Mantovano intanto apre anche Carlo Calenda. Convinto che portare il metodo Giubileo nell’ordinaria amministrazione, nei campi in cui operano soggetti con competenze diverse (e dove lo stop di uno finisce per bloccare tutti gli altri), “può funzionare”. La prima mossa, per il leader di Azione, dev’essere “una mappatura precisa e vera dei posti e da una verifica delle condizioni reali delle strutture carcerarie”, per avere un quadro negli interventi necessari. Poi, via alla cabina di regia “a Palazzo Chigi”. E se Italia viva e +Europa esprimono dubbi (“il punto - affondano - non sono tanto le procedure, ma la volontà politica che finora è mancata”), si riserva di valutare la proposta il Movimento 5 Stelle: “La priorità - sottolinea la deputata Anna Ascari - è intervenire sulle strutture per i detenuti al 41 bis, per interrompere il flusso di comunicazioni con la mafia. E servono le case di comunità”. Intanto, al Senato, qualcosa si muove. Nei giorni scorsi Anna Rossomando, vicepresidente dem di Palazzo Madama, ha consegnato una proposta al presidente Ignazio La Russa, che si è incaricato della mediazione. L’idea è quella di replicare e rendere strutturale una misura varata nel periodo Covid, ossia far scontare gli ultimi 18 mesi di condanna ai domiciliari anziché in carcere. Ipotesi da cui sarebbero esclusi solo i condannati per reati di grave allarme sociale. E che permetterebbe di ridurre la popolazione carceraria di circa tremila persone. “Non è molto, ma è un inizio su cui tutti possono convergere”, spiega Rossomando. Le opposizioni hanno già dato l’ok, e La Russa si sarebbe incaricato di discuterne con la maggioranza. E se il sì di FdI e FI appare a portata di mano, più difficile sarà ottenere quello della Lega. In ogni caso, però, se ne riparlerà a settembre, dal momento che proprio ieri Palazzo Madama ha sospeso i lavori per la pausa estiva. Nelle carceri crisi di umanità e del diritto di Giuseppe Maria Meloni* lospiffero.com, 6 agosto 2025 Dietro questo dramma delle carceri italiane, dietro questo dramma del sovraffollamento, dei suicidi, degli atti di autolesionismo, delle pessime condizioni igienico sanitarie, della carente assistenza sanitaria, ed in generale della forte offesa alla dignità umana, certamente si nasconde una profonda crisi del senso comune di umanità. Se ci fosse stato nel presente momento storico un senso di umanità radicato e diffuso, non sarebbe mai stato possibile permettere o comunque accettare passivamente tutto quello che attualmente e da anni sta accadendo nelle carceri italiane. Indiscutibilmente il senso comune di umanità si è affievolito, ma questo, tuttavia, non è un dato eccezionale. Se guardiamo indietro nel tempo, nella storia dell’umanità vi è stato tutto un succedersi di periodi di violenza, di guerra, a periodi di pace e solidarietà, a periodi, quindi, in cui sembrava che i principi basilari dell’essere umano non potessero essere mai più minacciati o messi in discussione. Dopo il secondo conflitto mondiale, preso atto delle tremende atrocità che furono commesse, e preso atto che la difesa dei diritti fondamentali dell’uomo non era evidentemente qualcosa di così innato e di così scontato nell’essere umano, si fece però qualcosa di importante. Si decise di aiutare, di correggere, l’indole dell’uomo, con una assistenza forte, ovvero mediante la tutela e la forza del diritto. Attraverso il diritto, attraverso delle apposite norme, furono tutelati il diritto a vivere in un contesto di pace, e i diritti essenziali dell’essere umano. È evidente quindi, che oggi non c’è solo una crisi del senso di umanità, non è solo un momento storico di difficoltà per l’uomo a riconoscere e garantire spontaneamente i diritti fondamentali degli esseri umani, c’è anche una grave crisi del diritto. Le norme che tutelano la pace, il diritto internazionale, il diritto internazionale umanitario, sono presenti e pienamente in vigore, eppure nel mondo vi è un continuo susseguirsi ed evolversi di conflitti, conflitti che spesso coinvolgono senza alcuna regola e pietà anche i bambini. Le norme che tutelano i diritti essenziali dell’essere umano sono presenti e pienamente in vigore, eppure nelle carceri, così come in tanti altri contesti, è come se non esistessero. Quando furono teorizzati i diritti degli animali, si disse che gli animali non essendo dotati dell’intelligenza propria degli esseri umani, fossero destinatari essenzialmente di un unico diritto, ovvero quello di non provare sofferenza, quello di non soffrire. Ebbene, per far comprendere l’attuale crisi del diritto, va detto, guardando ai conflitti che arrivano a coinvolgere anche luoghi di estrema sofferenza ove sono presenti malati e feriti come gli ospedali e guardando al di fuori dei conflitti alle carceri così come a tante altre situazioni, che il diritto attualmente non è in grado di garantire per l’uomo, nemmeno quel diritto “minimo” a non soffrire che è previsto per gli animali. “Come se non esistesse”, con questa espressione può riassumersi la grave crisi che sta vivendo oggi il diritto. Le norme ci sono, sono pienamente valide, ma hanno difficoltà a trovare una concreta applicazione, quando trovano applicazione risultano essere, comunque, prive di forza sia nel plasmare una realtà compatibile con quanto previsto sia nella fase di contrasto alle loro violazioni, e quindi, sostanzialmente, è come se non ci fossero. *Portavoce della Piazza delle Carceri e della Sicurezza del cittadino Ferragosto e gli incredibili paradossi del calendario “mistico” della giustizia cautelare di Marco Nigro e Francesco Raeli Il Dubbio, 6 agosto 2025 Negato a un imputato, autorizzato da mesi a uscire per lavoro, il permesso di trascorrere tre giorni a casa della cognata, a pochi metri dalla propria abitazione. C’è qualcosa di surreale - e vagamente liturgico - nel calendario della giustizia italiana. Alcune festività sembrano godere di uno statuto privilegiato, quasi mistico. Natale e Pasqua, ad esempio, sono sacramenti laici anche per l’apparato giudiziario: se sei agli arresti domiciliari e ti comporti bene, potresti ottenere di festeggiarli in famiglia, magari nella villetta della cognata, purché non troppo lontana da casa. Ferragosto, invece, pare non godere dello stesso prestigio. La storia è semplice, come spesso accade con i paradossi. Un imputato - chiamiamolo Antonio, ma potremmo chiamarlo in mille altri modi - è da fine marzo autorizzato a uscire di casa ogni giorno feriale dalle 7:30 alle 13:00 per lavorare. Rientra, timbra metaforicamente il cartellino, e continua a scontare la misura cautelare degli arresti domiciliari, disposta a luglio dell’anno scorso. Sono cinque mesi ormai che si divide tra lavoro e casa, senza che una sola violazione sia stata registrata. Né ritardi, né furbizie, né “disattenzioni”. Eppure, quando i suoi avvocati hanno chiesto - come già accaduto a dicembre e ad aprile - che il loro assistito potesse trascorrere tre giornate festive (12, 15 e 18 agosto) in casa della cognata, nel medesimo complesso residenziale in cui vive, a una manciata di metri dal suo domicilio, la risposta del Tribunale è stata un perentorio: “no”. Un no secco, sbrigativo, senza appello. Come se Ferragosto, nel calendario giudiziario, non avesse dignità di festività. Come se la famiglia, l’affettività, la possibilità di vedere il figlio minorenne in un contesto più umano - lo stesso in cui ha già trascorso Natale e Pasqua - fossero concessioni troppo generose per il mese di agosto. Forse perché ad agosto si va in ferie, ma non si ammette indulgenza. La misura cautelare, ci insegnano i manuali di procedura penale e la giurisprudenza consolidata, non è una pena. Non dovrebbe mai trasformarsi in un’anticipazione della condanna, né in uno strumento punitivo mascherato. Il principio di proporzionalità, quello di adeguatezza, e - sì, anche quello di umanità - impongono che le esigenze cautelari siano bilanciate con i diritti fondamentali della persona. Tra questi c’è anche il diritto alla vita familiare, alla genitorialità, alla celebrazione dei legami affettivi. Il Tribunale, invece, ha tagliato corto. Senza un vero contraddittorio, senza motivazione sostanziale. La stessa Autorità che, solo pochi mesi prima, aveva autorizzato lo stesso identico spostamento (stessa casa, stesso parco, stessa cognata), ora si è irrigidita di fronte a un Ferragosto con la grigliata. Come se il rischio processuale aumentasse con la temperatura. È ironico, se non fosse tragico: si può lavorare ogni mattina, ma non si può festeggiare l’anniversario di matrimonio a quindici metri di distanza. Si può onorare il Natale e la Resurrezione, ma non Ferragosto, forse perché non è previsto nel calendario liturgico della Cassazione. E allora viene da chiedersi: su quale base logica o giuridica si disegna questa gerarchia delle festività? Perché la Pasqua sì e il compleanno del nipote no? Davvero un giudice può permettersi di decidere così, in fretta, su aspetti così delicati, senza doversi prendere il tempo di riflettere? Senza nemmeno porsi il problema del messaggio che trasmette una giustizia così selettiva, così umorale? Le responsabilità penali dell’imputato saranno accertate, com’è giusto che sia, nel processo. Ma qui non parliamo di condanna: parliamo di custodia cautelare. Di una misura eccezionale che dovrebbe essere applicata con rigore, certo, ma anche con equilibrio, senza mai dimenticare che dietro le carte ci sono persone. E famiglie. E figli. Forse è questo che manca, a volte, nelle aule di giustizia: il senso del tempo, della proporzione, e anche un pizzico di ironia. Perché se davvero un imputato merita di trascorrere il Natale con i suoi cari, allora dovrebbe poter godere - almeno - anche del Ferragosto. In fondo, non è forse proprio questa la differenza tra la giustizia e l’amministrazione del potere? Il saper distinguere tra il rigore e l’arbitrio. Anche - e soprattutto - sotto il sole d’agosto. Politica e giustizia, quei ruoli da rispettare di Danilo Paolini Avvenire, 6 agosto 2025 Il caso Almasri conferma ancora una volta quanto è infiammabile il dibattito pubblico, al di là della legittima diversità delle opinioni. In pochi giorni, infatti, le tensioni sono tornate a crescere. Mettiamola così: se l’ex premier Giuseppe Conte poteva non essere chiamato in causa per l’approdo negato ai migranti dal suo ministro dell’Interno Matteo Salvini, allora anche la posizione di Giorgia Meloni può essere archiviata per il caso Almasri contrariamente a quelle dei ministri dell’Interno e della Giustizia, Piantedosi e Nordio, e del sottosegretario all’Interno Mantovano. Certo, per la Costituzione “il presidente del Consiglio dei ministri dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile”. Ed è difficile negare che siano politiche sia le decisioni sugli immigrati, sia quelle sull’arresto e il rilascio del generale libico ricercato dalla Corte penale internazionale. La stessa premier, nel post sui social in cui lunedì ha annunciato la decisione del Tribunale dei ministri, ha sottolineato come “ogni scelta sia stata concordata”. Tuttavia i giudici hanno valutato diversamente e bisogna prenderne atto. Quello che ancora una volta impressiona è l’infiammabilità del quadro complessivo del dibattito pubblico, al di là della legittima diversità delle opinioni. Mettiamo in fila qualche episodio. Giorni fa, la sentenza della Corte di giustizia europea sui “Paesi sicuri” è stata accolta con una pioggia di accuse e anche insulti da parte di esponenti di primo piano del Governo e della maggioranza. Le stesse accuse che erano state riservate in precedenza ai giudici italiani per i mancati trattenimenti degli immigrati nei Cpr. Meno di un mese fa, un magistrato aveva rilasciato un’intervista in cui criticava Nordio proprio per la gestione del caso Almasri: il Guardasigilli l’aveva presa male, tanto da invocare “gli infermieri” per il giudice che l’aveva “censurato”. Nemmeno una settimana dopo il Csm, con i voti contrari dei consiglieri laici di centrodestra, aveva aperto una pratica a tutela della toga in questione, provocando nuove critiche da parte del ministro sulla rapidità e sulla “selettività” della decisione. Ieri, infine, è stata la volta del pur misurato presidente dell’Associazione magistrati, Cesare Parodi, che ha accettato di commentare alla radio l’orientamento del Tribunale dei ministri sulla vicenda Almasri e ha infilato nel ragionamento una considerazione di troppo sulla capo di gabinetto di Nordio, cercando poi di rimediare. Risultato: nuove scintille tra via Arenula e l’Anm. E la rinnovata sensazione di assistere a una partita in cui i giocatori fanno fatica a restare nei rispettivi ruoli. Caso Almasri, ecco perché il Tribunale dei Ministri incolpa il Governo di Simona Musco Il Dubbio, 6 agosto 2025 Il generale libico liberato per “evitare ritorsioni”. Ma non c’erano prove. “Sia i Ministri Nordio e Piantedosi, sia il sottosegretario Mantovano erano perfettamente consapevoli del contenuto delle richieste di cooperazione inviate dalla Cpi e, in particolare, del mandato di arresto spiccato nei confronti dell’Almasri. Non dando corso a tali richieste il primo, decretando il secondo la formale espulsione dcl ricercato con un provvedimento (...) viziato da palese irrazionalità e disponendo il terzo l’impiego di un volo Cai che ne ha assicurato l’immediato rientro in patria, hanno scientemente e volontariamente aiutato il predetto a sottrarsi alle ricerche e alle investigazioni della Cpi”. Sono queste le parole con le quali, in 92 pagine, il Tribunale dei Ministri ha chiesto l’autorizzazione a procedere nei confronti del ministro della Giustizia Carlo Nordio, del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e del sottosegretario Alfredo Mantovano, ora depositata alla Camera. La richiesta si inserisce nel meccanismo previsto dall’articolo 96 della Costituzione e dalla legge costituzionale del 1989: per i reati commessi nell’esercizio delle funzioni ministeriali, l’avvio del processo penale richiede un voto parlamentare. Il Tribunale dei Ministri rappresenta il primo filtro tecnico-giuridico; spetterà ora alla Camera valutare se concedere l’autorizzazione, una decisione che può basarsi anche su considerazioni di “preminente interesse pubblico”. La Giunta per le autorizzazioni, che già domani si metterà al lavoro sull’incarcamento, ha ora circa un mese di tempo per visionare gli atti e poi inviarli in Aula, dove si voterà dopo 30 giorni. La decisione di rispedire Almasri in patria, secondo il Tribunale dei Ministri, non