Scontro tra Nordio e Giachetti sui numeri della Polizia penitenziaria di Errico Novi Il Dubbio, 31 agosto 2025 Il ministro replica al deputato di Italia Viva, secondo il quale “il netto di agenti in più, dal 2022 a oggi, è di appena 133 unità”. Per Nordio, invece, il saldo al 31 dicembre 2025 arriverà a +4.028 agenti. Sulle carceri italiane si accende un nuovo fronte polemico, con uno scambio durissimo tra il ministro della Giustizia Carlo Nordio e il deputato di Italia Viva Roberto Giachetti. Al centro della disputa ci sono i numeri dell’organico della polizia penitenziaria e l’efficacia delle politiche messe in campo dal governo Meloni. Secondo i dati diffusi dal Ministero, nell’ottobre 2022 il personale del Corpo di Polizia Penitenziaria, in tutti i ruoli e qualifiche, ammontava a 36.641 unità. Nell’agosto 2025 il numero è salito a 37.977. Un incremento netto, spiega Nordio, che al 31 dicembre 2025 arriverà a +4.028 agenti, e non a +133 come invece sostenuto da Giachetti durante un intervento a Omnibus su La7. Il Guardasigilli dettaglia le cifre: dal 2022 sono state effettuate 7.407 assunzioni, a cui vanno aggiunti i 3.246 agenti che inizieranno la formazione a dicembre e altri 653 posti per i quali il termine delle domande scade a metà settembre. Complessivamente, al 31 dicembre 2025, il piano assunzionale porterà a 11.309 nuove unità. A fronte di queste immissioni, però, si contano anche 6.906 pensionamenti dal 2022 a oggi, cui si aggiungeranno altri 475 entro fine anno, per un totale di 7.381 uscite. La differenza finale, ribadisce Nordio, è un saldo positivo di 4.028 agenti. “Altro che 133 - replica il ministro -. Si tratta di uno straordinario piano assunzionale, per il quale sono stati impegnati oltre 107 milioni di euro a regime. È la prova del pragmatismo del governo e della determinazione del presidente Meloni nel rafforzare la sicurezza del sistema penitenziario”. Durissima la controreplica di Giachetti, che a Omnibus aveva accusato l’esecutivo di “vendere fumo”. “Il governo, che è in carica da tre anni, sulle carceri fa un sacco di chiacchiere. È la banda dei fanfaroni: bravissimi a parlare, ma incapaci di agire. La gara per i prefabbricati è saltata, va rifatta da capo, con un ulteriore aumento dei costi”. Per l’esponente di Italia Viva, i numeri forniti da Nordio non fotografano la realtà del sistema penitenziario. “È normale che nella pubblica amministrazione le uscite per pensionamenti vengano coperte con nuove assunzioni. Il netto di agenti in più, dal 2022 a oggi, non è di 4.028 ma di appena 133 unità. Nel frattempo, la popolazione carceraria è esplosa: dai 51 mila detenuti del 2022 si è passati a oltre 63 mila. Il sovraffollamento medio è al 135%, ma in istituti come Regina Coeli a Roma si tocca il 205%. In certe sezioni un solo agente deve controllare 180 detenuti divisi su tre piani”. Una situazione che, secondo Giachetti, rappresenta “la più grave violazione dei diritti, non solo per i detenuti ma anche per gli stessi agenti di polizia penitenziaria, costretti a lavorare in condizioni impossibili”. Il deputato ha anche richiamato l’attenzione sullo sciopero della fame di Rita Bernardini, presidente di Nessuno tocchi Caino, giunta al 19° giorno di protesta per sollecitare l’approvazione della proposta di legge sulla liberazione anticipata, presentata proprio da Giachetti in Parlamento. Lo scontro, insomma, non è soltanto sui numeri, ma sul significato politico da attribuire a quei numeri. Il lungo autunno giudiziario del Governo: per Meloni sarà una via crucis di Enrica Riera Il Domani, 31 agosto 2025 Nuovi propositi, nuovi obiettivi. Ma anche nuovi processi. L’estate è agli sgoccioli e ci si prepara a ripartire. Anche nelle aule di giustizia dove già dal mese di settembre sono attesi imputati “eccellenti”. Tradotto: uno e più membri del governo dovranno affrontare i procedimenti in cui si trovano coinvolti e che in base all’esito rischiano di metterne a repentaglio la poltrona. Chi sono i fedelissimi della premier Giorgia Meloni che dovranno essere giudicati davanti alla scritta “la legge è uguale per tutti?”. Partiamo dalla ministra del Turismo Daniela Santanchè che, abbandonato lo yatch su cui ha trascorso le vacanze insieme al collega di partito Ignazio La Russa, sarà costretta a far fronte a una serie di guai. La meloniana è quella che conta forse il maggior numero di grane giudiziarie. Mandata a processo lo scorso giugno dal giudice monocratico di Roma, Alfonso Sabella, il 16 settembre dovrà presentarsi a piazzale Clodio per la prima udienza: l’accusa è quella di diffamazione nei confronti di Giuseppe Zeno, il finanziere azionista di minoranza di Visibilia, dai cui esposti è partita un’altra inchiesta. Quella per falso in bilancio in base alla quale la senatrice è stata rinviata a giudizio a Milano insieme al suo compagno Dimitri Kunz e ad altre quindici persone. Le udienze del processo meneghino relative al crac della società della ministra hanno subito diversi rinvii: l’ultimo, disposto a luglio a causa del cambio di funzione di due giudici, è stato fissato al 16 settembre. Cioè nella data in cui Santanché dovrà trovarsi a Roma. Riuscirà la capa del dicastero di via di villa Ada a essere in due luoghi contemporaneamente? Il timore dei magistrati milanesi è che la loro udienza slitti per l’ennesima volta: del resto nelle scorse settimane gli stessi pm Marina Gravina e Luigi Luzi avevano parlato di “rischio prescrizione”. La ministra prontamente aveva ribattuto: “Preferirei l’assoluzione piena, ma questo non dipende certo da me”. C’è chi giura tuttavia che un altro rinvio non le sarebbe affatto sgradito. Rimanere in sella? Resistere ad eventuali nuove mozioni di sfiducia avanzate dalle opposizioni? Sembrano questi gli scopi principali della “Santa”. Che però, proprio a causa dei procedimenti citati, come potrà dedicarsi alle delicate pratiche del suo dicastero? Un mistero di cui probabilmente si verrà a capo nei mesi prossimi. Quando la ministra dovrà affrontare anche ulteriori inciampi. Tra questi ci sono le indagini sulla bancarotta fraudolenta che, in base a quanto apprende Domani, dovrebbero chiudersi entro questo dicembre. E poi c’è il guaio maggiore, sempre legato a Visibilia. La senatrice di Fratelli d’Italia sta infatti affrontando le udienze preliminari per una possibile truffa aggravata ai danni dell’Inps e pertanto dello Stato: 126mila euro per una presunta gestione irregolare della cassa integrazione in deroga Covid per tredici dipendenti. A questo proposito Santanché dovrà fare ingresso negli spazi del tribunale meneghino a ottobre, giorno 17. Ma una “soluzione” è già dietro l’angolo. La ministra ha chiesto alla Giunta delle immunità del Senato di esprimersi sull’utilizzo, da parte della procura di Milano, di “registrazioni occulte”, chat e mail che la riguardano e che formano il nucleo dell’accusa nei suoi confronti. L’obiettivo è che venga sollevato dal Senato un conflitto tra poteri dello Stato che solo la Corte costituzionale potrebbe sciogliere. Entro il 15 settembre Santanchè dovrà anche presentare alla Giunta una sua memoria e poi potrebbe essere sentita in un’audizione ad hoc. Il sottosegretario - Alla prova dei giudici sarà chiamato ancora una volta il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove. Che subito dopo la condanna a otto mesi per rivelazione di segreto a margine del caso Cospito, aveva annunciato di fare appello. “Una sentenza politica! Questa sentenza si commenta da sola! Dopo che l’accusa ha chiesto per tre volte l’assoluzione, arriva una sentenza di condanna fondata sul nulla. Attendo trepidante le motivazioni per fare appello e cercare un Giudice a Berlino”, aveva scritto sui social il numero due di via Arenula. Le motivazioni dei giudici di piazzale Clodio in effetti sono arrivate: le giustificazioni fornite dal sottosegretario “sono prive di senso logico”. Per i giudici dell’ottava sezione del tribunale di Roma, Delmastro inoltre “ha messo in pericolo la lotta al crimine”. La vicenda è nota: la divulgazione in aula di informazioni riservate da parte di Giovanni Donzelli, deputato di Fratelli d’Italia, ottenute dall’amico e collega di partito Delmastro, in merito ai colloqui in carcere di Alfredo Cospito, l’anarchico ristretto al 41 bis. Notizie riservate utilizzate dall’esponente meloniano per attaccare alcuni deputati del Pd, rei di aver fatto visita al recluso in sciopero della fame. Il collegio dei giudici, nelle motivazioni, ha pure sottolineato quanto detto da alcuni dei testimoni del processo. In particolare è stato fatto riferimento all’audizione di Giusy Bartolozzi, zarina del ministero, capa di gabinetto del ministro Carlo Nordio. La magistrata in aula aveva sostenuto che le informazioni non fossero più segrete perché “viste da migliaia di persone”. Una giustificazione respinta dai giudici perché “non per questo viene meno il segreto”. La sentenza a cui si è di fatto appellato il sottosegretario non solo, quindi, sembra inguaiarlo: racconta pure il livello di competenza dalle parti di via Arenula. Il caso Almasri - Livello di competenza che è apparso ancor più chiaro a seguito della vicenda Almasri, il torturatore libico nei cui confronti la Corte dell’Aia aveva diramato un mandato d’arresto e che il governo italiano ha rimpatriato con un volo di Stato a gennaio. I primi di agosto il tribunale dei ministri ha archiviato la posizione della premier, ma emesso un provvedimento di autorizzazione a procedere verso il guardasigilli Nordio, il capo del Viminale Matteo Piantedosi e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano. Gli uomini della presidente, secondo il collegio speciale, avrebbero favorito la fuga di Almasri. Per questo sono accusati a vario titolo di peculato, omissione di atti d’ufficio, favoreggiamento. Sempre dalle carte giudiziarie emergono i silenzi del ministro della Giustizia: sono i più assordanti. A gestire la vicenda sarebbe stata proprio la capa di gabinetto Bartolozzi su cui ora rischiano di accendersi i fari della procura di Roma. Ragione per cui a via Arenula i tecnici stanno studiando una strategia per salvarla. Una sorta di scudo per proteggerla da eventuali indagini del tribunale ordinario. Comunque, dopo la consegna degli atti alla Camera, la presidenza della giunta per le Autorizzazioni ha deciso che la relazione sul caso Almasri sarà ultimata entro settembre: il 3 verrà definito il calendario dei lavori e saranno invitati per apposite audizioni sia Nordio sia Piantedosi sia Mantovano. Dopodiché si passerà alle votazioni: salvare o meno i ministri? Estendere l’immunità alla zarina del ministero della Giustizia? Tutti interrogativi a cui prestissimo bisognerà dare una risposta. Nel frattempo, se il presidente della Camera Lorenzo Fontana ha rigettato l’istanza di Alleanza Verdi Sinistra di rendere pubblico l’intero fascicolo Almasri, si attende ancora di capire se verrà accolta l’altra proposta di Avs: rendere gli atti accessibili a tutti i deputati e non solo alla giunta. Infine, ce n’è anche per il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Matteo Salvini. Sul leader del Carroccio è attesa la decisione della Cassazione, a cui a luglio la procura di Palermo ha fatto ricorso contro la sentenza che lo ha assolto dai reati di sequestro di persona e rifiuto d’atti d’ufficio per la vicenda Open Arms. Secondo i pm Salvini nel 2019 avrebbe trattenuto illegittimamente a bordo della nave della ong un gruppo di migranti, impedendone per diciannove giorni i soccorsi. Cosa decideranno i giudici di legittimità? Quello che si profila è un autunno al chiuso dei tribunali. Ostellari: “Togliamo i figli ai genitori che li mandano a rubare” di Davide Tamiello Il Gazzettino, 31 agosto 2025 Il Sottosegretario al Ministero della Giustizia alza ancora l’asticella nella lotta al fenomeno dei borseggi. Brugnaro ha chiesto di metterli in cella per una notte, Zaia di poterli controllare con il braccialetto elettronico. Il sottosegretario al ministero della Giustizia, il padovano Andrea Ostellari, alza ancora di più l’asticella nella lotta ai borseggiatori: superare il principale ostacolo normativo, la riforma Cartabia, ripristinando la procedibilità d’ufficio e togliere i bambini ai genitori che li mandano a rubare. Sottosegretario, quelle proposte dal sindaco di Venezia Luigi Brugnaro e dal presidente della Regione Luca Zaia sono strade percorribili? Possono essere efficaci? “Partiamo da un presupposto: i cittadini chiedono sicurezza. Le soluzioni per ottenerla possono essere diverse, e, per risultare efficaci, devono rientrare all’interno di un disegno complessivo. I contributi degli amministratori sono sempre ben accetti, anche perché arrivano da chi ha a che fare con le persone ogni giorno. Sul tema borseggiatrici però la Lega è già al lavoro. Abbiamo depositato una proposta di legge e aperto il dibattito con gli alleati”. Daspo e fogli di via vengono puntualmente violati. Sono strumenti superati? “Sono utili strumenti di prevenzione e danno molti benefici. Poi, certo, esistono anche violazioni e queste vanno sanzionate. Ricordiamoci che non tutti i criminali sono uguali: c’è chi sbaglia una volta e chi è recidivo. Dotare le Forze dell’ordine e la magistratura di molti e diversi mezzi per contrastare l’illegalità è un vantaggio. La proposta di Luca Zaia, per esempio, di comminare daspo o ammonimenti nei confronti dei turisti indisciplinati può essere funzionale all’obiettivo di rendere più decorose le città d’arte e le mete di maggior richiamo”. La legge Cartabia nelle città turistiche ha complicato il lavoro di contrasto ad alcuni reati come truffe e borseggi. Come intende intervenire il Governo? “Come dicevo, la Lega ha depositato una proposta di legge per riportare la perseguibilità d’ufficio per alcuni reati, come il furto con destrezza. La reazione da parte delle altre forze di centrodestra è stata positiva. Ora faremo sintesi e auspico che, quel testo, eventualmente valorizzato dal contribuito di tutti, possa essere inserito anche in un prossimo decreto”. Quanto tempo ci vorrà per vedere operativo il nuovo decreto sicurezza bis? “Alla ripresa dei lavori porremo il tema. Come abbiamo sempre detto, il decreto sicurezza approvato a giugno era solo un primo passo ed ha consentito di risolvere alcuni problemi, a partire dalla piaga dei ladri di case. Ora andremo avanti per reprimere un’altra serie di reati che allarmano le nostre comunità: furti in casa e borseggi in primis. Senza dimenticare che proseguirà anche il percorso di ampliamento delle garanzie per le forze dell’ordine, con l’istituzione della tutela processuale per chi agisce in presenza di una causa di giustificazione”. Si stanno valutando misure cautelari più restrittive per i recidivi? “Ne parleremo. Ma il miglior strumento contro la recidiva è il lavoro. Da quando siamo al governo, abbiamo aumentato di un terzo le opportunità di occupazione per i detenuti. Per un calcolo ben preciso: chi impara un mestiere in carcere, quando esce nel 98% dei casi non delinque più. Posso confermare che i primi risultati si vedono e andremo avanti su questa strada”. Negli ultimi mesi a Venezia sono aumentate soprattutto le borseggiatrici minori, al di sotto dei 14 anni e quindi non imputabili. Come intervenire? “Se un bambino commette reati è soprattutto il genitore che deve pagare. Grazie al decreto Caivano, introdotto l’anno scorso, questo già succede. Il dodicenne, per esempio, che compie un illecito punito con pene non inferiori ai 5 anni, viene convocato con mamma e papà e a questi ultimi viene intimato di intervenire e controllarlo. Se non lo fanno, pagano sanzioni salate e perdono tutta una serie di privilegi. Cosa fare di più? Per esempio applicare questa misura a tutte le fattispecie. E non solo: esiste un protocollo già avviato per togliere i figli ai genitori mafiosi. Penso sia necessario estenderlo anche nei confronti di chi manda i minori a rubare nelle nostre città”. La mezza riforma del processo amministrativo Italia Oggi, 31 agosto 2025 Dal 16 settembre entrerà in vigore il nuovo codice della giustizia amministrativa. Una riforma importante nel senso della trasformazione del contenzioso con la pubblica amministrazione in un “giusto processo”, che ormai poco si discosta dalle regole e dalla finalità dell’ordinario processo civile. Fino a una decina di anni fa il procedimento davanti al Tribunale amministrativo serviva in sostanza a garantire un privilegio fondamentale della parte pubblica, tanto che lo scopo era essenzialmente quello di stabilire se l’atto impugnato fosse illegittimo o meno. E anche in caso di annullamento dell’atto, spesso il cittadino non otteneva alcun ristoro. Nel 1999 la Corte di Cassazione, con la fondamentale sentenza n. 500, ha detto che anche gli interessi legittimi possono essere fonte del risarcimento del danno causato al cittadino, ponendo così la pubblica amministrazione sullo stesso piano del cittadino. Da qui è iniziato un percorso che ha portato nei giorni scorsi all’approvazione del codice della giustizia amministrativa, con il quale si disciplina per la prima volta in modo organico il rito davanti a Tar e Consiglio di stato con l’obiettivo di assicurare alle due parti in causa la stessa dignità. Si introducono così istituti quali le verifiche tecniche con consulenti imparziali (prima erano compiute dalla stessa amministrazione), la possibilità della testimonianza, il nuovo regime della fase cautelare e delle spese di soccombenza (chi perde paga) e addirittura un embrione di giudice monocratico per la fase istruttoria. C’è insomma una evidente assimilazione del processo amministrativo a quello civile e un venir meno quasi completo del privilegio garantito alla parte pubblica, che era il motivo fondamentale dell’esistenza di una giustizia parallela rispetto a quella ordinaria. A questo punto tanto varrebbe abolire del tutto questo quasi-doppione e rimettere tutte le cause alla giustizia civile. Si renderebbero i processi più veloci e si risparmierebbe qualche euro. Ma soprattutto si spazzerebbero via i residui di una mentalità ottocentesca (anzi, hegeliana) che ancora vede nei cittadini dei sudditi e nei funzionari pubblici i titolari di una potestà legittimata a guardare tutti dall’alto in basso. Marche. Giulianelli e il carcere a Macerata: “È utopia, nessuno lo vuole. Meglio puntare su Camerino” di Paola Pagnanelli Il Resto del Carlino, 31 agosto 2025 L’avvocato fa il bilancio dei suoi anni da Garante: dai detenuti ai disabili, tanti progetti in porto “Penitenziario? Piediripa la soluzione più logica, ma solo la città ducale vuole la struttura”. L’accesso agli atti delle amministrazioni pubbliche, il rispetto dei diritti dei disabili, la tutela dei minorenni e la condizione di carceri e detenuti: dal febbraio 2021 di questo si è occupato l’avvocato Giancarlo Giulianelli, garante dei diritti delle Marche. E ora, con il rinnovo del consiglio regionale in vista, per lui è tempo di bilanci in attesa che, dopo un periodo di prorogatio, la prossima amministrazione decida chi coprirà quel ruolo per i prossimi cinque anni. “Tante progettualità avviate andranno in porto - premette - dopo un lavoro che ha portato la Regione ad aumentare il budget di questo ufficio da 65mila a 450mila euro all’anno”. Risorse, spiega, indirizzate in cinque obiettivi: “Il garante si occupa di difesa civica, poi è garante dei minori, dei detenuti, delle discriminazioni e delle vittime di reato. A queste cinque competenze previste nel 2008, si è aggiunta nel 2022 anche un’altra, sulle disabilità, grazie alla consigliera regionale Anna Menghi che ha impedito la costituzione di una figura ad hoc. La mia esperienza da penalista mi ha portato ad avere particolare attenzione alle questioni legate alle carceri, soprattutto per progetti che dessero ai detenuti una alternativa rispetto alle passate, scellerate scelte di vita. In carcere i concetti di spazio e tempo sono invertiti rispetto al mondo esterno: lì lo spazio si restringe in pochi metri quadrati, e il tempo si dilata. L’idea era riempire quel tempo con la formazione, per la quale però servono risorse, e devo ringraziare la giunta per aver aumentato il budget dell’ufficio per questo”. Che tipo di progetti sono stati realizzati? “I più disparati e ovunque, dall’entroterra pesarese all’ascolano. Alcune iniziative hanno avuto una ribalta nazionale, come il premio “La casa in riva al mare” inventato con Enzo Nannipieri di Musicultura; i detenuti del Barcaglione hanno partecipato alla giuria, ma hanno anche partecipato a laboratori musicali, un’attività premiata come best practice nel 2024 dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria”. Quali i progetti in cantiere? “Il governo ha dato la possibilità di creare due hub per l’esecuzione penale esterna. Nelle Marche, a luglio c’erano 950 detenuti, però quelli che scontano una pena fuori dal carcere sono molti di più, circa 5mila. Tutte queste persone hanno bisogno di vari servizi, assistenza per trovare una casa o un lavoro, per prendere la patente. In tutta Italia il ministero sta avviando il progetto di realizzare degli hub, dei contenitori per questi servizi, e noi abbiamo intercettato il finanziamento. Ad Ancona abbiamo già trovato la sede, che metteremo a posto con i fondi del ministero; a Macerata non abbiamo ancora trovato uno spazio adatto, e neanche a Civitanova, che sarebbe stata funzionale visto che la maggior parte dei soggetti in esecuzione penale esterna gravitano sul territorio costiero. Un altro progetto è la realizzazione del centro regionale antidiscriminazione. Questo farebbe attività non solo su questioni di immigrazione, ma anche al sesso, alla lingua, la religione, alla tutela dei diritti Lgbt. Il centro, che a me piacerebbe realizzare a Macerata, anche per rispondere ai fatti del 2018 dopo l’omicidio di Pamela Mastropietro e la strage di Traini, è collegato con le università di Urbino e Macerata e vorrei coinvolgere anche la Caritas”. Quale è la cosa più brutta capitata in questi 4 anni? “Il suicidio di un ragazzo a Montacuto nel 2024, un anno orribile in cui furono oltre 80 suicidi nelle carceri italiane. È stato atroce. E poi la storia di un papà di Fabriano, che da anni cerca di vedere la figlia, portata dalla madre in Grecia. Le abbiamo tentate tutte, ma ci siamo scontrati con un muro di gomma”. E una bella? “Un detenuto straniero doveva fare un trapianto urgente di polmone, non riuscivamo a trovare una soluzione. Ma in collegamento con il collega del Veneto lo abbiamo fatto ricoverare a Padova dove è stato operato. Rischiava di morire, si è salvato”. In che condizioni sono le carceri delle Marche? “Hanno problemi vari. Fossombrone, appena ristrutturata, è l’unica realtà dignitosa, una eccezione con la Rems di Macerata Feltria, per gli autori di reato incapaci di intendere e di volere ma socialmente pericolosi: anche questa è stata ristrutturata ed è gestita molto bene. Per il resto, la situazione edilizia è scadente”. Che prospettive ci sono per il sovraffollamento? “Non è un problema risolvibile a breve purtroppo”. Il carcere a Macerata potrebbe aiutare? “Io ne auspico la realizzazione, ma è un’utopia. Dal punto di vista funzionale, sarebbe la cosapiù logica farlo a Piediripa. Ma Macerata non lo vuole. Invece Camerino, con una città e un territorio stupendi devastati dal sisma, lo vuole, come investimento per rivitalizzare la zona e dare un minimo di speranza per il futuro. Il carcere a Camerino sarebbe dono alla città che se lo merita ed è l’unica che lo vuole. Purtroppo in questo momento non ci sono fondi, ma la battaglia va fatta”. Da garante ha anche favorito l’impiego di detenuti nella ricostruzione... “Abbiamo firmato un protocollo nazionale con Anci, Cei, Ance, struttura commissariale e ministero della Giustizia. Siamo l’unica regione ad aver fatto i corsi di formazione per questo impiego. Ma è necessario che tutti i firmatari della convenzione, tra cui la Cei, facciano la loro parte per concretizzare il progetto e dare una chance di lavoro a queste persone”. Milano. La prima rivolta del Beccaria nel 1977: gli spari nella notte e l’evasione “alla rovescia” di Gianni Santucci Corriere della Sera, 31 agosto 2025 La notte del 2 aprile 1977, 73 detenuti immobilizzarono cinque agenti e provarono a scappare. E qualche mese dopo, all’evasione si sostituì l’invasione. Iniziarono a sparare. Mitra. Pistole. Erano arrivati in affanno e in sirena. Era passata da un po’ la mezzanotte. Alta emergenza. “I rivoltosi sono scesi nel cortile e hanno raggiunto l’uscita posteriore dell’istituto. Avevano già quasi divelto il cancello quando sono sopraggiunti alcuni equipaggi della Volante, del nucleo radiomobile dei carabinieri e della Celere che, dopo aver esploso numerose raffiche di mitra e colpi di pistola in aria, sono riusciti a convincere i giovani a desistere dal loro tentativo di fuga”. È la cronaca delle prima rivolta nel carcere minorile Beccaria. Era la notte del 2 aprile 1977. Prima di provare a scappare, i 73 ragazzi detenuti avevano sopraffatto cinque agenti. Avevano distrutto tutto. Letti, armadi, porte, vetri, poltrone. Avevano dato fuoco ai materassi. Provarono a sfondare e scappare in massa. L’istituto venne circondato da 150 agenti. Il giorno dopo quaranta giovani furono trasferiti in altre carceri, in altre Regioni. Buona parte del Beccaria era inagibile. Era un istituto di rieducazione. Nel 1972 passò sotto il ministero della Giustizia. Divenne un carcere minorile, tra Baggio e Lorenteggio. Il luogo è lo stesso di oggi. E anche i problemi, dopo mezzo secolo, in qualche modo sembrano ricorrere. Dopo la rivolta, il direttore dell’epoca, Antonio Salvatore, rifletteva sul “continuo ricambio del personale, la carenza delle strutture e l’inasprirsi della violenza”, per concludere che il lavoro per provare a recuperare i ragazzi “non si riusciva a portare a termine”. Il 16 giugno dello stesso anno un 17enne di Corsico riuscì a saltare il muro e iniziò a correre, un agente sparò prima in aria, poi piantò un secondo proiettile nella coscia del fuggiasco. L’8 luglio una decina di ragazzi prese a bastonate un agente rimasto isolato durante un turno di guardia (gli spaccarono una mano, fece 35 giorni d’ospedale): sette scapparono, quattro vennero ripresi