Suicidi, sovraffollamento e isolamento: Nordio minimizza, ma il carcere non rieduca di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 30 agosto 2025 Basterebbe dare uno sguardo alla settima sezione di Regina Coeli a Roma: tutti dovrebbero raccontare questo manifesto dell’indegnità della pena. Sta finendo la lunga estate carceraria, quando il tempo recluso si ferma ancor più che negli altri periodi dell’anno e il carcere è ancor più abbandonato a se stesso. Un bilancio di questi mesi ci dice che a fine estate il numero dei detenuti ha superato la soglia delle 63.000 unità, che i posti letto disponibili sono circa 15.000 in meno, che nei soli mesi estivi i suicidi accertati sono stati 24, cui si aggiungono altre morti per cause ancora da definire. In pieno agosto il Ministro della Giustizia Carlo Nordio ha sostanzialmente minimizzato il tema, affermando cinicamente che i numeri non sarebbero allarmanti in quanto sotto la media nazionale dell’ultimo triennio. La tragica statistica smentisce le sue affermazioni. I suicidi nelle carceri italiane sono già 58 in questo 2025 e presentano un andamento identico a quello dell’anno precedente. Sfortunatamente non si registra alcun calo. Il tasso di suicidi nelle carceri italiane è circa il doppio rispetto alla mediana europea. Il dato più allarmante e significativo è quello che ci dice che nelle nostre galere le persone si tolgono la vita circa 25 volte di più rispetto a quanto accade in Italia nella società libera. Ogni minimizzazione è vergognosa. Davanti a questi numeri risulta impossibile ridurre la questione dei suicidi carcerari unicamente a scelte di disperazione individuale, incapaci di mettere in discussione l’etica dello Stato. Piuttosto, essa è una questione sociale, culturale, sistemica. L’organizzazione della vita penitenziaria non è pensata per accogliere le persone, per comprenderne i problemi, per sostenerle nelle difficoltà. Significativo al proposito è quanto accade al momento dell’ingresso in carcere, un momento critico nel quale si ha grande bisogno di sostegno. In quasi tutte le carceri metropolitane, una persona appena arrestata - e dunque presunta innocente - viene collocata nella sezione cosiddetta dei nuovi giunti, che dovrebbe servire a introdurla nella vita reclusa. Dovrebbe essere una sezione di accoglienza, dove la persona possa avere opportunità di parlare con un operatore, con uno psicologo, di contattare i propri cari, di conoscere le regole della vita interna, i diritti e i doveri riconosciuti dalla legge. Invece le sezioni per nuovi giunti sono spesso le peggiori, quelle più insane e degradate dell’istituto, le meno protette, le meno visitate dagli operatori. Sono spesso luoghi orribili, dove si costruiscono carriere criminali. Sono il biglietto da visita rivolto ai detenuti, compresi i più giovani e meno strutturati (oggi le carceri per adulti si stanno riempiendo di ragazzini appena maggiorenni). Il messaggio è il seguente: state entrando nell’inferno. Per farsene un’idea basterebbe dare uno sguardo alla settima sezione di Regina Coeli a Roma. I media dovrebbero chiedere di poterla visitare. Dovrebbero raccontare a tutti questo manifesto dell’indegnità della pena che abbiamo oggi in Italia. Altro che umanità e rieducazione di cui all’articolo 27 della Costituzione. Se la fase iniziale della carcerazione è particolarmente a rischio di suicidio, lo stesso va detto del tempo trascorso nei reparti di isolamento. Celle spesso sottratte a ogni sguardo. Tanti, troppi suicidi nelle carceri italiane sono avvenuti in celle di isolamento. Così come tanti, troppi atti di violenza. Antigone ha in corso una campagna a livello globale per il superamento di questa pratica pre-moderna e pericolosa. Anche quest’estate è finita e il carcere è un luogo sempre più indegno. Il ministro Nordio minimizza il problema dei suicidi, mentre il suo compito dovrebbe invece essere quello di rivoluzionare la vita in galera, di chiudere le sezioni indecenti come la settima di Regina Coeli, di riempire il carcere di operatori e di attività, di proibire l’oscurità dei reparti di isolamento, di dare un segnale di legalità profonda contro tutte le violenze. A breve si aprirà il procedimento penale per le presunte torture subite dai ragazzini reclusi nell’Istituto Penale per Minorenni Beccaria di Milano. Preannunci la costituzione di parte civile da parte del Governo, così come dovrebbero fare le autorità locali e i Garanti nazionali dell’infanzia e dei diritti delle persone private della libertà. Non si può giocare con i numeri sottraendosi alle responsabilità istituzionali, politiche e morali. *Coordinatrice dell’Associazione Antigone Mauro Palma: “Limitare la custodia cautelare in carcere non basta” di Simona Musco Il Dubbio, 30 agosto 2025 Intervenire sulle misure cautelari, come prospettato dal ministro della Giustizia Carlo Nordio, non è la soluzione per ridurre il sovraffollamento carcerario. A confermarlo, dopo l’intervento sul Dubbio dell’ex procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati, è Mauro Palma, già Garante nazionale per le persone private della libertà. “Contenere il più possibile la custodia cautelare è secondo me un elemento di civiltà giuridica - spiega Palma al Dubbio. Ridurla ai casi di estrema necessità è comunque un elemento valoriale da tenere presente, ferme restando tutte le garanzie. Ma che questa misura incida in maniera significativa sul sovraffollamento non è vero”. Una delle cause principali del sovraffollamento, secondo Palma, è la costruzione, nel corso degli anni, di reati “endocarcerari”, cioè violazioni commesse all’interno del carcere e che avrebbero potuto essere gestite attraverso procedure disciplinari. A ciò si aggiungono le condizioni difficili e spesso inumane degli istituti di pena, che favoriscono episodi sempre più gravi. “L’intervento dovrebbe partire da qui: sulla scelta di contenere le misure penali in un sistema di esecuzione penale che deve prioritariamente reggere sulla capacità di garantire all’interno sicurezza e disciplina, ma con regole interne di tipo disciplinare”, spiega Palma. Le persone in attesa di giudizio sono attualmente circa 9.000, secondo i dati ufficiali del Dap, un numero alto ma in diminuzione rispetto a ottobre 2022, quando il governo si è insediato. “Da ottobre 2022 al 31 luglio 2025, stando agli ultimi dati, i detenuti sono aumentati di 6.344 unità - aggiunge Palma -. Significa che su mille giorni di governo Meloni ogni giorno sono entrate in carcere sei persone e mezzo. Nello stesso periodo, il numero di posti è aumentato di 126. Questo ci dice che c’è stato un aumento enorme, ma non a causa della custodia cautelare”. Un altro dato significativo riguarda l’età dei detenuti: dieci anni fa, quelli con più di 50 anni rappresentavano il 32,6% del totale, oggi sono il 42,3%. “Il problema non è sulle entrate sottolinea Palma - ma nel fatto che in carcere si sta sempre di più per una serie di fattori. Faccio un esempio: nell’ordinamento è stato introdotto il reato di detenzione dei telefonini in carcere. Prima era un’infrazione disciplinare, oggi è punito con due anni di pena. I telefonini, però, non sono diminuiti, anzi, ogni giorno abbiamo notizie del loro dilagare. Ma averlo fatto diventare reato ha prodotto una maggiore permanenza in carcere”. Insomma, la solita storia: introdurre nuovi reati non è un deterrente, ma un semplice atto simbolico. E si attendono ancora gli effetti del decreto sicurezza, che, tra le altre cose, ha trasformato anche le proteste passive in carcere in reato, contribuendo ad aumentare ulteriormente la permanenza dei detenuti negli istituti di pena. Un altro elemento del dibattito pubblico riguarda i suicidi, che secondo Nordio non sarebbero collegati al sovraffollamento. “È vero che il sovraffollamento non determina direttamente i suicidi in termini di causa- effetto - spiega Palma -, ma c’è una correlazione molto forte. Riduce le attività e aumenta le tensioni, perché spesso non ci sono spazi sufficienti per le persone. Chi è emotivamente fragile vive in un mondo distante dalla propria realtà, e questo può favorire il suicidio”. Quanto alle possibili soluzioni immediate per ridurre la pressione sugli istituti - escludendo la possibilità che si opti per un provvedimento di indulto - Palma suggerisce tre interventi concreti. “Possiamo avviare un dibattito, essere d’accordo o meno con la prospettiva del ministero di costruire nuove carceri - sottolinea - ma per realizzare questi progetti serve intervenire nell’immediato”. Il primo passo sarebbe un provvedimento analogo a quello adottato durante il Covid, ma più flessibile, per chi ha un residuo di pena fino a 18 mesi, affinché sia concessa la detenzione domiciliare, “ovviamente con le dovute cautele a seconda dei reati, ma facilitando anche la modalità di azione per la magistratura di sorveglianza”. Il secondo provvedimento riguarda i senza fissa dimora, per estendere tale possibilità anche a chi non ha casa, “concordando immediatamente, con i Comuni, la possibilità di fornire alloggi formali per garantire questi 18 mesi di detenzione domiciliare, strutture anche di controllo, ma di responsabilità comunale, in collaborazione con le associazioni”. Il terzo provvedimento riguarda i cosiddetti “liberi sospesi”, persone che hanno avuto la sospensione della pena e attendono una misura alternativa. “Sono circa 100.000 persone, che rappresentano un lavoro enorme per la magistratura. Bene, se una persona ha ottenuto la sospensione di una pena breve e per un congruo numero di anni, mettiamo cinque, non ha commesso alcun reato, quella pena dovrebbe essere estinta”. Questi tre passi, conclude Palma, “possono dare un po’ di respiro, permettendo di realizzare anche i progetti di diversificazione con le comunità, con tutto quello di cui parla il ministro, ma che oggi non ha possibilità di realizzarsi a causa dei numeri attuali”. Lavoro in carcere, il grande pasticcio sui contributi della legge Smuraglia di Ilaria Dioguardi vita.it, 30 agosto 2025 Il Dap chiede indietro i soldi a 300 cooperative, anzi no. Nel mese di agosto le cooperative impegnate nel dare lavoro ai detenuti hanno vissuto una vicenda surreale, mossa dalla scarsa comunicazione che c’è tra gli attori legati alla Legge Smuraglia. “Processi chiari e trasparenti. Di questo ha bisogno il lavoro in carcere”, dice Luciano Pantarotto, presidente di Confcooperative Federsolidarietà Lazio. La legge Smuraglia, la 193/2000, mira a favorire l’attività lavorativa dei detenuti, offrendo incentivi fiscali e contributivi alle imprese che li assumono. “Una norma che il ministro Nordio declama tanto, più volte anche di recente ha affermato che il ministero della Giustizia punta molto sul lavoro ai detenuti: ma, nei fatti, c’è bisogno di un nuovo patto tra chi il lavoro lo fa e chi lo sostiene. Dentro un processo complesso come quello del lavoro negli istituti di pena, gli interlocutori si devono parlare. Il carcere è un’amministrazione pubblica e la non comunicazione con i soggetti su cui si fonda tutta la politica di trattamento è un fatto grave”, afferma Luciano Pantarotto, presidente di Confcooperative Federsolidarietà Lazio. “Se, in tutte le sedi pubbliche, si afferma che per abbattere la recidiva il lavoro è lo strumento principale insieme alla cultura e ad altre attività trattamentali, ma poi non si parla con chi porta il lavoro, non c’è coerenza. Processi chiari e trasparenti: di questo ha bisogno il lavoro in carcere, che da dieci anni vive nella disattenzione”. Una riflessione, con questa pressante richiesta di una maggior comunicazione fra tutti gli attori coinvolti, che a arriva a valle di centinaia di Pec che il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - Dap ha inviato nelle settimane scorse alle cooperative impegnate nel lavoro dei detenuti. “Sugli incentivi al lavoro in carcere c’è molto caos. Lo strumento della legge Smuraglia non è chiaro neanche alle direzioni carcerarie stesse che, in certi casi, hanno autorizzato crediti di imposta non applicabili per alcune categorie di persone in esecuzione penale. Ciò è evidente anche dal recente invio, da parte del Dap, di centinaia di pec alle cooperative”. Pantarotto, quale comunicazione ha ricevuto, dal Dap, una parte delle cooperative che fruiscono delle agevolazioni previste dalla Smuraglia? La prima settimana di agosto il Dap - Ufficio IV Trattamento, per la prima volta da quando è stata istituita la legge Smuraglia, ha scritto una pec alle cooperative accreditate all’utilizzo degli sgravi di imposta per effetto di questa legge. In una parte di queste email le imprese vengono diffidate dell’utilizzo del credito d’imposta in maniera totale o parziale, anche se precedentemente accordato con un decreto del Dap. Ci spieghi meglio... Tra imprese e cooperative sono 800-900 le realtà che fruiscono della Smuraglia. In parte delle email inviate viene intimata la restituzione delle somme ritenute impropriamente utilizzate (totalmente o in parte, a seconda dei casi), da rimborsare entro la prima decade di settembre. Sono state spedite circa 600 email alle cooperative e in circa la metà di esse venivano chieste indietro le somme non utilizzate degli sgravi di imposta per effetto della Smuraglia. Una richiesta di restituzione che avviene a causa di inefficienze del sistema, in quanto se i provveditorati e le singole direzioni non inviano i monitoraggi richiesti (che non sono altro che autodichiarazioni delle stesse coop sull’utilizzo dei fondi) nei tempi e nei modi indicati da circolari a volte conosciute solo dalle direzioni, ecco che il Dap ritiene la cooperativa inadempiente e, quindi, utilizzatrice indebita del contributo. Qual è il problema a monte che rende possibile un simile inciampo? È di tutta evidenza che manca un dialogo tra gli attori della “recidiva zero”, cioè tra le cooperative e il Dap stesso, che avrebbe potuto chiedere alle sue direzioni il motivo della carenza delle autocertificazioni svelando quello che tutti sanno: che la macchina del carcere è in forte difficoltà anche nel produrre documenti nei tempi e nelle modalità indicate dal ministero stesso. L’origine di tutto questo caos è che la macchina della Smuraglia per quanto riguarda la comunicazione non ha mai funzionato in maniera ottimale. Tra l’amministrazione centrale, ovvero il Dap, e la cooperativa che fruisce della Smuraglia ci sono diversi passaggi: il Dap manda una comunicazione al provveditorato regionale, che la manda alla direzione dell’istituto di pena e a questo punto, se va tutto bene, la comunicazione arriva anche alla cooperativa. Diversamente, si ferma al provveditorato o all’interno della direzione. Qual è stata la comunicazione che non è arrivata, a suo avviso? Partiamo dall’origine del caos. Nel 2019 il Dap inviò una circolare in cui affermava che le cooperative che richiedono la Smuraglia devono produrre, ogni anno, un’autocertificazione, che serve per fare un monitoraggio statistico. In pratica, ogni cooperativa che ha intenzione di fruire dello sgravio fiscale, per avere il decreto di assegnazione delle risorse, deve comunicarlo l’anno prima del suo reale utilizzo (entro il 31 ottobre), con una previsione di utilizzo del fondo, immaginando che l’anno successivo assumerà un certo numero di persone in carcere, oppure prevedendo che proseguirà ad avere un tot di dipendenti detenuti, se li ha già in carico. È una sorta di “prenotazione” delle risorse. Questa comunicazione, ogni cooperativa, la fa alla direzione del carcere che la manda al provveditorato, che a sua volta la invia all’amministrazione penitenziaria. Poi, entro il 31 gennaio, è richiesto un monitoraggio per capire come si è chiuso l’anno precedente. Mentre entro il 31 luglio ogni coop è tenuta a produrre l’autocertificazione dell’utilizzo della Smuraglia, per verificare se i fondi richiesti sono stati utilizzati. Come dicevo, tutti questi passaggi tra la cooperativa e il dipartimento sono sempre mediati dalla direzione e dal provveditorato, che è l’organismo superiore alle direzioni degli istituti di pena. Capita che le direzioni delle carceri non comunichino con le cooperative. Così alcune di esse ancora non sanno, a distanza di sei anni dalla norma, che devono produrre queste autocertificazioni: per questo motivo al Dap non arrivano i dati. Così, il Dap ha deciso di controllare se i monitoraggi vengono prodotti. Il motivo dell’invio da parte del Dap delle pec quindi è, in