sarebbe stata presa in base alle giustificazioni fornite dal ministro della Giustizia Nordio e dal ministro dell’Interno Piantedosi davanti al Parlamento a febbraio, ma dettata dai timori di possibili ritorsioni libiche emersi fin dalla prima riunione a Palazzo Chigi, tenutasi il 19 gennaio, poche ore dopo l’arresto di Osama Najeem Almasri a Torino. In quel confronto in videoconferenza, con la partecipazione di Mantovano, Piantedosi, il ministro degli Esteri Tajani, vari capi di gabinetto e responsabili della sicurezza, il direttore dell’Aise, Giovanni Caravelli, segnalò l’esistenza di un concreto rischio di ritorsioni da parte delle autorità di Tripoli. Caravelli precisò di non avere informazioni su “specifiche minacce di attentati o atti di rappresaglia nei confronti di cittadini italiani in Libia, ma c’era molta agitazione ed indicatori di possibili manifestazioni o possibili ritorsioni nei confronti dei circa cinquecento cittadini italiani che in qualche maniera vivono a Tripoli o arrivano a Tripoli o in Libia, nonché nei confronti degli interessi italiani”. Secondo le tre giudici, Nordio sarebbe stato “pienamente a conoscenza non solo dei doveri incombenti su di lui ma anche della normativa in tema di libertà personale, per cui la decisione della Corte d’Appello avrebbe dovuto aver luogo necessariamente entro il termine di quarantotto ore dalla trasmissione degli atti relativi all’arresto da parte della polizia giudiziaria”. E sarebbe stato, dunque, perfettamente consapevole della situazione e del rischio che Almasri potesse tornare in libertà nonostante le gravi accuse formulate dalla Corte penale internazionale. A impedirgli di agire non sarebbe stata una carenza di tempo a disposizione, né cavilli legali: la sua, per le giudici, sarebbe stata “una scelta cosciente e volontaria”. A riprova di ciò, secondo il Tribunale dei Ministri, la scelta di bloccare ogni comunicazione con la Corte penale, direttiva che, in un primo momento, sarebbe stata impartita anche con lo scopo, scrivono le giudici, di evitare “l’arrivo degli atti agli uffici tecnici del Dag”, che si erano già messi al lavoro “preoccupati della necessità di adozione di provvedimenti urgenti da parte del ministro”. In ogni caso, “è un dato di fatto che, nella specie, il ministro della Giustizia aveva avuto il tempo di interloquire con gli altri vertici istituzionali e avrebbe avuto, anche all’esito di tali riunioni, il tempo per provvedere a dar corso alla richiesta di arresto provvisorio e di sequestro, ove avesse voluto”. E “contrariamente a quanto sostenuto dal ministro Nordio, sia in Parlamento che nella memoria, la legge n. 237/2012, pur conferendo a lui il compito di curare in via esclusiva i rapporti dell’Italia con la Cpi e di dare impulso alla procedura, non gli attribuisce alcun potere discrezionale”, ma, anzi, “lo investe della funzione di garante del buon esito della stessa”. Le giudici hanno esaminato anche l’ipotesi che i ministri abbiano agito per evitare possibili ritorsioni contro cittadini italiani o interessi nazionali in Libia, ma nei documenti non c’è traccia di questa motivazione: la tesi dello “stato di necessità” compare solo in una memoria difensiva del 30 luglio. Dalle testimonianze raccolte, secondo la ricostruzione formulata nella richiesta, emerge anche che Giusi Bartolozzi, capo di gabinetto di Nordio, fu informata dell’arresto di Almasri la mattina del 19 gennaio 2025 e invitò i colleghi alla massima riservatezza, chiedendo di usare Signal per le comunicazioni. Il dirigente Luigi Birritteri - che poi si dimise dal ruolo di capo dipartimento per gli Affari di Giustizia - riferì inoltre di aver predisposto autonomamente una bozza di atto per il ministro, ma di non aver mai saputo perché Nordio decise di non firmarla né di inviarla al procuratore generale. Uno dei punti più delicati della richiesta riguarda il Falcon di Stato col quale Almasri è stato riaccompagnato in Libia, circostanza che è valsa a Mantovano e Piantedosi anche l’accusa di Peculato. Secondo le giudici, le “ragioni di sicurezza nazionale” invocate dai membri dell’esecutivo avrebbero rappresentato “una mera copertura formale del fatto che l’aereo sia stato utilizzato e, con ciò, distratto e il carburante necessario impiegato per una finalità illecita, vale a dire per compiere il reato di favoreggiamento”, dato l’utilizzo di un bene pubblico utilizzato da terzi - in questo caso Almasri - “per finalità personali connesse alla commissione di un illecito penale”. Inizialmente, nell’inchiesta era coinvolta anche la presidente del Consiglio Giorgia Meloni: la sua posizione è stata però archiviata per mancanza di elementi sufficienti, restringendo il procedimento agli altri tre membri del governo. Infine, il Tribunale sottolinea che l’Italia, in quanto Stato parte dello Statuto di Roma, aveva l’obbligo generale di cooperare con la Corte Penale Internazionale e non poteva invocare motivazioni di opportunità politica per sottrarsi a tale obbligo: le condotte dei tre esponenti del governo sono quindi considerate penalmente rilevanti come reati ministeriali. Colpire Bartolozzi per fermare Nordio e la separazione delle carriere di Errico Novi Il Dubbio, 6 agosto 2025 Al di là delle distorsioni che hanno ingigantito le parole di Parodi contro la capo Gabinetto della Giustizia, è indiscutibile che la più importante collaboratrice del guardasigilli sia oggetto di una viscerale insofferenza non priva di venature misogine. Almasri è una mina con un difetto congenito fatale, dal punto di vista degli anti-Nordio: è già esplosa, ma non fa danno, perché il referendum sulla separazione delle carriere è ancora ben lontano. Quando ci si arriverà, l’opinione pubblica avrà per lo più archiviato la storia. D’altronde, di qui a poche settimane, sarà la Camera a respingere la richiesta di autorizzazione a procedere formulata, contro il guardasigilli, Piantedosi e Mantovano, dal Tribunale dei ministri. C’è però un’indiscutibile verità, nelle parole attribuite oggi, con una notevole forzatura, al presidente dell’Anm Cesare Parodi, da alcuni titoli sulle edizioni on line dei quotidiani. In realtà il leader dei magistrati (o del loro sindacato) non ha detto che, se indagata, la capo di Gabinetto di Nordio, Giusi Bartolozzi, dovrebbe dimettersi. Ha detto che ci potrebbero essere delle “conseguenze”, ma di natura essenzialmente “politica”, e si è riferito a eventuali accertamenti di reati riconducibili, sulla vicenda Almasri, anche a chi, come Nordio, non sarà processato, in virtù della tutela costituzionale. Parodi non ha detto esplicitamente un’altra cosa che però l’intera magistratura associata, e gran parte dell’opposizione, davvero pensano: e cioè che un eventuale impallinamento mediatico-giudiziario di Bartolozzi (ulteriore rispetto a quanto già le è stato riservato) rappresenta il solo “vantaggio” lucrabile, dal caso del militare libico, per chi si oppone alla separazione delle carriere. Nordio eviterà giustamente il processo (lo prevede la Carta del 1948, non il decreto Biondi). La sua principale collaboratrice, viceversa, non potrebbe evitarlo, se la magistratura riterrà di dover procedere nei suoi confronti (in base alla ricostruzione proposta dal Tribunale dei ministri). E al di là dell’assai relativo “vantaggio” di vedere la storia di Almasri ancora sulle prime pagine dei giornali anche in piena campagna referendaria, il vero “danno”, per Nordio, si realizzerebbe se Bartolozzi decidesse di lasciare via Arenula. L’ex gip di Palermo ed ex deputata eletta con FI ha dimostrato di essere una figura forte, capace di interpretare con determinazione politica un ruolo in apparenza tecnico. Interpretazione che si è resa necessaria, vista l’assoluta “impoliticità” del ministro che l’ha scelta. Certo, che Bartolozzi decida davvero di deporre le armi, sembra improbabile. Ma è evidentemente auspicato dagli avversari. Il che è legittimo. La sola cosa che ci è sempre parsa sgradevole è un’altra: è l’ostilità radicale, velenosa, che avversari politici e parte dei media manifestano, da anni, verso la capo Gabinetto della Giustizia. Ostilità, livore che a volte hanno lasciato intravedere più di una venatura misogina. La vera domanda è se tanta viscerale insofferenza si sarebbe vista anche qualora il capo Gabinetto di Nordio fosse stato, banalmente, un uomo. E chi si batte contro il cosiddetto patriarcato, questa domanda dovrebbe farsela. Mirabelli: “Sul caso Almasri scelta politica. I magistrati? Più prudenza con l’azione penale” di Ruggiero Montenegro Il Foglio, 6 agosto 2025 Il presidente emerito della Corte costituzionale: “Il giudizio che viene svolto dal Tribunale dei ministri è relativo agli aspetti giuridici. Ma la sostanza delle cose è di tipo politico e questo risvolto alla fine è destinato comunque a prevalere”. Meloni archiviata? “C’è differenza tra la responsabilità politica e l’ipotesi di responsabilità giuridica”. “Il giudizio che viene svolto dal Tribunale dei ministri è relativo agli aspetti giuridici. Ma la sostanza delle cose è di tipo politico”, dice al Foglio Cesare Mirabelli. Il giurista, già vicepresidente del Csm e presidente emerito della Corte costituzionale interviene sul caso Almasri, mentre Palazzo Chigi evoca esondazioni da parte della giustizia e l’opposizione va all’attacco. Mirabelli non vede “scontri”, ma si muove “con molta cautela” nel commentare la decisione arrivata ieri. La posizione di Giorgia Meloni è stata archiviata, mentre è in arrivo la richiesta di autorizzazione a procedere per i ministri Carlo Nordio e Matteo Piantedosi e per il sottosegretario con delega ai servizi Alfredo Mantovano. “La premier sostanzialmente afferma la sua conoscenza e la partecipazione alla scelta che è stata fatta su Almasri. C’è una solidarietà governativa, le azioni compiute sono azioni del governo nel suo complesso. Ma c’è differenza tra la responsabilità politica e l’ipotesi di responsabilità giuridica”. Da qui, spiega il giurista, deriva la diversità di trattamento tra esponenti dell’esecutivo. E a carico di Meloni, “mancherebbero gli elementi per provare una sua eventuale corresponsabilità, che possono essere il fondamento di un giudizio da svolgere e che la coinvolga”. In ogni caso, sottolinea Mirabelli, siamo di fronte a presunti reati compiuti nell’esercizio delle funzioni governative. “C’è stata un po’ di confusione nell’azione che i componenti del governo hanno messo in campo. Il ministro della Giustizia ha parlato di carenza nella documentazione degli atti della Cpi. Non era possibile dare il via libera e quindi secondo Nordio la liberazione di Almasri era in quale modo dovuta”, ripercorre la vicenda il presidente emerito. “Ma la mia impressione è che da parte del governo, al di là delle questioni giuridiche e delle forme, ci sia stata una scelta politica, che può avere una giustificazione, da condividere o contrastare. Nel senso che in quel momento l’interesse del paese era di non creare un elemento di crisi con la Libia, con il rischio di una riapertura dei flussi migratori”. Intende dire che da parte dell’accusa ci sarebbe la volontà di giudicare le scelte politiche del governo? “Il giudizio riguarda gli aspetti giuridici, la procedura che è stata seguita e l’eventuale omissione di atti da parte di alcuni componenti del governo. Ma la sostanza è politica”. Ed è anche per questo - ragiona Mirabelli - che l’attività del Tribunale dei ministri, “passerà da un filtro parlamentare, dovranno essere gli eletti ad autorizzare che si proceda nei confronti dei componenti del governo. E’ facile prevedere come andrà a finire: l’autorizzazione non vi sarà. Perciò mi pare si tratti di una situazione nella quale il risvolto politico è destinato comunque a prevalere”. Nella maggioranza tuttavia continuano a parlare di esondazioni da parte dei pm, della giustizia italiana e dalla settimana scorsa anche di quella europea, dopo la sentenza della Corte di giustizia europea sui paesi sicuri. “Non metterei insieme tanti problemi”, dice Mirabelli allontanando la retorica dello scontro. “Anzitutto terrei presente che la magistratura è un potere diffuso, ogni magistrato ha la totalità del potere giudiziario nel momento in cui è investito di una determinata questione. Non è la comunità della magistratura o l’ordine giudiziario che si esprime, ma il singolo magistrato nell’esercizio delle sue funzioni”, sottolinea il giurista ricordando inoltre “tutta una serie di rimedi interni che l’ordinamento prevede”. Il presidente emerito della Consulta fa quindi l’esempio della recente assoluzione di Matteo Salvini sul caso Open Arms. “Anche quel processo aveva aspetti di carattere politico, nel senso che la sostanza degli atti compiuti dal ministro riguardavano scelte politiche, condivisibili o meno. Vi è stata una sentenza di assoluzione, cosa dovremmo pensare? Che i giudici sono il governo e i magistrati l’opposizione?”, si chiede retoricamente il giurista. “Quel che occorre è una maggiore prudenza da parte di chi è titolare dell’azione penale. Anche perché la rilevanza dell’impatto della magistratura sulla politica è anche l’effetto della condotta della politica stessa. Una informazione di garanzia è immediatamente un appiglio sul quale nasce una controversia, si chiedono dimissioni. Ed è un atteggiamento che riguarda sia la maggioranza che l’opposizione, a seconda di chi governa”. Senza dimenticare, conclude Mirabelli, “i partiti che danno ulteriore rilievo alla magistratura reclutando pm per le elezioni, quando questi hanno assunto notorietà. La politica invece dovrebbe essere impermeabile”. La capo di gabinetto di Nordio, Giusi Bartolozzi: “Non temo niente e chiarirò ogni dubbio” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 6 agosto 2025 La fedelissima nell’ufficio di via Arenula si mostra sicura e studia le contromosse dopo l’ipotesi di un processo a suo carico. Alle 21 quando le indiscrezioni sulle carte del Tribunale dei ministri parlano apertamente della possibilità che al vaglio dei magistrati sul caso Almasri finisca anche lei, Giusi Bartolozzi, potente capo di gabinetto del ministro Carlo Nordio, è nel suo ufficio in via Arenula. E chi l’ha appena incrociata la descrive come “serena, tranquilla. Ha passato la giornata a lavorare. Non teme assolutamente nulla e quando potrà chiarirà qualsiasi dubbio”. Non è tipo da “graticola”, la plenipotenziaria di Nordio che i suoi detrattori al ministero chiamano la “zarina”. E nemmeno nel giorno più lungo del caso Almasri, scandito dall’attesa delle carte dell’inchiesta che i magistrati