Minori in carcere, è allarme: le associazioni scrivono all’Onu vita.it, 2 agosto 2025 Antigone, Defence for Children Italia, Libera e Gruppo Abele hanno inviato una submission ufficiale al Comitato Onu che monitora l’attuazione della convenzione sui diritti dell’Infanzia per denunciare la regressione della giustizia minorile in Italia. E al ministro Salvini che vorrebbe equiparare i minorenni che compiono reato ai maggiorenni dicono che “è una resa culturale”. A fine giugno, l’appello congiunto. Ora Antigone, Defence for Children Italia, Libera e Gruppo Abele hanno inviato insieme una submission ufficiale al Comitato Onu sui Diritti dell’Infanzia per denunciare la regressione della giustizia minorile in Italia. Il Comitato infatti entro l’anno valuterà la situazione italiana e la società civile aveva la possibilità di presentare dei propri documenti, entro il 1° agosto. Nelle stesse ore, il ministro alle Infrastrutture e i Trasporti Matteo Salvini ha presentato una proposta per equiparare le pene dei reati commessi dai minorenni a quelle commesse dagli adulti. “Leggevo numeri incredibili, 44mila reati commessi da minori in un anno. Equiparare l’episodio delittuoso del minore a quello del maggiore, secondo me, ormai è doveroso perché i 15-16-17 anni di oggi non sono quelli dei miei tempi, quando non c’erano i telefonini e i social. Negli anni ‘60-70-80 non giravi col coltello, giravi col coltello se andavi a funghi però non ti venivano altre idee di questo genere” ha detto il vicepremier. “Una proposta che ignora la Costituzione e i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza”, affermano in una nota Antigone, Defence for Children, Libera e Gruppo Abele. “Pensare che a 16 anni si sia già colpevoli come un adulto è una resa culturale e politica, non una risposta ai bisogni della collettività. La nostra Costituzione e la Convenzione Onu sui Diritti dell’Infanzia indicano con chiarezza che l’obiettivo della giustizia minorile è prendere in carico i ragazzi, non punirli”. La situazione negli Istituti Penali per Minorenni - come più volte denunciato dalle associazioni - è molto critica. “Le carceri minorili si stanno trasformando in luoghi di abbandono. La risposta dello Stato è la punizione, la repressione, l’isolamento - affermano i promotori dell’appello - ma così si viola la Costituzione, si tradiscono gli impegni internazionali e si spezzano vite in crescita”. Dal 2022 a oggi, il numero di giovani detenuti negli Ipm è aumentato del 55%, passando da 392 a 611 presenze. Un’impennata dovuta in larga parte al cosiddetto Decreto Caivano che, entrato in vigore nel settembre 2023, ha ampliato la possibilità di custodia cautelare per i minorenni e ridotto l’utilizzo delle misure alternative al carcere. Molti giovani che hanno compiuto il reato da minorenni e che prima potevano permanere in Ipm fino ai 25 anni sono stati trasferiti in carceri per adulti al compimento della maggiore età, pratica che il Decreto Caivano ha grandemente facilitato in chiave punitiva nel totale disinteresse per il percorso educativo del giovane. Oggi 9 Ipm su 17 soffrono di sovraffollamento. Le associazioni nella nota tratteggiano la situazione con pennellate inquietanti. A Treviso si sfiora il doppio delle presenze rispetto ai posti disponibili, mentre a Milano e Cagliari il tasso di affollamento tocca il 150%. In molte strutture manca personale formato, sono assenti figure educative: i ragazzi sono lasciti privi di percorsi educativi, restando per ore in cella senza attività. Metà dei ragazzi detenuti sono minori stranieri non accompagnati, spesso sedati con psicofarmaci invece che aiutati a ricostruire un progetto di vita. Un quadro che non si era mai registrato prima nel sistema della giustizia minorile. Per ovviare al sovraffollamento una sezione del carcere bolognese per adulti della Dozza è stata trasformata in Ipm con un atto amministrativo che non ne muta le caratteristiche strutturali: di fatto un carcere minorile imprigionato in un carcere per adulti. Si rompe così il principio internazionalmente riconosciuto della netta distinzione che sempre deve esserci tra la risposta penale destinata agli adulti e quella destinata ai ragazzi. “Sempre di più, al contrario, la nostra giustizia minorile va assomigliando a quella degli adulti tradendo principi ed impegni internazionali assunti dalle nostre istituzioni in relazione alle persone minorenni e alla loro relazione con il sistema di giustizia”, si legge nella nota. “Pensare di continuare a inasprire le pene equiparando i reati di minori e adulti significa solo alimentare la recidiva e soffocare ogni possibilità di crescita”, aggiungono ancora Antigone, Defence for Children, Libera e Gruppo Abele. “Serve invece un investimento vero su educazione, supporto psicologico, inclusione sociale e percorsi di reinserimento, non di una nuova proposta al mese che introduce approcci ulteriormente criminalizzanti. I dati parlano chiaro: non siamo davanti a un’emergenza criminale giovanile, ma a una emergenza di diritti negati”, commentano le organizzazioni. La submission al Comitato Onu chiede all’Italia di: * abrogare il Decreto Caivano, che ha incentivato il ricorso al carcere per i minorenni; * chiudere la sezione minorile nel carcere per adulti di Bologna; * assumere educatori, mediatori e garantire un reale percorso educativo per i ragazzi; * fermare l’uso dell’isolamento; * garantire a ogni minorenne un piano educativo individualizzato. I pazienti detenuti dovrebbero essere scarcerati e curati a casa di Federico Zanon* L’Unità, 2 agosto 2025 Pare che finalmente il ministro Nordio e il suo ministero abbiano preso atto che il grave sovraffollamento carcerario si può risolvere solo liberando persone detenute. La scelta dovrebbe ricadere sui circa 10.000 detenuti con pene inferiori a due anni, che saranno destinati a misure alternative. Si calcola che tra questi il 25% siano dipendenti da sostanze, e per loro il Ministro immagina la comunità terapeutica. Ora, la comunità terapeutica è un trattamento sanitario, che deve rispondere a un criterio di appropriatezza clinica valutato da equipe sanitarie. Non è detto che per tutti i dipendenti da sostanze detenuti la comunità sia l’intervento clinicamente più appropriato: per molti di loro potrebbe essere più appropriato un programma ambulatoriale o diurno, con collocazione presso la propria abitazione. Inoltre, le cure devono essere disponibili: è inutile prospettare a un paziente italiano l’ultimo farmaco d’avanguardia per una patologia tumorale, se è disponibile solo negli USA. Sappiamo benissimo che i posti in comunità terapeutica sono largamente inferiori al fabbisogno. Appropriatezza e disponibilità impattano sull’equità: in una sanità con risorse limitate, è importante dare a ciascun paziente solo la cura adatta, per non sottrarre cure ad altri che potrebbero beneficiarne o averne più bisogno. Tutto questo conduce a una sola conclusione: la scarcerazione dei dipendenti da sostanze detenuti per seguire programmi terapeutici in misura alternativa dovrebbe avvenire senza preconcetti, sulla base di valutazioni cliniche, considerando la possibilità di programmi ambulatoriali e diurni con rientro al domicilio. Non si dovrebbe proporre la comunità terapeutica a un paziente dipendente da sostanze che sta in carcere, quando mai la proporremmo se non fosse detenuto. Questa attitudine cautelativa di proporre in modo non appropriato la comunità terapeutica a pazienti detenuti, è purtroppo diffusa anche fra gli operatori dei SerD. Ma non risponde a logiche di cura, bensì di controllo sociale, a cui un sanitario non dovrebbe prestarsi. Questo tipo di atteggiamento nasconde, a mio avviso, un pregiudizio verso le persone dipendenti da sostanze e verso le comunità: che il dipendente da sostanze detenuto debba comunque espiare la pena chiuso da qualche parte, e che la comunità possa essere un luogo coercitivo. Non piace l’idea del dipendente da sostanze in misura alternativa che viene curato ambulatorialmente, che può andare a farsi la spesa da solo al supermercato e che sconta la pena a casa propria, magari socializzando con i vicini e facendo volontariato alla parrocchia dove giocano i nost ri bambini. Che lo pensi il ministro della giustizia è però nell’ordine delle cose: quello si occupa di giustizia. Il dramma è quando lo pensano i sanitari, che invece dovrebbero occuparsi solo di salute e non impicciarsi dei fatti della giustizia né, tantomeno, vestire i panni del giudice. Partendo dall’assunto che nessun sanitario può essere favorevole al carcere, perché nessun sanitario può concordare con un sistema che espone i propri pazienti a un ambiente iatrogeno, credo sia ora che come professionisti della salute ci riappropriamo della nostra funzione politica e non ci limitiamo a fare i tecnici della sopravvivenza del condannato. Il che significa accogliere con favore la possibilità prospettata dal ministro Nordio di liberare i nostri pazienti dall’ambiente iatrogeno in cui sono trattenuti, ma prospettare che la cura e il recupero non passano necessariamente dalla coercizione, né tantomeno occupando posti in comunità terapeutica in modo inappropriato, e che si può fare cura e recupero anche tornando a casa, svolgendo programmi diurni e ambulatoriali che prevedano la partecipazione sociale e non prolunghino irragionevolmente l’isolamento. Mi spingo oltre: come sanitari dovremmo avere il coraggio di dire che nessun paziente dovrebbe restare in carcere, perché è luogo che ammala e non cura. E che se le cure ambulatoriali sono le più appropriate per la maggior parte dei dipendenti da sostanze non detenuti - queste sono le statistiche della popolazione seguita dai SerD - non si vede perché la stessa statistica non debba valere per i nostri pazienti detenuti. L’epidemiologia non discrimina. Sono le persone a farlo. *Dirigente psicologo SerD Pene uguali per minori e maggiorenni, Ciambriello: “Pessima idea, incostituzionale e populista” Ristretti Orizzonti, 2 agosto 2025 la proposta della Lega fondata sulla presunta maturità di un sedicenne. Il Garante campano Samuele Ciambriello: “Un diritto penale simbolico, che non rispetta i principi costituzionali e i diritti umani”. Il leader della Lega Matteo Salvini, nella giornata di ieri, ha presentato una proposta di legge che prevede l’equiparazione del trattamento punitivo di maggiorenni e minori. Un intervento dal suo punto di vista necessario per contrastare l’aumento della criminalità giovanile, fondato sulla presunzione che “oggi un sedicenne è molto più maturo di un tempo, quindi è giusto che si assuma oneri e onori; se sbagli paghi”. Una iniziativa parlamentare ispirata alla storia di Giogiò Cutolo, il musicista napoletano ucciso da un minorenne. Sulla proposta di legge accende i riflettori il Garante campano, Samuele Ciambriello, anche portavoce della Conferenza nazionale dei Garanti: “Nelle dichiarazioni di Salvini c’è tutto il valore simbolico che oggi si dà alla pena, ripensata come retribuzione e deterrente. Una pessima idea, incostituzionale, solo populista. Se si rimane congelati nella dimensione del rancore, della rabbia, della vendetta, ognuno rimane cristallizzato nel suo ruolo, nelle sue vesti, nelle proprie ideologie, nella propria idea di giustizia. C’è la convinzione che per ridurre i reati, bisogna aumentare le pene. Questo discorso adesso vogliono farlo valere anche per i minori. Si disegna una giustizia strabica, debole con i potenti e i politici, forte con gli ultimi, i minori appunto. Bisogna ritornare a considerare il minore come una persona con meno personalità e responsabilità, di cui la politica si deve occupare nella fase che anticipa il diritto penale, quella della prevenzione, con misure sociali, dell’ascolto dei loro bisogni. Nella proposta della Lega e dei suoi sostenitori c’è la carica istintiva del diritto penale, di pancia, non di testa!”