Detenuti (e non solo): così si muore di carcere di Alessandro Trocino Corriere della Sera, 5 agosto 2025 Sono già 45 i suicidi a fine maggio nei penitenziari italiani. Le storie di chi non ha resistito alla vita dietro le sbarre. Può sembrare inutile la contabilità dei morti in carcere per suicidio, omicidio, morte “naturale”. Il ministero la fornisce una volta all’anno, scomputando chi è morto in ospedale dopo un tentativo di togliersi la vita o i casi “sospetti”. Altre associazioni di volontari - su tutte Antigone e Ristretti Orizzonti, che ci hanno aiutato a raccogliere queste storie - provano a stare dietro al conteggio: al 30 giugno i suicidi erano 45, ma ogni giorno ne arrivano altri. Gli ultimi: Parma, Aosta, Roma. Il record è stato nel 2024, ma non è detto che quest’anno non si possa far peggio. In cella ci si uccide con quel che si trova. Un lenzuolo, i lacci delle scarpe. E ci si uccide per disperazione. Perché dentro non ci sono prospettive, non c’è vita, non c’è lavoro, non c’è niente. E fuori, spesso, li aspetta l’incubo di dover ricominciare, perché lo stigma di criminale e l’assenza di un sistema di welfare rende difficile il reinserimento. Oltre la contabilità, ci sono loro. Persone che hanno sbagliato (di alcune non si sa, perché erano in custodia cautelare), ma che avevano un’esistenza, mogli, genitori, figli. Persone che si trovano dentro celle sovraffollate, in condizioni disumane. Di seguito raccontiamo tre storie di detenuti e una di un agente di polizia penitenziaria: anche loro vivono nello stesso inferno. Se ne sono uccisi sette nel 2024 e due quest’anno. “Gli agenti - ci dice Gennarino De Fazio della Uilpa - hanno carichi di lavoro e di coscienza che non si possono nemmeno immaginare”. Il ladro di 55 euro troppo “pericoloso” per essere liberato - Un giorno, il 13 dicembre 2024, Salvatore, che è un dipendente dell’Atm ossessionato dal gioco e oppresso dai debiti e dall’alcol, avvicina un uomo in un cortile di Milano e gli punta un coltellino, chiedendogli 20 euro. Quando l’uomo gli dice che ha 55 euro, risponde che va bene e li prende. Lo arrestano pochi minuti dopo. A processo, viene condannato a 3 anni, anche se i soldi li restituisce tutti e anzi dà mille euro, come risarcimento. Finisce nel carcere di Vigevano, lui che era di Polistena. Viveva ancora in Calabria quando i medici di Taurianova gli diagnosticarono “un umore depresso e fluttuante”. E si capisce, visto che a causa della ludopatia si era fatto pignorare lo stipendio e sottrarre la casa. Se ne andava in giro a dire che i suoi guai erano dovuti a un “massaggio al piede”. Quando entra a Vigevano, il suo avvocato Rocco Domenico Ceravolo si preoccupa, perché Salvatore ha un umore fluttuante e ha già provato a uccidersi. Per questo chiede che sia affidato ai servizi sociali, ma il giudice di sorveglianza dice che la permanenza in cella si deve protrarre perché l’uomo è pericoloso. Non si protrae troppo a lungo, solo qualche giorno, perché Salvatore si impicca. Bastava un po’ di buon senso, dice l’avvocato, per salvarlo. Bastava farlo uscire, dice, invece di inventarsi pericoli immaginari per un poveraccio che aveva rubato l’equivalente di un pieno di benzina, di una cena, nella città dei milionari e aveva restituito tutto, con gli interessi. Al lavoro da 36 anni a Porto Azzurro. Poi l’agente crolla - La sera prima, racconta la figlia Marika, si rideva, si giocava a carte. Donato viveva con la famiglia nell’alloggio demaniale della cittadella di Porto Azzurro, sull’isola d’Elba, ed era un sovrintendente. Faceva l’agente dal 1989. “Può fare effetto, a chi viene da fuori, vivere in un carcere. Ma a noi sembra normale abitare lì, a pochi metri dalle celle. Era un lavoro che piaceva molto a babbo. Gli dicevamo sempre, scherzando, che sembrava quasi che noi venissimo dopo, perché prima c’era sempre la prigione. Però il suo era un lavoro pesante, logorante. Ogni tanto ci raccontava di quello che succedeva dentro, di quei detenuti che aspettavano che loro, le guardie, facessero l’ultimo giro di controllo, e poi si impiccavano”. Tra un anno e mezzo Donato sarebbe andato in pensione, ma da qualche tempo non stava bene. Era caduto, lui dice per un calo di pressione. Si era fatto male alla schiena e aveva le caviglie gonfie, così era in malattia. Il 16 maggio, racconta Marika con una voce che cerca di non tremare, “cominciavano le belle giornate e con mia mamma siamo uscite a far la spesa”. Non si erano accorte di quello che girava nella testa di Donato. E invece qualcosa girava, anche se giocava a carte e rideva. Quando hanno aperto la porta di casa e hanno posato i sacchetti sul tavolo, lo hanno visto. Era appeso con una corda alla porta della cucina. Sul tavolo c’era una lettera. Dentro, tutta la disperazione di un uomo che amava il suo lavoro ma non ce la faceva più. Nessuno gli fa visita. È impossibile immaginare il futuro - Da almeno un anno non riceveva visite. Nessun colloquio, nessuna telefonata. Era solo, Andrea. L’unico ad andarlo a trovare, a Regina Coeli, era il suo avvocato, Raffaele Magliaro: “Era in carcere per atti di persecuzione nei confronti della compagna. Quando l’ho conosciuto era un tipo fumantino, irrequieto. Ma dentro era diventato un altro. Un anno fa c’era stata una rivolta, lui si era chiuso in cella. Mai un richiamo, mai un problema”. Le cose si stavano mettendo bene per Andrea, 52 anni. Diverse assoluzioni e il sì alla liberazione anticipata, 135 giorni in meno: sarebbe uscito tra meno di un anno. “Era felicissimo, continuava a ringraziarmi”, dice l’avvocato. Una volta fuori, avrebbe avuto la sorveglianza speciale: obbligo di trovarsi una casa, un lavoro, niente frequentazioni pericolose. Ma c’era un problema: non aveva documenti. “Era irreperibile, non avendo un domicilio. Ma senza documenti un lavoro non lo trovi. E così mi ero attivato con la direzione”. All’improvviso Andrea viene spostato a Frosinone: “Ho dovuto ricominciare tutto”. Avrebbe potuto andare ai domiciliari, ma dove? Non aveva una casa. “Quando ho saputo che si è impiccato, sono rimasto sconvolto. Mi pento di non essere andato a trovarlo anche a Frosinone. Ma cosa potevo fare? Avrei dovuto rinunciare a una partita di pallone di mio figlio? Potevo fare di più? Speravo di essergli stato utile, di essere riuscito a fare qualcosa. Ma l’unica cosa che poteva salvarlo davvero era uscire”. Il ragazzo antisociale che aveva già chiesto di donare gli organi - Quando Irene Testa, garante dei detenuti di Cagliari, è andata in visita nel carcere di Uta, ha notato un giovane con gli occhi azzurri che non le chiedeva niente, a differenza degli altri. Giovanni se ne stava seduto a guardare lo spazio di cielo tra le sbarre. Sulla branda, teneva un libro. Gli ho chiesto se stava bene, racconta, ma sembrava spaesato e il compagno di cella mi ha raccontato che giorni prima aveva cercato di uccidersi. L’avevano trovato con la corda stretta al collo ma gliel’avevano sfilata. Due giorni dopo la visita, si è impiccato. Si è sentita in colpa, Testa. Ho fallito, ha pensato, abbiamo fallito tutti. Li definiscono bipolari o schizofrenici o psicotici, ma i medici del carcere preferiscono bollarli come “antisociali”, perché così sono “compatibili” con il carcere. Anche se spaccano tutto. Nel carcere di Sassari, su 536 detenuti, 400 sono in terapia psichiatrica. La madre di Giovanni, 24 anni, un giorno ha letto in una chat di un ragazzo che si era ucciso a Uta e ha pensato che poteva essere suo figlio e ha chiesto. Era suo figlio. Mesi prima lui le aveva detto: se mi succede qualcosa, voglio che siano donati i miei organi. Così, quando Giovanni ha deciso di farla finita, i suoi organi sono stati estratti e Irene si è chiesta se fosse giusto renderlo pubblico, se non fosse un tradimento, la rivelazione di una confidenza privata, di un ultimo desiderio. Il medico l’ha convinta. Ma certo che sì, è una cosa bellissima: ha salvato cinque vite questo ragazzo antisociale. “Punire i minori come gli adulti”: ma la neuroscienza batte la propaganda di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 agosto 2025 Per gli studiosi, il cervello degli adolescenti non è ancora maturo: trasformare la paura in cattive leggi rischia di cancellare percorsi rieducativi che riducono molto la recidiva. Il leader della Lega, Matteo Salvini, ha lanciato una proposta di legge che rimescola le carte nell’annoso dibattito sulla giustizia minorile: equiparare le pene dei reati gravi commessi dai minorenni a quelle degli adulti. L’iniziativa arriva in un clima di crescente allarme sociale per reati gravi compiuti da ragazzi e trova un’eco forte in chi chiede risposte dure. Il rischio, però, è cadere nella trappola di una soluzione semplicistica, che non risolve il problema e anzi ne aggrava alcuni aspetti. La proposta di Salvini presuppone implicitamente che un sedicenne abbia lo stesso grado di preparazione psicologica e cognitiva di un quarantenne. Eppure, gli studi più accreditati in neuroscienze raccontano un’altra storia. Anni di ricerche sul cervello umano mostrano che le aree prefrontali - quelle responsabili del controllo degli impulsi, della pianificazione e della valutazione delle conseguenze - maturano dopo i vent’anni. Un giovane in adolescenza può distinguere il bene dal male, ma non possiede ancora i filtri decisionali di un adulto. La capacità di ponderare un rischio o di frenare un impulso nasce da sinapsi e connessioni nervose che si rinforzano con l’età e con l’esperienza. Pretendere che un sedicenne gestisca pressione, frustrazione o paura come un adulto significa ignorare queste differenze di sviluppo. Negli ultimi anni le neuroscienze hanno fornito una mole crescente di dati che distinguono in modo netto lo sviluppo cerebrale degli adolescenti rispetto a quello degli adulti. Dati che oggi pongono interrogativi non solo sul piano scientifico, ma anche giuridico. Soprattutto quando si discute di reati gravi commessi da minori. La corteccia prefrontale, sede delle funzioni esecutive e del controllo degli impulsi, è l’ultima regione del cervello a maturare completamente. È consolidato, come riportato dagli studi sulla rivista Nature, che la mielinizzazione (maturazione ultima del sistema nervoso centrale) della corteccia prefrontale dorsolaterale si completa intorno ai 25 anni, mentre le connessioni tra la corteccia orbito-frontale e le aree limbiche possono continuare a svilupparsi fino ai 32 anni. Questo significa che un adolescente dispone di un sistema limbico altamente reattivo agli stimoli emotivi e di ricompensa, ma con un sistema di controllo cognitivo ancora parzialmente sviluppato. Come spiegano gli accademici Somerville, Casey e Caudle (2011), ciò rende i giovani più vulnerabili all’impulsività e a comportamenti rischiosi, soprattutto in situazioni ad alto contenuto emotivo. Uno studio su oltre 10.000 soggetti, condotto da Filippo Davide Zelazo e Stephanie M. Carlson dell’Università del Minnesota, ha confermato che le capacità esecutive - memoria di lavoro, inibizione delle risposte, flessibilità cognitiva - migliorano fino ai 18- 20 anni. Nel nostro ordinamento, il sistema di giustizia minorile nasce con uno scopo preciso: rieducare. L’idea non è quella di assolvere per principio chi sbaglia in giovane età, ma di recuperare chi è ancora in una fase della vita in cui tutto può cambiare. La legge stabilisce che i minori di 14 anni non possono mai essere ritenuti responsabili penalmente. Dai 14 ai 18 anni, invece, la responsabilità penale non è automatica, ma va accertata caso per caso, valutando se il ragazzo avesse, al momento del fatto, la capacità di intendere e di volere. A gestire questi procedimenti è il Tribunale per i Minorenni, composto non solo da giudici togati ma anche da esperti in ambito psicologico e sociale. Il tribunale mantiene la propria competenza fino ai 25 anni, se il reato è stato commesso quando l’imputato era minorenne. Intorno a questa struttura ruotano anche la Procura minorile, il Giudice per le Indagini Preliminari e il Magistrato di Sorveglianza, anch’essi con competenze specializzate. Il quadro normativo che regola la giustizia minorile è delineato dal D.P.R. 448 del 1988, una legge che ha segnato il passaggio definitivo da un approccio repressivo a uno orientato all’educazione e alla responsabilizzazione. I principi cardine sono chiari: il processo deve adattarsi alla personalità e alle esigenze del ragazzo; si devono privilegiare strumenti alternativi alla detenzione; l’identità del minore va tutelata, anche attraverso processi a porte chiuse e il divieto di diffondere immagini o generalità. Il carcere è previsto solo come extrema ratio e, laddove il fatto non sia particolarmente grave, il procedimento può essere archiviato per non danneggiare ulteriormente lo sviluppo del minore. Per quanto riguarda le sanzioni, le pene inflitte ai minori sono sensibilmente ridotte rispetto a quelle previste per gli adulti. Le condanne brevi possono essere trasformate in forme alternative come la semidetenzione o la libertà controllata. Inoltre, i minori hanno diritto a permessi premio più lunghi, a un’alimentazione differenziata e a una gestione più attenta del tempo detentivo. Nel tempo, quello che era un modello punitivo pensato nel 1934 si è trasformato in un impianto normativo che mette al centro la persona del minore, la sua storia, il contesto familiare e sociale, con l’obiettivo dichiarato di favorirne il reinserimento e prevenire la recidiva. Chi lavora con i minori lo sa bene: se si riesce a intervenire in tempo, con gli strumenti giusti, si può orientare quel percorso verso una crescita diversa. Non si tratta di un’utopia buonista, ma di dati concreti: le esperienze di rieducazione e accompagnamento, se ben strutturate, riducono in modo significativo il rischio di recidiva e aumentano le possibilità che il giovane trovi un posto nella società. Ma se si decidesse, come propone Salvini, di trattare i minorenni come se fossero adulti, tutto questo verrebbe spazzato via. Le misure alternative, la possibilità di cucire addosso al singolo un percorso educativo, il margine di mediazione da parte dei magistrati: tutto cancellato. Rimarrebbe solo la logica del carcere, rigida, impersonale, punitiva. Con una sentenza che va oltre il processo: “sei irrecuperabile”. Eppure, la paura che alimenta proposte di questo tipo è reale. Nessuno può fare finta che non esistano atti violenti, aggressioni, reati anche odiosi commessi da giovani. Ma la tentazione di rispondere col codice penale a tutto è una scorciatoia pericolosa. Rassicura nell’immediato, ma lascia intatto il problema. Anzi, lo aggrava. Perché le radici del disagio giovanile non si affrontano aumentando le pene. Etichettare un ragazzo come adulto criminale a 16 anni vuol dire imporgli un’identità dalla quale difficilmente potrà liberarsi. E il carcere, per come è strutturato oggi, è molto più bravo a confermare quella condanna sociale che a evitarla. Mantovano: “Il metodo Giubileo? Lo applicheremo al piano carceri” di Gianluca Carini Il Messaggero, 5 agosto 2025 Il sottosegretario a Palazzo Chigi: “L’abbattimento delle barriere burocratiche va resto strutturale non un’eccezione”. Il metodo Giubileo? “Lo applicheremo anche al “piano carceri” e per l’ordinaria amministrazione, eliminando le barriere burocratiche, ovviamente nel rispetto delle norme”. Il sottosegretario Alfredo Mantovano parla a margine della conferenza stampa che chiude il maxi raduno a Tor Vergata, evento clou dell’Anno Santo con un milione di giovani da tutto il mondo. In questi mesi si è parlato molto del “metodo” che ha consentito ad esempio di chiudere in meno di un anno e mezzo i lavori su piazza Pia, l’area davanti San Pietro inaugurata a tempo di record