C’è una politica che si ribella alla dittatura della questione morale di Claudio Cerasa Il Foglio, 4 agosto 2025 Segnali dalle inchieste di Milano, delle Marche e della Calabria: la politica, pur tra imbarazzi e silenzi, ora tenta di difendere il proprio ruolo per non essere succube delle procure. Perché sa che ogni indagato è innocente fino a prova contraria. C’è un elemento interessante, e persino sorprendente, che riguarda un filo conduttore sottile che collega tre importanti inchieste che stanno movimentando la politica italiana. Le tre inchieste sono quelle di Milano, delle Marche, della Calabria, e per quanto possano sembrare storie distanti l’una dall’altra, in quelle storie vi è un elemento curioso, e persino positivo, che riguarda una questione sempre più rara all’interno della vita dei partiti: il tentativo della politica di difendere il suo perimetro vitale. Non sempre la politica mostra attenzione a questo tema, non sempre la politica fa qualcosa per evitare che sia la magistratura, per dire, a dettare alla politica le sue azioni, le sue mosse, le sue scelte, e quando questo accade, per quanto alcune scelte siano dettate più dall’agenda della strumentalità che da quella della sincerità, vale la pena fermarsi un attimo e dire: bene così. Le tre storie sono differenti, lo sappiamo, ma negli ultimi giorni, in buona parte delle forze politiche, vi è stato un sussulto di garantismo che merita di essere annotato. A Milano, tra molti imbarazzi, molte contorsioni, molti silenzi, il Partito democratico, nonostante la sua propensione naturale a seguire l’agenda grillino-contiana, ovverosia considerare tutti i politici indagati colpevoli fino a prova contraria, salvo diversa valutazione del tribunale del popolo contiano, ha fatto una scelta coraggiosa e ha deciso di non negare il suo sostegno a un sindaco indagato, come Beppe Sala, e a una giunta martoriata, come quella di Milano. La scelta è doppiamente importante perché il Partito democratico, modello Schlein, ha sempre considerato il modello Milano quanto di più distante vi possa essere a sinistra dall’idea di futuro che ha il Pd, e la distanza con il mondo produttivo che Milano incarna in questi anni ha assunto tassi di reciprocità importanti: Schlein non ha mai amato Milano, Milano non ha mai amato Schlein. Reciprocità assoluta, come direbbe Trump. Eppure, nonostante alcune capriole politiche, Schlein ha deciso di non assecondare le sirene del grillismo a Milano e ha dato a Sala il suo sostegno. Lo ha fatto chiedendo, paraculescamente, di andare avanti rinnegando quanto fatto in questi anni dal sindaco con il modello Milano, vasto programma, ma lo ha fatto, ed è questo che conta, nonostante le richieste del M5s a Sala: dimissioni, dimissioni, dimissioni. Stessa scelta in fondo, senza troppi tentennamenti, nelle Marche. Anche qui un esponente del centrosinistra indagato, ovvero Matteo Ricci, e anche qui una scelta che, per Schlein, è stata coraggiosa: non chiedere preventivamente al proprio candidato alla regione Marche di dimettersi per un avviso di garanzia ma provare a convincere Giuseppe Conte della bontà della candidatura di Ricci nonostante l’avviso di garanzia. Il teatrino montato attorno alla candidatura di Ricci è stato umiliante, lo sappiamo, e la trasformazione di Giuseppe Conte da avvocato del popolo a tribuno del popolo - l’”a me le carte” di Conte ricorda l’”a me gli occhi” di Giucas Casella - è stata una scena a metà tra la commedia all’italiana e la tragedia politica. Ma nonostante questo, alla fine, il risultato è stato doppio, ed è un risultato che ha un suo peso: non solo il Pd sta candidando nelle Marche un politico indagato, che considera dunque innocente fino a prova contraria, ma a sostenerlo sono anche i campioni della classe dirigente grillina, ora contiana, che negli ultimi giorni, nei talk-show estivi, hanno deciso di utilizzare una narrazione a metà tra lo spasso e la comicità, come da tradizione grillina: noi siamo sempre garantisti, quello che facciamo è semplicemente valutare l’opportunità politica, caso per caso. Un osservatore molto superficiale potrebbe notare che il garantismo del M5s viene casualmente declinato solo nelle occasioni in cui l’indagato è qualche esponente politico gradito al M5s, e Matteo Ricci, vicino a Goffredo Bettini, vicino a Giuseppe Conte, rientra certamente all’interno di questa categoria politica, come lo sono stati un tempo due ex sindaci grillini indagati e difesi dal M5s più per grillismo che per garantismo. Ma in ogni caso il sostegno di Ricci da parte del M5s - sostegno che Giuseppe Conte, in imbarazzo assoluto nel declinare le ragioni del garantismo, giovedì scorso ha scelto di rivendicare leggendo un testo scritto, come se fosse ostaggio degli alieni garantisti - ha prodotto uno spettacolo niente male. Che non sappiamo quanto durerà ma che, finché durerà, potremmo sintetizzare così: la politica che chiede a sé stessa di non farsi dettare i tempi della politica dalla magistratura. Un altro osservatore molto disattento e malizioso potrebbe pensare che il garantismo del campo largo sarebbe stato più da campo furbo se i politici indagati (Sala e Ricci) fossero stati del centrodestra, ma siamo certi che il garantismo di Schlein e Conte è sincero e avrebbero trattato allo stesso modo il sindaco di Milano se fosse stato un protetto di Ignazio La Russa o il candidato nelle Marche se fosse stato un vecchio amico di Arianna Meloni. Tra le immagini da aggiungere al piccolo quadretto descritto, la politica che prova a piccoli passi, e a piccole furbate, a riappropriarsi dei suoi spazi, senza lasciare che la magistratura abbia sui partiti un effetto più dirompente di quello che hanno le leadership, c’è anche quella di Roberto Occhiuto, governatore della Calabria, accusato di corruzione per una storia che non riguarda la sua esperienza alla guida della regione, e che ha scelto di andare a votare un anno prima della scadenza naturale del suo mandato per evitare che quell’inchiesta potesse paralizzare la sua giunta, per evitare che i dirigenti regionali fossero terrorizzati dal firmare documenti per un presidente in scadenza e indagato, e a suo modo questa scelta rientra perfettamente nella cornice da cui siamo partiti: la magistratura fa il suo lavoro, la politica fa il proprio, e la politica che diventa succube della magistratura è semplicemente una politica che non fa bene il suo lavoro. Si potrebbe dire che questa dovrebbe essere semplicemente la normalità, ovvio. Ma in un’Italia in cui la Costituzione viene elogiata dimenticando sistematicamente di elogiare anche l’articolo 27, secondo cui ogni indagato è innocente fino a prova contraria, la straordinarietà fa notizia e vedere una politica che timidamente si ribella alla dittatura della questione morale non può che strappare un sorriso, in attesa della prossima piroetta dei Giucascaconte d’Italia. Strage di Bologna, non c’è giustizia senza ricordo di Aldo Grasso Corriere della Sera, 4 agosto 2025 A 45 anni dall’attentato, il documentario di Alessandro Nidi con la voce narrante di Carlo Lucarelli racconta una giornata che non può essere dimenticata. Alle 10.25 del 2 agosto 1980 una bomba esplode nella sala d’aspetto della seconda classe della stazione di Bologna, provocando 85 morti e oltre 200 feriti. È l’atto terroristico più grave dalla fine della Seconda guerra mondiale in Italia. In memoria delle vittime, nel 45° anniversario della strage, La7 ha riproposto “2 agosto 1980. Un giorno nella vita”, un documentario diretto da Alessandro Nidi. Carlo Lucarelli ne è narratore e autore insieme a Federica Campana e Paola Mordiglia. Non c’è futuro senza memoria, non c’è giustizia senza ricordo. Alla stazione di Bologna quel primo sabato di agosto non c’erano soltanto i bolognesi ma passeggeri da tutta Italia, e moltissimi stranieri. Quel giorno resta un’ombra nera nella vita di tutti, perché le stragi fermano, bloccano, congelano, scavano un buco nella memoria di ognuno, anche di chi non era presente fisicamente in quel luogo, diventando così esperienza collettiva. Come ha detto il presidente Sergio Mattarella, “la matrice neofascista della strage è stata accertata nei processi e sono venute alla luce coperture e ignobili depistaggi, cui hanno partecipato associazioni segrete e agenti infedeli di apparati dello stato”. Lucarelli, con la giusta tensione narrativa, ci accompagna in un viaggio nella Bologna degli anni ‘80, dal momento dell’esplosione che ferì la città attraverso le testimonianze dei sopravvissuti fino alla ricostruzione delle inchieste che si sono susseguite, nell’arco di questi quarant’anni: un padre facchino alla ricerca disperata della propria figlia, impiegata delle Ferrovie, nella speranza di trovarla ancora viva, l’impegno dei vigili del fuoco fino allo stremo, giovani militari che hanno ancora le immagini di quell’orribile evento stampate nella propria mente, immagini di macerie, gli autobus trasformati in ambulanze, in carri funebri… Ascoltando le parole dei sopravvissuti, dei parenti delle vittime, dei soccorritori, dei giornalisti e dei magistrati, Lucarelli racconta quel giorno nella loro vita e il legittimo desiderio di arrivare alla verità, dopo anni di “interferenze”, di coperture, di depistaggi. E c’è ancora chi oggi descrive la P2 come una sorta di circolo dopolavoristico. Due agosto 1980, l’Italia diventi una Casa di Cristallo di Andrea Malaguti La Stampa, 4 agosto 2025 Credo di avere visto piangere Paolo Lambertini una volta sola. Facevamo i carabinieri di leva a Chieti scalo. Erano i primi anni Ottanta. Mi raccontò di sua madre, Mirella Fornasari, travolta da un muro alla stazione di Bologna alle 10,25 del 2 agosto 1980. Ottantacinque morti, duecento feriti, 45 anni di polemiche che non si placano neppure di fronte ad una serie di sentenze inequivocabili e coerenti passate in giudicato. Strage fascista. Ed è ben strano un Paese che non ha il coraggio di dirlo. E che nemmeno nel giorno dell’ennesimo ricordo di quell’eccidio ha la forza di mandare sul palco se non il presidente del Consiglio almeno un suo vice. Da ieri Paolo Lambertini ha preso il posto di un altro straordinario Paolo, Bolognesi, alla presidenza dell’associazione delle vittime della strage. Ha tre figli, una splendida moglie e 59 anni, trentatré in più di quelli che aveva sua madre quando fu travolta dalle macerie. “Di lei ricordo lo sguardo. Le vacanze a Cogne con mio padre. E che voleva comprare una cucina tutta sua”. ? L’ho sentito prima della manifestazione di ieri mattina. Volevo dirgli in bocca al lupo per il nuovo compito. Bologna ancora una volta piena di gente che rifiuta di dimenticare. Era facile prevedere che sarebbe stata un’altra giornata di dichiarazioni velenose. “Io penso che a Bologna, quel due agosto, si siano incontrati il meglio e il peggio dell’umanità. Il peggio è inutile che lo spieghi. Il meglio perché la reazione che ebbero Bologna, l’Emilia-Romagna e poi tutti, fu incredibile. Ecco perché ho ancora fiducia nelle persone. Mi ricordo che 35 anni fa qualcuno gridava a Torquato Secci: non otterrete mai niente. Abbiamo ottenuto quasi tutto”. Eppure, è come se una parte di Paese, quella oggi più forte, si rifiutasse di ascoltare le sentenze. Le registrasse senza crederci. Le sopportasse. Le digerisse male. Le accettasse senza sposarle. Fotografia antica di due Italie perennemente in guerra. Incapaci di conciliazione. Incardinate su una diffidenza velenosa e suicida. Da un lato il Paese che si identifica nella presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, che dice: “Una delle pagine più buie della storia, il terrorismo colpì con ferocia”. E poi promette “verità”, sotto-intendendo dunque l’esistenza di un gigantesco irrisolto, ma sorvolando su nomi, cognomi e provenienza di autori e mandanti che, pur con tutta evidenza diversi da lei, non riconducibili a lei (che all’epoca aveva tre anni), abitano la parte oscura dell’album della sua famiglia politica. Lo dicono i giudici. Lo dice la Giustizia. Basterebbe prenderne atto. Dire: sì, è andata così. Andare oltre dopo avere fatto pulizia. È così che cresce un Paese. Infatti, non cresciamo. Dall’altra parte c’è l’Italia incarnata dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che in modo molto più netto, ma soprattutto coerente con il lavoro dei tribunali, parla di “spietata strategia eversiva neofascista”, raccogliendo l’applauso unanime della folla ancora una volta radunata nel piazzale della stazione. Impossibile non vedere la distanza siderale tra queste due posizioni. Altrettanto difficile non pensare che entrambi, le due cariche più rappresentative dello Stato, si trattengano dall’esprimere fino in fondo la propria idea su questa disumana tragedia, capace, se affrontata in radice, di spiegarci davvero chi siamo e perché siamo ancora così carichi di odio. Come si fa a liberarsi dall’idea che la destra-destra italiana vorrebbe gridare a dispetto di decenni di indagini, e di certezze processuali, l’innocenza di Valerio Fioravanti, di Francesca Mambro, di tutta la crudele manovalanza dei Nar e di apparati deviati dello Stato, consustanziali al Movimento Sociale, consegnando la responsabilità magari a fantomatici guerriglieri palestinesi? Come si fa a non immaginare che il Colle, bandiera dell’Italia di tutti, a cominciare da chi è stato vittima, vorrebbe che si insegnasse nelle scuole lo schema emerso da ogni sentenza sulle stragi dal 1969 al 1980? La P2 di Licio Gelli, con l’appoggio dei falchi americani, utilizza la parte marcia dei servizi per colpire la democrazia alle fondamenta e affida l’esecuzione di alcune delle sue azioni più efferate agli imberbi terroristi neri dei Nuclei Armati Rivoluzionari, forti dell’appoggio di Cosa Nostra. Neofascisti, logge massoniche, spie, depistaggi andati avanti fino al 2019, terroristi, politica e mafiosi. Tutto orribilmente semplice e squadernato negli atti, che sarebbe bello poter definire pubblici se ancora oggi non ci fosse una collosa difficoltà nell’accesso agli Archivi di Stato. Scorie radioattive che continuano a produrre danni. Suggestioni? Forse. Ma anche l’omicidio di Piersanti Mattarella del 6 gennaio del 1980 rientra in questo schema. Ad uccidere fu la Mafia, dicono le sentenze. Ad uccidere furono Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini, con il consenso di Cosa Nostra, dicono le testimonianze della moglie di Mattarella e di Cristiano Fioravanti (fratello di Valerio) e sostenevano le indagini di Giovanni Falcone. Ma ancora una volta, correttamente, sono solo le sentenze a contare. Solo su quelle si può e si deve fare pubblico affidamento. Ci risiamo. “Aliud in ore, aliud in corde”. Ed è comprensibile, persino ammirevole, che il Colle non dia spazio pubblicamente alla voce del proprio cuore. Perché è solo grazie a questo senso di responsabilità che il Paese è uscito dalla palude di vergogna in cui era precipitato. Al senso di responsabilità e alla forza di associazioni tenaci, libere e senza paura come quelle delle vittime delle stragi. Aveva ragione Lidia Secci, moglie di Torquato (primo presidente dell’associazione del 2 agosto): “I terroristi hanno fatto un solo errore: hanno scelto Bologna. La società ha saputo raccogliersi attorno ai famigliari delle vittime che avevano un unico obiettivo, senza tornaconti: comporre tutti i pezzi di verità possibile”. Eccolo lo scarto. La forza pulita di chi ha avuto una vita sconvolta e la forza ambigua, manipolatoria e amara di chi ha il potere di ridare luce alle stanze, di trasformare il Paese in una Casa di Cristallo. E invece si avvita nella doppia lettura di fatti ormai accertati e concepisce norme nefaste come l’articolo 31 del decreto sicurezza. Impunità agli agenti dell’intelligence che per oscure ragioni superiori si organizzino in illegali gruppi terroristici. Dunque, in astratto, 45 anni fa avrebbero potuto persino mettere la Bomba alla stazione. Una vischiosità dolorosa che nega le ferite aperte della strategia della tensione. Per questo, Paolo Bolognesi, nel suo ultimo giorno da presidente dell’associazione vittime del 2 agosto, dice: “Condannare la strage di Bologna senza riconoscerne e condannarne la matrice fascista è come condannare il frutto di una pianta velenosa, continuando ad innaffiarne le radici. Da questo palco confermo la mia contrarietà alla nomina di Chiara Colosimo a presidente della Commissione parlamentare antimafia”. Perché è così difficile affidarsi a mani e menti “terze”? Riesce, il governo, ad avere la stessa forza che esprime il Presidente della Repubblica, nell’affermare la verità dello Stato? A dimostrare che lo Stato è di tutti e per tutti? Paolo mi dice: “È ovvio che Giorgia Meloni non ha alcuna responsabilità nella strage. E neanche il presidente del Senato. Ma se il portavoce del ministro Lollobrigida è uno come Paolo Signorelli, io che cosa devo pensare? La presidente del Consiglio ha una grande opportunità. La deve solo cogliere. Voleva sentenze definitive? Ci sono. Dimostri che esiste discontinuità tra quei mondi e il mondo di oggi. Dimostri che l’informazione è libera. Ci faccia capire che sta dalla nostra parte. Che non ci considera dei pazzi. Vogliamo solo sapere. Proprio perché crediamo nello Stato. Proprio perché anche noi siamo lo Stato”. È come se esistessero due Paoli. Uno che vorrebbe continuare ad insegnare educazione motoria, a stare di fianco alla sua famiglia, a godersi la bellezza dell’anonimato di chi ha azzeccato la vita. E uno costretto ad esporsi - contronatura - in nome di una storia che ha mutilato per sempre i suoi affetti. “I giornalisti mi chiedono di Trump e di Gaza e io vorrei rispondere: guardate che sono una persona qualunque. Ma per l’associazione delle vittime mi devo impegnare per forza. Semplicemente perché è giusto. Perché ho in mente gli occhi di mia madre. E anche quelli di mio padre, che è stato arrabbiato per tutta la vita. È morto di tumore ai polmoni. Mi diceva: lasciami fumare: così vado prima da lei”. Toscana. Carceri, dalla Regione risorse per l’assistenza psicologica ai detenuti La Nazione, 4 agosto 2025 “Crediamo in questo modello che mette al centro la prevenzione, la tutela della salute mentale e la dignità delle persone” dicono il presidente Giani e l’assessore Bezzini. È stato rinnovato anche per il 2025 il progetto di supporto psicologico rivolto ai detenuti delle carceri toscane. La giunta regionale, su proposta dell’assessore al diritto alla salute Simone Bezzini, ha stanziato 338 mila euro per l’anno 2025 come contributo alle aziende sanitarie che aggiungeranno da parte loro ulteriori risorse sui singoli progetti. “In continuità con il lavoro portato avanti in questi anni con questo stanziamento andiamo a rafforzare l’assistenza psicologica all’interno degli istituti penitenziari, insieme a tutte quelle azioni utili ad individuare tempestivamente situazioni di disagio e fattori di rischio per le persone detenute. Crediamo in questo modello che mette al centro la prevenzione, la tutela della salute mentale. Il progetto si pone in continuità con le azioni messe in campo fino ad oggi e che proseguiranno con un monitoraggio continuo. L’obiettivo è quello di rafforzare l’assistenza psicologica nelle carceri e dare impulso alle attività che possano contribuire ad individuare i fattori di rischio alla base dei disagi psico-fisici. I casi di disagio psichico sono infatti particolarmente aumentati negli ultimi anni e necessitano di un’attenzione particolare e di un potenziamento del lavoro professionale dedicato. La delibera regionale, che stanzia le risorse per l’annualità in corso, si pone in continuità con quanto disposto negli anni precedenti e in coerenza con la programmazione regionale in materia (in particolare la delibera Obiettivi prioritari per la tutela della salute dei detenuti 2024-2026 e il Piano regionale di prevenzione del rischio suicidario nelle carceri). Le risorse regionali saranno infatti assegnate alle Asl sulla base dei progetti già avviati, tenendo conto che ogni Asl si differenzia nel numero e nelle caratteristiche degli istituti penitenziari presenti nel territorio. Nel dettaglio circa 201 mila euro saranno destinati alla Asl Toscana centro, centomila all’Asl Toscana Nord ovest e poco più di 37 mila all’Asl Toscana Sud est. Piemonte. Dopo gli attacchi di FdI, Mellano candidato come garante dei detenuti per Torino di Giulia Ricci La Stampa, 4 agosto 2025 Monica Gallo lascia dopo due mandati. Tra i candidati spiccano l’ex garante regionale e Pietro Buffa, ex direttore della casa circondariale di Torino. Ma anche Berardinella (esperta Ue in radicalizzazioni) e Franchitti, educatrice di grande esperienza. L’ex Garante dei detenuti in Piemonte Bruno Mellano punta al Comune di Torino. Ma a “sfidarlo” c’è Pietro Buffa, già direttore di quattro carceri e provveditore. La scorsa settimana, nelle mail dei capigruppo a Palazzo Civico, è arrivato l’elenco dei candidati (attraverso un avviso pubblico) alla successione della Garante Monica Gallo, che dopo due mandati sta lavorando in regime di prorogatio. Sarà il sindaco Stefano Lo Russo, dopo un confronto con i leader dei partiti e le indicazioni dell’ufficio Nomine, a scegliere chi si occuperà dei detenuti dei penitenziari torinesi. La decisione è prevista per settembre. Mellano tra polemiche e consenso - Nell’elenco dei candidati spicca Mellano, finito sotto la scure degli attacchi di Fratelli d’Italia, accusato di “strabismo ideologico”, ma difeso dai Garanti nazionali e dalla Camera penale. Forse anche per volontà di continuare il suo lavoro nel capoluogo piemontese, il radicale ha mantenuto toni bassi e spirito collaborativo con Monica Formaiano, sua successora. Il curriculum di Pietro Buffa - Tra i favoriti per il ruolo c’è Buffa, con un dottorato, monografie e una lunga carriera nelle carceri: direttore presso la Casa circondariale di Asti, Alessandria, Saluzzo e Torino, poi dirigente generale e provveditore regionale in Emilia-Romagna, Lombardia, Triveneto e Piemonte-Valle d’Aosta. Tuttavia, proprio la sua esperienza come direttore sta suscitando perplessità nel centrosinistra, trattandosi di un ruolo più vicino alla Polizia penitenziaria che ai detenuti - una prospettiva che Fratelli d’Italia apprezzerebbe per un Garante. Outsider di peso - Tra i candidati spiccano anche outsider con curriculum di rilievo. Diletta Berardinelli, esperta del “Knowledge hub on prevention of radicalisation” della Commissione europea, consulente del consorzio Open per il reinserimento socio-lavorativo, già coordinatrice del gruppo di lavoro Prisons a Bruxelles, con focus sulla lotta agli estremismi. Augusto Fierro, avvocato penalista, Difensore civico della Regione Piemonte dal 2015 al 2021. Maria Franchitti, educatrice in carcere da oltre 30 anni, già responsabile dell’Icam (Istituto di custodia attenuata per madri) della città, con un lavoro centrato sulla vita delle donne e dei loro bambini in carcere. Candidature escluse per mancanza requisiti - Non mancano i candidati privi dei requisiti richiesti da regolamento: “persone residenti nel Comune di Torino d’indiscusso prestigio e di notoria fama nel campo delle scienze giuridiche, dei diritti umani, ovvero delle attività sociali negli Istituti di prevenzione e pena”. Tra questi, Valentina Noya, direttrice del festival LiberAzioni e progettista