. Piano carceri Nordio: un’eco di promesse mancate di Commissione Sinodale per la Diaconia Valdese chiesavaldese.org, 2 agosto 2025 La Diaconia Valdese denuncia la necessità di un cambio di paradigma, non di annunci. In linea con le posizioni del Sinodo valdese, ricordando anche il recente allarme del Presidente della Repubblica, denunciamo l’inefficacia di misure che ignorano l’urgenza costituzionale della rieducazione, la mancanza di rispetto della dignità umana e il carattere discriminatorio di un sistema che colpisce le persone più deboli. La Diaconia Valdese, per voce del suo presidente Daniele Massa, esprime profonda delusione e sincera preoccupazione per il nuovo piano carceri presentato dal Ministro della Giustizia Carlo Nordio lo scorso 22 luglio. Questo piano non rappresenta una soluzione, ma è la fedele riproposizione delle misure già contenute nel decreto “Carcere sicuro” del luglio 2024, un provvedimento che, come denunciato da più parti, è rimasto “lettera morta”. L’iniziativa governativa si palesa come una risposta del tutto inadeguata alla “grave e ormai insostenibile condizione di sovraffollamento” e alla “emergenza sociale” dei suicidi, come autorevolmente definito dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel giugno 2025. “Il piano del ministro Nordio - ribadisce il Presidente Daniele Massa - non è una risposta, è la fotografia di un’impasse. Invece di affrontare la crisi con il coraggio delle riforme strutturali, si sceglie la via più semplice: ripetere annunci già disattesi. Questo non è solo un fallimento politico, ma una ferita alla nostra coscienza civile e cristiana. È l’abdicazione di fronte a un sistema che discrimina le persone povere e marginalizza quelle più deboli. Come afferma la nostra fede, la dignità umana non si arresta davanti alle sbarre”. Giustizia, contro la piaga degli “errori” di Gerardo Villanacci Corriere della Sera, 2 agosto 2025 La riservatezza è correlata ad una delle ferite più profonde all’immagine della giustizia ovvero quella degli errori giudiziari. Le conseguenze di una condanna ingiusta sono inestimabili. In un sistema giuridico democratico, come quello nel nostro Paese, non può essere messo in discussione il principio cardine del “al di là di ogni ragionevole dubbio” né tantomeno l’art. 27 della Costituzione che garantisce la presunzione di innocenza. Ciò non esclude che elementi sopraggiunti possano consentire di superarla a condizione che vengano valutati con estremo rigore e attraverso indagini, per quanto possibile, riservate. La riservatezza d’altra parte è correlata ad una delle ferite più profonde all’immagine della giustizia ovvero quella degli errori giudiziari. Le conseguenze emotive e psicologiche di una condanna ingiusta sono inestimabili per chi ne è colpito ma non meno rilevanti per coloro che allo stesso sono affettivamente legati. A ciò si aggiunga il tutt’altro che secondario impatto economico per la collettività; nel 2024 lo Stato italiano ha pagato 26,9 milioni di euro in risarcimenti per ingiusta detenzione; dal 2018 al 2024, la cifra complessiva ha superato i 220 milioni di euro. Ma ciò che più preoccupa sono le conseguenze sociali di un errore giudiziario poiché mina, talvolta in modo irreversibile, la fiducia dei cittadini verso il sistema di giustizia che, non dobbiamo dimenticare, è il presupposto essenziale per preservare l’ordine e il rispetto della legge. Senza questi elementi l’effetto sarebbe l’aumento di indagini infruttuose anche a seguito di una minore collaborazione dei cittadini più diffidenti verso gli inquirenti. Siamo consapevoli che non sussiste un rimedio assoluto per evitare gli errori giudiziari. Ma siamo di fronte anche ad un aumento esponenziale di casi rimessi in discussione nonostante sentenze definitive. Diventa sempre più necessario durante lo svolgimento delle doverose indagini, imprescindibile ove le stesse riguardino persone al momento estranee e che possano risultare tali anche successivamente, che venga preservata, con ogni impegno possibile, la discrezione degli accertamenti. Io dico che il reato di femminicidio serve e non ha solo valenza penale di Valeria Valente* Il Dubbio, 2 agosto 2025 Sono convinta che nel tempo l’istituzione del reato autonomo di femminicidio, appena approvata dal Senato e passata all’esame della Camera, possa essere riconosciuta come una pagina importante della storia dei diritti delle donne, al pari di altri leggi fondamentali quali l’abolizione del matrimonio riparatore, il riconoscimento dello stupro quale reato contro la persona, il varo del nuovo diritto di famiglia, il divorzio e la legge sull’interruzione volontaria di gravidanza. A partire dall’esperienza vissuta con la Commissione di inchiesta del Senato sul femminicidio, posso dire di avere maturato con il tempo la consapevolezza della necessità di arrivare al reato di femminicidio, cosa che mi aveva portato a sostenere pubblicamente questa ipotesi già qualche tempo prima che il governo decidesse di presentare il relativo ddl. Il testo uscito dal Senato è stato approvato all’unanimità in Commissione e in Aula ed è molto migliorato rispetto all’originale, grazie a un impegno del Pd e delle altre opposizioni e alla disponibilità della maggioranza ad accogliere importanti modifiche. Ma è inutile nascondere come questo provvedimento continui a suscitare perplessità, in particolare tra i giuristi e soprattutto tra gli avvocati e gli studiosi di diritto penale. La prima delle obiezioni - avanzata sulla base della programmatica oggettività e neutralità del diritto penale rispetto al sesso e al genere - riguarda proprio il ricorso nel codice penale allo specifico e autonomo delitto di femminicidio. Ebbene, questa neutralità ad oggi è soltanto pretesa, come ha da tempo rilevato il femminismo della differenza: il nostro Codice penale, lontano dall’essere “neutro” è bensì storicamente segnato da un ordine chiaramente maschile e per questo contribuisce a produrre e riprodurre le condizioni di disuguaglianza sostanziale, sociale, simbolica e culturale di dominazione dell’uomo sulla donna, caratteristico della società patriarcale. Cito solo due esempi, ma se ne potrebbero fare molti altri: nel Codice penale si parla di “cittadino” anche per menzionare e punire, all’art. 583- bis c. p.- le mutilazioni genitali femminili, mentre l’omicidio, previsto all’art. 575 c. p. è ancora l’uccisione di un “uomo”, ricomprendendo nel termine anche le donne. Le donne stesse e il loro corpo - che genera, a differenza di quello maschile - sono per lo più invisibili per il diritto stesso. Introdurre il femminicidio nel Codice penale significa quindi “trovare le parole”, sessuare, nominare e riconoscere un fenomeno di cui solo le donne sono vittime. Definire, come abbiamo fatto, il femminicidio come l’uccisione di una donna come atto di discriminazione, di prevaricazione, di controllo, di possesso, di dominio, o di limitazione delle libertà individuali o come atto compiuto in seguito al rifiuto femminile di instaurare o continuare una relazione affettiva significa riconoscere la natura strutturale di questa specifica violenza, che ha radici nell’asimmetria di potere tra i sessi. Il nuovo delitto potrà così agevolare i magistrati e gli altri operatori della giustizia non solo a riconoscere il femminicidio nelle aule di giustizia, ma anche e soprattutto a leggere correttamente la violenza contro le donne senza derubricarla a conflitto famigliare, come prescrivono la Convenzione di Istanbul e altre convenzioni internazionali. Concepire un’aggravante invece che il reato autonomo non avrebbe, al contrario, centrato proprio questi obiettivi. E qui vengo alla seconda obiezione, che riguarda lo strumento penale, per molti inidoneo a perseguire una battaglia che si consuma per lo più sul piano culturale. In verità una scelta legislativa finalizzata a svelare e definire, oltre che a punire, le dinamiche della violenza contro le donne, non può che essere un passo ulteriore per cambiare i modelli sociali e culturali e nel tempo il sentire comune sull’uccisione di una donna in quanto donna. Di sicuro non il solo passo, né quello definitivo, perché ce ne vorranno molti altri, ma certo un passo nella giusta direzione, perché incidere in positivo sul linguaggio, sulla consapevolezza, sulla lettura corretta del fenomeno alla lunga incide anche sui modelli sociali, relazionali e culturali e rientra dunque nella difficile, complessa e multiforme opera di prevenzione, che è e rimane la strada maestra per contrastare la violenza maschile. Quello della prevenzione, del resto, è un aspetto che viene ripreso anche da questo ddl, con la previsione dell’obbligo di formazione per gli operatori di giustizia. A questo si aggiungono ordini del giorno approvati che impegnano il governo a investire sull’educazione all’affettività e al rispetto della differenza, a introdurre nei curricula universitari corsi dedicati alla violenza contro le donne e al riconoscimento degli stereotipi e dei pregiudizi di cui sono vittime e a investire di più sui Centri antiviolenza e sulle Case rifugio. La terza obiezione riguarda l’ergastolo e la deterrenza, versus la prevenzione, di cui ho già parlato. Non si istituisce il nuovo delitto con lo scopo dell’ergastolo, che è già possibile comminare, almeno a certe condizioni, ma si stabilisce la pena dell’ergastolo per il femminicidio in coerenza con il sistema sanzionatorio penale. E sarebbe stato difficile fare diversamente, a sistema penale vigente, a meno di non pensare di poter punire meno severamente il femmicidio rispetto all’uccisione di una donna per altre ragioni. Altra partita è invece l’abolizione dell’ergastolo: una battaglia ambiziosa, quanto giusta e opportuna, che andrebbe però fatta pensando all’intero impianto del Codice e dunque a tutti quei reati per i quali finisce per essere applicato oggi. Sarebbe una battaglia in sintonia con il nostro spirito costituzionale, che vedrebbe tante donne in prima linea, di sicuro tante femministe. Invece, parlarne solo rispetto al femminicidio dimostra ancora una volta, se mai ce ne fosse bisogno, quanto per le donne è sempre tutto più difficile. *Senatrice del Pd Piemonte. Carceri, scontro in Regione: Fratelli d’Italia attacca l’ex Garante di Stefano Lorenzetti Corriere di Torino, 2 agosto 2025 Nel giorno del passaggio di consegne tra Bruno Mellano e Monica Formaiano, nominata garante regionale per le persone private della libertà, scoppia la polemica tra Fratelli d’italia e chi da sempre ha uno sguardo sui penitenziari: gli avvocati della Camera penale Vittorio Chiusano, il portavoce dei garanti nazionali Samuele Ciambriello, il fronte delle opposizioni in Consiglio regionale. L’antefatto sono le parole del capogruppo e del vicecapogruppo in Regione di FDI, Carlo Riva Vercellotti e Roberto Ravello. Per loro Mellano pensava solo ai detenuti. Nel giorno del passaggio di consegne tra Bruno Mellano e Monica Formaiano, appena nominata garante regionale per le persone private della libertà, scoppia la polemica tra Fratelli d’italia e chi da sempre ha uno sguardo diretto sui penitenziari: gli avvocati della Camera penale Vittorio Chiusano, il portavoce dei garanti nazionali Samuele Ciambriello, il fronte delle opposizioni in Consiglio regionale. L’antefatto sono le parole del capogruppo e del vicecapogruppo in Regione di FDI, Carlo Riva Vercellotti e Roberto Ravello. Che, all’indomani della nomina di Formaiano, hanno parlato di “cambio passo” e accusato il predecessore di aver svolto per 11 anni il proprio ruolo con “strabismo ideologico”, offrendo “un monologo a senso unico” della narrazione carceraria. A sostegno della tesi, la scelta dell’ex garante di costituirsi parte civile nei processi in cui gli agenti della penitenziaria erano accusati di violenza sui detenuti. Mellano, quindi, avrebbe “interpretato” l’incarico “con scarsa attenzione per le altre figure che vivono e lavorano ogni giorno dentro le carceri. Mentre si invocavano - insistono i due meloniani - diritti, dignità e reinserimento per i detenuti, le condizioni di chi garantisce legalità e sicurezza restavano sistematicamente invisibili”. Giudizi che hanno innescato la risposta sardonica della Camera penale. In una nota - dal titolo “Lacrime d’estate” - di tagliente ironia, si evidenzia che l’ex garante per i detenuti del Piemonte “avrebbe peccato di miopia perché non si sarebbe costituito parte civile nei confronti dei detenuti stessi”. I penalisti, poi, evidenziano il “sottile ragionamento giuridico” di FDI “che forse potrà aprire nuove frontiere del diritto e ci porta a chiedere scusa a Norberto Bobbio, Alessandro Galante Garrone, Franco Cordero e a tutti i giuristi che hanno fatto del Piemonte una terra di diritto, per avere consentito che il Consiglio regionale fosse occupato da chi del diritto nulla sa e non ha neppure la creanza di tacere”. In sostanza, spiegano le toghe, la “miopia” imputata a Mellano sarebbe quella “udite udite, di provare a difendere i diritti dei detenuti”. Per il portavoce della Conferenza nazionale dei garanti delle carceri Samuele Ciambriello è “un attacco privo di contenuti e populista. I garanti sono autorità indipendenti e legittimati da leggi regionali e delibere. La politica aiuta, coopera, non detta regole e indirizzi alle istituzioni di garanzia” E ricorda: “Per noi garanti delle persone private della libertà personale è la Costituzione il baluardo del nostro agire. Il collega Mellano ha ben esercitato il suo ruolo, con determinazione, responsabilità e spirito di servizio. Il resto è populismo penale, politico e mediatico”. Anche la politica si scaglia contro Riva Vercellotti e Ravello. Il M5S - la capogruppo Sarah Disabato e i consiglieri Alberto Unia e Pasquale Coluccio - parla di attacco “ingiustificato, scorretto e totalmente fuori logico”. Alice Ravinale (Avs) ha sollevato la questione a Palazzo Lascaris, chiedendo conto a Ravello, Riva Vercellotti e al presidente Davide Nicco “delle gravi esternazioni”. E le compagne di partito Valentina Cera e Giulia Marro insistono: “Derubricare undici anni di esperienza di Mellano, peraltro confermato dalla maggioranza del primo governo Cirio, a unilateralità militante è inopportuno e ingeneroso”. L’affondo è di Europa Radicale, che definisce FDI “indecente”: “Hanno nominato garante una persona chiaramente impreparata (come ha ammesso essa stessa pubblicamente) e ora tentano di allargare e annacquare i suoi compiti per evitarle di dimostrare subito i propri limiti”. Piemonte. Ora