alcuni casi, la mancata comunicazione da parte delle cooperative delle autocertificazioni di monitoraggio. Altre volte viene evidenziato un utilizzo sbagliato dell’incentivo da parte delle coop (per ignoranza), con una non distinzione tra detenuti intramurali e semiliberi affidati o ai domiciliari (a cui l’incentivo non spetta). Questo accade perché le direzioni stesse ignorano, in alcuni casi, lo strumento della legge Smuraglia, o non ne conoscono i contenuti. Alle cooperative che non hanno inviato le autocertificazioni è stato richiesto, di fatto, in un primo momento di restituire dei soldi… Sì, se le direzioni delle carceri non hanno prodotto le autocertificazioni di monitoraggio ricevute dalle cooperative sull’utilizzo del credito d’imposta, alle coop è stato detto di non averne diritto. C’è uno strumento che potrebbe essere molto utile per i detenuti, la legge Smuraglia, ma non si fa del tutto per fare in modo che funzioni bene. In alcuni casi, parliamo di importi piccoli, ma in altri di importi importanti: a qualche cooperativa sono stati chiesti indietro anche 40-50mila euro. Realtà che hanno utilizzato la Smuraglia in maniera corretta, ma non hanno prodotto l’autocertificazione. Questi fatti rischiano di scoraggiare le cooperative, che (lo so per esperienza) a volte decidono di “scappare” dalla burocrazia e dalla precarietà che regnano dentro il sistema penitenziario. Com’è finita la vicenda? Un paio di giorni fa, a distanza di circa tre settimane, c’è stata da parte del Dap una sorta di presa di coscienza di aver mandato una comunicazione non chiara e sono arrivate alle cooperative delle email con la richiesta di inviare, entro l’1 settembre, l’autocertificazione relativa agli sgravi fiscali della Smuraglia. L’allarme è rientrato, ma questo pasticcio rappresenta bene il caos che c’è nel sistema penitenziario per quanto riguarda il lavoro in carcere. Nei mesi scorso abbiamo sollecitato, noi cooperative, che venisse fatto del materiale informativo. E questo materiale informativo è stato prodotto? La Direzione generale dei detenuti e del trattamento del Dap, per la seconda edizione della giornata di lavoro “Recidiva Zero” del 17 giugno scorso - promossa dal Cnel in collaborazione con il ministero della Giustizia - ha realizzato un opuscolo di dettaglio informativo sul funzionamento delle agevolazioni previste dalla legge Smuraglia, diffuso il 2 luglio scorso. Nell’opuscolo vengono illustrate le modalità e i requisiti per richiedere in maniera corretta l’utilizzo di tale incentivo. Anche qui, però, ci sono imprecisioni: a pagina 22, si parla di uno sgravio contributivo, per le imprese, del 100%, quando in realtà è del 95%. In questo caos, una cooperativa che lavora con la Smuraglia però davvero può non sapere quale documentazione deve produrre? O finora i controlli sono stati più laschi? La coop è come l’ignorante, ha sempre colpa: avrebbe dovuto informarsi su cosa avrebbe dovuto produrre e inviare la documentazione. Le direzioni degli istituti di pena spesso non sanno cosa sia la Smuraglia e questo è grave. Infine, nessuno ha mai fatto verifiche finora, anche perché non c’è molto bisogno di verificare. Cosa intende dire? Tutti i mesi, obbligatoriamente, le cooperative trasmettono le buste paga dei detenuti alle direzioni delle carceri, con i bonifici erogati ai lavoratori. Le autocertificazioni sotto forma di questionari che si chiedono sono un di più: le direzioni sono già a conoscenza di tutti i dati lì richiesti. Ma il lavoro in carcere non è molto seguito, è una nave che sta andando avanti per forza di inerzia. Ci sono delle direzioni che risentono delle non indicazioni dei provveditorati, che a loro volta risentono delle non indicazioni del Dap tali per cui ci sono delle lavorazioni storiche, negli istituti, da 10-15 anni, che non si seguono. Quali sono i maggiori problemi delle cooperative, per quanto riguarda il lavoro in carcere? Il primo problema è la rappresentanza. La singola coop è debolissima rispetto a un corpo complesso come il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che è fatto di magistrati, direttori di carcere ecc. Il secondo è che spesso gli stessi operatori delle cooperative sono detenuti, quindi stanno nel mondo delle carceri e non hanno alcuna relazione con l’esterno, non hanno un cellulare, lavorano a testa bassa nell’istituto. Se un funzionario della direzione non informa gli operatori che è arrivata una comunicazione via email che bisogna inviare un’autocertificazione, loro non lo possono sapere. Secondo lei, come si potrebbe migliorare l’applicazione della Smuraglia? È necessario rivedere il meccanismo di attribuzione delle risorse per consentire una verifica più puntuale. E rivedere quelle casistiche che non rientrano nella Smuraglia, come le persone agli arresti domiciliari, che avrebbero titolo ma i fondi non ci sarebbero anche per loro. La logica iniziale del provvedimento era quella del risparmio, non della finalità dell’inserimento lavorativo. I processi dovrebbero essere accompagnati in maniera forte, altrimenti è impossibile l’incentivazione per la coop ad assumere, in un percorso di continuità tra il dentro e il fuori. Poggioreale e dintorni: lo stato di salute di un paese di Enrico Caria, Luca Musella Il Manifesto, 30 agosto 2025 Disegnato dall’architetto borbonico Nicolini con l’ambizione di controllare tutte le celle disposte su bracci radiali, il carcere napoletano è lo specchio del disastro civile che sono le carceri italiane. Se pensate che al circolo vizioso riscaldamento globale più condizionatori d’aria, e ancora più riscaldamento globale più condizionatori, e così via, nessuno provi a trovar rimedio, vi sbagliate di grosso: qualcuno, almeno in Italia, che tenta di farlo c’è. Parliamo dei quasi 63.000, tra uomini e donne, vecchi e bambini, che nonostante l’estate, nelle loro stanzette la temperatura media arriva pure a 37/38 gradi, non solo l’aria condizionata non la usano, ma hanno remore a usare pure uno di quei vecchi ventilatori messi talvolta a disposizione dalla struttura carceraria solo a pagamento. Se al caldo torrido poi, aggiungiamo l’endemico sovraffollamento delle nostre patrie galere, l’inferno dantesco è illustrato stavolta non dal pennino di Dorè ma dal rapporto di Antigone. “Corpi ammassati in celle chiuse, spazi inadeguati, tensione alle stelle, condizioni igienico sanitarie inaccettabili, educatori e poliziotti in difficoltà…” questa la situazione delle nostre patrie galere, dove d’estate, passato, presente e futuro diventano un unico tempo indistinto, irrespirabile e grigio, che induce chi a bilanci, chi a nostalgie, chi al suicidio. Numeri: ad aprile 2024, su 189 istituti, ne risultano sovraffollati 153 con percentuali che superano il 150%; in circa 36% degli istituti lo spazio calpestabile è inferiore a 3 metri quadrati a persona (sotto la soglia minima europea); in molte strutture l’acqua corrente è disponibile solo per poche ore al giorno e le celle restano chiuse e soffocanti per gran parte del tempo (la custodia chiusa infatti coinvolge il 60% circa dei detenuti); nel 2024 si è registrato il record di 91 suicidi di detenuti e nei primi 4 mesi del 2025 già se ne contano 33 (25 volte di più che all’esterno), ogni cento detenuti 22 compiono atti di autolesionismo, più o meno la stessa percentuale che fa regolarmente uso di psicofarmaci con una copertura d’assistenza psichiatrica di 7,4 ore settimanali ogni cento carcerati. In quanto ai minori poi abbiamo un incremento del 54% in soli due anni, laddove col modello Caivano il Governo Meloni cercava invece, proprio in previsione di questi picchi di calore, di far del bene sbattendone così tanti “al fresco”… vagli a spiegare che è solo un modo di dire! Se poi a queste condizioni inumane e schifose, ci aggiungiamo le difficoltà burocratiche a volte sadiche che rendono l’accesso a formazione e lavoro pressoché un miraggio, ecco che entra in campo fin anche l’impossibilità di sognare che, come si dice a Napoli, “adda passà a nuttata”. Nuttata, che chi finisce chiuso proprio nel carcere napoletano di Poggioreale (la cui capienza d’estate può superare il 160%) ha ottimi motivi per ritenerla infinita. Poggioreale: quartiere carcere o quartiere con carcere? Disegnato dall’architetto borbonico Antonio Nicolini con l’ambizione proto-orwelliana di controllare tutte le celle disposte su bracci radiali da una torre centrale, la mastodontica struttura ottocentesca è un labirinto tentacolare che si espande e domina la vita di tutto il quartiere, domina il sentire di Napoli orientale entrando nel cervello anche di chi con il carcere non ha niente a che spartire. Cosa che non avviene, per esempio, con San Vittore a Porta Magenta, o a Regina Coeli a Trastevere, che per quanto a Milano e a Romain pieno centro, sono come fortini inespugnabili scollegati dalla realtà circostante. Qui invece i codici di Poggioreale, le sue linee d’ombra, determinano coscienze e conoscenze di molti abitanti del quartiere; qui le lingue di Poggioreale si ibridano con quelle delle marginalità estreme proprio perché si crea una osmosi particolare e unica tra il dentro e il fuori. Come anche tra bianchi e neri o tra guardie e ladri, sovrapponendo e a tratti confondendo, il destino di chi è detenuto e di chi detenuto non è. D’altra parte lo stesso sviluppo di Napoli est, di cui Poggioreale è cuore pulsante, assurge a simbolo delle mattanze sociali che si sono succedute con una popolazione in perenne e precario equilibrio tra decenza sfiorata con l’ascensore sociale del sogno operaio e, tra dismissioni e ghettizzazioni sempre più rauche, declino che non trova più ostacoli. Angelo, in questo ascensore guasto, si è perduto. Figlio di operai, di quella cultura perbene della operosa sobrietà, ma cresciuto in mezzo a una piccola malavita di cui ha mutuato codici e difetti. “Nel quartiere dove sono cresciuto,” racconta facendo raffreddare il caffè, “parole come viaggio o vacanza, non indicano le ferie ma i periodi di detenzione. Qua pure una famiglia a posto si può trovare il figlio coinvolto in qualche casino… la mia famiglia ha fatto di tutto per tenermi fuori dai guai, ma io inciampavo continuamente e mia madre, durante l’ultima detenzione… lei si era allontanata da me. Non reggeva più, pensava che avrei travolto tutti nei miei… abissi! Solo mio padre non è mai riuscito a perdere la fiducia in me, nonostante che ero un rottame, fatto e fuori di testa”. Così, proprio durante un’estate al fresco, Angelo si è trovato solo in una cella, fatto a metadone, con la consapevolezza che la vita gli aveva voltato le spalle o forse, che gliele aveva voltate lui. Però voleva vivere, voleva ritrovare l’amore della famiglia che aveva riempito di vergogna. Non sapeva più come fare, e non sapeva come non fare. “È stato un attimo… come una sospensione di quei pochi secondi tra andare via oppure restare, aggrappandomi a quello che ancora tenevo: la storia operaia di mio padre”, e così si è ripreso dal suo maldestro tentativo e ha smesso di pensare a cappi e coltellini. “Mio padre,” dice con un sorriso da bambino, “mi ha trasmesso il suo lavoro goccia a goccia e oggi che ho una bella famiglia tutta mia e un poco di serenità economica mi dimentico di quei momenti in cui vedevo la morte come un premio”. Angelo infatti, è ora pure lui operaio, meccanica di precisione, roba che anche i cinesi a quelli come lui gli fanno un baffo. Una storia bella la sua, in questa Napoli orientale assediata da campi rom, roghi di rifiuti tossici, tumori stranissimi, disservizi da Quarto Mondo… eppure, incredibile a dirsi, è proprio a Poggioreale e dintorni che si vanno materializzando appetiti di nuove speculazioni edilizie. Qualcuno ci vede addirittura il nuovo stadio, mentre tutt’intorno… bè, tutt’intorno vanno in pezzi pure le esistenze di chi ci vive: quelli che il carcere lo hanno vissuto come quelli che ci girano attorno o che ci lavorano. Disservizi, assenza di lavoro, corruzione, degrado… diventano variabili fisse d’un intero quartiere penitenziario, dove l’individuo si scopre fragile e sceglie se camminare rasente ai muri divorato dalla paura, o essere spavaldo e mettere in conto di dover uccidere o essere ucciso. In questo senso il carcere diventa passaggio obbligato, come una tappa possibile nell’attraversamento delle troppe linee d’ombra. Gianni è una guardia carceraria in pensione che del suo lavoro, però, non vuole parlare. Vedovo, con i figli lontani in qualche nord, passa giornata a caccia di ex detenuti: gli unici, evidentemente, in grado di reggere la sua compagnia; eppure potrebbe benissimo cercarsi qualche ex collega con cui chiacchierare. Invece è come se il suo, di ergastolo latente, lo abbia talmente tanto fatto immedesimare nei linguaggi detentivi che alla fin fine sono quelli, gli unici che riesce a praticare. La cosa che poi ci stupisce di più è che… Gianni non segue mai un ragionamento logico: se si avvicina ai suoi amici ex-galeotti mentre, per esempio, stanno parlando del tempo, lui vuole parlare del Napoli o viceversa. Come ancora volesse esercitare una forma di autorità. É fuori lui, ma è ancora dentro. Gli ex detenuti, tra tagli al welfare e contributi mai versati, vivono fuori dalle mura carcerarie, come sospesi. Qualche debito di riconoscenza da riscuotere, piccole refurtive da rivendere, il minimarket che fa credito, e si galleggia. E, a meno d’essere balordi incalliti o far parte di un clan, provano generalmente a star lontani dai guai: dei leoni di gioventù, molti conservano solo lo sguardo veloce e malinconico sopra a corpi malandati. Come lupi a fine corsa. Allora si inventano professioni fantasiose, come Giuseppe: aiutante abusivo del parcheggiatore abusivo. Praticamente questo signore gira attorno al parcheggiatore abusivo “ufficiale”, e quando quello va appigliarsi un caffè oppure deve andare in bagno ZAK! Giuseppe approfitta della sua assenza per intascare qualche monetina al posto suo per poi rintanarsi nell’ombra fino alla prossima occasione. Anche fuori dal carcere, sotto l’ingresso, ci sta chi si piazza con buste di plastica e altro per gestire la logistica dei pacchi per il dentro. Oppure per conservare gli oggetti personali dei familiari in visita che non possono essere introdotti. Altro mestiere, che pensavamo ormai in disuso e invece c’è ancora, è quello dello scrittore di lettere d’amore. Pasqualino lo faceva quando stava dentro e adesso lo fa anche fuori che gli analfabeti non mancano mai. “Ero uno dei pochi che sapeva scrivere e compilavo le domandine degli altri detenuti, ma spesso mi chiedevano pure queste lettere d’amore che all’inizio non tenevo proprio idea da dove cominciare. Allora andavo a cercare nella memoria i versi delle canzoni nostre, tipo: tu si na cosa grande pe me, oppure che ci diciamo a fare parole amare, e poi ho iniziato a inventare io cose tipo sento il tuo profumo sul mio cuscino, oppure le tue mani che mi accarezzano dolcemente le cosce…” Ma poi, confessa, per non mettersi a ridere Pasqualino finiva sempre per sdrammatizzava con qualche battuta volgarissima. “Però la cosa che mi imbarazzava di più non era tanto scriverle, quanto leggerle dopo ad alta voce, non so spiegare… ma in quel momento, mi facevano pena loro e mi facevo pena io”. Napoli pallida madre, dove l’eterno destino della plebe vede nella figura femminile un incastro diabolico, in cui violenza subita e violenza restituita si confondono. Come per Franca, che è stata tutto e il contrario di tutto: vittima, da bambina abusata e poi carnefice con una lunga fila di reati più o meno gravi; detenuta nelle carceri e sottoposta a pene alternative, ma pure detenuta nella droga, nell’alcol, in relazioni tossiche ripetitive nella sopraffazione e nel degrado. Per le donne delle marginalità napoletane oltre allo stigma criminale, incombe pure quello della “malafemmina”, colei che madre-figlia-sposa rappresenta un pericolo simile alle sabbie mobili. Una trasformazione culturale che colpisce e segna in modo diverso il destino delle donne, proprio perché somma alla carriera criminale qualcosa di ambiguo, di sporco, che diventa segno indelebile per tutta la vita. Malafemmina, dove alla trimurti prostituta/tossica/ladra, si alterna in Franca una personalità dolcissima, in cui la delicatezza diventa sguardo, sorriso storto, gesto d’istinto generosissimo. E nel suo caso la violenza ha scavato anche un solco nella determinazione della sessualità, trasformandole il