Una redazione e un giornale in carcere: Ornella Favero e l’esperienza di Ristretti Orizzonti di Raffaella Tallarico gnewsonline.it, 3 agosto 2025 Carcere, quando il volontariato è una vocazione: incontri con i protagonisti. Ornella Favero ci racconta la sua storia dopo una riunione di redazione. Lei è la direttrice di Ristretti Orizzonti, la rivista pensata e scritta dai detenuti del carcere Due Palazzi di Padova. Interprete di russo e giornalista, nel 1997 entra nel penitenziario veneto - dice - “in modo casuale”, tramite la sorella che insegna nell’istituto. Tiene una lezione per i detenuti sul mondo dell’informazione. I partecipanti le dicono: “non ci sentiamo rappresentati dall’immagine che i media danno di noi; perché non ci aiuti a creare qualcosa?”. Un anno dopo esce il primo numero dello storico bimestrale. Ventisette anni di Ristretti Orizzonti; qual è il segreto di tanta longevità? La continuità. Non credo nei progetti spot, quelli che durano il tempo di un finanziamento. Noi abbiamo sempre continuato a lavorare, anche nei momenti in cui non c’erano risorse. In un carcere la continuità è veramente una garanzia di qualità. È per lanciare il messaggio ‘noi ci siamo’, anche nei momenti di difficoltà. Questo conta tanto, perché vedere le persone ogni giorno e vederle due ore a settimana cambia. Solo con l’assiduità le conosci, e puoi fare un lavoro sulla crescita personale. Affrontare a viso aperto le difficoltà… Non a caso il simbolo di Ristretti Orizzonti è il tavolo dove facciamo le riunioni di redazione. Dove discutiamo ogni giorno, a volte ferocemente, di quello che succede. Il periodico è molto curato, non è scontato... Fin da subito ho voluto che fosse un prodotto di qualità, dal luogo più senza qualità come è un carcere. Non doveva essere il classico giornalino. Anche nei contenuti: discutiamo molto delle criticità del sistema, ma i “toni urlati” li evitiamo sempre; tolgono forza alle cose che vengono scritte. E poi, abbiamo spinto perché Ristretti non fosse un giornale di respiro ‘locale’, concentrato sui problemi quotidiani dei detenuti. Per fortuna è stato creato uno sportello di ascolto con dei volontari molto bravi, e questo ci ha permesso di non legare il giornale a ogni minimo problema interno, e di affrontare temi un po’ più generali, come la condizione carceraria nel nostro Paese. Come nasce un giornale in carcere? Da un punto di vista materiale facciamo tutto dentro: l’elaborazione dei contenuti e la scrittura. Un ex detenuto cura l’impaginazione e la grafica, attività che faceva anche mentre era recluso. Poi affidiamo la stampa a una tipografia esterna. Com’è la vita di redazione? Adesso abbiamo un ‘gruppone’ con più di 30 persone, e sono proprio fisse. Ci sono dei turni, perché qualcuno lavora e magari cerca di farsi dare un orario la mattina presto, all’alba, per venire a Ristretti; oppure viene nel pomeriggio. Poi ci troviamo sempre alle riunioni di redazione: dall’una alle tre e mezza, tutti i giorni tranne il sabato. Tra l’altro, stiamo facendo un percorso di formazione particolare: una parte già terminata sulla mediazione, e adesso una seconda parte con un autore di podcast; quindi, cerchiamo sempre anche di fare in modo che le persone crescano in questa attività. Fate anche altri progetti per i detenuti? Sì, che poi sono quelli che segnano il loro percorso, al di là di essere degli indubbi spunti di scrittura. Quest’anno abbiamo fatto 40 incontri, ciascuno con un paio di classi delle scuole, e anche fuori, con detenuti in permesso. Questo progetto è fantastico, perché loro stessi mi dicono ‘quando parlo con gli studenti, e gli racconto la mia vita e in cosa sono scivolato… penso di avere di fronte mio figlio’. E poi il percorso con le vittime, per esempio del terrorismo o nell’ambito dei reati contro le donne. Abbiamo portato in redazione Agnese Moro, Lucia Annibali, Gino Cecchettin. Incontri sicuramente segnanti. Ha trovato delle difficoltà nel realizzare questo progetto? No, perché abbiamo avuto la fortuna di lavorare con un direttore, Carmelo Cantone, che io ritengo illuminato. Ora è in pensione ed è stato anche vicecapo del Dap. Nei primi anni di vita della redazione lo abbiamo intervistato, e ci disse “io sono il direttore del carcere, non del giornale; siete voi che dovete gestirlo in modo intelligente, aperto”. Con lui, e finora, abbiamo sempre lavorato con la fortuna di non dover combattere per quelle cose che spesso non sono così apprezzate in carcere, come fare informazione. Abbiamo avuto ampia apertura, e questo ha influenzato in modo positivo la crescita di Ristretti. Non abbiamo avuto quelle difficoltà che hanno alcune esperienze editoriali nei penitenziari. Per esempio, come Coordinamento dei giornali del carcere, siamo alle prese con il fatto che in alcuni istituti non autorizzano le persone detenute a firmare con nome e cognome, se loro vogliono farlo; oppure una lettura preventiva degli articoli. Noi non abbiamo mai avuto problemi di censura o di pre-lettura. Questo perché la testata Ristretti Orizzonti è stata subito registrata in tribunale. Abbiamo piuttosto avuto problemi di autocensura. In che senso? Soprattutto all’inizio ricevevo questi pezzi da correggere con mezza pagina di ringraziamenti, alla direzione, agli educatori, ai magistrati. E quindi ho deciso di abolire i ringraziamenti (ride n.d.r.), perché è una cosa insopportabile. È vero che si tratta di persone che stanno compiendo una sorta di ‘scalata’ verso la libertà; quindi alcuni detenuti, com’è ovvio, hanno un occhio di riguardo per chi può contribuire a darla. Ma abbiamo sempre cercato di evitare un atteggiamento subalterno. E chi esce dal carcere? Resta in qualche modo legato a Ristretti? C’è una colonna portante della redazione, Elton Kalica, che è quello che ancora oggi cura l’impaginazione e la grafica del giornale. Si è laureato in sociologia in carcere, poi è uscito. Ora è un ricercatore e scrive tantissimo, ha sempre scritto per la rivista. Ma ci sono altre persone che hanno finito di scontare la pena e che lavorano in altri campi, che sono rimaste legate all’esperienza di Ristretti in vario modo. Se si crea un legame, l’approccio pare funzionare... Pare di sì. Del resto, la rieducazione dev’essere un percorso che riguarda anche noi: esterni, volontari, operatori, perché non si cambia da soli, e non è che devono cambiare solo le persone detenute. Io stessa ho cambiato moltissimo il mio approccio alle persone, la mia capacità di ascolto, grazie a questo progetto. Rieducazione è anche mettersi in gioco tutti, non è dire al detenuto “ti rieduco io”. L’obbedienza è spesso considerata una virtù in ambito carcerario; non è affatto così. “Piano carceri”, ovvero il grande inganno del cemento di Davide Beltrano* ildispaccio.it, 3 agosto 2025 E il Sud continua a pagare il prezzo più alto. “È una di quelle pagine nere che tornano sempre, uguali, drammatiche. Quella del sovraffollamento carcerario non è solo una questione tecnica. È una ferita aperta nella nostra coscienza civile, una vergogna che riguarda tutti, perché dice chi siamo, e quanto valga davvero la vita umana nel nostro Paese. I numeri parlano chiaro: oltre 62.700 detenuti per meno di 47.000 posti regolamentari. Un’emergenza che dura da decenni, e che da quando si è insediato l’attuale governo è addirittura peggiorata: 6,5 detenuti in più ogni giorno, a fronte di un solo nuovo posto ogni otto. Il risultato? Celle sovraffollate, tensioni esplosive, e un dato ormai intollerabile: l’aumento vertiginoso dei suicidi in carcere. E come spesso accade, è il Sud - e la Calabria in particolare - a pagare il prezzo più alto. Perché qui il sistema penitenziario sconta da anni strutture inadeguate, personale ridotto all’osso, servizi assistenziali e sanitari insufficienti. Le carceri di Cosenza, Rossano, Catanzaro, Vibo raccontano ogni giorno una realtà che chi vive lontano dalle sbarre non può nemmeno immaginare: celle stipate, turni massacranti per gli agenti, assistenza psicologica praticamente assente. In questo contesto, il ministro Nordio rilancia con una proposta che suona come un disco rotto: più cemento, più container, più repressione. Lo aveva già annunciato un anno fa col decreto “Carcere sicuro”. Oggi ripropone lo stesso schema, affidando a Marco Doglio il ruolo di commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria, con l’idea di installare prefabbricati nei cortili delle carceri o riadattare vecchie caserme dismesse. Ma davvero possiamo credere che piazzare delle “casette d’emergenza” in strutture già al collasso sia una risposta seria a un problema strutturale? Nel frattempo, i reati aumentano, le pene si inaspriscono, le alternative al carcere vengono trattate come concessioni ideologiche. Ma la verità è una: il carcere italiano non rieduca, non cura, non reinserisce. Schiaccia. Lo ha detto chiaramente Mauro Palma, ex garante nazionale dei detenuti, in una lettera inviata a Giorgia Meloni: “Anche se davvero si costruissero i 15.000 posti promessi entro il 2028, non basterebbero. Oggi il sovraffollamento è già di oltre 16.000 unità, e continua a crescere”. Senza una visione diversa, si continuerà a inseguire l’emergenza con strumenti vecchi e dannosi. E in Calabria, dove le occasioni di reinserimento sociale sono ridotte all’osso, la detenzione diventa spesso una condanna all’oblio. Nessun programma serio di recupero, poche strutture per i detenuti tossicodipendenti o affetti da disturbi mentali, zero percorsi di giustizia riparativa. Si entra in cella e si scompare. Eppure, un’alternativa esiste. E parte da un cambio di paradigma: il carcere non può essere solo punizione. Deve essere responsabilità, rieducazione, riscatto. Servono comunità, non container. Servono educatori, non solo agenti. Servono progetti, non muri. Finché non si avrà il coraggio di investire davvero in umanità e giustizia sociale, il carcere resterà una fabbrica di dolore. E il Sud, ancora una volta, ne sarà il capannone più buio”. *Giornalista e scrittore. L’estate in cella. Storie dal carcere di Rebibbia di Riccardo Carlino Il Foglio, 3 agosto 2025 Un impasto di acqua e farina per difendersi dalle blatte, water a vista e impiccagioni sventate. Visita ai detenuti dell’istituto penitenziario romano. Alcune storie le scopriamo solo quando finiscono. Dall’inizio dell’anno si contano 45 suicidi in carcere, dice l’ultimo rapporto di Antigone. Ma la morte è solo l’apice di una spirale drammatica che ogni giorno si vive negli istituti penitenziari italiani, e che si comprende bene solo entrandoci di persona. Lo ha fatto un’ampia delegazione di Nessuno tocchi Caino e della Camera Penale di Tivoli, passeggiando fra i bracci del carcere Rebibbia Nuovo Complesso: un’intera giornata di luglio dietro le sbarre, condensata in un report indirizzato al dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (Dap), che il Foglio è in grado di raccontare. Rebibbia è un colosso penitenziario da 1.566 detenuti, circa 500 in più rispetto ai posti regolamentari. A quasi mille di loro mancano meno di 4 anni per ritornare in piena libertà, ma oggi il sovraffollamento medio dell’istituto è pari al 146 per cento, superiore al dato nazionale del 134 per cento e ancora di più a quello europeo del 90. Gli agenti presenti nel giorno della visita erano 525, mentre gli educatori previsti in pianta organica solamente 16. Per garantire la gestione del carcere i turni sono massacranti, racconta l’associazione, e spesso non c’è abbastanza personale per scortare i detenuti in udienza, ma anche per le visite mediche esterne. Non sono di supporto neanche le nuove assunzioni della polizia penitenziaria, dato che gli organici sono per lo più formati da donne che non possono da sole fare vigilanza in sezione, soprattutto di notte. “Qui stamo ‘na crema”, ironizzano i detenuti del piano terra. In questa sezione dovrebbero rimanere pochi giorni, in attesa di andare altrove. In realtà, il sovraffollamento li costringe a restarci anche per mesi. In una cella ci sono sei detenuti arrangiati in qualche letto a castello e brande singole. Non c’è l’acqua calda e le docce sono tutte esterne. Le blatte nel bagno sono così tante che un detenuto ha deciso di risolvere da sé il problema otturando tutti i buchi della cornice della porta con un cemento “fai da te”, realizzato impastando zucchero, farina, colla e acqua. Un suo compagno di cella racconta di aver saltato per tre volte la visita esterna per le emorroidi. Per avere un po’ di sollievo le medicine deve acquistarle a sue spese. In quella cella un detenuto ha dei segni sulle labbra. Qualche mese fa si è cucito la bocca per la disperazione. Oggi però una comunità sarebbe pronta ad accoglierlo. Così dovrebbe essere anche per i detenuti con problemi di tossicodipendenza (circa il 40 per cento del totale del penitenziario), che in alcuni casi in base al nuovo Piano carceri dovrebbero beneficiare di una procedura più veloce per trasferirsi in una struttura socio-sanitaria. Per ora, anche quando il posto si trova, gli inghippi burocratici prolungano l’attesa a dismisura. Lo sa bene un detenuto del braccio G6, dedicato ai detenuti ad alto rischio. Dieci mesi fa ha tentato di impiccarsi, ma un appuntato è riuscito a impedirglielo. Per entrare in comunità gli serve una certificazione del Servizio per le tossicodipendenze, ma tutto è ancora bloccato perché la dottoressa che lo aveva in cura non lavora più lì. Al primo piano, alta sicurezza, la corrente elettrica funziona a intermittenza. Per andare in bagno si usa un water a vista, collocato nella parte di muro di fronte al letto e accanto alla porta di ingresso, senza alcun divisorio. Chiunque ci si sieda è ben visibile a tutti coloro che passano lungo il corridoio, dove tra l’altro ci sono anche le docce. La privacy dietro le sbarre non esiste, specialmente in una sezione dove i detenuti sono chiusi per più di 20 ore al giorno e le poche ore di socialità si passano nelle celle altrui, non essendoci una sala dedicata. In tutto ci sono quattro persone considerate ad alto rischio suicidario. In una cella più lontana ce n’è uno. Fa parte di quel 31 per cento di detenuti stranieri che popolano l’istituto. La sua storia si legge nelle ferite che ha sul corpo e sulla gola, alcune delle quali fanno sospettare un’infezione. Qualche giorno prima della visita ha cercato la morte in cella, ma è stato salvato dagli altri detenuti. Applicazione da manuale