del Tribunale dei ministri hanno inviato alla Camera chiedendo l’autorizzazione a procedere per il suo ministro accusato di favoreggiamento e omissione di ufficio, perde il sorriso e lo sguardo altero. Alle 13, quando arriva alla Camera accanto a Nordio, sa bene di essere nuovamente al centro della scena politica e giudiziaria. E non nasconde il proprio fastidio per l’uscita di Cesare Parodi, il capo dell’Anm che a domanda esplicita dell’intervistatore di Radio anch’io sull’eventualità di un processo nei confronti di Bartolozzi non ha precisato di non essere a conoscenza dell’esistenza di un procedimento che la coinvolga. Soffermandosi invece sul fatto che “ci sarebbero riflessi politici”. Affermazioni che scatenano il putiferio per il sospetto che Parodi sia a conoscenza di dettagli di un’inchiesta della quale non si è mai saputo nulla, nemmeno di una eventuale iscrizione di lei nel registro degli indagati. Da lì l’irritazione. Tanto che appena due ore dopo, quando Parodi è costretto a scusarsi per quella frase apparsa sulle agenzie (“ma mai pronunciata”) e le invia un messaggio, con allegata la registrazione dell’intervento radiofonico, proprio per cercare di chiarire quello che definisce un gigantesco equivoco, Bartolozzi sceglie di non rispondere. È infastidita e non lo nasconde. Anche se in questi mesi ha sempre ostentato sicurezza sia per quello che era stato fatto al ministero dal momento in cui era giunta la notizia della cattura fino alla liberazione di Almasri, sia per il proprio operato. “Da quando abbiamo ricevuto le carte della Corte Penale Internazionale a quando è stato scarcerato Almasri sono passate solo 24 ore. Non c’è stato alcun ritardo. Abbiamo seguito le procedure in maniera corretta”, è sempre stata la sua versione con interlocutori privati. E anche quando sono filtrate le indiscrezioni sulle raccomandazioni a gestire la vicenda nella massima riservatezza (“parliamoci su Signal” per evitare le mail) ha sempre spiegato ai suoi che “questioni delicate che attengono alla sicurezza nazionale non potevano essere scambiate su una casella mail letta da mezzo ministero”. Del resto la sua influenza all’interno del dicastero nessuno può negarla, ed è apparsa ancora evidente ieri, all’ingresso di Montecitorio, quando si è mostrata soddisfatta per la nota durissima del Guardasigilli in aperto contrasto con Parodi. Un segnale forte che, a dispetto degli auspici dell’opposizione, non c’è alcuna intenzione di sfiduciarla o spingerla alle dimissioni. Ma di fare quadrato attorno a lei, preparandosi a respingere un eventuale processo Almasri bis per lei, non coperta da immunità parlamentare o di governo, in procura. Perché il sospetto della maggioranza è che un processo simile altro non sarebbe che il tentativo di far rientrare dalla finestra ciò che in Parlamento uscirà dalla porta. Vale a dire richiamare in causa la premier Meloni, appena archiviata, insieme con i ministri Nordio e Piantedosi e il sottosegretario Mantovano, stavolta come testimoni e quindi non coperti da immunità parlamentare o di governo. Ma a questa eventualità già si sta studiando la contromossa. E in via Arenula si cita un “precedente assimilabile”. Ci si richiama al comma 3 dell’articolo 9 della legge costituzionale 16 gennaio 1989 che prevede che, se il reato viene commesso da più soggetti in concorso tra loro, sia l’assembleaa indicare a chi “anche se non ministro o parlamentare” si estenda il “diniego”. Perché l’antimafia sbaglia su Borselllino di Gian Carlo Caselli La Stampa, 6 agosto 2025 La Commissione parlamentare antimafia presieduta da Chiara Colosimo sta affrontando il problema del perché “Cosa nostra”, neanche due mesi dopo la strage di Capaci nella quale mori Giovanni Falcone, decise di eliminare anche Paolo Borsellino in via d’Amelio, a Palermo. Il 31 luglio l’Antimafia ha ospitato un mio intervento di cui riproduco qui alcuni passaggi. Falcone e Borsellino sono stati due eroi moderni di epica grandezza, veri e propri giganti della storia non solo giudiziaria e non solo italiana. Non per caso Andrea Camilleri equipara l’omicidio dei due campioni dell’antimafia all’abbattimento delle Twin Tower di New York. Come non è un caso che Salvatore Lupo definisca le vittime di mafia, a partire da Falcone e Borsellino, come “rivoluzionari”, in quanto straordinari creatori di credibilità e rispettabilità, mediante l’affermazione della legalità. Per contro, sostenere (come vorrebbe la componente di centrodestra della Commissione) che Borsellino e forse anche Falcone sono stati uccisi esclusivamente perché volevano occuparsi di mafia e appalti, equivale a farne dei funzionari onesti, solerti e capaci ma ben al disotto del loro valore storico. Con questa tesi, gli artefici di quell’indiscusso capolavoro investigativo-giudiziario che è stato il maxiprocesso (la dimostrazione pratica che la mafia non è invincibile, anzi) vengono rimpiccioliti, svalutati e retrocessi. Un’operazione in perdita: per i due magistrati, per il nostro Paese e per i giovani che perdono un riferimento e un esempio quando non vogliano adagiarsi nell’indifferenza, nel disimpegno e nella rassegnazione, ma operare per risultati ritenuti socialmente o politicamente utili (così si dice che abbia “funzionato” Borsellino per Giorgia Meloni). Un’operazione che poggia su un presupposto fragile, essendo a mio avviso insufficienti gli elementi che dovrebbero ricollegare in particolare via d’Amelio esclusivamente all’interessamento di Borsellino per mafia e appalti. Ma allora perché Borsellino è stato ucciso? Borsellino è stato ucciso per un motivo ben preciso e molto semplice: perché era Paolo Borsellino. Il nemico più odiato (insieme a Falcone) di Cosa nostra, perché responsabile col maxi processo di una formidabile “tagliata di faccia” dell’organizzazione criminale, la fine del mito dell’impunità che prima la circondava. E quando le condanne il 30 gennaio 1992 diventano definitive, ecco che Cosa nostra è costretta a reagire per recuperare quel che può. Da un lato colpendo i traditori perché chi deve capire capisca e rientri o rimanga devotamente nei ranghi; dall’altro colpendo Falcone e Borsellino. La verità di base per Capaci e via d’Amelio è dunque una vendetta postuma di Cosa nostra contro i suoi acerrimi nemici, appunto Falcone e Borsellino, e nello stesso tempo un tentativo di seppellire nel sangue il loro metodo di lavoro vincente. Senza che in tale verità si esaurisca il significato della tremenda campagna stragista. La quale - rispondendo a un disegno criminale unitario - dispiegherà i propri effetti terroristici fino al 1994. Questo Borsellino era ed è tuttora nella nostra mente. Sminuzzarne l’altissima figura umana e professionale per raccogliere solo le briciole che ci piacciono o ci convengono per sostenere una certa tesi, è un grave errore che non possiamo permetterci il lusso di commettere. Il numero delle telefonate con i figli non aumenta per i detenuti al 41 bis di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 6 agosto 2025 La parte del decreto Carceri che prevede un aumento del numero di telefonate, anche per i condannati per reati ostativi, non può essere estesa a chi sconta la pena al 41-bis. La Cassazione (sentenza 28597) respinge il ricorso di un detenuto sottoposto al regime speciale, contro il no dell’amministrazione penitenziaria al permesso di fare una chiamata supplementare (rispetto a quella mensile concessa) alla figlia minorenne con problemi di salute. La difesa aveva sollevato dubbi di costituzionalità della norma sull’ordinamento penitenziario (legge 354/1975) che impedisce al detenuto, sottoposto al cosiddetto carcere duro, di fare colloqui supplementari, visivi o telefonici, giustificati dall’esigenza di tutelare una relazione affettiva con familiari in precarie condizioni di salute o economiche. Ad avviso del ricorrente, si tratta di un vulnus al diritto alla vita familiare, garantito anche dall’articolo 8 della Cedu. Oltre a essere una disparità di trattamento rispetto a chi è sottoposto al regime ordinario. Discrimine reso ancor più evidente dal decreto Carceri (Dl 92/2024). Infatti, quest’ultimo contiene disposizioni che aprono la strada verso l’incremento del numero dei colloqui per i detenuti al regime ordinario, anche ai condannati per i cosiddetti reati ostativi (articolo 4- bis) che vanno dal terrorismo alla violenza sessuale. Per la Suprema corte, però, la scelta dell’amministrazione non è in contrasto con la Carta, dal momento che la stessa Consulta ha avallato, con la sentenza 30/2025, un trattamento di maggior rigore anche per quanto riguarda il minor tempo fuori dalla camera detentiva concesso nel regime di 41-bis, rispetto al resto della popolazione carceraria. Una stretta - precisala Suprema corte - che si giustifica con l’esigenza di ridurre al minimo i contatti con l’ambiente criminale di riferimento e contenere così il rischio di uno scambio di messaggi. La stessa Suprema corte, il 14 luglio scorso, aveva affermato il diritto all’affettività e dunque affermato la possibilità di incontrare una donna con la quale si è stabilita una relazione, dopo anni di lettere, anche se l’ordinamento penitenziario limitai colloqui visivi ai familiari. Non c’è diffamazione a mezzo stampa se il fatto è attribuito con incolpevole convinzione di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 6 agosto 2025 La scriminante del diritto di critica e di cronaca - in relazione al reato di diffamazione imputato a un giornalista - opera quando le accuse siano mosse in modo fondato o il professionista sia fermamente e incolpevolmente - anche se erroneamente - convinto di quanto afferma. Solo così opera la cosiddetta scriminante “putativa” prevista dall’articolo 51 del Codice penale che contempla il caso in cui la condotta corrisponda all’esercizio di un diritto. La Corte di cassazione penale - con la sentenza n. 28621/2025 - ha rigettato il ricorso del professionista condannato per aver diffamato un assessore alla cultura di essere “cocainomane” e inoltre dedito allo spaccio della droga pesante. Condanna aggravata dalla diffusione a mezzo stampa via internet. Il ricorso contestava l’intento diffamatorio dell’articolo in quanto il professionista - come anche rilevato dai giudici - aveva fondato la notizia diffusa via web sul testo di alcune sentenze dove l’imputato attribuiva l’identica condizione di cocainomane all’assessore ed era stato assolto dalla contestazione del medesimo reato aggravato dall’utilizzo della rete per veicolare il fatto attribuito. La Cassazione respinge il motivo di ricorso facendo rilevare che l’assoluzione dell’imputato come emergeva dalla lettura delle sentenze utilizzate come fonti dal ricorrente fosse in realtà dovuta alla mancata prova della paternità dei post incriminati e della provata assenza di consapevolezza di stare comunicando con altri indistinti soggetti. Non è quindi l’assenza di fondamento che viene contestata alla notizia diffusa dal ricorrente, ma la colpevole condotta di aver riportato come fonti decisioni giudiziarie che se lette nella loro interezza avrebbe dovuto far propendere il ricorrente - dicono i giudici - a considerare la loro irrilevanza ai fini dimostrativi della verità dell’accusa mossa all’assessore comunale. A maggior ragione - dice la Cassazione - nel caso in cui il giornalista condannato era di ambito giuridico e il suo lavoro consisteva di fatto nella lettura di sentenze penali. Richiedenti asilo, va garantito l’alloggio anche se l’afflusso è straordinario Il Sole 24 Ore, 6 agosto 2025 Per la Corte Ue, sentenza nella causa C-97/24, vanno sempre soddisfatte le esigenze essenziali dei richiedenti asilo. Uno Stato membro non può invocare un afflusso imprevedibile di richiedenti protezione internazionale per sottrarsi all’obbligo di soddisfare le esigenze essenziali dei richiedenti asilo. Lo ha chiarito la Corte, con la sentenza nella causa C-97/24, aggiungendo che una violazione di tale obbligo può far sorgere la responsabilità dello Stato membro interessato. Il caso - Due richiedenti asilo, un cittadino afghano e uno indiano, sono stati costretti a vivere per diverse settimane in condizioni precarie in Irlanda, in quanto il Paese si è rifiutato di fornire condizioni minime di accoglienza previste dal diritto dell’Unione. Le autorità irlandesi hanno infatti consegnato a ciascuno di loro un buono di 25 euro, ma non gli hanno assegnato un alloggio, sostenendo che non ve ne fossero di disponibili nei centri di accoglienza dedicati, nonostante la disponibilità di “alloggi individuali e temporanei”. Non disponendo di un alloggio, i due richiedenti non potevano nemmeno beneficiare del sussidio per le spese giornaliere previsto dal diritto irlandese; hanno dunque dormito in strada o, occasionalmente, in alloggi precari. Hanno dichiarato di essere rimasti senza cibo, di non essere stati in grado di preservare la loro igiene e di essersi trovati in una situazione di difficoltà per le condizioni di vita e le violenze a cui sono stati esposti. Infine, hanno adito l’Alta Corte (Irlanda) per ottenere il risarcimento del danno. Le autorità irlandesi hanno riconosciuto la violazione del diritto dell’Unione, ma hanno invocato un caso di forza maggiore, costituito dall’esaurimento delle capacità di alloggio normalmente disponibili, a causa di un afflusso massiccio di cittadini di paesi terzi dopo l’invasione dell’Ucraina. L’Alta Corte ha interrogato la Corte di giustizia sulla possibilità di escludere la responsabilità dello Stato in tali circostanze. La decisione - Nella sentenza di oggi, la Corte ricorda che gli Stati membri sono tenuti, in forza della direttiva, a fornire ai richiedenti protezione internazionale condizioni materiali di accoglienza che garantiscano un tenore di vita adeguato, dando alloggio, sostegno economico, buoni o una combinazione di tali forme. Pertanto, uno Stato membro che si astenga dal fornire tali condizioni materiali ad un richiedente privo di mezzi sufficienti, anche solo temporaneamente, eccede manifestamente e gravemente il margine di discrezionalità di cui dispone in relazione all’applicazione della direttiva. Tale astensione è quindi idonea a costituire una violazione sufficientemente qualificata del diritto dell’Unione, che fa sorgere la responsabilità dello Stato membro interessato. Il diritto dell’Unione, prosegue la Corte, ammette un regime derogatorio in caso di esaurimento temporaneo delle capacità di alloggio a fronte di eventi di carattere eccezionale, dovuti a migrazioni di dimensioni “massicce” ed “imprevedibili”; anche in simili casi, tuttavia, la direttiva prevede che gli Stati membri debbano comunque soddisfare le esigenze essenziali delle persone interessate. Tornando al caso concreto, nessun elemento consente di concludere che l’Irlanda fosse oggettivamente impossibilitata ad adempiere i suoi obblighi, fornendo ai richiedenti un alloggio al di fuori del sistema normalmente previsto per ospitarli, eventualmente avvalendosi del regime derogatorio previsto dalla direttiva, oppure concedendo loro dei sussidi economici o dei buoni. Ascoli. Detenuto morto in ospedale, i famigliari: “Vogliamo la verità” di Peppe Ercoli Il Resto del Carlino, 6 agosto 2025 “Vogliamo sapere come è morto, se sussistono fatti penalmente rilevanti ed eventuali responsabilità penali a carico di terzi”. È il sunto dell’esposto presentato alla Procura di Ascoli dalla madre e dalla sorella di Iheb Jawahdou, il detenuto tunisino di 23 anni morto due giorni fa al Mazzoni dove era stato ricoverato d’urgenza il 24 luglio dopo essere stato trovato impiccato alle sbarre della cella dove era rinchiuso. Quel giorno c’era in visita nel carcere di Marino del Tronto il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari. A scoprire il corpo, ancora in vita, sono stati gli agenti in servizio quel giorno nella casa circondariale ascolana. Nei giorni successivi la madre e la sorella del giovane tunisino sono giunte ad Ascoli. Il loro congiunto, ricoverato in rianimazione in coma irreversibile, non si è però mai ripreso e lunedì è deceduto. Prima del decesso le due donne si sono rivolte all’avvocato Simone Matraxia per presentare l’esposto alla magistratura. “Due giorni prima che venisse ritrovato impiccato aveva parlato al telefono con la sua avvocatessa la quale mi ha riferito che era stata una telefonata tranquillizzante, riguardante la possibilità di proporre ricorso in Cassazione contro la sentenza d’appello che lo aveva condannato all’ergastolo per aver preso parte ad un omicidio” racconta Matraxia secondo il quale, anche a parere dei familiari “appare inverosimile la volontà di togliersi la vita, tenuto conto che il ricorso era inoltre volto ad essere trasferito in un carcere in Germania, per stare più vicino ai parenti, che lì vivono”. Iheb Jawahdou era stato condannato alla massima pena per il sequestro di persona e l’omicidio pluriaggravato del 25enne Kaled Moroufi, torturato e ucciso a Bologna, in un capannone abbandonato lungo la ferrovia, la notte fra l’11 e il 12 luglio del 2022. Il 25enne assassinato, anche lui tunisino, era stato picchiato selvaggiamente e torturato con coltelli fino alla morte, perché accusato di aver fatto sparire orologi di lusso, cellulari, Ipad e una telecamera che lui e i suoi assassini (tutti condannati a pene pesanti) avevano rapinato pochi giorni prima a Rimini. Vittima e carnefici facevano dunque parte della stessa banda. Nell’esposto la madre e la sorella di Jawahdou chiedono che sia accertata l’origine di ferite sul corpo, se vi sono responsabilità di terze persone nella morte, se siano stati rispettati i protocolli di prevenzione del rischio autolesivo e suicidario. Ascoli. Incendio e suicidio nel carcere: ora si pensa al trasferimento della sezione psichiatrica lanuovariviera.it, 6 agosto 2025 Nel reparto riservato ai detenuti con disturbi psichici si sono verificati incendi e un suicidio. La Regione valuta lo spostamento a Montacuto. Il carcere di Marino del Tronto si trova al centro di una nuova emergenza dopo una serie di eventi critici avvenuti nella sezione dedicata ai detenuti con disturbi psichiatrici. Qui, negli ultimi giorni, si sono verificati due incendi dolosi e il suicidio di un giovane recluso, che hanno messo in evidenza le carenze della struttura. I roghi sono stati appiccati da due detenuti all’interno delle loro celle, provocando danni rilevanti e rendendo temporaneamente inutilizzabile l’intera sezione. Un gesto estremo che ha riacceso il dibattito sulle condizioni in cui vengono gestiti i detenuti più fragili. Poche ore dopo quell’incendio, un altro detenuto, 23 anni e affetto da disturbi psichici, si è tolto la vita impiccandosi. Il ragazzo è morto dopo undici giorni in terapia intensiva, alimentando preoccupazioni e richieste di interventi urgenti. Alla luce della gravità della situazione, le istituzioni stanno valutando il trasferimento della sezione ATSM ad Ancona Montacuto, ritenuta più adatta a garantire condizioni di sicurezza e assistenza adeguata. Un tavolo tecnico, fissato per domani, riunirà i vertici dell’amministrazione penitenziaria e della sanità regionale per discutere il possibile spostamento e provare a mettere fine a una gestione ormai critica. Sulmona (Aq). Detenuto morto in carcere: avvisi di garanzia per tre medici ilgerme.it, 6 agosto 2025 Scattano gli avvisi di garanzia per tre medici in servizio nel carcere di massima sicurezza di Sulmona, accusati di omicidio colposo legato alla morte dei Pietro Guccione, detenuto nella struttura peligna. L’uomo, siciliano sessantaduenne, è venuto a mancare dietro le sbarre nel dicembre 2022. A finire nell’occhio del ciclone sono stati i tre sanitari, che secondo il sostituto procuratore, Stefano Iafolla, avrebbero causato il decesso per non aver rispettato le “buone pratiche clinico-assistenziali”. I tre, secondo l’accusa, non avrebbero adottato gli opportuni e tempestivi accertamenti nonostante un quadro clinico che preannunciava una sicura insorgenza di complicazioni cardiache. Il 16 dicembre di tre anni fa Guccione ebbe un arresto cardiaco in cella, che causò la perdita di dei sensi dalla quale non si riprese più. L’inchiesta è scattata a seguito della denuncia dei familiari, che ritenevano si potesse evitare la morte dell’uomo visti i sintomi dei giorni precedenti. Le avvisaglie ci furono: dal dolore al braccio alla pressione alta, fino ai giramenti di testa. Sintomi collegabili ad un possibile problema cardiaco. Eppure, dalle tre visite di controllo effettuate nell’infermeria del carcere, non emerse nulla. I familiari ottennero l’autopsia sulla salma, che appurò la morte per infarto del detenuto. I tre medici sono pronti a difendersi, ritenendo che la gestione del paziente sia stata lineare e corretta. Firenze. Carcere di Sollicciano: incontro tra Garante, assessore e nuova direttrice novaradio.info, 6 agosto 2025 Parissi: “Volontà di collaborare per migliorare le condizioni di vita in carcere”. Primo incontro conoscitivo venerdì scorso tra l’assessore al welfare di Palazzo Vecchio Nicola Paulesu e il Garante comunale dei detenuti Giancarlo Parissi, con la direttrice di Sollicciano Valeria Vitrani. “Un momento importante” ha commentato Paulesu, Vitrani “ha dimostrato grande disponibilità al confronto. Abbiamo espresso la volontà dell’amministrazione - aggiunge - di aprire un’interlocuzione costante e strutturata con la direzione dell’istituto penitenziario, tant’è che abbiamo già fissato a fine mese un nuovo incontro”. Nel corso dell’incontro, riferisce sempre l’assessore, è stata fatta “un’analisi puntuale della realtà con un approccio pragmatico per provare a intervenire da subito su alcune difficoltà e anche con piccole azioni costruire risposte immediate, consapevoli delle criticità in cui versa la struttura”. “È stato un incontro più lungo di quanto io mi aspettavo”, ha spiegato stamattina ai nostri microfoni Giancarlo Parissi. “Abbiamo parlato molto delle condizioni reali della struttura e della possibilità di una collaborazione tra amministrazione comunale e istituto rispetto a interventi di tipo strategico, diciamo così, tra virgolette, o anche interventi di piccolo cabotaggio e quindi di rimessa in pulizia e in efficienza ad esempio della stanza colloqui fra detenuti e operatori che sono, come dire, poco accoglienti e abbiamo proposto alla direzione una collaborazione per renderle, appunto, più accoglienti.” Infatti, spiega Parissi, se sugli interventi strutturali urgenti e necessari per Sollicciano nulla possono fare garante e Comune “ci sono interventi che riguardano piccola manutenzione ed organizzazione di attività: è su questi aspetti, diciamo, che amministrazione comunale, garante, associazionismo di settore possono avere qualcosa da dire e da fare. L’impressione da questa incontro è stata buona rispetto alla volontà della direttrice, alla sua capacità d’ascolto, al suo coraggio di affrontare una situazione che evidentemente in altri non hanno voluto affrontare, mi riferisco a direttori con più magari esperienza che gli interpellati non hanno non hanno dato risposta positiva ad assumersi il carico. Lei l’ha fatto, io per questo sono fiducioso che abbia anche entusiasmo e voglia di fare.” Per Parissi infatti è essenziale in questa fase “sviluppare fantasia per migliorare le condizioni di vita dentro l’istituto”. Alcuni obiettivi messi nero su bianco durante l’incontro di venerdì scorso sono potenziare la mediazione culturale, data l’alta percentuale di stranieri nella popolazione carceraria, attivare sempre più borse lavoro per permettere ai detenuti di avere all’interno del carcere opportunità in questo senso, rafforzare la presenza delle associazioni. Secondo Parissi le tante associazioni attualmente presenti a Sollicciano “stanno operando in un ambito, in un ambiente, in un’atmosfera, non favorevole agli interventi”, non mancano le attività, ma potrebbe essere promosso un aumento “delle qualità delle cose che vengono fatte e l’aumento della possibilità di partecipare da parte dei detenuti, con più libertà di interpretazione da parte di tutti delle opportunità piccole o grandi che vengono che vengono offerte dentro il penitenziario” e per fare questo “è decisivo avere l’appoggio e l’accordo della direzione e la collaborazione della Polizia Penitenziaria, altrimenti “si va da poche parti”. Padova. Ostanel in visita al carcere: “Non si può ignorare la carenza di personale sanitario” telenuovo.it, 6 agosto 2025 “Ho visitato il carcere di Padova e durante la mia visita è emersa con forza una criticità, ribadita anche dalla Direzione Sanitaria, che non possiamo più ignorare: la carenza di personale sanitario nelle strutture penitenziarie. Perché senza incentivi adeguati, sarà sempre più difficile garantire cure e servizi fondamentali” dichiara Elena Ostanel, Consigliera regionale del movimento civico Il Veneto che Vogliamo a margine della visita. “Per questo ho proposto che tutte le carceri del Veneto vengano riconosciute come “aree disagiate” e fino ad ora siamo riusciti ad arrivare a questo risultato solo su alcune province come Rovigo e Venezia. Il riconoscimento di questo status per tutte le carceri del Veneto permetterebbe di prevedere maggiori incentivi economici e professionali per il personale sanitario, attirando figure indispensabili per la salute dei detenuti e il buon funzionamento del sistema” continua Ostanel. Oltre alla visita, si è tenuto un incontro con la Direttrice, la Direzione Sanitaria, la Direzione della Polizia penitenziaria, il Garante comunale dei diritti delle persone private della libertà personale Antonio Bincoletto e la Redattrice di “Ristretti Orizzonti” Ornella Favero. Inoltre la Consigliera ha visitato, insieme al Garante, la biblioteca, gli spazi di inserimento lavorativo, gli spazi universitari e la redazione di Ristretti Orizzonti. “La situazione è urgente: solo a Padova ci sono 611 detenuti, su 438 regolamentari, di cui 160 persone con problemi di dipendenza certificati, un numero che richiede interventi specifici sia in termini di supporto psicologico che di servizi per le dipendenze. E non parliamo solo di detenuti: anche la polizia penitenziaria deve essere messa al centro, con adeguato sostegno psicologico e strumenti per affrontare un lavoro complesso e logorante” prosegue la Consigliera. “La metà delle persone recluse a Padova soffre di patologie croniche più dell’80% necessita di psicofarmaci ed è per questo che serve un supporto sanitario costante. Ho rilevato, come era già accaduto in altre strutture, l’emergenza rispetto alle cure dentarie, perché si fatica a trovare personale che lavori nelle strutture carcerarie” continua Ostanel. “Allo stesso tempo, Padova dimostra che il carcere può essere anche un luogo di reinserimento e di opportunità: grazie al lavoro del terzo settore e delle cooperative sociali, sono attivi progetti culturali, formativi e di inclusione che vanno dalla scuola all’università, fino alle iniziative promosse da “Ristretti Orizzonti” - come la rivista scritta e ideata dai detenuti, o laboratori culturali, dibattiti e formazioni - che oggi ho potuto conoscere da vicino” aggiunge la Consigliera. “Noi continueremo a batterci in Consiglio Regionale perché il Veneto diventi un modello di giustizia che non lascia indietro nessuno: più personale, più servizi, più dignità per chi lavora e vive nelle carceri” conclude Ostanel. Verona. Carcere, accordo con il Comune contro la violenza di genere Corriere del Veneto, 6 agosto 2025 Messi a punto col Comune percorsi psico-educativi per gli uomini detenuti. Tra Comune e casa circondariale di Montorio è stato siglato, in collaborazione con il centro “Non Agire Violenza”, l’accordo per attivare percorsi psico-educativi rivolti agli uomini detenuti per reati sessuali, per maltrattamenti contro familiari e conviventi e per atti persecutori. Detenuti per i quali è stato messo a punto un programma specifico con attività di recupero a carico del sistema penitenziario. L’accordo è stato predisposto dalla vicesindaca Bissoli e dalla direttrice del carcere, Maria Grazia Bregoli. Scopo di questi percorsi, gestiti dal Centro N.A.V. del Comune, è di responsabilizzare la persona riguardo agli atti violenti commessi e stimolare una riflessione sulle conseguenze del reato. Tra i principi fondamentali dell’ordinamento penale riportati dall’articolo 27 della Costituzione italiana, viene elencato anche l’obiettivo della rieducazione del condannato. Ed è proprio in riferimento a questo aspetto, unito a quanto sancito nella Convenzione di Istanbul, che si muove l’iniziativa siglata dall’accordo tra Comune di Verona e Casa Circondariale di Montorio e che intende dare il via, all’interno del carcere veronese, a percorsi psico-educativi rivolti a detenuti condannati per reati di violenza di genere, tra cui reati sessuali, maltrattamenti contro familiari e atti persecutori. L’approvazione dell’accordo tra Comune e carcere, su proposta della vicesindaca e assessore alla Parità di genere Barbara Bissoli, è avvenuta nella giornata di martedì 5 agosto 2025. La Giunta comunale