corpo in valore di scambio economico, nel tentativo disperato di superare il trauma subito. L’immortalità di Filomena Marturano vede fusa nella figura della malafemmina il massimo del degrado possibile, ma abbinato alla redenzione mistica, della trasfigurazione poetica di madre, di super madre. Ogni altezza di questo popolo viene dal basso, e le donne del peccato, in questo senso, sono la più alta espressione della cultura popolare napoletana; come sirene il cui canto è meraviglioso ma mortale. Nina è una donna molto vecchia che ancora vende sigarette di contrabbando, mezza sorda ma che non si perde mai una puntata di Un posto al sole. Come tutti i sordi non parla, urla: “a dodici anni già ero donna… ma non solo per quello che pensate voi, ero donna perché già a sei anni dovevo arrampicarmi su una sedia e lavare tutti i piatti. La mamma lavorava dai signori e io dovevo badare ai miei fratelli e a mio padre. Mia sorella era più grande ma mezza rachitica. Era finita la guerra ed io facevo impazzire gli americani: ero troppo bella per crescere sana. Uno mi ha preso un basso ed è venuto a vivere con me. Da allora gli uomini mi hanno preso e lasciato, ho avuto figli che non so con chi ho fatto, ho fatto casini e venduto sigarette. Il carcere era normale per me. Ho avuto tante condanne”. L’amore, per lei, era troppo simile a un perenne tradimento, proprio uguale alla sua esistenza, eppure conservava una solarità e in questo, le differenze tra le bambenelle di ieri e quelle di oggi si materializza in un’unica parola: alienazione. Oggi, forse, la vera condanna a morte è la solitudine dei destini dei fragili. A Poggioreale, proprio per la sua composizione sociale, è naturale avere per vicino di casa un detenuto agli arresti domiciliari… ma attenzione: anche mettere solo un piede fuori casa è evasione! E così, se nei film l’evaso è sempre avvolto in una romantica aura di avventuriero, a Poggioreale è al massimo statica presenza nel cortile di casa dove gli sarebbe proibito scendere. Di alcuni di loro si conosce solo il lamento e talvolta le ore in cui esplode, di quelli meno accorti o insofferenti, diventano alla fine familiari anche i volti che non andrebbero mostrati. E così, nel sentirsi oppressi in un perimetro che accerchia, nasce, può nascere, addirittura la nostalgia per la cella perduta. Per i rapporti franchi che si avevano. Per quel senso di appartenenza, di trincea, mentre fuori dal carcere si vive in solitudine anche fra le mura domestiche. Altra cosa che colpisce è che nonostante la bassa scolarizzazione, scontando queste specie di ergastoli intermittenti, alcuni ex detenuti sviluppano una competenza burocratica incredibile, per cui sanno spesso indirizzarti nei tortuosi sistemi della Sanità o agevolarti nella richiesta di una invalidità, di un sussidio o di qualche altra diavoleria amministrativa. È il lento scivolare identitario tra la figura del detenuto e la figura del carceriere di sé stesso, che impone una conoscenza, quasi un ritmo, simile e speculare a quello della guardia. E in tal modo si diventa spesso secondini di sé medesimi e delle esistenze dei propri cari. Inferni di alienazione sovrapposti: quello della detenzione carceraria e quello delle diversamente detenzioni della contemporaneità. Due degradi estremi che non sai più né distinguere né scegliere: confini, che nel caso di Poggioreale, diventano sfumati. L’attacco delle toghe ricompatta il Governo: “Riforma intoccabile” di Simona Musco Il Dubbio, 30 agosto 2025 “Uniti più che mai”. La maggioranza è divisa quasi su tutto. Su vaccini, temi etici e pure sul riarmo. Ma non sulla riforma della giustizia che, dicono all’unisono i partiti che formano l’esecutivo, non si tocca. E a ricompattare gli alleati ci ha pensato Giorgia Meloni in persona, che al meeting di Rimini ha ribadito la volontà di portare fino in fondo la separazione delle carriere. Una dichiarazione che - in un momento tutt’altro che sereno per la maggioranza - ha avuto l’effetto di rinvigorire l’unità tra i partiti, chiamati dalla premier a vincere l’eterna battaglia con le toghe. Per il governo, la magistratura rappresenta l’opposizione più dura e simbolica, anche alla luce della campagna comunicativa avviata dall’Associazione nazionale magistrati in vista del referendum. Dalle colonne del Dubbio, i gruppi associativi del sindacato delle toghe respingono le accuse di “giudici politicizzati” e denunciano invece un tentativo del governo di piegare la giustizia al potere esecutivo. Parole che, agli occhi della maggioranza, non sono altro che l’ennesima dimostrazione di una “resistenza culturale al cambiamento”, rafforzando la compattezza dell’esecutivo in uno dei pochi temi di reale unità. “Nei magistrati più vicini alle correnti - spiega al Dubbio il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto - c’è un nervosismo da riforma costituzionale. Nervosismo che si manifesta non solo lanciando messaggi deformati e deformanti sulla riforma e le sue finalità, ma soprattutto tradendo una evidente intolleranza nei confronti di un Parlamento che sta soltanto seguendo le indicazioni dei padri costituenti e dell’articolo 138. La Costituzione, come disse Ruini, è destinata a durare in eterno perché può essere cambiata, rispettando, come accade, le regole del cambiamento. Il Parlamento, così, rivendica il sacrosanto diritto di proporre ai cittadini la scelta se chi giudica possa continuare ad avere parentele con chi accusa e se il correntismo, che domina il Consiglio superiore della magistratura, sia o meno utile a garantire l’indipendenza e l’autonomia di ciascun magistrato”. A confermare l’unità è Sergio Rastrelli, senatore di Fratelli d’Italia. “È vero - spiega al Dubbio -, in Italia, negli ottant’anni di storia repubblicana, è accaduto che sui temi della giustizia, sui rapporti con la politica, sulla separazione tra i poteri dello Stato siano caduti governi, siano implose maggioranze, siano evaporate fortune politiche ed elettorali. Ma oggi - ed è bene che tutti ne prendano atto - il governo è sempre più forte, la maggioranza è sempre più coesa, ed il consenso popolare è sempre più convinto e diffuso”. Nessuna possibilità di far cadere il governo, almeno sulla giustizia, sembra garantire Rastrelli, che difende la presa di posizione di Meloni a Rimini. La premier, ha sottolineato, “ha rivendicato legittimamente, e con orgoglio, la profonda azione riformatrice svolta dal governo nazionale sui temi della giustizia”. Il senatore meloninano attacca invece l’Anm, le cui reazioni “ancora una volta scomposte ed irritanti” rivelerebbero “una distorta logica della appartenenza”, una “difesa di privilegi corporativi” e una “difesa ad oltranza di assetti di potere”. Nessuna nostalgia dell’eterno conflitto tra politica e magistratura, continua Rastrelli, “ma non possiamo in alcun modo più tollerare, da parte di taluna magistratura associata, attività di indebita interferenza, di interdizione, e men che mai di sconfinamento nelle attribuzioni esclusive del legislatore: attività che hanno talvolta rasentato una vera e propria sfida al Parlamento sovrano”. Ed oltre a dover osservare la Costituzione, “i magistrati sono tenuti anche al rispetto delle leggi varate dal Parlamento, nella evidenza del principio fondamentale della democrazia per cui la volontà popolare è sacra, e si esprime attraverso le elezioni”. Un concetto rilanciato dal deputato di Forza Italia Tommaso Calderone, secondo cui il fatto che l’Anm invochi la “separazioni dei poteri” è una buona notizia. “I magistrati - spiega al Dubbio - si devono, infatti, occupare di amministrare la giustizia in nome del popolo italiano. Le leggi le scrive, invece, il Parlamento e l’ordine giudiziario si deve preoccupare solo di applicarle. Condivido ogni parola del presidente Meloni. Negare che ci sia una parte della magistratura politicizzata è come negare l’evidenza del sole”. E se è vero il commento del presidente dell’Anm Cesare Parodi sul fatto che non esiste alcuna volontà da parte della magistratura di fare opposizione politica o ostacolare il governo, aggiunge il deputato leghista Jacopo Morrone, “allora lo si dimostri concretamente applicando le leggi vigenti in Italia, non contrastando gli obiettivi politici dell’esecutivo e confrontandosi in modo costruttivo senza pregiudizi sull’indifferibile riforma della giustizia. Al contrario - aggiunge - leggiamo dichiarazioni irricevibili da appartenenti della giunta di Anm che, nei fatti, confermano le parole di Meloni senza mostrare alcuna apertura al dialogo. E che sia così lo si comprende anche dalla babele di voci e slogan dell’opposizione da cui non emerge un’argomentazione seria che sia una da opporre alle politiche del governo”. Ma le opposizioni non ci stanno: “È il solito schema: attaccare la magistratura colpevole di non assecondare i piani del governo - afferma la vicepresidente del Senato Anna Rossomando. Che sia sull’immigrazione o le vicende di qualche esponente di governo, sempre la stessa storia. A Rimini lo ha fatto la presidente Meloni, spesso è stato il ritornello del ministro Nordio. Quindi niente di nuovo, ma in ogni caso una concezione preoccupante perché l’obiettivo finale è sottomettere di fatto il potere giudiziario a quello esecutivo, anche se la presidente, a parole, lo ha negato. È nei fatti, è alla base della cosiddetta riforma della giustizia. E contro questa impostazione porteremo avanti la nostra opposizione, in Parlamento e fuori”. “Separare le carriere è una punizione, ma guai a scontrarsi con la politica” di Valentina Stella Il Dubbio, 30 agosto 2025 Sebbene la separazione delle carriere sia una “riforma sgangherata” pensata con lo scopo di “punire” la magistratura, occorre scongiurare lo scontro istituzionale con il governo, evitare “toni inutilmente polemici”, sottrarsi dal partecipare ad eventi organizzati dai partiti politici. Altrimenti la magistratura ne pagherà le conseguenze. A dirlo in questa intervista è Claudio Galoppi, segretario di Magistratura indipendente. La premier Giorgia Meloni nel suo discorso al Meeting di Comunione e Liberazione di Rimini ha assicurato che la maggioranza andrà avanti sulla riforma costituzionale della separazione delle carriere “nonostante le invasioni di campo di una minoranza di giudici politicizzati”. Come commenta questa affermazione? La presidente del Consiglio ha rivendicato una riforma che il suo governo ha voluto, come era nei programmi elettorali della coalizione che ha vinto le elezioni. Mi pare del tutto fisiologico in una democrazia. Ciò non toglie il mio giudizio del tutto negativo su questa riforma, ma per il merito e non per ragioni politiche. Una riforma che non risolve nessun problema della giustizia. L’ho più volte definita una riforma sgangherata che sconquassa i delicati equilibri costituzionali ed è solo una sorta di “punizione” della magistratura. Ma, quindi, secondo lei, esistono “giudici politicizzati”? Non so se esistono giudici politicizzati. Mi auguro che le decisioni non siano mai condizionate da ragioni o valutazioni politiche. Dobbiamo lavorare perché l’attività interpretativa non si sostituisca al legislatore. Come abbiamo riportato nel nostro articolo di ieri mattina tutti i gruppi della Giunta Anm si sono schierati contro la premier. Lei è soddisfatto di questa compattezza? La questione non mi appassiona. Aggiungo che alimentare lo scontro istituzionale non giova a nessuno. Tantomeno ai magistrati che devono spiegare le ragioni della loro contrarietà alla riforma e non contrapporsi a questo o quel Governo. Ritiene che attualmente l’Anm sia un soggetto politico di opposizione al governo? La guida di Cesare Parodi mi pare equilibrata e competente. Occorre però vigilare e praticare una reale unità di azione per evitare fughe in avanti di chi alza i toni solo con intenti inutilmente polemici. All’interno dell’Anm si è aperto in questi mesi un dibattito sulla possibilità o meno dei magistrati di partecipare agli eventi organizzati dei partiti. Dove finisce la libertà di espressione delle toghe e dove inizia l’esigenza di apparire terzi ed imparziali? Su questo punto voglio essere chiaro. Non si discute ovviamente la libertà di ogni magistrato di esprimere pensieri, valutazioni e giudizi. Ma proprio per la delicatezza del ruolo e per la necessità di fiducia da parte dei cittadini, i magistrati, ed in particolare coloro che rivestono cariche rappresentative, non possono, secondo me, partecipare a eventi di partito che inevitabilmente si prestano a strumentalizzazioni politiche. In questo senso Magistratura indipendente aveva presentato una proposta di autoregolamentazione in Anm respinta dagli altri gruppi. Un grave errore di cui vedremo le conseguenze nei mesi a venire. Secondo il leader di Italia viva, Matteo Renzi, “c’è un gruppo di toghe brune che fanno capo a Mantovano e vogliono la rivincita sulle toghe rosse”. Che idea si è fatto di questo dibattito? È un dibattito sul nulla. Non esiste alcuna contrapposizione tra toghe di diverso colore. Vi sono certamente sensibilità e impostazioni culturali differenti, ma, come liberale, vivo queste differenze come espressione di una positiva dialettica. I sondaggi passati e recenti dicono che il sì alla separazione è in vantaggio. Lei crede che questo risultato possa essere ribaltato? Assolutamente sì. Spiegando le nostre ragioni che non sono corporative ma a difesa dei diritti di tutti. La premier ha anche sostenuto che nessun giudice fermerà la politica sull’immigrazione del governo. Eppure la Cgue ha sostenuto che i magistrati avessero ragione. Qual è la sua opinione in merito? È normale, direi ovvio, che il governo persegua e dia attuazione alle proprie politiche sull’immigrazione. Come è giusto che i magistrati esercitino il controllo di legalità loro demandato. Ciò che occorre evitare sono le reciproche invasioni di campo. E per i magistrati occorre un dovere supplementare di rigore e riservatezza. Lei in una intervista di qualche mese al Giornale fa si è detto favorevole ad un provvedimento di amnistia. Qual è il suo giudizio su come la maggioranza stia gestendo la questione sovraffollamento e suicidi? Ribadisco la necessità di interventi forti e risolutivi per l’emergenza carceraria. Primo tra tutti l’amnistia. Dobbiamo lavorare con l’avvocatura, l’accademia e il terzo settore per elaborare proposte ulteriori di soluzioni, laddove possibile, alternative alla detenzione. Bene il governo quando investe, come ha fatto, su lavoro, salute psicologica e sport in carcere. “Giudici e pm vanno differenziati”. Parola di Giovanni Falcone di Bruno Larosa L’Unità, 30 agosto 2025 Uno dei principali argomenti usati dai detrattori della riforma è che il magistrato antimafia non abbia mai propugnato la separazione. Falso. Lo fece pubblicamente due volte. In modo nettissimo. Queste sono le premesse ed è il successivo quadro nel quale si mossero i Costituenti, e allora lascerei da parte tanto Licio Gelli, la sua P2 e Silvio Berlusconi. Piuttosto segnalo lo scopo evidentemente perseguito dai sostenitori di questo slogan: tentare di criminalizzare o mettere in cattiva luce coloro che oggi - in tempi in cui il rosso simbolico si è molto scolorito - propugnano la separazione delle carriere. Analoga inesattezza si cela in chi contro coloro che ne fanno un giusto e riguardoso richiamo - sostiene che “Giovanni Falcone non ha mai propugnato la separazione delle carriere”. Invece Falcone lo ha fatto in almeno due occasioni pubbliche: il 28 luglio 1988, nel corso di un suo intervento a un convegno promosso da Mondo Operaio e, successivamente, il 3 ottobre 1991, in un’intervista rilasciata a Mario Pirani, pubblicata su La Repubblica. Non fu affatto un’affermazione istintiva e decontestualizzata, ma del tutto ragionata e preziosa in punto di diritto, e alla quale è molto difficile opporre argomenti giuridici e politici contrari: “La questione centrale” affermava Falcone, “che non riguarda solo la criminalità organizzata, sta nel trarre tutte le conseguenze sul piano dell’ordinamento giudiziario che il passaggio dal processo inquisitorio al processo accusatorio comporta. Se questa riforma dell’ordinamento non sopravviene rapidamente il nuovo processo è destinato a fallire. Un sistema accusatorio parte dal presupposto di un pubblico ministero che raccoglie e coordina gli elementi della prova da raggiungersi nel corso del dibattimento, dove egli rappresenta una parte in causa. Gli