il Garante potrebbe “ritirarsi” dal processo contro gli agenti penitenziari a Cuneo di Andrea Cascioli cuneodice.it, 2 agosto 2025 FdI attacca l’uscente Bruno Mellano, accusato di “strabismo ideologico”. Le opposizioni insorgono, durissima la Camera Penale: “Non sanno nulla di diritto”. Dopo undici anni da garante regionale dei detenuti il fossanese Bruno Mellano lascia per raggiunto limite di mandato. Ex consigliere regionale con la lista Bonino Pannella, poi deputato dell’Unione, lo storico dirigente radicale era stato nominato nel 2014 dal centrosinistra ma poi confermato, coram populo, dal centrodestra, malgrado l’estemporaneo tentativo leghista di sostituirlo con un investigatore privato gradito al Carroccio. Mellano ha raccolto apprezzamenti trasversali, tra le associazioni come presso i sindacati di polizia, eppure c’è chi approfitta dell’avvicendamento già programmato con Monica Formaiano - avvocato, alessandrina, ex assessore comunale e candidata alle regionali con Fratelli d’Italia - per togliersi più di un sassolino dalla scarpa: “Undici anni di monologo a senso unico, oggi si chiude senza rimpianti una fase di strabismo ideologico che non ha per nulla contribuito a pacificare il mondo penitenziario ma, anzi, lo ha polarizzato a dismisura”. Questo il giudizio senza appello formulato da Carlo Riva Vercellotti e Roberto Ravello, capogruppo e vice capogruppo di Fratelli d’Italia in Consiglio regionale, sull’operato del garante. Al quale i meloniani imputano di aver interpretato l’incarico “in modo univoco, con scarsa attenzione per le altre figure che vivono e lavorano ogni giorno dentro le carceri: la Polizia Penitenziaria, gli operatori, il personale sanitario, i volontari”. Soprattutto gli si rimprovera la costituzione di parte civile “solo nei procedimenti contro agenti della Polizia Penitenziaria, mai in quelli per aggressioni e violenze compiute da detenuti contro gli agenti stessi. Un doppio standard inaccettabile, figlio di una visione parziale e fortemente sbilanciata della realtà carceraria”. A Mellano, in sostanza, non si perdona lo “sgarbo” fatto a Torino e a Ivrea e ripetuto, poco più di un mese fa, a Biella e a Cuneo. In tutti questi casi il garante ha esercitato la possibilità, prevista dalla legge, di costituirsi in giudizio contro agenti accusati di violenze e torture. L’intervento dei consiglieri di Fratelli d’Italia ha provocato l’insurrezione di tutte le opposizioni. Dai Cinque Stelle (“ingiustificabile, scorretto e totalmente fuori da ogni logica l’attacco dei consiglieri regionali di Fratelli d’Italia”) ad Avs (“fare il garante dei detenuti vuol dire tutelare i diritti delle persone detenute, non della polizia penitenziaria né di altre figure del complesso universo carcerario”), dal Pd con Domenico Rossi e Gianna Pentenero (“sconcertante come Fratelli d’Italia che dovrebbe conoscere il sistema carcere attraverso un suo esponente come il sottosegretario Andrea Delmastro dimostri tutta la sua ignoranza in materia”) fino ai Radicali, con il segretario nazionale Filippo Blengino: “Gli attacchi provenienti da destra sono l’espressione di una visione distorta della giustizia, che cerca risposte ai problemi attraverso decreti securitari e strumenti di populismo penale”. Tutti concordi nel difendere l’operato di Mellano, ma ancor più nel rivendicare l’autonomia del garante. Alla quale si appella, con ironia e con ancora più fermezza nel condannare gli attacchi, il consiglio direttivo della Camera Penale piemontese: “La critica alla persona del Garante, ormai scaduto per raggiunto limite dei mandati, si sofferma sul fatto che la scelta di quest’ultimo sarebbe stata quella - udite udite - di provare a difendere i diritti dei detenuti”. “Il sottile ragionamento giuridico proposto, - ironizzano gli avvocati penalisti - che forse potrà aprire nuove frontiere del diritto, ci porta a chiedere scusa a Norberto Bobbio, Alessandro Galante Garrone, Franco Cordero e a tutti i giuristi che hanno fatto del Piemonte una terra di diritto, per avere consentito che il Consiglio Regionale fosse occupato da chi del diritto nulla sa e non ha neppure la creanza di tacere”. Insomma, lo scivolone c’è ed è ancora più clamoroso di quello rimproverato alla stessa Formaiano, presentatasi con la frase “non ho dimestichezza con le realtà carcerarie piemontesi”. A lei ora toccherà decidere anche se confermare o eventualmente ritirare l’iniziativa nel processo sulle presunte torture. Sarebbe una scelta poco rilevante sul piano giudiziario, ma dirimente sotto il profilo politico. Piemonte. Ciambriello. “I Garanti delle persone private della libertà personale sono autorità indipendenti” lospiffero.com, 2 agosto 2025 Il portavoce della Conferenza nazionale dei garanti delle carceri e garante della Campania, Samuele Ciambriello, interviene sulle accuse lanciate da esponenti di FdI in Piemonte all’ex garante locale, Bruno Mellano. “Un attacco - dice il portavoce dei garanti - privo di contenuti e populista. I garanti sono autorità indipendenti e legittimati da leggi regionali e delibere. La politica aiuta, coopera, non detta regole e indirizzi alle istituzioni di garanzia. Per noi garanti delle persone private della libertà personale è la Costituzione il baluardo del nostro agire. Il collega Bruno Mellano ha ben esercitato il suo ruolo. Lo ha fatto con determinazione, responsabilità e spirito di servizio. Ha garantito il rispetto dei principi costituzionali e dei diritti umani nei luoghi di privazione della libertà. Tutto questo è ulteriormente confermato dal fatto che, anche adesso, pubblicamente, senza alcun incarico formale, ha dichiarato di essere disponibile a collaborare con la neo garante, che per sua stessa ammissione, ha detto di “conoscere poco le prigioni. Il resto è populismo penale, politico e mediatico”. Capogruppo e vicecapogruppo in Regione, Carlo Riva Vercellotti e Roberto Ravello, ieri nel giorno dell’avvicendamento con Monica Formaiano hanno parlato del garante uscente come di “undici anni di monologo a senso unico, di una fase di strabismo ideologico che non ha per nulla contribuito a pacificare il mondo penitenziario ma, anzi, lo ha polarizzato a dismisura”, accusandolo di “scarsa attenzione per le altre figure che vivono e lavorano ogni giorno dentro le carceri: la polizia penitenziaria, gli operatori, il personale sanitario, i volontari”. Roma. Veronica e l’inferno delle carceri: quando la dignità si perde dietro le sbarre di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 agosto 2025 Dalla relazione della garante di Roma emergono sovraffollamento, suicidi, sanità allo stremo. E la storia di una donna trans isolata per mesi, simbolo di un dramma che viola ogni umanità. Arrestata a Fiumicino nell’agosto 2024, Veronica finisce a Regina Coeli in isolamento. È una donna trans costretta a interrompere la terapia ormonale che seguiva da mesi, abbandonata in una cella senza supporto psicologico, con alle spalle indicazioni di tratta e la paura di essere rimpatriata e subire violenze in patria. Solo a dicembre la garante dei detenuti Valentina Calderone scopre la sua storia: quattro mesi di abbandono totale in un sistema che parla di protezione ma spesso tradisce il diritto di ogni persona a sentirsi rispettata e al sicuro. È grazie all’intervento della garante di Roma che scatta finalmente una visita endocrinologica in carcere, due colloqui con l’associazione BeFree e la richiesta di arresti domiciliari che il tribunale accoglie. Dopo quasi un anno di isolamento, Veronica torna libera per riprendere il suo percorso di transizione. La sua vicenda illumina il buco nero di un sistema carcerario che la relazione annuale di Calderone, presentata di recente, descrive senza mezzi termini: non più un’emergenza passeggera, ma una condizione strutturale. I diritti si scontrano con la realtà - I dati parlano chiaro e sono spietati. Le carceri italiane ospitano 62.722 detenuti contro 46.706 posti effettivamente disponibili al 30 maggio 2025: un tasso di occupazione del 134,29%. A Roma la situazione è ancora più drammatica. Regina Coeli supera il doppio della capienza regolamentare con un 191,96% di sovraffollamento, mentre Rebibbia Nuovo Complesso conta 1.571 presenze contro 1.057 posti disponibili. Le proposte di indulto e amnistia per alleggerire questa pressione insostenibile sono cadute nel vuoto. Il governo preferisce puntare sulla costruzione di nuovi blocchi detentivi: 32 milioni di euro per soli 384 posti, un progetto già contestato per la qualità degli spazi e la vivibilità che offrirebbe. Nel 2024 gli istituti penitenziari di Roma hanno registrato 1.824 eventi critici - il triplo dell’anno precedente - tra tentativi di autolesionismo, aggressioni e ogni fatto che mette a rischio la sicurezza interna. Ma è sui suicidi che emergono le contraddizioni più inquietanti: il Provveditorato indica 37 tentativi a Regina Coeli, il Garante nazionale ne conta 63. A livello nazionale, il ministero della Giustizia accredita 83 suicidi nel 2024, mentre il dossier “Morire di carcere” ne segnala 90. Differenze dovute a morti classificate “da accertare” e mai aggiornate dopo le indagini. Come si legge nel rapporto, a Roma, quattro persone si sono tolte la vita nel 2024 - tre a Regina Coeli, una a Rebibbia - e altre due nei primi mesi del 2025. La maggior parte dei suicidi avviene nella VII sezione di Regina Coeli, dove finiscono i nuovi arrivati e le persone con fragilità psichiche. Un dettaglio che fa riflettere: il 94% delle strutture in cui qualcuno si è suicidato è sovraffollato oltre il 100%, il 40% oltre il 150%. Chi sceglie di togliersi la vita ha spesso un profilo ricorrente: uomo tra i 26 e i 39 anni, detenuto da meno di sei mesi, con alto tasso di disoccupazione, senza fissa dimora e disturbi psichici non diagnosticati. Nel 2024 sono cresciuti anche i tentativi di suicidio (+177, arrivati a 2.078), gli atti di autolesionismo (+517, fino a 12.896), le aggressioni (+411, per un totale di 5.707) e le proteste collettive (+437, che raggiungono quota 1.459). Quando curarsi diventa un privilegio - Il sistema sanitario penitenziario mostra fratture profonde che rischiano di diventare voragini. A Rebibbia Nuovo Complesso, le prestazioni specialistiche all’esterno - risonanze magnetiche, Pet-Tac, esami di secondo e terzo livello - vengono effettuate solo nel 53% dei casi richiesti. A ostacolarle sono la carenza di scorte, la mancanza di mezzi e le procedure burocratiche infinite. Al pronto soccorso i ricoveri d’urgenza sono cresciuti fino a 179 nel 2024, mentre sui medici di guardia pesano migliaia di visite intermedie: 7.708 in un anno, il segno inequivocabile di un’assistenza non più sostenibile. Nel Cpr di Ponte Galeria le condizioni strutturali sono definite senza giri di parole “scadenti”: materassi logori, bagni guasti, carenza di luce e privacy, mensa interna chiusa da anni e totale assenza di attività ricreative o sportive. E l’intimità resta una speranza - La Corte costituzionale aveva dato una speranza. Con la sentenza numero 10 del gennaio 2024 ha stabilito che l’articolo 18 dell’Ordinamento Penitenziario viola i principi di uguaglianza, rieducazione e il diritto alla vita privata e familiare imponendo automaticamente il controllo a vista durante i colloqui con coniugi e conviventi. Nei diciotto mesi successivi, però, pochissimi istituti hanno applicato la decisione: solo alcuni magistrati di sorveglianza a Parma, Terni e Verona hanno accolto reclami specifici concedendo incontri senza guardie. L’11 aprile 2025, dopo un lungo stallo, il ministero della Giustizia ha finalmente diramato le “Prime linee guida” per dare attuazione alla sentenza. Il documento riconosce il diritto a colloqui intimi non controllati in spazi riservati e fino a due ore, ma introduce paletti pesantissimi: esclusione per i detenuti in regime 41-bis o 14-bis, autorizzazione preventiva per chi è imputato in attesa di giudizio, ampio margine di valutazione alle direzioni che possono porre veti per precedenti disciplinari o motivi di sicurezza. Così - come evidenzia Valentina Calderone - l’affettività in carcere rischia di essere vista come un privilegio da “concedere”, non come un diritto da garantire. Si stima che circa 17.000 detenuti potrebbero accedere ai colloqui intimi, ma mancano locali attrezzati, i fondi per l’edilizia penitenziaria non coprono questa esigenza e il sovraffollamento cronico rende vane le buone intenzioni. E poi ci sono gli invisibili - Come la storia di Veronica, le persone LGBTIQA+ vivono in uno stato di costante allerta tra ostilità, minacce e spazi che non riconoscono la loro identità. In un sistema organizzato per categorie rigide - maschile, femminile, “protetti” - chi sfugge a questi schemi rischia l’isolamento o trattamenti che negano l’accesso alle attività comuni e compromettono il reinserimento. La legge prescrive che la destinazione in sezioni omogenee sia solo su richiesta del detenuto, garantendo la partecipazione a laboratori e momenti ricreativi. Nei fatti - evidenzia la relazione annuale - la scelta è spesso simbolica: mancano locali adatti, i fondi non coprono l’esigenza e il personale non è formato per gestire le fragilità specifiche. Il