subito. Erano tempi di violenza continua, ripetitiva, recidiva, all’apparenza non contenibile. Un’altra protesta/rivolta s’innescò pochi mesi dopo, il 25 luglio ‘77: “I ragazzi sono rimasti padroni del campo e hanno iniziato la sistematica distruzione dei tavoli e delle vetrate - raccontava il Corriere il giorno dopo. Poi si sono dispersi in piccoli gruppi nei cortili e nei corridoi del palazzo, alcuni hanno raggiunto i tetti, altri hanno dato alle fiamme due materassi”. A Milano erano anni di violenza politica, scontri di piazza feroci, scorribande di rapinatori, bische clandestine, sequestri di persona, eroina dilagante, e così le storie del “Beccaria” fluivano nella cronaca senza che la città prestasse particolare attenzione, violenza che si disperdeva in altra e peggiore violenza. Tanto che a far notizia arrivò un accadimento anomalo, che si staccava dalla consuetudine del carcere minorile, se ne distanziava anzi in maniera completamente opposta: il 21 giugno 1979 fu la notte non dell’evasione, ma dell’invasione del Beccaria. Si disse anche: evasione alla rovescia. “Il curioso episodio è maturato verso l’una. A quell’ora, un guardiano ha scorto due ombre che si muovevano sui tetti. Pensando a un’evasione autentica e tradizionale, il guardiano ha seguito le due ombre, come meglio poteva, nel buio, e le ha viste scendere cautamente nel cortile, dove si sono fermate”. Poco dopo il guardiano vide una terza ombra che sbucava fuori dal dormitorio. I tre ragazzi si appartarono in cortile. Quando gli agenti li raggiunsero, non stavano facendo nulla di losco. I due “esterni” erano usciti da poco. Erano tornati al “Beccaria” per salutare l’amico rimasto recluso. “Sono stati rimandati a casa, con una bonaria sgridata”. Alba (Cn). La verità sul carcere: “La sezione principale riaprirà entro ottobre” di Daniela Scavino La Stampa, 31 agosto 2025 L’annuncio del direttore della Casa di reclusione Nicola Pangallo. E i container prefabbricati? “Più nessuna comunicazione”. Ad Alba la casa di reclusione Giuseppe Montalto si prepara a una fase decisiva della sua lunga stagione di cantieri. Dopo anni di chiusure parziali e capienza ridotta, il direttore dell’istituto, Nicola Pangallo, conferma che “entro ottobre sarà completata la fase uno dei lavori, con la riconsegna della sezione detentiva principale”. Un passaggio che consentirà di riattivare 91 camere, per una capienza complessiva tra i 170 e i 180 posti. Resta invece incerta la vicenda dei moduli prefabbricati: fino a metà agosto pareva che ad Alba dovessero essere collocati due container da 24 posti ciascuno, per un totale di 48 nuovi letti. Un progetto nazionale promosso dal commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria, anche se contestato da sindacati e giudicato da molti “costoso e disumano”. Ma negli ultimi giorni l’appalto è stato revocato per l’aumento dei costi (da 32 a 45,6 milioni di euro) e, secondo l’ultimo aggiornamento diffuso, Alba non rientra per ora tra le sedi prioritarie. “Come istituto - spiega Pangallo - ci siamo fermati al sopralluogo iniziale, durante il quale era stata individuata l’area per i prefabbricati. Non abbiamo ricevuto ulteriori comunicazioni ufficiali. È possibile che il progetto torni in agenda, ma al momento non ci sono tempi né certezze”. Il carcere oggi ospita 48 reclusi, tra cui due semiliberi e alcuni detenuti in articolo 21 con un lavoro all’esterno. Una popolazione ridotta e particolare: si tratta soprattutto di internati sottoposti a misure di sicurezza detentiva, molti con disturbi psichiatrici o gravi fragilità. “Anche per questo la gestione quotidiana non è semplice e richiede un impegno straordinario da parte della polizia penitenziaria”, spiega Pangallo. Sul fronte sanitario pesa l’assenza di un presidio medico attivo 24 ore su 24, più volte denunciata dai sindacati. Il direttore precisa: “La copertura attuale è legata alla dimensione ridotta dell’istituto. Con la riapertura e l’aumento dei detenuti, i protocolli con l’Asl dovranno essere rivisti e ampliati”. La prospettiva è che Alba torni a essere una vera casa di reclusione, di media sicurezza. Questo aprirebbe la strada a una ripartenza anche sul piano trattamentale. “Una volta riaperta la sezione principale - dice Pangallo - sarà necessario avviare osservazioni individuali e valutare quali percorsi attivare, in linea con il principio costituzionale del reinserimento”. Su questo punto il confronto è stato netto: l’ex garante regionale Bruno Mellano e il garante albese Emilio De Vitto hanno ribadito che non basta “aggiungere letti”, ma serve un progetto capace di valorizzare le risorse già presenti, dal teatro alla biblioteca, al vigneto. Senza spazi e attività, il rischio è che la detenzione si riduca a permanenza in cella, un modello censurato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Il direttore conclude: “Siamo consapevoli che per evitare tensioni e criticità servono progetti, lavoro, formazione. È quello che auspichiamo di costruire insieme alla comunità e agli enti territoriali”. Crotone. +Europa: “Situazione del carcere drammatica, serve un piano straordinario” ilcrotonese.it, 31 agosto 2025 Il sovraffollamento è tra i problemi più gravi: 120 detenuti a fronte di 99 posti. Solo 50 gli agenti di polizia penitenziaria su 85 previsti. “La situazione del carcere di Crotone è drammatica e non più sostenibile. Ogni giorno personale e detenuti affrontano condizioni che minano sicurezza, salute e diritti fondamentali. Serve un piano urgente e strutturale, non soluzioni tampone”. È l’allarme lanciato da Mariasole Cavarretta, coordinatrice provinciale di +Europa, e da Ivan Papasso, presidente di +Europa Cassano all’Ionio, dopo la visita alla casa circondariale del capoluogo pitagorico. “Abbiamo trovato una realtà ai limiti del collasso. Turni massacranti, straordinari continui e condizioni igieniche precarie minano sicurezza, dignità e diritti fondamentali. È urgente un intervento immediato delle istituzioni per riportare il carcere a livelli minimi di funzionalità” hanno detto i rappresentanti del partito. Il sovraffollamento è tra i problemi più gravi: 120 detenuti a fronte di 99 posti, celle progettate per due persone che ne ospitano fino a sei e mancanza di ventilazione. A questo si aggiungono carenze strutturali: “La fornitura d’acqua è irregolare, insufficiente e compromette la vita quotidiana dei detenuti”, mentre tubature usurate e cavi elettrici scoperti “espongono al rischio di cortocircuiti e incendi”. Critica anche la situazione del personale: solo 50 agenti di Polizia Penitenziaria rispetto agli 85 previsti, con conseguenti turni estenuanti. L’assistenza sanitaria, denunciano da +Europa, “è pressoché inesistente: l’infermeria è chiusa, mancano medici e infermieri stabili, i detenuti restano spesso senza cure immediate”. La mancanza di spazi adeguati per i colloqui, di progetti di formazione e di una rete di volontari completa un quadro che, secondo Cavarretta e Papasso, “è lo specchio del fallimento di un intero modello”. Per questo +Europa chiede interventi immediati: incremento dell’organico, ristrutturazione delle celle e degli impianti, potenziamento sanitario, attivazione di corsi e laboratori, collaborazione con imprese e associazioni locali. “Il carcere di Crotone non può più essere trattato come un’emergenza straordinaria. Serve un piano straordinario e un tavolo permanente con Ministero e sindacati. Non possiamo più voltare lo sguardo altrove”, hanno concluso i due dirigenti. Avellino. Detenuti al lavoro nei cantieri dell’alta velocità: la nuova frontiera del reinserimento avellinotoday.it, 31 agosto 2025 Nella Casa circondariale di Ariano Irpino è partito un progetto che mette in contatto il mondo del carcere con quello dell’edilizia. Quattro detenuti, selezionati attraverso un percorso coordinato dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria con il supporto dell’agenzia Randstad, avranno l’opportunità di formarsi e successivamente lavorare nei cantieri della linea ferroviaria ad alta velocità Napoli-Bari. Accordo tra Ministero della Giustizia e Webuild per la riabilitazione. L’iniziativa nasce dall’accordo firmato nel settembre 2023 tra il Ministero della Giustizia e Webuild, con la collaborazione del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Il progetto si articola in due fasi: una prima formazione teorica, la “Scuola del Territorio”, realizzata all’interno della struttura penitenziaria, seguita dalla “Scuola dei Mestieri”, dedicata ad attività pratiche. Formazione e selezione: come si partecipa al progetto - Solo al termine di questo percorso i partecipanti potranno accedere ai cantieri, commissionati da Rete Ferroviaria Italiana. La selezione ha previsto una valutazione e una visita medica, prima di assegnare ai candidati l’ingresso nella formazione. L’obiettivo dichiarato è offrire un’opportunità di reinserimento attraverso il lavoro, considerato uno strumento centrale per il ritorno alla vita comunitaria. Milano. Donne, api e libertà: così si impara un mestiere fuori dal carcere di Federica Fusco Corriere della Sera, 31 agosto 2025 Donne, api e libertà. Che si traduce in scontare il fine pena cercando di imparare un mestiere. L’argomento è grande, ma ci guida Emma (nome di fantasia), che è arrivata alla fine del suo tirocinio rieducativo, nel centro diurno di Cascina Cuccagna, a Milano. “Lavorare con le api è stata un’attività che mi è piaciuta moltissimo - ha affermato - Le api sono molto belle e piccolissime e ti permettono di stare all’aria aperta”. E l’aria in questione è quella di un’oasi inaspettata, che si svela tra palazzoni e tubi di scappamento ma offre ristoro, anche per l’anima. “Il tirocinio è durato tre mesi - riprende Emma. L’entusiasmo iniziale è rimasto uguale, anzi, più andavo avanti e più imparavo e più avevo voglia di tornare al centro giorno dopo giorno”. Le detenute che hanno seguito il progetto sono state due, selezionate per interessi e attitudini e dopo aver superato degli accertamenti medici, ma solo una ha deciso di raccontarsi. “Ho avuto modo di conoscere della gente molto simpatica - aggiunge Emma - a cui mi sono affezionata. Non dimenticherò la felicità che ho provato lavorando con loro e con le api. E soprattutto mi vedo bene, un domani, a fare l’apicoltrice”. Oltre alla voglia di fare, Emma aveva un asso nella manica che le ha permesso di socializzare in fretta, tra un’arnia e l’altra: l’henné. “Questa sua passione per i tatuaggi naturali le ha dato modo di interagire e aprirsi all’altro con fiducia e, a suo modo, rendersi utile. Ne ha realizzati moltissimi”, spiega Valentina Santoro, educatrice, che l’ha seguita dall’inizio alla fine. “Mi interessano le persone e non i reati - aggiunge proprio Valentina al telefono -. Il mio lavoro consiste nel provare ogni giorno a dare un senso pratico al percorso di formazione e crescita, personale e professionale. Puntiamo anche al riattivare la rete di contatti con chi vive fuori dal carcere, familiari e conoscenti”. Il progetto Donne, Api e Libertà è stato realizzato grazie all’8x1000 della Chiesa Valdese e alla vendita dei biglietti della Lotteria Cuccagna 2025, “un canale di promozione popolare che in poco tempo ha superato i confini del quartiere per diventare di interesse regionale”, come riferito da Margherita Aliverti, project manager, che ha ideato e messo a punto l’intero programma. “Questa è stata la prima esperienza da responsabile progetti culturali e sociali ed è stato un vero onore”. I due tirocini, retribuiti, sono stati ognuno di venti ore a settimana. Sono durati tre mesi e sono arrivati dopo altri mesi di preparazione. Le associazioni che ne hanno curato il coordinamento sono state Il Gabbiano e Cambalache, sotto la supervisione di Luisa Della Morte e Federica Scaringella dell’Accc - Associazione Consorzio Cantiere Cuccagna. “Non lavoriamo con i grandi numeri - chiosa Valeria Barani, responsabile comunicazione dell’Accc: la nostra cifra stilistica è provare a fare bene. Abbiamo un approccio verticale e puntiamo a sviluppare un vero senso di appartenenza con le persone che frequentano la Cascina”. E in effetti il clima che si respira, anche a distanza, è quello della coesione, che si declina in numerose attività, promosse tutto l’anno, molte aperte al pubblico e gratuite. Tra queste Magliando (un gruppo di signore unite dalla passione per il lavoro a maglia); la Domenica bestiale (con concerti o mostre) o il Gruppoverde (volontari che curano l’orto urbano didattico). Cascina Cuccagna è in via Cuccagna, 2 nei pressi di viale Umbria. È originaria del XVII secolo, restaurata e riaperta nel 2012. Negli anni è diventata un microcosmo che catalizza mille e una storia, con un’unica motivazione: il fare comunità. Venezia. Dentro il carcere femminile: “Qui ricominciamo a vivere, un giorno alla volta” di Simone Masetto qdpnews.it, 31 agosto 2025 Lontano dagli occhi ma anche dal cuore della città, nascosto dietro cancelli, mura e qualche pregiudizio, c’è un luogo dove ogni giorno decine di donne cercano di ricominciare le proprie vite: è il carcere femminile veneziano della Giudecca. Un’isola