di quanto detto qualche settimana fa dal ministro della Giustizia Carlo Nordio: “Paradossalmente il sovraffollamento è una forma di controllo: alcuni tentativi di suicidio sono stati sventati proprio dai compagni di cella”. Nella stessa sezione c’è anche Francis Kaufmann, accusato del duplice omicidio della compagna e della figlia, trovate morte a giugno a Villa Pamphili. Si lamenta di non essere potuto ancora andare all’aria aperta, di faticare a dormire per le continue urla che provengono dalle altre celle e di avere difficoltà a farsi capire perché parla solo inglese. L’ultima cella del reparto esala un odore nauseabondo. La stanza è buia, le lenzuola sono sporche e la macchia di fumo sullo stipite della porta lascia intendere un incendio recente. Il detenuto che la occupa ha problemi psichiatrici e spesso non mangia per quasi una settimana intera. Attende di essere trasferito in Gambia, ma la sua condizione di salute gli impedisce di volare su un aereo di linea. Servirebbe, anche qui, una certificazione da parte di un perito del ministero dell’Interno. Nel frattempo, rifiuta ogni terapia che lo stabilizzi, e il caos quotidiano prosegue senza sosta. Più delle strutture vetuste, della sporcizia e del desiderio di evadere uccidendosi, a unire ogni storia è la solitudine. In ogni reparto, nei detenuti morde il bisogno di parlare della loro situazione e dei loro problemi. In prima accoglienza ad ascoltarli c’è un solo agente, su cui si riversano tutte le frustrazioni della popolazione detenuta. Quello di Roma è solo un piccolo tassello di un vergognoso e drammatico racconto collettivo. Quello di una emergenza ormai tristemente incardinata nella quotidianità. In cui le voci di oltre 62 mila persone rimbombano da ogni penitenziario italiano, finendo sistematicamente ignorate. Meriterebbero di essere ascoltate, prima che sia troppo tardi. Riforma della giustizia: cosa prevede il provvedimento al vaglio del Parlamento di Mirta Dei Il Messaggero, 3 agosto 2025 Il disegno di legge contenente la cosiddetta “riforma della giustizia”, approvata alla Camera e poi al Senato il 22 luglio scorso, tornerà presto al vaglio del Parlamento per una seconda lettura confermativa. Ma cosa prevede la riforma, e perché la magistratura e le opposizioni protestano? Separazione delle carriere e nuovo Csm - La riforma modifica il Titolo IV della Costituzione fissando due carriere separate per i magistrati requirenti (i pubblici ministeri) e i magistrati giudicanti (i giudici). Oggi la carriera è unica, ma il passaggio tra le due funzioni è possibile solo una volta entro dieci anni dalla prima assegnazione. Con la riforma, chi aspira a diventare magistrato dovrà decidere quale strada prendere fin dall’inizio del percorso in magistratura, e non potrà cambiare in seguito. Il provvedimento impone poi uno sdoppiamento dell’attuale Consiglio superiore della magistratura in “giudicante” e “requirente”, seguendo la separazione delle carriere dei magistrati. La composizione resterà identica - 30 membri, di cui lo sono di diritto il primo presidente e il procuratore generale della Corte di Cassazione, guidati dal Presidente della Repubblica - ma la designazione cambierà sensibilmente. L’elezione tramite sorteggio - I membri elettivi del Csm (cioè tutti, esclusi i 3 membri di diritto) si dividono in “togati” - magistrati di carriera - e “laici” - scelti tra docenti universitari di materie giuridiche e avvocati con almeno quindici anni di attività alle spalle. Oggi i membri togati sono scelti dai magistrati stessi, mentre i laici sono eletti dal Parlamento in seduta comune. Con la riforma voluta dal ministro della Giustizia Nordio, i membri togati saranno sorteggiati da una lista (di giudici per il Csm giudicante, e di pm per il Csm requirente), mentre i laici di entrambi i Csm saranno sorteggiati da un elenco stilato dal Parlamento durante una seduta comune, che dovrà sempre avere luogo entro sei mesi dall’insediamento di Camera e Senato dopo le elezioni politiche. I due Consigli, giudicante e requirente, eleggeranno il proprio vicepresidente in maniera autonoma l’uno dall’altro, scegliendolo tra i componenti indicati dal Parlamento. L’Alta Corte Disciplinare - Infine, la riforma prevede l’istituzione di un nuovo organo costituzionale: l’Alta Corte, che avrà il potere di svolgere i provvedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati (oggi in capo al Csm). L’Alta Corte disciplinare sarà composta da 15 giudici: 3 nominati direttamente dal Presidente della Repubblica, 3 estratti a sorte da un elenco stilato dal Parlamento, 6 sorteggiati tra i magistrati giudicanti e 3 tra i requirenti. Le proteste di magistratura e opposizioni - Le opposizioni hanno protestato in modo veemente contro la riforma costituzionale, anche durante il voto al Senato: i senatori del Pd hanno mostrato la Costituzione capovolta, quelli del M5S le foto di Falcone e Borsellino messe a confronto con quelle di Berlusconi e Licio Gelli (“maestro venerabile” della loggia massonica eversiva P2). Il leader di Avs Angelo Bonelli ha dichiarato: “È inquietante che oggi, con la cosiddetta riforma della giustizia, torni in discussione la separazione delle carriere, che era al centro proprio del programma della P2”, autrice della strage di Bologna, e che aveva tra i suoi obiettivi il controllo della magistratura. Per l’Associazione Nazionale Magistrati, la separazione delle carriere “determina l’isolamento del pubblico ministero, ponendo le premesse per il concreto rischio del suo assoggettamento al potere esecutivo”. In altre parole, un’ingerenza della politica nella magistratura, che sconfesserebbe il carattere autonomo e indipendente della giustizia, sancito dalla Costituzione. “Emerge un disegno di indebolimento della magistratura”, si legge nel documento approvato dal Comitato direttivo centrale dell’Anm. “Con un subdolo affidamento della direzione del Csm alla componente di nomina politica, e mediante l’attribuzione della competenza disciplinare ad un’Alta Corte”, un vero e proprio “tribunale speciale previsto solo per la magistratura ordinaria”. La posizione della maggioranza - “L’approvazione della riforma costituzionale della giustizia segna un passo importante”, ha scritto Giorgia Meloni sui social. “Oggi confermiamo la nostra determinazione nel dare all’Italia un sistema giudiziario più efficiente, equo e trasparente”. Il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha definito la riforma “Un grande sogno perseguito con tenacia dal presidente Berlusconi e da Forza Italia. Un sogno di libertà, di sicurezza, di garanzie per i cittadini”. Secondo i sostenitori del provvedimento, il metodo del sorteggio diminuirà il potere delle cosiddette “correnti” interne alla magistratura, ovvero dei gruppi di magistrati accomunati dallo stesso orientamento politico. Per Nordio, il ddl è “un passo molto importante verso l’indipendenza della magistratura da se stessa e dalle sue correnti”. Il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro ha detto: “La separazione delle carriere non è un attacco alla magistratura, ma una garanzia di parità tra accusa e difesa, con un giudice realmente equidistante dalle parti. Raddoppiamo le garanzie di tutti i magistrati, restituendo dignità a un’intera categoria”. La procedura - L’approvazione di una legge di revisione della Costituzione richiede una procedura molto lunga, con più passaggi. Il disegno di legge deve passare il vaglio della Camera e del Senato due volte, con deliberazioni ad intervallo di almeno tre mesi, e deve essere approvato a maggioranza assoluta dai componenti di ciascuna camera nella seconda votazione. Se la legge viene approvata a maggioranza di due terzi, è immediatamente adottata. In caso contrario, entro tre mesi dalla sua pubblicazione si può chiedere che venga sottoposta a referendum popolare. La richiesta può arrivare da almeno un quinto dei membri di una Camera, da 500,000 elettori o da cinque Consigli regionali. La maggioranza si aspetta il passaggio al referendum costituzionale, che anticipa nel 2026. E Nordio ha addirittura dichiarato: “Ho paura di vincere il referendum. Perché una sconfitta sarebbe un’umiliazione per la magistratura, che inciderebbe sulla sua credibilità, già pericolosamente crollata. Da cittadino e da magistrato non me lo auguro”. E ha aggiunto: “La giustizia è lacrime e sangue delle persone, non può essere strumentalizzata a fini elettorali”. Santalucia: “Il referendum interessa tutto il Paese. E Nordio offende i giudici” di Gabriella Cerami La Repubblica, 3 agosto 2025 L’ex presidente dell’Anm: “La separazione delle carriere sarà bocciata, gli italiani daranno prova di sensibilità democratica”. Carlo Nordio offende le toghe, “nelle sue parole non scorgo il doveroso rispetto per un’istituzione fondamentale come la magistratura”. Giuseppe Santalucia, che è stato presidente dell’Associazione nazionale magistrati quando l’attuale governo ha iniziato a parlare di separazione delle carriere, ancora oggi rivendica il diritto dei giudici di partecipare al dibattito illustrando la posizione contraria della categoria. Vi sentireste umiliati, come ha detto il ministro della Giustizia a Repubblica, se il referendum confermativo dovesse dare il via libera alla separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri? “Assolutamente no, non capisco il senso dell’affermazione del ministro Nordio. Non vedo dove possa esserci l’umiliazione, non è una battaglia della magistratura, non è una questione dei magistrati ma interessa il Paese intero”. Il Guardasigilli sostiene che state strumentalizzando la giustizia per fini elettorali... “È un momento altissimo di democrazia diretta. I magistrati, che hanno un ricco bagaglio di esperienza e di professionalità, stanno offrendo al dibattito pubblico elementi e argomenti per riflettere e valutare nel migliore dei modi una riforma che a buon diritto criticano fermamente, ma non per posizioni preconcette, piuttosto sulla base di argomenti sostanziosi e ragionamenti articolati”. Però è una battaglia che si è radicalizzata. Voi magistrati vi state esponendo molto, è in ballo la vostra credibilità? “Non vedo la discussione che prepara un referendum come due squadre che si contendono una vittoria. Non c’è una contesa, si tratta di decidere su una riforma delicatissima che a nostro giudizio altera l’equilibrio tra i poteri dello Stato. Esercitiamo un diritto-dovere di cittadinanza ed è tutt’altro dallo scontro partitico, fazioso o ideologico”. Il giorno dopo il referendum, che dovrebbe essere nella prima metà del 2026, come pensate di ricucire il rapporto, oggi logorato, tra politici e magistrati? “Con reciproco rispetto. Da parte nostra il rispetto per tutte le istituzioni non è mai mancato. Ma rispettare le istituzioni non significa sopire la capacità critica e il diritto di parola su temi, come la riforma della giustizia, che interessano la comunità intera”. Il ministro Nordio vi accusa di non fornire informazioni affidabili. Offende le toghe? “Sì, sono parole ingenerose. Faccio un richiamo alla necessità che si torni a ragionare e si dismettano toni e contenuti aggressivi, specie da parte di quanti esercitano pubbliche funzioni a livelli molto alti. È da tempo che polemiche condite da accuse infondate avvelenano il clima e non giovano a nessuno”. Vede un intento vendicativo della politica nei confronti dei magistrati? “Vedo gli strascichi di una stagione di scontro e di incomprensione nata con Mani Pulite. Sul malinteso principio del primato della politica, in sé indiscutibile, si vogliono punire i giudici, ma se il progetto dovesse aver successo, e lo escludo, sarebbe una sconfitta del Paese”. In caso di sconfitta al referendum il governo dovrebbe dimettersi dal momento che lo considera uno spartiacque? “Queste sono valutazioni che non mi riguardano, resto estraneo. Non vivo la consultazione popolare come una contesa, quindi le valutazioni che spettano al ministro le farà il ministro”. Secondo il Guardasigilli, i sondaggi svolti dalla Anm dicono che non passerà, gli altri invece che vinceranno i sì. Lei cosa si aspetta? “Sono convinto che il popolo italiano darà una grandissima prova di sensibilità democratica bocciando la riforma. Sarebbe la terza bocciatura, dopo quella del 2000 e quella del 2022, quelli erano referendum abrogativi ma in entrambe le occasioni l’elettorato ha bocciato modifiche normative di questo tipo”. Un altro duro scontro tra politici e toghe ha riguardato il decreto Paesi sicuri. Adesso la Corte di giustizia europea ha attribuito ai giudici l’incarico di valutare se un Paese terzo sia sicuro o meno. È stato sconfessato il governo? Oppure, come dice Nordio, gli dà ragione riguardo la possibilità di legiferare sul tema? “Nessuno mai ha negato al Parlamento il potere di legiferare, eppure siamo stati travolti da critiche ferocissime. Ricordo quei mesi e quegli anni durissimi e credo che questa sia la prova più importante di come non dovrebbe mai venir meno la fiducia e il rispetto nella magistratura anche quando non se ne condividono le decisioni”. Il ministro degli Esteri Antonio Tajani dice che un giudice non può sapere se un Paese sia sicuro o no. Cosa risponde? “Mi sembrano, alla luce della recente sentenza della Corte di giustizia, parole che non richiedono particolare considerazione. La tutela dei diritti fondamentali non può subire limitazioni e la Corte di giustizia non ha fatto altro che ribadire quanto già i nostri tribunali avevano chiaramente rammentato”. Dal caso lombardo il primo vero esempio di processo anticipato di Giorgio Spangher Il Dubbio, 3 agosto 2025 Con il contraddittorio preventivo, la fase preliminare si trasforma quasi in un doppione del dibattimento. Anche se ogni vicenda processuale fa storia a sé, inevitabilmente la singola vicenda giudiziaria consente di verificare e approfondire quanto lo studio delle norme ha ipotizzato, in modo più o meno approfondito. Comunque il singolo episodio, pur evidenziando una sua specificità, prospetta questioni e soluzioni suscettibili di confermare o inficiare quanto astrattamente prospettato. Nel caso qui considerato il riferimento va alla vicenda milanese, e in particolare all’applicazione del contraddittorio anticipato in materia cautelare. Come noto, ci sarebbero 74 indagati, alcuni dei quali (Sala, ad esempio) avrebbero ricevuto solo un’informazione di garanzia e 5 soggetti per i quali era stata