nonostante il ritrovamento di una fullonica (una lavanderia romana) durante gli scavi per il sottopasso. O ancora, questo metodo ha permesso di coordinare le decine di enti dietro la macchina organizzativa dell’Anno Santo. “Sarebbe riduttivo limitarlo a una collaborazione tra istituzioni politiche di colore diverso” spiega Mantovano in conferenza stampa, riferendosi tra le righe anche al lavoro fatto nella cabina di regia da lui guidata con un sindaco di centrosinistra come Roberto Gualtieri (nelle vesti di commissario straordinario). Il metodo Giubileo infatti è qualcosa in più, ossia “l’abbattimento delle barriere burocratiche, usando anche poteri in deroga. Ora però bisogna renderlo non un’eccezione ma strutturale”. A margine della conferenza, il braccio destro della premier Giorgia Meloni chiarisce meglio il suo pensiero: “Da qualche mese, ho dato incarico di portare questo metodo nell’ordinaria amministrazione, specie nei campi in cui abbiamo tanti soggetti con competenze diverse. E dove spesso lo stop di uno finisce per bloccare tutti gli altri”. Una delle prime applicazioni sarà proprio il “piano carceri”, dove “abbiamo predisposto un tavolo per l’applicazione dei criteri già sperimentati per il Giubileo”, prosegue Mantovano sempre a margine. La necessità nasce dal fatto che “negli istituti penitenziari abbiamo padiglioni dove i piani di ampliamento sono stati messi a punto 13 anni fa e nel frattempo non si è fatto nulla. Per cui o si condivide questo lavoro oppure restiamo con progetti superati, con appalti al ribasso ormai vecchi perché sono cambiati i costi delle materie prime e dell’energia”. Per fare questo occorrono “spazi congrui per la semplificazione procedurale, pur nel rispetto delle regole. Per le carceri abbiamo un commissario straordinario (Marco Doglio, ndr) e ci sono vari ministeri coinvolti, dalle Infrastrutture alla Giustizia, sitratta di coordinare tutti”. D’altronde, la sfida al sovraffollamento dei penitenziari italiani si prospetta complicata. Il commissario straordinario Doglio ha spiegato di recente a Il Sole 24 Ore che l’obiettivo del governo è mettere in piedi 60 interventi edilizi in tre anni in modo da aggiungere 9.696 posti per i detenuti. E ancora, si punta ad ampliare le carceri già esistenti, creando così 5mila posti in più. Il tutto con un costo stimato in 758 milioni di euro (in parte già finanziati). Nelle celle italiane oggi sono infatti detenute quasi 63mila persone, 15mila in più di quelle teoricamente previste. Il piano presentato a fine luglio in consiglio dei ministri, ha spiegato il guardasigilli Carlo Nordio, prevede anche la “detenzione differenziata” per le persone tossicodipendenti e nuove procedure per chi avrebbe diritto alla liberazione anticipata. Insomma, se non si vuole fallire è evidente che tutto ciò richiederà una collaborazione efficiente tra le istituzioni coinvolte. Il “piano carceri” non sarebbe comunque il primo campo di applicazione del metodo Giubileo fuori dal suo perimetro originario. A gennaio, a margine di un’altra inaugurazione importante - quella della nuova area davanti la stazione Termini - Mantovano aveva spiegato al Messaggero che quel sistema di coordinamento sarebbe stato sperimentato anche per “l’accoglienza dei pellegrini” e poi “sul fronte della sicurezza”. Il riferimento era all’applicazione del decreto Caivano-bis, il piano del governo per riqualificare alcune periferie complicate, come il quartiere romano del Quarticciolo oppure ad esempio Scampia (Napoli) e Rozzano (Milano). Ora invece spazio all’ennesimo test. Pier Ferdinando Casini: “Sì al metodo Giubileo sulle carceri. L’Italia vince con gioco di squadra” di Mario Ajello Il Messaggero, 5 agosto 2025 “Per quanto riguarda alcune emergenze italiane, come appunto quella delle carceri, si guardi in faccia una realtà che è drammatica e si cerchi di superarla tutti insieme. Aggiungo una cosa. Francesco diceva che è in corso la terza guerra mondiale combattuta a pezzi. Aveva ragione. In un contesto di questo tipo, il nostro lavoro in Europa dovrebbe essere affrontato assieme, senza divaricare e creare sempre più occasioni di contrasto” Presidente Casini, qual è il bilancio del Giubileo dei giovani e la prospettiva che può aprire? “Credo sia stato il primo vero esame per il nuovo papa. Gli esaminatori erano i giovani, che forse sono più esigenti dei professori”. Esame superato? “Ampiamente superato. Leone ha realizzato una sintonia profonda con questi ragazzi arrivati da tutto il mondo. Ha saputo toccare i loro cuori, sia nella veglia di sabato sia nella messa di domenica. Parole semplici, quelle del pontefice, ma con dentro un messaggio di verità che ha saputo entusiasmare”. Guardando questa generazione che ha invaso Roma, lei che idea si è fatto? “Questi ragazzi, più di un milione e di ogni nazionalità, hanno fatto venire in mente alla mia generazione le “sentinelle del mattino” evocate da Giovanni Paolo II. Quelle “sentinelle” che lo hanno accompagnato fino alla veglia a piazza San Pietro nelle ore del suo decesso. Leone è il successore di Francesco, che è stato un papa molto amato dai giovani, ma parla con le coordinate di Giovanni Paolo II. Anche il fatto che sia poliglotta facilita molto questa comunicazione”. Si dice sempre che i giovani d’oggi sono indifferenti. Questi sono l’opposto? “Li abbiamo visti in giro per Roma. Entusiasti, semplici, convinti del valore dello stare assieme, orgogliosi delle bandiere che sventolavano. Tutte le nazioni erano a Roma. E io penso che, tra tutti i loro ricordi più belli, conserveranno quelli delle vie di Roma. Probabilmente porteranno i loro figli, quando li avranno, in questa città”. Qual è per Roma il bilancio di queste giornate? “È un risultato fantastico. Si è dimostrato ancora una volta quale prezioso bene sia per Roma e per l’Italia la Santa Sede. Il Vaticano ha preparato questo Giubileo in maniera straordinaria. Bisogna fare un grande applauso a monsignor Fisichella, che ha curato questo evento sia sul piano spirituale sia su quello organizzativo. Ha saputo favorire un clima di concordia istituzionale che è stato decisivo”. Intesa totale con il Campidoglio? “Ma certo, e ha funzionato davvero. Va rivolto un applauso al sindaco Gualtieri e a tutte le autorità italiane, alla Prefettura, alle forze dell’ordine, alla protezione civile, ai volontari con la loro capacità e dedizione, che hanno reso possibile la buona riuscita del Giubileo dei giovani. C’è stato un grande gioco di squadra e la dimostrazione che quando l’Italia è unita e gioca tutta dalla stessa parte ottiene risultati eccellenti”. Questo approccio, il Modello Giubileo, il sottosegretario Mantovano - che ne è stato magna pars - sostiene che va esteso in altri campi, cominciando da una collaborazione destra-sinistra sul “piano carceri”... “Sono d’accordo. Mi auguro che sia veramente così. Cioè che per quanto riguarda alcune emergenze italiane, come appunto quella delle carceri, si guardi in faccia una realtà che è drammatica e si cerchi di superarla tutti insieme. Aggiungo una cosa. Francesco diceva che è in corso la terza guerra mondiale combattuta a pezzi. Aveva ragione. In un contesto di questo tipo, il nostro lavoro in Europa dovrebbe essere affrontato assieme, senza divaricare e creare sempre più occasioni di contrasto”. Si riferisce a smarcamenti italiani ed europei rispetto per esempio all’Ucraina? “L’Ucraina è un punto cruciale in questo discorso. E’ un Paese distante ma neanche tanto e come si vede dalla vicenda libica l’insidia è anche sulle nostre coste. E che cosa dire dei dazi? Sono una botta terribile per la nostra economia, e noi continuiamo nell’incomunicabilità, anche su questo, tra maggioranza e opposizione. Io mi auguro una cosa”. Il disarmo tra destra e sinistra? “Mi auguro che anche il governo non faccia soltanto un appello di rito e non dichiari soltanto una disponibilità diplomatica al dialogo politico. Il dialogo non è un balletto, dev’essere qualcosa di sostanziale. Fermo restando i diversi ruoli e le diverse responsabilità, tra chi è al governo e chi all’opposizione, bisogna trovare le formule di una collaborazione possibile”. Su quali terreni parlamentari? “Mi sembra che sia stata accantonata la riforma costituzionale, ma mi sembra che ci sia la volontà, da parte della maggioranza, di fare una nuova legge elettorale. Cerchiamo di trovare i punti d’intesa su questa. E poi, soprattutto, cerchiamo di trovarli sulla politica europea. Dobbiamo diventare tutti insieme sovranisti europei. Lasciando al loro destino quelli che hanno l’illusione che possiamo salvarci come singola nazione. Magari sulla base dei nostri rapporti politici con Trump o con Putin. I secondi sono una bestialità, perché non ci può essere niente in comune tra noi e Putin, e i primi sono una illusione ottica, come s’è visto sui dazi”. Il Giubileo valga insomma come lezione? “Speriamo che lo spirito del Giubileo si allunghi sulla politica italiana e possa illuminarci nei prossimi anni”. Non teme che la lunga campagna elettorale - voto per le regionali, referendum amministrativo e elezioni politiche nel 2027 - possa complicare la collaborazione virtuosa tra i partiti? “Uno dei guai di questo Paese è che siamo sempre in campagna elettorale. La vera riforma, bipartisan, da fare sarebbe quella dell’accorpamento delle elezioni comunali, regionali e politiche. La democrazia è il sistema migliore del mondo ma la sua efficacia dovrebbe starci a cuore. Soprattutto vedendo la percentuale dell’astensionismo che cresce. Un pollaio di rissa permanente non giova certo al governo, ma io penso che non giovi nemmeno all’opposizione. La quale è chiamata a dimostrare che c’è un’alternativa credibile, costruita non solo sui no”. Nordio: “No a un’Anm costola dei partiti, quell’abbraccio sarebbe mortale” di Errico Novi Il Dubbio, 5 agosto 2025 Dalla separazione delle carriere alle norme studiate per i target del Pnrr, intervista al guardasigilli. “Presto la riforma forense”. Separazione delle carriere, nuove misure per l’ultimo sprint dei tribunali verso gli obiettivi del Pnrr, legge professionale forense: il guardasigilli Carlo Nordio ne parla in quest’ampia intervista al Dubbio, subito dopo la conclusione del Consiglio dei ministri di ieri. È trascorsa oltre metà legislatura, ministro, diverse conquiste le ha realizzate, altre sono all’orizzonte ma non irraggiungibili, altre sono meno a portata di mano, come l’allineamento dei tempi, nel processo civile, alle aspettative internazionali. Qual è il suo stato d’animo rispetto a questi primi tre anni di mandato? Di grande soddisfazione per gli obiettivi raggiunti, e di ottimismo per quelli da raggiungere. A parte l’epocale riforma costituzionale sulla separazione delle carriere, che ormai è in dirittura d’arrivo, e altre assai significative, come l’abolizione dell’abuso di ufficio e l’interrogatorio preventivo per le custodie cautelari, veniamo ai tempi dei processi e alle risorse investite: oltre a quelle messe a disposizione dal Pnrr, il ministero della Giustizia ha complessivamente incrementato nel bilancio 2025, rispetto al 2022, le risorse destinate all’amministrazione giudiziaria di oltre un miliardo. Gli esempi più significativi: l’incremento dei fondi per l’assunzione del personale di magistratura (+38,7 milioni), fondi per l’incentivazione del personale (+42 milioni), quelli per la riqualificazione degli edifici giudiziari e l’edilizia di servizio (+142 milioni), il Fondo unico di Giustizia (Fug) incrementato di 57 milioni. Fino all’introduzione del Fondo per la firma della magistratura onoraria, per 158 milioni. Lei è un magistrato, e nella dialettica con l’Anm emerge spesso questo conflitto fra il punto di vista del guardasigilli e la linea che il sindacato dei magistrati ha scelto. Ci spiega le origini e le ragioni di questo contrasto? Le origini e le ragioni sono due, ed esistono da trent’anni. La prima è sulla funzione delle correnti, che io ritenevo benemerite quando rappresentavano le varie articolazioni culturali dei magistrati, e che si sono trasformate in veri centri di potere, com’è stato riconosciuto da numerosissime toghe, oltre che da altri autorevoli pulpiti. La seconda è che, dopo qualche anno dall’introduzione del codice Vassalli, ho capito che non avrebbe funzionato se non avessimo introdotto i principi minimi del sistema accusatorio, come la separazione delle carriere. E da lì è nato un conflitto insanabile. Da magistrato sono stato criticato con grande asprezza. E così da ministro. Naturalmente siamo decisi ad andare fino in fondo. A proposito di obiettivi, in Consiglio dei ministri avete votato un provvedimento che punta proprio ad accelerare tutti i meccanismi possibili in modo da raggiungere i target concordati con l’Ue: dove sono le risorse, professionali e organizzative, sulle quali pensa di fare leva? Diciamo intanto che il ministero ha garantito il pieno raggiungimento di tutti gli obiettivi Pnrr assegnati e continua a lavorare per conseguire i risultati attesi per i prossimi anni, ovvero: la completa digitalizzazione del processo penale di primo grado (entro dicembre 2025), l’efficientamento di 289mila metri quadri di edifici giudiziari (entro marzo 2026), la riduzione del 90% delle pendenze civili 2022 presso i Tribunali e le Corti di appello (entro giugno 2026), la riduzione del 40% del disposition time civile (entro giugno 2026) e la riduzione del 25% del disposition time penale (entro giugno 2026). Oltre a ciò, nella serata di oggi (ieri per chi legge, ndr), in Consiglio dei ministri è stato approvato un importante decreto legge, frutto del leale confronto istituzionale con il Csm, nel quale sono inserite tutta un serie di misure normative, organizzative ed economiche finalizzate a far conseguire agli Uffici giudiziari gli obiettivi Pnrr entro il giugno 2026: applicazione, fino a un numero massimo di cinquanta, di magistrati addetti all’Ufficio del massimario per lo svolgimento delle funzioni giurisdizionali di legittimità in materia civile, la proroga, fino al 30 giugno 2026, della destinazione dei giudici onorari di pace in supplenza anche per ragioni relative alle vacanze nell’organico dei giudici professionali, l’individuazione di 20 posizioni, negli Uffici giudiziari che registrano difficoltà, di cosiddetta sede disagiata, con riconoscimento dei relativi benefici. Avete dato via libera anche all’utilizzo dei cosiddetti “magistrati da remoto”? Sì, abbiamo dato corso all’applicazione straordinaria a distanza, su base volontaria, di magistrati, anche fuori ruolo, fino a un numero massimo di cinquecento, presso gli Uffici giudiziari di primo grado. E ancora, abbiamo previsto la predisposizione da parte dei capi degli Uffici giudiziari di un piano straordinario per concertare un’azione comune mirata allo smaltimento dell’arretrato creatosi in ciascuna sede, nonché a diminuire i tempi di definizione processuale, una diversa modulazione del tirocinio per i magistrati freschi vincitori di concorso al fine della loro applicazione alla Corte di appello in ausilio dei consiglieri togati, per la durata di 6 mesi. Non solo: c’è la proroga dell’entrata in vigore delle nuove competenze dei giudici di pace, ci sono le proroghe dell’avvio del Tribunale della famiglia e dell’utilizzo dei giudici ausiliari di Corte di appello, tutte rinviate al 31 ottobre 2026, l’ampliamento della dotazione organica della magistratura ordinaria di 58 unità al fine di consentire l’incremento di due posti in ciascuno dei 29 Uffici di sorveglianza a livello distrettuale. E tante altre. Lei sa che, riguardo alla giustizia civile, l’avvocatura, e il Cnf in testa, lamentano l’esclusione fisica dei difensori dai tribunali, l’eccessivo ricorso alla trattazione scritta, il