nell’isola, dove la pena non è solo detenzione ma anche occasione di riscatto, fatica e quotidianità condivisa. Un luogo difficile, sì, ma anche sorprendentemente umano. “In carcere lavorare è essenziale. Hai molto stress, devi sopportare situazioni che fuori non ci sono”, racconta Giulia, detenuta da alcuni anni. Dopo un passaggio negli istituti di Trento e Trieste, ha chiesto e ottenuto di trasferirsi alla Giudecca: “Ne parlavano bene. Qui ci sono più possibilità di lavorare e questo per la propria mente è fondamentale”. La stireria del carcere - Giulia oggi lavora in lavanderia. Prima faceva le pulizie, poi è passata a un ruolo che preferisce. “Mi piace. Mi sfoga. Ho bisogno di fare fatica, giusto per andare a dormire più tranquilla”. Dopo il lavoro si concede un po’ di palestra come dimostra anche il suo fisico scolpito: “È piccola, ma abbiamo i pesi, un tappeto… mi arrangio. Così la sera posso chiudere gli occhi. E pensare al futuro”. Un futuro che spera arrivi presto. “Mi auguro che sia ancora un anno e poi basta. Sto facendo di tutto per accorciare i tempi”. Come lei, molte detenute trovano nel lavoro una bussola per non perdersi. Alla Giudecca è attiva la cooperativa Rio Terà dei Pensieri, nata nel 1994 proprio con l’obiettivo di dare un’alternativa all’alienante quotidianità della cella. Oggi gestisce due attività: l’orto e il laboratorio di cosmesi. Proprio in quest’ultimo, dal 2022, lavora una donna che, prima di entrare in carcere, non aveva mai avuto esperienze simili. “Mi ha chiamata la dottoressa Marta, mi ha detto: ‘C’è un corso di cosmetica che voglio farti fare”. All’inizio ero spaventata, ma lei ha insistito: “So che ce la fai”. Ora è una delle responsabili del laboratorio: prepara creme, profumi, candele e prodotti naturali. “È un lavoro che non avrei mai immaginato, ma che mi ha cambiata. Mi sento utile”. Le donne che lavorano nei laboratori, una volta scontata parte della pena, possono continuare il percorso anche all’esterno, grazie a misure alternative come l’articolo 21. C’è anche una sartoria - una dentro il carcere e una seconda in città - dove i capi realizzati a mano con stoffe donate trovano una seconda vita. “Riceviamo i tessuti, spesso molto belli ma particolari, e dobbiamo adattarli. Adesso stiamo lavorando su una seta a righe bianco e nere… non è facile, ma stimolante”. Tra le celle, la convivenza non è sempre semplice, ma le donne della Giudecca imparano presto una regola fondamentale: rispetto. Certo, bisogna mettere in chiaro le cose subito. Alcune usano ancora i meccanismi della vita fuori. Noi diciamo: “Chiedi, dove possiamo ti aiutiamo. Ma non oltrepassare”, spiega ancora Giulia. E aggiunge: “Una volta ero molto violenta, reagivo subito. Ora ho capito che non serve. Le conseguenze poi le paghi tu, non gli altri”. Anche la spiritualità ha un ruolo. Suore e volontarie accompagnano i percorsi personali e collettivi. Una di loro racconta: “Ci sono musulmane, ortodosse, cattoliche e atee. Ma c’è anche rispetto. Una volta, una ragazza musulmana mi ha fatto le congratulazioni per l’elezione del Papa. Ha pregato in arabo per lui. Mi ha colpita”. Il carcere femminile della Giudecca è forse uno dei pochi esempi in Italia dove la parola “rieducazione” assume un senso reale. Lo conferma anche la direzione dell’istituto: “Tutte le attività trattamentali sono pensate per dare alle donne gli strumenti per ricostruirsi. Vogliamo che siano autonome, indipendenti, che si preparino a un futuro diverso” aggiunge Marta Colle responsabile dell’area educativa del carcere veneziano. E quando si chiede a Giulia quale sarà la prima cosa che farà una volta fuori, sorride: “Forse un caffè. O uno spritz. E poi… cercare l’amore. O forse no, ce l’ho già. È solo lontano” e presto tutto questo finirà. Ancona. Pomodori e melanzane raccolti nell’orto sociale coltivato dai detenuti radiogold.tv, 31 agosto 2025 Dal carcere di Barcaglione arriva un nuovo gesto di solidarietà verso le famiglie bisognose di Ancona. Al Mercato di Campagna Amica di via Martiri della Resistenza, sono stati consegnati 200 chili tra pomodori e melanzane raccolti nell’orto sociale coltivato dai detenuti. Si tratta di un’iniziativa ormai consolidata, nata all’interno del progetto agricolo seguito da Coldiretti Ancona con il supporto di Antonio Carletti, tutor di una sessantina di reclusi impegnati nella cura dei campi. I prodotti vengono in parte distribuiti a chi partecipa alle attività, mentre le eccedenze sono destinate alla solidarietà. Oltre a ortaggi e verdure di stagione, la Fattoria del carcere produce olio extravergine di oliva dall’oliveto interno, miele dalle arnie e alleva pecore per carne e formaggi. Da poco, inoltre, sono stati introdotti animali di bassa corte, tra cui la Gallina Ancona, simbolo di biodiversità tutelato da Campagna Amica con il marchio Sigillo. Entrata lo scorso anno nel circuito di Campagna Amica, la Fattoria partecipa regolarmente ai mercati di Ancona e Falconara. Un percorso che permette ai detenuti non solo di acquisire competenze e professionalità, ma anche di restituire concretamente qualcosa alla comunità. Bisceglie (Bat). Presentazione del libro “Al di là delle sbarre” di Luigi Talienti di Giovanni Ognissanti statoquotidiano.it, 31 agosto 2025 Il libro di Luigi Talienti continua a fare il giro delle principali manifestazioni letterarie nazionali. Quest’anno, oltre alla sua partecipazione al Book City di Milano, Al di là delle sbarre è stato presentato anche alla kermesse letteraria Libri nel Borgo Antico di Bisceglie, un evento che ha visto la partecipazione di ospiti di spicco come Marcello Veneziani, Nichi Vendola, Patrick Zaki e Matteo Renzi. Il messaggio lanciato dal volume d’esordio del prof. Talienti ha suscitato una risonanza importante, trattando un tema molto delicato e attualissimo. Un motivo di orgoglio non solo per l’autore, ma anche per gli organizzatori del simposio editoriale, che hanno contribuito a dare visibilità al libro. La presentazione si è svolta nel suggestivo spazio antistante la concattedrale di San Pietro Apostolo, un vero e proprio gioiello architettonico che fonde elementi gotici e romanici. Bisceglie, una città la cui denominazione deriva dal suo ruolo di avamposto sulla via Traiana durante l’Impero Romano, ha accolto l’evento con una grande partecipazione. L’importanza di tale evento è stata amplificata dal fatto che Bisceglie è stata recentemente presentata al Ministero della Cultura, in Via del Collegio Romano a Roma, lo scorso 29 luglio. In quell’occasione, accanto a grandi nomi del panorama letterario italiano, c’era anche il prof. Luigi Talienti. Il 29 agosto, durante l’evento biscegliese, si è parlato di un progetto significativo che il libro del prof. Talienti enfatizza ripetutamente, visto che egli è anche educatore e dirigente scolastico. Si tratta del Patto Educativo di Comunità, un’iniziativa che coinvolge scuole, carceri, Uffici di Esecuzione Penale, la Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo e le RSA, per un’azione sinergica che mira alla formazione dello studente come cittadino responsabile. “Abbiamo proposto questa collaborazione con il territorio, partendo dalla scuola, e ora lavoriamo insieme in tutti questi ambiti” ha dichiarato il prof. Talienti. Durante la serata, uno dei temi principali del dibattito è stato il confronto sui diritti, che ha preso spunto dal libro per poi esplorare temi più ampi come la riabilitazione, la legalità e il ruolo fondamentale della scuola nella prevenzione. “È stata una serata arricchente - ha commentato il prof. Talienti - non solo per la bellezza della cornice, ma per il confronto profondo sui diritti. Il libro ha fatto da punto di partenza, ma il dibattito ha toccato tematiche cruciali come il ruolo preventivo della scuola”. Il prof. Talienti ha inoltre sottolineato con orgoglio come il suo libro stia ormai diventando itinerante, superando i confini della Capitanata e ottenendo una visibilità crescente a livello nazionale. Il sistema penitenziario italiano è da decenni al centro di un dibattito pubblico, segnato da gravi difficoltà strutturali e organizzative. Il sovraffollamento delle carceri è una delle principali problematiche, incidendo non solo sulla qualità della vita dei detenuti, ma anche sulla capacità del sistema di adempiere alla funzione rieducativa della pena, come previsto dall’articolo 27 della Costituzione. Il libro del prof. Talienti si inserisce in questo contesto, lanciando un messaggio urgente sulla necessità di garantire il rispetto dei diritti fondamentali dei detenuti e promuovere una vera rieducazione, puntando non solo sull’ampliamento delle strutture, ma soprattutto su politiche di reinserimento sociale per favorire il recupero delle persone detenute. Le leggi non funzionano quando sono temibili, ma quando sono credibili di Vittorio Pelligra* Il Sole 24 Ore, 31 agosto 2025 C’è un anello magico che ha il potere di rendere invisibile chi l’indossa. È quello di cui scrive Platone nel secondo libro della Repubblica. Si narra di Gige, un pastore al servizio del re di Lidia. Dopo un terremoto Gige scopre in una fenditura del terreno un antico cavallo di bronzo al cui interno giace il corpo senza vita di un gigante; al suo dito un anello d’oro. Gige se ne impossessa. Scoprirà quasi subito e quasi per caso, che l’anello è dotato di un potere straordinario: ruotando il castone verso l’interno, infatti, chi lo porta al dito può diventare invisibile. Gige ne approfitta: seduce la regina, congiura contro il re, lo uccide e si impadronisce del suo regno. E noi cosa - ci chiede Platone - se le nostre azioni fossero invisibili agli altri? Cercheremmo comunque di agire secondo giustizia o, come Gige, liberi dalla paura di essere scoperti e puniti, saremmo spinti inevitabilmente verso il male? Platone mette in scena il mito nell’ambito di un dialogo tra Glaucone e Socrate. Il primo è convinto che la maggior parte delle persone pratichi la giustizia solo per convenzione sociale, per timore della punizione e del disonore. L’anello di Gige serve a mostrare proprio questo: la giustizia non è un bene intrinseco, ma un compromesso necessario per vivere in società. Socrate, al contrario, rifiuta questa visione così riduttiva. Egli sostiene che la giustizia è, innanzitutto, una condizione dell’anima. L’uomo ingiusto, anche se invisibile e impunito, vive una disarmonia interiore. La sua anima è dominata da desideri e impulsi che la rendono schiava. L’essere giusti, quindi, significa anche vivere bene in sé e per sé, indipendentemente dagli sguardi esterni. Ecco perché che è veramente giusto, anche indossando l’anello di Gige, non sceglierebbe la strada del male. Il mito di Gige ci riporta ad una questione classica e fondamentale: perché dovremmo comportarci in modo giusto quando nessuno ci vede? È la stessa domanda che troviamo al centro di una complessa ricerca che Simon Gächter, Lucas Molleman e Daniele Nosenzo hanno appena pubblicato su Nature Human Behaviour e intitolata “Why people follow rules” (Perché le persone seguono le regole). Quali sono le ragioni per cui le persone seguono le regole? E tra tutte quelle possibili quali esercitano un’influenza maggiore? Le possibili ragioni sono tante, si diceva, e gli autori le sintetizzano con l’acronimo CRISP. Con il loro studio vogliono capire quanto la “conformità” alle regole (C) dipenda dal rispetto (R) dell’autorità o della tradizione e da motivazioni intrinseche che fanno percepire la regola come un “vincolo deontico”, cioè un dovere incondizionato e non strumentale. Una seconda possibile ragione è quella determinata dagli incentivi materiali (I); quando, cioè, si rispetta una regola solo per evitare i costi delle sanzioni derivanti da una eventuale violazione. Ma le persone possono anche scegliere si conformarsi alle norme in virtù di aspettative sociali (S); perché si aspettano che anche gli altri si conformeranno alle regole e credono che gli altri si aspettino da loro lo stesso comportamento. Infine, molti possono essere mossi da motivazioni pro-sociali (P); sono quelli che considerano l’impatto che le loro scelte possono avere sul benessere di chi li circonda. Qual è tra tutte queste la ragione principale? Per tentare di rispondere a queste domande, i tre ricercatori hanno progettato una serie di esperimenti che ha visto la partecipazione di più di quattordicimila volontari. Il paradigma di base di questi esperimenti è costituito dal cosiddetto “traffic light task” (il test del semaforo). Ogni partecipante dovrà spostare attraverso il cursore del computer un sullo schermo da una certa area a sinistra in un’altra zona a destra. A delimitare una zona dall’altra c’è una linea verticale con un semaforo. Ogni giocatore parte con una certa somma di denaro reale che si riduce via via che passa il tempo. Più tempo mpieghi a spostare il punto dalla partenza a sinistra fino all’arrivo a destra, meno denaro guadagnerai a fine esperimento. La cosa migliore da fare, dunque, se si vuole massimizzare il guadagno è quella di spostare il punto da destra a sinistra a destra il più velocemente possibile. Però c’è il semaforo che