ordinata la misura degli arresti domiciliari più uno per il quale era stata chiesta la misura inframuraria. Il tema coinvolge le situazioni di concorso di persone nel reato, o comunque il caso di reati commessi da più persone. Il soggetto per il quale è stata richiesta la misura del carcere si è presentato, si è avvalso della facoltà di non rispondere e ha presentato una sua memoria difensiva. Gli altri cinque presentatisi all’interrogatorio hanno risposto e prodotto memorie e atti difensivi. Un indagato, richiesto della misura degli arresti domiciliari, si è dimesso da assessore e da altri organismi. Un altro indagato ha rinunciato alla propria posizione nel contesto della società di cui è titolare, e ha dismesso altri incarichi societari. Tutto ciò in attesa della decisione del gip sulla richiesta del pubblico ministero, decisione arrivata ieri (e di cui si dà conto in altro servizio del giornale, ndr). A prescindere dal fatto che, a regime, la richiesta del carcere sarà valutata da un giudice collegiale, va detto che il gip che si è pronunciato non sarà comunque il giudice che si pronuncerà in sede di udienza preliminare. Tuttavia il profilo della diversità della misura richiesta (carcere o arresti domiciliari) e della diversità del giudice competente pone il problema della conoscenza degli atti legati alla priorità dell’organo chiamato a pronunciarsi (e anche all’eventuale contrasto possibile di valutazione) pur nella possibile diversità delle situazioni soggettive. Un primo dato di riflessione si ricollega al tempo della conoscenza dei fatti di reato connessi al deposito degli atti ai fini della richiesta, pur nella consapevolezza che non necessariamente rappresentano tutta l’attività di indagine, ma solo quella funzionale alle richieste cautelari. Seppur marginale nel contesto considerato (Milano), va sottolineato che i destinatari di una informazione di garanzia, per il ricordato effetto del deposito degli atti (dei possibili concorrenti nei reati), vengono a conoscenza del complesso delle attività investigative che, seppur marginalmente, li vedono comunque coinvolti, certo a vario e diverso titolo, nell’affaire. Il dato più significativo, connesso alla preventiva conoscenza dei fatti di cui all’accusa e alla richiesta cautelare, è costituito dal fatto che - nella logica del contradditorio anticipato - il confronto tra l’inquisito non solo si sviluppa su tutto l’impianto d’accusa anziché esclusivamente su quello che il giudice riterrà rilevante ai fini cautelari, ma consente una piena attività che in qualche modo esula dalla previsione della reiterabilità di futuri reati ex articolo 274. Il giudice richiesto della misura si limita a una mera valutazione di ammissibilità. L’accessibilità da libero offre spazi agli inquisiti davanti agli organi di informazione, e anche in caso di arresti domiciliari consente un’anticipazione molto ampia dell’esercizio del diritto di difesa. Per superare, in anticipo, le esigenze della pericolosità, gli indagati assumono iniziative tendenti a escludere la reiterazione dei reati, anche se la giurisprudenza non ritiene rilevanti questi fatti. Il più delle volte si cerca di gestire la vicenda con la Procura o con il gip, anche in vista dell’accesso ai riti premiali. Il dato è significativamente collegato alla mancanza di un termine per la decisione del gip sulla misura richiesta anche nel caso in cui si tratti del carcere. In altri termini, mancando una decisione provvisoria (un fermo), anche questo soggetto, escluse la lettera b dell’articolo 274 c. p. p., resta libero. Non si potrebbe parlare di inquinamento probatorio escluso nella procedura cautelare de qua. Del resto, la motivazione del provvedimento è successiva sia ai fini dell’articolo 291 c. p. p. sia in relazione alle garanzie di cui all’articolo 111 della Costituzione. È evidente che tutto ciò mette in tensione l’articolo 309 c. p. p., che non è più un vero riesame quanto piuttosto un vero e proprio mezzo di impugnazione, dovendo l’ordinanza tener conto, nella motivazione, delle tesi difensive. All’insieme delle considerazioni svolte, si aggiungono i tempi della procedura (5 giorni per l’interrogatorio più il tempo del deposito delle motivazioni e poi quello dell’eventuale impugnazione) e si accentua la logica del procedimento “a trazione interiore”, che nel caso di specie si connota di anticipati elementi che caratterizzano la decisione cautelare. Invero, spesso la misura degli arresti domiciliari appare tesa maggiormente a evitare l’inquinamento probatorio. Del resto, nei reati contro la pubblica amministrazione è difficile ipotizzare che l’inquisito possa sviluppare una continuità criminale negli organi nei quali ha svolto la propria attività. Questi elementi, in termini sistematici, integrati dalle modifiche della riforma Cartabia, confermano la struttura sempre più accentuatamente bifasica del processo penale, destinata per un verso a confluire nelle definizioni dell’udienza preliminare, ovvero a transitare alla fase del giudizio rendendosi tuttavia necessaria una rimodulazione del percorso, integrando l’inquisitorio garantito della fase delle indagini con una connotazione della fase dibattimentale accentuata maggiormente sull’oralità del contraddittorio, pur recuperando parte del materiale investigativo, ma garantendo il confronto fra periti e consulenti sulla prova scientifica. Ancorché ogni passaggio di fase o di stato o di interlocuzioni processuali abbia una sua precisa funzione e sia sorretto da motivazioni specifiche che sostanziano di garanzie individuali questi elementi, resta il dubbio che, fatta salva l’anticipazione presente, si rischi di sovrapporre decisioni a decisioni sullo stesso materiale. L’app antiscippi è l’ultimo delirio securitario di Marca Fantauzzi L’Espresso, 3 agosto 2025 Un programma per smartphone con cui gli utenti segnalano i sospetti borseggiatori sui mezzi pubblici. Corredando il tutto con foto e schedatura etnica. E la giustizia diventa gogna mediatica. Due donne con canotte bianche, cappello di paglia, Roma, ore 12:00”. Milano: “Metro Repubblica, indiano o bangladino, capelli lisci e borsello a tracolla, aspetta che si chiudano le porte e strappa i portafogli”. Dal 2024 esiste un’applicazione che permette a chiunque di descrivere chi sono i presunti borseggiatori nelle città europee. La segnalazione può anche essere più asciutta, quasi bastasse l’etnia a configurare la pericolosità: “Metro Manzoni, tre ragazze rom”. L’app si chiama Pickpocket Alert: è nata a Milano per poi diffondersi velocemente a Roma, Napoli, Barcellona, Madrid, Siviglia e Parigi. In poco tempo ha raggiunto migliaia di iscritti. È scaricabile gratuitamente e sul sito, poiché si definisce una non-profit, c’è la possibilità di fare una donazione “per rendere più funzionale l’app stessa”. E, se all’interno del programma è possibile caricare foto dei segnalati solo oscurandone il volto, sulle sue pagine social (Instagram e TikTok) la policy sembra essere diversa. Aprendo la pagina Instagram di Pickpocket Alert, ci si trova davanti a qualcosa di molto simile a una copia artigianale di un archivio fotografico delle forze di polizia. Ma chi lo ha realizzato non è un agente e l’inserimento delle istantanee non ha come destinatario il sistema giudiziario, bensì il feed e quindi Internet, nella sua vastità ed eternità. Ci sono foto e video di ragazzine e ragazzini, anche minorenni. Ogni volto è riconoscibile e ogni commento ne chiede la testa. Ad accompagnare questo zelante lavoro di delazione internazionale, c’è l’altrettanto meticoloso lavoro di pagine simili. Dalla policy dell’app, si capisce che gli sviluppatori hanno chiari i rischi. La piattaforma - si legge - non intende incitare alla giustizia privata né pubblicizzare contenuti violenti. “Chi ha sviluppato l’applicazione è chiaramente consapevole del filo sottile su cui sta camminando - evidenzia l’esperto di privacy Leonardo Bergonzoni - tant’è che si specifica come la responsabilità di quanto pubblicato sia a carico degli utenti”. Sotto il profilo legale, il Gdpr (General Data Protection Regulation, il regolamento dell’Ue in materia di protezione dei dati personali) dice esplicitamente che pubblicare il volto di una persona senza il suo consenso può configurarsi come reato. E se anche la pubblicazione è motivata da ragioni di pubblico interesse, tale eventualità va analizzata caso per caso e non è valida di per sé. Inoltre, come ha chiarito una sentenza del Tribunale di Taranto, anche se la registrazione (e la successiva pubblicazione) è avvenuta in flagranza di reato, bisogna attenersi al principio di minimizzazione (oscurare il volto del presunto colpevole, per esempio). Per Bergonzoni “vengono violati l’articolo 96 del diritto d’autore, il codice privacy e il Gdpr in vigore che stabiliscono che serve un consenso alla pubblicazione di immagini che ritraggono un privato cittadino in contesti pubblici. L’unica fievole argomentazione è legata all’articolo 97 della legge sul diritto d’autore in cui si stabiliscono le eccezioni al consenso nella pubblicazione dei volti delle persone: tra queste le cosiddette necessità di giustizia o di polizia, ma ricordiamoci che è una facoltà delle sole forze dell’ordine”. L’iniziativa innesca insomma effetti fuori controllo. Alimentando l’illusione che giustizia equivalga a gogna mediatica. E che una foto rubata cancelli ogni stortura sociale. Gratteri: “Vi racconto i segreti delle nuove mafie” di Hoara Borselli Il Giornale, 3 agosto 2025 Il procuratore di Napoli: “Sono un potere integrato. Il dl Sicurezza? Giusto difendere gli agenti”. Nicola Gratteri tra tutti i magistrati italiani è uno dei più famosi. Da pochi giorni ha compiuto 67 anni. È calabrese della Locride, ma da due anni è Procuratore di Napoli. Ha scritto molti libri. L’ultimo “Una cosa sola” (Come le mafie si sono integrate al potere). È considerato il nemico numero 1 delle mafie. Dottor Gratteri, una trentina d’anni fa la mafia uccideva un migliaio di persone ogni anno. Oggi ne uccide si e no cinquanta. Perché lei parla di emergenza mafia? “Le mafie sono un problema che ci trasciniamo da oltre 160 anni. Non ho mai parlato di emergenza, ma di priorità nella lotta a fenomeni criminali che sono molto più pericolosi quando non sparano. Associarli alla violenza, non ci aiuta a capire la loro pervasività e le relazioni che intrecciano con segmenti importanti della società”. Ma la vecchia mafia dei Liggio, dei Riina, della lupara non esiste più? “I Corleonesi che, contrariamente ad altri clan, hanno sfidato i poteri costituiti dello Stato, sono stati eliminati. Quella mafia è stata sconfitta. Ma già si notano esempi di clan mafiosi che in Sicilia stanno tornano alle vecchie abitudini: trame e denaro, collusioni e corruzione”. “Una Cosa Sola” è il titolo del suo ultimo libro. Cosa vuol dire: che la mafia non condiziona più il potere ma è lei il potere? “Nel libro scritto con il prof. Nicaso abbiamo raccontato questa ulteriore evoluzione delle mafie che stanno diventando sempre più un sistema di potere integrato, un tutt’uno con politici, imprenditori, professionisti e bancari”. La lotta a questa nuova forma di criminalità organizzata è più facile o più difficile di una volta? “È molto più difficile. Oggi, i soldi delle mafie entrano nei circuiti dell’economia legale con una facilità impressionante, grazie anche a un sistema onnivoro che, da tempo, non fa più differenza tra soldi sporchi e soldi puliti. Peraltro, il ricorso a mezzi tecnologici più sofisticati telefoni criptati o criptovalute rende molto più difficile rimanere al passo con i tempi. Soprattutto se c’è chi ancora afferma che i mafiosi non parlano al telefono e che si deve tornare ai pedinamenti”. Lei ora è il procuratore di Napoli: c’è differenza tra la camorra e la ndrangheta? “Ci sono molte differenze. La camorra, o meglio la camorra che gestisce le piazze di spaccio, è molto più visibile, spavalda. La ndrangheta da tempo si muove sotto traccia. Comunque ci sono clan di camorra che non hanno nulla da invidiare alle famiglie di ndrangheta”. Ci sono mafie straniere sul nostro territorio che interferiscono con le mafie italiane? “Certamente, quelle che stanno crescendo di più sono i clan albanesi che sono sempre più potenti non solo in Italia, ma anche nel resto del mondo. Oggi i clan albanesi sono sempre più coinvolti nel traffico internazionale di cocaina. Ma ci sono anche altre mafie, ormai radicate, come le reti criminali cinesi che gestiscono il mercato del contante e quelle africane e hanno in mano molte piazze di spaccio, specialmente nelle regioni centro-settentrionali”. Lei è contrario alla separazione delle carriere. Perché teme l’ingerenza del potere politico nella magistratura? Ma la riforma non prevede nessuna ingerenza, non è così? “Se il tema è il passaggio delle funzioni, non capisco perché cambiare la costituzione se negli ultimi dodici anni meno del due per cento dei magistrati è passato dalla funzione giudicante a quella requirente, e viceversa. Non le sembra strano tutto questo interesse per un problema che non esiste? Bisognerebbe fare altro per migliorare il sistema-giustizia. Non crede che gli imputati debbano avere più garanzie di essere giudicati in modo equanime e in punta di diritto? E quindi da giudici lontani dall’accusa? “In Italia i giudici non si fanno influenzare dai pubblici ministeri. Se fosse vero il contrario, non si spiegherebbero le pronunce di assoluzioni, o le decisioni difformi rispetto alle richieste dei pubblici ministeri. Peraltro, ricordo che la riforma non prevede alcuna separazione dei giudici di primo grado da quelli di grado superiore, che devono valutare il lavoro dei primi. Se poi volessimo ragionare come fanno loro, dovremmo tenere conto anche delle frequentazioni amicali tra alcuni avvocati e magistrati”. Le carceri sono sovraffollate. Lei è contrario a un provvedimento di amnistia o di indulto? “Sono assolutamente contrario. Intanto, potremmo togliere dal carcere i tossicodipendenti, inviandoli nelle comunità terapeutiche; poi potremmo provare a fare accordi bilaterali per far scontare nei paesi di provenienza la pena di tantissimi stranieri che oggi sono detenuti nelle nostre carceri. E, infine, potremmo pensare di costruire qualche struttura carceraria in più rispetto a quelle di cui oggi disponiamo”. Il 41 bis è ancora necessario? “È assolutamente necessario. I mafiosi