culturale al Museo del Cinema; Paola Matossi L’Orsa, già direttrice di comunicazione del Museo Egizio; Michele Miravalle, consigliere comunale di Asti, avvocato e collaboratore dell’associazione Antigone; Chiara Squarcione, psicologa e “militante radicale”. Aosta. Morto da solo, in una cella: tragedia al carcere di Brissogne di Fabrizia Pavetto valledaostaglocal.it, 4 agosto 2025 Un giovane detenuto libico si è tolto la vita nella notte tra venerdì e sabato all’interno del carcere valdostano. Aveva meno di trent’anni. Una morte silenziosa e drammatica che riaccende i riflettori sull’emergenza suicidi nelle carceri italiane. La procura indaga, il consolato libico attende. Si è chiuso in se stesso, dentro una cella. Poi si è chiuso anche il respiro. Un sacchetto di plastica stretto al collo, una piccola bombola di gas propano, la solitudine. Così è morto, nella notte tra l’1 e il 2 agosto, un giovane detenuto libico nel carcere di Brissogne. Meno di trent’anni, un passato segnato dai reati legati allo spaccio di stupefacenti, un presente spietatamente carcerario. Il futuro, invece, si è spento alle due del mattino, quando gli agenti della Polizia penitenziaria hanno trovato il suo corpo senza vita. Inutili i soccorsi, troppo tardi l’allarme. Il gesto, per quanto terribile, non è purtroppo isolato né sconosciuto. In ambiente carcerario, la tecnica è nota: la plastica intrappola il gas, l’inalazione porta rapidamente alla perdita di coscienza, e poi alla morte. Un suicidio lucido, preparato, silenzioso. Senza urla, senza richieste d’aiuto. La morte in carcere spesso arriva così: nella notte, nel silenzio di una cella, sotto le telecamere spente dell’attenzione pubblica. La direzione del penitenziario ha aperto un’indagine interna per ricostruire le ultime ore di vita del giovane. La procura di Aosta ha disposto l’autopsia. La salma, ora, si trova nell’obitorio del cimitero di Aosta, in attesa di essere riconosciuta ufficialmente e, forse, restituita a una famiglia che vive a migliaia di chilometri di distanza. Il consolato libico è stato allertato e ha avviato i contatti con le autorità italiane per il trasferimento della salma. Ma oltre i fatti, c’è il peso. Un suicidio in carcere non è mai soltanto un evento individuale: è una sconfitta collettiva. Di un sistema che spesso dimentica, che chiude dentro e poi si volta dall’altra parte. Secondo l’associazione “Antigone”, nei primi sette mesi del 2025 sono già oltre 50 i suicidi registrati nelle carceri italiane. Numeri allarmanti, che raccontano un disagio profondo, strutturale. Uomini giovani, spesso stranieri, poveri, tossicodipendenti, con storie difficili alle spalle e nessuna prospettiva davanti. Il carcere di Brissogne, una struttura relativamente piccola, non è nuovo a episodi critici: sovraffollamento, carenza di personale, pochi educatori, mancanza di attività di reinserimento. In queste condizioni, la detenzione diventa facilmente esclusione definitiva. È in questi spazi che la fragilità si trasforma in tragedia. La domanda non è più “perché lo ha fatto?”, ma “perché non è stato aiutato prima?”. Serve più sorveglianza? Certo. Ma serve anche e soprattutto più ascolto, più prevenzione, più attenzione alle persone che stanno scontando una pena, non alla loro colpa. Il suicidio di Brissogne non è un fulmine a ciel sereno: è la conferma di un cielo cupo che grava su molte carceri italiane, anche quelle apparentemente tranquille. E intanto, da una cella della Valle d’Aosta, un giovane uomo è uscito da questo mondo da solo, come forse ci era entrato. Con la morte tra le mani e nessuno che potesse fermarla. Roma. Regina Coeli, detenuto trovato morto in cella: indagini in corso radioroma.it, 4 agosto 2025 Un detenuto italiano è stato trovato privo di vita ieri mattina all’interno della sua cella nel carcere romano di Regina Coeli. Le cause della morte non sono ancora state chiarite e sono attualmente in corso gli accertamenti da parte delle autorità competenti. A dare l’annuncio è stato il Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria (Sappe), che attraverso il segretario Maurizio Somma ha espresso preoccupazione per le condizioni della struttura e per la difficoltà crescente del personale penitenziario nel gestire la sicurezza. Anche Donato Capece, segretario generale del sindacato, ha rinnovato l’invito alle istituzioni affinché si investano risorse concrete per garantire maggiore sicurezza negli istituti di pena del Lazio e tutelare operatori e detenuti. Un uomo, detenuto presso l’istituto penitenziario di Regina Coeli a Roma, è stato ritrovato privo di vita all’interno della sua cella. Il ritrovamento ha immediatamente allertato sia gli agenti della polizia penitenziaria sia il personale sanitario in servizio nella struttura. Nonostante gli immediati tentativi di soccorso, ogni intervento si è rivelato purtroppo inutile. L’identità del detenuto non è stata ancora resa nota e rimangono da accertare le esatte circostanze che hanno condotto al decesso. Le autorità stanno effettuando tutte le verifiche necessarie per comprendere se si tratti di una morte naturale, un gesto volontario o un’altra causa. La notizia è stata diffusa dal Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria (Sappe), che ha sottolineato le condizioni critiche in cui versa la struttura di Regina Coeli. Maurizio Somma, rappresentante del sindacato, ha dichiarato che l’episodio rappresenta l’ennesimo segnale di allarme e ha ribadito come le problematiche strutturali e organizzative rendano sempre più complesso il lavoro quotidiano del personale penitenziario. Secondo Somma, questi eventi drammatici potrebbero talvolta essere evitati, qualora venissero adottati interventi di prevenzione e ammodernamento più efficaci. Le condizioni logistiche e sanitarie della struttura romana rappresentano un problema noto da tempo e più volte denunciato. Donato Capece, segretario generale del Sappe, ha rivolto un nuovo appello alle istituzioni, chiedendo con fermezza un potenziamento degli investimenti nella sicurezza degli istituti di pena. Capece ha evidenziato l’importanza del ruolo svolto dalla polizia penitenziaria, che oltre a garantire l’ordine all’interno delle carceri, costituisce un presidio essenziale per il contenimento della criminalità anche al di fuori degli ambienti detentivi. Per il sindacalista, il decesso avvenuto a Regina Coeli dovrebbe rappresentare un punto di svolta nella gestione del sistema carcerario, non solo nella Capitale ma in tutte le strutture del Lazio. Interventi urgenti risultano indispensabili per migliorare la vivibilità degli istituti e prevenire ulteriori tragedie. Como. Carcere del Bassone, la Camera Penale: “Situazione preoccupante. Non rispetta la dignità” di Paola Pioppi Il Giorno, 4 agosto 2025 Un letto a terra con tre detenuti, ammassati l’uno sull’altro, in condizioni igieniche disastrose tanto da poter parlare di “violazione dei più elementari diritti umani”. I rappresentanti della Camera Penale di Como e Lecco, che nei giorni scorsi hanno visitato il carcere Bassone di Como assieme ai consiglieri dell’Ordine degli Avvocati di Como e all’Associazione Nessuno tocchi Caino, restituiscono una fotografia “preoccupante, non degna di un paese civile e non conforme ai principi costituzionali del rispetto della dignità delle persone e del divieto di pene contrarie al senso di umanità e finalizzate alla rieducazione”. Uno dei problemi più gravi, è rappresentato dal sovraffollamento: la popolazione detenuta al momento della visita era di 428 detenuti, di cui 49 donne, a fronte di una capienza regolamentare di 226 detenuti, con un sovraffollamento record pari al 190 per cento. A questo si aggiunge un tasso di suicidi allarmante: nell’ultimo anno a Como sono avvenuti 3 suicidi e circa 30 tentativi. Un altro tema preoccupante e delicato, con numeri in costante crescita, sono i giovani appena maggiorenni - 51 in tutto, di cui 2 donne - che a causa della carenza di spazi, non si riesce a tenere separati dagli adulti, adottando trattamenti adeguati alla loro età in evoluzione. “La visita in carcere - dice l’avvocato comasco Anna Viganò, consigliere della Camera Penale - l’obiettivo di sensibilizzare sul drammatico tema del carcere. Perché certamente è corretto che vi sia una pena certa e che il carcere non debba essere un albergo a cinque stelle, ma oggi è un luogo di disumanità, che va contro i nostri principi costituzionali, oltre ad essere altamente improduttivo. L’aver visto con i miei occhi come i detenuti stiano accatastati in celle minuscole e troppo calde, senza una possibilità effettiva di riabilitazione, permette di dire con assoluta convinzione che il carcere è un problema serio, una polveriera che a breve è destinta ad esplodere”. Asti. Un carcere in mezzo al nulla: “Serve un bus per i detenuti che vogliono lavorare” di Valentina Moro La Stampa, 4 agosto 2025 L’appello del garante Domenico Massano: il carcere non è collegato con la città. Così il reinserimento è difficile. Un carcere in mezzo al nulla e scollegato dalla città con troppi detenuti e il 40 per cento degli educatori che mancano. In occasione della mobilitazione nazionale per i diritti dei detenuti, il nuovo garante delle persone private dalla libertà, Domenico Massano, nominato un mese fa, ha fatto un sopralluogo nel carcere di Quarto d’Asti per analizzarne le problematiche e capire dove intervenire. “Il carcere non è collegato in nessun modo con i mezzi pubblici e non c’è neanche un marciapiede per raggiungerlo. Serve un bus per le famiglie che vanno a trovare i detenuti e per i carcerati quando escono in permesso o devono andare a lavorare - è l’appello lanciato alle istituzioni - Il lavoro è il principale modo per evitare la recidiva”. Oltre ai problemi di trasporto, la fotografia del garante evidenzia carenze di organico preoccupanti, in tutti i settori. Con un numero di carcerati oltre il limite (sono 237, il 15 per cento in più del massimo stabilito dal ministero) il personale sottodimensionato fatica a coprire i turni: tra agenti e ispettori della polizia penitenziaria dovrebbero essere 167 i previsti a fronte 138 effettivi, mentre le educatrici, che dovrebbero essere 7, sono 4. L’istituto, composto da sei sezioni, ospita quasi esclusivamente detenuti in alta sicurezza. Carenze si riscontrano anche nel personale amministrativo. “L’area educativa è attenta a fare un buon lavoro, motivata e disponibile - commenta Massano - ma essendo sotto organico lavoro si crea un sovraccarico di lavoro che mette in difficoltà le normali attività che lavorano sulla funzione rieducativa della pena. Le problematiche che già ci sono così vengono amplificate”. Piove dentro e temperature record - La struttura vecchia porta con sé alcune criticità: dalle infiltrazioni d’acqua in varie parti della struttura alla muffa nelle docce delle sezioni che rende l’ambiente malsano. E l’estate porta con sé nuovi problemi. “Nei giorni più caldi in tutte le sezioni, soprattutto al terzo piano dove batte di più il sole, le temperature diventano roventi. Servono urgentemente impianti di condizionamento”. La proposta - La proposta è di sedersi a un tavolo per pianificare gli investimenti necessari per dare il via ai lavori di manutenzione straordinaria e ordinaria, soprattutto quelli utili a rendere fruibili di tutti gli spazi comuni dell’istituto “come i locali sopra l’infermeria in disuso da tempo”. Diversi interventi sono già stati avviati e a breve dovrebbe essere completata l’area esterna destinata ai colloqui per famiglie. “Ma al momento non è utilizzabile - spiega Massano - sono presenti anche attrezzature, spazi e giochi per l’accoglienza dei