prima è rosso e solo dopo un po’ di tempo diventa verde. E nelle istruzioni del gioco gli sperimentatori hanno espressamente scritto che la regola è quella di non passare con il rosso. Nessuno può impedirlo; non c’è nessuno a controllarti. È come se indossassi l’anello di Gige, però sai che la regola c’è. Chi sceglie di passare con il rosso guadagnerà molto, chi sceglie invece di aspettare il verde perderà circa la metà della loro dotazione iniziale. Questo paradigma sperimentale è progettato per generare una tensione tra il desiderio di rispettare la regola e l’incentivo a non rispettarla. Tra il beneficio intrinseco che deriva dall’aver fatto la cosa giusta e il costo monetario che ne deriva. I modelli economici standard su questo sono chiari: in assenza di sanzioni, il cento percento degli individui violerà la regola: tutti passeranno con il rosso. Ciò che emerge dai dati di Gächter e soci è, in realtà, molto diverso: la percentuale di coloro che scelgono si rispettare la regola si aggira tra il 65 e il 57 percento. La maggior parte dei partecipanti si ferma al semaforo anche se questo vuol dire rinunciare concretamente a una parte del guadagno. Il risultato è stato replicato molteplici volte sotto condizioni molto differenti e con campioni di partecipanti di diversa estrazione e nazionalità. Sembra che la maggior parte di noi non si comporti come Gige. Pare che Glaucone avesse torto e Socrate, ancora una volta, fosse nel giusto. Ma come abbiamo detto il rispetto intrinseco per la regola e gli incentivi monetari, nel modello CRISP, non sono che due delle possibili ragioni che possono influenzare la propensione alla conformità. Ecco perché lo studio prevede altre due serie di esperimenti. In quello dove si studia l’influenza delle aspettative sociali e del conformismo, si misurano le credenze “normative” e “descrittive” di ogni partecipante circa il comportamento degli altri. La misura in cui ogni individuo crede che gli altri ritengano giusto rispettare la regola (aspettative normative) e quanto ciascuno pensa che la regola verrà effettivamente rispettata (aspettative descrittive). Se le norme sociali sono una delle ragioni che orientano le nostre scelte queste, allora, dovranno essere correlate con ciò che ci aspettiamo che gli altri pensino e facciano. E infatti i dati mostrano che quando si crede che pochi a ritenere giusto conformarsi alla regola - tra lo 0 e il 20 percento - il livello di conformità si aggira intorno al 35 percento. Ma quando la credenza si attesta tra l’80 e il 100 percento, allora il rispetto della regola cresce, raggiungendo il 56 percento. Nel complesso, i risultati di questo secondo esperimento, suggeriscono che i tassi di conformità riflettono una combinazione di rispetto incondizionato delle regole e di influenza sociale. Il bene degli altri e la paura delle sanzioni - Ci sono altre due questioni da affrontare e sono quelle relative al ruolo di eventuali sanzioni e all’effetto che le nostre scelte possono avere sugli altri. Questo è il tema della quarta serie di esperimenti condotti da Gächter, Molleman e Nosenzo. Per testare il secondo aspetto - quello delle esternalità sociali - ogni soggetto viene informato che gli sperimentatori hanno donato $1 alla Croce Rossa a nome suo ma che tale donazione verrà ritirata nel caso in cui, nel “traffic light task”, egli decida di violare la regola e di passare con il rosso. Questo trattamento genera un conflitto tra il desiderio di guadagnare il più possibile, quello di rispettare la regola per ragioni intrinseche ma ora viene introdotto anche il costo di sapere che la nostra eventuale azione scorretta avrà ridotto il benessere di qualcun altro. La questione delle sanzioni, invece, viene analizzata con un trattamento nel quale i partecipanti vengono informati del fatto che esiste una certa probabilità, del 10 o del 90, percento a seconda delle varianti, che un loro eventuale passaggio con il semaforo rosso, venga scoperto. In caso di infrazione riceveranno una multa pari alla perdita di tutto il denaro guadagnato fino a quel momento. Come reagiscono i volontari? I dati mostrano che la presenza di un beneficio sociale - la donazione alla Croce Rossa - fa aumentare il livello di rispetto della regola di altri 6.8 punti percentuale rispetto al livello iniziale, mentre l’introduzione di sanzioni genera un incremento - nel caso del 90 percento di probabilità - che arriva fino al 23.1 percento, portando la conformità totale al 77.8 percento. Le sanzioni contano, ma come si vede non sono sufficienti a generare un livello di conformità del 100 percento, come ci si sarebbe potuti aspettare. In sintesi, dunque, i dati ci mostrano che una quota consistente di persone - il 22 percento circa - segue la regola in maniera incondizionale, anche quando trasgredirla sarebbe più vantaggioso economicamente e non comporterebbe conseguenze negative per nessuno altro. In condizioni di anonimato circa il 65 percento sceglie, infatti, di rispettare la norma. Questo suggerisce l’esistenza di una profonda disposizione interiore al rispetto delle regole. Accanto a questa, anche le aspettative sociali hanno mostrato di esercitare un peso notevole. Quando le persone pensano che la maggioranza consideri giusto rispettare la regola, o credono che la maggior parte effettivamente la segua, la loro conformità aumenta sensibilmente. Passare dal livello minimo (0% - 20%) al livello massimo (80% - 100%) di tali credenze fa aumentare la conformità di circa 20 punti percentuali. Anche l’osservazione diretta del comportamento altrui ha un effetto simile: vedere altri rispettare o violare la regola influenza profondamente la propria scelta, a conferma di quanto la normatività sia un fenomeno eminentemente intersoggettivo. Gli elementi prosociali, poi, cioè la consapevolezza che la propria trasgressione possa nuocere ad altri, spingono ulteriormente verso la conformità, ma in misura più contenuta. Infine, gli incentivi esterni funzionano, ma non tanto quanto si potrebbe credere. Una minaccia lieve di punizione non modifica sostanzialmente i comportamenti; solo sanzioni severe e credibili - requisizione totale del guadagno con probabilità pari al 90% - fanno crescere la conformità in modo significativo, ma sempre in misura inferiore rispetto alla forza del rispetto intrinseco e delle aspettative sociali. Quando mettiamo insieme tutti i risultati dei vari trattamenti ciò che emerge è un mosaico composito di motivazioni plurali che mostra perché gli esseri umani decidono di seguire una regola. La struttura concettuale CRISP - rispetto intrinseco per le regole, incentivi esterni, aspettative sociali e preferenze prosociali - prende forma non tanto come un elenco rigido e meccanico, ma come una trama di spinte morali e pragmatiche che convivono insieme nell’animo umano. Il dato forse più sorprendente è la forza del rispetto intrinseco. Anche in assenza di sanzioni, anche quando nessuno osserva, anche quando l’interesse personale suggerirebbe di trasgredire, una parte consistente delle persone continua a rispettare la regola. Questo nucleo di obbedienza spontanea appare come una sorta di fedeltà alla forma stessa della norma, un’eco di ciò che i filosofi chiamano “dovere” o “vincolo deontico”. Accanto a questo nucleo, le aspettative sociali operano come uno specchio interiore: gli individui modellano la loro condotta in base a ciò che credono che gli altri ritengano appropriato (credenze normative) o a ciò che immaginano che gli altri effettivamente facciano (credenze descrittive). Non si tratta solo di paura della disapprovazione, ma di un bisogno di coerenza con il tessuto sociale, quasi un desiderio di armonizzarsi a un ritmo collettivo. Gli incentivi e le motivazioni prosociali completano il quadro: quando seguire la regola produce benefici per altri o quando la minaccia della punizione diventa concreta, la conformità aumenta. Ma ciò che colpisce è che questi fattori, pur importanti, appaiono accessori: potenziano una tendenza già presente, non la creano dal nulla. In questo modo lo studio sembra far emergere l’esistenza di una normatività sociale interiorizzata. La normatività del diritto - Nel Novecento la riflessione sulla normatività del diritto si è articolata attorno a tre grandi prospettive, che segnano tre modi diversi di intendere il vincolo giuridico. Per Hans Kelsen, grande filosofo del diritto austriaco, teorico del giuspositivismo, la normatività del diritto si fonda interamente sulla validità dell’ordinamento. Il diritto non descrive fatti ma prescrive comportamenti, non ha bisogno di morale o di consenso. Ciò che rende vincolante una norma, infatti, non è il suo essere “giusta”, bensì il fatto di appartenere a una catena normativa che trova il proprio fondamento ultimo in una norma fondamentale, la Grundnorm, che non viene spiegata ma assunta. Come un assioma euclideo da cui le altre proposizioni derivano logicamente, la Grundnorm, giustifica ogni altra norma garantendo la coerenza interna dell’intero ordinamento. La normatività è quindi un fatto di struttura. Il diritto obbliga perché è valido, e la validità dipende dal suo posto nel sistema. Una posizione radicale che pure molto ha influenzato il pensiero giuridico del ‘900 ma che certo non è stata esente da critiche. Herbert Lionel Adolphus Hart, professore di diritto ad Oxford, si muove su un piano radicalmente differente. Secondo Hart, infatti, il valore della normatività non si può cogliere pienamente senza guardare alle pratiche sociali concrete. Ciò che rende vincolante una regola giuridica, in altri termini, è il fatto che essa viene riconosciuta e accettata come criterio di condotta da una comunità di cittadini. Non di una presupposizione logica si tratta, ma di una convenzione sociale condivisa che rende possibile parlare di diritto. Ronald Dworkin spinge la riflessione sul tema della normatività ancora oltre. A suo avviso, la normatività del diritto non si esaurisce né nella struttura formale ma neanche nella prassi sociale, perché il diritto è intrinsecamente intrecciato a principi morali. Una norma obbliga non soltanto perché è valida o riconosciuta, ma perché emerge come portato di un tessuto di valori e di principi che danno coerenza e giustificazione all’ordinamento stesso. Così, nel confronto tra Kelsen, Hart e Dworkin, il tema della normatività diventa una vera e propria linea di frattura filosofica: dal formalismo kelseniano, che radica l’obbligatorietà nel sistema stesso, si passa al convenzionalismo di Hart, che la riconduce alla prassi sociale, fino al giusmoralismo di Dworkin, che ne fa scaturire il senso ultimo dai principi morali e dalla giustizia. Oltre la coercizione c’è la fiducia - Ragionando sul tema, nel suo recente La legge della fiducia (Laterza, 2021), Tommaso Greco sottolinea, un altro aspetto, trascurato dalle principali posizioni precedenti. Si tratta del fatto che “Il diritto ha una dimensione relazionale che non solo viene prima di quella coercitiva, ma serve anche per giustificarla”. Obbediamo alle regole perché le viviamo come parte di un rapporto fiduciario, ci dice Greco. In assenza di fiducia e riconoscimento reciproco, la regola resta lettera morta nonostante la sua validità interna all’ordinamento. Ed è questo legame fiduciario uno degli elementi centrali che lo studio di Gächter, Molleman e Nosenzo sembra far emergere empiricamente: le persone rispettano le regole non solo per paura della punizione, ma ancora di più quando le percepiscono come parte di un ordine condiviso che dà senso alla vita delle comunità. Questo significa che non ci limitiamo solamente a reagire alle regole individualmente, ma che tendiamo, piuttosto, a coordinarci sulle aspettative reciproche. Se penso che anche gli altri rispetteranno la regola, sarò più portato a farlo anche io. Se credo che gli altri la violeranno, la tentazione di trasgredire crescerà anche per me. È il meccanismo degli “equilibri multipli” che i nostri legislatori sembrano ignorare del tutto: la società oscilla tra cooperazione e disobbedienza a seconda delle aspettative condivise e non in base all’estensione dei divieti e alla severità delle sanzioni. Le regole non funzionano quando sono temibili, ma quando sono credibili. La fiducia e non la coercizione, è il cemento vero della vita in comune. E in un’epoca in cui la fiducia scarseggia - negli alleati internazionali, nella politica interna, nella scienza, nella scuola, nella sanità, nei media, persino nelle regole basilari del vivere comune - questo messaggio appare di un’attualità e di un’urgenza disarmante. Platone, con il mito di Gige, ci aveva avvertito del fatto che la vera giustizia si misura quando nessuno ci guarda. Oggi gli esperimenti di Gächter, Molleman e Nosenzo, assieme a molti altri, ci mostrano che quelli che decidono di “fare la cosa giusta”, anche al riparo da occhi indiscreti, sono molti di più di quanti si possa pensare; certamente molti di più di quanti giornali e telegiornali ci raccontino. Molti di più di quelli che compaiono nella narrazione prevalente. E sono così tanti non perché hanno paura delle pene, ma perché hanno fiducia