risultato sono assistenza medica incompleta, terapie ormonali interrotte e un senso di abbandono che si somma al sovraffollamento. Altri punti oscuri riguardano i minorenni: a Casal del Marmo, per la prima volta, il sovraffollamento coinvolge anche i giovani detenuti, compromettendo percorsi di istruzione e formazione essenziali. Resta carente il controllo giudiziario nei Cpr, dove manca un vero magistrato di sorveglianza per chi è trattenuto in via amministrativa, con gravi falle nel diritto di difesa. La relazione di Valentina Calderone disegna il quadro drammatico di un sistema sotto pressione, dove “la gestione ordinaria diventa emergenza e la sofferenza si acuisce costantemente”. Regina Coeli e Rebibbia restano teatri di tensione quotidiana in cui il sovraffollamento, l’emergenza suicidi e i servizi sanitari al limite si intrecciano in una spirale che sembra non avere fine. Serve una risposta politica immediata che non si limiti a costruire nuove gabbie, ma punti a misure deflative concrete, a un vero presidio sanitario continuo e a un controllo giudiziario effettivo. Perché se vogliamo davvero tutelare la dignità di ogni persona dietro le sbarre, servono più che protocolli sulla carta: servono spazio, soldi e formazione, ma soprattutto la volontà di guardare oltre l’architettura delle celle. Come ha dimostrato la storia di Veronica, a volte basta l’intervento di una persona che non dimentica che dietro ogni numero c’è una vita umana. Firenze. Carcere di Sollicciano, un incontro per tamponare l’emergenza di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 2 agosto 2025 Vertice tra l’assessore Paulesu, il Garante dei detenuti e la nuova direttrice: “Dopo Ferragosto ci rivedremo”. Potenziare la mediazione culturale per i detenuti stranieri, più borse lavoro. Sono questi due tra i punti fondamentali per tamponare l’emergenza a Sollicciano, dopo l’incontro che si è tenuto ieri tra l’assessore al Welfare Nicola Paulesu, il garante comunale dei detenuti Giancarlo Parissi e la direttrice di Sollicciano Valeria Vitrani. “È stato un momento importante - spiega Paulesu - in cui ci siamo potuti confrontare sulla situazione di Sollicciano con la direttrice, che ha dimostrato grande disponibilità al confronto. Abbiamo espresso la volontà dell’amministrazione di aprire un’interlocuzione costante e strutturata con la direzione dell’istituto penitenziario, tant’è che abbiamo già fissato a fine mese un nuovo incontro. Abbiamo fatto un’analisi puntuale della realtà con un approccio pragmatico per provare ad intervenire da subito su alcune difficoltà e anche con piccole azioni costruire risposte immediate, consapevoli delle criticità in cui versa la struttura”. L’assessore Paulesu ha poi elencato una serie di obiettivi concreti da realizzare al più presto. Oltre al rafforzamento della mediazione culturale e delle borse lavoro, dovrà essere potenziata “la presenza delle associazioni, nella direzione in cui già abbiamo lavorato quest’anno, ovvero con una rete permanente di confronto con tutte le realtà che operano all’interno del penitenziario”. Parla di “sensazioni positive dopo l’incontro con la nuova direttrice dí Sollicciano”, il garante Parissi. Che ne sottolinea “l’onestà di analisi e la consapevolezza delle criticità strutturali che condizionano quotidianamente la vita dell’istituto. Molta attenzione anche a disagi, apparentemente minori, ma che condizionano la vita del penitenziario, ad esempio lo stato degradato delle stanze adibite ai colloqui fra detenuti e operatori esterni, aree adibite alle ore d’aria spoglie e inospitali”. “L’intenzione condivisa - conclude il garante - è quella di incontri periodici carcere/amministrazione/associazionismo di settore, per la presa in esame delle criticità emergenti e delle necessarie e possibili contromisure, il prossimo incontro previsto per la seconda metà di agosto”. Cremona. “Carcere sovraffollato e carenza di personale” di Francesca Morandi laprovinciacr.it, 2 agosto 2025 La visita della Camera Penale. “Criticità, ma anche molti progetti in cantiere”. Sovraffollamento e carenza di agenti. Nel carcere di Cà del Ferro la situazione continua ad essere critica. Lo è perché “ci sono 552 detenuti a fronte dei 384 regolamentari. Sarebbero 394, ma 10 posti sono inagibili. A maggio erano 539, di cui circa 388 stranieri, a maggioranza marocchini”. E lo è perché “gli agenti sono comunque sotto organico, gli educatori sono 5 anziché 6, ma, di fatto, sono 4, perché il capo area è distaccato. E ogni educatore deve gestire una media di 150-160 detenuti”. Micol Parati, presidente della Camera Penale di Cremona e Crema ‘Sandro Bocchi’, consegna i dati al termine della visita di questa mattina in carcere con i colleghi Cristiana Speroni, Laura Negri, Francesco Cogrossi, Paolo Sperolini, Andrea Vigani. E con Michele Ferranti e Luigi També, praticanti legali. Luci e ombre a Cà del Ferro. Durante le due ore e mezza di visita cominciata alle 9,30 con la direttrice Giulia Antonicelli, si è preso nota anche degli aspetti positivi. Come la falegnameria, un fiore all’occhiello, i corsi di formazione, i numerosi progetti in cantiere in un carcere dove si sta risolvendo anche il problema “gravoso” del ‘caldo’. Sono stati installati quasi tutti gli 80 ventilatori comprati con i fondi raccolti alla cena del ‘Penalista goloso’ di aprile scorso. “Alcuni ventilatori sono già stati montati, altri li stanno montando - dice Parati -. Li abbiamo visti già montati nella biblioteca e in alcune parti comuni. Stanno modificando le canaline davanti alle celle e li monteranno in modo tale da creare un bel giro d’aria”. La delegazione ha visitato “una sezione dei protetti a trattamento avanzato, l’unica sezione aperta del carcere. Si tratta di persone che hanno avuto un comportamento premiato: si occupano anche degli orti”. Poi, la visita in una sezione dei detenuti comuni. Torna sui dati, la presidente Parati. “Da gennaio di quest’anno, 1 suicidio, 25 tentati suicidi (nel numero si inseriscono anche quelli dimostrativi), 190 atti di autolesionismo: anche qui ci sono quelli dimostrativi con piccoli tagli, ma intanto ci sono; 17 detenuti sono stati messi in isolamento disciplinare; 9 atti di accumulo farmaci e 72 danneggiamenti”. Alla voce ‘organico, “è arrivato qualche nuovo assistente, forse due nuovi commissari della polizia penitenziaria, ma, comunque, nonostante si sia leggermente rimpolpata la situazione rispetto alla pianta organica di maggio, sono molto tirati”. Le luci: le attività trattamentali. “Sono partiti vari progetti - spiega Parati -. Ad esempio, è stato fatto il corso di sanificazione, il corso da pizzaiolo, formando sette pizzaioli professionisti, il corso di arboricoltura, di orientamento al lavoro, di apicoltura, di sicurezza sul lavoro. Dovrebbe iniziare un corso di archivio digitale. Sono stati fatti corsi di formazione sia di informatica sia di inglese”. I detenuti formati passati al secondo livello, diventano i prof dei detenuti del primo livello. “Ci sono nuovi fondi scolastici, quindi sono riusciti ad aumentare un po’ le attività”. La delegazione della Camera Penale è passata dalla falegnameria. “Adesso hanno un accordo con la Caritas e con il Comune per i quali stanno facendo dei lavori - prosegue Parati - anche se, purtroppo, stanno ancora cercando un partner commerciale che possa farli lavorare dall’interno, perché stanno facendo delle cose di pregio. Hanno uno spazio enorme con i macchinari, si potrebbero mettere altri macchinari e avviare una produzione di mobili e oggetti veramente di pregio”. Nella falegnameria di Cà del Ferro, si realizzano mobili da giardino, vasi dipinti e portavasi in scala, cantinette per il vino, supporti per i cellulari. Tutti “oggetti veramente belli, fatti bene. Loro auspicherebbero una collaborazione dall’esterno per poter far lavorare i detenuti, perché poi c’è chi lavora in falegnameria da tre anni: sono persone formate, che hanno una professionalità”. In carcere, “stanno attivando un corso per la genitorialità - aggiunge Parati -, c’è un trattamento specifico in partenza per il sex offender, stanno portando avanti una progettualità con l’ospedale per far entrare i medici specialistici, per attivare la telemedicina, c’è un corso di pet-therapy, ci sono progetti di mediazione”. C’è tanto in cantiere, “ma va tenuto conto che i corsi coinvolgono gruppi di 6-7 detenuti su 552 da tenere impegnati. È un problema legato anche alla permanenza in carcere. La direttrice ha spiegato che i detenuti che vi stanno 3-4 mesi non si riesce a coinvolgerli nel trattamento”. Non si fa in tempo. “Non iniziano neanche e poi magari rischiano di perdere il lavoro che avevano fuori, escono che sono peggiorati”. È il tema dei reati ostativi. “Per i reati gravi, siamo tutti d’accordo - osserva Parati -, ma i reati della Spazzacorrotti che impediscono le misure alternative alla detenzione, sono deleteri, inutili e vanno ad ingrossare il numero dei detenuti che dovrebbero essere gestiti all’esterno. Così come per i soggetti psichiatrici: non è certo il carcere il luogo per contenerli”. I penalisti torneremo “a fare un check”. Varese. “Ristretti in Agosto”, la Camera Penale di Varese in visita ai Miogni varesenews.it, 2 agosto 2025 “Le carceri non siano luoghi di disperazione”. Anche quest’anno la Camera Penale di Varese ha aderito a “Ristretti in Agosto”, iniziativa nazionale promossa dall’Osservatorio Carcere dell’Unione delle Camere Penali Italiane, con l’obiettivo di mantenere alta l’attenzione pubblica sulle condizioni di vita nei penitenziari italiani, soprattutto nei mesi estivi, quando il sovraffollamento e il caldo estremo aggravano situazioni già difficili. A darne notizia è la presidente Elisabetta Bertani, che ha guidato la delegazione dei penalisti in visita alla Casa Circondariale dei Miogni. L’accesso è stato autorizzato dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria proprio per consentire un sopralluogo mirato alla verifica delle condizioni detentive e per lanciare un appello alle istituzioni: serve una svolta urgente, strutturale e condivisa. La visita ha evidenziato, ancora una volta, gravi criticità: 94 detenuti ospitati a fronte di una capienza massima di 53. A questo si sommano carenze strutturali evidenti, come il muro perimetrale in stato di degrado, e difficoltà organizzative che limitano l’attuazione dei progetti trattamentali, pur previsti nel ricco e articolato Progetto di Istituto illustrato dalla dottoressa Pirrello, capo area educativa. Progetti che includono anche iniziative su affettività e genitorialità. Bertani sottolinea la necessità di “riportare la pena entro i confini della legalità costituzionale, nel rispetto dei principi di umanità e rieducazione sanciti dall’articolo 27 della Carta. La detenzione non deve essere rivalsa, ma strumento di reinserimento e responsabilizzazione”. Un grazie particolare è stato espresso all’Onorevole Andrea Pellicini, avvocato del Foro di Varese, alla Magistratura di Sorveglianza rappresentata dalle dottoresse Rossi e Gentile, al Consiglio dell’Ordine con gli avvocati Battipede e Mombelli e all’avvocata Brusa, responsabile Carceri dell’OCF. Con “Ristretti in Agosto”, la Camera Penale di Varese ribadisce il proprio impegno civile e professionale: denunciare, proporre, vigilare. Perché, come ha ricordato il Presidente della Repubblica, “le carceri non devono diventare luoghi di disperazione o palestre per il crimine”. Udine. Il carcere di ha un nuovo volto: ecco il progetto di riqualificazione udinetoday.it, 2 agosto 2025 In questi mesi giunge al termine una riqualificazione durata anni: vi portiamo in via Spalato, nell’ex sezione femminile, per vedere le immagini di come è cambiata e immaginare le possibilità per quando i lavori saranno conclusi. C’è meno freddo “al fresco”, in via Spalato. Sta giungendo al termine la riqualificazione dell’ex sezione femminile del carcere, in disuso dai primi anni Duemila: l’edificio che una volta ospitava le donne recluse a Udine è stato ripensato in un progetto durato più di quattro anni, che ha visto nascere nuove stanze per i colloqui in presenza, un’infermeria migliorata, una biblioteca e un’aula scolastica, ma anche un teatro e un campo da calcio, dal quale si attendono grandi partite. Un grande passo in avanti sulle libertà dei detenuti è poi rappresentato dalle stanze dell’affettività: a differenza delle love room, già presenti in molte carceri del Nord Europa, che consentono di avere rapporti fisici con i partner, queste permetteranno di mantenere i contatti con la famiglia all’esterno (partner e bambini) tramite visite in un ambiente meno controllato e più accogliente. Il progetto, che sta ancora giungendo a compimento, è stato presentato nella mattinata di ieri in via Spalato, alla presenza di molti membri della maggioranza comunale e dell’opposizione regionale. Chi ha spinto per il rinnovamento - La rinata casa circondariale è il risultato dell’impegno durato due mandati da parte dei Garanti dei detenuti - prima Franco Corleone, poi Andrea Sandra -, ma anche e soprattutto dell’associazione Icaro e della galassia di volontari e associazioni che operano in carcere, in stretta e “non scontata” collaborazione