occorrono, quindi, esperienze, competenze, capacità, preparazione anche tecnica per perseguire l’obbiettivo. E nel dibattimento non deve avere nessun tipo di parentela col giudice e non essere, come invece oggi è, una specie di para-giudice. Il giudice, in questo quadro, si staglia come figura neutrale, non coinvolta, al di sopra delle parti. Contraddice tutto ciò il fatto che, avendo formazione e carriere unificate, con destinazioni e ruoli intercambiabili, giudici e Pm siano, in realtà, indistinguibili gli uni dagli altri. Chi, come me, richiede che siano, invece, due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nella carriera, viene bollato come nemico dell’indipendenza del magistrato, un nostalgico della discrezionalità dell’azione penale, desideroso di porre il Pm sotto il controllo dell’esecutivo. È veramente singolare che si voglia confondere la differenziazione dei ruoli e la specializzazione del Pm con questioni istituzionali totalmente distinte. Gli esiti dei processi, a cominciare da quelli di mafia, celebrati col nuovo rito, senza una riforma dell’ordinamento, sono peraltro sotto gli occhi di tutti”. Non credo ci sia bisogno di aggiungere altro, se non che una parte di quelli che, all’interno della magistratura, lo boicottarono, continua a opporsi strenuamente alle sue idee. “Perché sprecare tante energie con una riforma costituzionale quando il numero di magistrati che passa da una funzione all’altra è meno dell’1%? Evidentemente il fine perseguito dai riformatori è diverso”. Anche queste asserzioni si scontrano con il rigore logico, e così si tenta di dare all’opinione pubblica una rappresentazione negativa del Legislatore al quale, indipendentemente dalle idee politiche perseguite, bisogna riconoscere il rispetto proprio di ogni Istituzione, Ordine giudiziario compreso. Intanto che siano pochi i magistrati a migrare da una funzione all’altra non significa affatto che domani, invece, non siano molti a farlo. E come ben ricorda un autorevole magistrato ancora avvezzo alle TV, la politica consiste nel saper prevedere le difficoltà future e prevenirle. Poi è da dire che, nella pratica, questa scarsa propensione allo scambio, non rompe affatto la commistione tra le due funzioni a danno del Giudice, il quale è valutato dai P.M. nella sua progressione di carriera, nei trasferimenti, nelle domande che riguardano il suo profilo professionale. Senza contare che i P.M. siedono nei Consigli Giudiziari e nel Csm: dare torto al P.M., dunque, può avere potenziali conseguenze sulla carriera del Giudice e dunque condizionarlo, quando non anche determinare gravi situazioni come quelle descritte nel mio ultimo romanzo. Non posso fare a meno di citare ancora quanto sosteneva Mario Pagano: “Il timore attacca la libertà nella sua stessa sorgente”. E che il timore, anche inconscio, del giudice possa trarsi dalla presenza, a volte asfissiante, del P.M., consegue logicamente anche da quello che di questo magistrato recentemente ha scritto Giovanni Canzio: “forte di un indebito intreccio di relazioni con gli organi di stampa e dei media, a comunicare e valorizzare l’ipotesi accusatoria e il suo operato attraverso tali organi, o nel contesto di social network e talk show, relazionandosi direttamente con il popolo e con la politica, persino con l’esecutivo. “Porte girevoli” invero censurabili, questa, grazie alle quali il pubblico ministero, al di là e fuori del suo ruolo istituzionale, viene ad assumere l’impronta e spesso inadeguata veste di prevalente - se non esclusivo - storyteller dei casi e delle questioni di giustizia, di cui si fa rappresentante o addirittura promotore di revisioni legislative ad hoc, anziché operare nel contesto storico-spaziale e secondo le regole del procedimento o del processo”. La verità, dunque, sta nel fatto che il P.M. con la riforma teme di perdere questo ruolo di prima donna, e con esso il grande e incontrollato potere che ne deriva. Separarne le carriere, assicurando a entrambi autonomia e indipendenza esterna e interna, significa dare al giudice un ruolo centrale nel processo penale, ruolo che gli spetta quale soggetto deputato a giudicare rispetto alle domande di giustizia che provengono dal P.M., facendolo in una posizione di terzietà e imparzialità anche rispetto alla parte pubblica, come si pretende in un sistema processuale accusatorio e, peraltro, come, per questa materia, sta scritto nella Costituzione che ogni tanto si suole sbandierare a sproposito. Una riforma che non è un attacco all’autonomia e all’indipendenza dei magistrati - noi avvocati per primi lo impediremmo! - come è evidente a tutti coloro che scrupolosamente si sono imbattuti dapprima nel disegno di legge di iniziativa popolare presentato dall’Unione delle Camere Penali nella passata legislatura e ora, nel testo di iniziativa governativa. La previsione di un doppio Csm, uno per i PM e l’altro per i soli Giudici, con la maggioranza in entrambi gli Organi dei componenti togati, è la garanzia assoluta e indissolubile della loro indipendenza e autonomia. Peraltro, nella discussione non è mai emersa, esplicitandosi, la modalità con la quale la riforma consentirebbe le pretese interferenze dell’Esecutivo e del Ministro della Giustizia sui Pubblici ministeri. Mi dispiace solo che a rispondere agli interventi di tanti autorevoli personalità contrarie alla separazione delle carriere, non si inviti nessuno pronto a ricordare loro l’ingiustizia in cui versa il servizio penale, citando, per sostenerlo, le centinaia di suicidi, in gran parte di persone in attesa di giudizio, che ogni anno cadono all’interno delle nostre carceri e portando la voce di quelle centinaia di migliaia di cittadini che, per essere “riparati” dalla ingiusta detenzione subita, ciascuno con un miserabile assegno, complessivamente sono costati allo Stato più di un miliardo di euro. Anche a costoro, alle loro famiglie - e non solo a loro - gli avvocati penalisti hanno il dovere di dare voce, sostenendo questa riforma costituzionale con il massimo impegno e a prescindere dalla propria appartenenza ideologica, perché, come diceva Filippo Turati, il punto della questione è che la nostra “è collaborazione tecnica, non collaborazione politica” con l’attuale Ministero. Umbria. Il sistema carcerario è una “discarica sociale”. La denuncia choc del procuratore Sottani di Umberto Maiorca perugiatoday.it, 30 agosto 2025 Il sistema carcerario umbro è caratterizzato da un grave sovraffollamento (29%), carenza di personale di polizia penitenziaria (-19.5%) e un alto numero di detenuti stranieri e con problemi psichiatrici. Nonostante i gravi problemi di ordine e sicurezza (aumento aggressioni, telefoni cellulari), si registra un calo di episodi di autolesionismo. La Procura evidenzia il divario tra le progettualità annunciate e la lentezza della loro attuazione concreta, chiedendo interventi urgenti sul Provveditorato Regionale e sulla Rems, e sottolineando l’importanza del lavoro come strumento fondamentale per il reinserimento e la riduzione della recidiva. Si è conclusa oggi, con gli appuntamenti presso le strutture carcerarie di Perugia-Capanne e Spoleto, l’annuale visita del procuratore generale Sergio Sottani ai quattro istituti penitenziari dell’Umbria, avviata ieri con la casa circondariale di Terni e la casa di reclusione di Orvieto. Durante la visita è emerso un quadro critico: il sovraffollamento ha raggiunto il 29%, con 1658 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 1287 posti. Si segnala inoltre una carenza del 19,5% nel personale della Polizia Penitenziaria, con 701 agenti attivi su 871 previsti. Tra le problematiche più urgenti, l’aumento delle aggressioni al personale (66 episodi nel 2025) e la diffusione di dispositivi mobili tra i detenuti, con oltre 200 cellulari sequestrati negli ultimi tre anni. Sul fronte delle progettualità, sono stati evidenziati i finanziamenti e i programmi da destinare al reinserimento sociale, alla formazione e all’inclusione. Importanti novità riguardano la giustizia riparativa: Terni è stata individuata come sede regionale per l’attivazione dei servizi. È stata inoltre ribadita l’urgenza di attuare il Provveditorato regionale Umbria-Marche e sollecitata la creazione di una Rems regionale, attualmente assente in Umbria. Le parole del procuratore Sottani - Il procuratore generale Sottani ha rilevato “che a fronte delle molte parole che spesso vengono pubblicamente dette, su più fronti, in tema di carcere, seguono pochi fatti concreti”, ma ha anche “espresso soddisfazione per il confronto avuto con gli operatori e con i rappresentanti della popolazione detenuta e ha confermato l’impegno della Procura Generale nel promuovere interventi concreti per migliorare le condizioni detentive e favorire il reinserimento sociale”. Per il procuratore Sottani “il carcere viene vissuto sempre più come una discarica sociale in cui racchiudere il disagio della società e in cui la doverosa esigenza di sicurezza si trasforma in indifferenza per le effettive condizioni di vita della popolazione carceraria nonché, di riflesso, di quelle della polizia penitenziaria e di tutti gli operatori che, all’interno, con difficoltà enorme svolgono l’attività trattamentale”. La visita ha permesso di tracciare un quadro completo della situazione carceraria umbra, confermando le criticità strutturali. I dati regionali aggregati riportano un numero di detenuti totali di 1.658 persone (1.592 uomini, 66 donne), a fronte di una capienza regolamentare di 1.339 posti (ridotti a 1.287), con sovraffollamento del 29% (+5% rispetto al 2024). I detenuti stranieri sono 548 (34% del totale, +3% rispetto all’anno scorso). I detenuti con problemi di tossicodipendenza sono 314 (19%, -9%), mentre quelli con disturbi psichici sono 233 (14% sul totale, invariato rispetto al 2024). Gli agenti di Polizia penitenziaria sono 701 attivi su 871 previsti (-19.5%). Gli eventi critici nel 2025 rientrano negli atti autolesionismo ben 169 episodi (217 nel 2024), 19 tentativi di suicidio (43 nel 2024), 1 suicidio e 66 aggressioni al personale (41 nel 2024). Il Procuratore Generale ha sottolineato l’importanza cruciale del lavoro per ridurre la recidiva (70% in Italia, 2% per chi lavora in carcere) e la necessità di interventi concreti e non solo teorici. Nella sua relazione il procuratore ha ribadito che “nelle carceri umbre convivono soggetti pericolosi che intendono seguitare a delinquere, così come dimostrato dall’elevato numero di cellulari sequestrati per evitarne l’accesso abusivo, con soggetti fragili, deboli o comunque intenzionati a reinserirsi nella società, ai quali non vengono offerti strumenti idonei per il raggiungimento di tale obiettivo”. Barcellona Pozzo di Gotto (Me). Disposta l’autopsia sul detenuto indiano trovato impiccato messinaora.it, 30 agosto 2025 Oggi è prevista l’autopsia sul corpo dell’uomo di 48 anni, indiano, trovato impiccato nel bagno della cella del sesto reparto del carcere di Barcellona lo scorso 25 agosto. L’esame, disposto dal sostituto procuratore Luca Gorgone e affidato al dottore Letterio Visalli, dovrà stabilire le cause della morte. È il terzo suicidio rilevato nel giro di sei mesi, e ripropone con urgenza il tema delle condizioni della struttura, della sicurezza e dell’assistenza psicologica per i detenuti nell’ex ospedale psichiatrico. Secondo le prime ricostruzioni, il suicidio si è verificato in assenza di segnali immediati derubricabili: la dinamica, le ore e la presenza di compagni di cella saranno oggetto di verifica da parte della procura. A chiedere che si faccia chiarezza sulle dinamiche della morte è anche la famiglia, tre figli e la moglie, assistita dall’avvocato Giuseppe Serafino. Il carcere di Barcellona è un edificio storico, inaugurato nel 1925 e attualmente in fase di trasformazione da ospedale psichiatrico giudiziario a istituto penitenziario. Una struttura dove negli ultimi sei mesi si sono registrati tre suicidi. Troppi. Tanto che a fare un appello al Ministero della Giustizia è stato il procuratore di Barcellona, Giuseppe Verzera, che ha sollecitato risposte rapide sul potenziamento dei servizi sanitari e su interventi strutturali. Il caso riapre il dibattito sul bilanciamento tra sicurezza e dignità umana, e sull’allineamento alle norme europee sul trattamento dei detenuti in una regione, quella siciliana, che da aprile non nomina un garante per i detenuti. Busto Arsizio. “Qui grandi sforzi per una detenzione umana” di Sarah Crespi La Prealpina, 30 agosto 2025 L’intervento della Camera penale dopo il suicidio in cella di un detenuto nel carcere di Busto Arsizio. È stata già dissequestrata la salma del detenuto sessantunenne che mercoledì 27 agosto si è impiccato in cella nel carcere di Busto Arsizio. Il pubblico ministero Roberto Bonfanti non ritiene ci siano cause da approfondire dietro il cinquantottesimo suicidio carcerario, a livello nazionale, dal primo gennaio. L’uomo era rinchiuso da ferragosto con l’accusa di maltrattamenti in famiglia, l’avvocato Sandro Cannalire proprio mercoledì aveva depositato il ricorso al tribunale del riesame ma l’indagato non ha avuto la forza di combattere per dimostrare la sua innocenza. Nessuno, in via per Cassano, ha percepito il suo malessere, non bastano le risorse a disposizione per monitorare 423 reclusi sui 211 che la struttura dovrebbe ospitare e le tragedie si consumano quasi in silenzio. La camera penale di Busto Arsizio ha però uno sguardo meno severo sulle condizioni della casa circondariale: “A fine giugno e il 5 agosto abbiamo effettuato due visite all’interno. In quella di ventidue giorni fa sono state visitate tutte le sezioni, ispezionate le celle, raccolto le testimonianze dei detenuti e del personale della polizia penitenziaria. La sensazione che ne è emersa è quella di trovarsi di fronte a un carcere nel quale, con i limiti strutturali dai quali è impossibile prescindere molto è stato fatto per perseguire la finalità costituzionale della pena”, riconosce il presidente della sezione bustese dell’Ucpi Tiberio Massironi. Il penalista comunque avverte: “Nessuno sforzo potrà mai essere sostituito da interventi normativi che oggi più che mai non solo appaiono urgenti ma non più derogabili. Quando una persona muore in carcere, questa è prima di tutto un fallimento dello Stato”. Il sottosegretario al ministero della Giustizia, Andrea Delmastro delle Vedove, intanto, ribadisce la posizione del Governo: “In primavera si inizieranno a vedere i primi padiglioni del piano carceri, finanziato con 750 milioni, attraverso i quali recupereremo i diecimila posti detentivi che mancano da cinquant’anni in Italia. Mai più svuota carceri”, ha commentato proprio mercoledì uscendo dal penitenziario di Catanzaro. “Non c’è spazio per uno svuota carceri per la sicurezza del Paese e per quanto dobbiamo alle vittime dei reati. Faremo un piano carceri con la nomina di un commissario straordinario all’edilizia penitenziaria per attuare velocemente queste misure e per avere carceri più umane”. Il sovraffollamento degli istituti cresce in misura direttamente proporzionale alla carenza di organico della polizia penitenziaria. Ma Delmastro è tranquillo: “Si sta svolgendo il 185esimo corso allievi con 2.568 posti. Ho già firmato un bando per 649 allievi agenti. Lo Stato non arretra più in termini di sicurezza”. Trieste. “Condizioni subumane in carcere, sovraffollamento al 170 per cento” triesteprima.it, 30 agosto 2025 “Condizioni subumane, sia per i detenuti che per gli operatori della polizia penitenziaria al carcere del Coroneo”. A denunciarlo, dopo un sopralluogo, sono stati la Camera penale di Trieste e l’associazione “Nessuno tocchi Caino”, che hanno messo in luce criticità ormai strutturali e diffuse in gran parte degli istituti italiani. A Trieste si parla di un sovraffollamento pari al 170 per cento, oltre 230 detenuti con una capienza di 150 persone, attualmente ridotta a 135 per lavori in corso. Secondo i dati raccolti, due detenuti su tre provengono da paesi stranieri, anche a causa della rotta balcanica. A questo si aggiunge il fatto che circa la metà delle persone recluse non sta scontando una condanna definitiva, ma si trova in attesa di giudizio, il che renderebbe estremamente difficile il programma di rieducazione. Alla conferenza stampa odierna hanno partecipato, tra gli altri, Sabina Della Putta, presidente della Camera Penale di Trieste, Alessandro Cuccagna, presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati, Elisabetta