ha infatti dato il via libera allo schema per l’attivazione di percorsi psico-educativi rivolti agli uomini detenuti, condannati per reati sessuali, per maltrattamenti contro familiari e conviventi e per atti persecutori, per i quali sia stato formulato un programma di trattamento individualizzato con finalità di recupero e di sostegno a carico del sistema penitenziario. La gestione di questi percorsi sarà ad opera di Servizi Antiviolenza del Comune, in particolare del Centro N.A.V. - Non Agire Violenza, rivolto agli uomini che agiscono violenza nei confronti delle donne. “D’intesa con la Direttrice della Casa Circondariale di Montorio, dott.ssa Bregoli, che ringrazio per la sensibilità e per la disponibilità che ha dimostrato nell’aver accolto la proposta del nostro Centro Non Agire Violenza N.A.V., che offre percorsi di recupero per uomini autori di violenza nei confronti delle donne - ha sottolineato la vicesindaca Barbara Bissoli - sarà ora possibile per il Comune di Verona partecipare attivamente all’azione rieducativa dei condannati per reati di violenza di genere. Un’iniziativa che rientra in quanto affermato nell’ordinamento penitenziario in attuazione dell’art. 27 della Costituzione, che assegna alla pena un ruolo rieducativo del condannato e della Convenzione di Istanbul che chiede agli Stati aderenti di attivare programmi di trattamento per chi abbia agito violenza di genere, con l’obiettivo di prevenire la recidiva e proteggere l’integrità delle donne vittime della violenza”. Nel dettaglio, il Comune di Verona parteciperà attivamente all’azione rieducativa dei detenuti condannati per reati di violenza di genere, tramite il servizio del Centro N.A.V, impegnandosi a svolgere attività di sostegno psico-educativo negli spazi individuati dalla Direzione del Carcere. Il tutto avverrà tramite un diretto contatto informativo col carcere e con gli operatori penitenziari e attraverso riunioni periodiche del Gruppo allargato di Osservazione e Trattamento (G.O.T.), così come disciplinato dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, al fine di discutere il percorso intrapreso dalla persona detenuta e di confrontarsi, attraverso un lavoro “di rete”, sull’andamento del programma di recupero. Il percorso prevede una durata indicativa minima di 60 ore nell’arco temporale di almeno 12 mesi con gruppi di massimo 8 persone ed è proposto ai detenuti per i quali sia stata predisposta l’Osservazione scientifica della personalità (ai sensi del combinato disposto dell’art. 13 e 4-bis, comma 1-quater, l. n. 354 del 1975), attraverso un intervento psico-educativo individuale e di gruppo che mira a responsabilizzare la persona riguardo agli atti violenti commessi e a stimolare una riflessione sulle conseguenze del reato (in conformità con quanto previsto dall’art. 13-bis l. n. 354 del 1975). “Abbiamo raccolto l’input di portare in carcere l’esperienza e la competenza dei Servizi Antiviolenza comunali dal Tavolo del Carcere, coordinato dal Comune di Verona e partecipato dal Garante dei Detenuti, offrendo con questo accordo una risposta convinta al bisogno rappresentato, anche in considerazione dello stato del percorso di ristrutturazione interna dei Servizi stessi avviato dalla nostra Amministrazione e oggi arrivato a buon punto” ha concluso la vicesindaca di Verona. Cagliari. Visita al carcere minorile di Quartucciu: “Strutture fatiscenti e sovraffollamento” L’Unione Sarda, 6 agosto 2025 La delegazione degli avvocati della Camera Penale di Cagliari ha segnalato persistenti criticità strutturali e gestionali. Ambienti in condizioni degradate, rischio sovraffollamento e accessi negati alle celle: è il quadro critico emerso dalla visita all’Istituto Penale per i Minorenni (Ipm) di Quartucciu, condotta nei giorni scorsi da una delegazione della Camera Penale di Cagliari insieme alla responsabile dell’Osservatorio Carcere Ucpi Sardegna. L’iniziativa si inserisce nell’ambito del progetto nazionale “Ristretti in Agosto”, promosso annualmente dall’Unione delle Camere Penali Italiane per monitorare le condizioni di detenzione durante il periodo estivo. Secondo quanto denunciato dagli avvocati guidati da Franco Villa, l’Ipm ha recentemente toccato un tasso di sovraffollamento del 150%, con la presenza di 17 ragazzi in spazi giudicati inadeguati. Attualmente, grazie a recenti scarcerazioni e trasferimenti, la situazione sembra essersi stabilizzata: sei i minori presenti - cinque in misura cautelare e uno in esecuzione definitiva - con l’arrivo di un settimo previsto a breve. La delegazione ha segnalato persistenti criticità strutturali e gestionali, nonostante l’imminente completamento di nuovi spazi in fase di ristrutturazione, la cui consegna è prevista per settembre. La direttrice dell’istituto ha accompagnato i visitatori illustrando i futuri miglioramenti, ma non è bastato a dissipare le preoccupazioni. A destare particolare indignazione è stato il divieto imposto alla delegazione di accedere alle stanze di pernottamento dei giovani detenuti. Il provvedimento è stato giustificato da una circolare del Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità datata 30 aprile 2025. “Un fatto grave - denunciano gli avvocati - che svuota di significato la funzione di monitoraggio delle visite, impedendo di verificare direttamente le condizioni detentive dei minori”. Nel comunicato diffuso dalla Camera Penale di Cagliari si sottolinea con preoccupazione “l’indirizzo politico repressivo e carcerocentrico” che starebbe prendendo piede anche nel sistema penale minorile, a discapito dell’approccio educativo e preventivo. Una direzione che, secondo i penalisti, si scontra con i dati ufficiali che mostrano una riduzione dei reati commessi da minorenni tra il 2022 e il 2023. La Camera Penale ribadisce infine la necessità di riformare il sistema penale minorile, orientandolo verso la tutela della persona, la prevenzione della recidiva e la costruzione di percorsi educativi “nel pieno rispetto dei principi costituzionali e delle convenzioni internazionali”. Busto Arsizio. Visita della Camera Penale al carcere: “Ben organizzato e decoroso” La Prealpina, 6 agosto 2025 Segnalati tuttavia i problemi endemici delle strutture italiane: sovraffollamento e carenza di personale. Martedì 5 agosto la Camera Penale di Busto Arsizio ha inviato una delegazione composta dagli avvocati Michela Ghiso, Anna Monica Ielmini, Lorenzo Parachini, Samuele Genoni, Elisa Rocchitelli, Giovanni Pignataro e Andrea Febbraio presso la casa circondariale di Busto Arsizio. All’iniziativa ha aderito anche il consigliere del Comune di Gallarate, nonché consigliere provinciale, Marco Colombo. La delegazione è stata accolta e accompagnata durante una visita, che ha interessato l’intero istituto, dalla direttrice Maria Pitaniello, dalla responsabile dell’area trattamentale, Valentina Settineri, e dal personale della polizia penitenziaria. “I partecipanti - si legge in una nota della Camera Penale - hanno avuto modo di visitare tutte sezioni dove sono risultati evidenti i problemi endemici degli istituti penitenziari italiani, tra i quali il sovraffollamento, la presenza di detenuti con patologie di carattere psichiatrico. Il tutto a fronte di un sottodimensionamento del personale di polizia penitenziaria e trattamentale, se rapportato al numero effettivo di detenuti. Tuttavia, molto è stato fatto a livello strutturale, nel solco delle attività intraprese e riscontrate già in occasione delle ultime due visite effettuate: rifacimento arredi interni, ristrutturazione di ampie aree dell’edificio pronte per essere destinate a varie iniziative. Si è potuto constatare come le iniziative volte all’apertura al territorio stiano proseguendo, consentendo la creazione di nuove attività imprenditoriali all’interno della struttura e, altresì, consentendo di aumentare l’offerta di lavoro in articolo 21 o.p. (l’articolo dell’ordinamento penitenziario che disciplina il lavoro all’esterno per i detenuti, ndr). In particolare, ci è stato illustrato il lavoro finalizzato a offrire ai detenuti opportunità non solo ricreative - teatro, ambienti di culto, palestra - ma anche lavorative grazie alla proficua collaborazione con realtà imprenditoriali locali che hanno accettato di offrire impiego, fondamentale per trasformare la solitudine e l’alienazione derivanti dalla condizione detentiva in occasione di crescita personale, anche in vista del futuro reinserimento sociale. Nel complesso si è trovata una struttura ben organizzata e decorosa. Tra le recenti innovazioni si deve segnalare anche il completo rifacimento delle cucine, sia da un punto di vista strutturale che di attrezzature”. In occasione della visita, la Camera Penale di Busto Arsizio ha donato all’istituto numerosi libri, raccolti tra gli iscritti. L’Aquila. Sinistra Italiana: “Disagio giovanile, il carcere non è la risposta” abruzzosera.it, 6 agosto 2025 “È stato inaugurato ieri l’Istituto Penale per Minorenni dell’Aquila, un evento celebrato come un grande segnale di attenzione del Governo verso il territorio e le problematiche vissute dalle ragazze e dai ragazzi che qui vivono. Se davvero si pensa che investire sulla detenzione minorile sia un modo efficace per contrastare il disagio giovanile, come riportato nella nota del senatore Liris, siamo di fronte a due ipotesi: o si è scoperta una nuova frontiera della pedagogia oppure si sta dando una risposta “facile” ma sbagliata a un problema complesso e reale”. A dichiararlo in una nota sono Fabrizio Giustizieri, Segretario Provinciale Sinistra Italiana - AVS L’Aquila, Pierluigi Iannarelli, Segretario Comunale Sinistra Italiana - AVS L’Aquila e Lorenzo Rotellini, Capogruppo AVS Comune di L’Aquila. “Il carcere, per sua natura, rappresenta un fallimento. Se un o una minorenne arriva a varcare quelle porte, significa che molte cose non hanno funzionato prima: la scuola, i servizi sociali, le opportunità, le politiche pubbliche, la prevenzione, oltre naturalmente la famiglia. La politica dovrebbe preoccuparsi di questo, non alimentare la distorsione per cui la repressione è giusta e necessaria, quasi fosse un antidoto naturale alla devianza. Che le carceri servano è vero: devono essere luoghi in cui si tutela la dignità umana e si offre un percorso di rieducazione ma funzionano solo se in relazione e in sinergia con il mondo esterno, se danno davvero una possibilità, non se diventano parcheggi esistenziali - quando non vere e proprie palestre del disagio”. “Fortunatamente a L’Aquila abbiamo un ottimo esempio in cui il tribunale dei minori e tutta l’organizzazione degli uffici di pena minorile sono indirizzati al reinserimento delle ragazze e dei ragazzi puntando sull’inclusione e non sulla coercizione. Come abbiamo affermato però l’Istituto di pena è l’ultimo stadio per il recupero delle devianze giovanili e purtroppo i dati parlano chiaro: tra il 60 e il 70% dei giovani che entrano in un Istituto Penale per Minorenni, una volta usciti, tornano a commettere reati. Qualcosa evidentemente non sta funzionando e la politica dovrebbe avere il coraggio di guardare lì dove le risposte non sono facili ma urgenti e dovute.” “Dobbiamo qui ricordare che l’Istituto Penale per Minorenni dell’Aquila non era attivo già da prima del sisma del 2009 in quanto ci risulta che la sua chiusura era frutto di scelte amministrative volte a razionalizzare le risorse, accorpando la sezione minorile al carcere per adulti; è così l’Università dell’Aquila avanzò la richiesta di utilizzo della struttura, ottenendone l’assegnazione grazie a una convenzione con la Protezione Civile e il Ministero della Giustizia”. “Dal 2014 l’edificio ha ospitato i corsi di Economia, con investimenti continui e servizi come la mensa condivisa con il Conservatorio. Nel 2023 il sottosegretario Del Mastro ha rivendicato la struttura per ripristinarne la funzione carceraria, costringendo l’università a sgomberare gli spazi nel gennaio 2025. Una nuova sede penitenziaria poteva essere costruita altrove, preservando un presidio formativo strategico invece, l’azione politica di una destra che pensa che carcere e repressione siano sinonimi di sicurezza, ha preferito sacrificare l’università, danneggiando studenti e territorio e penalizzando un corso di laurea, quello di Economia, che dovrebbe essere sostenuto e non affossato”. “In poche parole si festeggia la riapertura dell’IPM mentre si tolgono locali all’Università: questa è la plastica rappresentazione di una visione di società che non ci piace e non ci appartiene ossia quella che sottrae spazi alla conoscenza e che non pensa in maniera strategica per il bene delle giovani generazioni e della comunità in generale. Ripetiamo: la necessità di avere un Istituto Penale per Minorenni poteva essere soddisfatta diversamente, di certo non a danno di uno dei più grandi beni del nostro territorio che è l’Università.” Milano. Disabili e detenuti: l’incontro che apre le gabbie fisiche e mentali di Giorgio Paolucci Avvenire, 6 agosto 2025 L’esperienza (unica) al carcere di Opera: uno spazio di relazione tra i reclusi e gli ospiti del centro psichiatrico Camaleonte della Fondazione Sacra Famiglia che li fa sentire persone libere. L’esordio è un tripudio di strette di mano, baci, abbracci, sorrisi, in un luogo dove c’è poco da ridere. Si incontrano due volte al mese in un salone del carcere di Opera, alle porte di Milano. Matti e criminali, per dirla in maniera brutale, secondo il linguaggio della strada. Per dirla meglio, persone disabili e persone detenute. Persone. I primi arrivano dal Camaleonte, il centro diurno psichiatrico della Fondazione Sacra Famiglia di Cesano Boscone, storico luogo di accoglienza nato nel solco della carità cristiana. I secondi portano sulle spalle condanne di ogni genere, ergastolo compreso, e hanno aderito alla proposta dell’associazione In Opera, promotrice di meritorie iniziative che cercano di dare un volto un po’ più umano alla detenzione. Gli incontri si nutrono di dialoghi, musica, giochi di ruolo, simulazioni, esercizi, puntando tutto sul fattore umano e facendosi aiutare da parole chiave che favoriscono empatia e conoscenza reciproca e stimolano a uscire dalle gabbie fisiche e mentali in cui i protagonisti si sono trovati a vivere. Un’esperienza iniziata nel 2018, la prima del genere in Italia, e che quest’anno, con il nome di “Viaggiatori all’Opera”, mette al centro la lettura del “Piccolo principe” di Saint Exupéry: esplorazioni verso nuovi mondi che aiutano a scoprire se stessi e il valore prezioso dell’alterità. “Non