ridursi delle controversie a un freddissimo scambio di memorie: una volta centrati gli obiettivi del Pnrr, sarà possibile rivedere una parte delle norme che, dall’epoca del covid, impongono la trattazione scritta? Il perseguimento degli obiettivi Pnrr ha imposto un regime di celebrazione delle udienze da remoto anche con lo scambio di memorie, ma il sistema prevede già la possibilità che il giudice, su richiesta delle parti, svolga l’udienza in loro presenza. Sempre a proposito di avvocati, in Consiglio dei ministri avete anche avviato la discussione sulla delega per la nuova legge professionale forense. Il presidente del Cnf Greco aveva detto che tutte le professioni meritano rispetto e hanno la stessa dignità, ma che la professione di avvocato, diversamente da altre, rappresenta un ingranaggio essenziale per lo stesso funzionamento della democrazia: è questa la logica che vi ha indotto a riservare un provvedimento per la sola avvocatura, e a definirlo in tempi stringenti? La figura dell’avvocato è essenziale all’esercizio della giurisdizione e mi rammarico di non averla potuta inserire nella Costituzione, per ragioni di tempo, ma ci ritorneremo. Nel mese di maggio ho firmato a Lussemburgo, a nome dell’Italia, la Convenzione europea per la protezione degli avvocati, promossa dal Consiglio d’Europa, che assicurerà il rispetto di tutti i diritti della difesa e la più ampia libertà nell’esercizio della professione forense. Con questo spirito abbiamo presentato oggi (ieri, ndr) in Consiglio dei ministri il disegno di legge delega per la riforma dell’ordinamento forense, anche per il superamento dei dubbi interpretativi emersi alla luce dell’applicazione della legge 247/2012, che hanno generato rilevante contenzioso, indebolendo la coesione interna alla categoria. È una discussione complessa che sarà conclusa entro poche settimane. Da ultimo, ministro, per tornare alla riforma costituzionale che reca la sua firma, lei qualche giorno fa ha dichiarato, in un’intervista al Tg2, che auspica di non veder “degenerare” la campagna referendaria sulle carriere dei magistrati in una sfida fatale fra politica e magistratura. Comprendiamo l’auspicio. Ma si può dire che, qualora prevalessero i sì, a quel referendum, l’Italia si metterebbe alle spalle una lunga stagione in cui la politica è apparsa subordinata alla magistratura, incapace di rivendicare quel primato che, Costituzione alla mano, pur sempre le spetta? Io non vorrei che la magistratura si associasse ai partiti nella campagna referendaria per una ragione molto semplice. Se l’opposizione seguisse la linea di Franceschini, di conferire al referendum un connotato politico, pro o contro il governo, si esporrebbe politicamente in modo irreversibile, e verrebbe inevitabilmente targata come costola, o cervello, dell’opposizione. Se vincessero loro, l’opposizione sarebbe subalterna alla magistratura, e avremmo una situazione a dir poco anomala. Se vincessimo noi, la sconfitta della magistratura non sarebbe tecnica, ma politica, e le sconfitte politiche hanno conseguenze. Per questo auspico che gli ex colleghi si limitino a critiche di ordine giuridico e sistematico, alle quali hanno ovviamente diritto, ma che non accettino l’abbraccio mortale della politica. Sorteggio al Csm, se il rimedio al correntismo rischia di essere peggiore del male di Giovanni Pascuzzi* Il Dubbio, 5 agosto 2025 Uno dei punti principali della riforma costituzionale della giustizia, di recente approvata in seconda lettura dal Senato, riguarda l’introduzione del principio del sorteggio per la individuazione dei componenti togati che andranno a comporre i futuri due Consigli superiori (uno per la magistratura giudicante e uno per la magistratura requirente). Si dovrebbe passare da un sistema che prevede l’elezione dei membri togati del (dei) Csm ad un sistema che farà leva sul sorteggio. L’obiettivo dichiarato è limitare il potere delle correnti della magistratura accusate di orientare il voto. La querelle su “elezione versus sorteggio” si pone da tempo e in termini simili, anche per l’individuazione dei componenti delle Commissioni di concorso a professore universitario. Di seguito un breve excursus dei modelli che, in quel contesto, si sono succeduti nell’ultimo quarantennio. Il d. p. r. 382/ 1980 prevedeva un sistema misto: per sorteggio ed elettivo. Il sorteggio avveniva tra i docenti di discipline ricomprese nel raggruppamento disciplinare cui si riferiva il concorso, per un numero triplo dei membri costituenti la Commissione sia effettivi che supplenti. Tra i docenti sorteggiati si procedeva alla elezione (da parte dei professori che componevano il raggruppamento) dei membri che avrebbero composto la Commissione giudicatrice. Con la legge 210/ 1998 (attuata con d. p. r. 390/ 1998) il sistema cambiò. Tutte le selezioni venivano svolte a livello locale e si abbandonò il sistema del sorteggio optando per un sistema in parte di nomina e in parte di elezione. Le Commissioni erano formate da un professore di ruolo interno, nominato dalla facoltà che aveva richiesto il bando, e da quattro docenti eletti tra i non appartenenti all’Ateneo. Nel 2010 il sistema è cambiato ancora con l’introduzione di un doppio passaggio: una prima fase nazionale che porta al conseguimento dell’Abilitazione scientifica nazionale (Asn) e una fase decentrata di chiamata degli idonei da parte degli atenei, riservata ai possessori dell’abilitazione. Per l’Asn è prevista un’unica Commissione nazionale per ogni settore concorsuale: i componenti di ciascuna Commissione sono sorteggiati all’interno di una lista formulata dal ministero fra quanti - in possesso di determinati requisiti - avanzano domanda per esservi inclusi. Nei giorni scorsi, il Consiglio dei ministri ha approvato un disegno di legge che preannuncia una ulteriore modifica del sistema di reclutamento universitario: le Commissioni giudicatrici saranno composte da almeno quattro membri esterni, scelti tramite sorteggio nazionale tra i docenti appartenenti al settore scientifico- disciplinare di riferimento, e da un membro interno dell’Ateneo che bandisce la procedura. Come si vede, quindi, da almeno un quarantennio, il mondo universitario si confronta con la scelta tra elezione e sorteggio per individuare i componenti delle Commissioni di concorso. Il sistema elettivo premia le “Scuole accademiche” numericamente più forti: i professori che fanno parte della medesima Scuola fanno convergere i voti sul soggetto appartenente alla stessa Scuola così da garantirne la elezione in Commissione. Se il Commissario viene meno al proprio dovere (che è far vincere i candidati migliori e non premiare i propri colleghi di Scuola a prescindere) un sistema di questo genere penalizza i candidati che non appartengono a Scuole forti ovvero che non appartengono a nessuna Scuola. Di positivo c’è il fatto (vero almeno in passato) che in Commissione finiscono di regola i professori con una significativa visibilità e autorevolezza nella disciplina, caratteristiche che dovrebbero portarli ad agire unicamente per premiare i migliori. Con il sistema del sorteggio può accadere che in Commissione finisca anche chi è diventato professore ordinario da pochissimo. Quindi anche persone giovani, poco conosciute, con una più limitata esperienza di direzione nella ricerca. Mi è accaduto di assistere a giovani Commissari chiamati a giudicare candidati anagraficamente più anziani e con titoli decisamente superiori (una situazione che a me è parsa malinconica). Se la riforma costituzionale entrasse in vigore, le dinamiche per l’individuazione dei componenti togati dei futuri Csm non sarebbero molto diverse. Il metodo dell’elezione in linea teorica dà molto potere alle correnti che possono orientare il voto. Ma non è necessariamente sbagliato se il voto viene fatto convergere su persone autorevoli e di esperienza (un po’ come avviene o dovrebbe avvenire per le elezioni politiche). Il metodo del sorteggio toglie potere al voto e quindi alle correnti organizzate. Ma può propiziare (se non si prevedono filtri di nessun tipo) la nomina di magistrati appena assunti, senza nessuna esperienza di direzione degli uffici o anche solo dell’”arte di giudicare” che verrebbero chiamati a prendere decisioni delicate, come quelle relative alla progressione di carriera di colleghi più anziani e con titoli decisamente superiori. Vero è che i giudici sono tutti uguali. Ma a nessuno verrebbe in mente di nominare un neovincitore di concorso direttamente Presidente di Sezione della Corte di Cassazione. Senza contare la possibile eterogenesi dei fini: se il sorteggio portasse alla nomina di togati appartenenti tutti alla medesima corrente ecco che quella corrente finirebbe per acquisire un potere pressoché totale riducendo sensibilmente il potere delle altre e sacrificando il pluralismo che pure è un valore in sé. Esistono obiettivi ed esistono strumenti per raggiungere quegli obiettivi. L’obiettivo non può che essere quello di assicurare che nel Consiglio superiore della magistratura (attuale e nuovi) siedano le persone migliori che per autorevolezza, esperienza e abito mentale assicurino che vengano prese le decisioni più giuste nell’interesse della collettività. L’obiettivo di ridurre gli aspetti deteriori del potere esercitato dalle correnti della magistratura è un obiettivo “in negativo”, dettato dalla volontà di porre rimedio ad una deriva considerata negativa: ma in un mondo ideale dovrebbe essere una conseguenza implicita dell’obiettivo generale indicato poc’anzi. In ogni caso non è detto, per i motivi esposti, che il ricorso al sorteggio per scegliere i membri togati dei Csm sia il mezzo migliore per raggiungere l’obiettivo di togliere potere alle correnti. A volte il rimedio può essere peggiore del male. *Consigliere di Stato 10mila euro per 50 cause “a cottimo”: Nordio offre soldi ai magistrati per non fallire il Pnrr di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 5 agosto 2025 La misura nel decreto legge approvato in Consiglio dei ministri: fino a cinquecento volontari saranno “prestati” a distanza ai Tribunali più in difficoltà per ridurre la durata dei processi. Fino a cinquecento magistrati volontari “prestati” a distanza ai Tribunali più in difficoltà, per smaltire pacchetti da almeno cinquanta sentenze in nove mesi in aggiunta al lavoro ordinario. In cambio, un compenso extra di quasi diecimila euro netti (il triplo dello stipendio base di entrata). Ecco il sistema di giustizia “a cottimo” inaugurato dal governo per velocizzare i tempi dei processi civili, nel tentativo disperato di raggiungere l’obiettivo Pnrr che impone di abbattere del 40%, entro il 30 giugno 2026, la durata media delle cause rispetto al 2019 (portandola da sette a quattro anni circa). Gli ultimi dati resi noti sono sconfortanti: alla fine dell’anno scorso la riduzione era ferma al 20,1%, la metà esatta del necessario. Il rischio di perdere miliardi di fondi europei, quindi, è ormai molto più che concreto. Così, accogliendo i suggerimenti arrivati dal Consiglio superiore della magistratura, il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha predisposto un decreto legge con una serie di misure d’emergenza per provare in extremis a recuperare il ritardo. La più impattante è proprio l’applicazione da remoto dei giudici, un inedito assoluto nel nostro ordinamento. Ma salta agli occhi anche la precettazione dei magistrati del Massimario, l’ufficio studi della Cassazione, finito nel mirino del ministro per il suo parere critico sul decreto Sicurezza: fino a cinquanta di loro potranno essere spostati temporaneamente alle Sezioni civili per dare una mano a smaltire fascicoli. Nel provvedimento, approvato lunedì in Consiglio dei ministri, non è invece entrata un’altra delle soluzioni ipotizzate dal Csm, quella di richiamare in servizio fino a 550 togati in pensione: il governo non ha voluto creare un precedente che avrebbe aperto le porte a rivendicazioni simili da parte di altre categorie di dipendenti pubblici. Nelle premesse del decreto si dà atto della “straordinaria necessità e urgenza di introdurre disposizioni che incidono sull’organizzazione giudiziaria e sul processo civile per agevolare il raggiungimento degli obiettivi” concordati con l’Europa. Entro 15 giorni dall’entrata in vigore, il Csm dovrà definire l’elenco dei Tribunali che riceveranno i “prestiti”, “ordinandoli secondo la gravità dello scostamento” rispetto ai target. A quel punto sarà pubblicato il bando e i magistrati interessati avranno altri 15 giorni per candidarsi: potranno proporsi anche le toghe fuori ruolo, cioè in servizio temporaneo presso altre amministrazioni (come i ministeri). Le applicazioni quindi partiranno tendenzialmente intorno a settembre-ottobre, per terminare il 30 giugno 2026, giorno-limite fissato dal Pnrr: se i magistrati smaltiranno i cinquanta fascicoli in anticipo rispetto a quella data, potranno chiedere di averne assegnati altri cinquanta in cambio di un compenso doppio. Le udienze e le camere di consiglio si terranno esclusivamente da remoto. Secondo quanto previsto nel decreto, il capo dell’ufficio a cui appartiene il magistrato dato “in prestito” dovrà verificare periodicamente che la sua “produttività” non sia “inferiore a quella media della sezione alla quale è assegnato”. Si stabilisce, infine, che i magistrati vincitori dell’ultimo concorso svolgano otto mesi di tirocinio nelle sezioni civili delle Corti d’Appello - particolarmente in difficoltà rispetto ai target - mentre di norma si effettua esclusivamente negli uffici di primo grado. “Alla certezza del diritto si è sostituita la prevedibilità della decisione giudiziaria” di Lorenzo Zilletti Il Riformista, 5 agosto 2025 Nelle scorse settimane, due ravvicinate “uscite” della Cassazione hanno suscitato un vivace dibattito: da una parte, le relazioni del Massimario sul Decreto Sicurezza e sulla questione Albania; dall’altra, il documento dell’Assemblea generale della Corte, in cui quest’organo si rivolge a Governo, Parlamento e C.S.M. con una sorta di elenco di desiderata. Ne parliamo con Gaetano Insolera, avvocato e professore di diritto penale. Non è la prima volta che il Massimario interviene “a caldo”, dopo l’approvazione di un testo normativo. Siamo nella fisiologia del sistema? Guardando sul sito della Cassazione la descrizione dei compiti dell’Ufficio del Massimario, istituito in base all’art. 68 RD 30/01/1941 n. 12 e più volte modificato nel tempo, l’unica funzione che sembra riconducibile al fenomeno di cui stiamo discutendo è la competenza a illustrare le novità normative. Si tratta di vedere - in concreto - se le relazioni cui accennavi, per i loro contenuti, rientrino in quel concetto. Di certo, forze politiche di opposizione e media le hanno utilizzate a piene mani per attaccare il Governo. Si potrebbe obiettare: non era questa l’intenzione del Massimario... Forse. Fatto sta che la relazione sul DL sicurezza è intrisa di valutazioni - quello che Mazza ha definito un “dogmatismo d’imperio” - che tengono conto della dimensione politica delle scelte di valore sottese alla novità normativa. Nel testo del Massimario colgo un forte dissenso da esse e il richiamo a una sorta di intervento da “Croce Rossa” della Corte costituzionale: difficile pensare a una neutralità dell’elaborato. Confesso che le interviste della Presidente Cassano, in cui sostiene trattarsi di mera analisi tecnico-scientifica, mi riportano alla mente giuristi del primo Novecento, come Manzini e Antolisei, e le loro idee circa la neutralità tecnica del diritto. Ciò al di là della circostanza che molteplici “censure” siano condivisibili... Sicuramente, come lo è stato chi negli ultimi trent’anni ha criticato il corteo ininterrotto di