bambini. Sarebbe importante poter disporre al più presto di questa risorsa fondamentale per permettere incontri famigliari in un contesto dedicato ed attrezzato anche per l’accoglienza dei più piccoli”. L’appello per il lavoro - Il tema cruciale per il garante resta l’aspetto lavorativo. “Ci sono rapporti di collaborazione molto positivi con tante realtà del territorio. Serve un maggiore coinvolgimento delle aziende ma soprattutto, ripeto, serve almeno una linea di trasporti pubblici per fare in modo che i detenuti possano uscire a lavorare”. Cagliari. “I 92 detenuti al 41 bis arriveranno alla chetichella” di Jacopo Norfo castedduonline.it, 4 agosto 2025 “Le parole del Ministro Carlo Nordio chiariscono definitivamente le modalità scelte dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria: i detenuti al 41bis arriveranno nella Casa Circondariale “Ettore Scalas” di Cagliari-Uta alla chetichella insieme agli Agenti Penitenziari del Gom (gruppo operativo mobile), evitando il clamore che operazioni più ampie possono suscitare”. Lo sostiene Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” facendo osservare che “il trasferimento dei boss sottoposti alla massima sicurezza a Sassari-Bancali è avvenuto allo stesso modo e pian pianino sono diventati 92”. “Il Ministro Nordio pur rendendosi disponibile a incontrare la Presidente della Regione Alessandra Todde - sottolinea Caligaris - non mostra alcun segno di ripensamento sul progetto tenendo anche conto del fatto che solo qualche mese fa, esattamente il 15 aprile scorso, Antonio Bianco, responsabile della Direzione Generale della gestione dei beni, dei servizi e degli interventi in materia edilizia, e Ernesto Napolillo della Direzione Generale Detenuti e Trattamento nel corso di un sopralluogo a Uta avevano lamentato il ritardo .dei lavori sollecitandone la conclusione”. “L’ultimo passaggio, ormai imminente, riguarda la consegna dello stabile da parte del Ministero delle Infrastrutture a quello della Giustizia, un atto - afferma ancora la presidente di SDR - del tutto formale. L’inaugurazione del Padiglione avverrà quindi nel silenzio generale, in un momento inatteso consumando lo sgarbo istituzionale verso la Regione Autonoma. L’unico auspicio è che l’aver risvegliato l’attenzione sul 41bis porti la classe politica sarda e nazionale a guardare l’intera realtà del sistema penitenziario della Sardegna, finora e da qualche decennio quasi del tutto trascurato. La realtà isolana ha visto aumentare, in modo spropositato negli ultimi anni - conclude - i detenuti dell’Alta Sicurezza che, non solo si trovano nelle case di reclusione di Tempio-Nuchis e Oristano-Massama ma ‘convivono’ con i 41bis al Badu e Carros di Nuoro, a Sassari-Bancali e a breve a Uta, dove c’è già un’intera sezione”. Oristano. Salta il presidio medico di 24 ore: emergenza sanitaria nel carcere cagliaritoday.it, 4 agosto 2025 È ancora emergenza sanitaria nel carcere di Massama a Oristano. Per diversi giorni l’istituto penitenziario sarà nuovamente privo della presenza di un medico attivo 24 ore, esponendo detenuti e agenti a rischi gravissimi. A denunciarlo è la Uil Pa polizia penitenziaria della Sardegna, che definisce la situazione “inaccettabile” per un penitenziario di alta sicurezza, dove sono reclusi soggetti di altissimo profilo criminale. “L’assenza di un presidio medico costante - denuncia il segretario regionale Michele Cireddu in una nota - è un pericolo concreto. In caso di malori improvvisi ogni minuto può fare la differenza, e i tempi di arrivo del 118 potrebbero risultare fatali”. Non si tratta, sottolinea il sindacato, solo di un problema sanitario, ma anche di una questione di sicurezza generale: la mancanza di personale medico obbliga gli agenti a gestire emergenze che non rientrano nelle loro competenze. “Il personale di polizia penitenziaria - prosegue Cireddu - è costretto ad attivare il 118 anche per le più banali necessità mediche, aggravando il proprio già difficile lavoro e sottraendo risorse sanitarie al territorio. Una distorsione inaccettabile”. La Uil Pa ricorda come la criticità fosse già stata sollevata nei mesi scorsi, e in parte risolta. Tuttavia, il suo ritorno “conferma la totale assenza di programmazione e una superficialità gestionale che non può essere più tollerata”. Il sindacato chiede un intervento immediato per ripristinare il servizio medico continuativo e tutelare sia la salute dei detenuti che la sicurezza del personale. “La polizia penitenziaria - conclude Cireddu - non può continuare a pagare il prezzo delle inefficienze altrui”. Torino. Veglia notturna davanti al carcere, poi la proposta: “Numero chiuso per le carceri italiane” torinotoday.it, 4 agosto 2025 Dalle 23 di martedì 5 agosto Europa Radicale trasmetterà in diretta social (sulla pagina Facebook Europa Radicale) una veglia notturna di fronte al carcere ‘Lorusso e Cutugno’ di Torino per sensibilizzare la popolazione sulle condizioni carcerarie. “A un anno esatto dalla veglia che organizzammo nello stesso luogo - afferma Igor Boni - durante la quale esponemmo i nomi delle persone che si sono tolte la vita in carcere, la situazione è peggiorata. Ribadiremo la cecità del duo Delmastro-Nordio, responsabile di continue violazioni dei diritti sia dei detenuti che degli agenti penitenziari. Daremo anche i numeri aggiornati del sovraffollamento carcerario”. “Numero chiuso per le carceri italiane”: la proposta - L’iniziativa proseguirà mercoledì 6 agosto alle 12 con una conferenza stampa nella sede dell’Associazione Radicale Adelaide Aglietta (via San Dalmazzo 9/bis, Torino). In tale occasione, Europa Radicale presenterà la proposta di introdurre un numero chiuso per le carceri italiane. “Nel Regno Unito - spiega Boni - se la capienza di una struttura è di 100 posti, non è consentito ospitare 101 detenuti. In caso di nuovi ingressi, è obbligatorio liberare posti tramite pene alternative o provvedimenti straordinari. Lo stesso principio potrebbe essere adottato anche in Italia, evitando il sovraffollamento e spingendo lo Stato a utilizzare soluzioni alternative come gli arresti domiciliari, la liberazione anticipata o l’inserimento in comunità di accoglienza”. Roma. Anche i detenuti delle carceri minorili a Tor Vergata ansa.it, 4 agosto 2025 Anche alcuni giovani delle carceri minorili hanno partecipato alla messa celebrata da Papa Leone XIV ieri mattina a Tor Vergata nell’ambito del Giubileo dei Giovani. Lo riporta Giustizia news online, quotidiano del ministero di giustizia, che parla di una “esperienza carica di significato, non solo per la presenza del Papa, ma soprattutto per il valore simbolico che questi ragazzi porteranno con sé: un murale mosaicato, frutto di un percorso di espressione, crescita e rinascita”. L’opera, realizzata ed esposta all’ingresso della stazione “Metro C” di Torre Angela, in occasione della giornata nazionale dell’ascolto del minore, il 9 aprile scorso, è composta da centinaia di tasselli in pietra di forme e dimensioni differenti. Ogni frammento è stato posato con cura dai giovani ragazzi, alcuni provenienti dall’Istituto penale per i minorenni di Casal del Marmo, altri in messa alla prova o coinvolti nei percorsi educativi e sociali del territorio, seguiti dall’Ufficio di servizio Sociale per i minorenni. A loro si sono uniti bambini e adolescenti del quartiere, in un laboratorio artistico che ha unito storie, sogni e visioni in un’unica narrazione collettiva. Il murale - viene spiegato - non è solo un’opera d’arte pubblica, ma soprattutto un potente messaggio di speranza. Le pietre, tutte diverse, rappresentano le unicità dei singoli partecipanti che insieme, formano un’immagine armoniosa, capace di raccontare la forza della comunità, il valore dell’ascolto reciproco e la possibilità, sempre concreta, di costruire un futuro diverso attraverso il dialogo, la cura e l’inclusione. Sassari. Sit-in davanti al carcere di Bancali per difendere le colonie feline di Emanuele Floris L’Unione Sarda, 4 agosto 2025 Protesta pacifica contro la disposizione che vieta di nutrire i gatti che vivono all’interno dell’istituto di pena. Associazioni animaliste e cittadini amanti dei gatti si mobilitano con un sit in pacifico organizzato per domani, lunedì 4 agosto, alle 18, davanti al carcere di Bancali. L’iniziativa è promossa da Anime Feline Odv, Leidaa sezione Sassari, Oipa sezione Sassari, Zampette felici Castelsardo, Orme Ozieri, Le Gatte matte Odv. Unite dall’ obiettivo di richiamare l’attenzione sulle conseguenze del recente divieto di alimentare i gatti imposto dalla direzione del carcere. Secondo le associazioni, questa decisione mette a rischio il benessere degli animali, che per legge (L. 281/1991 e art. 544-ter c.p.) devono essere tutelati, e rischia di creare ulteriori criticità anche all’interno dell’istituto penitenziario. “Il nostro obiettivo non è creare conflitto, ma trovare soluzioni condivise - spiegano le associazioni -. Chiediamo un tavolo con direzione del carcere, Asl e istituzioni per garantire nutrizione controllata, sterilizzazione e gestione sanitaria dei gatti. Vogliamo trasformare questa situazione in un progetto positivo, che possa coinvolgere anche i detenuti in attività educative e di cura verso gli animali”. Il sit-in sarà apartitico e pacifico, e vuole essere un momento di sensibilizzazione per dare voce a chi non può difendersi, trasformando una polemica in un’occasione di dialogo e civiltà. Armando Punzo: “Cenerentola madrina di utopie, i veri reclusi vivono fuori dal carcere” di Adriana Marmiroli La Stampa, 4 agosto 2025 Nel carcere di Volterra Armando Punzo è entrato 37 anni fa, e da allora non ne è più uscito. Nessuna condanna. Solo un incommensurabile amore per il teatro e la scoperta di un universo che sfugge alle regole dello spettacolo. Entrato con il progetto di un laboratorio teatrale, ha fondato la Compagnia della Fortezza composta da detenuti e realizzato decine di spettacoli: per ognuno poche irripetibili repliche tra le mura medievali della Casa di Reclusione stessa, per poi uscire in tournée per i teatri d’Italia. Tra le più note compagnie di questo tipo, ha ricevuto riconoscimenti e premi: il più prestigioso il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia 2023. Ogni stagione Punzo realizza uno o due nuovi spettacoli: quest’anno - il debutto è avvenuto pochi giorni fa - Cenerentola. L’arte, la scienza e la conoscenza cui ha abbinato Fame, per ora work-in-progress, ispirato al romanzo del controverso Nobel Knut Hamsun: uno spettacolo raccolto e quasi intimo, quanto Cenerentola è fastoso e corale, coreografico e imponente, con i suoi 72 interpreti e la scenografia - molto grafica ed evocativa delle avanguardie pittoriche del 900 - che occupa e scansiona il grande cortile della Fortezza Medicea. La difficoltà sarà adattare a un normale teatro quel gigantismo: ma è cosa che si fa ogni anno, gli spettacoli di Punzo hanno sempre due versioni. Nella stessa Volterra, al Teatro Persio Flacco, si è appena visto quella che poi girerà per l’Italia. C’è un personaggio chiamato Cenerentola, c’è la cenere, il ballo e persino le “scarpette”, ma non la fiaba. E allora perché “Cenerentola”? “È un mito presente nelle culture più diverse. Da tre anni lavoro sull’utopia, un concetto oggi quasi eretico. E Cenerentola è un po’ la madrina degli utopisti, coloro cioè il cui sogno è stato messo da parte. Sono quella parte di umanità che pensa l’inimmaginabile e realizza l’impossibile, i Tesla, gli Einstein, i grandi artisti che hanno provato a “uscire dal quadro”. Tutta gente - scienziati, astronomi, pittori, romanzieri e poeti - che è riuscita a battere regole che parevano inscalfibili. Proprio