nego che all’inizio ero un po’ titubante, ma nel tempo ho scoperto quanta umanità è racchiusa dietro la fragilità di queste persone - confessa Giuseppe, un galeotto veterano del progetto -. In carcere i rapporti tendono a fermarsi alla superficie e ognuno può stare insieme agli altri rimanendo comodamente nascosto dietro la propria maschera. Qui invece saltano gli schemi, siamo invitati a metterci in gioco, a entrare in un confronto diretto con l’umanità delle persone”. Per Ubaldo la partecipazione al progetto è diventata “un luogo di amicizia, dove anche noi detenuti sperimentiamo l’importanza delle relazioni. La malattia psichica e la reclusione fisica sono due condizioni con cui dobbiamo fare i conti ma che non ci definiscono. Siamo di più, siamo persone. Le potrà sembrare paradossale, ma per me questi incontri hanno il sapore della libertà”. Barbara Migliavacca è la responsabile del centro psichiatrico Il Camaleonte della Fondazione Sacra Famiglia, vive ogni giorno immersa nel mondo della disabilità e ha potuto verificare “l’importanza di questa esperienza anche sotto il profilo riabilitativo. È nella relazione che i nostri ospiti scoprono il loro valore. Quando incontrano le persone detenute, non si sentono più “pazienti” beneficiari di cura e assistenza, etichettati da una diagnosi. Osservando il loro comportamento notiamo cambiamenti significativi: cresce l’autostima, diventano protagonisti, intuiscono che anche loro possono prendersi cura dell’altro. Funziona come un balsamo rigeneratore. L’incontro con i ristretti ha proprio il valore di una terapia”. Lo conferma in maniera colorita Elena, che frequenta il Camaleonte da dieci anni e dal 2022 partecipa agli incontri di Opera: “Sono proprio contenta, ho scoperto che i carcerati sono persone come noi, non sono vestiti con le tute a strisce bianche e nere come ho visto nei film alla televisione. Frequentandoli, li ho trovati simpatici e socievoli, quando sto con loro mi sento come se avessi una famiglia, io che non l’ho mai avuta”. È più pesante la prigionia fisica di chi trascorre tanti anni (a volte tutti quelli che gli rimangono da vivere) in una cella o quella mentale di chi fa i conti con il disagio psichico? Una cosa è certa: l’incontro che avviene tra i protagonisti di queste prigionie - come può testimoniare chi scrive - non è la sovrapposizione di due condizioni negative, piuttosto diventa l’occasione per costruire rapporti generativi. Non solo perché aiuta a superare lo stigma sociale (“criminali” e “matti”) ma perché diventa un sollievo sulle ferite inferte dalla vita, produce un’energia - a volte inattesa, ma reale - che aiuta a ripartire, a intuire che nelle persone c’è un valore infinito. Qualcosa che a prima vista sembra improbabile produce un cambiamento. Proprio da questa evidenza è nato un video che già nel titolo esprime le potenzialità dell’esperienza: si intitola “La cura improbabile”. Giovanna Musco, presidente dell’associazione In Opera e pioniera di un progetto che non ha precedenti nel nostro Paese, in questi anni ha ricevuto tanti riscontri sui benefici che derivano ai detenuti dalla possibilità di conoscere ed entrare in amicizia “con persone che, pur se in maniera differente, sperimentano anche loro una gabbia, una limitazione della libertà. Si sentono utili, preziosi, protagonisti. Agli incontri partecipano anche persone che da anni non mettevano il naso fuori dalla cella, per qualcuno è come riaffacciarsi alla vita, riscoprire l’importanza delle relazioni. Alcuni dopo la conclusione dell’esperienza detentiva hanno voluto andare alla Sacra Famiglia per rivedere le persone conosciute qui: un’amicizia che non conosce confini”. C’è anche un aspetto che riguarda il percorso rieducativo: “Con alcuni ristretti stiamo riflettendo sul valore della giustizia riparativa, che implica un lavoro di ricucitura con il tessuto sociale che ha subito un danno da chi ha commesso reati. Costruire relazioni con chi vive una condizione di particolare fragilità, come avviene nei nostri incontri, va proprio in questa direzione. Chi aderisce al progetto ha la possibilità di riflettere sulle ferite che ha provocato e di poter in qualche modo risanare almeno in parte il danno provocato alla società”. Dopo anni di tentativi e di rodaggio la sinergia tra questi due mondi si è consolidata, ma gli esordi non sono stati affatto semplici, come ricorda Florenc che è stato tra gli iniziatori e che oggi, anche se trasferito in un altro istituto penitenziario, continua a seguire l’avventura di questa insolita compagnia. “Nei primi incontri abbiamo dovuto misurarci con pregiudizi e preoccupazioni anche legittime: temevamo di non essere capaci di gestire i loro sbalzi di umore, le limitazioni fisiche, tutto ciò che può derivare da una condizione di disabilità psichica. Anche tra loro c’era chi non si sentiva a suo agio nel varcare i cancelli di una prigione, nell’avere a che fare con gente che ha commesso reati, a volte anche molto gravi. Per superare le riserve reciproche è stato decisivo l’incontro, la disponibilità a mettersi in gioco, a riconoscere che ci unisce la medesima umanità, il desiderio di conoscere l’altro riconoscendo ciascuno le proprie fragilità. Così, dopo i primi incontri, il tempo che ci veniva messo a disposizione dalla direzione era sempre troppo breve: loro non volevano mai lasciare il carcere e noi non vedevamo l’ora di incontrarli di nuovo. È proprio vero: bisogna imparare a parlarsi, a guardarsi da vicino. Credo che questo valga anche per voi “normali’”. A volte la vita può cambiare, se cambia lo sguardo. Piacenza. Carcere “senza barriere” grazie alle note degli “Ottoni della Cherubini” Libertà, 6 agosto 2025 Quando le note si alzano sul cortile interno e dalle alte mura del carcere delle Novate, la sera si è già impadronita del giorno. A lasciarsi trasportare dalla musica ci sono un centinaio di persone sedute. Nel rettangolo di cielo che va scurendosi sopra le loro teste appaiono e scompaiono gli uccelli migratori. Chissà se anche a loro è giunto qualcosa del concerto “Gli Ottoni della Cherubini”, iniziativa che fa parte del progetto “La musica senza barriere” che intende portare la musica a chi non può varcare la soglia di un teatro, tenuto ieri sera in carcere dall’Orchestra Giovanile Cherubini fondata dal maestro Riccardo Muti nel 2004. Davanti ai musicisti ci sono una cinquantina di detenuti, gli agenti della polizia penitenziaria, che proprio due notti fa hanno perso il collega Gioachino Gino Grillo a causa di un incidente stradale - ricordato come “un uomo dal grande cuore” e anche da un sentito applauso - ci sono i rappresentanti del volontariato e del terzo settore e quelli delle istituzioni: dal prefetto Daniela Lupo alla presidente del consiglio comunale Paola Gazzolo, all’assessore alla Cultura Christian Fiazza. In apertura Maria Gabriella Lusi, direttrice della Casa circondariale, ha ribadito di “credere davvero che momenti come questo, in sinergia con il territorio, rappresentino una fonte di ricchezza perché la musica e la bellezza aiutano al reinserimento e sono un’occasione di rigenerazione, come sottolineato dal maestro Muti, di cui tutti abbiamo bisogno”. Il concerto di ieri sera è stato presentato come un momento in cui la cultura e la bellezza diventano cura dell’anima, come una tappa del percorso rieducativo dei detenuti, ma anche di crescita per tutti coloro che vi hanno assistito. C’è di più. È difficile infatti immaginare il sollievo che avrà provato un detenuto per la routine spezzata, quella del carcere (che pure organizza diverse attività), mentre per una volta grazie alla musica il muro di cinta che divide la casa circondariale dalla città ben si conforma al termine “con-fine”, perché pur designando un limite, grazie al prefisso “con” fa sì che quello stesso limite sia condiviso, rendendolo poroso e ricordando a tutti che il carcere è un luogo di vita, difficile e aspra, ma pur sempre di vita. Dallo Schiaccianoci di Tchaikovsky alla Ceremonial Fanfare di Copland, dall’adattamento del celebre Larghetto dal Concerto per violino RV 230 di Vivaldi al tema di Jurassic Park (dal film cult con musiche di John Williams), ma anche Cantica Luciorum, un adattamento di canzoni di Lucio Dalla: le note emozionano in un luogo dove il silenzio è usuale e rotto spesso solo dalle grida da una cella all’altra; la musica si diffonde e raggiunge anche chi, in cella, non può assistere direttamente all’evento. Quando il concerto finisce metà della platea si alza, esce dall’istituto e fa ritorno a casa, l’altra metà torna nelle celle. Per più di un’ora chi sta scontando la sua pena e i liberi cittadini si sono sentiti uguali grazie alle trombe suonate da Pietro Sciutto, Matteo Novello e Marco Vita, i corni di Federico Fantozzi, Mattia Botto e Luca Carrano, i tromboni di Salvatore Veraldi, Demetrio Bonvecchio e Cosimo Iacoviello, la tuba di Alessandro Rocco Iezzi e le percussioni Federico Moscano. Clima ammalato, la parola ai giudici di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 6 agosto 2025 Nell’insofferenza politica per la presenza dei giudici e per il ruolo che essi svolgono ha un peso importante il tema della pretesa invenzione di “nuovi diritti”: nuovi diritti che danno ai giudici nuove occasioni di intervento. Il giudice non interviene di sua iniziativa, ma risponde a una domanda, cui è obbligato a dar risposta. La vicenda dei diritti legati all’ambiente è emblematica di come essi prima si manifestino nell’evoluzione della sensibilità sociale e politica e poi prendano corpo e vigore sul piano del diritto. In Europa è significativo ciò che è avvenuto nel campo dei diritti individuali, in vicende in cui è importante questo o quell’aspetto dell’ambiente. La norma della Convenzione europea dei diritti umani (1950) relativa al diritto alla protezione della vita individuale solo a partire dagli anni ‘90 divenne la base di ricorsi alla Corte europea. Fumi e rumori venivano indicati dai ricorrenti come causa di deterioramento della qualità della loro vita. Prima di quegli anni lo stato dell’economia in Europa, dopo le distruzioni belliche, evidentemente non suggeriva reazioni individuali a situazioni che erano frutto dello sviluppo industriale. In mancanza di ricorsi non ci furono sentenze della Corte che riconoscessero nel deterioramento ambientale l’origine di violazione di diritti individuali. Furono i nuovi ricorsi a stimolare una nuova lettura della generica formula che si trova nella Convenzione europea. È utile ricordare l’origine di quella giurisprudenza per segnalare che essa si fonda su uno sviluppo dell’atteggiamento e della sensibilità sociali. L’intervento dei giudici seguì, non precedette il nuovo dato sociale. A livello interno la vicenda del diritto della tutela ambientale può essere letta in termini simili. La crisi del riscaldamento globale è divenuta tema di discussione pubblica, non per sentenze dei giudici, ma per azioni e battaglie di gruppi ecologisti e per studi scientifici che ne hanno documentato la gravità e l’origine nei comportamenti umani. Interessi economici rilevanti, capaci di muovere interventi politici hanno contribuito a rendere il tema di estrema rilevanza sociale e politica a livello globale. Iniziative di carattere legale hanno fatto seguito. Così in Italia il Parlamento nel 2022 ha modificato la Costituzione inserendo il rispetto per l’ambiente, anche nell’interesse delle nuove generazioni, tra gli obblighi della Repubblica e i limiti dell’iniziativa economica. È possibile che l’intervento sulla Costituzione rispondesse soprattutto a una finalità di messaggio politico, senza effetti immediati. Ma formule come quelle inserite in Costituzione incidono immediatamente sul terreno dei diritti individuali e, quindi, sulle decisioni dei giudici. Analogamente avviene con le numerose dichiarazioni e convenzioni internazionali. Proclamate spesso con gran dispendio di soddisfatte dichiarazioni politiche, sembrano poi spegnersi sul piano pratico della loro messa in opera. I costi economici e sociali sono enormi e conseguentemente le difficoltà politiche. Ma nella realtà della vita del diritto quelle dichiarazioni e quelle convenzioni non restano inoperanti; progressivamente esse incidono dando luogo a ricorsi e quindi a decisioni giudiziarie. È probabile che ne seguano polemiche, che avranno come bersaglio i giudici. È dell’anno scorso una importante sentenza della Corte europea dei diritti umani in risposta a un ricorso di alcune anziane cittadine svizzere e della loro associazione. Alla Svizzera le ricorrenti imputavano il deterioramento della qualità della loro vita dovuto al crescere del riscaldamento globale e ai conseguenti periodi di grave calura. La responsabilità del governo derivava, secondo le ricorrenti, dalla mancata attuazione della normativa nazionale derivante dalle convenzioni internazionali per il contrasto al riscaldamento globale con la riduzione delle emissioni di CO2. La Corte europea ha riconosciuto la violazione denunciata dalla associazione delle ricorrenti, che ha nello statuto lo scopo di promuovere le ragioni delle socie nella protezione dell’ambiente. La mancanza di prove del diretto impatto del riscaldamento globale sulle condizioni di vita di ciascuna ricorrente ha invece portato la Corte a respingere il loro ricorso. Ma in linea di principio anche la posizione delle ricorrenti è stata accolta. La sentenza costituisce un precedente, che orienta le decisioni dei giudici nazionali nei vari Paesi e delle altre corti internazionali. Così è di pochi giorni fa la decisione della Corte di Cassazione italiana sul se e quale giudice debba trattare un ricorso di Greenpeace Onlus e di alcune persone individuali contro l’Eni e gli azionisti Ministero dell’Economia e Cassa Depositi e prestiti. La Cassazione ha riconosciuto la giurisdizione del Tribunale di Roma. Il Tribunale è chiamato a decidere sulla responsabilità civile per danni degli enti convenuti in giudizio, cui si imputano una attività e un orientamento gestionale in contrasto con gli impegni internazionali dello Stato per la diminuzione della produzione di gas ad effetto serra. Si tratta di un caso rientrante nel quadro ormai vasto di “climate change litigations” davanti ai giudici nazionali. La decisione della Cassazione richiama e condivide anche quella della Corte europea. Negli stessi giorni è stata pubblicata l’opinione espressa dalla Corte internazionale di giustizia, che ha risposto alle domande rivoltele dall’Assemblea generale Onu. Muovendo dalla