con la direzione. Durante la presentazione si è ricordata poi la figura di Maurizio Battistutta, primo Garante delle persone private della libertà personale del Comune di Udine e in prima linea già da prima del 2012, anno della sua nomina a larga maggioranza, nella lotta prodromica agli ammodernamenti che presto arriveranno a conclusione. Già da settembre dovrebbero essere operative le stanze per i colloqui in presenza, mentre per la nuova sezione di semilibertà e il teatro si dovrà attendere gennaio: quest’ultimo conterà un centinaio di posti e permetterà anche agli esterni di partecipare agli spettacoli. Manca un reinserimento in società - Nonostante la struttura abbia un nuovo volto, al suo interno restano ancora molti problemi. Lo stesso Corleone aveva dichiarato, introducendo la costruzione del teatro, che la riqualificazione poteva funzionare solo se si fosse risolto il sovraffollamento: oggi, infatti, non solo il personale soffre un grave deficit, ma i detenuti sono molti di più della capienza ed è difficile evitare le celle numerose. Soprattutto, se sappiamo che a livello nazionale le statistiche sulla recidiva si invertono con la presenza all’esterno di opportunità lavorative e sociali, chi battaglia per la rieducazione e il reinserimento è ancora lontano dalla vittoria: il Friuli Venezia Giulia, ad oggi, offre pochissime alternative per chi esce dal carcere. Le autorità presenti all’inaugurazione, come ha fatto notare ancora Corleone, “hanno fatto discorsi non rituali”, ma all’esterno “casa, lavoro e cittadinanza competono alla Regione e al Comune”, che dovranno trovare come supplirvi per garantire anche ai detenuti stranieri di non restare reclusi fino all’ultimo giorno. Perugia. Una seconda possibilità: 26 detenuti potranno cambiare vita grazie all’edilizia perugiatoday.it, 2 agosto 2025 Ventisei detenuti di Capanne, prossimi alla libertà o in possesso dei parametri per uscire dal carcere negli orari diurni, hanno la possibilità di un cambio di vita, una seconda possibilità per mantenersi senza commettere crimini, grazie ai corsi di formazione nel campo dell’edilizia dove cresce sempre di più la richiesta di personale professionale. E questo grazie al Protocollo firmato nel maggio 2024 tra il Nuovo Complesso Penitenziario Perugia “Capanne”, l’Udepe di Perugia, il CESF-Scuola edile di Perugia ed i rappresentanti delle Parti sociali del settore edile (Ance Umbria, CNA Umbria, Confartigianato imprese Umbria, Lega Coop Produzione e Servizi, Fillea CGIL Umbria, Filca CISL Umbria, Feneal UIL Umbria), che ha prodotto corsi di formazione professionale nel settore dell’edilizia anche attraverso il ricorso all’istituto del lavoro all’esterno e alle misure alternative alla detenzione hanno preso avvio nel mese di maggio. L’obiettivo degli interventi formativi professionalizzanti destinati ai detenuti del carcere di Capanne, è quello di contribuire al recupero sociale e professionale degli individui che hanno scontato una pena o sono ammessi al regime dell’articolo 21 dell’Ordinamento Penitenziario, che prevede la possibilità di uscire dal carcere durante il giorno per finalità lavorative. Il programma potrà contribuire inoltre a fornire risposta alle difficoltà derivanti dalla grave carenza di manodopera del settore delle costruzioni. La realizzazione dei nuovi percorsi formativi professionalizzanti -finalizzati all’inserimento lavorativo in imprese edili del territorio dei detenuti e delle detenute - prevedono un corso di muratura per 15 detenuti della sezione maschile, e un corso di finiture per 11 detenute della sezione femminile. Ora scatta il nuovo obiettivo: quello di trovare un posto di lavoro. Infatti, nei giorni scorsi si sono svolti gli incontri con le numerose imprese interessate ad assumere gli allievi in possesso dei requisiti per accedere alle pene alternative. Mentre nel settore femminile si sta lavorando con le associazioni del mondo cooperativo alla costituzione di una Cooperativa a cui le imprese del territorio potranno rivolgersi per subappaltare lavori di finitura nei propri cantieri. Treviso. Oltre le mura: un’esperienza al carcere minorile di Treviso iusve.it, 2 agosto 2025 Il 9 e il 10 luglio, un gruppo di studenti Iusve ha colto l’opportunità di recarsi presso l’Ipm di Treviso: un’esperienza di volontariato formativa e di forte impatto. Accompagnati dal responsabile e dal referente della Pastorale universitaria, don Matteo Chiarani e Luca Salaorni, noi studenti abbiamo avuto la possibilità di relazionarci con i detenuti in un contesto privo di pregiudizi, volto alla scoperta di una realtà che spesso resta nascosta agli occhi comuni. Tutti gli studenti Iusve si sono messi in gioco con empatia e creatività, proponendo attività mirate a costruire un clima di apertura, stimolare dinamiche di gruppo e abbattere le barriere - soprattutto quelle invisibili - che ci separavano. Non sono serviti grandi strumenti: un mazzo di carte, dei palloncini, semplici parole. Ma più di tutto, ciò che i ragazzi dell’IPM sembrano aver apprezzato maggiormente è stato il confronto: il confronto con noi, così diversi ma allo stesso tempo simili, la curiosità per le nostre storie e il desiderio di raccontare le proprie. A colpirci sono stati i volti, i gesti, gli sguardi di quei ragazzi con cui abbiamo condiviso alcune ore. C’è stato spazio per il gioco, il dialogo, lo scambio. E dietro ogni parola, ogni risata, si intravedeva un bisogno profondo: sentirsi ancora parte del mondo esterno. Sono stati, in un certo senso, momenti di normalità. È impossibile individuare un sentimento predominante: come per tutti gli adolescenti, anche all’interno dell’IPM convivono speranza, frustrazione, trepidazione. In apparenza sembrano dei “duri”, bambini cresciuti troppo in fretta - e in un certo senso lo sono. A tratti si percepiva la rabbia di trovarsi costretti in un luogo che non sentono loro, ma in cui comunque non sono finiti per caso. A sorprendere è stata soprattutto la rassegnazione dei più grandi, quasi credessero in un futuro già scritto. Eppure, nel gioco o in una battuta, riemergevano i loro occhi di bambini. È disarmante quanto sia facile riconoscersi in loro. Hanno le stesse paure che avevamo noi alla loro età, la stessa voglia di conquistare il mondo, di divertirsi, di conoscere. L’esperienza ha messo in luce il funzionamento di un sistema spesso travisato dalla narrazione mediatica e cinematografica: è stato un punto d’incontro con la realtà di questi ragazzi, delle loro storie e condizioni all’interno dell’IPM. Il valore dell’incontro è stato reciproco: per noi studenti, un’occasione per cambiare prospettiva; per i detenuti, l’opportunità di aprire una finestra sul mondo esterno. Forse è vero che tutti gli esseri umani sono stati creati uguali, ma nella corsa della vita non tutti partiamo dalla stessa linea di partenza. Gorizia. Il dibattito a Onde Mediterranee: “I Cpr come le carceri e i manicomi” di Luigi Murciano Il Piccolo, 2 agosto 2025 Il tema delle strutture per migranti accende il confronto in teatro: sul palco esperti e attivisti per una riflessione a più voci che è partita dall’eredità morale di Franco Basaglia. “Dove metto l’agitato, lo straniero, l’irregolare? La domanda sbagliata genera luoghi sbagliati”. Con questa provocazione si è aperto L’incontro “Dai diritti alle pene: manicomi, Cpr, carceri”, svoltosi l’altra sera al Nuovo Teatro Comunale di Gradisca nell’ambito di Onde e Lettere Mediterranee. L’appuntamento ha offerto una profonda riflessione sulle condizioni di vita nei luoghi di reclusione, partendo dall’eredità dello psichiatra Franco Basaglia per approdare alle criticità attuali. Che per la cittadina della Fortezza vuol dire, soprattutto, Cpr. Sotto lo sguardo simbolico di Marco Cavallo - la statua del cavallo azzurro simbolo della liberazione dai manicomi, installato in piazza Unità d’Italia a Gradisca per tutta la durata del festival - relatori e pubblico hanno ripercorso il filo rosso che lega passato e presente dell’esclusione. Il dialogo ha coinvolto esperti e attivisti, tra cui Massimo Cirri, Matteo Caccia, l’avvocato Andrea Sandra e Gianfranco Schiavone. Cirri e Caccia, autori del podcast “Basaglia e i suoi”, hanno ripercorso la rivoluzione psichiatrica degli anni Settanta-Ottanta, ricordando come la chiusura dei manicomi abbia rappresentato un punto di svolta nella cura delle malattie mentali. Tuttavia, come emerso durante il talk, il problema della marginalizzazione non è scomparso, ma si è semplicemente trasformato. “La lezione basagliana diceva che nessuna istituzione totale può essere riformata. Va smantellata. Eppure quel modello si è solo trasfigurato. I Cpr sono i nuovi manicomi, autoalimentano la marginalità invece di risolverla”. Sandra, Garante dei diritti dei detenuti di Udine, ha denunciato le condizioni disumane nelle carceri, dove la socialità è costretta in spazi inadeguati, pensati per due persone, che spesso ne ospitano quattro o cinque, in condizioni igieniche, sanitarie e climatiche impossibili”. Ha definito questa situazione un’afflizione contraria alla funzione rieducativa della pena, evidenziando l’urgenza di un cambiamento di paradigma. Inevitabili i parallelismi con la realtà dei Cpr. Schiavone, presidente dell’Ics - Ufficio Rifugiati di Trieste, ha ricordato una sentenza dell’Unione europea che ha dichiarato illegale la detenzione in quei “non luoghi”. “Eppure, questi centri non sono certo spariti - ha affermato - perché le persone recluse sono straniere, e quindi invisibili agli occhi di molti”. La sua testimonianza ha messo in luce la doppia ingiustizia subita da migranti e richiedenti asilo, trattati come corpi da contenere piuttosto che come persone da aiutare. “I manicomi facevano aumentare il numero dei “matti’, i Cpr, i Centri permanenti per i rimpatri di stranieri che vengono definiti “irregolari”, fanno aumentare il numero delle persone in condizioni di marginalità”, ha osservato, sottolineando come queste strutture continuino a riprodurre dinamiche di esclusione. L’incontro si è concluso con un appello a superare la logica del “dove metto questo?”, sostituendola con una domanda più umana: “Cosa posso fare per quella persona?”. Un invito a ripensare la società partendo dai diritti fondamentali, accompagnato dall’annuncio del prossimo viaggio di Marco Cavallo, che da Gradisca raggiungerà i Cpr di tutta Italia per simbolicamente aprirne le porte. Una serata intensa, che ha dimostrato come la lotta per i diritti e la dignità delle persone recluse sia ancora oggi una battaglia necessaria e urgente. Il vuoto dentro (e fuori) di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 2 agosto 2025 Il carcere imprigiona anche la vita affettiva dei reclusi. E la solitudine è pena aggiuntiva che non sembra interessi chi vive oltre le sbarre. Anche se ne “brutalizza” l’esistenza. Lo racconta in prima persona l’ex detenuto Gianluca. Queste sono le lettere che la giornalista Donatella Stasio e Gianluca si sono scambiati prima di scrivere L’amore in gabbia, edito da Castelvecchi. Gianluca è stato arrestato quando aveva 17 anni ed è stato detenuto per 11 anni. La sua è una storia di droga, di violenze. Ma è soprattutto una storia di solitudine. Ora fa l’imprenditore. Questo scambio di lettere fa ben capire perché la sua è una storia che merita di essere letta. “Caro Gianluca, ho ancora bisogno del tuo aiuto. Ho accettato di scrivere il libro sull’amore in gabbia, il diritto all’affettività e alla sessualità negata in carcere. Vorrei riprendere quel filo, annodarlo con altri per raccontare che cosa significhi, nella vita di un essere umano tenere in gabbia, insieme al corpo, anche la mente e il cuore, chiudere tutto a doppia mandata e buttare la chiave. Dentro, ma anche fuori dal carcere”. “Cara Donatella, se solo la mia storia fosse utile, in qualche modo, a risvegliare un sentimento da qualche parte a qualcuno, ne sarà valso il gioco. Negli anni, questa storia ha avuto talmente tante versioni tutte buone per proteggermi, che oggi il grande esercizio sta quasi nel ricordare la verità. È quello che sto facendo, ricordare con cura. E non sento nessun limite nel farlo. Anzi, sto colmando un grande vuoto fatto di paura e pregiudizi, silenzi e bugie, che è durato troppi anni”. “Caro Gianluca, capisco e sento empaticamente quello che mi scrivi ma dovrò incalzarti su tanti aspetti, che magari consideri noiosi, fastidiosi, e soprattutto dolorosi, forse troppo dolorosi. Ti prego di dirmi sempre se e quanto questo modo di procedere ti urta, ti ferisce, quando non ti senti pronto. Questo è il modo migliore di procedere nella giusta direzione”. “Cara Donatella, una parola che mi viene spesso in mente è brutalità. È strano come già così giovane mi sentissi brutalizzato dagli eventi della mia vita e della loro natura, e come l’incarcerazione fu il colpo di grazia, il fendente che mi decapitò. Oggi alle volte dico: “per fortuna altrimenti sarei morto”. Alla fine, in qualche modo, qualcuno o qualcosa di me, o in me, morì davvero. Ma forse per darmi una possibilità, quella di decidere se rinascere o meno. La vita in carcere è stata una specie di rituale fatto di privazione e abusi e quel dolore così denso che