Zamparutti, tesoriera di “Nessuno tocchi Caino ed Elisabetta Burla, garante dei detenuti di Trieste. Dall’incontro è emerso che in alcuni casi, nelle celle, “si sfora il parametro della Corte europea per i diritti dell’uomo sul minimo di spazio di vivibilità, ovvero i tre metri quadrati per persona”, ha dichiarato Elisabetta Zamparutti. Alle difficoltà legate al sovraffollamento si somma la carenza di agenti di polizia penitenziaria, più volte denunciata dai sindacati di polizia. Brescia. Emergenza carceri, il sovraffollamento aumenta: “La situazione è insostenibile” di Mario Pari Brescia Oggi, 30 agosto 2025 Nella casa circondariale bresciana il tasso di sovraffollamento rispetto all’estate scorsa è cresciuto del 4%. Sulla base dei dati diffusi dal sindacato di polizia penitenziaria Uilpa PP la situazione rimane “insostenibile” nonostante un anno fa fossero stati lanciati appelli al presidente Sergio Mattarella e a Papa Francesco. Un anno, o poco più. È trascorso dall’estate degli appelli, delle lettere, delle richieste d’aiuto. Il risultato? Un incremento della percentuale del sovraffollamento nella casa circondariale di Canton Mombello. Si è passati dal 205% al 209%. E se l’estate, il periodo più duro e pesante per i detenuti, volge al termine, non si può non tenere presente che alle lettere inviate non sempre è arrivata una risposta diretta. Ma, soprattutto, c’è questo dato del sovraffollamento, diffuso dal segretario di polizia penitenziaria Uilpa PP, che partendo dai numeri nazionali arriva fino al quarto posto nazionale, quello occupato da Canton Mombello, dietro a Lucca, Milano San Vittore, Foggia (in ordine decrescente). Nel luglio del 2024 i detenuti del “Nerio Fischione” avevano scritto al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Una lettera dai contenuti pesantissimi, in un’estate molto più calda di quella che volge al termine, per una situazione insostenibile. “Fa caldo - queste l’attacco -, il sudore scivola sulla pelle, e si appiccica con i vestiti addosso, sono madido, e si sono ormai impregnati lenzuola e materasso, anch’essi di sudore come i miei panni e le nostre membra. Si boccheggia, in cella, e l’acqua che ci trasciniamo dietro, dopo la tanto sofferta e agognata doccia, evaporando riempie d’umidità l’angusto luogo. L’aria satura d’umidità, sudore, miasmi, la puoi tagliare con un coltello, in verità, farlo è impossibile, i coltelli sono di plastica riciclata, e si rompono anche solo a guardarli”. Poi la descrizione della fila per quello che dovrebbe essere il bagno, quindici persone, il dramma di un anziano per cui l’attesa si fa troppo lunga e il suo corpo cede. Almeno quindici persone in una cella, nell’estate del 2024, ed è difficile pensare che la situazione sia cambiata nelle settimane appena trascorse. Furono parole a cui il presidente Mattarella rispose, partendo della situazione carceraria in tutt’Italia, con un riferimento preciso proprio a Canton Mombello: “Vi è un tema che sempre più richiede vera attenzione: quello della situazione nelle carceri - ha detto Mattarella -. Non ho bisogno di spendere grandi parole di principio: basta ricordare le decine di suicidi, in poco più dei sei mesi, quest’anno. Ma vorrei condividere una lettera che ho ricevuto per il tramite del Garante di quel territorio da alcuni detenuti di un carcere di Brescia: la descrizione è straziante. Condizioni angosciose agli occhi di chiunque abbia sensibilità e coscienza. Indecorose per un Paese civile, qual è - e deve essere - l’Italia”. Chiaro e diretto quanto la “cura” proposta alla politica per evitare che i “casi Brescia” diventino una costante nazionale. “Il carcere - ha ricordato il Capo dello Stato - non può essere il luogo in cui si perde ogni speranza. Non va trasformato in palestra criminale. Vi sono in atto alcune, proficue e importanti, attività di recupero attraverso il lavoro. Dimostrano che, in molti casi, è possibile un diverso modello carcerario. È un dovere perseguirlo”. Da Canton Mombello partì però anche una missiva diretta a Papa Francesco in cui la richiesta principale si sintetizzava in una sola parola: dignità. Una speranza, quella rivolta a Francesco, che è andata ben oltre il pontificato del Papa arrivato dall’Argentina. Tanti i detenuti di Canton Mombello che hanno voluto seguire in diretta i funerali del pontefice argentino, riconoscendolo come uno di loro: uno che si era battuto per la loro causa, per la loro dignità. Ora si torna a parlare di sovraffollamento, nonostante gli appelli e nonostante le lettere. Si torna a parlare di uno dei mali principali delle carceri italiane e in particolare del “Nerio Fischione” che si aggiudica il non richiesto quarto posto nazionale e un incremento, rispetto a 12 mesi fa, del 4%. Le prospettive per i prossimi mesi sembrano quelle di un ampliamento di Verziano, quantomeno dell’inizio dei lavori vero la fine del 2025. Ma di fatto un’altra estate è passata, con le bottiglie di plastica esposte al caldo per lavarsi e quelle code in 15 che non mettono in fila per un percorso di recupero, ma allontanano dalla civiltà. Vigevano (Pv). Appello di detenuti e detenenti: non fermiamo il nuovo corso nel carcere di Cesare Burdese* L’Unità, 30 agosto 2025 I primi di agosto, con Nessuno tocchi Caino, ho visitato la Casa di Reclusione di Vigevano. Normalmente alle visite partecipano iscritti all’associazione, membri delle Camere Penali e amministratori e rappresentanti locali. Quel giorno con me c’erano solo Elisabetta Zamparutti, Sergio D’Elia e Marco Federico, un iscritto locale all’associazione. Assente giustificata la presidente Rita Bernardini, impegnata a Roma per promuovere l’approvazione di una legge che riduca il sovraffollamento nelle carceri, attraverso la riduzione della pena. Chi lo aveva visitato, ancora di recente, ne aveva evidenziato le “condizioni igienico-sanitarie assolutamente allarmanti”, per i consistenti e diffusi problemi di infiltrazioni di acque meteoriche anche nelle zone comuni e all’interno delle celle, piccole e buie con bagno senza doccia, oltre la carenza di aree destinate alle attività trattamentali, scolastiche e lavorative. Con tali presupposti è stata affrontata la visita, limitatamente all’area sanitaria, alla sezione isolamento e alla sezione femminile AS3, a partire dall’area colloqui. Come di consueto, prima di entrare nell’area detentiva, si è tenuta una riunione informativa con il governo del carcere. Presenti il Commissario Capo Melania Manini, in rappresentanza della direzione, operatori della Polizia Penitenziaria e dell’area educativa, la riunione ha segnato un momento di dialogo appassionato ed empatico. Anche la presenza continuata, durante la visita, del Comandante di Reparto e dei funzionari giuridico pedagogici lo testimonia. Nel corso della riunione è stato illustrato il progetto innovativo del padiglione da 80 posti in costruzione, concepito con zone giorno e notte separate, lavanderie e spazi per attività, ma con perplessità sulla sua reale destinazione (alleviamento del sovraffollamento o incremento capacità detentive) e rischio di snaturamento. La visita ha consentito di appurare che il sovraffollamento è diminuito: a fronte di una capienza regolamentare di 226 persone, nella struttura sono oggi ospitati 266 uomini e 32 donne; erano 376 fino a pochi mesi fa. Anche le criticità igienico/strutturali più volte denunciate, almeno in apparenza, sono state da poco superate grazie a consistenti interventi manutentivi, con l’impiego anche di detenuti (quasi la metà dei presenti lavora) e con grande impegno da parte degli operatori e crediamo anche dei volontari. Un fiore all’occhiello è il call center interno che impiega 28 detenuti con contratti esterni, affiancato da una sartoria femminile e un gruppo di volontariato maschile che cuce pannolini e assorbenti per l’Africa. Pur constatando tutti i limiti architettonici delle carceri degli “anni di piombo”, alle quali l’istituto di Vigevano appartiene, i suoi muri risanati e le attività lavorative e formative in essere palesano l’impegno e la dedizione costanti, lì profusi, per dare corso alla pena costituzionale e alla norma penitenziaria primaria. Ci sono stati episodi di aggressione e tensione tra i detenuti, ma è stata notata una diminuzione degli eventi critici negli ultimi tempi, collegata a un miglioramento generale del clima all’interno della struttura. Una conferma che si è rafforzata con l’appello disperato e drammatico delle trenta detenute, per lo più per reati legati alla criminalità organizzata, incontrate il giorno della visita che, alcune in lacrime, hanno chiesto chiarezza sulle loro sorti, preoccupate per la ventilata prossima chiusura della sezione femminile che le ospita, per fare posto a detenuti al 41-bis provenienti da altre carceri. Il loro timore è quello di una regressione trattamentale per loro, in termini di occupazione lavorativa e studio, anche con ricadute negative sui benefici penitenziari, se destinate a essere rinchiuse inattive in altre carceri che non presentano le stesse opportunità rieducative presenti al carcere di Vigevano. Lacrime che hanno solcato le guance di una educatrice presente, angosciata per il rischio di non poter svolgere in futuro il lavoro che ama nei termini attuali e di gettare alle ortiche i frutti dell’impegno da tutti profuso. A costo di essere retorico ed edulcorare la drammatica generalizzata situazione delle nostre carceri, ho voluto testimoniare aspetti di umanità che, nonostante tutto, in quel carcere, come in altri, accomunano detenuti e detenenti. Una realtà da sempre trascurata, a torto o a ragione, da quanti, come governanti e amministratori, hanno in carico il carcere. Per finire in dolcezza: il miele prodotto dalle persone detenute nella Casa di Reclusione di Vigevano è ottimo! *Architetto Castelvetrano (Tp). “Sete di dignità”: dal carcere un progetto pilota televallo.it, 30 agosto 2025 Dentro le mura del carcere di Castelvetrano è nato il progetto pilota “Sete di dignità”, promosso dalla Fraternità Betlemme di Èfrata, in collaborazione con la Diocesi. Si tratta di un gesto concreto: portare ogni mese acqua oligominerale in bottiglia ai detenuti indigenti, restituendo loro qualcosa di molto più grande: la dignità. Tutto è nato dall’ascolto. Don Vincenzo Aloisi, cappellano del carcere e cofondatore della Fraternità, ha raccolto il grido silenzioso di chi, in estate, affronta il caldo senza la possibilità di acquistare una bottiglia d’acqua. Infatti, la normativa che regolamenta la fornitura del vitto nelle carceri non prevede la fornitura insieme ai pasti della bottiglia d’acqua, la quale va comprata dal singolo detenuto. La legge sull’ordinamento penitenziario (Legge n. 354/1975), a proposito di vitto all’art. 9 prevede che “la quantità e la qualità del vitto giornaliero sono determinate da apposite tabelle approvate con decreto ministeriale”; tali tabelle, però, alla data odierna, non prevedono la fornitura di acqua in bottiglia oltre ai tre pasti giornalieri, ma unicamente il diritto all’acqua potabile assicurata dalla rete idrica pubblica. “L’auspicio del progetto è anche quello di far modificare tale normativa e così prevedere la fornitura di acqua minerale insieme ai pasti presso le carceri come già avviene in tutte le strutture pubbliche dove viene fornito il vitto”, spiega don Vincenzo Aloisi. Da qui l’idea di donare, ogni mese, una pedana di bottiglie - circa 1.500 - da distribuire ai più bisognosi, con la collaborazione dell’area educativa del carcere. La Fraternità, anche grazie al contributo economico della parrocchia San Francesco da Paola di Castelvetrano, degli adoratori e dell’Unità Pastorale delle parrocchie Maria Ss. della Salute e Maria Ss. Annunziata di Castelvetrano, si è fatta carico dell’intero progetto: acquisto, trasporto, distribuzione. Ma non si tratta solo di un gesto solidale. L’acqua diventa simbolo di cura, prossimità, rispetto. È il Vangelo che si fa bottiglia, che disseta la sete più profonda: quella di essere visti, riconosciuti, amati. “Portare acqua in carcere significa dire a quei volti segnati che sono ancora figli amati da Dio. Che nessun errore può cancellare la loro umanità. Il progetto ha già generato frutti di speranza. Alcuni detenuti hanno ringraziato commossi: “Con quest’acqua ci avete fatto sentire persone”, spiega Filippo Inzirillo, referente diocesano dell’Ufficio della pastorale carceraria. Venezia. Toni Servillo ai detenuti: “Fuori tutto va veloce, usate il tempo per ritrovare voi stessi” di Vera Mantengoli Corriere del Veneto, 30 agosto 2025 L’attore: “Ritornerò anche l’anno prossimo”. Dal mondo spettacolare della Mostra del Lido alla realtà del carcere maschile di Venezia. In poche ore l’attore Toni Servillo, protagonista de La Grazia di Paolo Sorrentino, film che ha inaugurato la 82ma edizione della Biennale Cinema, è passato da “uommene scicche e femmene pittate”, citando il compaesano Mario Merola, al confronto faccia a faccia con chi vive rinchiuso tra le mura dove le emozioni arrivano schiette e dirette, senza barriere. Ieri mattina, con l’immancabile sigaro tra le dita, Servillo è arrivato a Santa Maria Maggiore, nell’incontro organizzato dall’istituto penitenziario con il direttore Enrico Farina, lo storico regista teatrale Michalis Traitsis e il presidente della Biennale di Venezia Pietrangelo Buttafuoco. Sempre con l’immancabile sigaro in mano, l’attore si è alzato in piedi per guardare negli occhi il pubblico composto da una ventina di ristretti, chiamati da Farina “ospiti” e non detenuti. Dopo aver parlato di Ariaferma di Leonardo Di Costanzo, pellicola in cui riveste i panni di una guardia carceraria, Servillo è entrato ancora più in profondità, affrontando temi che, a tratti, lo hanno visibilmente toccato come la pietà, la condivisione con gli altri e la passione per i propri sogni. “Il carcere mi ha sempre fatto riflettere sul senso del tempo. Ariaferma tocca il cuore dell’attraversamento del dolore che in carcere sembra non finire mai. - ha detto Servillo - Eppure qui c’è anche la possibilità di ritrovare sé stessi e decidere con consapevolezza che cosa fare della giornata. A volte basta un semplice gesto che, se condiviso, diventa misericordioso”. I detenuti hanno fatto molte domande al “Signor Toni”, chiedendogli per esempio come abbia fatto a emergere dal basso. “Ai pittori piacciono i colori, ai musicisti l’armonia e agli attori piacciono gli altri. - ha spiegato Servillo - Se ho ottenuto dei risultati è perché non ho mai smesso di essere curioso di conoscere gli altri, di condividere delle esperienze e di camminare con gli altri”. Qualcuno si è raccontato, ricordando come sia entrato collezionando richiami disciplinari e abbia trovato poi proprio in carcere la sua strada al punto di essere scelto tra i tre detenuti che hanno partecipato al pellegrinaggio per andare a Roma da Papa Leone. Il direttore Farina ha ribadito la necessità e l’urgenza di creare ponti con l’esterno. Dopo un’ora e mezza di dialogo, Servillo ha salutato i detenuti stringendo uno a uno la mano e promettendo che il prossimo anno tornerà per contribuire a una giornata di formazione teatrale nel carcere. Descrizioni accuratissime del nostro blaterare quotidiano di Guido Vitiello Il Foglio, 30 agosto 2025 Nelle “Mie prigioni” cercavo un passo illuminante sul fallimento dell’istruzione carceraria, e invece trovo un ritratto perfetto del nostro dibattito sui social, sempre identico a se stesso. La serendipità ti fa scoprir l’America quando sei in rotta per le Indie, ma può anche rivelarti, mentre credevi di navigare verso le patrie galere, qualche grande verità sul mondo cosiddetto libero. Giorni fa, cercando tra i miei scaffali tutto ciò che avesse qualche attinenza con i diari e i memoriali scritti in cella, ho ripescato un libro dello storico della lingua Francesco Bruni (Idee d’Italia, il Mulino 2021), in cui c’è un lungo capitolo sulle “scritture carcerarie” ottocentesche. Volevo risalire alla sorgente, al capostipite, in poche parole a Silvio Pellico. Ma mentre frugavo le pagine di Bruni alla ricerca di qualche passo delle Mie prigioni che illuminasse il perpetuo fallimento dell’istituzione carceraria, sono incappato - o serendipity! - in un ritratto perfetto dello stato del nostro dibattito pubblico, o almeno nella descrizione accurata di una qualunque delle giornate - tutte sinistramente identiche - che trascorriamo sui social network del ventunesimo secolo: “Pur troppo la più parte degli uomini ragiona con questa falsa e terribile logica: ‘Io seguo lo stendardo A, che son certo essere quello della giustizia; colui segue lo stendardo B, che son certo essere quello dell’ingiustizia: dunque egli è un malvagio’. Ah no, o logici furibondi! Di qualunque stendardo voi siate, non ragionate così disumanamente!”