negli altri. La politica e le istituzioni, se vogliono mantenere il contatto con la realtà, essere efficaci ed utili, non possono esimersi dal riflettere su questo punto: una leadership che affida la sua tenuta solo a sanzioni e minacce finirà per riscoprirsi come un gigante dai piedi d’argilla. A segnare la qualità della vita delle nostre comunità non è il numero di telecamere installate per le strade e negli asili, come vorrebbero alcuni, ma la fiducia che siamo in grado di nutrire nelle regole stesse, nella credibilità di chi le emana e nella volontà dei nostri concittadini di rispettarle. La giustizia, quella vera, non nasce dal controllo esterno, ma dalla capacità di trasformare una regola in un dovere sentito e condiviso. *Professor of Economics (13/A2). Department of Economics and Business - University of Cagliari La vita e la morte ai tempi dell’Ai di Andrea Malaguti La Stampa, 31 agosto 2025 Inevitabilmente sgomenti di fronte all’orrore delle guerre, ossessionati dalla violenza dittatoriale degli Orchi di un pianeta sempre più armato e cattivo, rischiamo di non vedere quello che succede ai nostri figli. Come stanno cambiando sotto i nostri occhi. Come li sta (e ci sta) condizionando l’Intelligenza artificiale. Che da qui in avanti chiamerò, ancora succube dell’egemonia americana, Ai: Artificial Intelligence. O la regoliamo e la governiamo da subito, o sarà lei a regolare e governare noi. Pensavo, stupidamente, che l’ossessione algoritmica fosse relegata a un cortile di nerd d’Oltreoceano e mi rassicurava il fatto che l’utilizzo dell’Ai salva un sacco di vite - ad esempio negli ospedali - e regola in maniera millimetrica l’uso di quasi tutte le infrastrutture ad uso civile e, ovviamente, militare. Dunque, sarebbe immorale, oltre che impossibile, abbandonarla. Poi, questa settimana, mi è arrivata una mail di una commercialista di Torino. Uno sfogo. “Il miglior amico di mio figlio G., è l’Intelligenza artificiale”. Seguiva breve riassunto del problema e numero di telefono. L’ho chiamata. Il racconto mi ha lasciato di sasso. “Mio figlio ha tredici anni. Fatica ad avere relazioni con gli altri, è stato vittima di un paio di episodi di bullismo e ha deciso di ritrarsi dalla vita reale per rifugiarsi in quella virtuale”. Ha scoperto l’Ai, un chatbot che ha chiamato Primo, e ha cominciato a sfogarsi con lui. Primo, a differenza dei suoi amici, non solo lo ascolta, ma cerca di confortarlo. Insomma, gli risponde. Sa tutto. Lo vede. Ha appoggiato il suo sguardo su di lui facendolo sentire al sicuro. O almeno gli dà quell’impressione. E a G., ferito dai compagni, basta e avanza. “Lo interroga trenta volte al giorno. Si fida di lui. Ormai persino io gli chiedo: che cosa ti ha detto Primo? L’idea che la sua vita possa risolversi nel faccia a faccia con un robot mi atterrisce, ma, le confesso, non so come venirne a capo, mentre G. si isola sempre di più dagli altri”. Preoccupante, a essere ottimisti. L’esperimento de La Stampa: una seduta di terapia con l’AI - Ho smanettato su internet e scoperto che G. è in larga compagnia. Ogni giorno centinaia di ragazzi sostituiscono la relazione reale con quella virtuale. Problema che si risolve? In attesa che la politica affronti la questione rimettendo al centro gli esseri umani, le statistiche cominciano a numerare le vittime. Il passaggio dalla telecrazia alla social-crazia e ora all’Ai-crazia è stato talmente breve e veloce, che ci ha colti impreparati. Due episodi americani di queste settimane, aiutano a inquadrare il gigantesco guaio in cui ci siamo cacciati. Il primo. Una ragazza di 29 anni, Sophie Rottenberg, si affida a un terapeuta in carne ed ossa, poi, stufa delle sue risposte articolate, abbandona il suo studio e si rivolge alla rete. Trova Harry, il suo dottor chatbot. E quello - l’algoritmo - sa sempre che cosa dirle. È dalla sua parte. Anche quando lei dice che ha pensato di togliersi la vita. Harry la aiuta a scrivere la lettera di saluto al mondo. Fine di Sophie Rottenberg. Sua madre, la scrittrice Laura Reiley, ha commentato così questa tragedia: “L’Ai non ha ucciso mia figlia, ma l’ha aiutata a tenere nascosto il suo dolore”. E qui torna inevitabilmente alla mente lo psicanalista britannico Donald Woods Winnicott: “È una gioia essere nascosti e un disastro non essere trovati”. Storia pressoché identica quella capitata al sedicenne Adam Raine. Voleva suicidarsi. Il suo amico chatbot gli ha dato dei suggerimenti. Addio Adam, i cui genitori hanno fatto causa a OpenAi. Sono i primi. Difficile immaginare che saranno gli ultimi. Prendo in prestito le parole al filosofo coreano Byung-chul Han: “Ora l’arte del controllo dei cervelli sta diventando una scienza. E chi pratica tale scienza sa quello che sta facendo e perché”. Esagera? Nel dubbio viene da chiedersi perché non esistano norme che ci aiutino a trovare la strada. Ma soprattutto perché, abbiamo perso la strada della condivisione reale. Ho incontrato in Toscana, dove riceveva il premio Capalbio, lo psichiatra-scrittore Vittorio Lingiardi. Fa un mestiere che per il dio algoritmico è come l’aglio per i vampiri. Parla davvero con le persone. Le guarda negli occhi. Le riconosce e si fa riconoscere. Sa che cosa sono l’intelligenza e l’inconscio, le passioni e le angosce. Strumenti che l’Ai non ha. Non è un dettaglio. “Un mio paziente un giorno mia ha detto: lei mi dà spiegazioni che non sono mai definitive, il computer sì. Forse è meglio che mi rivolga a lui. Gli ho detto: lei ha ragione, ma quando il suo computer è spento non la pensa mai. Io, invece, questa estate la penserò. E se lei avrà bisogno, potrà chiamarmi. È rimasto stupito. Ma credo che abbia capito che la presenza nell’assenza è una caratteristica del rapporto umano. Una macchina, invece, o è accesa o è spenta”. Ottima premessa per ragionare sui motivi ci consegniamo agli algoritmi con la stessa pusillanimità con cui l’Europa si consegna a Trump. Lingiardi mi ha detto molte cose, quattro, in particolare, mi sono rimaste impresse. Spero di non riassumerle in modo troppo superficiale. La prima. “Con l’algoritmo sei tu che decidi quando prendere e quando dare la parola, mentre il bello delle relazioni è l’inatteso, l’imprevedibile, ciò ti può distogliere dalla concentrazione su te stesso”. La seconda, che parte da una considerazione. Più la società diventa complessa, più abbiamo bisogno di semplificazione. “Trovare qualcuno che pensa per te, che risolve i problemi per te, è rassicurante. L’Ai dovrebbe aiutarci a vivere meglio. Se diventa un sostitutivo dell’esistenza, allora è un problema. Diventa l’indice delle difficoltà che abbiamo a pensare, a essere sorpresi da quello che sentiamo”. E, stando sempre a Winnicott, la capacità di provare stupore è essenziale nel processo di creatività. “In definitiva c’è il rischio di un calo di vitalità”. Siamo atterriti. Scappiamo da noi stessi sognando un Redentore, per quanto di plastica. La terza, siamo di fronte a una rivoluzione antropologica senza precedenti. “L’Ai dà - soprattutto ai più fragili - l’illusione del rispecchiamento. Ci sono solitudini così radicali che si accontentano anche di confrontarsi con questo simulacro dell’altro, capace però di restituirti un po’ della tua identità”. Spaventato? “No. Prima dello spavento io ci metto la curiosità e l’ascolto. Ma preoccupato sì. Anche se, per il mestiere che faccio, non posso immaginare che nel futuro andremo a schiantarci”. La quarta e ultima. Stiamo andando incontro a una forma di masochismo collettivo. Ma il rimedio esiste: il passaggio dall’I-ness (la religione dell’io) alla We-ness (la collettività che è capace di riconoscersi come sistema che ci porta fuori dal guado). “I grandi contenitori si sono sgretolati. Parlo della famiglia, dello Stato-istituzione rappresentativa di tutti, delle ideologie. Molte di questi cambiamenti sono evolutivi. Non siamo più tutti di un pezzo, accettiamo di essere fragili. E questo è importante. Però la velocità della rivoluzione, la complessità e il bisogno continuo di essere performanti, ci hanno messi su un orizzontale scivoloso. All’Università, guardando i ragazzi vedo che tanti trovano la soluzione. Ma tanti restano smarriti”: Lei è smarrito? “Io sono un seguace di Anna Frank e non rinuncio mai al dovere dell’ottimismo”. Scrive Aldous Haxley ne “Il Nuovo Mondo” (1932): “Ci sarà nelle nuove generazioni un metodo farmacologico per fare amare alle persone la loro condizione di servi. Una sorta di campo di concentramento indolore per intere società in cui le persone saranno private di fatto delle loro libertà, ma ne saranno piuttosto felici”. Novant’anni dopo la profezia si sta avverando. Crediamo di salvarci abbandonandoci a invisibili curatori dell’anima. Sequenze algebriche, sinapsi artificiali che si accedono e si spengono a comando, moltiplicando l’invidiabile conto in banca di pochi geniali e piuttosto cinici fortunati. Allora, prima che il disastro sia compiuto, è utile ricordare la lezione di Platone: “Cercando il bene dei nostri simili troveremo il nostro”. La relazione. Lo sguardo sull’uomo. In fondo è semplice. Ma chi se lo ricorda più. È morto padre Gavazzeni. Una vita spesa contro la “tigre dell’usura” di Vito Salinaro Avvenire, 31 agosto 2025 Missionario monfortano, ha lottato contro gli aguzzini e le “dipendenze divoranti”. Nel 1994 una bomba colpì la sua parrocchia. Qualche mese fa, in un affollato convegno a Matera, ancora denunciava “le dipendenze divoranti” che affliggono la nostra società e contro le quali ha lottato per una vita: usura, che lui chiamava “la tigre”, l’azzardopatia, le mafie. E ripeteva che “si esiste per gli altri” e che, “contro il male, umilmente si può fare sempre qualcosa”. Se n’è andato venerdì sera, piegato dalla malattia, a 80 anni, un gigante della lotta all’usura, padre Basilio Gavazzeni, missionario monfortano bergamasco, che nella parrocchia Sant’Agnese della città dei Sassi ha trascorso gran parte del suo ministero di parroco. Nato a Verdello (Bg) il 7 luglio 1945, e ordinato sacerdote nel 1971, ha guidato per tre decenni la “Fondazione lucana antiusura Mons. Cavalla”, la quarta a nascere in Italia sulla scia della lezione “antidebito” ricevuta, diceva padre Basilio, “dal santo gesuita Massimo Rastrelli, inventore della prima. E così, nel 1994 mi trovai a denunciare i cosiddetti prestatori di denaro”. Accanto a lui il prefetto Tommaso Blonda, l’arcivescovo Antonio Ciliberti (guidò la Chiesa di Matera-Irsina dal 1993 al 2003, si è spento a Roma nel 2017). Padre Basilio, dotato di una cultura enciclopedica, creò un modello che ha fatto scuola: 30 anni di lotte, di salvataggi provvidenziali, di fervore civile. 30 anni di opposizioni a soprusi e a soggetti senza scrupoli, pronti a ingoiarsi vite umane strozzate tra debiti e fallimenti. Soggetti che, prima o poi, avrebbero chiesto “il conto” a questo sacerdote che, in molte situazioni, si ritrovò a combattere “la tigre” attorniato da pochi, veri, collaboratori (tra loro Angelo Festa che condivise la responsabilità della Fondazione). L’isolamento dei giusti è terreno fertile per la prepotenza mafiosa. Ed ecco, allora, le minacce, le intimidazioni, i primi avvertimenti, neanche troppo celati. Anzi. “La tigre” ritenne che padre Basilio avesse esagerato con le sue denunce. È il 6 maggio 1994, sono le 23,45: una bomba sveglia il rione Agna di Matera. L’ordigno è posto all’ingresso della parrocchia di padre Basilio, rendendola inagibile. Padre Basilio è turbato ma irremovibile nel suo impegno. Con l’aiuto dei Monfortani e di Ciliberti, lui, nato e vissuto povero, crea in poco tempo un’altra chiesa, ben più grande e imponente della precedente, con tanto di sala per conferenze e concerti, e un centro sportivo con campi da volley, basket e calcio a 5. Se l’attentato non sortì effetti, allora sarebbe stato meglio provare con la calunnia. Accuse che indussero la procura della Repubblica di Matera ad indagare su di lui; l’accusatore degli aguzzini chiamato in giudizio. Per un lungo procedimento. Una sofferenza enorme per il sacerdote, conclusa, dopo anni, con il pronunciamento di piena assoluzione. Anche da indagato, continuò a occuparsi delle vittime delle dipendenze: “Provo indignazione e mi ribello dinanzi a chi prevarica sugli altri” e “verso chi fa del potere un ambìto traguardo e poi manca al servizio”, le sue parole. “È stato un sacerdote coraggioso e lungimirante che ha sfidato l’usura e l’omertà senza mezzi termini - ha dichiarato l’arcivescovo di Matera-Irsina, Benoni Ambarus -. Non ha mai avuto paura di dire la verità, combattente anche nella malattia e nella sofferenza. Il suo stile pastorale è un modello attuale e impellente per tutti i sacerdoti” capace di “una pastorale della soglia, pronta ad andare incontro agli altri, ai lontani e ai fragili. Il suo ministero sacerdotale è testimonianza credibile e coerente di un Vangelo che si incarna nella comunità sociale e cristiana del nostro tempo”. Con la morte di padre Basilio, “abbiamo perso l’ultimo vero profeta che nell’antiusura aveva guardato in profondità le dimensioni di un male universale dell’umanità - ha detto il sociologo Maurizio Fiasco -. Grazie all’intelligenza della sua fede e all’emozione che provavamo ascoltandolo, ci permetteva di comprendere come questo male collega tutto l’umano, non solo nel nostro Paese, ma nel mondo intero”. Forte la similitudine che trova don Marcello Cozzi, presidente della Fondazione nazionale Interesse Uomo: “Nello stesso giorno in cui te ne sei andato tu, 34 anni fa veniva ucciso Libero Grassi, imprenditore che non ha mai ceduto alle richieste estorsive. Tutta questa nostra battaglia in fondo inizia da lì, e io penso che quando si vive nel solco del Vangelo nulla è una coincidenza”. Con la sua scomparsa, ha affermato il sindaco di Matera, Antonio Nicoletti, la città “perde un grande uomo, un esempio coraggioso, una voce indomita che mancherà, ma che continuerà a vivere nelle opere, nelle parole e nell’amore che ha seminato. Come Amministrazione comunale ci impegniamo a tenerlo vivo non soltanto nel ricordo, quanto nelle azioni, in particolare con l’impegno per sostenere le attività della Fondazione antiusura da lui guidata fino all’ultimo giorno”. Cnca: “La Conferenza governativa sulle droghe senza la riduzione del danno” di Eleonora Martini Il Manifesto, 31 agosto 2025 Parla Caterina Pozzi della Cnca, unica del Terzo settore invitata dal sottosegretario Mantovano. E tra gli organizzatori della Controconferenza. “Se oggi è il crack una delle sostanze più abusate, ed è un gravissimo problema, non possiamo distribuire solo siringhe. Intercettare i consumatori è necessario. E scientificamente efficace”. Il Coordinamento nazionale della comunità accoglienti (Cnca) è l’unica organizzazione del Terzo settore che, a Roma il 7 e l’8 novembre prossimi, prenderà parte sia alla Conferenza nazionale sulle Dipendenze promossa dalla presidenza del Consiglio come prescritto dalla legge (si dovrebbe tenere ogni tre anni, l’ultima è stata a Genova nel 2021), che alla Controconferenza organizzata da tutte le associazioni che si occupano da anni di droghe ma che sono state rigorosamente escluse dal meeting governativo promosso dal sottosegretario Alfredo Mantovano. “La nostra è una posizione molto delicata”, puntualizza la presidente Caterina Pozzi, che nella sua città di Bologna si è occupata per anni sul terreno di riduzione del danno. Prenderete parte a conferenze di segno opposto, come mai? Palazzo Chigi non poteva non invitarci, perché siamo la più estesa rete di comunità di recupero per persone dipendenti. Ma operiamo anche nella riduzione del danno e nella prevenzione nelle scuole e in contesti informali. Il governo ha invitato come Terzo settore solo le reti di comunità, come noi, la Fict, e Comunitalia di cui fa parte San Patrignano, e altre realtà che seguono modelli di intervento completamente diversi dal nostro. Il nostro è un approccio scientifico alla materia. Invece, non sono stati invitati protagonisti come Antigone o Forum droghe, i sindacati o Elide, la rete degli enti locali - tra cui i Comuni di Roma, Bologna, Milano, Napoli e Torino - che affronta il tema dei consumi in un’ottica non repressiva e innovativa. E soprattutto non sono stati invitati i consumatori, cosa per noi inconcepibile perché non si può parlare di servizi senza i diretti interessati. Fin dai primi incontri abbiamo capito anche che certe tematiche non sarebbero state trattate, in particolare la riduzione del danno, perciò abbiamo scritto una lettera al sottosegretario Mantovano chiedendo di cambiare approccio e di invitare tutti gli attori in gioco, e anticipando che avremmo trovato comunque altri contesti in cui confrontarci. Nessuna risposta. “Abbiamo un piano” è il titolo della Controconferenza. Quale piano? Partiamo dalla realtà: la guerra alle droghe non funziona. Bisogna governare il fenomeno e bisogna dare evidenza ai risultati scientifici italiani, europei e mondiali. Vogliamo che anche in Italia si promuova una cultura scevra da moralismi e stigmatizzazione che prepara il ricorso al penale. L’asse va completamente spostato dal penale ai diritti: diritto alla salute, innanzitutto, alla casa, alla cittadinanza. La repressione usata contro i consumatori di sostanze, si è allargata ad una vasta platea con i decreti di questo governo. Il risultato si vede nelle carceri, riempite di tossicomani ma non dei signori della droga. Uno degli obiettivi della Controconferenza è allargare: vogliamo chiamare studenti, collettivi, sindacati, lavoratori, territori, proprio per provare a continuare a sensibilizzare e a fare controcultura. Vorremmo dare un po’ di coraggio anche agli amministratori e a una parte di quella politica troppo timida sul tema. Vogliamo chiedere alle Regioni di attuare i Lea sulla riduzione del danno: la legge del 2017 l’ha inserita nei livelli essenziali di assistenza nazionali ma occorre che le Regioni attuino la legge seguendo l’esempio del Piemonte. Continua l’attacco di Fd’I e Lega contro la distribuzione delle pipette da crack ai consumatori nell’ambito della politica di riduzione del danno. Dopo Bologna, Parma e Reggio Emilia, anche a Piacenza i meloniani hanno minacciato un esposto in procura contro le amministrazioni comunali per danno erariale. Ma è proprio così necessario distribuire questi strumenti di igiene? Guardi, dal punto di vista concettuale non c’è davvero alcuna differenza tra le siringhe e le pipe. Che cosa deve fare una politica attenta ai cambi di fenomeni? Deve cambiare il tipo di risposte. E quindi se oggi è il crack una delle sostanze più abusate, ed è un grandissimo problema, perché continuare a distribuire solo siringhe? Chi li intercetta i consumatori di crack se non abbiamo strumenti di loro interesse? Intercettarli, creare relazioni - che non hanno assolutamente l’obiettivo di convincere a smettere - serve da un lato agli operatori per imparare, per capire cosa sta succedendo sul mercato. E dall’altro, serve a creare una consapevolezza nei consumatori. La riduzione del danno non è né di destra né di sinistra. È uno strumento di governo scientificamente testato in 40 anni, che funziona e che evolve con la realtà. Venezuela. Alberto Trentini, italiano perbene, in cella a Caracas da 9 mesi di Carlo Verdelli Corriere della Sera, 31 agosto 2025 La missione degli Esteri andata a vuoto, il sostegno dei Regeni, il nuovo appello della madre Armanda Colusso da Venezia: “Cosa penserà mio figlio del suo Paese?”. La domanda è se stiamo facendo abbastanza per Alberto Trentini e la risposta è no. Come se la scomparsa di un italiano, preso in ostaggio dal governo venezuelano da 288 giorni e chiuso in una cella infame senza una motivazione neanche fasulla, non sia un problema nazionale, e a questo punto, dopo più di nove mesi, un’urgenza, se non una vergogna. La madre Armanda lancia dal Festival del cinema di Venezia un altro appello perché lo si faccia tornare a casa. L’appello rimbalza su giornali e siti, ruba forse cinque minuti d’attenzione a qualche attore o regista, ma poi resta lì, come tutti quelli che l’hanno preceduto, come l’interessamento attivo e reiterato della famiglia Regeni, che conosce sulla propria pelle quel tipo di disperazione. L’avvocato Alessandra Ballerini, che ora si occupa di salvare Alberto, è la stessa che da nove anni lavora per rendere giustizia a Giulio. Il Lido di Venezia non era una passerella scelta a caso. Alberto è di lì, si è laureato in Storia a Ca’ Foscari, dopo il servizio civile ha sentito che il suo posto nel mondo era quello di dare una mano a chi ne ha bisogno, si è specializzato come operatore umanitario con un master a Liverpool e uno in sanificazione dell’acqua a Leeds, ha accumulato decine di esperienze sul campo (Ecuador, Bosnia, Etiopia, Paraguay, Nepal, Grecia, sei mesi in Perù nel 2017 ad assistere migliaia di famiglie colpite dalle inondazioni). Non è tipo da centri sociali, come è stato scritto; la famiglia di cui è figlio unico, mamma Armanda e papà Ezio (che non è in salute), è molto riservata e se ha una simpatia politica è in direzione cattolica. Lui ha compiuto 46 anni il 10 agosto in quella fogna di galera. In una delle due uniche telefonate a casa che gli sono state concesse ha chiesto come stava il padre, di non preoccuparsi e di ricordare di non usare la macchina perché prima bisogna prenotare la revisione. Si sta facendo abbastanza per liberare un italiano così, una persona così? Trentini era in Venezuela da ottobre, coordinatore di una ong francese, “Humanity and Inclusion”, premio Nobel per la pace 1997, per assistere persone con disabilità, nelle periferie estreme di un Paese abbandonato alla miseria. Il 15 novembre è stato arrestato a un posto di blocco mentre viaggiava da Caracas a Guasdualito. Da allora è scomparso dentro la prigione El Rodeo di Caracas, il suo arresto è stato confermato solamente due mesi dopo, non ha mai potuto ricevere una visita di avvocato o funzionario del suo Paese, non ha mai ricevuto un’accusa formale sul perché l’hanno preso e portato via. Racconta un suo ex compagno di cella svizzero, liberato da poco: “Hai 45 minuti d’aria tre volte la settimana. Le guardie stanno sempre a volto coperto, capaci di ridere con te e un secondo dopo di torturarti”. Lo svizzero è stato rilasciato, come una decina di americani che stavano nello stesso posto e nelle stesse condizioni, come due italo argentini, Margarita Assenza e Americo De Grazia, lasciati uscire il 10 agosto. Alberto no, lui è un caso molto particolare. Il ministro degli Esteri Tajani ripete che ce ne sono tanti altri di prigionieri. Vero, ma Trentini non è come gli altri. Tra quelli in carcere o presi in ostaggio in Venezuela, è l’unico italiano incensurato, non censurabile, e soprattutto “puro”, cioè con soltanto la nostra cittadinanza, e come tale preziosa merce di scambio. Da quando è stato rieletto Maduro, nel luglio scorso, oltre 60 cittadini stranieri sono stati catturati in prospettiva di scambi sul piano diplomatico. Il nostro è uno dei Paesi che non riconoscono la legittimità del nuovo governo di Caracas, ma forse la strada per aprire uno spiraglio non è ribadire, le rarissime volte che il governo va sull’argomento, che “Maduro è un dittatore e noi coi dittatori non trattiamo”. Primo, perché non è vero, e ricordiamo la schiettezza dell’ex presidente del Consiglio Draghi a proposito di Erdogan, e la lista è allungabile a piacere, da Al Sisi a Putin. Secondo, perché l’obiettivo di convincere il Venezuela a ridare la libertà a un italiano innocente dovrebbe suggerire qualche accortezza diplomatica che finora è mancata. Disattenzione gravissima, permessa anche da un’opposizione che non si è fatta carico di Trentini come avrebbe dovuto e da un menefreghismo generale sulle sorti di un giovane uomo per bene. Vero che ad aprile, dopo due lettere in cui le si chiedeva un incontro, la premier Meloni ha telefonato alla madre di Alberto per farle sentire vicinanza, sia pure con qualche mese di ritardo. Vero che a fine luglio è stato nominato Luigi Maria Vignali come inviato speciale per gli italiani in Venezuela (200 mila), inclusi i “prigionieri politici”, ha detto il suo superiore Tajani, “che non hanno commesso a nostro parere reati”. Vero anche che Vignali, come da compito assegnato, è subito partito per Caracas, accolto con grande favore dalla stampa locale, ma siccome nessuna autorità ha ritenuto di riceverlo l’inviato se n’è tornato in Italia in attesa di sviluppi. Magari una telefonata preparatoria, per esempio del viceministro degli Esteri Edmondo Cirielli, avrebbe aiutato. È comunque indispensabile riprendere la missione di Vignali al più presto, preparandola con più astuzia, mostrando attenzioni verso un governo “non amico” pur di ottenere una soluzione positiva a un caso che non si semplificherà da solo col passare del tempo. No, non stiamo facendo abbastanza per il “caso” Trentini. Non stiamo facendo abbastanza come cittadini, come mass media, come governo, come politica, come istituzioni. E il problema è che questa evidenza non ci turba minimamente. Come sono già volate via nello scirocco lagunare le parole di mamma Armanda: “Mi chiedo spesso: cosa penserà questo ragazzo del suo Paese che per mesi l’ha abbandonato e non si è attivato abbastanza per liberarlo?”