che ammorbano l’aria di molti territori e che con la loro arroganza rendono amara la vita di tantissime persone, devono essere consapevoli di una cosa. Se condannate, dovranno scontare la pena in isolamento, evitando quello che facevano un tempo, quando le carceri erano un surrogato della strada, in cui tutto era concesso. C’erano boss che in vestaglia di seta incontravano i loro accoliti nelle loro celle, come tanti monarchi”. Il decreto sicurezza è stato una misura utile? “Ci sono delle misure condivisibili, come la tutela legale delle forze dell’ordine. Fino a ieri, ogni qual volta un poliziotto procurava la morte di una persona, tipo un rapinatore armato che stava per esplodere un colpo di pistola, doveva pagarsi di tasca propria un avvocato, perché lo assistesse in quelle attività processuali imposte dalla legge, nonostante fosse un proprio dovere operare. E giustamente il decreto qui è intervenuto. Non condivido la repressione del dissenso, quando non vi sia ricorso a manifestazioni violente”. Lei pensa che in Italia il livello della corruzione sia ancora molto alto? “Penso di sì e il livello è destinato ad aumentare con le riforme varate dal ministro Cartabia in poi”. Ma lei pensa che ci siano settori del potere politico infiltrati dalla mafia? “Non lo dico io, lo dicono le sentenze”. Mi dica la verità: lei è tentato da un futuro in politica, quando avrà finito la sua esperienza di magistrato? “Al momento sono più tentato dai bergamotti e dalla campagna”. Piemonte. Lo “scandalo” del Garante che difendeva i detenuti, penalisti contro Fdi: “populismo ignorante” di Giulia Ricci La Stampa, 3 agosto 2025 I consiglieri regionali avevano accusato il Radicale: “Ha difeso solo i detenuti e non gli agenti”. Il sarcasmo della Camera penale: “Sottile ragionamento giuridico, ci scusiamo con Bobbio”. C’è chi usa l’ironia, chi va dritto al punto. Quel che è certo, è che ieri si è alzata una levata di scudi per difendere Bruno Mellano, l’ex Garante dei detenuti malamente attaccato da Fratelli d’Italia. Lui, dal canto suo, mantiene la compostezza e pubblica sui social una foto con Alessandra Formaiano, che ha preso ufficialmente il suo posto dopo la nomina da parte della giunta Cirio (ex assessora di Alessandria, candidata di FdI non eletta in Consiglio regionale). Nel giorno ufficiale di cambio della guardia, i vertici del partito meloniano a Palazzo Lascaris, Carlo Riva Vercellotti e Roberto Ravello, hanno bollato gli undici anni di lavoro di Mellano come “strabismo ideologico”. La sua colpa, quello di essersi preso cura solo dei detenuti, “con scarsa attenzione” verso gli agenti di Polizia penitenziaria, in un “monologo a senso unico”. Da qui, il sarcasmo tagliente della Camera penale del Piemonte occidentale e Valle d’Aosta, in una nota intitolata “Lacrima d’estate”: “La critica si sofferma sul fatto che la scelta del Garante sarebbe stata quella - udite udite - di provare a difendere i diritti dei detenuti”. E ancora: “Non solo, tale scelta scriteriata avrebbe anche determinato l’incredibile decisione di costituirsi parte civile nei processi nei quali i detenuti sono persone offese dai reati commessi dalle guardie” e non viceversa. Nella conclusione della nota, gli avvocati piemontesi mantengono il sarcasmo, ma attaccano con durezza: “Il sottile ragionamento giuridico proposto, che forse potrà aprire nuove frontiere del diritto, ci porta a chiedere scusa” a Bobbio, Galante Garrone, Cordero e a tutti i giuristi “che hanno fatto del Piemonte una terra di diritto, per aver consentito che in Consiglio regionale fosse occupato da chi del diritto nulla sa e non ha neppure la creanza di tacere”. Firmato, il Consiglio direttivo. Un affondo diretto e senza sconti, ripreso anche dal portavoce della Conferenza nazionale dei garanti, Samuele Ciambriello, che mette i puntini sulle “i”: “Un attacco privo di contenuti e populista. I Garanti sono autorità indipendenti e legittimati da leggi regionali e delibere. La politica aiuta, coopera, non detta regole e indirizzi alle istituzioni di garanzia. Per noi è la Costituzione il baluardo del nostro agire. Il collega Mellano ha ben esercitato il suo ruolo. Il resto è populismo penale - conclude - politico e mediatico”. E dopo la difesa delle opposizioni in Aula, arriva anche quella di Europa Radicale: “La verità è che la destra attacca Mellano per colpire e snaturare le funzioni e i compiti del garante regionale carceri. La legge è chiarissima: alcuni consiglieri regionali, forse su indicazione romana o biellese, intendono stravolgerla”, dicono Igor Boni e Giulio Manfredi; e dell’associazione Marco Pannella: “L’ex Garante ha lavorato con fermezza e coraggio, visitando carceri, ascoltando detenuti, operatori, agenti della polizia penitenziaria a tutti i livelli, denunciando ripetutamente in tutte le sedi, violazioni e promuovendo pratiche di reinserimento sociale. Strumentalizzare il suo lavoro per inaugurare una nuova stagione di equidistanza fondata sul sospetto e sull’annacquamento dei diritti è un errore grave”. E aprono al dialogo con Formaiano. Esattamente come ha fatto Mellano, che ieri, dopo il passaggio di consegne, ha postato una foto con lei davanti a Palazzo Sormani Tournon e ha scritto: “Garante che viene e garante che va, tentando sempre di essere autorità di garanzia autonoma e indipendente, dentro e fuori dal Palazzo”. Senza sottrarsi a una piccola frecciatina a FdI: “Buon lavoro a Monica Formaiano, con la consapevolezza che la comunità penitenziaria è fatta di detenuti e detenenti! Ma il mandato, per quanto oneroso e spesso ingrato, è chiaro, come ci ricorda Samuele Ciambriello”. Aosta. Giovane detenuto si suicida nel carcere di Brissogne laprimalinea.it, 3 agosto 2025 Si è legato un sacchetto di plastica intorno al collo e ha inalato il gas propano emesso da una piccola bombola inserita all’interno del sacchetto. Si è ucciso così - con una modalità tristemente nota fra la popolazione carceraria - nella notta tra venerdì 1 e sabato 2 agosto, un cittadino libico non ancora 30enne detenuto nel carcere di Brissogne per reati inerenti lo spaccio di stupefacenti. A rinvenire il corpo senza vita del giovane, verso le 2 di sabato, agenti della Polizia penitenziaria in servizio nel blocco. Ignote, per ora, le motivazioni del tragico gesto; la direzione della Casa circondariale ha avviato accertamenti e intanto il consolato libico sta contattando le autorità italiane per il riconoscimento e l’eventuale trasferimento della salma, che al momento si trova nell’obitorio del cimitero di Aosta a disposizione della procura. Firenze. Non c’è personale, a Sollicciano la cena arriva col pranzo di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 3 agosto 2025 Nella sezione femminile del carcere di Sollicciano, la cena si serve col pranzo. Le vaschette con dentro il cibo per la sera infatti vengono lasciate in cella in tarda mattinata, per poi restare lì senza frigorifero o forno a microonde. A volte il cibo si appiccica, si deteriora, e la sera diventa difficile da mangiare. Ma le detenute di Sollicciano non hanno altra scelta. “A volte si ammuffisce”, è il commento di alcune recluse. Il motivo è semplice: a Sollicciano c’è una grave mancanza di personale in questo periodo estivo. Le vaschette con dentro il cibo per la cena vengono lasciate in cella in tarda mattinata, insieme al pranzo. Poi restano lì, al caldo, senza frigorifero o forno a microonde. A volte il cibo si appiccica, si deteriora, e la sera diventa difficile da mangiare. Ma le detenute di Sollicciano - complessivamente una cinquantina - non hanno altra scelta. E se vogliono cenare, devono farlo con il cibo che è stato lasciato la mattina. “A volte si ammuffisce”, è il commento di alcune recluse costrette a sopportare questa situazione da una settimana. Il motivo è semplice: a Sollicciano c’è mancanza di personale in questo periodo estivo. Una carenza che ricade sulla popolazione carceraria, che spesso si ritrova a mangiare cibo che non può essere scaldato, spesso ai limiti della commestibilità. Succede principalmente nel reparto femminile, ma anche al maschile risultano importanti criticità in questo senso. “Questa vicenda - commenta Fatima Ben Hijji, presidente dell’associazione di volontari Pantagruel - è un segnale allarmante, il riflesso di un sistema penitenziario in cui la carenza di personale e risorse si traduce in una sospensione pratica dei diritti fondamentali, a danno di una categoria di persone già vulnerabile e socialmente invisibile. Siamo di fronte a una situazione che interpella direttamente lo Stato. La detenzione non può e non deve mai equivalere a una forma di punizione inumana o degradante. L’articolo 27 della Costituzione italiana stabilisce che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. Ma come si può parlare di rieducazione in un contesto in cui viene negato il diritto a un pasto caldo, sicuro e dignitoso?”. Negli ultimi giorni, un’altra tegola si è abbattuta su Sollicciano. Ha infatti chiuso per allagamento l’Atsm, il reparto dove stanno i detenuti con problematiche di salute mentale, che sono stati trasferiti nell’area accoglienza anche se avrebbero diritto a stare in un reparto dedicato. Non solo. Il trasferimento dei reclusi malati psichiatrici nella sezione accoglienza, ha causato il trasferimento di alcuni detenuti dell’accoglienza in altri penitenziari, anche fuori dalla Toscana, rallentando o interrompendo i percorsi di recupero e reinserimento cominciati nel carcere fiorentino. Condizioni, quelle di Sollicciano, che dunque rimangono assai critiche, soprattutto in questo periodo estivo quando il caldo nelle celle, talvolta, raggiunge anche i quaranta gradi e non dappertutto ci sono i ventilatori. Intanto, venerdì scorso l’assessore alle politiche sociali Nicola Paulesu, insieme al garante dei detenuti Giancarlo Parissi, ha incontrato la direttrice provvisoria di Sollicciano Valeria Vitrani. Un incontro nel quale si è parlato delle criticità del penitenziario e nel corso del quale i soggetti coinvolti si sono impegnati ad attivare più borse lavoro e a rafforzare la rete dei mediatori culturali. Cagliari. Trasferimento di 92 carcerati al 41 bis: il Dap diserta l’audizione, scoppia la polemica cagliaritoday.it, 3 agosto 2025 Irene Testa, Garante dei detenuti, denuncia la decisione unilaterale del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e l’assenza di confronto con le istituzioni sarde: “Carceri al collasso, mancano i farmaci elementari ma ci fanno diventare una sub-colonia per il turismo penitenziario”. La decisione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) di trasferire 92 detenuti in regime di 41 bis nel carcere di Uta, senza consultare le istituzioni sarde, ha scatenato una dura reazione. I vertici delle carceri sarde, insieme al provveditore regionale, hanno disertato l’audizione congiunta delle commissioni Lavoro e Sanità del Consiglio regionale, convocata per discutere l’impatto di questa scelta. Un’assenza che ha alimentato sospetti di ordini diretti dal ministero della Giustizia, come denunciato dalle presidenti delle commissioni, Camilla Soru e Carla Fundoni: “Lo Stato si sottrae al dialogo, un fatto gravissimo”. Irene Testa, Garante regionale dei detenuti, ha definito la mossa del Dap “un atto di prepotenza”. “È inaccettabile che si decida unilateralmente di fare della Sardegna la regione con il più alto numero di detenuti in 41 bis”, ha dichiarato Testa. “A Uta mancano fondi per acquistare due frigoriferi e spesso scarseggiano i farmaci, ma si sceglie di trasferire altri 92 detenuti da altre regioni, trasformando l’isola in una subcolonia per il turismo penitenziario”. La Garante ha sottolineato le condizioni già critiche del carcere di Uta, con 685 detenuti a fronte di una capienza di 561 posti, 140 agenti di polizia penitenziaria sotto pressione e carenze croniche di personale medico e farmaci. La governatrice Alessandra Todde aveva già espresso preoccupazioni il 18 giugno, scrivendo al ministro della Giustizia Carlo Nordio per evidenziare i rischi per la sicurezza, la sanità e la tenuta sociale dell’isola. La decisione, comunicata dal direttore generale del Dap Ernesto Napolillo a varie autorità locali, è stata percepita come una forzatura istituzionale. L’ipotesi di ampliare la struttura con moduli container, prevista dal piano carceri di Nordio, è stata criticata da Testa come “non adatta alle esigenze delle persone” e lesiva della dignità umana. Il sovraffollamento delle carceri sarde, con 2.224 detenuti contro una capienza di 2.617 posti, è aggravato dalla presenza di molti detenuti con patologie psichiatriche e tossicodipendenze, spesso privi di cure adeguate. A Uta, il 32% in più di detenuti rispetto alla capienza regolamentare crea tensioni e condizioni di vita disumane, con celle prive di arredi e coperte insufficienti. La Sardegna, con 93 detenuti in 41 bis già a Bancali, rischia di diventare il principale hub italiano per il carcere duro, sollevando timori di infiltrazioni mafiose. Le commissioni regionali hanno annunciato che il Consiglio continuerà a chiedere un tavolo di confronto con il governo per affrontare l’emergenza. Il Movimento 5 Stelle prepara un’interrogazione parlamentare per chiarire la vicenda. La tensione tra Stato e Sardegna resta alta, con un sistema penitenziario al collasso e un dialogo istituzionale che appare sempre più difficile. Cagliari. Mafiosi trasferiti a Uta, parla Nordio: “Garantiremo la sicurezza” di Francesco Zizi La Nuova Sardegna, 3 agosto 2025 La giustizia italiana resta una sfida. La Sardegna spicca per la lentezza dei processi ma la situazione è delicata anche sul versante penitenziario. Il carcere di Uta, destinato ad accogliere i detenuti al regime del 41-bis, è sovraffollato e ha poco personale. In più si aggiungono i rischi di infiltrazioni mafiose. Argomento che ha spinto la presidente Todde a chiedere un incontro con il ministro della Giustizia che, qualche giorno fa, ha accettato nonostante il polverone che si è alzato sulla riforma della separazione delle carriere tra magistratura inquirente e giudicante. E anche la gestione delle carceri, con un tasso di sovraffollamento oltre il 130% e un drammatico numero di suicidi, è uno degli argomenti scottanti che il ministro dovrà risolvere. Il procuratore generale di Cagliari ha definito l’isola “a forte rischio di sviluppo mafioso”, non crede che l’arrivo di altri detenuti