constatazione della gravità dell’impatto sull’ambiente delle emissioni di gas a effetto serra, l’Assemblea aveva chiesto alla Corte (massima Corte di giustizia delle Nazioni Unite) di esprimersi sugli obblighi che incombono sugli Stati per la protezione del sistema climatico e dell’ambiente contro le emissioni di origine umane di gas a effetto serra. In secondo luogo, alla Corte è stato chiesto di esprimersi sugli obblighi per gli Stati che hanno contribuito a causare danni significativi al sistema climatico di altri Stati particolarmente colpiti, alle popolazioni e alle generazioni future. La Corte ha risposto che gli Stati hanno l’obbligo di prendere misure per la riduzione dei gas a effetto serra e di cooperare per evitare che le attività che si svolgono nel loro territorio producano danni al sistema climatico generale. La violazione di questi obblighi costituisce un illecito da cui deriva l’obbligo di risarcire integralmente gli Stati danneggiati. Nel giro di pochi giorni si sono susseguite decisioni di giustizia, diverse ma coerenti. Esse hanno messo in evidenza come nascano “nuovi diritti” per gli individui: come cioè nuove aspettative o pretese si trasformino uscendo dal solo dibattito sociale e politico, per approdare al livello delle obbligazioni giuridiche. Qualche volta si ha l’impressione che non se ne abbia consapevolezza da parte di chi approva dichiarazioni e sottoscrive convenzioni; ne segue la sorpresa quando poi vi è chi si rivolge ai giudici per ottenere che alle parole seguano i fatti. E che le controversie siano sciolte dai giudici. Segue una conclusiva indicazione, non nel senso di più prudenza da parte di governi e parlamenti nel produrre dichiarazioni di impegno ad agire per proteggere l’ambiente, ma piuttosto di prenderle sul serio e dar seguito alle parole con i fatti. Così come pretendono i cittadini e le loro associazioni, che ricorrono ai giudici, e i giudici che da quelle dichiarazioni traggono conseguenze. Migranti. Prima il viaggio disumano, poi il lockdown psichico: ecco il Cpr in Albania di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 agosto 2025 Fascette di plastica strette ai polsi per oltre venti ore, destinazioni taciute, diritti calpestati: così il nostro Stato trasferisce migranti verso l’Albania senza un provvedimento scritto, in aperto contrasto con la Costituzione e le norme europee. Un viaggio che trasforma l’espulsione in tortura burocratica, documentato dal report “Ferite di confine. La nuova fase del modello Albania”, presentato a fine luglio dal Tavolo Asilo e Immigrazione. Da aprile scorso, decine di persone trattenute nei Centri di permanenza e rimpatrio (CPR) italiani vengono ammanettate con fascette in velcro e caricate su pullman e navi, come se la dignità fosse un optional. Questo sistema non sfiora solo la legalità: la travolge. Come è noto, a partire da aprile 2025, il governo italiano ha avviato una nuova fase operativa del Protocollo con l’Albania, che prevede il trasferimento forzato verso il centro di Gjadër di persone già trattenute nei Cpr italiani, in attesa di espulsione. Sulla base di sei visite di monitoraggio tra aprile e luglio 2025, delle interlocuzioni con circa 60 persone trattenute, raccolte insieme ad atti amministrativi, accessi civici e giurisprudenza italiana ed europea, il report mostra un quadro di violazioni sistemiche e di un impianto politico e sociale di esclusione. Dentro le mura del Cpr di Gjadër si consuma una spirale di sofferenza invisibile, fatta di notti insonni e menti in subbuglio. Questo emerge dal report. Le persone recluse arrivano già provate da viaggi estenuanti, ma qui l’isolamento forzato aggrava disturbi esistenti e ne fa nascere di nuovi. In assenza di una vera valutazione psichica al momento del trasferimento - che si basa unicamente su un rapido controllo in Italia, senza alcuna rivalutazione una volta in Albania - chi ha bisogno di supporto viene lasciato a sé stesso. I sintomi che emergono seguono uno schema ormai riconosciuto: dissociazione, ipervigilanza, attacchi di panico, fobie legate agli spazi angusti e alle sbarre. A tutto questo si aggiungono somatizzazioni estreme - mal di testa lancinanti, tachicardie, dolori che non rispondono a cure somministrate con leggerezza - e una marcata disregolazione emotiva, con sbalzi d’umore improvvisi e attacchi di rabbia indirizzati contro sé stessi. Nei primi trenta giorni dal primo trasferimento, il Registro degli Eventi Critici ha contato 42 episodi critici, 21 dei quali tentativi di autolesionismo o gesti suicidari, un tasso che supera ogni media di emergenza sanitaria in contesti di detenzione amministrativa. Al 16 maggio 2025, a poco più di un mese dal primo trasferimento verso il Cpr di Gjadër, con una presenza stimata di 40- 60 persone, il Registro degli Eventi Critici segnalava 42 episodi, in prevalenza legati a condizioni sanitarie e psichiche. Tra questi: ingestione volontaria di oggetti (una chiusura lampo, bagnoschiuma), due tentativi di impiccagione con indumenti fissati agli sprinkler, ferite da vetri rotti durante una protesta e diversi episodi di autolesionismo. Alcuni trattenuti presentavano patologie pregresse non adeguatamente trattate - come asma, dolori articolari, infezioni addominali o forti mal di denti - e in almeno due casi persone vulnerabili, inizialmente isolate per “disturbo del comportamento”, sono state successivamente dichiarate non idonee al trattenimento dopo una rivalutazione sanitaria, con conseguente rientro in Italia. Le stanze utilizzate per l’isolamento, inadatte alla gestione di fragilità psichiatriche, aumentavano il rischio di autolesionismo. In questo contesto, la promessa di “assistenza psicologica” si frantuma contro la realtà di uno spazio disumano: non c’è filo di dialogo, non c’è cura continua, non c’è futuro. La nuova frontiera del controllo migratorio si fonda su uno svuotamento psichico: un’emergenza che chiede non solo interventi sanitari urgenti, ma la fine di un modello che trasforma la fragilità in reato. Dal report è emerso che i trasferimenti dai Cpr italiani a quello in Albania avvengono con modalità disumane. Un caso particolarmente grave, per il quale è in corso una richiesta di risarcimento danni, riguarda un trasferimento avvenuto nel maggio 2025 dal Cpr di Macomer (Sardegna) a quello albanese di Gjadër. Durante tutto il viaggio - che ha toccato le tappe Macomer- Roma, Roma- Brindisi e Brindisi- Gjadër - la persona è stata tenuta legata con fascette di plastica per oltre 24 ore consecutive. Le condizioni del trasporto sono state definite ‘ disumane e degradanti’, lesive della dignità umana. Ma c’è un altro aspetto grave: l’inganno. Alla persona trasferita era stato detto che sarebbe stata portata in un altro Cpr sul territorio italiano, non in Albania. La vera destinazione non è mai stata comunicata. Nonostante la persona non opponesse alcuna resistenza, è stata legata con fascette in velcro fin dall’uscita dal Cpr di Macomer. Le fascette sono state rimosse solo tre volte durante tutto il viaggio, unicamente per permettere l’accesso ai servizi igienici. Questo trattamento, durato circa 24 ore, viola palesemente i diritti fondamentali della persona e risulta del tutto illegittimo. Tutte le persone trasferite hanno raccontato di aver subito le stesse limitazioni e umiliazioni. Sebbene formalmente si tratti di uno “spostamento da Cpr a Cpr”, nella realtà è un trasferimento dall’Italia verso un Paese terzo fuori dall’Unione Europea, della durata di circa 24 ore, che coinvolge mezzi di trasporto terrestri e marittimi. Per questo tipo di operazioni dovrebbero applicarsi le norme specifiche sui rimpatri, con tutte le garanzie che ne derivano. L’Agenzia dell’Ue per i diritti fondamentali ha più volte sottolineato che operazioni di questo tipo presentano un rischio molto elevato di violazioni dei diritti umani. La normativa europea sui rimpatri stabilisce regole precise per l’uso di mezzi coercitivi come le fascette: possono essere utilizzati solo quando la persona si oppone attivamente al trasferimento, dopo una valutazione individuale del rischio, in modo proporzionato e per il tempo strettamente necessario, sempre nel rispetto della dignità umana. Le linee guida dell’agenzia Frontex del 2016 sono ancora più specifiche: ogni decisione deve essere presa caso per caso, mai in modo generalizzato. L’uso preventivo di mezzi di contenzione è espressamente vietato. La norma prevede anche che ‘ in caso di dubbio, l’operazione di allontanamento che richiede misure coercitive è sospesa’, perché ‘ un allontanamento non può essere effettuato a qualsiasi costo’. Nei trasferimenti verso l’Albania, queste regole fondamentali sono state completamente ignorate. Non risulta che la polizia abbia mai effettuato una valutazione preventiva sulla necessità di usare le fascette, considerando il livello di rischio concreto. Un rischio che, vista la natura del trasferimento marittimo e la presenza massiccia di forze dell’ordine (due agenti per ogni persona trasferita), non poteva certo essere considerato elevato. L’assenza di episodi di rivolta o disordini durante le operazioni conferma che non c’erano ragioni oggettive per misure così severe. Eppure le fascette sono state applicate indiscriminatamente a tutti i trasferiti, senza alcuna valutazione individuale e senza considerare che nessuno aveva mostrato comportamenti di resistenza. Più grave ancora, la contenzione è durata per l’intera operazione, circa 24 ore consecutive, un tempo del tutto sproporzionato rispetto a qualsiasi possibile necessità di sicurezza. Il rapporto conclude che un uso così prolungato di strumenti di coercizione, senza una valutazione personalizzata del rischio e in assenza di comportamenti ostili, costituisce una violazione manifesta dei diritti fondamentali delle persone coinvolte, costrette a rimanere per molte ore in condizioni di contenzione fisica, pur essendo costantemente sotto il controllo di numerose forze dell’ordine. Stati Uniti. La guerra di Trump ai senza dimora, classe pericolosa di Susanna Ronconi Il Manifesto, 6 agosto 2025 Dopo gli immigrati, per Trump è l’ora dei senza dimora, dei consumatori di droghe e delle persone affette da disturbi mentali. Anzi, è l’ora di colpire gli americani che assommano in sé tutte e tre le condizioni, facendo della massima sofferenza sociale l’oggetto di una nuova crociata di “tolleranza zero”. Con un ordine esecutivo presidenziale - che obbliga tutte le amministrazioni, federali e statali - denominato Ending crime and disorder on America’s streets (Porre fine alla criminalità e al disordine sulle strade americane), si rende operativa la radicale criminalizzazione delle persone senza dimora, individuate come prima causa di insicurezza urbana e minaccia ai cittadini. Al contempo, partendo dal dato che “la stragrande maggioranza di questi individui è dipendente da droghe, soffre di problemi di salute mentale o entrambe le cose”, la direttiva sterza in maniera repressiva anche sul consumo di sostanze e sulla pericolosità sociale del disagio mentale. L’obiettivo è sgombrare le strade da questo popolo sofferente: “Far rispettare i divieti sull’uso di droghe illecite in pubblico, i divieti sul vagabondaggio urbano, i divieti sulle occupazioni abusive”, e lo strumento cardine è il “trattamento ambulatoriale obbligatorio o il trasferimento in centri di cura o altre strutture appropriate tramite ricovero obbligatorio”, nella dichiarata convinzione che “il trasferimento dei senzatetto in contesti istituzionali a lungo termine attraverso l’uso appropriato del trattamento obbligatorio ripristinerà l’ordine pubblico”. Per garantire la piena attuazione di questo immane internamento coatto di massa - i senza dimora sono (sotto) stimati in 650mila - il testo dettaglia alcuni passaggi: innanzitutto, la competenza, sui singoli casi, delle Procure e l’ancillarità dei pareri di servizi sociali e sanitari; chi decide su modalità e durata dell’internamento non ha in mente la salute, ma l’attuazione di una norma di controllo. Poi: modifica delle norme sul consenso informato per ampliare il campo d’azione del trattamento obbligatorio; identificazione di standard del trattamento obbligatorio “massimamente flessibili” per chi soffre di malattie mentali; raccolta dei dati sulla salute e loro cessione alle Procure; e, per gli amministratori locali, il ricorso, se necessario, ai fondi straordinari per le Emergenze sulla sicurezza. Ma non solo: per garantirsi il rispetto della direttiva in tutti gli Usa, e per sottomettere anche gli stati e le città riluttanti alle logiche trumpiane, incombe - proprio come per le università - la minaccia di tagli ai finanziamenti federali per chi non ottemperi. In particolare questo attiene agli interventi sulle droghe: si invita “a non finanziare programmi che non riescono a raggiungere risultati adeguati, compresi i cosiddetti sforzi di “riduzione del danno” o di “consumo sicuro” che non fanno altro che facilitare l’uso illegale di droghe”; si invitano poi le Procure a verificare che non si ravvisino reati per chi “gestisce “siti di consumo sicuro” o distribuisce consapevolmente strumenti per l’uso di droga”. E non manca, sul piano sociale, l’attacco diretto allo housing first, che garantisce una casa anche a chi usa sostanze, cosa che secondo Trump “rinuncia a promuovere trattamenti e riabilitazione”. Insomma, è un processo alla logica della Riduzione del danno (RdD), e con essa alle strategie di inclusione sociale, a solo poco più di un anno da quel “cambio di rotta” annunciato in sede Onu, a Vienna, con cui gli Usa avevano annunciato che la RdD era una strategia necessaria a contrastare, tra l’altro, anche la crisi del fentanyl. Con Trump, la war on drugs ricomincia, e lo fa nel modo più odioso: come una “guerra di classe”, che internerà un popolo di esclusi, arricchirà il privato e cercherà di far tacere con la forza del penale e dei soldi le voci critiche. Venezuela. Alberto Trentini detenuto, respinto a Caracas l’inviato del Governo italiano di Roberta Polese Corriere della Sera, 6 agosto 2025 I genitori: “Dopo 9 mesi nostro figlio torni a casa”. Sono 263 giorni che Alberto Trentini è detenuto a Caracas, e l’ultimo tentativo di riportarlo a casa è andato a vuoto. È fallita la missione dell’inviato della Farnesina Luigi Vignali, che il ministro degli Esteri Antonio Tajani aveva nominato a fine luglio proprio per occuparsi del caso del cooperante veneziano in carcere dal 15 novembre scorso, e degli altri quindici italiani detenuti nelle carceri venezuelane. Due giorni fa Vignali, giunto a Caracas, non è riuscito a incontrare esponenti del governo venezuelano, nè altri delegati disposti a trattare, ed è tornato a Roma. Ma un nuovo tentativo dovrebbe essere messo in atto nel giro di poco tempo. La famiglia: “Alberto deve tornare a casa” - “Abbiamo mandato un inviato, gradito anche alla famiglia” di Alberto Trentini, ma “è il governo venezuelano che decide se far avere un colloquio o no. Stiamo cercando di fare tutto il possibile ma non è così semplice”, ha detto martedì Tajani. I genitori intanto, preoccupati dalle chiusure di Caracas, continuano a pretendere che si facciano i passi diplomatici necessari a riportare a casa Alberto: “Prendiamo atto che la missione dell’inviato della Farnesina in Venezuela è rinviata ma confidiamo che il dialogo possa proseguire”, si legge in una nota diffusa dalla famiglia del cooperante con la legale Alessandra Ballerini. “Dopo quasi nove mesi di detenzione Alberto deve tornare a casa. Abbiamo fiducia nell’impegno della nostra diplomazia e rinnoviamo la nostra stima e gratitudine nei confronti dell’ambasciatore Vignali che auspichiamo possa recarsi a breve in Venezuela”, prosegue il comunicato. Zanella (Avs): chi sono gli altri detenuti? - Intanto la politica muove i suoi passi. Il 5 agosto la deputata veneziana capogruppo di Avs alla Camera Luana Zanella ha interrogato il ministro degli Esteri: “Chiediamo al responsabile della Farnesina Antonio Tajani di spiegare questo fallimento e le nuove strategie. La famiglia e la comunità di Alberto Trentini aspettano il suo ritorno e informazioni da parte delle nostre autorità che, diversamente da altri simili casi, appaiono molto in difficoltà - ha poi aggiunto la deputata - Avevamo già chiesto chi siano gli altri detenuti che lo stesso Tajani ha definito tempo fa “politici”: chi sono? Da quanto tempo sono detenuti e perché l’Italia non ha mai reso nota questa circostanza?”