come Cenerentola”. Non si parla della condizione del detenuto, quindi? “Il gran ballo che noi abbiamo messo in scena è quello della conoscenza, di gente che cerca il cambiamento ma che la società esclude. Trascende luogo e interpreti. Nei nostri spettacoli non abbiamo mai parlato del mondo che ci contiene, ma sempre d’altro”. Entrando alla Fortezza, la prima volta, immaginava che non l’avrebbe più lasciata? “Ero un giovane artista che cercava la sua strada. Arrivavo da esperienze importanti ma da cui volevo allontanarmi, uscire dalle solite dinamiche del teatro. Volevo lavorare con attori non professionisti. Ero a Volterra e ho alzato gli occhi sulle mura, vedendole per la prima volta sotto una luce diversa: quello poteva essere il luogo dove realizzare la mia idea di teatro. Ho chiesto e dopo un mese ero dentro. Detto questo: no, non lo prevedevo, ma so che era ciò che volevo: realizzarmi come artista, usando un vero carcere come metafora del nostro essere reclusi. Mai voluto essere un educatore o una sorta di psicologo/assistente sociale, invece”. Da allora è cambiato qualcosa? In meglio o in peggio? “È diventato tutto più faticoso. Come per altro tutto ciò che in questo Paese riguarda la cultura, la Cenerentola dei nostri tempi, e non da oggi. È un problema che viene da lontano, e non è di una parte o dell’altra. Al centro c’è l’idea - abominevole - che l’arte debba essere intrattenimento. Non interessa la centralità dell’uomo e la sua crescita. Privati di questi strumenti, lasciati al nostro destino, il risultato è un progressivo, grave impoverimento”. Domina una concezione del carcere punitiva, come pura segregazione. Cosa ne pensa? “La Costituzione dice altro: che la pena ha una finalità rieducativa per permettere il rientro nella società. È straordinario che 80 anni fa degli uomini avessero pensato a un articolo che desse attenzione a questo aspetto. E invece oggi la speranza è tagliata fuori, la prigione non serve se non a produrre altra criminalità. La politica mistifica questi aspetti. E il carcere è periferia delle periferie (dimenticata), atto di forza dove dell’essere umano sopravvive solo il peggio”. Il teatro è entrato stabilmente nella vita di qualcuno dei suoi attori? “Paul Cocian, unico interprete di Fame e nel cast di Cenerentola: ha finito di scontare la sua pena e ora è libero. Lavora ai locali scavi archeologici e in carcere torna ogni giorno per le prove. È un percorso faticoso ma lui lo sta facendo. Prima di lui altri. Il più noto è certamente Aniello Arena, che ha ormai intrapreso una solida carriera, con Matteo Garrone e altri”. Ci sono collegamenti tra “Fame”, che ha debuttato in questi giorni, e “Cenerentola”? “Si parla di una fame che non riguarda solo il cibo, ma è aspirazione che anima tutti noi: mai sazi. Ed è la stessa forza che muove gli esclusi di Cenerentola. Ci fa combattere una natura pigra, è luce e fuoco che arde in ciascuno, anche nei momenti più bui, e fa vedere la fine del tunnel”. Quei ragazzi uniti da impegno e rispetto di Elena Loewenthal La Stampa, 4 agosto 2025 Una cascata di grazie per la Chiesa e per il mondo: così papa Leone ha definito il milione di giovani che lo ha ascoltato nella due giorni di Giubileo dedicati a loro. Una immensa folla di persone, di vite, opinioni e fedi diverse. Tanti laici, s’è detto. Ma che cosa vuol dire, “laico”? È, più che mai in questo contesto sociale così particolare, una parola approssimativa che non rende giustizia alla varietà degli animi, delle coscienze e delle convinzioni che si sono radunate a Roma. Che cosa univa dunque questi ragazzi e ragazze che si sono, e spesso nel vero senso della parola, sudati uno spazio per esserci, ascoltare e dialogare? Non la fede e nemmeno la laicità tout court, ma qualcosa di più complesso su cui val la pena riflettere. Prima di tutto, l’impegno. La fatica di arrivare, esserci: sapere che contava esserci, che la propria presenza - individuale e collettiva - aveva senso. Cosa niente affatto da poco in un presente come il nostro dove i giovani (e non solo loro) sempre più scelgono il territorio del virtuale, per esserci. L’esserci a distanza, insomma. Stare, partecipare, parlare (e più di rado ascoltare), ma da lontano, dietro uno schermo digitale. Che è tutta un’altra cosa dall’esserci fisicamente. I giovani del Giubileo ci hanno, con la loro presenza vera, spiegato alla perfezione che è tutta un’altra cosa, partecipare in presenza alle parole, alle idee, alle convinzioni. E che si può, si deve ancora fare. E poi ci sono le parole del Papa che si sono fatte ascoltare da quel milione di giovani, orecchie, occhi e cuori. Ha parlato di pace, come prevedibile in un presente in cui ce ne sarebbe tanto bisogno in tanti luoghi del mondo. Ha parlato di giustizia, e di una giustizia umana ancor prima che divina - perché senza di essa non ci sono né pace né vita. La giustizia è parola difficile, perché significa tener presente l’altro da sé ancora prima di iniziare a ragionarci intorno. Perché contiene tanto altro: rispetto, dignità, equità, persino compromesso senza il quale la giustizia è solo inflessibile rigore. Ma soprattutto ha lanciato un invito ai giovani. Impegnativo e sfidante finché si vuole ma così necessario che dovremmo coglierlo tutti, anche chi non ha più quell’età lì da un pezzo. “Aspirate a cose grandi, alla santità ovunque siate. Non accontentatevi di meno”. Ecco, non accontentarsi. Che non ha nulla a che vedere, si badi bene, con la disponibilità al compromesso quando si tratta di venire incontro al nostro prossimo. Non accontentarsi vuol dire prendere la vita sul serio, non rinunciare a viverla sino in fondo con la santità di cui ognuno di noi è capace, in cui crediamo, che desideriamo per noi e per il mondo. Che sia una santità di fede oppure laica, terrena, persino trasgressiva. In altre parole, integrità: verso se stessi e verso gli altri. Amore per la vita e coscienza di quanto essa sia preziosa e irripetibile. C’è bisogno di questa santità che il Papa ha “seminato” ieri a un milione di giovani perché, come ha ancora detto, “a dispetto della fragilità che ci accomuna siamo fatti per questo e non per una vita dove tutto è scontato e fermo”. Siamo fatti per scendere a patti con la nostra fragilità e non tirarci indietro di fronte al cambiamento: è l’inquietudine che ci tiene vivi. C’è qualcosa, anzi tanto, di profondamente “laico” in queste parole. O meglio, di inclusivo: valgono per tutti noi, con o senza fede, con o senza l’età dei giovani del Giubileo. Scuola. La proposta leghista del “docente di inclusione” non costruisce classi più giuste di Giulio Cavalli Il Domani, 4 agosto 2025 Senza fondi aggiuntivi, l’introduzione della figura del “docente di inclusione” al posto di quello di sostegno, si configura come una mera operazione di marketing politico. È un atto simbolico che perpetua il malfunzionamento, travestendolo da cambiamento. È una legge di due articoli. Ma basta leggerli per capire che il vero contenuto è altrove: nella rinuncia a qualunque impegno. Il disegno di legge A.C. 2303, depositato dalla Lega e ora all’esame della Commissione Cultura della Camera, propone di sostituire la definizione “docente di sostegno” con quella di “docente per l’inclusione”. Il cambiamento, secondo i proponenti, “valorizza” la figura, la allarga, la modernizza. In realtà, introduce una ridefinizione ambigua, senza riformare nulla. Anzi, compromette la funzione stessa del sostegno scolastico, senza investimenti, senza nuovo organico, senza un progetto coerente con i bisogni reali delle scuole. L’articolo 2 del testo è chiaro: “invarianza finanziaria”. Tradotto: tutto si fa con le stesse risorse. E tutto ciò che serve - più docenti specializzati, stabilizzazione dei precari, formazione continua, continuità didattica - resta fuori. Ciò che la proposta ignora - I numeri però raccontano una realtà che la proposta ignora. Oltre 359.000 alunni con disabilità nelle scuole italiane (+26 per cento in 5 anni) mentre il 27 per cento dei docenti di sostegno non ha alcuna specializzazione. Il 59 per cento è precario. Il 57 per cento degli studenti cambia insegnante ogni anno, spesso nel corso dell’anno scolastico stesso. Intanto il disegno di legge si limita a un’operazione lessicale. A essere stravolto non è solo un nome. È un paradigma. Parlare di “docente per l’inclusione” significa attribuire a una figura specifica una funzione che, secondo decenni di pedagogia, deve essere condivisa da tutto il collegio docenti. Si istituzionalizza così la delega, invece di superarla. Si trasforma la corresponsabilità in specializzazione isolata. E si rafforza l’idea, mai davvero sradicata, che la disabilità sia competenza di qualcuno, non un compito comune. A nulla vale l’appello ai “principi della Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità”, che vengono strumentalizzati per giustificare una proposta che tradisce l’approccio inclusivo più elementare: quello per cui ogni insegnante è responsabile dell’intero gruppo classe, e l’insegnante di sostegno è contitolare, non delegato. Il disegno di legge prevede che il “docente per l’inclusione” non si occupi solo degli alunni con disabilità (come stabilito dalla legge 104/1992), ma anche di quelli con Bisogni Educativi Speciali. Un’estensione senza copertura che, secondo molti esperti, rischia di compromettere l’azione individualizzata. Già oggi le ore di sostegno sono insufficienti, le assegnazioni avvengono in deroga, i Pei faticano a essere attuati. La proposta della Lega, in questo contesto, equivale a una diluizione. L’inclusione si allarga sulla carta e si indebolisce nella realtà. Le associazioni che si occupano di disabilità - come Fish e Fand - parlano di “retorica della valorizzazione” che nasconde “una logica di contenimento”. I sindacati - Cgil, Cisl, Uil, Snals - denunciano la mancanza di ogni riferimento alla formazione, all’organico, alla continuità. I pedagogisti, da Dario Ianes a Silvia Portigliatti, smontano l’illusione semantica: “Tutti i docenti dovrebbero essere per l’inclusione. Ma il modo per renderlo vero è investire, non etichettare”. Un segnale - In fondo, è proprio questa la cifra della proposta: un “segnale”, come lo definisce la relatrice leghista Giovanna Miele. Ma un segnale rivolto all’opinione pubblica più che alle scuole. Serve a produrre consenso, non cambiamento. Anzi, di cambiamento non c’è proprio traccia. Le alternative esistono. Sono già sul tavolo. Le proposte della Fish (A.C. 2444) chiedono una cattedra stabile di sostegno, formazione obbligatoria per tutti i docenti, risorse dedicate, rafforzamento dei Gli, revisione dei Pei. C’è il modello della “Cattedra Inclusiva”: due docenti con pari dignità, contitolari della classe, che progettano, insegnano e valutano insieme. L’Europa chiede lo stesso: l’inclusione è una competenza trasversale, non il dominio di una categoria. Ma tutto questo costa. E la proposta della Lega, come molte operazioni di marketing politico, nasce proprio per evitarlo. Sceglie la scorciatoia nominalistica, introduce confusione normativa (la legge 104/1992 non parla di “docente di sostegno”, ma di “docente specializzato per le attività di sostegno”), moltiplica le etichette e deresponsabilizza. Intanto la scuola italiana continua ad avere bisogno di una riforma vera. Ha bisogno di stabilizzare 122.000 docenti, molti senza specializzazione. Ha bisogno di interrompere il valzer dei supplenti, di garantire continuità e qualità, di affrontare il nodo irrisolto dei BES, di fare della progettazione personalizzata un lavoro collegiale. La proposta A.C. 2303 non risponde a nulla di tutto questo. È un atto simbolico che perpetua