al 41-bis nell’isola, in modo così massiccio, possa essere pericoloso? Il caso Cospito ha insegnato che anche i reclusi sottoposti al regime di carcere duro in realtà si parlano e si coordinano... “No. Eventuali trasferimenti avverrebbero in modo perfettamente compatibile con le esigenze di sicurezza e anche di immagine. Sono situazioni estremamente sensibili, sulle quali la nostra riflessione è continua e approfondita”. In Italia la giustizia è ancora troppo lenta: in Sardegna, specialmente nel tribunale di Nuoro la situazione è critica, ha qualche novità in programma? “Gran parte dei tribunali versa in situazione critica, perché mancano più di 1500 magistrati e alcune migliaia di collaboratori amministrativi. Noi per la prima volta dopo 80 anni colmeremo l’organico dei primi, per i quali sono conclusi, o sono in corso, ben 5 concorsi. Per i secondi abbiamo proceduto nei limiti delle risorse disponibili, e dopo l’incontro di questi giorni con il collega Giorgetti contiamo di averne altre. Il tribunale di Nuoro ne trarrà sicuramente vantaggi”. Separazione delle carriere, quale sarà l’effetto che i cittadini sentiranno? L’Associazione nazionale dei magistrati (Anm) ha parlato di una resa dei conti con loro... “La riforma non è affatto una resa dei conti, è la necessaria conseguenza del processo accusatorio introdotto 40 anni fa da Giuliani Vassalli, eroe della Resistenza. Il vantaggio per tutti sarà di avere veramente un giudice terzo e imparziale, come è previsto dall’articolo 111 della Costituzione. Oggi un cittadino sottoposto a processo non sa che i suoi giudici vengono a loro volta valutati, nella carriera e nell’eventuale procedimento disciplinare, anche dai suoi accusatori. Che i Pm diano i voti ai giudicanti è un’anomalia tutta italiana, e quando ne parlo in sedi internazionali i colleghi stranieri manifestano incredulità”. Sempre l’Anm dice che la riforma indebolirà l’ordine giudiziario e l’indipendenza della magistratura... “Al contrario. La riforma costituzionale affronta proprio i problemi cruciali della terzietà del giudice, della vera autonomia del Csm e di una Corte disciplinare non eletta, come è oggi, dai potenziali incolpati. Ridurrà i poteri delle correnti e libererà la magistratura dai suoi condizionamenti interni. Quanto ai sospetti di limitarne l’indipendenza, essa è garantita proprio dalla lettera della norma. Il resto è processo alle intenzioni e polemica sterile”. Secondo le opposizioni il Csm sarà uno strumento solo dei Pm, che diventeranno dei “superpoliziotti” senza confini e autogestiti, come risponde? “Anche qui è esattamente il contrario. In realtà già oggi il Pm è un superpoliziotto, che dirige le indagini della Pg e magari le coltiva con enormi spese e senza risultati. La riforma non tocca i suoi rapporti con la Pg, che rimangono regolati dall’articolo 109 della Costituzione, ma i rapporti tra Pm e Giudice. Molti temono che il Pm perda la cultura del giudice. Io temo che alcuni giudici mantengano la cultura del Pm”. Abrogazione dell’abuso d’ufficio, lei ha più volte detto che questo reato paralizzava i sindaci. Ritiene che la paura di firmare fosse più dannosa della possibilità di commettere abusi? “Certo, lo dicono le cifre. Meno dell’uno per cento delle indagini si concludeva con qualche risultato, peraltro modesto. In compenso intasavano gli uffici giudiziari, erano complesse e costose. I sindaci erano intimoriti e quasi paralizzati. Son venuti in processione a chiedere l’abrogazione di quella norma infausta. Molti erano di centrosinistra e, comprensibilmente, hanno mantenuto l’anonimato”. Uno dei problemi della giustizia è il costo dei procedimenti. Per le attuali soglie di patrocinio gratuito (13.659,64 euro) i cittadini con un reddito medio rimangono esclusi, rendendo loro difficile l’accesso alla giustizia, ci saranno adeguamenti? “L’intera disciplina del gratuito patrocinio è da tempo oggetto di studio, perché è disomogenea e talvolta irrazionale. Ci sono persone abbienti che ne godono, e altre indigenti che non riescono a fruirne. Ci stiamo lavorando”. La giustizia in Francia e in Germania va al doppio della velocità rispetto all’Italia, con tribunali specializzati e magistrati di settore. Nei tribunali italiani ci sono invece più di 3 milioni di cause pendenti, la separazione tra civile e penale potrebbe portare a un aumento dell’efficienza dei tribunali? “In realtà con l’attuazione del piano del Pnrr, questi tempi si stanno progressivamente riducendo. La durata media dei processi civili si è già ridotta del 20%, quella dei penali del 28%. Di questo dobbiamo ringraziare anche i magistrati, che hanno lavorato molto e molto bene. E in tempi ragionevoli ci allineeremo con gli altri Paesi”. Un’altra delle criticità della giustizia è il basso tasso di digitalizzazione che rende il modello italiano farraginoso. Servono investimenti strategici e strutturali, il ministero come ha intenzione di rispondere a questo gap con gli altri paesi europei? “Qui entriamo nella tecnologia complessa. Nel civile siamo andati spediti, perché la struttura del procedimento è abbastanza lineare. Nel penale abbiamo trovato più difficoltà, perché la variabili, soprattutto nella fase investigativa, sono tali e tante per cui non è stato facile elaborare un programma. Ma ci stiamo arrivando. Abbiamo riorganizzato il Dipartimento per l’innovazione Tecnologica, potenziando le strutture Ict, cloud e sistemi telematici, avviando anche l’uso sperimentale dell’intelligenza artificiale nel pieno rispetto del regolamento europeo. E per monitorare lo stato di avanzamento abbiamo istituito un Osservatorio della giustizia digitale”. Carceri, dall’inizio dell’anno ci sono stati 45 suicidi, il presidente Mattarella ha definito il problema “drammatico”. Il tasso di sovraffollamento è oltre il 130% e le condizioni di vita dei detenuti peggiorano. Mancano psicologici, medici ed educatori. Come affronterete la questione? “Ci stiamo occupando di 10.105 detenuti definitivi, con pena residua sotto i 24 mesi, che possono fruire di misure alternative alla detenzione in carcere. Spetta alla magistratura di sorveglianza decidere, caso per caso, se ne abbiano il diritto, e ora stiamo anche aumentando la pianta organica di questi magistrati, che ringraziamo per l’enorme lavoro che fanno. Nel frattempo interverremo sugli altri tre settori: la carcerazione preventiva, per la quale oltre 15mila persone sono in carcere in attesa di una condanna definitiva. Poi il trasferimento di stranieri nelle carceri dei paesi d’ origine: si tratta di oltre 20mila detenuti: basterebbe mandarne via la metà. Infine i tossicodipendenti. Abbiamo stanziato 5 milioni all’anno per il loro trattamento in custodia attenuata, in comunità, o altre strutture accreditate diverse dal carcere. Anche qui siamo prossimi alla soluzione ma non sono cose che si possono improvvisare”. Reggio Calabria. Giuseppe Aloisio è il nuovo Garante dei diritti dei detenuti ilreggino.it, 3 agosto 2025 “Saremo la voce delle persone private della libertà personale”. Dopo Agostino Siviglia e Giovanna Russo, oggi garante regionale, è l’avvocato Giuseppe Aloisio il nuovo garante delle persone private della libertà personale del comune di Reggio Calabria. Ieri mattina la presentazione nel salone dei Lampadari “Italo Falcomatà” di palazzo San Giorgio alla presenza del sindaco Giuseppe Falcomatà e degli altri componenti dell’Ufficio. Responsabilità e impegno - “Oggi mi viene affidata una grande responsabilità che nasce dalla mia esperienza professionale. Spesso -ha sottolineato Giuseppe Aloisio, neo garante delle persone private della libertà personale del comune di Reggio Calabria - noi avvocati non riusciamo a dare una risposta immediata alle tante problematiche che afferiscono agli istituti di pena. E quindi la figura del garante diventa un riferimento per dare riscontri più concreti a chi è ristretto ed è privato della libertà personale. Insomma una grande responsabilità proprio per prestare massima attenzione al percorso di reinserimento che è alla base della funzione rieducativa della pena, dunque all’aspetto trattamentale, al diritto alla salute. Questi gli aspetti prioritari. Ci sono gli strumenti anche se troppo teoria e pratica non coincidono. Vanno considerati anche i contesti già problematici. Tanto al Panzera quanto ad Arghillà, le criticità del sovraffollamento e della sproporzione tra il numero dei detenuti e quello degli agenti di polizia penitenziaria. in ambito sanitario c’è poi il vulnus dell’osservazione psichiatrica, fermo restando che occorre anche intervenire sulle comunità terapeutiche e sulle rems affinchè vi possa essere una maggiore adeguatezza dei trattamenti. C’è un bel da fare ma sono impegnato unitamente agli altri professionisti che compongono l’ufficio, Francesco Pizzi, Giuseppe Gentile, Davide Barillà e Rebba Reitano. Faremo sentire la voce delle persone detenute, affinché il loro diritti siano riconosciuti, e daremo voce alle problematiche carcerarie, affinchè la loro detenzione sia effettivamente rieducativa”, ha rimarcato Giuseppe Aloisio, neogarante delle persone private della libertà personale del comune di Reggio Calabria. Sinergie per garantire dignità - “Per l’Amministrazione comunale - ha sottolineato il sindaco di Reggio Calabria, Giuseppe Falcomatà - è importante esserci anche in questo ambito, specie alla luce della criticità che insistono nei nostri istituti penitenziari. Un punto di vista essenziale per problematiche di carattere assolutamente nazionale. Garantire alle persone private della libertà personale una detenzione in dignità è un compito prioritario. In questa città costituisce un sentire collettivo l’impegno per i percorsi di reinserimento sociale e lavorativo tali da consentire al termine del periodo di restrizione di ricominciare. Tutto ciò avviene in sinergia con le case circondariali, con la prefettura e con le altre istituzioni cittadine, con le forze dell’ordine. Le sfide sono anche altre, importanti e di rilievo nazionale. Sono convinto che con l’avvocato Aloisio e tutto il l’ufficio del Garante continueremo nel solco di quanto già avviato e intraprenderemo nuove iniziative. Intanto li ringrazio per quella che sarà la loro attività svolta a titolo totalmente gratuito. Ciò costituisce un ulteriore gesto di partecipazione di cittadinanza attiva”, ha concluso il sindaco di Reggio Calabria, Giuseppe Falcomatà. Pisa. Carcere Don Bosco, La città delle persone: “Servono interventi urgenti e coordinati” cascinanotizie.it, 3 agosto 2025 Il gruppo consiliare rilancia l’allarme sul sovraffollamento dell’istituto penitenziario di Pisa e chiede un tavolo Interistituzionale permanente. La situazione all’interno del carcere Don Bosco di Pisa preoccupa, soprattutto per il sovraffollamento di oltre 100 detenuti rispetto alla capienza regolamentare. Sulla questione interviene il gruppo consiliare La città delle persone, che chiede l’impegno concreto delle Istituzioni su un’emergenza “non più rimandabile”. Tra le proposte, l’attivazione di un tavolo Interistituzionale per il monitoraggio e la gestione condivisa delle criticità. Il carcere Don Bosco di Pisa ospita oggi 102 detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare. Una condizione di sovraffollamento insostenibile, che viola la funzione costituzionale del carcere e mette a rischio la dignità, la salute e la vita delle persone detenute. A conferma di ciò, i casi di suicidio e i disordini verificatisi rappresentano una tragedia che non può più essere ignorata. Il gruppo consiliare “La città delle persone” esprime il proprio sostegno all’iniziativa promossa il 30 luglio dalla Conferenza Nazionale dei Garanti delle Persone Private della Libertà. In particolare, condividiamo e rilanciamo l’appello lanciato davanti al Don Bosco dai garanti territoriali di Pisa e Volterra, Valentina Abu Awwad ed Ezio Menzione, insieme alla direttrice dell’Istituto, Dott.ssa Lazzarotto, e ai numerosi rappresentanti del volontariato cittadino. La loro denuncia del grave sovraffollamento e delle condizioni di vita in carcere non può cadere nel vuoto. È necessario che il Ministero della Giustizia e l’Amministrazione comunale di Pisa si assumano pienamente la responsabilità di affrontare questa emergenza con misure concrete e coordinate. Accogliamo positivamente l’apertura dello sportello anagrafico interno al carcere, frutto di una collaborazione virtuosa tra volontariato e Comune. Ma serve di più. Chiediamo con forza l’attivazione immediata di un Tavolo Interistituzionale - già richiesto in Seconda Commissione Consiliare - che consenta un monitoraggio costante della situazione, valorizzi il lavoro di chi opera quotidianamente all’interno del Don Bosco e affronti in modo strutturale e condiviso l’emergenza. L’indifferenza uccide. Il carcere non può e non deve essere un luogo di abbandono, né un buco nero dei diritti. Come forza politica che mette al centro la dignità della persona, ribadiamo che non esiste giustizia senza umanità e continueremo a vigilare affinché nessuno venga lasciato indietro, neppure - e soprattutto - dietro le sbarre Venezia. “Ponti”: voci e speranze dal carcere di Santa Maria Maggiore citynotizie.it, 3 agosto 2025 Il secondo numero di “Ponti”, il periodico realizzato all’interno della casa circondariale Santa Maria Maggiore di Venezia e promosso dall’associazione Il Granello di Senape, si configura come un’indagine complessa e profondamente umana sulle dinamiche del disagio carcerario, con particolare attenzione al fenomeno del suicidio. Più che una mera cronaca, il giornale offre uno spazio di riflessione, testimonianza e, soprattutto, di speranza, attraverso la voce di chi vive quotidianamente il sistema penitenziario e di coloro che vi operano. L’argomento centrale, il dramma dei suicidi in carcere, è affrontato con sensibilità e rigore, cercando di sviscerare le cause profonde che conducono a gesti estremi. Il numero non si limita a presentare dati statistici o analisi sociologiche, ma dà voce alle esperienze personali, ai vissuti interiori di detenuti e operatori, offrendo una prospettiva multiforme che invita a una comprensione più ampia del problema. Si tratta di un tentativo di rompere il silenzio che spesso avvolge le carceri, di creare un ponte tra l’esterno e un mondo spesso percepito come impermeabile e distante. Oltre all’analisi del suicidio, “Ponti” dedica ampio spazio ad altre problematiche