. Un nuovo tentativo di dialogo con le autorità venezuelane dovrebbe avvenire entro 15 giorni. In Venezuela Alberto Trentini è accusato genericamente di cospirazione, un’accusa infondata: il cooperante si trovava nel Paese sudamericano perché lì doveva raggiungere una ragazza. In carcere senza accuse formali - Alberto è detenuto nel carcere El Rodeo I, situato nello Stato di Miranda, a circa 30 chilometri da Caracas, in una località chiamata Guatire. Il carcere è uno dei più critici del Paese, costantemente sotto monitoraggio di associazioni che ne denunciano la violazione di diritti umani. Il cooperante residente al Lido di Venezia, lavora per la Ong Humanity & Inclusion rinchiuso dal 15 novembre. Il 7 gennaio 2025 la Commissione Interamericana per i Diritti Umani ha dichiarato che la detenzione di Trentini, senza accuse formali (che poi sono state emesse ma che appaiono strumentali) né contatti regolari con l’esterno, rappresentava una situazione di rischio urgente e irreparabile, e ha quindi chiesto al governo venezuelano di garantirne l’integrità fisica e psicologica, oltre a informare pubblicamente sulle sue condizioni. Alberto ha chiamato due volte la mamma Armanda Colusso, prima a maggio e poi sabato 26 luglio, le ha detto di stare bene, ma di essere stremato dal regime di prigionia. Medio Oriente. Generali di ferro, spie e giudici idealisti: coalizione che vuole fermare Netanyahu di Giordano Stabile La Stampa, 6 agosto 2025 Dal capo dell’Idf Zamir al presidente della Corte Suprema Amit, è folta la schiera dei difensori dell’equilibrio democratico contro i poteri accentrati e i sogni di Grande Israele. Militari duri come l’ossidiana ma che non condividono i sogni messianici di Benjamin Netanyahu e dei suoi alleati oltranzisti. Capi dei Servizi capaci di eliminare i nemici di Israele fino in capo al mondo, spaventati però dall’accentramento dei poteri nelle mani del premier. Giudici convinti di essere l’ultimo baluardo di uno Stato ebraico democratico, laico e in grado di trovare una pace equilibrata in convivenza con i vicini arabi. È questa la fronda interna che deve affrontare “King Bibi”, deciso a lasciare una memoria gloriosa come Re Salomone. È un sogno che risale al suo debutto in politica. Il suo slogan era già, prima di battere a sorpresa Shimon Peres nelle elezioni del 1996, “Dal fiume al mare”. Il più temibile: il generale Eyal Zamir - Sì, la Grande Israele allargata a tutti i Territori occupati. Uno slogan poi rubato dai suoi più acerrimi nemici, i militanti di Hamas. Il percorso verso l’alleanza con i partiti religiosi sionisti era quindi nel destino, anche se è arrivato dopo innumerevoli sfide nelle urne, perse, vinte e pareggiate. Ora, con l’appoggio di Donald Trump, l’annessione, parziale o totale, di Cisgiordania e Striscia di Gaza è a portata di mano. Ed è proprio per questo che lo scontro interno è ai massimi livelli. L’avversario più temibile è il capo delle Forze armate, il generale Eyal Zamir, alla guida dell’Idf dal marzo di quest’anno. L’uomo che deve dare il colpo finale ad Hamas e trovare gli ostaggi, vivi o morti, ma che non è convinto dei piani di occupazione della Striscia. Eyal Zamir, nonni yemeniti e siriani, è più vicino alla mentalità dei “sabra”, gli ebrei sefarditi nati nella Palestina del Mandato britannico, prima che sorgesse Israele. Un soldato che combatte i palestinesi ma è anche pronto a conviverci. Che conosce da decenni l’orrore delle battaglie urbane, da quando nel 2002 ha guidato le operazioni a Jenin, l’assedio che costò la vita a 23 soldati. Non è certo un moderato, e già nel 2007 evocava “punizioni collettive” nei confronti di popolazioni che sostenevano i “terroristi”. Ma è molto più pragmatico. Non crede nella possibilità di un regime change nello Yemen o in Iran, anche se ha guidato la micidiale campagna aerea nella guerra dei 13 giorni. Ed è contrario al piano di “città umanitaria”, il mega campo profughi a Rafah dove concentrare gran parte della popolazione di Gaza, voluto dal ministro della Difesa Israel Katz. Un piano “irrealizzabile” con “più buchi di un formaggio svizzero”, ha urlato a una riunione del Gabinetto di sicurezza. In faccia a Katz e in faccia a Netanyahu. La “città umanitaria” è il preludio di un’espulsione di massa chiesta dai due leader ultrà Itamar Ben Gvir e Benazel Smotrich. Un’idea che non piace ai nazionalisti vecchio stampo, preoccupati dal cambio di sentiment nelle opinioni pubbliche occidentali. Il capo dello Shin Bet definito “bugiardo” - Con piani che assomigliano alla pulizia etnica si era già espresso in maniera riservata Ronen Bar, il capo dei Servizi interni, lo Shin Bet. Netanyahu lo ha messo in cima alla lista degli avversari da eliminare. Lo scontro è diventato incandescente quando Bar, già in posizione precaria per il fallimento dello Shin Bet nel prevedere il 7 ottobre, ha testimoniato davanti alla Corte suprema e accusato il premier di averlo incaricato di indagare in segretezza i cittadini che protestavano in piazza contro la riforma della Giustizia. Bibi lo ha battezzato il “bugiardo” e licenziato. Ma la stessa Corte suprema ha sospeso il provvedimento. Lo stesso destino è toccato alla procuratrice generale Gali Baharav-Miara, che si è opposta al tentativo di riforma giudiziaria e ha chiesto l’apertura di un’indagine sulla moglie del premier. Baharav-Miara è la prima donna a ricoprire quell’incarico. Anche lei è stata silurata dal premier e salvata dalla Corte suprema. È figlia di un fondatore di Israele, Emmanuel Baharav, combattente nelle forze speciali del Palmach, una delle formazioni militari pre 1948. Difficile accusarla di disfattismo. E infatti il governo le imputa un “tentato golpe giudiziario”, perché si oppone all’azione dell’esecutivo. Che lei giudica anticostituzionale. Il presidente della Corte suprema “da boicottare” - Tutto porta all’ultimo snodo. Il presidente della Corte suprema Isaac Amit. Anche lui è al vertice da pochi mesi, e si trova di fronte alla più grave crisi istituzionale nella storia dello Stato ebraico. Il ministro della Giustizia, Yariv Levin, ha ordinato di “boicottarlo”. Per il governo la sua nomina è “illegittima” e da questo scranno traballate Amit avrà l’ultima parola su una riforma che punta a limitare l’autonomia della magistratura. Netanyahu, sul fronte interno come a Gaza, ha deciso di “spianare tutto”. Ma deve guardarsi anche dagli amici. Ha già perso l’appoggio del leader di United Torah Judaism, Yitzhak Goldknopf, mentre il partito sefardita Shas è sull’uscio. Il nodo è l’esenzione degli studenti delle yeshiva dal servizio militare. La destra religiosa è divisa. Ci sono quelli che vogliono solo studiare la Torah e quelli che vogliono battersi per la Grande Israele, anzi grandissima. Combattenti del battaglione ultra ortodosso Netzah Yehuda hanno sulla divisa le patch con una mappa che va dal Nilo all’Eufrate, mostrata in pubblico dallo stesso Smotrich. Alla fine, King Bibi può ritenersi un centrista moderato con la sua idea di occupare tutta Gaza. Medio Oriente. Levi Della Torre: “Patto con la destra ebraica. Meloni non vuole la Palestina” di Flavia Amabile La Stampa, 6 agosto 2025 Uno dei sostenitori del riconoscimento: “Pace solo senza Netanyahu e Hamas. A Gaza in corso un genocidio, anche io mi vergogno di quello che succede”. Stefano Levi Della Torre, architetto, saggista, docente universitario al Politecnico di Milano, pittore, è uno dei firmatari dell’appello degli intellettuali ebrei che hanno chiesto alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni di riconoscere lo stato palestinese. Anche se è convinto che non accadrà perché sostiene che esista un patto tacito tra la destra al governo in Italia e la destra ebraica italiana. Nel vostro appello condannate “le azioni e l’oltranzismo cieco” del governo israeliano ma due giorni fa Netanyahu ha ottenuto il via libera per l’occupazione di Gaza. La violenza va avanti inarrestabile... “E si approfondisce la catastrofe dei palestinesi e di Israele. Sono due catastrofi diverse ma sono entrambe delle catastrofi”. La catastrofe dei palestinesi possiamo immaginare quale sia. E quella di Israele? “Israele vuole vincere questa guerra ma non è in grado tecnicamente di imporsi in modo assoluto. È difficile schiacciare definitivamente un altro popolo sotto lo sguardo del mondo, anche se si tratta di uno sguardo passivo. Israele vuole occupare una terra ma non ha una soluzione, se non quella proposta dall’estrema destra di eliminare la questione palestinese attraverso la strage, la pulizia etnica e l’espulsione di quello che resta dei palestinesi dalla Palestina”. Nel vostro appello usate in modo chiaro la parola genocidio... “A me pare che sia evidente che è in corso un genocidio. Forse può dare fastidio e creare una situazione ambigua accusare di genocidio un Paese che ha al centro della propria identità la memoria di un genocidio subito. Ma, se viene compiuto in nome di Israele e degli ebrei, si crea un corto circuito tra nazismo e Israele che può piacere molto agli antisemiti che vedono disinnescarsi l’autorevolezza e l’insegnamento che viene fuori dalla memoria della Shoah”. Edith Bruck, sopravvissuta alla Shoah, si vergogna dei crimini che sta compiendo il governo di Israele... “Ci si vergogna di quello che è vicino, non di quello che è estraneo. Con Israele si hanno dei rapporti, è una delle espressioni del mondo ebraico c’è un rapporto, anche io mi vergogno di quello che sta accadendo. Per questo motivo ci siamo attivati, non ci sentiamo rappresentati come ebrei da quello che sta facendo il governo di Israele. Chiediamo, invece, una tregua urgente a Gaza, il rilascio degli ostaggi, l’avvio dei negoziati di pace e il riconoscimento dello Stato palestinese in particolare da parte del governo italiano”. Non è quello che sostiene Noemi Di Segni, presidente dell’Ucei, l’Unione delle comunità ebraiche italiane... “C’è un conflitto molto forte all’interno del mondo ebraico sia fuori che dentro Israele. Da un lato c’è chi dice che non bisogna dividersi perché ci si espone all’antisemitismo, io invece penso che se c’è qualcosa che favorisce l’antisemitismo è essere collusivi e conniventi di fronte a crimini di questa portata, da chiunque vengano commessi”. Non è d’accordo quindi con Di Segni che chiede di frenare sul riconoscimento dello stato palestinese? “Io ritengo che la formula due popoli e due Stati contenga due elementi diversi. Il primo, la richiesta di riconoscimento dei due popoli, è di grande attualità. L’azione del governo di Israele è sostenuta proprio dal mancato riconoscimento del popolo palestinese, se non come una massa informe di arabi. Oppure, se lo si riconosce, è solo per distruggerlo. Ma questo avviene anche dal lato opposto: Hamas e tutto il fondamentalismo islamico non riconosce come popolo gli israeliani. Il primo passo è, invece, ottenere questo riconoscimento poi si potrà passare alla seconda parte della formula, i due Stati, una prospettiva, un obiettivo che richiede più tempo”. E quale è la strada da seguire per ottenere il riconoscimento dei due popoli, due Stati? “Perché questo avvenga ci deve essere una sconfitta degli estremismi, si deve passare attraverso un tracollo dell’attuale assetto di potere di Israele e di Hamas. Non si può tornare indietro quando si è nel baratro: anche nella storia dei fascismi si è andati fino in fondo prima di risalire e per uscirne fuori deve consumarsi la catastrofe”. Una delle critiche al vostro appello è che è arrivato tardi... “È falso. È dal 7 ottobre che, anche se in minoranza, cerchiamo di lanciare un segnale per far capire che il governo di Israele sta agendo non in nostro nome. Non siamo in ritardo, siamo insistenti e questo appello è l’ultima versione della nostra insistenza”. L’altra critica è che state facendo il gioco di Hamas... “Il problema è la politica seguita dal governo di Israele, non il nostro appello. Per non riconoscere Hamas ha sottovalutato fin dall’inizio la questione ostaggi e non ha mai trattato in modo davvero serio. Noi non possiamo fare altro che insistere e cercare di dire quello che sta accadendo”. Avete chiesto che il governo italiano riconosca lo Stato palestinese. Accadrà secondo lei? “Esiste un patto tacito tra la destra al governo in Italia con ascendenze fasciste e la destra ebraica in Italia”. Quale? “La destra ebraica ha assicurato di riconoscere che la destra italiana non è antisemita e quindi non deve giustificare i suoi legami con il fascismo ma in cambio la destra al governo in Italia deve sostenere Israele senza obiezioni, qualunque cosa faccia o diventi Israele”.