pacchetti sicurezza e il costante uso improprio di decreti legge, attribuibile a Governi di ogni colore: Carboni, il primo allievo di Bricola, già nel 1970 scrisse un libro sull’incompatibilità tra decretazione d’urgenza e diritto penale sostanziale. Non si può fingere di ignorare come il ruolo della Cassazione, in questi ultimi decenni, sia progressivamente cambiato, nei fatti e anche normativamente: penso a quel comma 1 bis aggiunto all’art. 618 cpp sulla parziale vincolatività del precedente, insomma lo stare decisis debole... C’è un “filo” che collega gli avvenimenti odierni a un progetto più ampio e risalente. Alla certezza del diritto si è sostituita la prevedibilità della decisione giudiziaria. Anche in ragione di interventi sovranazionali, si è ibridato il sistema, attingendo a piacere da ordinamenti basati sulla vincolatività del precedente e innestando le novità su una magistratura di carriera che nulla ha a che vedere con quella di common law. Certe relazioni del Massimario rischiano di condizionare pesantemente l’interpretazione dei singoli giudici. Non rassicura, in tal senso, il documento dell’Assemblea generale dove pure si fa continuo riferimento a una nomofilachia condivisa, che non calerebbe dall’alto, ma si alimenterebbe anche dal dialogo all’interno dell’intera comunità di giuristi. Parole belle, ma distanti da una realtà dove il diritto giurisprudenziale è ormai solo diritto giudiziario. Il consilium del giurista vale zero nelle aule di giustizia... Convengo e segnalo che si tratta di un fenomeno tutto italiano: per quel che mi consta non esiste l’equivalente, ad esempio, in una delle realtà più simili alla nostra - quella tedesca - dove ha una forte importanza la letteratura e sulle riviste si dibatte vivacemente attorno alle sentenze. Pure la dottrina ha le sue colpe: a forza di esaltare la creatività giudiziaria, ha finito per auto-sopprimersi... Questo anche perché è scomparsa la grande tradizione della penalistica italiana: prima c’era chi nasceva nel foro, ma attualmente le università sono occupate prevalentemente da “tempo-pienisti”, che con l’ordinariato poi magari si mettono a fare gli avvocati, ma in una dimensione in cui conoscono e sfruttano tutte le deviazioni del diritto penale vivente. C’è un mutamento antropologico dell’università. Si è smarrita la dimensione del garantismo penale: noi ci occupiamo di libertà dei singoli di fronte al Leviatano, ma ormai prevalgono altri impulsi e altri sentimenti, che sono quelli “codisti” rispetto al pensiero politico della magistratura. Torno all’Assemblea generale. Secondo l’art. 93 O.G., a parte le inaugurazioni dell’anno giudiziario e la formulazione al governo di pareri richiesti su disegni di legge, essa dovrebbe limitarsi a “deliberare su materie d’ordine e di servizio interno”. Non è un fuor d’opera rivolgersi unilateralmente a Parlamento, Governo e CSM, interloquendo alla stregua di organo di rappresentanza politica? Il testo di legge non consente equivoci: quell’Assemblea dovrebbe di regola servire a disciplinare aspetti organizzativi del funzionamento della Corte. Due punti specifici del documento. Il primo: prevedere albi separati per categoria, per cui gli avvocati che difendono dinanzi alle giurisdizioni di merito non sarebbero legittimati al patrocinio in Cassazione e viceversa. Con questo criterio, poiché tu sei un professore universitario molto dotto giuridicamente, dovresti esercitare solo in Cassazione, senza poterlo fare ad esempio di fronte alla Corte d’appello di Bologna o ai Tribunali di Firenze o Venezia... L’idea stessa va contrastata sul nascere, tanto è priva di ragionevolezza. Che ci sia l’aspirazione ad un livello di avvocatura che affronta i temi di legittimità in maniera qualificata può essere anche condivisibile. Che lo strumento sia quello della creazione di albi separati categoriali mi sembra non abbia senso. Purtroppo qualcuno, anche tra gli universitari, è affascinato da questa immagine di avvocato, che non si sporca le mani con i controesami o gli interrogatori in carcere. Quasi che le questioni di legittimità non nascessero dal merito. L’impressione inoltre è che spiri un po’ di revanscismo: ci volete separare. E poi c’è il secondo: estendere al penale l’istituto del rinvio pregiudiziale previsto in ambito civile, sempre in nome della nomofilachia. Insomma, sempre più potere alla Cassazione… Si potrebbe parlarne a lungo, ma la prima contrarietà nasce dall’idea di emulare il settore più arretrato e inefficace dell’ordinamento: quello della giustizia civile. Interrogatorio preventivo, effetto boomerang: se le garanzie diventano condanna anticipata di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 5 agosto 2025 Il caso Milano: la riforma rischia di esporre alla gogna mediatica. L’ex gip Salvini: “Sempre più indifferibile il divieto di pubblicare la richiesta della custodia cautelare”. “Quando venni audito in Commissione giustizia alla Camera sulla riforma della custodia cautelare e sull’introduzione dell’interrogatorio preventivo avevo manifestato molte perplessità”, afferma Guido Salvini, ex gip del tribunale di Milano, commentando con Il Dubbio, senza ovviamente entrare nel merito delle contestazioni, i recenti sviluppi procedurali dell’inchiesta sull’edilizia che ha terremotato Palazzo Marino. “Ciò che è accaduto - aggiunge Salvini - dimostra che i miei dubbi erano fondati, in quanto le nuove disposizioni non hanno affatto sortito gli effetti sperati”. La decisione di applicare in via differita misure cautelari nei confronti degli indagati per i reati connessi al procedimento ha suscitato in questi giorni più di una perplessità, mostrando le conseguenze a dir poco paradossali della recente riforma che prevede, come detto, l’obbligo di interrogatorio prima della decisione del giudice. Con tale riforma, approvata lo scorso anno, la misura cautelare ha cessato di essere un “atto a sorpresa”, diventando di fatto applicabile solo dopo il trascorrere di un certo lasso di tempo, quando un caso è però divenuto in ogni suo aspetto di dominio pubblico. Per quella che si potrebbe definire una “eterogenesi dei fini”, l’interrogatorio preventivo che era stato concepito come uno strumento di garanzia è diventato così un passaggio meramente formale. Gli indagati, pur dimessisi da ogni incarico attinente ai fatti, si sono visti comunque applicare la misura richiesta dalla Procura, senza variazione alcuna. Ad aggravare la loro posizione è stato poi il non “prendere le distanze” dai fatti contestati. “Nessuno ha ammesso le proprie responsabilità, né tantomeno l’esistenza di un sistema”, ha scritto nelle 400 pagine dell’ordinanza il gip Mattia Fiorentini. Una strategia difensiva “legittima” ma al tempo stesso “sintomatica”. Non collaborare equivale dunque a non dissociarsi. E non dissociarsi equivale a rimanere parte del “sistema”. Non confessare è pertanto una conferma. L’interrogatorio preventivo ha dato allora ancora più forza alla richiesta della procura, trasformando la misura cautelare in una sentenza anticipata. Esclusi in partenza il pericolo di fuga e l’inquinamento delle prove, appare molto difficile in una vicenda che da settimane è sotto i riflettori dei mass media che gli indagati possano, anche se in ipotesi lo volessero, ripetere a breve o a medio termine reati come quelli che sono loro contestati. Probabilmente, è stato sottolineato da più parti, sarebbe stata più razionale la richiesta da parte dei pubblici ministeri di limitarsi a chiedere l’applicazione di misure interdittive, come quelle che non consentono di rivestire cariche pubbliche o di contrattare con la Pubblica amministrazione, e che sarebbero state comunque sufficienti e funzionali alla tutela degli interessi in gioco. Ma tant’è. “In questo mutato scenario ritengo allora assolutamente indifferibile il divieto di pubblicare la richiesta della custodia cautelare prima dell’interrogatorio preventivo”, prosegue Salvini, proprio al fine di evitare il ripetersi di quanto accaduto nell’inchiesta sull’urbanistica, con i giornali che hanno subito dato la notizia degli avvisi di garanzia e della richiesta di arresto, facendo entrare gli indagati in un gorgo mediatico-giudiziario dal quale è impossibile difendersi. Tutto è poi “aggravato” dall’assenza di tempi perentori per la decisione del gip. Un vulnus nella riforma che lascia gli indagati in balia degli eventi per giorni, non sapendo gli stessi se una mattina verranno o meno i carabinieri a citofonargli a casa per tradurli poi in prigione. Tornado comunque all’inchiesta, anche i pm Marina Petruzzella, Paolo Filippini e Mauro Clerici sarebbero intenzionati a presentare ricorso al Riesame, a cui si sono già appellati i sei indagati arrestati, nei confronti di una parte dell’ordinanza che non ha riconosciuto l’induzione indebita contestata al sindaco di Milano Beppe Sala per il progetto del “Pirellino”. Il gip non ha poi riconosciuto alcuni episodi di corruzione contestati al presidente della Commissione paesaggio del comune di Milano, l’architetto Giuseppe Marinoni. Si tratta in particolare di quelli legati ai progetti di completamento di City Life. I giudici del Riesame, dopo la ricezione degli atti da parte dei pm, avranno dieci giorni per fissare l’udienza. Il collegio sarà in composizione “feriale”, quindi con magistrati che durante l’anno sono assegnati ad altre sezioni, anche civili, del Tribunale. Punire con giustizia: contro l’arbitrio del legislatore, per una sanzione equilibrata di Graziano Arancio Il Dubbio, 5 agosto 2025 Una sentenza della Consulta legittima l’approccio mirato, ma lo vincola a un principio inderogabile: il minimo sacrificio necessario della libertà personale. La sentenza n. 139/ 2025 della Corte costituzionale, nel dichiarare non fondate le questioni sull’art. 59, comma 1, lett. d), legge n. 689/ 1981, affronta una questione che, sotto la patina tecnica del coordinamento normativo, nasconde un nodo politico- giuridico di fondo: la tensione tra discrezionalità legislativa e giustizia penale costituzionalmente orientata. E in questa tensione, la neutralità non è un’opzione. Non si può infatti accettare, senza interrogarsi criticamente, che il legislatore possa precludere in modo assoluto l’accesso alle pene sostitutive sulla sola base del titolo di reato, svuotando il giudizio individualizzante e prognostico del giudice della cognizione. Se la pena deve tendere alla rieducazione - e questa è una norma costituzionale, non un auspicio - allora il legislatore non può cristallizzare ex ante la sua inidoneità sulla base di categorie astratte. Il Giudice delle leggi, pur legittimando tale scelta, impone un contrappeso fortissimo: il legislatore e l’amministrazione hanno un “preciso dovere” di garantire condizioni detentive rispettose della dignità della persona. Non è una clausola di stile. È la riscrittura, in chiave giuspubblicistica, del principio del “minimo sacrificio necessario” (art. 13 Cost.), che diventa un vincolo positivo e non derogabile. Nessuna riforma penale può eludere questo fondamento, e la legittimità delle scelte selettive del legislatore si misura - oggi più che mai - sulla loro coerenza con questo imperativo costituzionale. La riforma Cartabia, con l’art. 20- bis c. p., aveva aperto la strada a una cultura della pena meno afflittiva e più funzionale al reinserimento. Ma è bastata una clausola selettiva - quella sui reati ostativi - per depotenziare questa prospettiva. Il punto è che la logica dell’”ostatività” nasce nell’esecuzione penale, come barriera all’accesso ai benefici per chi non collabora. Traslarla a monte, nella cognizione, significa trasformare una presunzione superabile in una presunzione assoluta. E questo ha un costo in termini di tenuta costituzionale. La Corte Costituzionale lo sa. Non a caso, dedica un’intera sezione al principio del “minimo sacrificio necessario” della libertà personale, affermando che la pena detentiva può dirsi legittima solo se è “necessaria e proporzionata rispetto al conseguimento delle legittime finalità della pena”. Un principio che si pone come criterio- guida dell’intero sistema sanzionatorio e che impone al legislatore di motivare, non solo di decidere. È qui che la discrezionalità si trasforma in responsabilità. Il legislatore può - e deve - graduare la risposta penale, ma non può occultare la scelta dietro una neutralità apparente. Scegliere di non rendere accessibili le pene sostitutive significa scegliere un modello di giustizia: punitivo o rieducativo, repressivo o integrativo. E il Giudice Costituzionale, pur non sanzionando l’illegittimità della norma, chiede - tra le righe ma con forza - che questa scelta sia compatibile con l’architettura costituzionale, e dunque con un sistema che abbia ancora il coraggio di educare. Sarebbe un errore leggere questa sentenza come una mera legittimazione del sistema esistente. È, piuttosto, una sentenza- limite: accoglie la scelta del legislatore, ma la colloca in un perimetro di vigilanza costituzionale. In questo senso, la decisione non chiude un dibattito, ma lo rilancia su basi più consapevoli. Il Collegio Costituzionale non giustifica ogni esclusione. Ammette questa, e lo fa subordinandola alla garanzia effettiva del trattamento umano, alla proporzionalità della privazione di libertà, all’individualizzazione della pena come criterio regolatore. La domanda che rimane aperta è allora questa: possiamo davvero parlare di pena costituzionalmente conforme quando il giudice è ridotto a mero esecutore della categoria astratta di reato? O non siamo forse davanti a un ritorno - mascherato - all’automatismo sanzionatorio che la Corte stessa, in molteplici pronunce (da n. 341/ 1994 a n. 84/ 2024), ha progressivamente smantellato? Se l’evoluzione del sistema sanzionatorio deve avvenire “gradualmente”, come riconosce la stessa Corte Costituzionale, ciò non può tradursi in una dilazione indefinita del principio rieducativo. Il carcere non può essere la scorciatoia per non decidere. E il diritto penale, se vuole restare costituzionalmente legittimo, deve saper scegliere la pena non più grave, ma più giusta. Violenza di genere, non revocabile sospensione della pena prima della fine del corso di recupero di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 5 agosto 2025 L’aver iniziato la partecipazione al percorso riabilitativo imposto esclude la verifica intermedia da parte del giudice sul suo esito negativo a meno che non sia imposta una misura di prevenzione personale che venga però violata. Al condannato per un reato di violenza di genere - con pena sospesa condizionata all’obbligo di seguire un percorso di recupero riabilitativo - non può essere revocato il beneficio, per valutazione negativa degli esiti del corso seguito, prima della data stabilita per la sua conclusione. Così la Cassazione penale - con la sentenza n. 28293/2025 - ha accolto il ricorso del condannato per maltrattamenti in famiglia al quale il giudice dell’esecuzione aveva revocato il beneficio della sospensione della pena - condizionata all’adempimento dell’obbligo di fare un percorso di recupero contro la violenza di genere - anticipatamente alla scadenza del corso che di fatto aveva cominciato a seguire. La decisione di revoca ora annullata senza rinvio si fonda sulla carenza di potere del giudice a decidere la revoca in via anticipata se è integrato il presupposto dell’avvio della frequentazione del corso da parte del soggetto obbligato. Infatti, il giudice dell’esecuzione al fine di poter revocare un beneficio sottoposto a una condizione da adempiere entro un certo termine deve essere espressamente investito dalla legge del potere di verifica “intermedia” e di conseguente revoca del beneficio stesso durante l’esecuzione