cruciali che affliggono la popolazione carceraria. Un servizio inchiesta denuncia le pratiche commerciali vessatorie legate al cosiddetto “servizio del sopravvissuto”, che impongono costi elevati per l’acquisto di beni di prima necessità, aggravando ulteriormente la condizione di vulnerabilità dei detenuti. L’intervista a Ferdinando Ciardiello, educatore con decenni di esperienza alle spalle, offre una prospettiva storica e una riflessione sul cambiamento (o sulla mancanza di esso) nel sistema penitenziario. Il giornale celebra anche iniziative positive che dimostrano come la riabilitazione e l’integrazione siano possibili. Il laboratorio di genitorialità, ad esempio, rappresenta un intervento mirato a supportare i padri detenuti nel loro percorso di crescita personale e nella costruzione di un rapporto significativo con i propri figli. Il progetto “Way Out”, che ha permesso a detenuti di partecipare attivamente alle feste popolari della città, simboleggia un tentativo di abbattere le barriere sociali e di favorire un senso di appartenenza alla comunità. Gli editoriali, firmati dal Cnel (in merito all’accordo “Recidiva Zero”) e dal cappellano don Massimo Cadamuro, sollevano questioni fondamentali sul futuro del sistema penitenziario, interrogandosi sulla possibilità di una società che sappia affrontare la devianza non attraverso la mera punizione, ma attraverso la rieducazione e l’inclusione. Don Massimo, in particolare, pone il problema radicale di una visione alternativa alla detenzione, auspicando una società in grado di offrire alternative alla carcerazione come strumento di risarcimento e reinserimento sociale. Il giornale, distribuito gratuitamente in formato cartaceo a tutta la popolazione carceraria e disponibile in formato digitale sul sito web dell’associazione e via email, si propone come uno strumento di comunicazione, sensibilizzazione e dialogo, con l’obiettivo di promuovere una cultura della legalità, della giustizia e della speranza all’interno e all’esterno delle mura carcerarie. Si tratta di un’azione concreta per favorire una maggiore comprensione delle complessità del mondo carcerario e per stimolare un dibattito pubblico costruttivo sulle politiche penali. Venezia. Con “Way out” i detenuti sono in servizio alle sagre genteveneta.it, 3 agosto 2025 Prosegue con risultati tangibili il protocollo “Way out”, siglato tra la Casa circondariale maschile di Santa Maria Maggiore e l’associazione “Il granello di senape”, che promuove l’inclusione sociale delle persone detenute attraverso attività volontarie e lavori di pubblica utilità a favore della collettività. In occasione della 55ª edizione della Festa de San Piero de Casteo, due detenuti hanno prestato il proprio servizio durante i giorni della manifestazione, ricevendo ampio apprezzamento da parte del Comitato promotore e della cittadinanza per il senso di responsabilità e l’impegno dimostrati. In parallelo, nell’ambito dello stesso protocollo, altre due iniziative hanno impegnato due detenuti in occasione di altre due feste cittadine: la festa dell’Angelo Raffaele - e anche in questo caso l’apprezzamento per il contributo offerto nella pulizia e sistemazione degli ambienti è stato caldo e sincero - e la festa di San Francesco della Vigna, la cui presidente ha espresso riconoscenza per il lavoro svolto, sottolineando la serietà, l’impegno e l’entusiasmo dei due ristretti coinvolti. L. così racconta la sua esperienza: “Abbiamo montato palchi, stand e gazebi, abbiamo preparato tutto per la festa, ho incontrato persone fantastiche che mi hanno fatto sentire uno di loro e di questo sono molto grato”. Mentre C. aggiunge: “La cosa più bella per me è che tutti, in carcere, dal direttore, agli educatori, dagli agenti, ai volontari, hanno creduto in me: si sono fidati. E altrettanta fiducia e calore ho trovato negli organizzatori delle feste. Nessuna domanda. Soltanto “prendi un paio di guanti e una maglietta”, e si cominciava a lavorare insieme”. Tre esperienze, tre contesti diversi, ma un unico messaggio: la possibilità di costruire fiducia e cambiamento attraverso il lavoro e la relazione. “In questi gesti concreti - commenta Maria Voltolina, presidente dell’associazione “Il granello di senape” - si racchiude il senso più autentico del protocollo “Way out”: restituire dignità attraverso il “fare” e costruire legami attraverso la responsabilità. Ringraziamo la direzione della Casa circondariale, l’Area educativa e tutti gli operatori per aver creduto in questo percorso comune, nonché le realtà del territorio per aver accolto i detenuti con rispetto e calore. Per noi volontari questi risultati danno senso al nostro fare quotidiano”. Piacenza. Padri e figli, alle Novate laboratorio di scrittura per detenuti e studenti liberta.it, 3 agosto 2025 Alcuni sono giovani, poco più che ragazzi. Altri hanno i capelli bianchi. A una prima occhiata non si può sapere chi di loro sia stato padre, fuori dalle mura delle Novate. Certo è che continuano a esserlo anche lì dentro, fra le pareti dei corridoi colorate come quelle di una scuola. Chissà cosa hanno pensato gli studenti del liceo Gioia che l’altro pomeriggio si sono ritrovati a depositare negli armadietti zaini e cellulari per entrare nella casa circondariale di Piacenza: ad accoglierli la direttrice Maria Gabriella Lusi che dal 2020 sostiene il progetto “Genitori comunque” portato avanti con l’associazione “Verso Itaca”. A essere promossi sono dei percorsi di genitorialità che mettono a fianco padri liberi e papà in carcere, facendoli incontrare e condividendo lo strumento della scrittura autobiografica. In quest’ottica un ruolo però lo hanno anche i ragazzi che fanno un percorso sull’essere figli: ieri ad accompagnare una trentina di studenti delle ultime classi del Gioia sono state la dirigente scolastica Cristina Capra e le insegnanti Elisabetta Malvicini, Annalisa Trabacchi e Donata Horak. Il progetto è partito con una conferenza della professoressa Maria Cristina Bolla sulla genitorialità nel mondo antico che ha visto intervenire, nel ruolo di lettori, Paolo Contini e Alberto Gromi: presenti, oltre ai ragazzi del Gioia, anche i detenuti e le detenute delle Novate. “Credo che conoscere anche questa realtà nella vita offra l’occasione di sviluppare un senso di cittadinanza particolare - spiega Lusi rivolgendosi agli studenti - non si viene in carcere per curiosità ma per vivere un pezzo di vita. La scuola si apre al carcere e viceversa: del resto ad accomunare questi due mondi è il loro essere istituzionale, sociale ed educativo”. Cagliari. Libri oltre le sbarre: l’impegno della Città metropolitana kalaritanamedia.it, 3 agosto 2025 Un protocollo quinquennale per rafforzare la biblioteca del penitenziario, promuovere la lettura e costruire percorsi culturali per i detenuti della Casa circondariale di Uta. Un ponte culturale tra dentro e fuori, tra istituzioni e comunità. È questo lo spirito che anima il nuovo Protocollo d’intesa firmato lunedì 29 luglio a Cagliari, presso Palazzo Regio, tra la Città Metropolitana di Cagliari e la Casa Circondariale “Ettore Scalas” di Uta. L’accordo, valido per i prossimi cinque anni, rinnova e rafforza la collaborazione tra il Sistema Bibliotecario Metropolitano di Monte Claro e la Direzione dell’istituto penitenziario, con l’obiettivo di promuovere la lettura e l’accesso alla cultura all’interno della struttura carceraria. L’iniziativa si inserisce all’interno del più ampio quadro nazionale definito da un protocollo tra il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP), la Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, l’Associazione Italiana Biblioteche (AIB) e l’ANCI, che punta a potenziare il ruolo delle biblioteche nelle carceri italiane. Nel concreto, il Sistema Bibliotecario di Monte Claro si impegna - nel rispetto delle esigenze organizzative e di sicurezza dell’istituto - a: Incrementare il patrimonio librario della biblioteca carceraria attraverso donazioni selezionate; Riattivare il programma “Nati per Leggere”, già sperimentato negli anni passati, con attività dedicate ai genitori detenuti e ai loro figli; Organizzare eventi culturali, come presentazioni di libri da parte degli autori; Offrire corsi formativi di base per insegnare ai detenuti incaricati le tecniche fondamentali di catalogazione e gestione di una biblioteca. La firma di questo nuovo protocollo non è che la naturale prosecuzione di un rapporto nato nel 2018, che ha già prodotto risultati significativi. Negli ultimi anni, infatti, la Città Metropolitana ha: Donato numerosi volumi e fornito circa 8000 etichette per la catalogazione, oltre a un computer per la biblioteca della sezione femminile; Realizzato un corso di formazione biblioteconomica rivolto ai detenuti, culminato in un esame finale e nel rilascio di un attestato; Portato il progetto “Nati per Leggere” dentro il carcere, coinvolgendo detenuti e familiari in momenti di lettura condivisa; Allestito un angolo accoglienza per bambini, con arredi e libri, nella sala d’attesa dei colloqui familiari. Attraverso la biblioteca, il carcere si apre alla comunità e viceversa, restituendo centralità alla cultura come strumento di crescita personale, inclusione e reinserimento. Un libro può non cambiare il mondo, ma può cambiare una giornata, un pensiero, un modo di guardarsi dentro. Ed è proprio da qui che si costruisce un futuro diverso. Corpi esclusi e reclusi. Viaggio nelle carceri d’Italia di Vittorio Lingiardi La Repubblica, 3 agosto 2025 Riflettere sulla realtà penitenziaria attraverso le storie e i libri che le hanno raccontate. “La politica dorme con l’aria condizionata”. La frase è di Gianni Alemanno, al momento detenuto a Rebibbia. L’ha letta nell’aula del Senato Michele Fina del Partito Democratico. Alemanno descrive le “celle forno” e la fortuna di chi possiede un ventilatore. Ma i problemi sono cronici, il caldo si limita ad ampliarli crudelmente. Pochi investimenti, sovraffollamento, mancanza di personale, malattie fisiche e disturbi mentali. “Carceri invivibili”, ha detto il Presidente Mattarella incontrando il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. E ha aggiunto: “Fermiamo i suicidi”, più di 120 tra il 2024 e il 2025. La realtà carceraria e la riflessione (politica, filosofica, psicologica) che dovrebbe accompagnarla interessa a pochi, con qualche volonterosa eccezione. Eppure la Costituzione dice che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Perché prevale l’idea della punizione? Forse la convinzione che si tratti di cittadini di serie B, che diventano serie C o D se stranieri? Come sempre, quando ti fai domande su un argomento, l’argomento poi ti viene a cercare. Per questo è importante farsi domande. Risposte, e altre domande, mi sono arrivate da libri che mi invitavano a riflettere non solo sulle leggi, ma anche sugli affetti. Libri capaci di sbloccare zone anchilosate del pensiero. Uno è stato, lo scorso anno, Ogni prigione è un’isola (Mondadori) di Daria Bignardi che mescolando storie private e storie pubbliche aggira le nostre difese e ci aiuta a capire che i temi di pochi sono temi di tutti. “Non è che mi piacciano”, dice delle prigioni, “al contrario. Ma dentro c’è la quintessenza della vita com’è: dolore, ingiustizia, povertà, amore, malattia, morte, amicizia”. Di amore (e di tutto il resto) parla Donatella Stasio nel suo nuovo libro L’amore in gabbia. La ricerca di libertà di un reduce dal carcere (Castelvecchi). Per anni responsabile della comunicazione e portavoce della Corte costituzionale, da sempre impegnata sui temi della giustizia, Stasio racconta il carcere attraverso l’esperienza “incarnata” di Gianluca, una vita in prigione, oggi piccolo imprenditore riuscito, ma per sempre segnato dall’esperienza di solitudine, porte chiuse, muri spessi, cieli interdetti, affettività rubata. È la storia di un corpo imprigionato che racconta, a chi in prigione non c’è stato, chi è, in sintesi, un carcerato: un corpo - biologico, relazionale, affettivo - escluso e recluso. In un Paese dove troppo spesso sentiamo dire “buttate la chiave”, L’amore in gabbia è un libro che prende quella chiave per aprire la cella e farne una stanza senza “più pareti, ma alberi infiniti quando sei vicino a me”. La canzone di Mina mi viene in mente perché Stasio ci spinge a pensare, foucaultianamente, a come il potere interviene sulle forme d’amore. “Lo spazio non può essere concepito unicamente come luogo di custodia, ma deve includere ambienti destinati alla socialità, all’affettività”, dice ancora Mattarella. Qui penso al volume Donne in carcere. Ricerche e progetti per Rebibbia (LetteraVentidue) di Pisana Posocco, docente alla Sapienza di Progettazione architettonica e urbana. Posocco ha coordinato il progetto della Casa per l’affettività e la maternità inaugurata pochi anni fa da Renzo Piano nel carcere femminile di Rebibbia. “Una piccola cosa, una scintilla in un tema complesso. Ma tante scintille insieme possono cambiare le cose”. Il mio viaggio tra libri e prigioni finisce con Il gabbio. Storie di umanità reclusa (Mimesis). Lo ha appena scritto Gianluca Biggio, per vent’anni psicologo a Regina Coeli. Un racconto sensoriale sulla vita delle persone in carcere: i silenzi, le parole, i rumori, gli odori, i dolori. Un viaggio di realtà e finzione che ancora una volta ci consegna al corpo del prigioniero, alla sua pelle, dunque alla sua verità. Cenerentola nel carcere di Volterra. Punzo apre nuovi spazi di visione di Filippo Trojano* Left, 3 agosto 2025 Trentasei anni dopo l’allestimento de “La gatta cenerentola”, la compagnia della Fortezza ricrea la narrazione, interrogando la politica sulla condizione carceraria. Sono passati molti anni da quando fu allestito il primo spettacolo all’interno del carcere di Volterra dove il regista Armando Punzo aveva iniziato a costruire il suo progetto di ricerca teatrale che l’avrebbe portato quarant’anni dopo a ricevere il leone d’oro alla carriera alla Biennale di Venezia. Quel primo spettacolo, allora pensato con un gruppo ristretto di detenuti-attori napoletani era La gatta Cenerentola, ispirato alla celebre opera di Roberto De Simone. Oggi, a trentasei anni di distanza e dopo una costruzione di tre anni passata per lo studio Atlantis del 2024, una nuova “Cenerentola” si affaccia ancora nella drammaturgia del regista partenopeo. Ma da quel lontano 1989 le cose sono potentemente cambiate e