. E ancora: “Malattia epidemica del mondo! L’uomo si reputa migliore, aborrendo gli altri. Pare che tutti gli amici si dicano all’orecchio: ‘Amiamoci solamente fra noi; gridando che tutti sono ciurmaglia, sembrerà che siamo semidei’. Curioso fatto, che il vivere arrabbiato piaccia tanto. Vi si pone una specie d’eroismo. Se l’oggetto contro cui ieri si fremeva è morto, se ne cerca subito un altro. - Di chi mi lamenterò oggi? Chi odierò? Sarebbe mai quello il mostro? Oh gioia! L’ho trovato. Venite, amici, laceriamolo”. C’è una fiaba di Gramsci che parla ai non vedenti (grazie ai detenuti) di Cinzia Arena Avvenire, 30 agosto 2025 Racconti e lettere scritte ai figli dal politico rinchiuso nel carcere pugliese di Turi sono state tradotti in Braille, nel volume l’albero del riccio, grazie a chi sta dietro le sbarre. “L’albero del riccio” è una delle lettere che Antonio Gramsci scrisse, dal carcere di Turi in provincia di Bari, al figlio Delio. Un racconto di vita quotidiana che si trasforma in una piccola favola che ha per protagonisti Antonio, un suo vecchio amico, cinque ricci, tantissime mele e un personaggio segreto che si scoprirà soltanto alla fine del racconto. I detenuti di quello stesso carcere ne hanno ideato, quasi un secolo dopo, e poi realizzato una versione tattile con inserti in Braille grazie ad un laboratorio avviato nell’aprile del 2024. Si tratta del progetto “conTatto” guidato da Fabio Fornasari, architetto ed esperto di laboratori tattili e multisensoriali, ideato e coordinato dalla Cooperativa Sociale Zorba e dalla casa editrice edizioni la Meridiana, con il sostegno del Garante regionale dei diritti dei detenuti della Regione Puglia. Con il libro tattile anche la lettera di Antonio Gramsci, semplificata e stampata con un font ad alta leggibilità EasyReading. Un grande classico della letteratura per l’infanzia diventa così accessibile anche ai non vedenti e alle persone con difficoltà cognitive o linguistiche, possono sfogliare e toccare il libro. Nel carcere l’intellettuale italiano passò oltre 5 anni (dal 1928 al 1933) da recluso in seguito alla condanna da parte del Tribunale speciale per la Difesa dello Stato fascista. Da qui scrisse alla moglie Giulia e ai suoi figli, Delio e Giuliano, molte lettere. Sapeva che non avrebbe più rivisto i suoi bambini, lasciati in tenerissima età, ed è attraverso la scrittura che trovò il modo di essere presente nelle loro vite. La raccolta “L’albero del riccio” è il tentativo di riappropriarsi di una dimensione intima e familiare che in carcere gli era negata. Benché rinchiuso in una prigione, Gramsci racconta quelle storie immaginando di avere i suoi bambini davanti agli occhi e lo fa con tanto interesse e vivacità, con tanto spirito e buon umore, da far dimenticare i muri della cella nella quale era costretto. Allo stesso modo per i detenuti di oggi raccontare questa storia, riscrivendola e dandole forma in base alle proprie emozioni, ha un forte valore simbolico che li fa sentire un po’ come l’autore: in grado di lanciare un messaggio positivo e di speranza a chi si porta sulle spalle il fardello di un handicap cognitivo o visivo. “Il punto di partenza di questo progetto che ormai va avanti da più di un anno è che non fosse un semplice lavoretto ma un percorso che mette al centro le persone, la loro emotività - spiega Fornasari -. La storia di Gramsci che abbiamo scelto non è una lettera che parla di politica ma di relazioni, parte proprio dallo spazio dal quale scrive, parla della gabbia in cui è rinchiuso un uccellino, ma è soprattutto un racconto di cura”. Il laboratorio ha coinvolto dieci detenuti di età diverse ai quali è stato dato il tempo di fare propria la storia, di costruire i materiali tattili e di scrivere i testi in braille. “Alcuni hanno messo in campo la loro esperienza come artigiani, un detenuto - spiega ancora Fornasari - si è appassionato alla scrittura braille e ha iniziato a insegnarla ai compagni. Abbiamo avuto la possibilità di portare una macchina da scrivere specializzata, un’eccezione considerando che in carcere ci sono soltanto computer non connessi alla rete. Per molti di loro questa esperienza può diventare un punto di partenza per il reinserimento nel mondo lavorativo, ce lo stanno già dicendo che una volta “fuori” vorrebbero mettere a frutto le loro competenze”. Da laboratorio il progetto è diventato strutturale: i detenuti, infatti, con le necessarie autorizzazioni, possono “lavorare” anche durante il loro tempo libero. Ogni libro realizzato è unico perché fatto a mano: i primi dieci sono già stati donati ad altrettante associazioni, un’altra quarantina verrà realizzata (su prenotazione) nei prossimi mesi. L’obiettivo è trasformare questa esperienza in una peculiarità della struttura, avviando la realizzazione di altri libri tattili. Il direttore del carcere Nicoletta Siliberti spiega che il carcere di Turi è una casa di reclusione che ospita detenuti con pena definitiva, alla fine di luglio erano 171. “Il laboratorio che ha portato alla realizzazione del libro tattile “L’albero del riccio” è stato finanziato dal Garante delle persone private della libertà e si è concluso con la presentazione del libro lo scorso 10 luglio. Ci stiamo impegnando per far proseguire questa esperienza trasformandola in una vera e propria occasione lavorativa”. Il carcere di Turi è da anni impegnato nel contrasto degli effetti desocializzanti della detenzione. “Facciamo percorsi di vario genere compatibilmente con scarsezza di risorse e materiali che rende il nostro lavoro particolarmente gravoso. Abbiamo corsi per ottenere le competenze da operatore dei rifiuti e barbiere, altri più tecnici per muratori, e da poco - spiega il direttore - abbiamo inaugurato un’aula dedicata alla formazione dell’enogastronomia, considerando che l’agroalimentare è un settore molto importante per la zona. Offriamo anche percorsi scolastici tradizionali dalla scuola dell’obbligo all’istituto di ragioneria ad alcuni corsi di laurea in collaborazione con l’università di Bari Aldo Moro e laboratori di recupero della relazione genitore-figli che riproponiamo sempre perché sono molto apprezzati”. Insomma, si cerca di fare il possibile per favorire la strada dell’emancipazione dei detenuti, nell’ottica di quella che il direttore definisce l’”economia della riparazione”. In questa direzione si inseriscono i corsi di autoimprenditorialità e la certificazione delle competenze acquisite, come appunto nel caso del libro tattile. Società di San Vincenzo De Paoli: nasce il progetto “ScegliAmo Bene” Ristetti Orizzonti, 30 agosto 2025 Per educare i giovani alla legalità e alla responsabilità sociale. La Federazione Nazionale Italiana Società di San Vincenzo De Paoli Odv lancia “ScegliAmo Bene”, un nuovo progetto educativo rivolto agli studenti delle scuole superiori, promosso dal Settore Carcere e Devianza. L’iniziativa mira a sensibilizzare i giovani sul valore della legalità, sulla responsabilità delle proprie scelte e sull’importanza del ruolo attivo nella comunità. Attraverso laboratori, incontri con formatori di rilievo e attività pratiche, gli studenti avranno l’opportunità di confrontarsi con esperienze concrete e partecipative, sviluppando consapevolezza e autonomia. Il percorso prevede anche la possibilità di mettersi alla prova come volontari, contribuendo direttamente a progetti sociali sul territorio. Antonella Caldart, Responsabile del Settore Carcere e Devianza, spiega: “Il progetto vuole essere un ponte tra esperienza educativa e impegno civile, offrendo ai giovani strumenti concreti per costruire un futuro più giusto, solidale e responsabile. Crediamo che educare alla legalità significhi anche formare cittadini consapevoli, pronti a partecipare attivamente alla vita della comunità”. La prima edizione del progetto prenderà avvio a Brescia e si estenderà a livello nazionale, coinvolgendo tutte le scuole superiori che hanno sede in comuni in cui la Società di San Vincenzo De Paoli abbia una propria Conferenza. Le scuole interessate e i partner locali saranno coinvolti nella realizzazione di laboratori interattivi, incontri con esperti e attività creative finalizzate alla riflessione sulla legalità e sulla responsabilità sociale. Per informazioni e contatti si può scrivere a: carcere.devianza@sanvincenzoitalia.it oppure far riferimento alla Conferenza della Società di San Vincenzo De Paoli presente nel territorio dell’Istituto scolastico che intenderà aderire. La Società di San Vincenzo De Paoli conferma così il suo impegno nella formazione dei giovani e nella promozione della responsabilità sociale, rafforzando valori di solidarietà, legalità e cittadinanza attiva. La barbarie digitale (e la nostra ignavia) di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 30 agosto 2025 I gruppi sessisti sono violenti. Lo sdegno non basta. Se accettiamo che il web sia un mondo parallelo, dove tutto è consentito, prepariamoci al peggio. La pagina Facebook “Mia moglie” era una schifezza. Ma non è con il disgusto che si risolve il problema. Neppure con lo sdegno e le condanne morali, arrivate da molte donne. Dobbiamo metterci in testa che questi comportamenti, per qualcuno, sono un affare. Chi crea certe pagine social e certi siti web sa di poterlo fare. Le piattaforme vogliono traffico, che porta soldi. L’eccesso, la provocazione e l’umiliazione sessuale ne producono in abbondanza. Non potendolo dirlo apertamente, i giganti del web si sono inventati paladini della “libertà di espressione”. E l’amministrazione Trump è dalla loro parte. Ogni tentativo di regolare la rete e i social viene etichettato come “censura”. Eravamo increduli quando il vicepresidente JD Vance, a Monaco di Baviera, in febbraio, ha accusato l’Unione europea d’essere ostile alla democrazia. Ma era solo l’inizio. Ogni regola per proteggere i cittadini online, per gli Usa, è un attacco alla libertà. È una sciocchezza e un’ipocrisia. Se accettiamo che il web sia un mondo parallelo, dove tutto è consentito, prepariamoci al peggio. Mettiamocelo in testa: non c’è più “il popolo della rete”; in rete ci siamo tutti, ormai. Non esiste più il “mondo virtuale”: quello che accade online tocca profondamente le nostre vite. Chiedete alle donne umiliate su “Mia moglie” e “Phica.eu” se non è così. Su questo giornale, in molti, da almeno quindici anni, proviamo a spiegare che l’irresponsabilità delle piattaforme digitali è pericolosa. Ma c’è chi lo nega. Esiste una destra anarcoide che approfitta dell’ingenuità del pubblico, e si vanta di non conoscere regole o limiti. “Perché noi siamo liberi!”, grida. E la nostra libertà di non essere offesi, diffamati, insultati? Per certi maschi vomitare oscenità su una donna è un diritto. E il diritto di quella donna non esiste? C’è la legge!, dirà qualcuno. Purtroppo no: il codice penale è penosamente arretrato, quando si tratta di combattere questi fenomeni. Anche la ricerca dei responsabili è complessa, spesso impossibile, se le piattaforme non collaborano. Quando lo fanno - tardi e malvolentieri - è perché costrette dalla pressione generale. Il gruppo “Mia moglie”, attivo dal 2019, è stato chiuso solo dopo che i media hanno fatto scoppiare il caso. Meta (casa madre di Facebook) collabora alle indagini? Sta fornendo i dati identificativi dei mariti che si muovono dietro un nickname? La Polizia postale ha salvato con tecnica forense il gruppo prima che lo chiudessero? Perché il rischio è che i partecipanti si spostino altrove: stanno già nascendo nuovi gruppi su Telegram. Mi scrive l’avvocato Marisa Marraffino, che da anni assiste le vittime delle violenze digitali: “Nonostante il Digital Services Act e altre norme a tutela della privacy, siamo lontani anni luce da una sicurezza delle comunicazioni via social”. Se non siamo in grado di proteggere l’intimità di una donna, e la serenità dei minori, dobbiamo saperlo: la barbarie non si fermerà. L’anarchia aggressiva dei social ha già provocato disastri, dovunque. Interferenze elettorali, violenze, suicidi, stupri di gruppo, pulizia etnica. Nel 2016/2018 il pogrom contro la minoranza Rohingya in Myanmar è partito dalle falsità e dall’odio su Facebook, ricorda Yuval Harari nel suo libro Nexus. Una storia delle reti di informazione. Se l’unico comandamento delle piattaforme è l’engagement - quanta attenzione attirano, quanto tempo passiamo online, quanti soldi fanno - prepariamoci a un futuro fosco. La barbarie digitale ha un solo merito: non si nasconde, ci grida in faccia i suoi pessimi propositi. Se non sapremo difenderci dalla “dittatura dei click” - con la legge europea e nazionale, per iniziare - pagheremo cara la nostra ignavia. Chi può fare qualcosa, a cominciare dal governo e della politica, lo faccia. In fretta. Inorridire davanti a chi esalta la violenza sessuale online è giusto, ma non basta. Dai siti sessisti a Caivano: il populismo penale è inutile di Giulia Merlo Il Domani, 30 agosto 2025 Il centrodestra propone nuove fattispecie di reato. Schlein: “Investire in prevenzione”. Le parlamentari ragionano di una class action contro le piattaforme, oltre alle denunce. Il copione è sempre lo stesso: davanti a fatti gravi, emersi in modo eclatante e che sollevano corale indignazione, la risposta è immediatamente quella di introdurre nuovi reati. O almeno annunciarli, immaginando che la strada giudiziaria sia sempre e comunque la più utile. Di certo, è quella politicamente più semplice. È successo anche con il caso del sito internet che pubblicava immagini di centinaia di donne, tra le quali molte politiche e parlamentari di tutti gli schieramenti, alla mercé di commenti sessisti, tutti rigorosamente anonimi. Il sito ora è stato chiuso, il caso però non è isolato, visto che, solo pochi giorni fa, era stato chiuso anche un gruppo Facebook che funzionava nel medesimo modo, come sfogatoio degli istinti più bassi di commentatori, anche loro coperti dall’anonimato. La reazione indignata ha unito la leader dell’opposizione Elly Schlein alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Diversa, invece, la risposta al fenomeno. Meloni ha detto al Corriere della Sera di “confidare nelle autorità competenti perché i responsabili vengano individuati” e “sanzionati con la massima fermezza” come autori di revenge porn. Giusto richiamo alla necessità di denunciare, nessun cenno invece a come prevenire il fenomeno che, vista la frequenza con cui si sta presentando, è sintomo di qualcosa di profondamente incistato nella società. Schlein ha provato a spostare il fuoco: “Lo ripetiamo ancora una volta, e questa ne è la dimostrazione: inasprire le pene non basta, serve un forte investimento sulla prevenzione, fatto di educazione sessuale e all’affettività, perché il rispetto e il consenso devono prevalere sulla cultura patriarcale che sta alla base della violenza”. Invece la smania di nuovi reati ha surclassato ogni ipotesi di investimento in prevenzione con maggiori restrizioni per le piattaforme e in educazione, soprattutto dei più giovani, all’uso consapevole degli strumenti digitali. Le proposte di legge - Così sono riemersi dai cassetti parlamentari vari disegni di legge, tra cui quello di Forza Italia per introdurre un principio di responsabilità oggettiva delle piattaforme, “introducendo due nuovi delitti contro l’amministrazione della giustizia e una responsabilità amministrativa ai danni di quelle società che rimangano inottemperanti”, si legge in un comunicato. Negli ultimi tre anni di governo la ricetta è sempre stata la stessa: dai rave, che hanno prodotto una norma per evitare le feste illegali, allo stupro di Caivano, che ha prodotto un decreto per inasprire le pene anche per i minorenni, fino al reato di femminicidio. La risposta del centrodestra è sempre prima di tutto punitiva. L’automatismo, però, non è solo a destra: anche il Pd ha presentato una proposta di legge che prevede di punire non solo la diffusione di video, ma anche di audio e anche di immagini e video alterati con manipolazioni dell’intelligenza artificiale. Tutto lecito e forse anche utile, ma il riflesso