dell’obbligo di fare, cioè prima della scadenza del termine. La Cassazione giudica ininfluenti le modifiche dell’articolo 165 del Codice penale - e in particolare del suo quinto comma - apportate dalla legge 24 novembre 2023 n. 168 in quanto non modificative del potere di controllo e delle modalità di verifica sulla proficua partecipazione al corso di recupero. Inoltre, la Cassazione dice che sono solo stati precisati, ma non mutati gli obblighi trattamentali posti a carico del soggetto condannato per reati di violenza di genere, senza incidere né sulla sostanza della prestazione richiesta, né sulla verifica dell’esito effettivo. Conclude la Cassazione che solo in un caso la revoca può essere anticipata: quando all’obbligo di fare sia stata aggiunta dal giudice una misura di prevenzione personale a causa della ritenuta pericolosità sociale del condannato e questi l’abbia violata. Resta, infine, fuori discussione, il caso del condannato/obbligato che non abbia neanche avviato la frequentazione del corso, che è causa di revoca anticipata del beneficio della sospensione condizionale della pena rispetto alla scadenza fissata dell’adempimento imposto. Non era quindi legittima la revoca anticipata della sospensione della pena nel caso concreto dove il condannato aveva mostrato segni di disinteresse e disattenzione nell’ambito degli incontri con i terapeuti e gli esperti della tematica della violenza contro le donne. E ciò nonostante anche l’intervenuta segnalazione al Centro da parte della vittima del reato di aver subito nuovi comportamenti illeciti da parte dell’ex, che si era difeso affermando che la donna avesse mentito mossa da ragioni di gelosia verso di lui. Dati irrilevanti per la revoca del beneficio a fronte del fatto che l’uomo avesse iniziato a seguire i corsi imposti. Piemonte. Mellano: “Quegli attacchi sul mio operato come Garante regionale dei detenuti” di Barbara Morra La Stampa, 5 agosto 2025 Il fossanese dopo 11 anni ha lasciato l’incarico ed è amareggiato per le affermazioni dei consiglieri regionali di Fratelli d’Italia. Ha lottato politicamente perché questa figura venisse istituita e ne ha ricoperto per primo l’ufficio: il fossanese Bruno Mellano ha lasciato dopo 11 anni la carica di Garante regionale dei detenuti e delle persone sottoposte a restrizioni della libertà per il Piemonte. Ora è candidato allo stesso ruolo per il Comune di Torino. Partiamo dall’inizio: quando è stato nominato e da chi? “Sono stato nominato nel maggio 2014 dal Consiglio regionale del Piemonte, nell’ultima seduta utile della legislatura Cota. La proposta di legge per istituire la figura del Garante risaliva però a dieci anni prima, nel 2004, ed era stata presentata da me e dal collega Carmelo Palma, allora consiglieri radicali. Ci ispirammo al modello del Lazio, la prima Regione ad avere un Garante. Dopo varie traversie la legge fu approvata solo nel 2009, ma la nomina fu rinviata alla legislatura successiva. Ho quindi ricoperto l’incarico per due mandati, per un totale di 11 anni e tre mesi”. Di cosa si occupa il Garante? “Il Garante tutela i diritti delle persone sottoposte a restrizioni della libertà: non solo detenuti, ma anche internati in Rems, trattenuti nei Cpr, soggetti a misure alternative o a Tso. Si tratta, in Italia, di 60 mila persone in carcere e 120 mila sottoposte ad altri tipi di restrizione della libertà; in Piemonte 4500 detenuti e 10 mila presi in carico nelle misure alternative. Il Garante può accedere senza autorizzazione in tutte le strutture e parlare riservatamente con i detenuti. Il suo compito è ascoltare, verificare e attivare le istituzioni competenti: ministero di Giustizia, Interno, Sanità, Regione. L’obiettivo è garantire il rispetto dei diritti fondamentali”. La giornata tipo di un Garante, che cosa fa in concreto? “Riceve segnalazioni da detenuti, familiari, avvocati, volontari, ma anche dalla polizia penitenziaria o dai direttori. I temi più frequenti riguardano la sanità, le misure alternative, le carenze strutturali e soprattutto rapporti con la magistratura di sorveglianza. Il Garante interviene per sollecitare risposte, facilitare percorsi di reinserimento e assicurare la presa in carico da parte dei servizi pubblici. Non decide, ma facilita”. Le affermazioni dei consiglieri regionali di FdI sul suo operato (“strabismo ideologico” e “scarsa attenzione alle altre figure che vivono e lavorano nel carcere”) che effetto le hanno fatto? “Mi hanno amareggiato. Dopo 11 anni di lavoro, l’ultimo giorno del mio mandato mi sarei aspettato anche solo un ipocrita ringraziamento istituzionale, non un attacco. È stato un messaggio pericoloso, perché la legge è chiara su cosa debba fare un Garante. Ho sempre avuto un’impostazione “pannelliana”: occuparsi della comunità penitenziaria significa prendersi cura anche degli operatori, perché il loro benessere incide sulla qualità della detenzione. Confido che la nuova Garante, Monica Formaiano, saprà interpretare il ruolo con serietà e autonomia, ma spero non si voglia preconfezionare per lei un profilo più gradito politicamente”. Come Garante si è costituito parte civile nel processo in cui agenti di polizia penitenziaria di Cuneo sono accusati di torture, è stato criticato anche questo. Ora la costituzione potrebbe essere ritirata? “È uno scenario possibile, ma ritengo che la costituzione in un caso di contestazione così grave come quella di tortura sia non solo nelle funzioni del Garante ma anche un atto dovuto. Quello di Cuneo è il quarto procedimento in cui il Garante si è costituito, lo è anche nello stesso tipo di procedimenti in corso a Torino, Ivrea e Biella”. Liguria. Formazione in carcere, dopo una lunga assenza tornano i corsi professionalizzanti di Erica Manna La Repubblica, 5 agosto 2025 Nel 2023 uno solo per dieci detenuti tra tutte le case circondariali liguri. Ma nel secondo semestre del 2024 sono saliti a sette per 135 iscritti. Un corso solo: per dieci detenuti. Nel 2023, tra tutte le case circondariali liguri, è l’unico percorso di formazione professionale attivato e censito nei primi sei mesi dell’anno, con dieci iscritti. Nel secondo semestre non ne è stato attivato nessuno. È quanto risulta dai dati del Ministero: che certificano, in ogni caso, un leggero miglioramento. Nei primi sei mesi dell’anno scorso, infatti, sono stati avviati quattro corsi con 25 persone iscritte. Meglio nel secondo semestre: sette per 135 iscritti. “Una progressione che riflette un miglioramento - rileva Doriano Saracino, garante delle persone sottoposte a limitazioni della libertà personale - frutto dell’impegno di tanti attori: ci sono corsi finanziati dalla Regione, da Cassa delle Ammende e dai privati come Fondazione San Paolo”. Perché la formazione, dentro, è la chiave per tenersi occupati: e avere la possibilità di un dopo, visto che la recidiva per chi lavora - stima il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel) - scende fino a un tasso del 2%, a fronte dell’attuale 60%. Eppure, l’offerta formativa in carcere è ancora insufficiente: la rilevazione effettuata per il Cnel, infatti, a seguito del protocollo d’Intesa con il Ministero della Giustizia, mostra come le attività di formazione negli istituti liguri siano state realizzate con finanziamenti diversi: Cassa delle ammende, fondazioni, ma al di fuori dell’offerta formativa della Regione. Un quadro peggiore di quello del Piemonte: dalle circolari su attività scolastiche e corsi di formazione inviate dal Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria per Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta, infatti, emerge che per anni in Liguria non è stata più svolta alcuna attività di formazione finanziata dalla Regione. Fare scuola dentro - “Sulla formazione professionale, in Liguria c’è un vuoto. La Regione non ha attivato percorsi strutturati: c’è l’istruzione professionale statale, ma i percorsi quinquennali a volte sono poco compatibili con trasferimenti e movimenti dei detenuti”, racconta a Repubblica un operatore che lavora all’interno del sistema e preferisce rimanere anonimo. Nelle case circondariali sono attivi corsi di alfabetizzazione di primo livello: a Pontedecimo sono a cura del Cpia (centro provinciale di istruzione per adulti) Centro-Ponente, a Marassi del Cpia Centro-Levante. E poi, ci sono le lezioni degli istituti secondari di secondo grado: il Gaslini-Meucci si occupa dei corsi di ottico e di meccanico, il Vittorio Emanuele Ruffini di grafica (a Marassi) e tecnici a Pontedecimo, e così in tutta la regione. I corsi professionali brevi sono possibili: svolti da istituti professionali di Stato in regime di sussidiarietà. Attivarli, però, non è semplice. Le difficoltà quotidiane tra i banchi, dentro, sono tante, come racconta chi lavora: “A Marassi, dopo le ribellioni di giugno a difesa del detenuto seviziato, l’area delle aule è stata devastata. In generale, dopo il periodo del covid, le amministrazioni penitenziarie hanno messo in atto un giro di vite. A fare la differenza sono i rapporti umani di collaborazione tra i tanti soggetti coinvolti”. Le esperienze positive non mancano: a Marassi c’è il laboratorio di grafica nella sezione Alta sicurezza, convenzionato con la Bottega solidale. E poi, il recente accordo con il Centro di giustizia minorile che permetterà dall’anno prossimo di gestire i percorsi scolastici dei minori sottoposti a misure penali. Una delle battaglie del garante riguarda la certificazione delle competenze di chi è dentro: “Abbiamo attivato interlocuzioni con la Regione - spiega Saracino - vorremmo che Alfa, l’Agenzia regionale per il lavoro la formazione e accreditamento, attestasse le competenze che i detenuti acquisiscono attraverso percorsi brevi e professionalizzanti. Un documento poi spendibile fuori”. Lavoro, poche occasioni - Si chiama Gol, il programma “Garanzia di Occupabilità dei Lavoratori”, finanziato da Pnrr per favorire l’inserimento lavorativo. Negli istituti penitenziari, i centri per l’impiego stanno realizzando una profilazione dei detenuti per avviarli a tirocini all’esterno del carcere e ad attività lavorative. “Uno strumento utile - riflette Saracino - che è stato esteso agli altri istituti della Liguria. A Marassi una decina di persone ha trovato un impiego in questo modo, soprattutto nel giardinaggio, call center, ristorazione. Il programma in alcuni casi prevede anche formazione, ma se non ci sono i numeri sufficienti per avviare il corso, non parte. E a Pontedecimo il lavoro esterno al momento è fermo, ma dovrebbe ripartire anche con un corso per gelateria”. La Legge Muraglia (193 del 2000) consente alle imprese di assumere detenuti fruendo di un credito d’imposta, all’interno degli istituti o all’esterno (in semilibertà). Come sta andando, in Liguria? Tenendo conto delle singole regioni dove hanno sede legale le imprese beneficiarie emerge che le aziende di Lombardia e Veneto assorbono oltre il 60 per cento delle risorse. La Liguria, con lo 0,7 per cento, è quintultima. L’anno scorso - mettendo in relazione i fondi concessi per ogni provveditorato con i detenuti presenti - emerge che la nostra regione ha ottenuto 88 mila euro di fondi nel 2025 (mentre ne aveva avuto 159 mila l’anno precedente). In pratica, 66 euro per detenuto. Brescia. Carcere, detenuto tenta di togliersi la vita e muore in ospedale bresciaoggi.it, 5 agosto 2025 Nuovo appello: “Servono azioni concrete e immediate”. Anche la Garante dei detenuti del Comune di Brescia Arianna Carminati ha aderito alla Giornata nazionale di mobilitazione promossa dalla Conferenza nazionale dei Garanti territoriali inizialmente fissata per il 30 luglio, a un mese esatto dall’appello del Presidente della Repubblica sulla drammatica situazione carceraria del Paese. A Brescia - fa sapere la garante - l’iniziativa si è svolta qualche giorno dopo per motivi organizzativi e per favorire il più ampio coinvolgimento dei rappresentanti istituzionali a livello locale e nazionale. Hanno risposto all’appello numerosi esponenti politici del territorio, e alla visita all’interno della Casa circondariale “Nerio Fischione”, questa mattina, hanno partecipato gli onorevoli Fabrizio Benzoni e Gian Antonio Girelli, il vicesindaco del Comune di Brescia Federico Manzoni, la consigliera regionale Paola Pollini, e la consigliera di parità della Provincia di Brescia Daniela Edalini. La tragedia - “Proprio in questi giorni - cita una nota della garante - nella struttura bresciana si è verificato un episodio tragico che ha reso ancora più evidente l’urgenza della situazione: un detenuto, a seguito di un tentativo di suicidio all’interno dell’istituto, è deceduto dopo il ricovero in ospedale. Un fatto drammatico che richiama, con forza, il dovere delle istituzioni e della società di non distogliere lo sguardo da ciò che accade dentro le carceri e di intervenire con misure immediate, efficaci e umane”. Nel corso della visita, la direttrice Francesca Paola Lucrezi, e il capo area trattamentale Matteo Pedroni, hanno dialogato con le autorità intervenute, rappresentando con chiarezza le difficoltà operative e strutturali ed illustrando gli sforzi che l’Amministrazione penitenziaria sta mettendo in campo per garantire condizioni dignitose di detenzione e percorsi trattamentali efficaci. “Al di là di ogni valutazione sulle misure attualmente allo studio del Governo la cui attuazione non potrà avvenire in tempi brevi si richiama l’urgenza - sottolinea ancora la nota della Garante - di azioni concrete e immediate, che possono essere attivate già ora, in particolare per quanto riguarda il regime trattamentale. Le misure - In primo luogo, è necessaria “una revisione significativa delle regole relative ai colloqui telefonici, alle videochiamate e alle visite dei familiari, strumenti essenziali per il benessere psichico delle persone detenute e per la tenuta dei legami affettivi”. Tra le altre misure che vengono citate nella nota della Garante di Brescia la riqualificazione degli spazi esistenti all’interno degli istituti; l’implementazione dei fondi destinati alle attività trattamentali e formative; l’aumento del personale educativo (giuridico-pedagogico) e del personale sanitario strutturato; l’implementazione degli Uffici per l’Esecuzione Penale Esterna (UEPE), indispensabili per garantire l’effettività delle misure alternative alla detenzione; la valorizzazione delle misure sostitutive alla pena detentiva; il potenziamento del personale dei Tribunali di Sorveglianza, la cui carenza incide direttamente sulla tempestività delle decisioni che riguardano la libertà delle persone detenute e il rispetto dei loro diritti all’interno delle strutture carcerarie. La Conferenza nazionale dei Garanti territoriali ha espresso il proprio sostegno alla proposta di introdurre una misura straordinaria di liberazione anticipata speciale di 75 giorni per semestre, come misura deflattiva urgente, e alla contestuale revisione delle procedure per la sua concessione, prevedendo che a disporre la liberazione anticipata sia il direttore dell’istituto penitenziario, salvo i casi di sanzioni disciplinari gravi. Tale modifica semplificherebbe e accelererebbe l’accesso a un beneficio oggi spesso ostacolato da tempi eccessivamente lunghi. “La dignità della pena - sottolinea la Garante - non è una concessione, ma un dovere costituzionale, e l’impegno istituzionale, a ogni livello, deve orientarsi a risposte concrete e tempestive che tutelino la persona, il diritto e la coesione sociale” Pollini: emergenza sociale - “Se da un lato si registra un parziale miglioramento per quanto riguarda l’organico della Polizia Penitenziaria, sul fronte sanitario persistono gravi carenze. Il 70% dei detenuti presenta forme di dipendenza da droghe e l’età media degli