il malfunzionamento, travestendolo da cambiamento. Chiamarlo “docente per l’inclusione” non cambierà nulla. Anzi, rischia di indebolire ciò che già oggi fatica a reggere. Perché l’inclusione, come recita la Costituzione, non si garantisce “senza nuovi o maggiori oneri”, ma con la responsabilità politica di rimuovere gli ostacoli. Anche quando questo significa spendere, ascoltare, cambiare davvero. Scuola. Dalla commissione Falcucci a oggi: per una didattica davvero inclusiva di Dario Ianes Il Domani, 4 agosto 2025 Qual è il motivo per cui la scuola, in ogni ordine e grado, ha sempre più necessità di una didattica davvero “inclusiva”? Perché le classi diventano sempre più eterogenee, le differenze e le unicità si moltiplicano, con varie intersezioni e con esse anche varie forme di disagio, svantaggio e difficoltà. “L’esercizio di tale diritto non può essere impedito da difficoltà di apprendimento né da altre difficoltà derivanti dalle disabilità connesse all’handicap”: nel 1975 il diritto all’istruzione nelle classi comuni veniva sostenuto dalla Commissione Falcucci con questa forza e chiarezza. Le caratteristiche dell’alunno/a non dovevano essere di ostacolo, anzi andavano osservate, capite, accolte. Spesso oggi invece si nega implicitamente (e talvolta esplicitamente) il valore di queste differenze. Molti insegnanti prendono sul serio la valorizzazione del soggetto in una dinamica complessa di partecipazione sociale nella classe e di appartenenza al gruppo. Come era prevedibile, non dobbiamo pensare ad una didattica “speciale”, altra rispetto a quella “normale”, ma ad una didattica normale, di tutti (tutti gli insegnanti e tutti gli/le alunni/e). Una didattica normale che però si evolve, si arricchisce dei risultati della ricerca scientifica e ne assume i “principi attivi” che la rendono efficace per tutti/e, che si pluralizza e si sfaccetta al suo interno, come suo tratto costitutivo essenziale. Questo è il significato di “plurale”: molteplice, ricco di varianti, modalità, modi di elaborare i materiali, di esprimere gli apprendimenti, di interagire, di star bene e generare l’energia motivazionale necessaria agli apprendimenti. Ma qual è il motivo “politico” per cui la scuola, in ogni ordine e grado, ha sempre più necessità di una didattica davvero “inclusiva”? Differenze e diversità - Il primo motivo è assolutamente oggettivo, sotto gli occhi di tutti: le classi diventano sempre più eterogenee, le differenze e le unicità si moltiplicano, con varie intersezioni e con esse anche varie forme di disagio, svantaggio e difficoltà. Il secondo motivo invece è ancor di più politico, e dunque relativo e dipendente dalla situazione storico culturale del paese e delle sue scelte. In molti paesi del mondo il sistema formativo non è infatti inclusivo e la scuola non è fondata sui principi di uguaglianza ed equità, come invece dovrebbe essere fondata la nostra, e dunque il valore dell’inclusività non possiamo darlo per scontato, né considerarlo un valore e una pratica immodificabile in senso regressivo, date le tendenze politico-culturali nel resto del pianeta. Come sappiamo, la visione dell’inclusione come convivenza rispettosa e libera dell’infinita varietà delle differenze umane non gode di grande benevolenza nei governi di destra. Sul tema differenze, forse vale la pena fare una piccola digressione sulla coppia differenze/diversità, due termini che sappiamo non essere sinonimi. Credo sia molto generativo in termini educativi partire dalla considerazione che le differenze sono caratteristiche individuali che dovrebbero rimanere neutrali in termini di valore e desiderabilità sociale, ad esempio leggere un testo con la sintesi vocale del computer o nel modo “convenzionale” dovrebbero avere lo stesso valore e rappresentazione sociale. Naturalmente sappiamo invece che alle differenze si applicano pregiudizi, stereotipi, giudizi di valore, pseudoteorie, narrazioni che caricano di valore positivo o negativo quelle differenze. Pensiamo ad esempio all’orientamento sessuale, alla religione, alla provenienza geografica. Una differenza allora, dopo essere passata attraverso questa “macchina del valore” assumerà lo status di diversità, in senso positivo o negativo. Caricata di valore, la diversità produrrà atteggiamenti (credenze, emozioni e comportamenti) di avvicinamento (se positiva) o di allontanamento (se negativa), e in questo ultimo caso potremo avere fenomeni di esclusione, stigmatizzazione, evitamento, fino all’aggressione diretta. In questa filiera differenze-macchina del valore-diversità-atteggiamenti quali potranno essere i ruoli e le azioni delle varie componenti di una scuola davvero inclusiva? Una scuola inclusiva aumenta il contatto con una gamma sempre più ampia di differenze, contrasta le azioni negative della macchina del valore, vi genera invece azioni positive e interviene decisamente nelle situazioni di diversità negativa e relativi atteggiamenti marginalizzanti. La didattica inclusiva ha invece il suo baricentro metodologico nella dimensione della “pluralità” dell’offerta formativa in modo che le differenti individualità trovino lo spazio più adatto a loro. La libertà di scelta - A questo punto però deve entrare in campo la libertà di scelta da parte dell’alunno/a rispetto alla pluralità di offerte. Tale libertà si potrà esercitare nella misura in cui è presente e accessibile una gamma di opzioni differenti, ma questo è ovvio. È altrettanto ovvio sostenere che la libertà di scegliere da parte dell’alunno/a si fonda sulla capacità di effettuare scelte e prendere decisioni specifiche. Più complessa è invece l’analisi del percorso graduale e intrecciato tra una progressiva responsabilizzazione degli/delle alunni/e e lo sviluppo di un sempre crescente desiderio/motivazione all’autonomia e all’autodeterminazione nelle scelte. In genere, maggiore è la libertà che si sperimenta e maggiore è la motivazione intrinseca, la responsabilità e l’autonomia decisionale e operativa. Questo percorso va accompagnato da strutture di scaffolding, come accordi negoziati, micro-contratti formativi a complessità gradualmente crescente. Nell’insieme degli ecosistemi della didattica inclusiva dobbiamo tener conto anche degli atteggiamenti rispetto a queste modalità di apertura della didattica da parte degli/delle alunni/e e delle famiglie, che non sempre sono nella stessa misura favorevoli alle innovazioni didattiche. Migranti. Il dossier di FdI: “Sentenza assurda e paradossale” di Francesco Malfetano La Stampa, 4 agosto 2025 E Fazzolari lavora ad un opuscolo celebrativo per i tre anni di Governo. “Assurda” e “paradossale”. Così Fratelli d’Italia bolla la sentenza della Corte di giustizia Ue sui Paesi sicuri, vista non solo come un colpo alla strategia sui rimpatri ma anche come un assist ai giudici per entrare a gamba tesa sulla politica migratoria italiana. Il verdetto di Lussemburgo, accusano i meloniani, rischia di produrre l’effetto grottesco per cui lo stesso Stato possa essere considerato sicuro da un tribunale e insicuro da un altro. A guidare la reazione è l’ufficio studi del partito, diretto dal deputato Francesco Filini, braccio operativo del sottosegretario Giovanbattista Fazzolari. Nelle ultime ore ha confezionato un dossier “riservato” - spedito ai parlamentari - che detta la linea: sentenza “sorprendente”, quadro normativo “destinato a essere superato” e un chiaro avvertimento che la decisione “indebolisce le politiche di contrasto alle migrazioni illegali di massa”. Dentro anche la replica alle polemiche sui costi dell’intesa con l’Albania su cui Meloni ha provato a fondare la sua politica migratoria: “Con Draghi è costata 4,2 miliardi”. La mossa si inserisce in una regia più ampia. In parallelo, Fazzolari sta coordinando la realizzazione di un opuscolo celebrativo per i tre anni del governo, attesi a ottobre: ai ministeri e ai dipartimenti è già arrivata la richiesta di schede sintetiche sui risultati ottenuti, da trasformare in materiale comunicativo. E c’è da scommettere che al calo degli sbarchi registrato dal 2022 ad oggi verrà riservata una parte d’onore. Un lavoro che, a Palazzo Chigi, serve a tenere unita la narrazione di governo e a farsi trovare pronti nei passaggi più delicati, come le elezioni Regionali di questo autunno. Intanto, sul fronte politico, gli alleati non stanno a guardare. Da Villa San Giovanni, Antonio Tajani affonda: “Come fa un magistrato a sapere se un Paese è sicuro? È lavoro della nostra diplomazia”. Il vicepremier chiede che il nuovo regolamento europeo entri in vigore “prima di giugno” per attenuare gli effetti di una sentenza che “può trasformare l’Italia nel Paese del Bengodi per trafficanti e immigrazione irregolare”. Durissima anche la Lega, che parla di “assalto delle toghe rosse” e annuncia per l’autunno una mozione di sfiducia contro Ursula von der Leyen, accusata di non saper proteggere i confini europei e di portare avanti un “folle green deal” dannoso per famiglie e imprese. Ma da Bruxelles arriva la vera novità, incastonata nel nuovo corso dovuto all’inizio del semestre di turno della presidenza danese, considerata in particolare sintonia con Meloni. Un portavoce della Commissione europea ricorda che i rilievi della Corte sono già previsti nel nuovo Patto migrazione e asilo, e che Palazzo Berlaymont ha già proposto di anticiparne l’entrata in vigore, evitando di attendere giugno 2026 come da calendario. Il regolamento consentirà di designare come sicuro un Paese terzo anche solo in parte o escludendo determinate categorie di persone. “Incoraggiamo Parlamento e Consiglio a procedere il più rapidamente possibile” - l’invito che, a Roma, viene letto come una sponda da cogliere prima possibile, magari già al Consiglio europeo che si terrà il prossimo ottobre. Fine dei conflitti, gli italiani non ci credono più di Alessandra Ghisleri La Stampa, 4 agosto 2025 Da marzo è cresciuta la percentuale di persone convinte che le guerre alle porte dell’Ue non si concluderanno: “Leader ed Europa non proteggono i popoli”. Dopo quasi tre anni e mezzo di conflitto, la speranza di una pace duratura in Ucraina sembra affievolirsi anche tra gli italiani. Il prolungarsi della guerra, l’incertezza sul fronte diplomatico e l’apparente impasse militare sui due fronti stanno alimentando un crescente scetticismo nell’opinione pubblica nazionale. Secondo gli ultimi sondaggi di Only Numbers, sempre più cittadini si interrogano sull’efficacia delle strategie adottate finora e temono che la fine delle ostilità sia ancora lontana (53,3%). E pensare che solo a marzo 2025 erano in maggioranza coloro che riuscivano a credere ad una fine della guerra imminente (41,9%), forse ancora ipnotizzati dalle dichiarazioni di Trump insediatosi poco più di un mese prima. Un clima di disillusione che riflette non solo la complessità della situazione internazionale, ma anche il desiderio, sempre più diffuso, di una svolta concreta verso la fine della guerra. A rendere ancora più cupo l’orizzonte geopolitico è anche la situazione in Medio Oriente. Dopo mesi di escalation e violenze, la maggioranza degli italiani guarda con preoccupazione all’evolversi del conflitto tra Israele e Hamas, percependo la prospettiva di una pace duratura come sempre più remota (61,4%). Le immagini di civili colpiti, la carestia del cibo, le foto dei bambini sofferenti, la paralisi diplomatica e la frammentazione degli attori coinvolti contribuiscono a diffondere un senso di impotenza e sfiducia. A conferma di questa crescente consapevolezza, quasi l’80% degli italiani riconosce che a Gaza si è di fronte a una vera e propria emergenza umanitaria. Un dato che mostra come, nonostante