provavo mi diede fuoco. Lo ricordo bene. Tirare fuori questa roba: forse io posso aiutare te, ma tu puoi aiutare me. Magari è la costellazione giusta, il momento giusto per farlo”. L’indisciplina consapevole di Cenerentola secondo Punzo di Gabriele Rizza Il Manifesto, 2 agosto 2025 In scena la nuova creazione della Compagnia della Fortezza. La favola di Cenerentola scarta il mito della pura e semplice fantasia e poggia su pilastri di monumentale spessore: arte, scienza, conoscenza. Ne è convinto Armando Punzo che la mette al centro della sua ultima avventura teatral carceraria, allestendo un sontuoso apparato visivo, spalmato con perizia scenografica da consumato illusionista, nella grande spianata all’interno del carcere di Volterra. Il cortile della Fortezza medicea, già sede di labirintiche peregrinazioni, diventa ora una incandescente tavolozza pittorica, che abbraccia un po’ tutto il secolo breve: dalle impacchettature di un Christo e Jeanne-Claude alla metafisica di un De Chirico passando per l’action panting di un Pollock, l’astrattismo geometrico di un Malevic, il surrealismo di un Delvaux. È tutto un fiorire di avanguardie storiche attraversate da un Punzo in equilibrio su una bici di estrazione beckettiana o solcate dal suo passo di demiurgo alla Kantor, che indica e perlustra, sollecitando cadenze, uscite, incroci ai suoi attori detenuti. Il disegno di Punzo guida un tempo senza tempo in una fantasmagoria di appunti, combinazioni algebriche, esplorazioni, formule matematiche, intuizioni poetiche, sogni a occhi aperti, segreti e utopie, che incorniciano un potenziale immaginifico che assapora vette di piacere (per chi recita) e di complicità (per chi guarda). La panoramica Cenerentola orchestrata da Punzo, accetta la sfida del fragoroso e disperato vuoto dei nostri giorni, ritmata dagli accenti minimalisti di Andrea Salvadori e dalle fragorose acconciature stilistiche di Emanuela Dall’Aglio. Una Cenerentola mossa da un’ansia di “indisciplina consapevole”, che nel suo trasformismo, nel suo costruttivismo pirotecnico sembra preludere a un nuovo capitolo del trentennale lavoro di Armando Punzo a Volterra. Vivere e morire: la libertà non è mai astratta di Mauro Magatti Corriere della Sera, 2 agosto 2025 È giusto che ciascuno possa scegliere se e quando avere figli, così come è importante che si possa esprimere la propria volontà rispetto alla fine della vita. Tuttavia, la libertà individuale, da sola, non è sufficiente. Non si nasce né si muore in astratto, ma dentro un sistema di relazioni, servizi, strutture materiali e simboliche. Nascere e morire, venire al mondo e lasciarlo. Per secoli, le soglie fondamentali della vita sono state considerate eventi naturali, inscritti dentro ritmi biologici e regolati da culture stabili di matrice religiosa. In pochi decenni è cambiato tutto. Il combinarsi dell’innovazione tecnologica (si pensi, per fare l’esempio più banale, alla pillola) e dei mutamenti culturali fanno si che oggi la nascita e la morte non siano più vissute come eventi dati, ma come “fatti sociali”. Si “decide” se, quando e come mettere al mondo, spesso dopo lunghi percorsi di valutazione, attesa e progettazione. E cosi per il morire: si può essere tenuti in vita artificialmente, oppure affrontare la questione del fine vita tra scelte mediche, dibattiti etici, richieste di accompagnamento e di autodeterminazione. In questo scenario, l’elemento naturale, che pure resta, si ridefinisce in rapporto a una rete di dispositivi tecnici, norme giuridiche, pratiche sociali e aspettative soggettive Il che comporta un aumento della complessità, che si traduce poi in un sovraccarico di responsabilità individuali, sociali e istituzionali. Le grandi questioni demografiche che agitano il nostro tempo sono la concretissima ricaduta di questi cambiamenti profondi. E della capacita (o meno) di dare risposte adeguate. Nei Paesi sviluppati (in primis in Italia), la natalità è in costante calo. Non che le persone non desiderino avere figli. Ma farlo non bastano più l’istinto, l’amore o il caso. Servono tutta una serie di condizioni che vanno socialmente curate e rese disponibili: un lavoro stabile, una casa accessibile, servizi per l’infanzia, supporti relazionali e comunitari. E anche quando tutto questi elementi sembrano esserci, la scelta di diventare genitori è comunque esposta a incertezze e paure che rispecchiano l’instabilità del tempo presente. La stessa cosa vale per l’invecchiamento. E anche qui l’Italia è in testa alle classifiche. L’allungamento della vita è uno dei grandi successi della modernità. Ma ciò fa emergere nuove sfide. L’accanimento terapeutico, la medicalizzazione estrema, la solitudine degli anziani, il venir meno delle reti familiari e comunitarie hanno trasformato l’ultima fase della vita in un processo lungo, spesso disumanizzante. Di conseguenza nascono nuove domande: come accompagnare la vita fino alla fine in modo dignitoso, consapevole, umano? Quando e come può essere presa la decisone di porre fine alla propria vita? In questo quadro si inserisce la crescente attenzione alle cure palliative, ai percorsi di fine vita, alle richieste di autodeterminazione espresse da chi si trova in situazioni di sofferenza irreversibile. Anche qui, come per la nascita, la dimensione istituzionale, per quanto importante, non basta: occorre un contesto sociale e culturale che permetta di affrontare la morte non come una rimozione o una tecnica, ma come parte costituiva dell’esperienza umana, da vivere nel modo più degno. In entrambi i casi - nascere e morire - il tema della libertà individuale è centrale. È giusto che ciascuno possa scegliere se e quando avere figli, così come è importante che si possa esprimere la propria volontà rispetto alla fine della vita. Tuttavia, la libertà individuale, da sola, non è sufficiente. Non si nasce né si muore in astratto, ma dentro un sistema di relazioni, servizi, strutture materiali e simboliche. Se una donna non può contare su un sistema di asili, su un’abitazione dignitosa o su una rete di sostegno, la sua libertà di diventare madre sarà una libertà solo formale. Se una persona gravemente malata non ha accesso a cure palliative adeguate, a un accompagnamento psicologico o a un supporto familiare, la sua libertà di affrontare la morte è di fatto gravemente compromessa. Le leggi sono necessarie, ma non sufficienti. Servono investimenti adeguati nelle infrastrutture sociali: nei servizi pubblici, nella formazione degli operatori, in una cultura condivisa della cura, della responsabilità e della dignità della vita, in tutte le sue fasi. Occorre, cioè, la cura delle condizioni sociali che rendono sensato e possibile ciò che una volta veniva inscritto nell’ordine naturale. Cò significa che il modo in cui una società si rapporta alla nascita e alla morte oggi dice moltissimo della sua qualità etica e politica. Oltre che delle sue possibilità economiche. Definire la cornice dei diritti individuali è il primo passo. Ma occorre poi costruire le condizioni concrete che permettano a ciascuno di attraversare i passaggi fondamentali dell’esistenza in modo umano, accompagnato, riconosciuto. Oggi più che mai, occorre recuperare una visione integrale della vita, che tenga insieme libertà e responsabilità, individuo e società, diritto e cura. Solo così potremo affrontare con dignità e senso le grandi soglie dell’umano: venire al mondo e lasciarlo. Il fine vita, la dignità negata e la disobbedienza civile che cambia la legge di Filomena Gallo Il Domani, 2 agosto 2025 L’intervento della segretaria dell’Associazione Luca Coscioni, avvocata di Martina Oppelli, morta in Svizzera dopo tre “no” alla richiesta di suicidio assistito: “Si è vista negare il diritto all’autodeterminazione”. Depositata al Senato una proposta di legge di iniziativa popolare: “È un tema che riguarda tutte e tutti: non può essere lasciato alla forza residua di chi soffre”. Martina Oppelli è morta in Svizzera il 31 luglio 2025, dopo oltre vent’anni di convivenza con una forma avanzata di sclerosi multipla. Aveva chiesto per tre volte alla propria azienda sanitaria di accertare i requisiti per accedere, in Italia, al suicidio medicalmente assistito previsto dalla sentenza della Corte costituzionale n. 242/2019. Le richieste sono state tutte respinte, perché la sua condizione - completamente immobile e dipendente da terzi - non veniva ritenuta compatibile con il requisito del sostegno vitale. Eppure, la sentenza n. 135/2024 della stessa Corte ha chiarito che anche l’assistenza continuativa, i farmaci salvavita e dispositivi come catetere o macchina per la tosse costituiscono trattamenti di sostegno vitale. Anche un presidio rifiutato, se necessario per funzioni essenziali, è da considerarsi un trattamento in corso. Nonostante questo quadro giuridico, Martina Oppelli si è vista negare il diritto all’autodeterminazione. Abbiamo presentato opposizione legale e una diffida all’azienda sanitaria, ma la nuova valutazione medica con relazione e parere del comitato etico non è arrivata in tempo. “Non ho più tempo, le mie sofferenze sono diventate insopportabili”, ha detto nel suo ultimo video. Con l’aiuto di volontari dell’Associazione Soccorso Civile e il sostegno di 31 persone, ha intrapreso un viaggio lungo e doloroso per poter morire dignitosamente in Svizzera. Un atto di libertà, ma anche la denuncia di una grave ingiustizia. Prima della partenza, Martina Oppelli ha voluto depositare una denuncia-querela contro l’ASUGI presso la procura di Trieste, per due reati: rifiuto di atti d’ufficio e tortura. Si evidenzia nell’esposto che Martina è stata vittima di un trattamento inumano e degradante, costretta a convivere con un dolore estremo e con il continuo diniego all’unica via legale per porre fine alla propria sofferenza pur avendo le condizioni previste dalla sentenza Cappato del 2019 e chiarite nel 2024 con sentenza 135 della Corte costituzionale. La denuncia evidenzia una condotta istituzionale crudele, che ha ignorato evidenze cliniche e la dipendenza da dispositivi salvavita, abbandonandola senza alternative. Martina Oppelli ha subito non solo la malattia, ma anche il rifiuto di una commissione sanitaria che non ha mai riconosciuto la sua situazione alla luce delle pronunce costituzionali. Una mancata presa d’atto che rischia di essere letta come valutazione clinica non fondata in base all’evidenza provata. Chiedeva solo che fosse rispettato il suo diritto all’autodeterminazione, sancito dalla Costituzione e confermato dalla Corte nella sentenza Cappato. Il suo appello ai parlamentari, “fate una legge che abbia senso”, è oggi più attuale che mai. Con l’Associazione Luca Coscioni abbiamo depositato al Senato una proposta di legge di iniziativa popolare per legalizzare tutte le scelte di fine vita. Il testo è stato abbinato a una proposta della maggioranza che invece rischia di limitare diritti già acquisiti. Serve una legge giusta, che rispetti ogni persona, ogni dolore, ogni scelta. Il fine vita riguarda tutte e tutti: non può essere lasciato alla forza residua di chi soffre. Migranti. Cpr in Albania, riparte lo scontro tra diritti e propaganda di Flavia Perina La Stampa, 2 agosto 2025 L’emergenza immigrazione, quella con la grancassa, è ormai un ricordo abbastanza lontano perché la sentenza della Corte europea sui cosiddetti Paesi sicuri suoni come l’eco di un’altra epoca, una vecchia questione di principio irrisolta - chi ha il diritto di stabilire le regole delle espulsioni? - più che un verdetto legato alle cronache dell’attualità. Il sito del Viminale aggiorna quotidianamente il bollettino degli sbarchi, anche se nessuno lo guarda più. Nel 2025 sono stati poco più di 36mila, quota modesta rispetto alla stagione del grande allarme, il 2023, quando furono 90mila: una cifra utile alla destra, che aveva appena vinto le elezioni cavalcando quel tema, per decretare l’avvio di un nuovo corso. Fu subito stato d’emergenza nazionale, e poco dopo il protocollo Italia-Albania suggellò l’idea di rimpatri immediati dei clandestini, senza nemmeno una sosta sulle coste italiane. Due anni dopo si può dire senza tema di smentita che l’operazione è finita male. Ma insieme ad essa sembra affondato anche l’oggetto della contesa, quella sensazione di urgenza e catastrofe legata al tema immigrazione che ha dominato il dibattito italiano per un decennio. Oggi l’occupazione e il benessere del Paese hanno altri nemici, dall’apparenza ben più solida di qualche migliaio di clandestini comunque destinati al rimpatrio, anche se con le consuete lungaggini della procedura. Due guerre, i dazi americani, la probabile perdita dello 0,5 del Pil, impegni enormi da prendere per la difesa europea, un disastro umanitario a un’ora di volo da Roma che turba le coscienze dell’intero Occidente. Nessun sondaggio pone più l’immigrazione in cima alla classifica dei problemi che angosciano l’opinione pubblica. I tentativi dell’estremismo di rilanciare la nostra piccola guerra tra poveri con la bandiera della remigrazione sono finiti in convegno con qualche centinaio di mezzi matti in platea. La stessa destra non ha più alcun interesse a trasformare ogni sbarco in allarme rosso: ora che è al governo