cresciute in modo esponenziale. Oggi la Compagnia della Fortezza è ormai una realtà conosciuta in tutto il mondo e la sua storia è diventata un riferimento per tutti quelli che realizzano progetti teatrali nelle realtà carcerarie e non solo. Un lavoro immenso dunque, condotto giorno dopo giorno con costanza ha portato alla creazione di decine di spettacoli come il Marat-Sade, I Negri, Orlando Furioso, Macbeth, Amleto, I Pescecani, Pinocchio, Hamlice, passando per Mercuzio non vuole morire, fino ai recenti Beatitudo e Naturae, per approdare all’ultima fatica di quest’anno: Cenerentola (andata in scena dal 25 al 28 luglio all’interno della Fortezza Medicea e il 1 agosto alle 21,30 al teatro Persio Flacco di Volterra). Un anno, questo 2025 che ha visto come molti altri nella storia della Compagnia della Fortezza delle novità che segnano aperture profonde sia nella storia del lavoro teatrale e drammaturgico, sia della vita e le dinamiche carcerarie. Perché nella ricerca di Armando Punzo questi due aspetti sono sempre fusi e in dialogo costante. Se per Mercuzio infatti, per la prima volta nella storia della compagnia venne fatta entrare dall’esterno una ragazza a lavorare con i detenuti interpretando Giulietta segnando un precedente dopo che per tanti anni anche i personaggi femminili erano interpretati sempre e solo da uomini, per Beatitudo insieme ai detenuti-attori comparve un bambino nel campetto da calcio del carcere (il campino) trasformato per la scena in una enorme piscina/palcoscenico. Così oggi, ancora una volta la ricerca teatrale ha portato ad una novità potente. In mezzo ad uno spettacolo strutturato nella sua essenza sul bianco e il nero (le scene di Alessandro Marzetti e i costumi di Emanuela Dall’Aglio sono di una bellezza da togliere il fiato) compare come unico altro colore quello dei capelli rossi di Viola Ferro, una giovane attrice professionista che dà corpo e voce secondo il metodo di Grotowski alla base del lavoro della compagnia, a qualcosa di nuovo che sembra addentrarsi per la prima volta tra le mura della Fortezza e forse nella nostra immaginazione. Vedendola e ascoltandola sulla scena echeggiano certe creature shakespeariane, come Bella di Povere Creature e ancora Ada, l’affascinante pianista del capolavoro di Jane Champion. “Ci siamo incamminati nella più pura ricerca, dove il colore svincolato da ogni riferimento naturalistico si fa pura modulazione di luce”. Infiniti come sempre i rimandi alla storia dell’arte, alla filosofia, la scienza; ci sono Dalì e Picasso, (anche la chitarra del fedele compositore Andreino Salvadori è stata scenografata e trasformata al punto da farci pensare esser stata presa dal famoso quadro cubista del 1912, Bec a gas et guitare). Si parla poi di creature mitologiche: tartarughe, uccelli, unicorni, elefanti, (anche il toro di Guernica ha fatto irruzione in questo nuovo spettacolo che sembra ripercorrere per salti la storia del mondo degli ultimi 300 anni o forse più. Si parla di numeri, di geometrie, di architetture interiori, e profondamente di una resistenza necessaria per tendere verso una costante utopia di una vita migliore possibile. E sono tanti i personaggi di questa grande giostra che ci invitano a farlo, personaggi che portano pensieri complessi con la loro voce, i loro dialetti e accenti. Il pittore, lo scienziato, lo scrittore, l’esploratore, il critico d’arte, l’astronomo, il matematico, il filosofo, il fisico, il poeta… E al termine di questo spettacolo di due ore circa (ma dopo il quale sembrano essere passati secoli) da cui si esce con la sensazione di non aver probabilmente capito nulla, restano infinite visioni e un rinnovato stupore davanti a tanta meraviglia anche agli occhi di chi (come chi scrive) conosce ormai da anni il lavoro di Punzo e dei suoi attori. Restano dentro le musiche, gli sguardi potenti, la danza… resta una canoa arrivata da lontano su cui ha remato un ragazzo cinese con la schiena di un pesce e che ha portato fino a noi una ragazza dai capelli rossi con cui abbiamo viaggiato su un’acqua invisibile; restano i cappelli a cilindro, i guanti bianchi che hanno disegnato traiettorie infinite; e ancora un enorme destriero bianco, una scacchiera-mare e un cavallo che muove ad L come ultimo personaggio lasciato in scena dal regista che sembra invitarci ancora una volta, una volta fuori, a fare la nostra mossa, cosi come aveva già fatto molti anni prima il cavaliere de “Il settimo sigillo” sfidando la morte. “Ci voglio mille pensieri per portare a termine un quadro” dice il regista/Cenerentola, “Non è mai esistito un tempo senza movimento” dice Viola/Cenerentola; “Nell’osservare un insetto ci si dimentica il fiore sconosciuto su cui sta camminando. Avanzare in territori sconosciuti è per me come entrare nella mia vita” dice Paul/Esploratore. Ed è proprio Paul a segnare un’altra commovente e significativa novità nel lavoro e nella storia della Compagnia della Fortezza, perché oggi è finalmente un uomo libero e non più un detenuto-attore, dal momento che da febbraio ha finito di scontare la sua pena e continua a collaborare con il regista e la compagnia dopo aver ottenuto un’autorizzazione permanete che segna un precedente nella storia delle carceri italiane, per poter tornare ogni giorno a lavorare alla creazione di nuovi spettacoli e che oggi è anche il protagonista di un nuovo lavoro intitolato “Fame” che debutterà nella sua interezza a gennaio del prossimo anno. *Fotografo, giornalista e saggista Quei ragazzi speranza anche per i laici di Franco Garelli La Stampa, 3 agosto 2025 Venticinque anni fa, al Giubileo del 2000, erano due milioni i giovani cattolici accorsi a Roma per celebrare la Giornata Mondiale della Gioventù. Un grande evento, un’enorme partecipazione, salutata tuttavia dai mass media in modo controverso. Chissà perché, si parlava della fiumana dei presenti, ma anche dell’immensa massa di assenti, o di quelli che manifestavano diversamente, visto che proprio in quel periodo si è celebrato nel centro della cattolicità anche un Gay Pride “dimostrativo”. Ma il maggior contrasto si è avuto quando qualcuno ha ricordato che in quei giorni di agosto, sulla riviera romagnola (in un’area pari a quella di Tor Vergata) erano ammassati altrettanti giovani fornicanti quanti se ne contavano a Roma, penitenti. Ciò per dire che tanti giovani avevano risposto allora all’invito di Papa Wojtyla, ma assai molti di più erano rimasti al mare. Col raduno odierno queste contrapposizioni sono scomparse. I giovani sono un po’ meno, ma pur sempre intorno al milione, perché la secolarizzazione si fa sentire e la fede si sta purificando. Ma pur un po’ asciugati, stanno ottenendo una considerazione pubblica senza precedenti. Non ci sono solo i chierici che celebrano un po’ enfaticamente “la meglio gioventù” dell’area cattolica impegnata, ma anche molti commentatori laici e molta gente comune sembrano in qualche modo’ “coccolarsi” i giovani testimoni di una fede aggiornata. Perché è tanta la speranza che si sprigiona da Tor Vergata. Anzitutto l’idea di essere di fronte a dei giovani normali, ricchi anch’essi di smartphone e di mondi virtuali ma che nello stesso tempo si nutrono di rapporti faccia a faccia e dello stare insieme costruttivo. Giovani dai volti mediamente puliti, ma non ingenui; con meno tatuaggi e piercing del solito; con sguardi perlopiù sereni e luminosi; felici di “esserci” e “di vivere un’esperienza di fede e di amicizia planetaria”. Giovani credenti dunque che non sono fuori del mondo, che ogni giorno devono confrontarsi con amici e compagni di studio/lavoro che reputano Gesù una fake news o considerano la fede religiosa una faccenda da “minorenni”, se non da “minorati”; per cui si servono dei momenti collettivi come la Gmg per confrontarsi sul senso di un credere che offre loro orizzonti che altri non avvertono. Si tratta inoltre di un cammino di fede (di una fede-ricerca) operosa e fruttuosa, fortemente coniugata sul tema della pacifica convivenza tra i popoli, sensibile ai grandi drammi che l’umanità sta vivendo, da Gaza a Kiev, dalla situazione ecologica del pianeta ad un mondo pieno di scarti umani. Pur orfani di Francesco, molti di questi giovani sono ormai entrati in piena sintonia con Leone, da cui traggono forza, motivazioni e fiducia, e al quale offrono il loro sostegno perché continui a richiamare i potenti della Terra alle loro responsabilità. Ecco dunque il protagonismo dei giovani al Giubileo 2025. Sono tuttavia dei soggetti particolari, che partecipano non tanto perché legati ad un’associazione (anche se molti lo sono) o perché l’evento ha un carattere istituzionale. Ma anzitutto in quanto cercatori di proposte e di esperienze che siano significative in termini umani/comunitari e di fede. In questa loro flessibilità sembra delinearsi un nuovo modo di interpretare l’esperienza religiosa, che più che essere inficiata da istanze individualistiche tende ad affermare i valori dell’autenticità. Cittadinanza, il discorso tossico da ribaltare di Filippo Miraglia Il Manifesto, 3 agosto 2025 Una parte di chi ha raccolto l’appello al voto, e si riconosce nelle forze di opposizione, ha votato in modo differente nel referendum sulla cittadinanza rispetto ai quattro quesiti sul lavoro. La costante è evitare le domande scomode. I numeri dei referendum ci raccontano qualcosa di importante: una parte di chi ha raccolto l’appello al voto, e si riconosce nelle forze di opposizione, ha votato in modo differente nel referendum sulla cittadinanza rispetto ai quattro quesiti sul lavoro. Un dato che mostra una discontinuità culturale all’interno dello stesso elettorato progressista. Il quesito sulla cittadinanza, che riguardava la riduzione da 10 a 5 anni del periodo minimo di residenza per la richiesta di naturalizzazione, non è stato esente da pregiudizi e paure. Noi dell’Arci siamo stati tra i promotori. Inizialmente si era ipotizzato un quesito sull’accesso alla cittadinanza per i minorenni nati o cresciuti in Italia. Ma questa opzione è stata scartata, sia per la sua complessità tecnica che per il timore di una campagna troppo ideologica, che avrebbe potuto alimentare tensioni e derive razziste. Si è così optato per un quesito più semplice. Ma anche questa scelta, che voleva evitare lo scontro frontale, ha dovuto fare i conti con una realtà avvelenata da anni di propaganda. Il tema immigrazione è stato talmente distorto da diventare quasi impronunciabile, intrappolato in una rappresentazione tossica che rende difficile affrontarlo, anche solo in parte, in modo razionale. Un sondaggio realizzato da YouTrend e illustrato da Giovanni Diamanti durante un seminario dell’Arci ha evidenziato che, a fronte di una spiegazione chiara e semplice del quesito, il consenso saliva sensibilmente tra gli elettori e le elettrici di quasi tutti i partiti. Le persone hanno risposto positivamente quando il quesito veniva “decodificato” nelle sue conseguenze concrete. Ma questo non significa che, con una migliore comunicazione, l’esito sarebbe stato diverso. Piuttosto dimostra quanto sia difficile superare un discorso pubblico ostile, costruito e sedimentato in decenni, pieno di false evidenze e percezioni distorte. Ribaltare questo immaginario collettivo richiederebbe tempo, risorse, competenze e volontà politica - tutte cose oggi scarse. Le destre, in questi anni, hanno costruito un’egemonia fondata sull’odio per lo straniero, portata avanti senza pause e con coerenza. Lo vediamo in Trump, in Orbán, in Meloni: contesti diversi, ma strategie convergenti. Di contro, le forze democratiche e anche gran parte della stampa - inclusa la Rai sempre più appiattita sul governo - non hanno saputo costruire un racconto alternativo. Anzi, in più occasioni hanno rincorso l’agenda e i linguaggi della destra, adottandone parole chiave come “emergenza”, “invasione”, “sicurezza”. Si è arrivati persino a teorizzare che “la sicurezza non è né di destra né di sinistra”, legittimando così l’idea che bastasse gestire meglio l’approccio repressivo. Un esempio clamoroso è rappresentato dalla “dottrina Minniti”: fare meglio quello che propone la destra, ma con un approccio tecnico e un linguaggio misurato. Oggi, come già in passato, la presenza di un governo di destra produce un riavvicinamento tra opposizioni e società civile. Ma la vera domanda è: cosa accadrà quando cambierà la maggioranza? Verranno davvero cancellati i provvedimenti più crudeli, discriminatori e persecutori? Oppure resteranno in vigore, come già accaduto in passato? La legge Bossi-Fini, che ha stravolto il Testo Unico sull’immigrazione, è ancora in vigore. Anzi, è stata peggiorata. Così come la legge sulla cittadinanza, risalente al 1992, non è mai stata modificata. Tutto questo mentre crescono nuove generazioni di italiani e italiane di fatto, ma non di diritto. Noi vogliamo restare ottimisti, ma non possiamo limitarci a sperare. Per questo continueremo a lavorare, insieme alle altre realtà del terzo settore, per rafforzare il protagonismo delle organizzazioni delle persone di origine straniera e per chiedere al centrosinistra un cambio radicale: nei contenuti, nei linguaggi, nei metodi. Solo così potrà farsi spazio un’alternativa vera, credibile e duratura. Migranti. Il Governo accelera sui rimpatri, nuovo scontro con i giudici sui Centri in Albania di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 3 agosto 2025 Tensione dopo la sentenza della Corte Ue. Il pressing di Palazzo Chigi per anticipare il piano europeo. Era, è, e probabilmente sarà sempre più, scontro sui rimpatri dei migranti. All’indomani della sentenza della Corte di Giustizia europea sui Paesi sicuri, che chiede al giudice di valutare se davvero siano da considerarsi tali per il migrante ma stabilisce anche che se un Paese non è sicuro per qualcuno non lo è per nessuno, il governo rimette in moto la macchina dei rimpatri. Riattiva le procedure per la gestione accelerata dei rinvii nei Paesi d’origine, valuta di ridestinare allo scopo i centri in Albania, attualmente utilizzati come Cpr, contando sul fatto che, spiegano fonti qualificate “non avendo nominato in sentenza i centri di Albania la Corte abbia ritenuto che siano legittimi” e preme sull’Ue affinché anticipi l’adozione del patto per la sicurezza e le migrazioni. Ritenendo che “l’arrivo del regolamento con la lista unica di Paesi sicuri sia una norma sovranazionale che non consentirà più ai giudici