il disincanto verso le dinamiche geopolitiche e diplomatiche, l’opinione pubblica non abbia smarrito del tutto la propria capacità di empatia e attenzione verso le vittime dei conflitti. La percezione del dramma umanitario a Gaza è diffusa trasversalmente, superando spesso divisioni politiche e ideologiche. Tuttavia, questa sensibilità non sembra tradursi in un sostegno convinto alle azioni internazionali, spesso giudicate inefficaci o troppo lente. Anche in questo caso, prevale l’impressione che la comunità internazionale stia fallendo nel suo compito più urgente: proteggere le vite umane e porre fine alle sofferenze civili. Questo duplice scenario infatti - Ucraina da una parte, Medio Oriente dall’altra -, contribuisce a una crescente stanchezza dell’opinione pubblica italiana nei confronti dei conflitti internazionali. Non si tratta solo di un calo dell’interesse mediatico, ma di una più profonda disillusione nei confronti della politica internazionale e della sua capacità di risolvere le crisi. In entrambi i casi, ciò che manca - secondo molti cittadini - è una leadership globale, capace di mediare, proporre soluzioni e, soprattutto, farle rispettare. A rendere ancora più marcata la frattura tra cittadini e istituzioni è la percezione di una risposta europea troppo debole (50,7%), spesso tardiva o frammentata. Sia nel conflitto in Ucraina sia nella crisi di Gaza, l’Unione europea fatica a trovare una linea comune e incisiva, lasciando campo libero alle grandi potenze e relegando sé stessa a un ruolo secondario. Questo atteggiamento prudente - se non addirittura passivo - ha contribuito ad alimentare la sensazione di un’Europa incapace di esercitare una vera influenza nei dossier più critici della scena internazionale. Una distanza che, agli occhi di molti cittadini italiani, rende ancora più remota la possibilità di costruire percorsi credibili verso la pace. Intanto, mentre la guerra continua, le speranze di pace si allontanano, e con esse anche la fiducia nella diplomazia. In un panorama segnato da disillusione e incertezza, colpisce un dato: le preoccupazioni degli italiani sui conflitti in Ucraina e in Medio Oriente attraversano quasi trasversalmente tutte le appartenenze politiche. Ad eccezione degli elettorati di Lega e Alleanza Verdi e Sinistra - che ritengono l’Unione europea fin troppo aggressiva nel suo approccio - la maggioranza dei cittadini appare unita nella critica verso una risposta europea ritenuta debole, inefficace o semplicemente irrilevante. Questa sorprendente convergenza suggerisce che, al di là delle ideologie, l’opinione pubblica italiana percepisce con lucidità i limiti dell’azione diplomatica e militare delle istituzioni occidentali. La crescente disillusione nei confronti delle soluzioni proposte dalle istituzioni occidentali è alimentata anche da un’informazione più pluralista e da una società civile attenta, che non si accontenta più di narrazioni semplificate. E mentre le guerre si trascinano e le emergenze umanitarie si aggravano, cresce la distanza tra le aspettative dei cittadini e la capacità delle leadership internazionali di offrire soluzioni credibili. In un tempo segnato da crisi prolungate, forse è proprio da questa consapevolezza condivisa che dovrebbe ripartire ogni tentativo serio di costruire una politica estera più coerente, giusta e orientata davvero alla pace. I fatti contano più delle parole di Concita De Gregorio La Repubblica, 4 agosto 2025 Ci possiamo anche accapigliare sul termine genocidio. Se sia un copyright a uso esclusivo della Shoah, perché questa è la questione, o se sia una definizione - si può consultare il vocabolario Treccani, online, gratuitamente - che descrive “la sistematica distruzione di una popolazione, una stirpe, una razza o una comunità religiosa” e decidere se si attaglia o meno a quello che stiamo vivendo. Deciderlo in autonomia. Senza per questo aderire a una o all’altra fazione di commentatori in campo. Senza per questo militare per l’uno o per l’altro dei Paesi in guerra. Senza neppure sfiorare il tema dell’antisemitismo, esecrabile sempre. Ci possiamo accapigliare sul termine - la formale questione lessicale - senza considerare per esempio che per chi è sopravvissuto ai campi di sterminio sia dolorosissimo, direi impossibile, associare questa parola allo Stato di Israele. Nel caso di Liliana Segre un testacoda della Storia umanamente irricevibile. Ma sarebbe un peccato, no?, dividersi sull’uso della parola perdendo di vista la sostanza del problema: e che problema. L’abisso sulla disumanità, il tramonto della ragione e il declino delle democrazie, la possibilità di esercitare il logos, la parola, al posto della forza. La capacità degli uomini, nel Ventunesimo secolo, di non rispondere ad abominio con abominio peggiore, maggiore. Invece è quello che succede. Ovunque. Per strada, sui mezzi, nelle sale colazione degli alberghi di vacanza, sui giornali e soprattutto, certo, sui social. Si discute di parole usandole come armi e come scudi. Come spartiacque della nuova battaglia fra giusti e ingiusti. Tu di qua, io di là. A chi appartieni, da che parte stai. Dici genocidio o non lo dici: allora prego, questa è la tua fila. Non solo. Non basta dirlo o non dirlo. Bisogna anche averlo detto per tempo, fin dall’inizio e per primi. Chi si è schierato due anni fa non parla con chi lo ha fatto un anno dopo e detesta chi si è unito da ultimo: troppo tardi, mi spiace. Troppo comodo. Bisognava dirlo prima. E così le due fazioni della guerra lessicale si dividono in sottoinsiemi, nemici a sé stessi pur quando in accordo: i purissimi, i puri, i semipuri, i sospetti opportunisti. Come se non fosse questo, lo scopo di ogni militanza: fare proseliti ovunque e in ogni momento, allargare le fila e non serrarle attorno al club dei detentori della Parola. Come se non fosse, lo scopo di ogni opposizione, quello di farsi sempre più larga fino a diventare maggioranza: e come, mi domando, si allarga un’opposizione se non convincendo sempre nuovi seguaci che fino a quel momento la pensavano diversamente, o non pensavano, o pensavano e tacevano? Non è forse questo, l’obiettivo dei Migliori? Generare consenso, risvegliare le coscienze, alimentare movimento che diventi massa critica? Credevo, pensavo, ma no. Vedo che le polemiche sono tutte strette nelle stesse metà campo e vedo, per giunta, che le più recenti consapevolezze sono denigrate, irrise e disprezzate dalle più remote. Ti sei svegliato solo perché lo ha detto Grossman? Eh, non va bene. Troppo tardi, appunto. Dovevi parlare prima. Non vorrai mica togliermi la patente di unica voce libera nel deserto. La patente del miglior dissenso, del più radicale consenso. È una professione anche quella, del resto. Ma non basta. La discussione sul più divisivo dei termini, il nuovo ottovolante del dibattito pubblico - come se intanto non morissero centinaia di persone mentre qui discutiamo - si può estendere a ogni “polemica del giorno”. Quanti, tra quelli che parlano, sanno di cosa stanno parlando? Non dico gli esperti di geopolitica, di conflitto mediorientale, di terrorismo, di servizi segreti. Questi sono una minoranza di competenti. Gli altri: quanti fra coloro che discutono in questi giorni hanno per lo meno letto per esteso le interviste a Grossman, a Liliana Segre, su questo giornale? Non moltissimi, altrimenti avrebbero colto la consonanza di intenti e di pensiero ben al di là della scelta delle parole per dirlo. I fatti pesano più delle parole, sempre. Sono da molte settimane in viaggio in Italia per lavoro. Ho conversazioni continue con centinaia di persone anche avvedute, anche colte, sinceramente intenzionate a partecipare alla vita pubblica che iniziano sistematicamente la discussione con “ho sentito dire che”. In questo caso. Ho sentito dire che la senatrice Segre non è d’accordo con Grossman. Da chi, domando. Non so, non mi ricordo, alla radio mi sembra. In una rassegna stampa. In un talk in tv. Ha letto le interviste? Chiedo. No, non sono abbonato, ho letto i commenti, mi ha detto un imprenditore del Nord che, premuroso, mi accompagnava. Ma le interviste perché non le ha lette? Non ho avuto tempo. Guardi che ci vogliono sette minuti, sette minuti sono molto meno del tempo che stiamo impiegando qui per riassumere una serie di commenti a caso che parlano di qualcosa che lei non ha letto. Non si spazientisca, mi ha detto. Non mi spazientisco, dico solo che potrebbe facilmente farsi un’opinione propria, potremmo così parlare sulla base di una comune conoscenza dei fatti. Sarebbe meglio, no? Non ho più un problema da molti anni a sentirmi dire da chi ignora - poniamo - chi fosse Licio Gelli, cosa sia accaduto al G8 di Genova, cos’era il piano Fanfani e come è morto Aldo Moro che “faccio la maestra”, che “pretendo di insegnare”. Non ho niente da insegnare a chi conosce la storia meglio di me, naturalmente. Non cerco che questo: continuare a stupirmi, a imparare. Agli altri posso obiettare che c’ero e mi ricordo. Non ho bisogno di dimostrare cosa facevo e pensavo quaranta, trenta, venti e dieci anni fa, ma nemmeno nel semestre scorso: lo so bene e non sento la necessità di scriverlo in bio su Instagram per chi lo ignorasse e trovasse improba la fatica di documentarsi. Non è questo il punto. Non è mai un fatto personale. È un disastro collettivo, questo parlare di niente. Questo ho sentito dire ma non ho letto. Questo dicono che. Questo confondere i fatti con le opinioni, con dolo o con colpa. Lo diceva Mattarella, l’altro giorno. Non esiste la libertà di menzogna, i fatti hanno forza incoercibile. Bisogna conoscerli, però. Essere in grado di distinguerli. Al di là della facile e inutile battaglia sulle parole. I fatti, oggi: chiamateli genocidio o chiamateli Ugo. I fatti, gentilmente: quali sono. Gaza, umanità sul baratro e coscienze sospese di Maurizio Maggiani La Stampa, 4 agosto 2025 Il finale appare chiaro: l’edificazione del regno dell’odio, preludio a un impero globale. Com’è possibile che il patrimonio della cultura ebraica si sia dissolto nella crudeltà? La mia sposa è più giovane di me, parecchio più giovane, e questo mi pone quotidianamente in svariate occasioni nella condizione di servile inferiorità, ma anche di godere di qualche signorile privilegio. Ma che dico, un unico, solo privilegio, quello di avere più ricordi. Le mie memorie si perdono nella notte dei tempi, e per pura, semplice e non di rado stolida esperienza, so più cose di lei. Capita spesso, lei è la regina delle interrogazioni, che si ponga domande circa le pregresse ragioni soggiacenti all’oggi senza potersi rispondere, non tutto è nella montagna di pagine che ha letto e studiato, e invece ecco che io qualcosa di utilizzabile per una risposta sensata riesco a trovarlo, in questo modo giustificando la mia presenza in questa nostra casa così piena di libri e ingombra di domande. È bello quando scopro di avere qualcosa da dirle, quando mi ascolta e ci pensa un attimo prima di riprendermi e puntualizzare, è bello che succeda a cena, come fosse il nostro telegiornale antagonista, e si vada avanti finché non ci decidiamo a sparecchiare. È bello poter pensare, ecco ci stiamo dando una mano a preservare la dignità di esseri pensanti ancorché dolenti, perché questo è il tempo disadorno della dolenza e il nostro dovere è di non esserne sopraffatti. Oh, sì, è bello quando funziona, ma proprio adesso, quando ne stiamo sentendo impellente il bisogno, non sta funzionando. Non so niente di più di quanto ne sappia lei, non ho nessuna esperienza, nessuna memoria buona da spendere quando lei si chiede, puntando il suo sguardo così fermo e indomito sul mio che si sfarina