pavloviano di pensare che casi come quello del sito internet o del gruppo Facebook da decine di migliaia di utenti si risolva con un nuovo reato o un inasprimento di pena è la via facile per non affrontare - e dunque non prevenire - un fenomeno che ha radici ben più difficili da sradicare. Radici che affondano in un mondo digitale che non risponde ai confini fisici degli stati e del loro diritto, nell’abuso dell’anonimato e nell’assenza di percezione che i comportamenti digitali abbiano lo stesso peso, anche penale, di quelli nel mondo reale. Del resto, come dichiarato anche dalla premier, tutti i comportamenti dei frequentatori del sito ora oscurato sono già perseguibili penalmente. I reati già esistono e si va dal meno grave di violazione della privacy alla diffamazione aggravata, fino alla diffusione senza consenso di immagini sessualmente esplicite, ovvero il reato di revenge porn. A mancare sono piuttosto strutture, personale e mezzi perché la denuncia presentata non finisca sommersa e la giustizia, quando arriva, sia non solo efficace ma anche tempestiva. Ora, giustamente, le donne coinvolte stanno pensando di muoversi non solo con la denuncia penale, ma anche di promuovere una class action, per ottenere un risarcimento del danno da parte delle piattaforme. Pur nella speranza che tutte le donne danneggiate ottengano giustizia sia penale sia civile, è facile previsione che così cambierà molto poco. Probabilmente, le stesse migliaia di utenti che oggi corrono a cancellare i commenti sono già emigrate in altri siti e gruppi social analoghi, sempre coperti dall’anonimato. In attesa che anche quelli vengano scoperti e che, sull’onda del prossimo scandalo, la corsa a depositare disegni di legge in materia di giustizia riparta. Come se questo bastasse, come per magia, a ridurre i crimini. La politica forse pensa che sia un libro di incantesimi, ma quello che continuano a riempire è solo un codice penale. Se l’AI punta sul mercato dell’emotività di Michela Rovelli Corriere della Sera Si usa l’intelligenza artificiale generativa per creare contenuti, di bassa qualità ma in grosse quantità, da distribuire sui social. Facile, veloce, molto remunerativo. Soprattutto se, con un po’ di astuzia, si fa leva su temi che toccano corde sensibili. Un prigioniero che suona il violino, un incontro romantico tra il filo spinato. Momenti rubati di vita quotidiana ad Auschwitz. Che non sono mai avvenuti. Dal campo di concentramento sono uscite poche testimonianze fotografiche, ma nonostante questo, le nuove (e irreali) immagini stanno accumulando su Facebook migliaia di like, commenti, condivisioni. Che si traducono in migliaia di dollari di ricavi per i loro creatori: un gruppo di content creator con sede in Pakistan - rivelano le ricerche della Bbc - che sta sfruttando il potenziale dell’AI slop. Un termine (“sbobba artificiale”) che indica l’uso dell’intelligenza artificiale generativa per creare contenuti, di bassa qualità ma in grosse quantità, da distribuire sui social. Facile, veloce, molto remunerativo. Soprattutto se, con un po’ di astuzia, si fa leva su temi che toccano corde sensibili. Come l’Olocausto. Ma il nuovo mercato dell’emotività è in realtà alla base dell’evoluzione che sta prendendo la presenza dell’AI nelle nostre vite. I chatbot li usiamo sempre più per confidarci e chiedere un aiuto psicologico (con conseguenze anche terribili, come il suicidio del 16enne Adam). E loro (anzi, le società che stanno dietro) modellano le risposte per sembrare sempre più nostri amici e sempre meno freddi modelli che si basano su calcoli statistici per conversare con noi. Quando OpenAI ha provato a rendere ChatGpt più distaccato c’è stata una ribellione generale. Ha fatto marcia indietro. Il mercato dell’emotività crea dipendenza. In chi fa profitto e non solo. Migranti. Mediterranea e il cortocircuito del “sovranismo giuridico” del governo di Vitalba Azzollini* Il Domani, 30 agosto 2025 È vero che i soccorsi dei migranti in mare da parte delle navi ong sono coordinati dallo stato, per cui Piantedosi evoca punizioni nei riguardi di chi non obbedisce. Ma è il comandante della nave che, caso per caso, valuta quale sia l’interesse prevalente tra il rispetto dell’ordine ministeriale e la tutela della salute dei migranti, anche decidendo di sbarcare in un luogo più vicino. È lo stato che “gestisce e coordina i soccorsi in mare”, ha scritto su X il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, riferendosi al fermo dell’imbarcazione di Mediterranea Saving Humans. La nave aveva disobbedito al Viminale - che, com’è ormai uso, aveva indicato un luogo di sbarco lontano da quello di soccorso - portando i naufraghi a Trapani, anziché a Genova. Piantedosi ha aggiunto che “chi non rispetta la legge sull’assegnazione del porto sicuro continuerà a essere punito”. Peccato il ministro ometta di dire che la legge non si esaurisce in quella nazionale, ma - in forza dei rimandi costituzionali - comprende anche le convenzioni internazionali. E le convenzioni affermano principi ulteriori, nonché di rango superiore, rispetto a quelli interni cui Piantedosi attribuisce valore assoluto. Cosa dicono le convenzioni - Le convenzioni marittime più rilevanti (Solas, Sar e Unclos) impongono ai comandanti di prestare soccorso, non appena ragionevolmente possibile, a persone in pericolo in mare e di condurle in un posto sicuro sulla terraferma (place of safety, Pos), concludendo così le operazioni di salvataggio. Le linee guida dell’Organizzazione marittima internazionale chiariscono che il Pos è un luogo, raggiungibile senza ritardi, ove possono essere garantite cure, assistenza e l’esercizio dei diritti. È vero che la convenzione Sar attribuisce agli stati il coordinamento del soccorso, ma tutte le convenzioni citate valorizzano il ruolo del comandante della nave, che ha il dovere di tutelare la vita delle persone a bordo. E se tra queste ci sono minori, feriti o individui stremati, che non potrebbero reggere ulteriori giorni di navigazione per raggiungere il porto deciso dall’autorità amministrativa, il comandante è tenuto a salvaguardarne le esigenze di salute, anche recandosi in un luogo più vicino. I responsabili della nave della ong hanno dichiarato di aver disatteso le istruzioni di sbarco perché le onde erano “alte più di due metri e mezzo” e le “condizioni psico-fisiche” dei naufraghi stavano peggiorando - come attestato da certificazioni dei sanitari a bordo - per cui erano necessarie “cure mediche e psicologiche a terra”. Il Viminale continua a indicare porti lontani dal luogo del soccorso, forte della sentenza con cui il Consiglio di stato, nel 2025, ha confermato la decisione del Tar del Lazio del 2023 sul caso della nave Geo Barents di Medici senza frontiere. Per i giudici amministrativi, l’autorità statale ha un ampio potere discrezionale di decidere il posto di approdo in base a esigenze organizzative e di distribuzione dell’accoglienza. Ma c’è un passaggio della sentenza che forse sfugge al ministero dell’Interno: il luogo di sbarco e la relativa tempestività vanno valutati considerando “le condizioni di salute dei soccorsi, le condizioni metereologiche, la presenza di persone fragili o di minori tra i soccorsi”. La giurisprudenza penale è più netta. Nel 2019, il giudice di Agrigento ha ritenuto che Carola Rackete, comandante della Sea Watch 3, non ha commesso un illecito quando è entrata a Lampedusa senza autorizzazione, poiché ha agito in adempimento di un dovere. Nel 2020 Cassazione ha confermato la decisione: le operazioni di soccorso si concludono con lo sbarco, e il comandante non può essere punito se obbedisce al principio supremo di salvaguardare la vita umana, sancito da convenzioni internazionali, anziché a norme interne e ad ordini amministrativi. Dunque, certe direttive ministeriali non sempre rappresentano una scelta legittima, e quando non appaiono tali compete al comandante il dovere di fare una scelta diversa. Il “sovranismo giuridico” - In conclusione, è vero che i soccorsi sono coordinati dallo stato. Ma è il comandante della nave che, caso per caso, valuta quale sia l’interesse prevalente tra il rispetto dell’ordine ministeriale e la tutela della salute dei migranti, anche portandoli in un porto più vicino. Un approccio meramente imperniato su questioni logistiche, come quello del Viminale, rischia di creare un cortocircuito, svuotando di senso le convenzioni internazionali. Al Meeting di Rimini Giorgia Meloni ha affermato che “non c’è giudice, politico o burocrate” che possa impedire “di far rispettare la legge dello Stato italiano” in tema di immigrazione. Analogamente a Piantedosi, Meloni ha omesso di citare le fonti sovraordinate a quelle nazionali, lasciando intuire una certa intolleranza. Un “sovranismo giuridico” che chi elogia la nuova inclinazione europeista e internazionalista della presidente del Consiglio farebbe bene a non trascurare. *Giurista Droghe. Il crack e i paradossi italiani di Susanna Ronconi fuoriluogo.it, 30 agosto 2025 Fratelli d’Italia denuncia alla procura l’attuazione di un Livello essenziale di assistenza! Cinque questioni a commento della polemica politica sull’esperienza bolognese di distribuzione delle pipe per l’uso di crack. C’è un corto circuito di furore ideologico, disprezzo della salute pubblica e beata ignoranza nella crociata intrapresa da Fratelli D’Italia contro il Comune di Bologna, che ha avviato un nuovo servizio di riduzione del danno (rdd) a tutela della salute delle persone che usano droghe, crack in particolare. Non ci sarebbe molto da aggiungere alla replica, sensata, paziente, basata sui dati, dell’assessora Madrid e alle posizioni espresse dagli operatori e dalle operatrici del settore, dai ricercatori universitari che valutano gli interventi e dai diretti interessati, le persone che usano droghe, della cui salute si discute. Tuttavia, come Forum Droghe, associazione che dal 1995 promuove ricerca, conoscenza, documentazione sulle politiche delle droghe, ci sono alcune questioni che vorremmo sottolineare. La prima: FdI, se sceglie la via delle denunce, sappia che deve attrezzarsi, perché dovrebbe denunciare non solo il Comune di Bologna, ma decine di enti pubblici in tutta Italia, Regioni, ASL e Comuni, e di enti del privato sociale che le pipette le distribuiscono almeno da un paio di anni, così come dai primi anni ‘90 del secolo scorso distribuiscono siringhe sterili. Con l’obiettivo - che per FdI è evidentemente irrilevante - di promuovere un uso a minor rischio, prevenire trasmissione di malattie e altri danni correlati. La seconda: FdI non conosce né la storia degli interventi né la loro valutazione scientifica e nemmeno come sono andate cambiando norme e politiche di salute pubblica nei decenni. Di questi sviluppi esiste ponderosa letteratura e, come dice l’assessora bolognese, “basta leggere prima”. La stessa discussione l’abbiamo affrontata nei primi anni ‘90, riguardava le siringhe e la contestazione era la stessa: dovete farli smettere, non farli usare ‘meglio’. Sentirsela riproporre pari pari oggi è certamente sconfortante, ma per fortuna non siamo a 35 anni fa: i programmi di distribuzione delle siringhe hanno abbattuto i trend di sieroconversione da HIV e epatite C e gli episodi di infezione o altre lesioni dovute all’iniezione non igienica, hanno promosso tra i consumatori comportamenti virtuosi di uso più sicuro e una cultura di attenzione alla propria salute. Hanno salvato vite. È in base a questi risultati, che dopo oltre 20 anni di evidenze, nel 2017 la rdd, e questi interventi in particolare, sono stati inclusi nei LEA nazionali: cioè, sono servizi dovuti a tutti i cittadini che usano droghe sul territorio nazionale. Dunque: FdI denuncia alla procura l’attuazione di un Livello essenziale di assistenza! Tanto rumore per nulla. Terza: prima degli anni ‘90, tra la prevenzione (non cominciare a usare) e la remissione (smetti e astieniti dall’uso) c’era il vuoto. Un vuoto che era lastricato di morti - per overdose, HIV e altre patologie correlate - di esclusione sociale, carcere, stigma e discriminazione. Un vuoto di cui FdI ha evidentemente nostalgia. La rdd ha colmato questo vuoto e questa massimizzazione del danno causata da politiche inefficaci, occupandosi delle persone MENTRE usano sostanze, invece che ignorarle, e promuovendo la loro salute. Dimostrando che si può: il danno è ‘eventuale, situato e progressivo’, che significa che può essere evitato, minimizzato, prevenuto, se si attuano politiche adeguate. Lo sappiamo: questo cozza con la ‘droga-demonio’ e con il ‘destino di morte’, e con ‘ basta una volta’, ma se le politiche delle droghe devono rispondere a obiettivi di tutela della salute individuale e pubblica, non possono intenzionalmente lasciare dei vuoti per dare retta agli imprenditori morali di turno. Quarta: se di esposto e denunce si vuole parlare, va invertita la marcia. Il diritto alla salute delle persone che usano e la esigibilità dei LEA della rdd non sono garantiti nel nostro paese, e c’è lo spazio per un’azione decisa contro queste inadempienze, che si esprimono a diversi livelli, ministeriali, regionali e locali. Non è rispettata nemmeno la Strategia europea sulle droghe, che nella rdd ha un suo cardine, e neanche le raccomandazioni dell’ONU sui diritti umani, Alto Commissariato in primis, che individua nella mancanza di servizi di rdd una chiara violazione del diritto alla salute. Il nostro ricorso al CESCR- Committee on Economic, Social and Cultural Rights del 2022, in cui denunciamo questa violazione in Italia, è stato accolto e ha prodotto l’indicazione al governo di “migliorare la disponibilità, l’accessibilità e la qualità degli interventi di riduzione del danno”. Quinta e ultima: la posizione di FdI bolognese è coerente con quella governativa, la Conferenza nazionale sulle droghe del prossimo novembre si avvia a cancellare la rdd dalle politiche nazionali, così assumendosi la responsabilità di ritornare a quel vuoto lastricato di sofferenze altrimenti evitabili, a quella rinuncia a una politica di salute pubblica rispettosa di tutt3 e dei diritti inalienabili di tutt3 e, non secondariamente, al disprezzo delle norme vigenti. Ma non siamo negli anni 90 e nemmeno nei primi anni ‘2000 di Giovanardi: abbiamo evidenze, esperienze, pratiche consolidate dalla nostra parte, a fronte di retorica e pressapochismo. Abbiamo una società civile esperta e attiva, consumatori organizzati, enti locali, come i comuni della rete Elide, capaci di scegliere per il bene delle loro comunità, e non poche ASL che non si genuflettono all’aria che tira. E tutto sommato ci piace pensare che nemmeno la destra più ideologica possa permettersi di tornare ai duemila morti per overdose all’anno dopo essere scesi a meno di duecento. Droghe. Fiorentini (Forum Droghe): “Serve un approccio pragmatico, scevro da ideologie” estense.com, 30 agosto 2025 Non è con dichiarazioni come “la droga fa schifo” che si previene l’uso di sostanze illegali, lo dimostrano gli insuccessi di oltre 60 anni di politiche proibizioniste, queste sì ideologiche. La repressione ha creato solo ulteriori danni, stigma e marginalizzazione come testimoniano l’Oms e le agenzie Onu per i diritti umani. Tocca anche Ferrara il caso pipe per il consumo di crack consegnate da un’amministrazione pubblica a consumatori abituali. A intervenire il segretario di Forum Droghe e consigliere comunale a Ferrara per la Civica Anselmo Leonardo Fiorentini che evidenzia come “per l’uso problematico di sostanze come il crack serva un approccio pragmatico, scevro da impostazioni ideologiche”. Forum Droghe esprime quindi piena solidarietà all’amministrazione comunale di Bologna e agli operatori di Fuori Binario per la scelta di introdurre la distribuzione gratuita di pipe per il consumo di crack. Una misura che ha alla base il concetto di “riduzione del danno” e si basa “su evidenze scientifiche” oltre a essere “riconosciuta come strategia efficace in ambito sanitario”. I partiti al governo e in particolare Fratelli d’Italia e Lega Nord hanno attaccato negli ultimi giorni la decisione di distribuire 300 pipe (costo 3500 euro) ai consumatori abituali. A esprimere la sua contrarietà alla misura è stato, tra gli altri, anche il sentore ferrarese di Fratelli d’Italia Alberto Balboni che sui social, a corredo di una foto del sindaco di Bologna e della presidente del Consiglio Giorgia Meloni, ha scritto: “C’è chi legittima l’uso