ingressi si sta abbassando sensibilmente - commenta Paola Pollini (M5S) dopo la visita-: un chiaro segnale che impone un investimento più deciso nelle misure alternative alla detenzione, l’unica vera strada per ridurre la recidiva volontà politica come per il carcere di Verziano che con Nerio Fischione sono due strutture penitenziarie diverse ma con una gestione unificata, dove attualmente si trovano 124 detenuti, di cui 42 donne. L’ampliamento di questa struttura è atteso da anni. Le risorse da parte del Ministero sono già stanziate, bisognerebbe procedere con l’esproprio dei terreni limitrofi. La realtà delle carceri ci parla di un’emergenza umana e sociale che non può essere ignorata”. Brescia. “Incontro, ascolto e relazione. Il rapporto deve proseguire anche dopo la scarcerazione” di Mara Rodella Corriere della Sera, 5 agosto 2025 Mai l’abbiamo vista tirarsi indietro. O non sorridere. Determinata, gentile, perennemente di corsa. Originaria di Gardone Valtrompia, 49 anni, docente di criminologia in università Statale, Luisa Ravagnani per dieci anni - fino alla fine del secondo mandato, non rinnovabile - è stata la Garante dei diritti dei detenuti bresciani. Come è iniziata l’attività in carcere? “A 18 anni, quando ho avvicinato l’associazione Vol.Ca, poi diventata Carcere e Territorio, per fare volontariato da studente a giurisprudenza. Ho cominciato con i primi accompagnamenti in giro per l’Italia di persone in permesso, insieme a un’amica. Poi sono arrivati i primi colloqui singoli con i detenuti, grazie al supporto di Angelo Canori, presidente storico di Vol.Ca, il mio faro così come il professor Carlo Alberto Romano. Non ho più smesso. Poi per undici anni ho lavorato come esperto al Tribunale di Sorveglianza, nel 2015 si aprì la possibilità di diventare garante e sono stata eletta”. Quindi ha continuato con un ruolo diverso... “Esatto. Ho mantenuto attivo il rapporto con i detenuti, che per me è fondamentale: senza la conoscenza diventa difficile capire se e cosa si possa fare insieme a loro”. L’hanno accettata tutti? “Sì. Con alcuni detenuti ho litigato, perché non apprezzavano il mio tentativo di usare la mediazione con amministrazione o direzione, quindi mi vedevano come una persona che non avrebbe potuto essere dalla loro parte. Ma la maggior parte ha avuto il buon senso di comprendere che il dialogo fosse l’unica modalità di azione possibile. Il linguaggio della contrapposizione non mi appartiene: sfidare “il sistema” non può essere la soluzione, non la rivolta: in quel sistema ci siamo dentro tutti”. Il ruolo del tempo, prima e dopo? Dentro e fuori? “Quello che ho sempre cercato di fare è stato di non interrompere il rapporto una volta finita la pena. Ed è un aspetto molto delicato da gestire perché se tu basi tutto sulla relazione con una persona, non può finire quando esce dal carcere, altrimenti le parole che tu hai raccontato diventano vane. Continui a ribadire il concetto di comunità, lì i detenuti poi tornano e tu la rappresenti: non puoi sparire e chiudere loro la porta in faccia”. E ci è sempre riuscita? “È molto complicato, ma nella maggior parte dei casi ha funzionato. I detenuti sanno che mi possono chiamare, li aiuto con il lavoro, la casa, le tensioni in famiglia. Perché se la relazione non la trovano con te, lo faranno con qualcun altro, non è detto positivo o estraneo alle logiche di devianza: il rischio è che tornino a cercare i vecchi canali. Noi dobbiamo offrire il più possibile interazioni pulite”. In dieci anni cosa ha visto cambiare in un carcere difficile come Canton Mombello, spesso maglia nera italiana per sovraffollamento? “Dal punto di vista strutturale nulla, perché non è possibile. Questa amministrazione penitenziaria e la direzione hanno portato miglioramenti nella qualità della vita quotidiana dei detenuti, dai frigoriferi ai ventilatori, per intenderci. Il resto non dipende da Brescia, sicuramente cresciuta in termini di attenzione al carcere: il territorio risponde, i progetti ci sono anche se alcuni non riescono a mantenere la continuità per mancanza di risorse. Purtroppo, però, qui come a livello nazionale, vedo solo peggioramenti”. In che senso? “So che la chiusura delle celle viene vista come una necessità per rispondere ai tantissimi atti di autolesionismo o alle aggressioni, situazioni pericolose per il personale, ma il problema è che la sorveglianza dinamica, attuata nei Paesi più avanzati, prevede che si portino attività in sezione, non che si aprano le porte e si lascino i detenuti a fare letteralmente nulla. Il Italia non è stata applicata davvero: spazio e tempi vuoti non sono mai stati riempiti da esperienze trattamentali importanti per la rieducazione”. La riabilitazione. Cosa ne pensa? “Sono molto critica. Noi tutti portiamo avanti un concetto di riabilitazione lontano dalla percezione del fatto che non sia qualcosa che tu proponi: parte dal detenuto, che decide di mettersi in gioco. E va agganciato. Gli si deve parlare e capire cosa gli farebbe bene affrontare durante la carcerazione, anche sotto il profilo umano. Altrimenti è inutile. Chi si è rieducato aveva già dentro di sé le risorse per farlo, dobbiamo puntare sugli altri”. Operatori e risorse sono sufficienti? “No. Sono convinta che le figure educative dovrebbero essere molto di più: già il rapporto di uno a dieci sarebbe poco, ma un primo passo. Una persona con cui affrontare un percorso continuativo, almeno tre volte alla settimana”. Ci sono stati momenti che l’hanno colpita? “Particolarmente intenso è stato tutto il lavoro del gruppo Diritti umani, ogni giovedì a Canton Mombello, focalizzato sui diritti delle vittime e concretizzato poi nello spettacolo teatrale Terza Branda. È stato un laboratorio profondo di contenuti legati al vissuto criminale e alla possibilità di riscattarsi, quindi le parole dei detenuti, raccontate a volte tra l’ironico o l’intimamente triste, ancora, dopo tanti anni mi segnano. Quando ti guardano e ti dicono che nessuno si è chiesto come potranno stare davvero una volta fuori, perché il carcere è l’unico posto che conoscono, è un’esperienza forte”. Le hanno parlato dei reati commessi? “Alcuni sì, altri no. Io non chiedo mai, devono sentirsi di farlo. Qualcuno racconta i fatti nei dettagli e io nemmeno posso sapere se dica la verità visto che non ho gli atti giudiziari: quello che queste persone stanno trasmettendo, però, è il loro vissuto, la loro narrazione per sopravvivere, a prescindere da ciò che poi verrà accertato. Allora facciamo che noi lavoriamo sulla percezione, della giustizia se ne occupa chi di dovere”. Quanto si porta a casa del carcere, una volta uscita? “Tanto. Con i miei due bambini parlo molto. Mia figlia, che ha otto anni, ha tenuto la corrispondenza per oltre un anno con un detenuto di oltre 70 anni, le avevo raccontato che era un nonno solo: lui mi consegnava i disegni da darle, lei gli scriveva. I miei figli mi chiedono perché io sia contraria al carcere”. Perché? “Perché a meno di casi gravissimi che la comunità non è pronta a gestire diversamente, per tutto il resto ci deve essere altro. Il carcere non aiuta a cambiare. E in questo Paese nessuno vuole sapere esattamente quale sia la percentuale di recidiva: è scomoda”. Le riforme introducono reati e inaspriscono alcune pene. Può funzionare? “No. Credo che incattivisca le persone, punto. Più fai sentire i detenuti vittime di un sistema - che li vuole solo punire e li tiene in un ghetto - meno loro si occuperanno delle vittime vere causate dai loro reati. Siamo sicuri che la pura sanzione detentiva faccia bene alle vittime? I prezzi sui reati non hanno valore: se il detenuto non entra nella condizione di capire quello che ha fatto, non basterà un ergastolo. E la pacificazione nell’immediato, con l’erogazione della pena, non durerà se non è costruita su radici stabili e non curerà le ferite. La chiave resta l’incontro, sempre”. Roma. A Regina Coeli un giovane detenuto è stato ritrovato morto nel suo letto di Edoardo Iacolucci lacapitale.it, 5 agosto 2025 La denuncia della Garante: “Non ne posso più di queste notizie”. Un giovane detenuto è stato trovato senza vita nel suo letto nel carcere di Regina Coeli, a Roma. A raccontare addolorata la vicenda è Valentina Calderone, garante capitolina dei detenuti. La Calderone conosceva bene il giovane: “L’avrò incontrato decine di volte. Lo scorso anno gli abbiamo fatto rinnovare la carta d’identità, e da quel momento quando mi vedeva voleva sempre parlare con me”. “Un ragazzo difficile, ma voleva cambiare vita” - Era “un rompiscatole, difficile e con un sacco di problemi”, ma anche come un ragazzo che non aveva smesso di sperare: il giovane aveva scontato diversi periodi di isolamento, le aveva parlato della sua ex fidanzata, degli amori passati e delle cavolate fatte nella vita. Il suo desiderio era andare in comunità, per questo aveva bisogno a tutti i costi dei documenti in regola. Eppure, sottolinea Calderone, dopo due anni era ancora lì. “Tra le scartoffie del mio ufficio ho ancora un disegno che mi aveva regalato - ricorda Calderone -. Non so cosa gli sia successo e perché sia morto. So solo che non ne posso più di ricevere queste notizie. Non ne posso più di persone che muoiono dentro al carcere”. Morti e suicidi in carcere: l’allarme dei garanti - La vicenda si inserisce in un contesto già segnato da numeri preoccupanti. Secondo i dati diffusi dal Garante nazionale e da Antigone, nel 2024 si sono registrati oltre 80 suicidi in carcere e oltre 240 decessi totali, un record che conferma la crescita delle morti sospette e dei casi di autolesionismo. Le associazioni denunciano da tempo le criticità del sistema penitenziario: sovraffollamento, carenza di personale e difficoltà nei percorsi di reinserimento. E la morte di ieri a Regina Coeli diventa l’ennesimo grido d’allarme su una realtà che continua a produrre dolore. Padova. Ostanel: “Le carceri del Veneto vengano riconosciute aree disagiate” padovaoggi.it, 5 agosto 2025 “Questa mattina ho visitato il carcere di Padova e durante la mia visita è emersa con forza una criticità, ribadita anche dalla Direzione Sanitaria, che non possiamo più ignorare: la carenza di personale sanitario nelle strutture penitenziarie. Perché senza incentivi adeguati, sarà sempre più difficile garantire cure e servizi fondamentali”, dichiara Elena Ostanel, Consigliera regionale del movimento civico Il Veneto che Vogliamo a margine della visita. “Per questo ho proposto che tutte le carceri del Veneto vengano riconosciute come “aree disagiate” e fino ad ora siamo riusciti ad arrivare a questo risultato solo su alcune province come Rovigo e Venezia. Il riconoscimento di questo status per tutte le carceri del Veneto permetterebbe di prevedere maggiori incentivi economici e professionali per il personale sanitario, attirando figure indispensabili per la salute dei detenuti e il buon funzionamento del sistema”, continua Ostanel. Oltre alla visita, si è tenuto un incontro con la Direttrice, la Direzione Sanitaria, la Direzione della Polizia penitenziaria, il Garante comunale dei diritti delle persone private della libertà personale Antonio Bincoletto e la Redattrice di “Ristretti Orizzonti” Ornella Favero. Inoltre la Consigliera ha visitato, insieme al Garante, la biblioteca, gli spazi di inserimento lavorativo, gli spazi universitari e la redazione di Ristretti Orizzonti. “La situazione è urgente: solo a Padova ci sono 611 detenuti, su 438 regolamentari, di cui 160 persone con problemi di dipendenza certificati, un numero che richiede interventi specifici sia in termini di supporto psicologico che di servizi per le dipendenze. E non parliamo solo di detenuti: anche la polizia penitenziaria deve essere messa al centro, con adeguato sostegno psicologico e strumenti per affrontare un lavoro complesso e logorante”, prosegue la Consigliera. “La metà delle persone recluse a Padova soffre di patologie croniche più dell’80% necessita di psicofarmaci ed è per questo che serve un supporto sanitario costante. Ho rilevato, come era già accaduto in altre strutture, l’emergenza rispetto alle cure dentarie, perché si fatica a trovare personale che lavori nelle strutture carcerarie”, continua Ostanel. “Allo stesso tempo, Padova dimostra che il carcere può essere anche un luogo di reinserimento e di opportunità: grazie al lavoro del terzo settore e delle cooperative sociali, sono attivi progetti culturali, formativi e di inclusione che vanno dalla scuola all’università, fino alle iniziative promosse da “Ristretti Orizzonti” - come la rivista scritta e ideata dai detenuti, o laboratori culturali, dibattiti e formazioni - che oggi ho potuto conoscere da vicino”, aggiunge la Consigliera. “Noi continueremo a batterci in Consiglio Regionale perché il Veneto diventi un modello di giustizia che non lascia indietro nessuno: più personale, più servizi, più dignità per chi lavora e vive nelle carceri”, conclude Ostanel. Riapre l’Ipm dell’Aquila, il carcere minorile sarà intitolato a San Francesco d’Assisi di Natalfrancesco Litterio ilcapoluogo.it, 5 agosto 2025 Inaugurato il carcere minorile dell’Aquila, il Sottosegretario Ostellari: “Non solo struttura detentiva, ma di educazione”. Inizieranno a breve le procedure per intitolare il carcere minorile dell’Aquila a San Francesco d’Assisi. Lo ha detto il Sottosegretario alla Giustizia, Andrea Ostellari, in occasione dell’inaugurazione dei locali ristrutturati in via Giuseppe Mezzanotte. “La figura di San Francesco - ha aggiunto - serve a ricordare che in questo istituto c’è sicuramente misericordia, ma soprattutto c’è rigore, un luogo che può diventare simbolo anche di una rinascita, che parte dal minorile ma che poi ovviamente si deve estendersi anche agli adulti. Restituiamo una struttura - ha sottolineato Ostellari - che non è solo detentiva, ma anche una struttura di educazione, che consentirà anche attraverso gli spazi che sono stati ricavati di garantire quel percorso rieducativo che è essenziale”. Presenti alla cerimonia, anche il Sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove, il Capo del Dipartimento per la Giustizia Minorile, Antonio Sangermano, il sindaco dell’Aquila Pierluigi Biondi, Gennaro Di Maio, Direttore della sede coordinata dell’Aquila - Provveditorato alle Opere pubbliche, il senatore Guido Quintino Liris, il Presidente della Regione Abruzzo, Marco Marsilio, e l’assessore regionale alle Politiche sociali, Roberto Santangelo. Alla cerimonia anche il dottor David Mancini, procuratore del Tribunale per i minorenni dell’Aquila, S. E. mons. Antonio D’Angelo, Arcivescovo metropolita dell’Aquila e le autorità militari del territorio. “Oggi - ha aggiunto il Sottosegretario Delmastro - si archivia l’infausta e improvvida pagina che indusse il ministro Orlando a chiudere l’istituto penale minorile deprivando il territorio di un presidio di sicurezza e i giovani di una esecuzione di pena vicina alla rete familiare. Un istituto che abbiamo riaperto rispettando due criteri che sono fondamentali e che devono correre insieme: la sicurezza, con la videosorveglianza e gli anti-scavalcamenti e dall’altra parte l’aspetto trattamentale che deve essere enfatizzato evidentemente negli istituti minorili. Lo Stato torna presente in tutte le sue articolazioni in Abruzzo contro un passato sinistro dove lo Stato arretrava. Le città sono preoccupate sempre di più per la questione del disagio giovanile. Con il dl Caivano abbiamo immaginato che i giovani adulti che stanno all’interno degli istituti, quando si trasformano in capobranco e minacciando i minorenni o turbando l’ordine pubblico e la sicurezza, possono essere trasferiti negli istituti penali per maggiorenni. Anche così si fa prevenzione soprattutto nei confronti del