nell’incertezza, come è possibile? Lei sta pensando alla Palestina, e io non so rispondere. Io non so come il tutto con dentro la Palestina sia davvero possibile, qui, ora, intorno a noi, alla nostra tavola dove giacciono ancora tiepide delle magnifiche triglie alla livornese. I lunghi anni della mia epoca fiorenti di tragedie non sono bastati ad addestrarmi per comprendere e vivere su questo baratro di disumanità, nonostante tutto sono stati anni in cui era pur lecita qualche speranza, il gran finale non era stato ancora scritto da nessuno, nemmeno dal più prepotente tra i potenti, e questa era la certezza morale che sorreggeva ogni speranza. Oggi, e domani e dopodomani, c’è qualcuno al mondo che esercitando ragione e volontà possa nutrire una qualche speranza per la Palestina? E dico Palestina per indicare ora la parte più cocente per il tutto. No, nessuno; tutto è stato pensato e fatto, si sta facendo e pensando perché il finale appaia ben chiaro, ineluttabile e insindacabile, l’edificazione del regno dell’odio, un regno preludio a un impero globale. Come è possibile? Non lo so, non riesco a farmene una ragione di come si siano potuti rompere tutti gli argini, alcuni al mio tempo poderosi, perché dilaghi l’indecenza, l’impunità, la menzogna, l’arbitrio. Dov’ero io intanto che accadeva? Se avessi fede avrei da proporre alla mia sposa almeno la certezza di una buona ragione, la morte di Dio. È già successo e non una sola volta, e questa potrebbe anche non essere l’ultima, dipenderà da quanto sapremo sopravvivere a noi stessi, alla spoliazione di ciò che chiamiamo umanità, Dio muore ogni volta che muore l’umano. È un’idea antica quella dell’umanità, fratello è una delle parole più remote che si conoscano nel bacino linguistico indoeuropeo, un’idea che ha maturato il sapiens come rimedio al terrore che ha di se stesso, di quello che la sua dominanza lo rende capace di compiere in qualità di specie sterminatrice. L’Umanità è un’illazione, una costruzione intellettuale, un genere di conforto, una medicina, madre feconda di molto pensiero di struggente bellezza e di molto agire di inestimabile valore, ma l’umanità non ha mai cessato di cogliere ogni buona occasione per farsi disumana, che sia in nome di Dio, in nome della Ragione o in nome di se stessa. Gli exempla fateveli da voi, ce ne sono più di quanti ne sappiate contare. Uno ve lo voglio offrire io, perché mi preme ricordare che non c’è nessuna inevitabile relazione tra disumanità e ignoranza. È una storia vecchia di sedici secoli, una piccola storia, piccola come altre migliaia che hanno fatto la storia grande; attiene a Aurelio Ambrogio, santo delle chiese cattoliche d’Occidente e d’Oriente, dottore della chiesa romana, grande intellettuale, grande politico, consigliere personale dell’imperatore Teodosio, amatissimo, come si sa, nella città di Milano a cui la sua finezza di mediatore di ampia disponibilità risparmiò il sacco barbarico. Ebbene, il santo Ambrogio scrive al suo imperatore una lettera rimproverandolo aspramente di aver sancito come reato l’incendio delle sinagoghe da parte dei cristiani radicalizzati; il dottore della chiesa finemente argomentava di non potersi considerare crimine, bensì “atto glorioso” perché “non può esistere un luogo dove Dio è negato”, del resto nei suoi scritti e nelle sue azioni appare chiaro come non possono considerarsi pienamente umani coloro che negano Dio, e quindi gli ebrei, gli ariani, i pagani, ragion per cui la loro eliminazione non può considerarsi omicidio. Basterebbe anche un solo sant’Ambrogio per spingere Dio alla fuga dall’uomo e l’uomo dalla sua umanità, ma se ne contano sterminati precursori e emulatori lungo tutta la storia conosciuta. Io, che un Dio non ce l’ho né da far vivere né da far morire, io che ho ancora forte a premermi sul cuore l’imperativo di credere a un’umanità redenta dalla sua disumanità e sperare che questo possa accadere nel corso della sua storia, io non lo so come sia possibile, ancora la parte più cocente per il tutto, ciò che accade in Palestina per mano di una nazione nata dai pochi salvi dalla disumanità, una nazione che si è voluta edificare su un’utopia e ora si mostra al mondo con il volto ghignante dei suoi ministri che si stanno godendo lo spettacolo di un annientamento ordinato al fiore della sua gioventù. Come è possibile che l’immenso patrimonio di saggezza, di tolleranza, di cosmopolita empatia, di sapienza, della cultura ebraica, proprio là dove dovrebbe essere custodito con la massima cura possa essersi dissolto nella pia ferinità così cara a sant’Ambrogio? Infine è la mia sposa che trova modi di rispondere. Lei svolge attività di insegnamento volontario in un grande carcere del Nord; l’altra settimana, intanto che aspettava l’espletamento della tiritera burocratica per radunare i suoi alunni, ha sorpreso un agente di custodia in atteggiamento piuttosto sospetto, stava leggendo un libro. E che libro, I Fratelli Karamazov. Visto che la convocazione degli alunni continuava ad andare per le lunghe, in carcere tutto ciò che ha un senso va per le lunghe o non va per niente mentre tutto ciò che è privo di senso viaggia senza freno alcuno, ha avuto modo di conversare con l’agente e ha scoperto che non solo era un lettore, ma lo era fortissimamente, infatti assieme ai Fratelli stava leggendo la Recherche, la monumentale opera memoriale di Marcel Proust, due classici che più classici non si può, testi che pongono al lettore interrogativi esistenziali e morali fondamentali. E così lei viene a sapere che l’agente avrebbe fatto volentieri studi superiori di letteratura, la sua passione e la sua missione, ma le contingenze materiali lo avevano sospinto fin lì, a svolgere un lavoro massacrante e alienante. E alla ovvia domanda su come potesse conciliare le due cose. L’agente ha risposto con sincero candore, bisogna solo sospendere la coscienza. E gli credo, credo che nel sistema carcerario italiano non resti praticamente nulla del dettato costituzionale, ridotto a un inferno lambito qua e là da sparute chiazze di purgatorio; un luogo di puro supplizio e alienazione dove l’unico modo di sopravvivere, indistintamente per detenuti e agenti di custodia, sia nella sospensione della coscienza. E allora tutto può procedere. E non è forse questo, la sospensione della coscienza, il massimo gesto possibile di libero arbitrio, che basta a fare della Palestina e del mondo intero, perché la Palestina è sempre e comunque la parte per il tutto, un immondo carcere in cui tutto può procedere? Con una certezza, la coscienza non ha un interruttore che si possa spegnere e riaccendere, non è un abito che si possa portare in lavanderia. Il dramma delle sparizioni forzate in Venezuela: la denuncia di Amnesty International di Sara Coico ultimavoce.it, 4 agosto 2025 Le sparizioni forzate in Venezuela sono al centro dell’ultimo report di Amnesty International intitolato “Arrestati senza lasciare tracce: il crimine di sparizione forzata in Venezuela” il quale, tramite ricerche condotte in un periodo di 10 anni, mette in luce la macchina repressiva delle autorità venezuelane. In particolare, sarebbero 15 i desaparecidos durante le scorse elezioni presidenziali che si sono concluse con l’ennesima vittoria di Nicolás Maduro, a cui si aggiungono più di 2000 arresti arbitrari e ulteriori violazioni dei diritti umani. Le sparizioni forzate in Venezuela, come sottolinea Amnesty International, sono una pratica ormai sistematica e utilizzata in modo massiccio a partire dagli anni 50 per silenziare gli oppositori politici. Esse costituiscono una violazione dei diritti umani in quanto coinvolgono agenti dello stato e sono caratterizzate dal diniego dell’arresto della persona in questione. Nel periodo che va dalle elezioni del 28 luglio 2024 al 15 giugno 2025 la nota ONG ha rilevato un aumento dei casi di sparizioni forzate in Venezuela nei confronti di (spesso presunti) dissidenti che in molti casi sono scomparsi per mesi. Come viene specificato dal report, gran parte dei 15 desaparecidos (soprattutto attivisti politici) sono state private della loro libertà senza alcun fondamento legale e in diversi casi la detenzione - spesso effettuata da funzionari statali non identificati - è stata utilizzata come pretesto per giustificare alcune narrazioni e cospirazioni contro cittadini stranieri, nel campo della cosiddetta “diplomazia degli ostaggi” perpetrata dal governo di Maduro. Inoltre, Amnesty International ha riscontrato che gli individui scomparsi forzatamente sono stati privati anche delle principali garanzie procedurali, come conseguenza della subordinazione del sistema giudiziario agli interessi governativi. Tra le violazioni più eclatanti si segnalano: le udienze preliminari tenute segrete, l’imposizione di difensori d’ufficio non in grado di svolgere i propri doveri, tribunali privi di indipendenza (i cosiddetti ‘tribunali antiterrorismo’ creati ad hoc) e la mancanza di informazioni sul luogo di detenzione ai familiari della vittima. Ad oggi, la sorte di 11 delle 15 persone scomparse esaminate nel report è ancora sconosciuta e il numero di desaparecidos totali è addirittura salito a 46 individui. Una strategia metodica e repressiva che non risparmia nessuno - Tra i casi esaminati da Amnesty spicca quello di Eduardo Torres, attivista e avvocato dell’organizzazione per i diritti umani PROVEA, scomparso dopo aver lasciato una riunione di lavoro a maggio 2025 e accusato di far parte di una “rete terroristica”. I ricorsi e le petizioni presentate dalla sua famiglia sono state tutte respinte. Il giornalista e direttore de “La Patilla” Rory Branker, invece, è stato arrestato per le sue critiche nei confronti del governo: vittima di un agguato mentre era in macchina con un collega, Branker è stato arrestato da due persone armate in borghese e portato a El Helicoide, il quartier generale del Servizio di Intelligence Nazionale Bolivariano (SEBIN). L’oppressione governativa ha anche colpito categorie già fragili e marginalizzate: ne è un esempio la vicenda di Yevhenii Petrovich, uno studente ucraino autistico e con ADHD che è stato arrestato mentre cercava rifugio al confine con la Colombia. Appare così chiaro che questi non sono fenomeni isolati ma parte di un sistema più ampio basato sulla militarizzazione, sulla paura e sull’escalation della violenza che ha preso piede in Venezuela nell’ultimo decennio. Le sparizioni forzate sono molto di più che una violazione dei diritti umani - Secondo le parole di Agnès Callamard, Segretaria generale di Amnesty International, queste sparizioni forzate non costituiscono solo una violazione dei diritti umani ma sono addirittura un crimine contro l’umanità in quanto “sono compiute nell’ambito di un attacco generalizzato contro un settore della società civile”. Le istituzioni responsabili non potranno rimanere impunite a lungo: infatti, il Venezuela ha firmato la Convenzione Internazionale per la Protezione di tutte le Persone dalla Sparizione Forzata ed è uno Stato parte della Convenzione Interamericana in merito, per cui non è esente dai suoi obblighi internazionali in materia di diritti umani. È ora che il Venezuela e l’intera comunità internazionale implementino le raccomandazioni fornite da Amnesty e da tutte le altre ONG che difendono i diritti umani e le buone pratiche democratiche. Mentre Maduro e il suo governo vengono percepiti sempre di più come i reali responsabili dell’isolamento internazionale e della disgregazione della democrazia, la lotta della società civile per la libertà di pensiero e la sua voglia la giustizia si qualificano come la principale speranza per il ripristino dei diritti umani nel Paese.