del crack distribuendo strumenti che ne favoriscono il consumo, e chi si impegna concretamente nella lotta alle dipendenze e nella difesa dei giovani. Indovinate da che parte sta la sinistra?” In un altro post ha poi aggiunto: “Abbiamo denunciato il Comune. Incentivare il consumo di droga è irresponsabile. La loro idea di società non sarà mai la nostra”. Fiorentini prova invece a spiegare: “La riduzione del danno permette - come dimostra lo studio su Bologna - di limitare i danni alle persone che consumano e i costi sanitari per la società. Come ieri lo scambio di siringhe, oggi la distribuzione di pipette è anche uno degli strumenti di aggancio ai servizi di una popolazione in difficoltà, fortemente stigmatizzata e marginalizzata. Il successivo e necessario passo è l’individuazione di luoghi dove consumare: le stanze del consumo sicuro sono fondamentali e non solo per prevenire eventi tragici come le overdose, ma anche per limitare la percezione di insicurezza e il degrado nei quartieri dove avviene il consumo”. Si tratta di una strategia che parte dalla constatazione che è complesso impedire l’uso di queste sostanze e allora si cerca di ridurne gli effetti negativi evitando, ad esempio, che la sostanza venga consumata attraverso bottiglie di plastica trasformare in pipe “home made” utilizzate da più persone. Questo può ridurre problemi come infezioni e altri tipi di patologie riducendo il costo per il sistema sanitario. “Non è con dichiarazioni come ‘la droga fa schifo’ - conclude il segretario di Forum Droghe - che si previene l’uso di sostanze illegali, lo dimostrano gli insuccessi di oltre 60 anni di politiche proibizioniste, queste sì ideologiche. La repressione ha creato solo ulteriori danni, stigma e marginalizzazione come testimoniano l’Oms e le agenzie Onu per i diritti umani. Le esperienze internazionali ci dimostrano che l’orizzonte debba essere quello di un reale governo sociale del fenomeno, come del resto avviene in Italia già per una sostanza psicotropa come l’alcol”. Droghe. Perché vanno tutti a San Patrignano? di Viviana Daloiso Avvenire, 30 agosto 2025 La comunità meta della visita di Metsola e Meloni ospita da sempre i big della scena politica nazionale e internazionale. Passerelle, si dirà, ma per una volta il giudizio rischia d’essere riduttivo. Per almeno un paio di ragioni che vale la pena qui ricordare, in un tempo in cui di dipendenza e di tossicodipendenza si parla pochissimo e si soffre sempre di più. La prima: l’Italia, fanalino di coda d’Europa e del mondo in innumerevoli e svariati ambiti, sul fronte dei percorsi di recupero è un modello d’eccellenza, oltre che un unicum. È al nostro Paese (e tra l’altro all’intuizione e al carisma di tanti uomini e donne di Chiesa) che si deve l’invenzione della “comunità” non come luogo meramente sanitario di cura, ma come dimensione spazio-temporale di presa in carico della persona nella sua interezza, con l’attenzione alle sue abilità cognitive, emotive e relazionali e con il progetto di una sua riabilitazione integrale, di un suo reinserimento sociale e lavorativo. Ed è questo che fanno le centinaia di comunità sparse da Nord a Sud, tra cui San Patrignano spicca per dimensioni e visibilità, in un settore - quello delle politiche sociali - segnato da fragilità strutturali e carenza di fondi. Un primato frutto dell’impegno di decine di competenze, di lunghi e complessi percorsi di formazione per gli operatori, di (difficile a volte) lavoro in rete con i servizi pubblici per rispondere alle continue sfide quotidiane: non solo la circolazione di nuove sostanze e la normalizzazione nei consumi delle “vecchie”, ma anche la piaga dell’alcolismo, della ludopatia, del ritiro sociale, della dipendenza da Internet. Ferite con cui sempre più spesso, e sempre prima, i nostri ragazzi nelle comunità si presentano in cerca di aiuto e di risposte. L’attenzione, dunque, dei “big” non è motivata solo da ragioni di facciata: visibilmente stupita dalle attività e dai laboratori che ha visitato all’interno della struttura, Metsola non a caso proprio di “modello di welfare per l’Europa” ha parlato riferendosi a San Patrignano. Una buona notizia, anche per tutte le altre. C’è di più, però. C’è anche il segno di un interesse, da parte delle istituzioni, a muoversi lungo una linea di frontiera per troppo tempo disertata: quella del disagio giovanile che nelle dipendenze trova il suo sintomo e il suo grido. Se è vero che i nostri ragazzi “non stanno bene”, se è vero che la pandemia ha scavato un abisso nelle fragilità che già segnavano le nuove generazioni, vero è anche che per troppo tempo la politica di droga e dipendenze ha continuato a parlare in modo asettico, disincarnato, relegando la questione allo sterile e ideologico dibattito sulla mera sostanza: ci si è scontrati sulla liberalizzazione, su cosa sia “leggero” e cosa no, si è cavalcato l’allarme cannabis, ora quello fentanyl, giustamente si organizzano forum internazionali e panel di esperti per confrontarsi sul rischio costituito dalla nascita di sempre nuove sostanze sintetiche e sulle rotte di spaccio, ma troppo spesso si sono perse di vista le persone. E la droga è un dramma e un problema che riguarda le persone, innanzitutto: con la loro salute, le loro famiglie fatte di padri e di madri e a volte di figli, le classi a scuola e le compagnie di amici, i progetti per il futuro, il contributo che sono destinate a lasciare nella società e nel futuro del Paese. La politica a San Patrignano allora, tra i ragazzi che provano a rimettersi in piedi, è anche il segnale di uno sguardo e di un desiderio di confronto che non andrebbe liquidato a mera strategia elettorale, specie in vista dell’attesa, cruciale Conferenza nazionale sulle droghe convocata dal governo per novembre. Alle persone - quelle che vivono il recupero e quelle che lo rendono possibile nelle comunità - è tempo di guardare per superare le divisioni (quelle, sì, solo politiche) e ripensare insieme una legislazione sulle dipendenze adatta ai tempi in cui viviamo, oltre che a investimenti massicci nelle politiche sociali con l’obiettivo di prevenirle e di affrontarle prima che i giovani ne siano inghiottiti. Arabia Saudita. Giustiziato per aver partecipato a una protesta quando aveva 16 anni di Domenico Bilotti L’Unita, 30 agosto 2025 In Arabia Saudita, il Caronte dell’omicidio di Stato non disdegna di andare a prendere sull’altra sponda dell’Acheronte anime di condannati per reati commessi quando i loro presunti autori erano ragazzini. Il 21 agosto scorso è toccato a Jalal Labbad, la cui colpa, maturata all’età di sedici anni, era consistita nel partecipare alle proteste della minoranza sciita per il trattamento prevaricatorio subito dalle autorità di Riad e nel seguire le esequie funebri di suoi fratelli di fede uccisi in azioni di polizia. Nella giurisdizione saudita, il corpo dei giustiziati viene trattenuto: nessuna garanzia per la libertà religiosa dei familiari, che vorrebbero nei tempi dovuti procedere ai propri rituali mortuari. Si tratta di un’esigenza intima e comunitaria condivisa da tutte le componenti dell’Islam odierno. Non è un caso che i miliziani di Daesh, per ammonire circa la schiacciante superiorità dei propri disposti, procedessero a devastazioni e saccheggi nelle sepolture dei sufi: la massima profanazione contro i paria degli ordinamenti fondamentalisti. Il dissenso politico della minoranza sciita nell’Arabia Orientale ha scomodato la legislazione antiterrorismo, ma è uno specchietto per le allodole, perché, in casi simili, anche la discrezionalità del giudice (“ta’zir”, in passato ponte per interpretazioni di benevolo ammonimento) può essere sufficiente a mandare a morte criminali-bambini, magari come nel nostro caso giustiziati dopo anni di trattenimento arbitrario. Nell’estate di quattro anni fa, era stato il turno di Mustafa al-Darwish. Imputazioni, allegazioni di tortura durante il periodo custodiale, violazioni processuali... tutto drammaticamente simile. Era tipico del peggior oscurantismo dei secoli passati emanare implausibili verdetti di morte: animali resisi responsabili di azioni di vilipendio verso le istituzioni religiose, persone fisiche già scomparse ma cui fittiziamente si voleva (ri)dare la morte per amplificare la condanna delle aberrazioni compiute, infanti, imputati per fatti commessi anche prima del conseguimento della capacità d’agire. Il diritto delle liberaldemocrazie aveva dimostrato di voler invertire la rotta. Il diritto minorile si era costituito essenzialmente come diritto promozionale e tuzioristico nei confronti dei giovanissimi, come chiaramente dimostrava l’Organizzazione delle Nazioni Unite nel 1989, adottando in Assemblea Generale la Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. Quanto al diritto italiano, la Corte Costituzionale aveva tesaurizzato numerosi spunti giurisprudenziali, invero prima meno netti, sancendo l’illegittimità dell’ergastolo minorile con la sentenza n. 168 del 1994: la pena perpetua, in particolar modo a quella età, non è capace di coordinare finalità educativo-pedagogiche e finalità socio-rieducative. Un argomento in fondo simile, unito a discernimento un previo scrutinio sulla minore capacità di dei soggetti ancora in formazione, era seguito, nel contrasto della pena capitale a danno di minori, da avvedutissimi giuristi islamici. Non bastasse lo scetticismo di molti Autori classici dall’XI al XIV secolo (Ibn Taymiyya e al-Walid al- Baji appaiono a lungo dubbiosi circa la sanzione violenta dell’apostasia, in forza di argomenti prevalentemente letteralistici), ai giorni nostri il sociologo iracheno Taha Alalwani e l’attivista Ahmad Kutty rappresentano autorevoli e seguite posizioni abolizioniste, non soltanto nei Paesi dove i due hanno espresso il proprio cimento intellettuale. Scorgendo più attentamente l’infame lista delle comminatorie capitali, la sensazione più sgradevole è quella di trovarsi davanti al macabro specchio di un racconto dell’orrore. In Arabia Saudita il paradigma istituzionale è quello teocratico (regno islamico), in Italia lo sfondo di riferimento è la crisi del costituzionalismo democratico. L’uno e l’altra, ciascuno con strumenti normativi e giudiziari propri, declinano l’involuzione panpenalistica del diritto odierno attaccando le libertà secondo tre convergenti prospettive: la repressione della diversità culturale e religiosa nel prisma dell’ordine pubblico, l’utilizzo opportunistico delle norme speciali in materia di terrorismo e associazioni di natura criminale, la mancanza di vergogna a sanzionare persino quelle categorie soggettive normalmente fatte salve dall’imputabilità o, almeno, dalle pene più gravi. Chi suggerisce il carcere per il minore infraquattordicenne, chi propone l’abbattimento degli insediamenti gitani, chi vuole una pena modellata per tutti sulla legislazione antimafia, anche in presenza di reati di più ridotta offensività sociale, sarebbe certamente a suo agio sotto lo scudo di ogni autoritarismo. Questa “sensibilità” antiumanitaria uccide i giovani o il loro futuro: forca, galera o miseria. Va bene tutto. Le sanzioni europee contro l’Iran e il piano inclinato verso il conflitto di Alessia Melcangi La Stampa, 30 agosto 2025 Con il meccanismo dello “snapback” gli E3 vogliono far pressione ma irrigidiscono gli ayotallah. Le alterne vicende legate all’Iran e alla questione del nucleare riemergono oggi agli onori della cronaca nel contesto, decisamente poco incoraggiante, di un Medio Oriente sull’orlo del baratro. Avevamo lasciato la Repubblica islamica, dopo il breve conflitto di giugno con Israele, alle prese con la Casa Bianca per giungere a un possibile compromesso che limitasse il suo programma atomico, soprattutto davanti alla scadenza, fissata per il prossimo ottobre, dello storico accordo sul programma atomico, il Jcpoa, firmato nel 2015 dopo lunghi anni di negoziati. Proprio il Jcpoa, che impose vincoli stringenti al programma nucleare iraniano in cambio dell’allentamento delle sanzioni Onu, ha conosciuto un destino tormentato. Il ritiro unilaterale degli Stati Uniti sotto l’amministrazione Trump nel 2018 ne ha minato le fondamenta, reintroducendo sanzioni americane che hanno colpito duramente Teheran. Allora, l’Europa cercò in ogni modo di mantenere aperto il dialogo con l’Iran rimanendo all’interno dell’accordo, ma inutilmente, venendo entrambi risucchiati dal meccanismo sanzionatorio imposto da Washington. Nemmeno il successivo tentativo di mediazione da parte dell’ex presidente americano Joe Biden, con colloqui indiretti ripresi nel 2020, è riuscito a ricucire lo strappo: nel 2022 le trattative si sono interrotte senza esito. Da allora, il quadro si è fatto sempre più cupo. Il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca e il rilancio della “massima pressione” contro la Repubblica islamica ha fatto riesplodere la tensione. La quale culmina lo scorso giugno, con l’attacco innescato dall’irrefrenabile macchina da guerra israeliana, accompagnata dagli Stati Uniti, che colpiscono un Iran accusato di essere vicinissimo alla bomba atomica. Sospensione della cooperazione con l’Aiea, espulsione degli ispettori e interruzione delle misure di monitoraggio: questa l’immediata risposta iraniana che non lascia molti dubbi sulla reale volontà dell’establishment iraniano di voler procedere con i colloqui. Adesso, in una pericolosa escalation di eventi, Francia, Regno Unito e Germania - i cosiddetti E3 - hanno inviato una lettera ufficiale al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite denunciando una “significativa inadempienza” di Teheran e avviando la cosiddetta procedura di “snapback”, che porterebbe entro ottobre al ripristino automatico delle draconiane sanzioni Onu in vigore prima del 2015. Una mossa che, oltre a riallineare l’Europa alla strategia americana, rischia di ingabbiare irreversibilmente in un vicolo cieco tutti gli attori coinvolti. Perché c’è un particolare non di poco conto: la decisione di ripristinare le sanzioni dell’Onu deve passare al vaglio del Consiglio di Sicurezza, di cui sono membri permanenti con diritto di veto, oltre che la Francia, il Regno Unito, gli Stati Uniti, la Germania, anche la Cina e la Russia. Da un lato Mosca si prepara ad assumerne la presidenza a ottobre, promettendo di bloccare ogni iniziativa europea, seguendo più la sua avversione contro gli E3 che la necessità concreta di sostenere Teheran. Dall’altro lato, Pechino, partner economico imprescindibile dell’Iran, appare pronta a sostenere la linea del veto. In questo contesto, la paralisi del Consiglio appare più probabile che mai. E soprattutto a preoccupare è ciò che accade dentro la Repubblica islamica, dove la crisi potrebbe rafforzare le correnti più radicali. Il presidente riformista Pezeshkian invita al negoziato, ma i pasdaran e gli ultraconservatori, denunciano ogni possibile apertura come un tradimento. “L’Occidente non è affidabile” è la narrazione che guadagna terreno - ancor più lo sono gli europei che si erano spesi per mantenere in vita il Jcpoa -, alimentando una spirale di sfiducia e nazionalismo che rende il compromesso sempre più remoto. Tuttavia, l’aspetto più grave riguarda la minaccia, ventilata dai vertici iraniani, di ritirarsi dall’unico trattato internazionale vincolante sulla non proliferazione (Npt) qualora le sanzioni venissero reimposte. Una prospettiva che spalanca scenari inquietanti: l’uscita dall’Npt equivarrebbe, di fatto, ad ammettere la possibilità di puntare alla bomba atomica. Israele e Stati Uniti hanno già avvertito che un simile passo potrebbe giustificare nuovi raid preventivi, rischiando di innescare un conflitto regionale senza precedenti. Sul fronte occidentale, Francia, Regno Unito e Germania chiariscono che lo “snapback” non chiuderebbe la porta ai colloqui. Anche Washington, con il Segretario di Stato Marco Rubio, si affretta a dichiararsi disponibile a un “impegno diretto” con l’Iran, pur tuttavia sostenendo apertamente gli alleati europei. Ma la realtà è che il tempo stringe e il terreno comune si assottiglia drammaticamente. La domanda, allora, resta sospesa: può la diplomazia ancora prevalere in un contesto dominato da diffidenza e minacce incrociate? O il ritorno delle sanzioni Onu, l’ombra di nuovi bombardamenti e la tentazione iraniana di uscire dal Tnp rendono sempre più palese che il nucleare rischia di non essere più un tabù, ma un’arma concreta di confronto?