preferisce mostrarsi padrona delle cose. Senza l’impianto semi-carcerario di Gjader, insomma, gli italiani come ogni altro europeo avrebbero potuto attendere senza perdere il sonno l’entrata in vigore dei nuovi protocolli europei sulle espulsioni, che in teoria potrebbero “riabilitare” l’operazione del governo. Ma Gjader c’è. La sua costruzione va giustificata. È la scelta di un altro momento politico, di un’altra fase e di un’altra storia, e tuttavia è stato costruito, è stato aperto, si è provato a farlo funzionare con ostinazione in un andirivieni di disperati, e poi lo si è chiuso e di nuovo e riaperto e trasformato in Cpr fuori dai confini nazionali. Gjader è un guaio di cui non ci si libera, e il solo modo di esorcizzarne il fantasma di filo spinato è dire: colpa dei giudici (nazionali ed europei) se non funziona come dovrebbe. Questo è il punto a cui siamo. Un punto in cui l’emergenza sbarchi non è più in graduatoria ma se ne continua a litigare perché serve da bandiera identitaria delle parti, e forse da piattaforma polemica per il futuro scontro referendario sul tema della giustizia. I tifosi di destra e di sinistra sugli spalti diranno: è così che si fa politica, difendendo le proprie bandiere e infangando quelle degli avversari. Magari è vero. Ma resta il dubbio di una faida per inerzia, ultima coda della stagione in cui milioni di italiani furono indotti a credere che la mancanza di lavoro, di case, di ospedali e di asili, la precarietà e gli stipendi miserabili fossero colpa di quelli là, dei clandestini invasori. Migranti. Corte Ue: “Designazione Paesi sicuri deve essere valutata dai giudici” di Valentina Santarpia Corriere della Sera, 2 agosto 2025 Palazzo Chigi replica: “Si tratta di responsabilità politiche”. Uno Stato membro non può considerare un Paese sicuro se non offre una protezione sufficiente a tutta la sua popolazione. Palazzo Chigi: “La giurisdizione rivendica spazi che non le competono”. L’Associazione magistrati: “Dimostrato che nessuno remava contro il governo”. La designazione di un paese terzo come “paese di origine sicuro” deve poter essere oggetto di un controllo giurisdizionale effettivo. Lo ha deciso la Corte di Giustizia dell’Unione europea pronunciandosi sul ricorso contro la procedura di frontiera nei Cpr in Albania. Una sentenza che “sorprende” il governo italiano che nei mesi scorsi ha avuto uno scontro acceso con i giudici che bloccavano le procedure di rimpatrio: “Ancora una volta la giurisdizione, questa volta europea, rivendica spazi che non le competono, a fronte di responsabilità che sono politiche”. La definizione di “Paese sicuro” - La Corte Ue si è espressa su richiesta del Tribunale di Roma, che finora non ha riconosciuto la legittimità dei fermi disposti nei confronti dei migranti soccorsi nel Mediterraneo e trasferiti nei Cpr in Albania perché provenienti da Paesi ritenuti sicuri dal governo italiano, in particolare Egitto e Bangladesh. Il nodo centrale riguarda la definizione e l’applicazione del concetto di “Paese terzo sicuro” nell’ambito delle procedure accelerate per l’esame delle richieste d’asilo. I Paesi Ue possono esaminare più rapidamente le domande di protezione internazionale, anche alla frontiera, se provengono da cittadini di Paesi considerati sufficientemente sicuri. Il cittadino di un paese terzo - afferma la Corte - può vedere respinta la sua domanda di protezione internazionale in esito a una procedura accelerata di frontiera qualora il suo paese di origine sia stato designato come “sicuro” a opera di uno Stato membro. La Corte precisa che tale designazione può essere effettuata mediante un atto legislativo, a condizione che quest’ultimo possa essere oggetto di un controllo giurisdizionale effettivo vertente sul rispetto dei criteri sostanziali stabiliti dal diritto dell’Unione. Le fonti di informazione su cui si fonda tale designazione devono essere accessibili al richiedente e al giudice nazionale. Per i giudici di Lussemburgo uno Stato membro non può, tuttavia, includere un paese nell’elenco dei paesi di origine sicuri qualora esso non offra una protezione sufficiente a tutta la sua popolazione. L’indicazione della Corte mira a garantire una tutela giurisdizionale effettiva, consentendo al richiedente di difendere efficacemente i suoi diritti e al giudice nazionale di esercitare pienamente il proprio sindacato giurisdizionale. Peraltro, il giudice può, quando verifica se siffatta designazione rispetti le condizioni previste, tener conto delle informazioni da esso stesso raccolte, a condizione di verificarne l’affidabilità e di garantire alle due parti del procedimento la possibilità di presentare le loro osservazioni su tali informazioni supplementari. La Cassazione aveva invece stabilito che fossero i ministri a poter decidere se un Paese era effettivamente sicuro, sia pure in presenza di condizioni soggettive. La controversia - In Italia, la designazione di paesi terzi come “Paesi di origine sicuri” viene effettuata, dall’ottobre 2024, mediante un atto legislativo. In virtù di questo atto, il Bangladesh è considerato in Italia come un “Paese di origine sicuro”. In tale contesto, due cittadini del Bangladesh, soccorsi in mare dalle autorità italiane, sono stati condotti in un centro di permanenza in Albania in applicazione del protocollo Italia-Albania, da dove hanno presentato una domanda di protezione internazionale. La loro richiesta è stata esaminata dalle autorità italiane secondo la procedura accelerata di frontiera ed è stata respinta in quanto infondata, con la motivazione che il loro paese d’origine è considerato “sicuro”. I ricorrenti hanno impugnato la decisione di rigetto dinanzi al Tribunale ordinario di Roma, che si è rivolto alla Corte di giustizia per chiarire l’applicazione del concetto di paese di origine sicuro e gli obblighi degli Stati membri in materia di controllo giurisdizionale effettivo. Il giudice del rinvio sostiene che, contrariamente al regime precedente, l’atto legislativo dell’ottobre 2024 non precisa le fonti di informazione sulle quali il legislatore italiano si è basato per valutare la sicurezza del paese. Pertanto, sia il richiedente sia l’autorità giudiziaria si troverebbero privati della possibilità, rispettivamente, di contestare e controllare la legittimità di questa presunzione di sicurezza, esaminando in particolare la provenienza, l’autorità, l’affidabilità, la pertinenza, l’attualità, e l’esaustività di queste fonti. Le reazioni - Per Magistratura democratica “la Corte di Giustizia Ue dà ragione alla sezione immigrazione del tribunale di Roma sui Paesi sicuri”: “In base alla Direttiva non è possibile la designazione di un Paese come sicuro se alcune categorie di persone restano escluse dalla presunzione di sicurezza”, aggiunge Md. Secondo il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Cesare Parodi la sentenza dimostra che “nessuno remava contro il governo. Era stata proposta una interpretazione dai giudici italiani che oggi la Corte di giustizia dell’Unione europea dice essere corretta. È giusto saperlo, senza polemiche ma per amore di chiarezza”. Secondo la segretaria Pd Elly Schlein, “la Corte europea ha dato torto al governo italiano, chissà se anche stavolta diranno che gli abbiamo ispirati noi e che la Corte europea cerca solo di bloccare la riforma della giustizia in Italia. Si prendano la responsabilità di non aver letto le leggi italiane ed europee e di aver fatto una scelta illegale con centri inumani in Albania che calpestano i diritti fondamentali di migranti e richiedenti asilo, per cui hanno sperperato più di 800 milioni degli italiani”. Per Nicola Fratoianni, Avs, “la sentenza della Corte Europea di giustizia è un vero e proprio macigno sulle velleità del governo Meloni e della destra italiana di calpestare il diritto internazionale e il buonsenso. Erano pure arrivati a dire nelle aule parlamentari che i giudici che rispettavano la legge fossero degli eversori. Non era e non è affatto così”. Per Riccardo Magi, +Europa, la sentenza “è la Caporetto di Giorgia Meloni e dovrebbe mettere fine al progetto di una Guantanamo italiana per la deportazione di migranti”. Per Matteo Renzi (Iv) “Giorgia Meloni sta sprecando in Albania centinaia di milioni di euro del contribuente nonostante i giudici di tutto il Pianeta le stiano dando torto. È sempre più assurdo! Spero che adesso finalmente si fermi. Anche perché i prossimi giudici che si occuperanno del caso saranno i giudici della Corte dei Conti. E lì, come noto, i politici rispondono personalmente”. Per il Pd Francesco Boccia “oggi crolla la cartapesta della propaganda meloniana sull’immigrazione” Per il M5S “il fallimento dello spot Albania, costato un miliardo di euro ai cittadini italiani, adesso è conclamato”. Sandro Gozi, segretario generale del Partito democratico europeo, ritiene che “il protocollo Italia-Albania” sia un “flop anche giuridico, oltre che un accordo inutile e pericoloso”, costato “680 milioni dei contribuenti italiani”. Dura la reazione di palazzo Chigi: “Sorprende la decisione della Corte di Giustizia UE in merito ai Paesi sicuri di provenienza dei migranti illegali. Ancora una volta la giurisdizione, questa volta europea, rivendica spazi che non le competono, a fronte di responsabilità che sono politiche. La Corte di Giustizia Ue decide di consegnare a un qualsivoglia giudice nazionale la decisione non sui singoli casi, bensì sulla parte della politica migratoria relativa alla disciplina dei rimpatri e delle espulsioni degli irregolari. Così, ad esempio, per l’individuazione dei cosiddetti Paesi sicuri fa prevalere la decisione del giudice nazionale, fondata perfino su fonti private, rispetto agli esiti delle complesse istruttorie condotte dai ministeri interessati e valutate dal Parlamento sovrano”. Per il governo, si tratta di “un passaggio che dovrebbe preoccupare tutti” perché “indebolisce le politiche di contrasto all’immigrazione illegale di massa e di difesa dei confini nazionali”. E sottolinea come sia “singolare che ciò avvenga pochi mesi prima della entrata in vigore del Patto Ue su immigrazione e asilo, contenente regole più stringenti, anche quanto ai criteri di individuazione di quei Paesi”. Ma la vicenda potrebbe non chiudersi qui: palazzo Chigi assicura che il governo “per i dieci mesi mancanti al funzionamento del Patto europeo non smetterà di ricercare ogni soluzione possibile, tecnica o normativa, per tutelare la sicurezza dei cittadini”. Migranti. La Corte Ue ha solo detto no alle scorciatoie se si tratta di diritti umani di Danilo Paolini Avvenire, 2 agosto 2025 Sostenere che la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea “smonta” il cosiddetto modello Albania costruito dall’attuale Governo italiano (e per altro apprezzato da altri partner dell’Ue, nonché dalla stessa presidente della Commissione, Ursula von der Leyen) corrisponde a verità, ma non esaurisce i termini della questione. Una questione che va oltre le politiche migratorie di un singolo esecutivo nazionale e ha a che fare con principi di diritto superiori. Anzi precedenti, nel senso che vengono prima. Lo Stato di diritto, infatti, si fonda sul principio che la legge nasce per tutelare il singolo dal possibile arbitrio del potere costituito. Lo stesso potere che viene suddiviso proprio per scongiurare concentrazioni e abusi. Ce l’ha ricordato con la consueta chiarezza, appena qualche giorno fa, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella: “Da L’Esprit de lois di Montesquieu si ha consapevolezza, tradotta nelle Costituzioni democratiche, di come libertà e uguaglianza trovino garanzia nella distribuzione tra le istituzioni delle varie funzioni di potere e della decisiva importanza dei contrappesi e dei controlli”. Ecco, la Corte di giustizia Ue ha soltanto ribadito che, per rispetto dei diritti fondamentali di ciascuna persona, il giudice deve poter verificare se l’attribuzione di “Paese sicuro” stabilita con un atto legislativo sia valida per il caso specifico. Ed era ciò che sostenevano i tribunali italiani prima che il nodo approdasse, appunto, ai giudici di Lussemburgo e ogni decisione venisse sospesa in attesa di questo pronunciamento. Così come allora si era riacceso lo scontro tra la maggioranza politica e la magistratura associata, ieri da Palazzo Chigi e da destra sono fioccate le accuse sulla Corte europea. Si è parlato addirittura di invasione degli spazi di autonomia di Governo e Parlamento, di violazione della sovranità nazionale, di “umiliazione degli italiani” da parte di un’istituzione “dannosa”. In realtà la Corte ha esercitato una delle sue funzioni, ovvero quella di pronunciarsi sull’aderenza delle leggi nazionali al diritto dell’Unione. Nel dettaglio, i giudici europei non hanno negato la facoltà dei singoli Stati di definire “sicuro” il Paese di origine del migrante, ma hanno semplicemente osservato che, per essere considerato tale, quel Paese deve offrire “una protezione sufficiente a tutta la sua popolazione”. In non pochi luoghi del mondo, del resto, è possibile che, anche laddove la maggior parte della popolazione può considerarsi tutelata dalle leggi, gruppi di cittadini siano discriminati e messi a rischio a motivo