interpretazioni diverse o disapplicazioni”. Ma è proprio su questo punto che già si profila lo scontro. Secondo l’Anm non è così. La “sentenza sarà valida anche dopo l’adozione del nuovo regolamento”, dice al Corriere il segretario Rocco Maruotti. Il principio che l’ultima parola sul rispetto dei diritti spetti al giudice “non può essere cancellato”, aggiunge. L’Unione Camere Penali esulta e conferma: “È sempre possibile per il migrante contestare l’inserimento di un Paese nella lista e per il giudice verificare la fondatezza della scelta. Le scelte legislative non possono sottrarsi a limiti e controlli quando sono in gioco diritti fondamentali”. E sottolinea che la magistratura “a seguito del pronunciamento della Corte di Giustizia europea, avrebbe tutti gli strumenti per intervenire” anche a tutela dei detenuti in “condizioni di sovraffollamento, inumane e degradanti”. Uno scontro, quello tra politica e giudici, che il partito di Matteo Salvini anticipa. “La decisione della Corte di Giustizia europea conferma l’assalto delle toghe rosse ai nostri confini, sia in Italia che all’estero”, si legge in una nota della Lega. “Non ci arrenderemo mai, siamo pronti a dare battaglia e in autunno i Patrioti presenteranno una mozione di sfiducia contro Ursula von der Leyen, incapace di tutelare il Vecchio Continente e l’Italia in particolare”. Non solo sull’immigrazione ma anche sul “folle Green Deal che non aiuta l’ambiente ma danneggia famiglie e imprese”, si promette. Da Bruxelles si fa sapere che i rilievi della Corte sulla designazione dei Paesi sicuri sono previsti nel nuovo Patto per le migrazioni e l’Asilo, che include il nuovo regolamento sui rimpatri. Norme che dovrebbero entrare in vigore a giugno 2026, ma che la commissione ha “già chiesto di anticipare”, ha confermato un portavoce. Ricapitolando però i principi stabiliti dalla Corte: a partire dal fatto che la designazione di Paesi di origine di Paese sicuro può essere certamente effettuata mediante un atto legislativo ma solo “a condizione che tale atto possa essere soggetto a un effettivo controllo giurisdizionale”. Tuttavia ha riconfermato l’obiettivo di trattare domande d’asilo infondate in modo rapido ed efficiente. “Mi auguro prevalga la democrazia sulla dittatura togata”, attacca Maurizio Gasparri (Fi). E Davide Faraone (Iv) replica: “Solo chi ha una concezione malata della democrazia poteva sorprendersi per la ovvia sentenza della Corte”. Migranti. La sentenza europea sul modello Albania riaccende lo scontro fra Meloni e la Chiesa di Francesco Peloso Il Domani, 3 agosto 2025 La Cei non alza i toni in una fase di rapporti positivi col governo: dalla gestione organizzativa del Giubileo dei giovani alla legge sul fine vita. Da parte cattolica tuttavia cresce il dissenso per le politiche migratorie dell’esecutivo. Non c’è pace sul fronte delle politiche migratorie fra governo e chiesa cattolica. Da ultimo a riaccendere il fuoco della polemica, è stata la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, sul protocollo Italia-Albania per la gestione di due centri di accoglienza dei migranti. La Corte, infatti, ha dato torto al governo italiano su un punto chiave della vicenda: ovvero la definizione di paese sicuro nel quale rimpatriare il singolo migrante. Secondo i giudici europei, “tale designazione può essere effettuata mediante un atto legislativo, a condizione che quest’ultimo possa essere oggetto di un controllo giurisdizionale effettivo vertente sul rispetto dei criteri sostanziali stabilite dal diritto dell’Unione”. La decisione presa dalla corte, che di fatto pone una pietra tombale sull’iniziativa albanese dell’Italia, ha suscitato reazioni veementi da parte di diversi esponenti della maggioranza di governo; da parte ecclesiale, viceversa, non sono mancate le voci favorevoli alla decisione. Mons. Gian Carlo Perego presidente della Commissione Cei che si occupa dei migranti e presidente della Fondazione Migrantes, non le ha mandate a dire. “L’ennesima sconfessione della politica migratoria del governo - ha detto all’Adnkronos - viene dalla Corte giustizia europea, che condanna la possibilità di utilizzare i Centri in Albania perché non garantiscono la tutela dei richiedenti asilo”, ha detto. Tuttavia, il passaggio che ha mandato su tutte le furie la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, è stato questo: “Il balletto di decreti e di leggi per utilizzare come hub, come centri di accoglienza e come Cpr le strutture costose realizzate in Albania, termina con questa dichiarazione della Corte europea che ormai non lascia margini ad altre, subdole manovre per allontanare il dramma di migranti in fuga dai nostri occhi e dalla nostra responsabilità costituzionale”. Quella parola, “subdole”, è stata la pietra dello scandalo, secondo Meloni, infatti, “la politica migratoria del governo non è subdola” poiché - ha detto al Corsera la premier - “Noi non mascheriamo l’intento di combattere le organizzazioni criminali o di far rispettare le leggi dello Stato italiano, obiettivi che consideriamo lodevoli”. Quindi ha consigliato a Mons. Perego “di avere maggiore prudenza nell’uso delle parole”. Un conflitto a tutto tondo, nel quale, per ora, la Cei preferisce non addentrarsi ulteriormente, lo stesso fa la Fondazione Migrantes. D’altro canto, la collaborazione fra governo e Cei sembrava essere entrata in una fase virtuosa: nel momento in cui centinaia di migliaia di ragazzi di ogni parte del mondo stanno affluendo a Roma per il Giubileo della gioventù, mobilitando imponenti forze di sicurezza e della protezione civile, non è parso utile aprire un conflitto con la presidenza del Consiglio su un tema tanto delicato come quello delle politiche migratorie. Tanto più che in gioco c’è anche la legge sul fine vita dove l’Esecutivo si è mostrato sensibile alle ragioni della chiesa. Tuttavia, cosa pensano molte organizzazioni laiche e cattoliche dei centri in Albania, è ben esemplificato dall’ultimo report del Tavolo asilo e immigrazione (del quale fanno parte tra gli altri Caritas, Comunità di Sant’Egidio, comunità Papa Giovanni XXIII), pubblicato alla fine di luglio, sul protocollo Italia-Albania, con un focus sui trasferimenti coatti nel centro di Gjader, convertito di recente in Centro di permanenza per il rimpatrio. “Il ‘modello Albania’, ancor di più nell’attuale configurazione - si legge nel testo - non è solo un progetto operativo: è un dispositivo di governo fondato sull’opacità e sullo svuotamento degli spazi di democrazia. Il Parlamento è stato marginalizzato, il ruolo della società civile ridotto, le informazioni rese inaccessibili anche ai soggetti istituzionali legittimati al controllo. In questo senso, il modello si fonda su una produzione attiva di invisibilità: delle persone trattenute, dei luoghi in cui si trovano, dei procedimenti che le riguardano”. In generale, va ricordato, che la chiesa critica il governo non solo per il caso Albania; terreno di scontro è diventato per esempio il tema della cittadinanza. L’intervento del Papa - Lo stesso mons. Perego ascoltato in audizione dalla commissione Esteri della Camera lo scorso 25 giugno, affermava: “Ogni riforma della legge sulla cittadinanza non può ridursi a un semplice indebolimento dello ius sanguinis, senza prevedere - attraverso strumenti come lo ius soli temperato o lo ius scholae - un adeguato riconoscimento della cittadinanza a chi è parte integrante della nostra società”. “Riteniamo quindi necessario - aggiungeva - che il dibattito politico resti aperto, libero da irrigidimenti ideologici, e che venga affrontato con coraggio e senso di responsabilità, nella consapevolezza che la cittadinanza è anzitutto un diritto da garantire, non un privilegio da concedere”. Infine, va sottolineato, che il papa nel messaggio per la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato, del 25 luglio scorso, ha affermato: “Molti migranti, rifugiati e sfollati sono testimoni privilegiati della speranza vissuta nella quotidianità, attraverso il loro affidarsi a Dio e la loro sopportazione delle avversità in vista di un futuro, nel quale intravedono l’avvicinarsi della felicità, dello sviluppo umano integrale”. La Commissione Ue: sbrigarsi ad anticipare il patto sull’asilo di Giansandro Merli Il Manifesto, 3 agosto 2025 L’invito a Europarlamento e Consiglio: votate la proposta che supera la sentenza della Corte di Lussemburgo. Le nuove norme entreranno comunque in vigore da giugno 2026, introdurle prima richiede comunque dei mesi. La Commissione Ue “incoraggia Parlamento e Consiglio a procedere il più rapidamente possibile” per anticipare le norme del patto europeo su immigrazione e asilo, che permetterebbero di superare i rilievi sollevati venerdì dalla Corte di giustizia di Lussemburgo sui “paesi di origine sicuri”. Lo ha detto ieri all’agenzia Agi un portavoce dell’istituzione guidata da Ursula von der Leyen, che ancora una volta corre in aiuto del governo di Giorgia Meloni. Il cui gruppo non è parte della maggioranza europea. Lo fa al prezzo dell’ennesimo testacoda in questa vicenda. A gennaio scorso la Commissione aveva depositato una memoria scritta alla Corte di Lussemburgo, nel procedimento che l’altro giorno ha portato alla sentenza che ha dato torto all’esecutivo italiano su tutta la linea, in cui escludeva che l’attuale direttiva procedure permettesse di considerare come “di origine sicura” un paese in cui sono perseguitate intere categorie di persone. Un mese dopo, nell’udienza alla Grande chambre del 25 febbraio, ha cambiato idea sostenendo che ciò era possibile. Ieri ha affermato che lo permetteranno le norme la cui entrata in vigore è prevista per il 12 giugno 2026. Ha dunque ammesso, di nuovo, che con quelle attuali non si poteva fare. Come ha scritto la Corte nella sua decisione. La proposta di anticipare alcuni punti del patto è stata presentata dalla Commissione il 16 aprile scorso. C’è l’applicazione delle procedure accelerate di frontiera, quelle che prevedono la detenzione e finora sono riservate ai richiedenti originari dei “paesi sicuri”, ai cittadini di Stati che a livello europeo hanno un tasso di accoglimento d’asilo inferiore al 20%. Poi la possibilità della designazione di sicurezza anche in presenza di eccezioni territoriali e per categorie di persone. Infine, l’istituzione di un primo elenco come di “paesi di origine sicuri”: Kosovo, Colombia, India, Marocco, Bangladesh, Egitto e Tunisia. Molti meno dei diciannove inseriti nella lista italiana ma con dentro quelli che interessano a Meloni per il progetto Albania (gli ultimi tre). Il Consiglio ha discusso la proposta in tre occasioni, l’ultima il 31 luglio. In teoria, secondo il trattato sul funzionamento dell’Unione europea che all’articolo 294 disciplina la procedura legislativa ordinaria, dovrebbe prima votare il Parlamento. Nella prassi, però, le cose possono andare in maniera diversa, con un esame parallelo delle due istituzioni. In ogni caso ci sono diversi passaggi da seguire, a partire dall’adozione del mandato a negoziare da cui deriva la convocazione del trilogo. Per quanto si possa fare in fretta ci vogliono comunque dei mesi e all’entrata in vigore del patto, che al di là di quello che va ripetendo il governo Meloni potrebbe non risolvere tutti i problemi giuridici del protocollo con Tirana, ne mancano dieci. Intanto gli esponenti del governo continuano a prendersela con la sentenza della Corte Ue. Per il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi “non cambia la nostra linea, noi andiamo avanti”. Sebbene al momento l’unica ipotesi di funzionamento di Gjader è quella residuale per i migranti “irregolari” deportati dall’Italia. Secondo il vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani (Forza Italia): “Quel provvedimento non ha senso”. I toni più duri, come al solito, li usa la Lega: “La decisione della Corte di Giustizia europea conferma l’assalto delle toghe rosse ai nostri confini, sia in Italia che all’estero. Non ci arrenderemo mai, siamo pronti a dare battaglia”. I salviniani hanno annunciato una mozione di sfiducia contro von der Leyen per l’autunno, insieme al gruppo dei Patrioti. Stati Uniti. Alligator Alcatraz, anche un lodigiano detenuto nel centro migranti in Florida di Carlo d’Elia Corriere della Sera, 3 agosto 2025 L’uomo sarebbe stato fermato lo scorso 12 luglio a Miramar, nella Contea di Broward. Gli altri due connazionali detenuti sono sono Fernando Eduardo Artese, 63 anni, con passaporto italiano-argentino, e Gaetano Cateno Mirabella Costa, che sarà rimpatriato il giorno seguente. Dovrebbe rientrare in Italia il 5 agosto l’unico cittadino italiano attualmente detenuto nel penitenziario di Alligator Alcatraz, la struttura per migranti irregolari in Florida. Secondo quanto si apprende da fonti di governo, si tratta di Samuel Gheorghe, un 30enne di Lodi arrestato il 12 luglio a Miramar, sempre in Florida. Il giorno dopo, sempre secondo le fonti, dovrebbe invece rientrare anche Gaetano Mirabella Costa, detenuto dai primi di luglio ad Alligator e successivamente trasferito nel Centro Ice di Krome a Miami. L’uomo sarebbe stato fermato lo scorso 12 luglio a Miramar, nella Contea di Broward, ed è stato sottoposto a una misura detentiva provvisoria. Il suo è il terzo caso di un italiano rinchiuso nella controversa prigione voluta dal presidente Donald Trump per gestire i flussi migratori degli Stati Uniti. Gli altri due connazionali già noti alle autorità sono Fernando Eduardo Artese, 63 anni, con doppio passaporto italiano e argentino, arrestato mentre cercava di lasciare il Paese per tornare in Argentina dopo aver superato il limite del suo permesso di soggiorno; e Gaetano Mirabella Costa, 45 anni, originario della Sicilia, trasferito ad Alligator Alcatraz per violazioni legate all’immigrazione, ma già detenuto per precedenti penali, tra cui aggressione e possesso di droga. Dopo che le famiglie dei due avevano completato le procedure previste, il consolato italiano a Miami era riuscito a ottenere il trasferimento di entrambi in un centro per migranti meno rigido, a Krome. Tuttavia, solo Artese è stato poi rilasciato e rimpatriato in Argentina. Mirabella Costa resta invece negli Stati Uniti, in attesa di un’udienza davanti al giudice. Ora l’attenzione si sposta sul caso del lodigiano, su cui la Farnesina e il Consolato stanno lavorando con urgenza, nella speranza di chiudere la vicenda il prima possibile