detenuto più debole che molto spesso viene vessato dal cosiddetto giovane adulto”. Dell’importanza della riapertura del presidio di legalità ha parlato al microfono del Capoluogo d’Abruzzo il procuratore del Tribunale per i Minorenni dell’Aquila, il dottor David Mancini, non solo per il territorio aquilano e la regione Abruzzo, ma anche per i territori di Molise e Marche, che non hanno questo tipo di struttura. Nel suo intervento, invece, il sindaco Biondi ha accolto favorevolmente la proposta di intitolare il carcere minorile a San Francesco, ricordando la partecipazione dell’Abruzzo alle cerimonie per la Festa di San Francesco d’Assisi di quest’anno, con il dono dell’olio votivo. Reggio Calabria. Donne in carcere: “Urgente garantire diritti sanitari e percorsi trattamentali” di Anna Foti ilreggino.it, 5 agosto 2025 Il coordinamento Pari Opportunità del Uil Calabria ha fatto appello alla garante regionale Russo. L’associazione Antigone ha visitato anche la sezione femminile del carcere Panzera, rilevando una serie di pregnanti criticità. “Nella sezione femminile di Reggio Calabria mancano acqua calda, spazi adeguati, attività trattamentali, supporto medico 24 su 24 e servizi educativi efficaci”. L’associazione Antigone, dal 1991 impegnata a promuovere diritti e garanzie nel sistema penale e penitenziario, visitando entrambe le due sezioni calabresi a Reggio e a Castrovillari, ha rilevato le condizioni che rendono le donne detenute quasi sottoposte a una doppia pena. Vittime di marginalità anche dentro il carcere, in un contesto penitenziario complessivo già critico. In Calabria le donne sono detenute a Reggio Calabria e a Castrovillari, in istituti penitenziari misti in cui sono allestite delle sezioni femminili. A Reggio, la casa circondariale Giuseppe Panzera, dove sono presenti la sezione Nausicaa, la sottosezione Penelope per madri con i loro piccoli e la sezione Atena (attualmente chiusa). Il contesto nazionale - Il quadro già così evidenzia che in Calabria le donne sono detenute in istituti a prevalenza maschile, in un Paese in cui “con la chiusura del carcere di Pozzuoli nel giugno 2024 a causa del terremoto, oggi sono solo tre le carceri interamente femminili: Rebibbia a Roma (375 presenze per 272 posti, il carcere femminile più grande d’Europa), la Giudecca a Venezia (102 presenze per 112 posti) e la piccola Casa di Reclusione femminile di Trani (34 presenze per 32 posti). Oltre l’80% delle donne detenute è ospitato in sezioni femminili all’interno di carceri a prevalenza maschile, che attualmente sono 46. Le donne detenute nelle carceri italiane al 31 marzo 2025 - denuncia nel suo rapporto il rapporto Antigone sono 2703, ossia il 4,3% della popolazione detenuta complessiva, che supera i 60 mila persone. Una percentuale rimasta sostanzialmente stabile nel corso dei decenni”. È quanto di si legge nel rapporto “Senza Respiro” in cui Antigone fotografa una minoranza numerica delle donne reclusa spesso in strutture marginali, sezioni adattate o in istituti promiscui dove la loro presenza risulta secondaria. Sanità e trattamenti carenti - “Le donne detenute della nostra regione continuano a vivere in condizioni inaccettabili, tra sezioni marginali, assenza di screening strutturati e servizi sanitari continuativi e percorsi di reinserimento pressoché inesistenti. È arrivato il momento di accendere un faro su questa realtà ignorata. La marginalità numerica si traduce in marginalità istituzionale: ginecologia una volta al mese, nessun servizio ostetrico continuativo, screening oncologici come Pap test e mammografie assenti. Una negazione del diritto alla salute, aggravata da strutture vetuste, sovraffollamento e personale insufficiente. Le detenute, spesso con fragilità pregresse, non possono subire una doppia pena: quella giudiziaria e quella dell’oblio istituzionale”. È quanto denuncia Anna Comi, coordinatrice delle Pari Opportunità Uil Calabria che ha dedicato un focus al tema, invocando l’intervento risolutivo della Garante regionale per i diritti delle persone detenute, Giovanna Francesca Russo, per un deciso cambio di passo nelle politiche penitenziarie in Calabria. Una situazione che pone interrogativi gravi in termini di diritto alla salute, equità e dignità, specie per una popolazione già fortemente vulnerabile”. Il coordinamento Pari Opportunità Uil Calabria ha stilato un rapporto che muove i passi anche dalle osservazioni del rapporto Antigone. Il rapporto Antigone - Secondo quanto denunciato da Antigone “le donne recluse hanno, nella maggioranza dei casi, uno scarso spessore criminale e una bassa pericolosità penitenziaria. Provengono spesso da contesti di forte marginalità sociale, con situazioni pregresse di povertà economica, disagio educativo, violenze subite e percorsi di vita spezzati. Il carcere, in queste condizioni, rischia di non rappresentare una possibilità di recupero, ma di diventare un ulteriore fattore di esclusione”. La sezione Nausicaa del carcere Panzera di Reggio - “Reggio Calabria - secondo i dati in dettaglio di Antigone - soffre particolarmente per l’obsolescenza strutturale e l’assenza di programmazione trattamentale, mentre Castrovillari, pur meglio organizzato, presenta carenze sistemiche sul piano sanitario e del personale specializzato. La sezione femminile della Casa Circondariale di Reggio Calabria, articolata in due sezioni - Atena (attualmente chiusa) e Nausicaa - ospitava al momento della visita 39 donne, di cui una parte in attesa di giudizio e una minoranza straniera. La sezione per le madri con figli (Penelope) è ben attrezzata, ma al momento della visita non vi erano detenute madri presenti. Il carcere Giuseppe Panzera di Reggio è molto datata, risalente agli anni 30, e presenta gravi carenze strutturali, tra cui celle in cattive condizioni, spazi angusti, e talvolta mancanza del minimo di 3 mq calpestabili a persona. Inoltre, non sempre è garantita l’acqua calda. Le criticità - Tra le principali criticità, spiccano l’assenza quasi totale di attività trattamentali e lavorative (lo spazio per le lavorazioni non è mai stato avviato), una grave carenza di personale, sia per quanto riguarda la Polizia Penitenziaria sia in termini di mediatori culturali e sanitari. Risulta inoltre una biblioteca poco fruibile come spazio comune e una zona per l’aria ristretta e non attrezzata. Sul piano educativo, è attivo solo un corso di alfabetizzazione e il biennio delle scuole superiori, con poche iscritte. Le opportunità lavorative interne sono minime e non vi sono contratti con datori esterni. Le attività ricreative e culturali sono poche e sporadiche. Non vi è accesso al web né un’area verde per i colloqui estivi. Risulta anche l’assenza di un medico 24h e cartella clinica non informatizzata, un’alta incidenza di uso di psicofarmaci (oltre il 50% delle detenute) con presenza di più casi di diagnosi psichiatrica”. Il reparto Argo chiuso - Sul punto è il caso di ricordare che l’articolazione di Tutela di salute mentale, ossia il reparto di osservazione psichiatrica, che aveva sede nella sezione Argo del carcere Panzera, è stata chiusa nel 2023. Non è stata ancora riaperta in altro istituto in Calabria dove, dunque, è rimasto solo il reparto a Catanzaro. La custodia attenuata - Il quadro già critico si aggrava richiamando l’approvazione del Decreto Sicurezza in forca del quale diventa facoltativo l’attuale obbligo di rinvio della pena per le donne in gravidanza e le mamme con figli sotto i tre anni, che andranno negli istituti a custodia attenuata per detenute madri (Icam). Con la chiusura dell’Icam di Avellino, unico al sud, adesso gli Icam sono solo tre e sono tutti al Nord. “È una misura che rischia di spezzare famiglie e diritti. Allontanare le madri centinaia di chilometri dai propri figli e dalla rete sociale - conclude Anna Comi, Coordinatrice Pari Opportunità Uil Calabria - è una scelta punitiva, non educativa, che contrasta con l’equilibrio costituzionale e la stessa giurisprudenza consolidata. Essere donne non può voler dire essere invisibili, soprattutto nei luoghi dove la vulnerabilità è più forte. Alle donne detenute devono essere garantiti pienamente i diritti alla salute, alla prevenzione, all’educazione, alla maternità dignitosa e al reinserimento. Perché la vera giustizia si misura anche dalla qualità della detenzione”. Nuoro. Badu e Carros ancora sotto presidio militare dopo la fuga di Raduano L’Unione Sarda, 5 agosto 2025 “La presenza dell’esercito non può essere un vanto”. A due anni e mezzo dall’evasione di Marco Raduano dal carcere di Badu e Carros, è ancora attivo un presidio militare. Una situazione che solleva interrogativi sull’efficacia delle misure adottate finora. “Se a distanza di due anni e mezzo dalla ferita inferta all’inviolabilità del carcere nuorese da Marco Raduano è ancora necessario un presidio militare davanti a Badu e Carros viene spontaneo chiedere quali iniziative il Ministero della Giustizia abbia messo in campo per garantire la completa autonomia gestionale da parte della Polizia penitenziaria della casa circondariale nuorese”. Lo afferma, in una nota, la presidente dell’associazione Socialismo Diritti Riforme, Maria Grazia Caligaris, facendo osservare che le “pecche” dell’istituto penitenziario, noto per essere un carcere di massima sicurezza anche con detenuti al 41bis, non sembra siano state sanate. “L’iniziativa assunta nel 2024 dagli allora prefetto di Nuoro Dionisi e provveditore regionale Galati - prosegue Caligaris - aveva un senso per permettere di far fronte ai diversi problemi emersi nel corso di alcuni sopralluoghi nell’Istituto nella prospettiva di un progetto calibrato anche sui bisogni del personale penitenziario. Oggi, invece, apprendere che il presidio di salvaguardia continua appare come una beffa”. “Ancora di più dopo le parole del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, che per rassicurare la presidente della Regione e diversi parlamentari sulla presenza dei detenuti al 41bis a Uta ha fornito ampie garanzie sulla sicurezza, dimenticando forse che purtroppo a Nuoro è costretto a fare ricorso all’esercito”. Per la presidente di Sdr è “ancora più grave la presenza dell’esercito per presidiare il Cpr di Macomer, dove non ci sono persone che hanno commesso un reato ma solo migranti che vivono in una condizione di detenzione inaccettabile”. Torino. Europa Radicale: il 5 agosto veglia notturna davanti al carcere Ristretti Orizzonti, 5 agosto 2025 Mercoledì 6 proposta di numero chiuso per le carceri italiane. Martedì 5 agosto, a partire dalle ore 23:00, Europa Radicale trasmetterà in diretta social una veglia notturna di fronte al carcere “Lorusso e Cutugno” di Torino. “A un anno esatto dalla veglia che organizzammo nello stesso luogo - afferma Igor Boni - durante la quale esponemmo i nomi delle persone che si sono tolte la vita in carcere, la situazione è peggiorata. Ribadiremo la cecità del duo Delmastro-Nordio, responsabile di continue violazioni dei diritti sia dei detenuti che degli agenti penitenziari. Daremo anche i numeri aggiornati del sovraffollamento carcerario.” L’iniziativa proseguirà mercoledì 6 agosto alle ore 12:00, con una conferenza stampa presso la sede dell’Associazione Radicale Adelaide Aglietta (Via San Dalmazzo 9/bis, Torino). In tale occasione, Europa Radicale presenterà la proposta di introdurre un numero chiuso per le carceri italiane. “Nel Regno Unito - spiega Boni - se la capienza di una struttura è di 100 posti, non è consentito ospitare 101 detenuti. In caso di nuovi ingressi, è obbligatorio liberare posti tramite pene alternative o provvedimenti straordinari. Lo stesso principio potrebbe essere adottato anche in Italia, evitando il sovraffollamento e spingendo lo Stato a utilizzare soluzioni alternative come gli arresti domiciliari, la liberazione anticipata o l’inserimento in comunità di accoglienza”. Turi (Ba). Detenuti e non vedenti, un progetto di “ConTatto” vaticannews.va, 5 agosto 2025 A un mese esatto dall’appello del Presidente Mattarella sull’emergenza carceri, si sono svolte in tutta Italia manifestazioni organizzate dalla Conferenza nazionale dei garanti territoriali delle persone private della libertà personale. L’intervista con il portavoce della Conferenza e garante territoriale della Regione Campania, Samuele Ciambrello. Sovraffollamento e suicidi in carcere e, ad aggravare il tutto, l’emergenza caldo: le iniziative messe in atto dal Consiglio nazionale forense impegnato a dar vita a una rete nazionale per affrontare le criticità della detenzione, nella testimonianza del presidente, Francesco Greco. “L’albero del riccio” di Antonio Gramsci è il primo libro tattile con inserti in braille realizzato dai detenuti della casa di reclusione di Turi, Bari, che hanno partecipato al progetto “ConTatto”. Il racconto delle promotrici: la presidente della cooperativa sociale Zorba, Anna Maria Ricciotti, e la direttrice delle edizioni La Meridiana, Elvira Zaccagnino. “Le mani in pasta - Pastificio Futuro” è l’ultimo documentario realizzato dal giornalista Edoardo Iacolucci sull’omonimo laboratorio realizzato nell’istituto di pena minorile Casal del Marmo a Roma. La sua testimonianza. Milano. Nel carcere di Opera un laboratorio di liuteria con il legno dei barconi dei migranti di Gaia Gazzara milanosegreta.co, 5 agosto 2025 Un progetto che trasforma barconi in strumenti di speranza, dando ai detenuti una seconda occasione attraverso la liuteria. Il carcere di Opera, a pochi chilometri da Milano, non è solo uno degli istituti di detenzione più grandi d’Italia, ma anche un luogo dove la detenzione si fonde con la possibilità di rinascita. Tra le sue mura infatti, prende vita un’iniziativa fuori dal comune: un laboratorio di liuteria che trasforma l’arte millenaria della costruzione degli strumenti a corda in un percorso di rigenerazione per i detenuti, offrendo loro una nuova prospettiva attraverso il saper fare manuale e creativo. Il progetto “Metamorfosi” - Il progetto liutaio è nato dalla volontà di coniugare lavoro, arte e impegno sociale. Guidato da maestri liutai esperti provenienti dall’Istituto Stradivari di Cremona, il laboratorio è stato lanciato con l’obiettivo di insegnare ai detenuti un mestiere raffinato e tradizionale, ma anche di dare nuova vita ad un materiale simbolo di tragedia e speranza. Il legno con cui vengono realizzati gli strumenti, proviene dalle imbarcazioni dei migranti abbandonate sulle coste italiane. I detenuti costruiscono violini, viole e violoncelli regalando nuova vita a quei legni, a cui spesso si affidano giovani e famiglie in cerca di un futuro migliore. Il progetto si chiama “Metamorfosi”, ed oggi è un esempio di come il carcere possa essere un luogo di redenzione. Per prima cosa, ai detenuti viene spiegato il lavoro attraverso la parte pratica ma anche lezioni teoriche sulla liuteria. Qui, essi imparano a lavorare il legno, a cesellare, incollare e rifinire ogni parte del violino, sviluppando così competenze tecniche e artistiche. Di conseguenza, i detenuti non solo producono strumenti di alta qualità, ma acquisiscono maggior disciplina ed imparano un mestiere artigianale. I violini prodotti sono stati usati per esibizioni d’eccezione, ad esempio quella dell’Orchestra del Mare, un ensemble nato proprio da questo progetto, che si è esibito al celebre Teatro alla Scala. Il carcere di Opera organizza regolarmente visite al laboratorio con scuole e associazioni per far conoscere il progetto e il valore umano che porta con sé. Spesso è possibile parlare direttamente con i maestri liutai e qualche detenuto che insieme spiegano e mostrano tutto il lavoro artigianale che c’è dietro. Il progetto e la sua presentazione nel carcere contribuisce a sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema della riabilitazione e sulla dignità dei detenuti. Caso Almasri, il corto-circuito tra politica e toghe di Marcello Sorgi La Stampa, 5 agosto 2025 È uno di quei casi in cui la toppa potrebbe rivelarsi peggiore del buco. E cioè: già era stata singolare l’incriminazione della premier Meloni, dei due ministri dell’Interno Piantedosi e della Giustizia Nordio, e del sottosegretario Mantovano, delegato al controllo dei servizi segreti, per un’operazione che - certamente discutibile come quella della liberazione del torturatore Almasri, malgrado il mandato di cattura emesso nei suoi confronti dalla Corte penale internazionale - era stata messa in pratica nell’ambito dell’attività degli stessi servizi. Un “lavoro sporco” come quelli che di tanto in tanto i governi sono costretti a coprire. E vengono pertanto protetti dal segreto di Stato, che invece, erroneamente, in quest’occasione non fu messo. Ma ora il Tribunale dei ministri, un collegio di tre magistrati sorteggiati per questo delicato incarico, decide di scagionare la presidente del Consiglio - con la motivazione che non risulta un suo preciso coinvolgimento nella serie di decisioni pasticciate che accompagnarono il rimpatrio del torturatore libico, compreso il volo su un aereo di Stato - e rinviare a giudizio i due ministri e il sottosegretario. Spiegando che non ci sono prove documentali chiare della partecipazione di Meloni al “disegno criminoso”, e le eventuali deduzioni politiche non interessano il lavoro dei giudici. E aggiungendo che in tal senso si era mosso il procuratore di Roma Lo Voi, lo stesso che sei mesi fa fece partire gli avvisi di garanzia che scatenarono il più clamoroso, forse, caso di corto circuito tra giustizia e politica. Si sa: i rapporti tra la Procura di Roma e gli inquilini di Palazzo Chigi hanno attraversato diverse stagioni, e nessuno rimpiange quella in cui il “Palazzaccio”, l’edificio di fronte al Tevere che allora ospitava i più alti dirigenti della magistratura italiana era altresì conosciuto come il “porto delle nebbie”, luogo in cui si procedeva a sistematici insabbiamenti delle inchieste che riguardavano governi e ministri. In quest’occasione, però, forse un semplice ragionamento informale, come quello che solitamente s’instaura tra i vertici dei poteri istituzionali, avrebbe consentito di evitare le conseguenze che si sono viste. Naturalmente il procuratore Lo Voi non potrà che invocare l’obbligatorietà dell’azione penale, seppure innescata da un solitario avvocato non immune in passato alla ricerca di pubblicità. E la premier Meloni ha tutto il diritto di chiedere come possano i magistrati ritenere che una decisione così delicata, un “disegno criminoso” di tale entità, ammesso che di questo si tratti, sia stato realizzato da due ministri e un sottosegretario alle spalle del capo del governo. Una presidente del Consiglio che, se davvero fosse andata così, il giorno dopo avrebbe almeno dovuto licenziare i tre malcapitati. Sarebbe davvero interessante arrivare a conoscere in base a quali documenti, a quale ipotesi investigativa, il procuratore Lo Voi e i giudici del Tribunale dei ministri siano arrivati alle loro conclusioni. E cosa decideranno di fare adesso che si trovano davanti a una pubblica confessione, la “regina delle prove”, contenuta nel post di Meloni di ieri sera: in particolare quando dice di essere stata lei, nel bene e nel male, ad assumersi la responsabilità del rimpatrio di Almasri, così come tocca fare normalmente a chi coordina l’attività di un governo. Ma di tutto questo, si può già dirlo, non sapremo niente. Molto probabilmente, a mettere una lapide sull’increscioso caso del torturatore Almasri - con cui probabilmente non solo l’attuale governo, con il cinismo necessario, aveva trattato per ottenere un rallentamento delle partenze e degli sbarchi di migranti irregolari - arriverà il voto del Parlamento che negherà ai giudici del Tribunale dei ministri l’autorizzazione a procedere contro Piantedosi, Nordio e Mantovano. Albanese e Segre: i vantaggi di un dialogo ancora possibile di Luca Bottura La Stampa, 5 agosto 2025 Ieri Francesca Albanese ha pubblicato una sua foto davanti a un murale con l’immagine di Liliana Segre e una frase: “L’indifferenza è più colpevole della violenza stessa”. Per accusarla di incoerenza nei confronti della Palestina. Mi sembra un enorme spreco che vado a spiegare. Attenzione: rischio buonismo. Albanese è una donna che ha visto l’indicibile di Gaza e l’ha denunciato. In cambio, ha ricevuto accuse gratuite e la fatwa israeliana. Segre è una donna che ha vissuto l’indicibile in un lager nazista e l’ha raccontato. In cambio, ha ricevuto minacce che la costringono da anni a vivere sotto scorta. Mi sembra un buon punto di partenza per un dialogo costruttivo. Invece, Albanese, che in questo periodo storico vive realmente accerchiata, ha pensato - come alcuni, non tutti, i pro-pal - che Segre sia fuori dal suo cerchio. Che contribuisca alla vulgata dei Netanyahu e dei suoi ministri fascisti dacché non usa la parola “genocidio” per descrivere il massacro di civili palestinesi, le deportazioni, il via libera all’occupazione della Striscia arrivato giusto ieri. Che poi, per carità, i titoli sono importanti. Spesso più delle parole effettivamente dette. Ma l’intervista della senatrice, a Repubblica, due giorni fa, sposava in toto l’autodafé di David Grossman del giorno precedente. Il dialogo in cui lo scrittore israeliano capitolava emotivamente di fronte alla constatazione che sì, quella in corso a Gaza è la cancellazione volontaria di un popolo. Mancava solo “quella” parola. L’altro giorno il professor Tomaso Montanari, altra figura assai stimabile, altra mente brillante sotto attacco delle varie Destre, ha sostenuto che gli ebrei tutti dovrebbero dissociarsi dalle politiche di Israele. A parte che, per fortuna, accade ogni giorno persino in quella che, da unica democrazia in Medio Oriente, è passata da tempo a essere l’autocrazia meglio mascherata della zona: giusto ieri, oltre seicento tra ex capi di Stato maggiore e funzionari di Idf e Mossad, hanno chiesto a Netanyahu di fermarsi, di non estendere una carneficina che attiene esclusivamente a motivazioni di sopravvivenza politica. Ma soprattutto: quando erano i musulmani a doversi dissociare dall’Isis, andava bene? Noi italiani dovremmo andare in giro con una spilla in cui assicuriamo di non essere malavitosi? Perché se la risposta è no, significa che stiamo, una volta in più, giudicando qualcuno per la sua religione e non per quello che pensa. Al netto di Popolo Eletto e altri paraventi teologici che innescano l’antisemitismo: Vecchio e Nuovo Testamento sono ottimi fantasy, ma non ci vivrei. A Segre, si imputa di aver sostenuto che qualcuno potrebbe strumentalizzare quel termine (genocidio: per il sottoscritto, non che conti, quello è) per regolare i conti con tutti gli ebrei. Al netto del fatto che sia vero o no, e che comunque la senatrice abbia pieno titolo per esprimere questa opinione, condivido un piccolo episodio: ieri, per aver espresso dubbi sui social sull’efficacia dell’attacco di Albanese, mi sono ritrovato a fronteggiare chi mi accusava di collaborare con editori ebrei. Per dire. Il curriculum e il coraggio di Albanese parlano per lei, ed è normale che si senta additata: lo è. Attenzione però all’atteggiamento da “groupie” di una parte dei fan. Gente che magari, come il sottoscritto, per anni si è limitata a indossare la kefiah d’ordinanza, a un sostegno quasi endemico, ma ad atti concreti infinitamente meno cogenti dei suoi. Gente che riduce la sacrosanta difesa di un popolo martirizzato a un giochino su chi ce l’ha più puro, il post sui social. Sciocchi o in malafede, quasi quanto gli eredi di Almirante che oggi si scoprono dalla parte degli ebrei solo perché anche Israele, alla fine, è una democratura di estrema destra. Mentre a Gaza prosegue il Genocidio. Fottendosene, con licenza, di come vogliamo che lo chiami Segre. Parlatevi. O, perlomeno, ascoltatevi. Medio Oriente. L’odio soffocante e la deriva di un Occidente che non sa più decidere di Giovanni De Luna La Stampa, 5 agosto 2025 Razzismo e antisemitismo sono i semi dei paradossi insiti dentro Israele. Per quanto possiamo capire, l’odio che si respira a Gaza è soffocante. La violenza esercitata contro i palestinesi sta portando alla loro disumanizzazione: li si sopprime fisicamente ma si cerca anche di liquidarne le tradizioni, di distruggerne la cultura, di abbrutirli nella carestia e in scontri fratricidi. Le bombe e i rastrellamenti non sembrano scalfire Hamas; in compenso spingono i gazawi verso una condizione disperata e dalla vergogna, dal dolore e dalla fame sembra scaturire una rabbia vulcanica, un odio fisico, palpabile, custodito come un tesoro: la pazzia omicida, lo dicevano tanti anni fa Frantz Fanon e Jean Paul Sartre, “è l’inconscio collettivo dei colonizzati”, così come la molla ultima che li spinge verso il fanatismo religioso restringendo il loro orizzonte politico ed esistenziale a un solo obbiettivo: cacciare l’occupante con tutti i mezzi, anche con una violenza estrema, parossistica tipo quella scatenata contro gli israeliani il 7 ottobre. Fondato sul rapporto tra colono e colonizzato questo è lo schema interpretativo utilizzato da Fanon nel 1961 nel suo I dannati della terra; e se questo schema applicato a Gaza funziona, allora Israele si è infilato in un cul de sac in cui violenza chiama violenza, guerra chiama guerra, mentre all’orizzonte non si intravede nessuna pace possibile. E sarà sempre peggio. Prima non esistevano i palestinesi; ora ci sono e nella sofferenza si sentono popolo, nazione e ambiscono a diventare stato. Gli israeliani hanno seminato il vento, i palestinesi sono la tempesta. Un odio che, ahimè, sembra aver scavato un solco invalicabile non solo tra ebrei e palestinesi ma anche qui in Europa tra noi e loro: noi gli occidentali, con il nostro umanesimo, i nostri diritti dell’uomo, le nostre democrazie, il nostro mercato, i nostri valori; loro, gli arabi, con il loro fanatismo, la loro fame, il loro fondamentalismo, la loro rabbia, i loro valori. Dopo il 7 ottobre è così; non ce ne eravamo accorti, ci sembrava quello solo un episodio di una eterna questione mediorientale, uno dei tanti massacri che si affollano nelle guerre della contemporaneità; scoppiano anche vicino a noi, come era successo con la ex Jugoslavia alla fine del secolo scorso e come sta succedendo in Ucraina, ma sostanzialmente non incidono sulle nostre condizioni di sicurezza, di tranquillità, di benessere. Abbiamo avuto più paura del Covid che della guerra, anche perché la pandemia aveva cambiato di colpo le nostre abitudini e i nostri comportamenti, mentre la guerra, almeno finora, non ha inciso sui ritmi della nostra quotidianità. E invece dopo il 7 ottobre sono arrivati i massacri di Gaza, è arrivato il momento in cui abbiamo assistito, impotenti e disorientati, all’annientamento da parte nostra di tutti i valori dell’Occidente sui quali avevamo plasmato l’ordine mondiale, a cominciare da quelli del diritto internazionale. E per noi, uomini e donne del ‘900, è cominciata la stagione dei paradossi. Il primo è anche il più lancinante. Nello scontro di civiltà profetizzato da Huntington, noi, gli occidentali, stiamo dalla parte di Israele. Ma a rappresentare i nostri valori sono proprio quelli che li hanno combattuti e, quando ci sono riusciti, sovvertiti. L’Europa e gli Stati Uniti vedono oggi al potere un nugolo di affaristi e di aspiranti dittatori che sono i primi ad essere insofferenti verso quelle regole della democrazia che c’eravamo illusi potessero mettere al riparo il nostro mondo da ogni sconvolgimento. E su questo paradosso se ne innesta un altro, per me ancora più doloroso: a gridare forte il loro sostegno a Israele, a difenderne le indifendibili ragioni, sono proprio quelli che in passato si sono rivelati i più feroci persecutori degli ebrei. Per anni abbiamo considerato innaturali e vani tutti i tentativi della nostra destra di accogliere nella sua narrazione totalitaria i valori che avevano ispirato la nascita di Israele e le fondamenta del progetto sionista: oggi constatiamo che questi tentativi sembrano riusciti e, per restare all’Italia, assistiamo inorriditi alla fascinazione per lo “stato forte” israeliano di cui sembrano preda i fascisti italiani. Certo, anche per il razzismo dei fascisti, dei suprematisti bianchi, dei nostalgici del Ku Klux Klan è sconvolgente doversi schierare a fianco di quegli ebrei che nei loro deliri avevano chiamato sottouomini o topi, essere costretti a delegare a quei “nasi adunchi”, che avevano disprezzato nella loro propaganda, la riaffermazione della superiorità razziale dell’uomo bianco. Ma vi assicuro che questo è ancora più sconvolgente per chi, come me, aveva sempre pensato che il “mai più Auschwitz”, lo slogan sul quale si era improntata la religione civile della mia generazione, suonasse forte contro tutti quei germi di razzismo e di antisemitismo che germogliarono, solo 80 anni fa, nel cuore delle società industriali del capitalismo avanzato; certamente non tra gli arabi o in quello che, con sbrigativa superficialità, abbiamo definito il terzo mondo. Ma questi paradossi hanno una loro intrinseca fragilità; si afflosciano su se stessi quando la loro strumentalità occasionale non è più necessaria. Almeno questa è anche la nostra speranza. Perché l’alternativa è ancora più drammatica e comporta il suicidio di Israele, oltre che il nostro auto-annientamento. Già oggi, l’Europa, rinunciando a mettere in campo i propri valori, conta poco più di niente nello scacchiere geopolitico mondiale. Eravamo i soggetti della storia ora ne siamo gli oggetti. E la situazione è ulteriormente peggiorata da quando gli Usa, “un mostro super europeo” lo chiamava Sartre, si sono affidati a Donald Trump. Non si tratta di un grido di allarme ma di una diagnosi. Solo vergognandoci di quanto succede a Gaza potremmo avere una possibilità di riscatto. Ma la vergogna, si sa, è un sentimento rivoluzionario che oggi non è di questo mondo. Arabia Saudita. Giustiziate 8 persone in un solo giorno, eseguite 230 condanne a morte nel 2025 Il Fatto Quotidiano, 5 agosto 2025 Cresce l’uso della pena capitale nella monarchia del Golfo, soprattutto nei confronti di cittadini stranieri. Dall’inizio del 2025, sono 154 le persone giustiziate per reati di droga. L’Arabia Saudita ha giustiziato otto persone in un solo giorno. A riportarlo sono i media statali. Queste nuove esecuzioni confermano l’aumento dell’uso della pena di morte nella monarchia del Golfo, soprattutto per i reati di droga e nei confronti di cittadini stranieri. L’agenzia di stampa ufficiale saudita Spa ha riferito che quattro somali e tre etiopi sono stati giustiziati sabato 2 agosto nella regione meridionale di Najran “per aver introdotto illegalmente hashish nel regno”. Un uomo saudita, invece, è stato giustiziato per l’omicidio della madre. Dall’inizio del 2025, secondo un conteggio dell’Afp basato su comunicati ufficiali, nel Paese sono state eseguite 230 condanne a morte. Di queste, 154 erano per reati di droga. Nel 2024, invece, l’Arabia Saudita ha eseguito 338 esecuzioni, un record che quest’anno potrebbe essere superato. Gli esperti sostengono che questo picco sia dovuto alla “guerra alla droga” del regno, lanciata nel 2023. Secondo l’agenzia di stampa ufficiale saudita, tra gennaio 2014 e giugno 2025 sono state messe a morte 1816 persone, quasi una su tre per reati di droga che secondo gli standard internazionali non sarebbero punibili con la pena capitale. Delle 597 esecuzioni per reati di droga del decennio, quasi tre quarti hanno riguardato cittadini stranieri.