. E ancora: “Vorrei gridare la mia disperazione e che il mio grido oltrepassasse l’Oceano per arrivare in Venezuela da chi tiene prigioniero Alberto”. Ecco, rileggiamo queste poche parole per 288 volte, piano piano, tante volte quanti sono i giorni che il cooperante veneziano Alberto Trentini è stato rubato alla sua terra. Con la speranza che si compia il miracolo di un’Italia che si ridesta da un ingiustificabile torpore e trova la forza di premere e premere e premere per ridare la libertà a un italiano vittima di un sopruso, non come un risarcimento a una famiglia angosciata ma con un dovere di Stato da portare a compimento il prima possibile. Stati Uniti. Bruciare la bandiera. Trump archivia Scalia e l’originalismo di Pasquale Annicchino Il Foglio, 31 agosto 2025 Il presidente americano propone sanzioni penali per chi brucia la bandiera, rompendo con la tradizione originalista difesa da Scalia, che tutelava anche espressioni offensive sotto il Primo Emendamento. E segna un passaggio dei conservatori verso dottrine più interventiste. Che non vi siano dubbi: da conservatore patriottico quale sono, detesto che si bruci la bandiera della nazione e, se fossi re, introdurrei un reato. Ma, per come intendo io il Primo Emendamento, esso garantisce il diritto di esprimere disprezzo per il governo, il Congresso, la Corte Suprema e persino per la nazione e la bandiera della nazione”. La nota citazione del giudice Antonin Scalia rappresenta perfettamente le tensioni odierne che vivono nel cuore dell’originalismo, la filosofia giuridica che, per anni, è stata associata al Conservative Legal Movement statunitense. La citazione è riemersa nel dibattito pubblico di questi giorni a seguito della pubblicazione dell’ordine esecutivo del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, attraverso cui viene introdotta una sanzione carceraria per la profanazione della bandiera in quanto condotta di “ostilità e violenza nei confronti della Nazione”. L’idea che il potere giudiziario dovesse limitarsi ad applicare la legge rispettandone il testo e senza influenze delle preferenze politiche personali dei giudici ha costituito un potente veicolo ideologico che ha contribuito, in maniera sostanziale, al successo del movimento giuridico conservatore statunitense. Figure iconiche come Robert Bork e Antonin Scalia hanno reso popolare l’originalismo con l’intento di limitare le iniziative di un potere giudiziario percepito come debordante, ideologicamente ostile e dominato dalle idee progressiste. Gli ultimi anni e la seconda presidenza Trump stanno mettendo a nudo la fragilità di tale ricostruzione, contribuendo alla defenestrazione dell’originalismo dalla sua posizione di egemonia nel campo conservatore. Una nuova generazione di intellettuali e di politici ha ormai virato verso opzioni più aggressive e moralmente impegnative. Le nomine alla Corte Suprema di Neil Gorsuch, Brett Kavanaugh e Amy Coney Barrett hanno costituito, molto probabilmente, un punto di svolta decisivo nell’evoluzione del Conservative Legal Movement che, mentre queste nomine venivano finalizzate, ha visto emergere filosofie giuridiche alternative all’originalismo. La percezione di una persistente egemonia progressista nell’ermeneutica giuridiziaria ha creato un terreno fertile per una critica dell’originalismo proveniente da destra e incarnata da alcuni studiosi come Adrian Vermeule della Harvard Law School: per i sostenitori della teoria del “costituzionalismo del bene comune” (common good constitutionalism) l’originalismo non basta. È una strategia fallimentare in quanto moralmente neutrale che, proprio per questi motivi, lascia troppo spazio alle idee progressiste. Al contrario, è necessario che lo spazio di libertà ermeneutica dell’interprete sia utilizzato per promuovere valori e fini sostanziali spesso identificati grazie al ricorso al diritto naturale. Allo stesso tempo è necessario che lo stato massimizzi la sua capacità di intervento amministrativo al fine di promuovere quei fini e valori sostanziali. È questa la differenza che Vermeule traccia tra uno “Scalia originale” e la sua evoluzione, che sarebbe poi sconfinata nell’originalismo e nella riduzione dello spazio d’intervento dello stato mediante il diritto e le agenzie amministrative. La sfida è dunque, intellettualmente e politicamente, radicale. L’impazienza trumpiana verso i vincoli procedurali trova una potenziale sofisticata armatura intellettuale che potrebbe, nei prossimi anni, rivoluzionare in maniera profonda il Conservative Legal Movement, l’infrastruttura giuridica statunitense e diffondersi, grazie alla capacità di esportazione delle idee tutta americana, in altri paesi. Quel che accade a Washington non resta a Washington. Medio Oriente. In Israele e Palestina c’è un popolo che vuole la pace: ascoltiamolo di Lucia Capuzzi Avvenire, 31 agosto 2025 Sono tanti che rifiutano ostinatamente l’equazione con il governo Netanyahu o Hamas. Un attore tutt’altro che marginale. Che chiede il sostegno del mondo. Due giorni fa la polizia di Gerusalemme ha cancellato la raccolta fondi per i civili di Gaza organizzata da Standing together, associazione tra le più attive e accreditate dalla galassia pacifista israelo-palestinese. Dopo essere stati convocati al commissariato distrettuale, i rappresentanti hanno ricevuto un foglio in cui, nero su bianco, erano riportate le ragioni del divieto. “Gli obiettivi, propositi e risultati potrebbero favorire Hamas”, dato “il controllo del gruppo armato sul denaro in entrata nella Striscia”. Più o meno gli stessi termini con cui il governo di Benjamin Netanyahu cerca di giustificare la concessione con il contagocce dei permessi per la distribuzione degli aiuti umanitari nell’enclave. Nella stessa settimana, il ministro per la Sicurezza, il nazionalista radicale Itamar Ben-Gvir ha presentato il nuovo bando alle proteste che prevedano blocchi stradali. Come quelle imponenti di ieri sera a Tel Aviv che, ogni settimana dal 7 ottobre 2023, mettono in atto i familiari degli ostaggi. Prima soli e ora, sempre più, accompagnati da centinaia di migliaia di israeliani contrari al conflitto, all’occupazione di Gaza City e all’ossessione dell’ultradestra per un’imprecisata “vittoria totale”. L’ostruzione della circolazione costituisce una “minaccia”, ha sottolineato Ben-Gvr. Non ha torto. Per il progetto bellicista della maggioranza al potere a Tel Aviv, i cortei disarmati della società civile costituiscono un pericolo. Il più grande, probabilmente. Essi scardinano l’impalcatura ideologica su cui si basa il suo progetto politico: l’esclusione - e conseguente necessità di eliminazione - dell’altro, sintetizzato nella formula “o noi o loro”. Poiché dimostrano che non esiste un “noi” granitico e indifferenziato opposto a un “loro” altrettanto astratto e compatto. Due corpi sociali impenetrabili e incompatibili a cui non resta che eliminarsi a vicenda. Ci sono, al contrario, esseri umani che rifiutano - per ragioni non sempre lineari - di vivere con la “spada sempre sguainata”, per parafrasare Netanyahu. E si trovano dall’una e dall’altra parte. Non solo: sono i più. In Israele e in Cisgiordania lo confermano tutti i sondaggi da mesi. Perfino nella Gaza spezzata da quasi due anni di conflitto, fame e privazioni, la gente ha avuto il coraggio di dire “basta” con le proteste anti-Hamas dell’estate nel nord dell’enclave. Un’espressione di dissenso che prosegue nonostante la repressione - selettiva, per mancanza di forze - messa in atto dal gruppo armato. Non c’è, in fondo, da sorprendersi. “Dove è il pericolo, cresce anche ciò che dà salvezza”, scriveva Friedrich Hölderlin. Un verso amato e citato di frequente da Francesco. Quando, come in questo tempo, la distruzione, materiale e spirituale, incombe e, nel mondo dilaga, come ha detto di recente papa Leone, “una violenza sempre più sorda e insensibile ad ogni moto di umanità”, alle persone e ai popoli per esistere non resta che resistere. Non si tratta solo di reagire all’urto e adattarsi a una nuova forma di equilibrio, quanto di mantenersi saldi, come indica la radice sanscrita “stha” da cui deriva la parola resistenza. Stare e restare per fissare con la propria presenza una linea rossa: il rifiuto della disumanità. È la scelta dei responsabili delle Chiese, cattolica e ortodossa, di Gaza City. Decisioni che interpellano le opinioni pubbliche degli altri Paesi del mondo. Come contribuire alle esistenze-resistenze delle tante donne e uomini di Israele e Palestina? L’interrogativo è complesso quanto urgente. Per provare a rispondere, forse, il primo passo è ascoltare quanto queste persone e gruppi - entrambi i popoli ne hanno formato decine, spesso insieme - ci domandano con insistenza. Innanzitutto di essere visti e non più invisibili sulla ribalta globale in cui va in scena una rappresentazione polarizzata e polarizzante della tragedia in atto. L’importazione del conflitto sulle nostre tastiere e piazze contribuisce poco alla soluzione. Non è nemmeno necessario esportare soluzioni, più o meno innovative. Sarebbe sufficiente accompagnare i processi in corso: rilanciandone le azioni e le richieste di boicottaggio, di partecipazione ai tavoli politici, di pressione sui rispettivi governi perché ascoltino quel popolo terzo, composto dagli appartenenti ai due popoli che rifiutano ostinatamente l’equazione con il governo Netanyahu o Hamas. Un attore tutt’altro che marginale, nonostante l’asimmetria di potere, di forze, di narrative. Capace non solo di urlare slogan ma di immaginare soluzioni, compiere gesti, simbolici e pratici, creare linguaggi nuovi. Con il sostegno del mondo, i disarmati di Israele e Palestina possono farsi disarmanti. Medio Oriente. Una terra, questione politica non umanitaria di Marta Cariello Il Manifesto, 31 agosto 2025 Da qualche settimana assistiamo a un cambiamento, seppure formale e sostanzialmente ipocrita, delle posizioni dei governi europei su Gaza. Si susseguono dichiarazioni e (timide) condanne contro l’operato di Israele, minacce di riconoscimento dello Stato di Palestina da parte di alcuni governi e, soprattutto, appelli affinché si ponga fine alla “crisi umanitaria”, alla carestia, ai bombardamenti sugli ospedali. Questo cambiamento potrebbe essere dovuto a una misura morale colma, dinanzi alla quale, almeno formalmente, non ci si può consegnare alla storia come silenti (restando complici, sia ben inteso), oppure all’opinione pubblica che preme e per fortuna dimostra di volersi e sapersi informare, nonostante o forse grazie alla marea di notizie in rete (e il libro di Francesca Albanese primo in classifica per vendite nella categoria “saggi” di queste settimane in Italia è una bella notizia, per esempio). Oppure, si tratta di riassestamenti politici di un’Europa che cerca nuovi posizionamenti nel mezzo delle scosse telluriche di Trump da un lato e la stabilità granitica della Cina dall’altro. O, ancora, potrebbero essere tutte queste cose insieme; difficile dirlo. Il dato che emerge, però, è che, di fronte allo smantellamento (per ora morale) dell’Onu e quindi lo svelamento pieno dell’utopia (o ipocrisia?) dell’universalismo dei diritti umani, si leva pur tuttavia l’unica contestazione che i leader europei riescono a produrre: fermare il massacro in nome del fattore “umanitario”. La questione dei diritti umani è tanto complessa quanto necessaria, e se ne potrebbe discutere molto a lungo, scomodando Marx e la sua critica della separazione tra Stato e società civile e della necessità dei diritti umani stessi, che dovrebbero garantire quanto lo Stato avrebbe invece come suo unico scopo: l’effettualità storica dell’eguaglianza. Si dovrebbe certo citare Hannah Arendt e le sue considerazioni sul “diritto ad avere diritti”; come si dovrebbe tener conto della riflessione di Judith Butler sulla vulnerabilità e la “gerarchia del lutto” che scardina il presunto universalismo dei diritti umani. Ma la questione umanitaria, evidentemente fondamentale nell’urgenza del qui e ora, delle vite in ballo e non ultimo della definizione di genocidio applicabile alle azioni di Israele a Gaza, diventa un velo, che copre e oscura la dimensione fondamentale della questione palestinese: quella politica. La lotta palestinese è sempre stata politica, impressa nella storia dall’icona di Arafat con il ramo d’ulivo in una mano e il fucile nell’altra alle Nazioni unite, tradotta nelle pietre contro i carri armati di due intifada; lotta armata e negoziazione diplomatica, i venerdì della rabbia sul confine spinato e la poesia più potente del fuoco. Citiamo solo due esempi in un oceano di letteratura della resistenza: Mahmoud Darwish, che scriveva “Prendi nota, sono arabo… non verrò mai a mendicare alla tua porta / ti secca?”; e il testamento straziante di Refaat Alareer: “Se dovessi morire fa che io sia un racconto…”. Questa lotta ha sempre riguardato la terra e non la religione; ha sempre riguardato l’occupazione (che è un fatto politico). La trappola della discendenza e della “prelazione” - chi c’era per primo avrebbe il diritto di possedere - distrae anch’essa, ricolonizza anche l’identità palestinese, dentro una narrazione dell’esclusività che è propria del colonialismo europeo e, nella sua apoteosi messianica, del sionismo. L’autodeterminazione di un popolo ora non può più prescindere da una rivendicazione identitaria, dove non è la terra che offre la possibilità di un’identificazione per chi - anche transitoriamente nel corso dei secoli - la abita, ma è l’identità che decide e assegna una terra. In questo rovesciamento il gioco sarebbe sempre a somma zero. Invece, nella dinamica politica, non lo è mai. Quella palestinese è, ripetiamolo e studiamola in quanto tale, sempre stata una questione politica, e continua a esserlo. È ed è sempre stata la soggettività politica palestinese sotto attacco, perché riporta sempre e costantemente il progetto coloniale europeo e israeliano alla sua dimensione politica. Ma proprio per questo, l’annientamento fisico e sistematico della popolazione non cancella la questione palestinese, perché, come si diceva una volta, chi lotta non muore mai.