della loro appartenenza etnica, della loro fede religiosa, del loro orientamento sessuale, delle loro idee politiche. E non convince la tesi secondo cui, in questo modo, c’è il pericolo che nessun Paese possa più essere considerato sicuro. Può esserlo per alcuni e non per altri, in base alle condizioni personali. Da qui la necessità di una verifica. Certo, occorrerà uno sforzo, anche da parte della magistratura, per accelerare le procedure e prendere in tempi accettabili le dovute decisioni. Ma la scorciatoia non è mai la strada migliore, quando si tratta di diritti umani. D’altra parte, esistono ancora Stati in cui chiunque può liberamente circolare, lavorare, studiare, esprimersi senza rischiare di essere ucciso, incarcerato o perseguitato per ciò che è. Però in genere da questi Stati non si fugge, tutt’al più ci si sposta per lavoro, studio o turismo. E non si chiede protezione internazionale allo Stato in cui si arriva. Il problema, semmai, è che questo tipo di Stati, quelli cioè dove la legge ancora svolge la funzione di tutelare il singolo (tutti i singoli) dagli eventuali abusi del potere, sono sempre di meno. La rarefazione dello Stato di diritto (e quindi delle democrazie sostanziali, non soltanto formali) è stata causata negli anni, per lo più, proprio dall’approccio muscolare dei fautori dei governi “forti”, che vorrebbero eliminare o ridurre all’irrilevanza le autorità sovranazionali, sognano giudici sempre allineati alle loro convinzioni e amano i parlamenti nazionali soltanto quando sono disposti a lavorare poco e magari “sotto dettatura”. Migranti. La linea del Governo: i Centri restano aperti. E Meloni sulla Cei: “Toni che respingo” di Marco Cremonesi Corriere della Sera, 2 agosto 2025 La premier non si ferma davanti alla sentenza della Corte europea e rilancia il ruolo dei Centri di Permanenza per il Rimpatrio. La risposta a monsignor Perego. Avanti tutta, senza incertezze. Palazzo Chigi e l’intero governo hanno preso non male ma malissimo il pronunciamento della Corte di giustizia europea. Nonostante la norma fosse stata scritta nello scorso ottobre tenendo conto delle precedenti sentenze, in Lussemburgo hanno messo paletti che rimettono in discussione le strategie di contrasto all’immigrazione che per il governo sono uno degli asset fondamentali. E infatti, una dura nota di risposta è arrivata a Palazzo Chigi a strettissimo giro, meno di un’ora e mezza dopo la diffusione della pronuncia della Corte. E la linea non cambia: “Il centro albanese rimane aperto e sarà pienamente utilizzato”. Oltre alla decisione della Corte, quel che proprio non è piaciuto a Giorgia Meloni è stato l’intervento dell’arcivescovo Gian Carlo Perego, presidente della Commissione episcopale per le migrazioni e della fondazione Migrantes. Quelle affermazioni dell’alto esponente della Cei sul “balletto di decreti e di leggi per utilizzare come hub, come centri di accoglienza e come Cpr le strutture costose realizzate in Albania termina con questa dichiarazione della Corte europea, che ormai non lascia margini ad altre, subdole manovre per allontanare il dramma di migranti in fuga dai nostri occhi e dalla nostra responsabilità costituzionale”. È il termine subdolo ad aver fatto saltare sulla sedia Giorgia Meloni che al Corriere specifica: “La politica migratoria del governo non è subdola”. Perché “subdolo, vocabolario alla mano, è chi maschera con altre apparenze intenti non lodevoli”. Mentre invece, prosegue la premier, “noi non mascheriamo l’intento di combattere le organizzazioni criminali o di far rispettare le leggi dello Stato italiano, obiettivi che consideriamo lodevoli”. Semmai, “subdoli sono ben altri comportamenti. Quindi respingo con fermezza le accuse di monsignor Perego e consiglio di avere maggiore prudenza nell’uso delle parole”. Un’amarezza, quella della premier, che nasce dallo sforzo anche personale messo in campo. La riunione dell’altro giorno con i partner di maggioranza, le recentissime visite in Tunisia e in Turchia - la premier giusto ieri era a Istanbul con il presidente Erdogan - sono il segno che le politiche contro l’immigrazione illegale sono ai primi posti dell’agenda di Giorgia Meloni e non soltanto in quella di Matteo Salvini. E così, l’imput - peraltro condiviso da tutti - è quello di procedere. Piantedosi lo ha spiegato subito: si tratta soltanto di “reggere per dieci mesi”, fino a quando non entrerà in vigore il Patto sulla migrazione e l’asilo, approvato dal Parlamento europeo e dal Consiglio. A quel punto, il riconoscimento dei Paesi sicuri - uno dei quattro pilastri dell’accordo - “sarà condiviso da tutti gli Stati membri e sarà assai più difficile da impugnare da parte della magistratura”, come invece è accaduto quasi sistematicamente dopo l’apertura del Centro per il rimpatrio (Cpr) di Gjadër in Albania. E dunque, la linea del titolare del Viminale, “noi continueremo a basarci sulla lista dei Paesi sicuri utilizzando il centro come Cpr, ma anche per i rimpatri con procedura accelerata”. Senza nascondersi che “alcuni magistrati continueranno a fare ostruzione e a impugnare i diversi provvedimenti”. Ma nella consapevolezza che il braccio di ferro ha un termine. In questo caso è in gioco “il principio dell’interesse nazionale che è insito nella definizione stessa di uno Stato”. Un interesse che non può essere “fondato sul sistema dell’accoglienza, con tutte le storture che abbiamo visto in questi anni, ma sul lavoro. E dunque sui decreti flussi”. Ricordando che questi ultimi “garantiscono l’accesso al nostro Paese a circa 500 mila persone”. Mentre gli “ingressi senza regole, le rotte balcaniche e i barconi sono quelli che ci regalano le bande di maranza, gli spettri nelle stazioni” e, non per ultimo, “l’abbassamento dei salari degli italiani e comunque dei lavoratori in regola”. Migranti. Le “memorie” con cui Francia, Germania e Bruxelles hanno sostenuto l’Italia di Claudio Cerasa Il Foglio, 2 agosto 2025 I due Paesi e la Commissione europea hanno appoggiato una tesi di fondo che è la stessa alla base della scelta italiana: cioè che la valutazione sulla sicurezza di un Paese terzo non può essere trasformata in una decisione giurisdizionale automatica. La sentenza con cui la Corte di giustizia dell’Unione europea ha affondato l’impianto italiano sui cosiddetti “paesi sicuri” non è solo una sconfessione del decreto legge Meloni del 2024. È, se si guarda con onestà intellettuale al dibattito che ha preceduto la decisione, una sconfessione di una linea condivisa da gran parte dell’Europa politica. O, per essere più precisi: la sentenza della Corte è uno schiaffo non soltanto al governo italiano, ma anche al governo tedesco, a quello francese e alla Commissione europea. Perché? Perché, nei mesi scorsi, questi tre attori istituzionali hanno presentato alla Corte memorie scritte in difesa del principio - oggi cassato - secondo cui uno stato può esercitare un proprio margine discrezionale nel definire i paesi terzi come sicuri, anche con atto legislativo, anche senza specificare pubblicamente tutte le fonti informative utilizzate, e anche prevedendo - caso per caso - alcune eccezioni. Il Foglio ha visionato queste memorie. Gli spunti interessanti sono molti. È bene dirlo subito: né la Germania, né la Francia, né la Commissione europea hanno difeso le modalità italiane in quanto tali. Ma hanno sostenuto una tesi di fondo che è la stessa alla base della scelta italiana: cioè che la valutazione sulla sicurezza di un paese terzo non può essere trasformata in una decisione giurisdizionale automatica. Deve restare una prerogativa politica, certo fondata su elementi oggettivi, ma inscritta nell’ambito della discrezionalità dello stato. Ecco perché la sentenza della Corte, in nome di un’estensione ambiziosa del principio del contraddittorio, rischia di compromettere - ben oltre l’Italia - la capacità degli stati di difendere le proprie politiche migratorie da un’ingerenza giudiziaria pervasiva. La memoria presentata dalla Commissione europea è chiara: nulla nella direttiva 2013/32 impedisce che la designazione dei paesi sicuri sia contenuta in un atto legislativo, come avvenuto in Italia. Anzi, l’articolo 37 parla di “normativa”, non di atto amministrativo, e la Commissione aggiunge che “la direttiva non osta all’adozione da parte degli stati membri di atti legislativi con cui vengono designati i paesi di origine sicuri”. Non solo: secondo la Commissione, il richiedente asilo e il giudice devono poter accedere alle fonti specifiche utilizzate per la designazione, ma ciò non implica che l’atto stesso debba contenere l’elenco delle fonti. È una distinzione cruciale, che la Corte ha ignorato. La Francia, nella sua memoria, ha difeso la possibilità di designare un paese come sicuro “con l’eccezione di talune categorie di persone chiaramente definite”. È un punto centrale anche questo, perché proprio questa flessibilità - sostenuta anche dal regolamento europeo del 2024 che entrerà in vigore nel 2026 - è stata negata dalla Corte, la quale ha preteso che la sicurezza valga per tutte le categorie e tutto il territorio nazionale. La posizione francese, insomma, è opposta a quella accolta dalla Corte: Parigi difende l’idea che si possa designare un paese come generalmente sicuro pur ammettendo che vi siano soggetti vulnerabili per i quali ciò non vale. Ancora più esplicita è la Germania, che - memore anche della propria prassi legislativa - ha scritto che “un legislatore nazionale può designare direttamente, con un atto legislativo primario, un paese terzo come paese di origine sicuro”. Berlino va oltre: dice che tale designazione “deve essere motivata”, ma che è compito del giudice nazionale valutare se, nel caso concreto, il paese sia effettivamente sicuro per la persona coinvolta. Nessuna censura all’atto legislativo in sé. La sintonia tra i tre è evidente. Francia e Commissione sottolineano il rischio di negare agli stati un margine di valutazione ragionevole. La Germania rivendica la possibilità di indicare i paesi sicuri per legge, nel rispetto del principio del contraddittorio e della tutela giurisdizionale effettiva. È una visione che la Corte oggi ha respinto, optando per un’interpretazione che, in nome della tutela dei singoli casi, svuota il concetto di “paese sicuro” di ogni efficacia pratica. In altre parole: la Corte ha detto agli stati che non possono più presupporre nulla. Devono esaminare ogni domanda senza potersi basare su una griglia di partenza più rapida per chi proviene da paesi ragionevolmente stabili. E lo ha fatto contro il parere - ripetiamolo - non dell’Italia populista, ma della Francia di Macron, della Germania di Scholz e della Commissione von der Leyen. Questa decisione non cambierà soltanto la legge italiana. Cambierà la cornice giuridica entro cui tutti gli stati europei dovranno muoversi, quando vorranno adottare strumenti di semplificazione delle procedure. La giurisprudenza ha parlato. Ma resta da capire se la politica vorrà subire o reagire. Perché il punto vero, alla fine, è uno: chi ha il diritto di decidere se un paese è sicuro o meno: un governo eletto o un magistrato in Lussemburgo? Migranti. Perché è corretto affidarsi ai giudici per valutare i Paesi d’origine di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 2 agosto 2025 La sentenza pubblicata ieri della Corte di Giustizia dell’Unione europea risponde ai quesiti postile dal Tribunale di Roma, da altri giudici e anche dalla Corte di Cassazione sulla interpretazione da dare alle norme europee relative alla nozione di “Paese di origine sicuro”, ai fini del giudizio di compatibilità delle norme italiane con quelle europee. Come si ricorda, le decisioni dei giudici di interpellare la Corte di Giustizia sono state nei mesi scorsi terreno di violente prese di posizione da parte di esponenti della maggioranza governativa. Il nocciolo fondamentale delle critiche governative stava e sta nella rivendicazione - il governo essendo “eletto” - del diritto di non essere impedito da giudici “non eletti”, di sviluppare la propria politica in materia migratoria. La Corte di Giustizia dà ragione ai giudici italiani e conferma il fondamento dei loro dubbi sulla compatibilità delle norme italiane con il diritto dell’Unione. Il commento subito uscito da Palazzo Chigi riprende l’argomento della invasione di campo, questa volta da parte dei giudici dell’Unione europea, in contrasto con le prerogative politiche di governo e parlamento. È l’argomento sempre più frequentemente utilizzato, non solo in Italia anche in campi del tutto diversi, per contrapporre la legittimazione derivante dal voto a quella che discende dalle leggi, dalle Costituzioni, dai Trattati dell’Unione europea, dal diritto internazionale. Si tratta di una posizione inaccettabile alla luce della Costituzione italiana (articoli 1, 11, 117). Essa mette in discussione la stessa appartenenza dell’Italia all’Unione europea, di cui peraltro l’Italia è Stato fondatore. Dai Trattati dell’Unione deriva il principio del primato del diritto dell’Unione nelle materie di sua competenza. Per assicurare l’uniforme interpretazione e applicazione di quel diritto in tutti gli Stati dell’Unione è istituita la Corte di Giustizia. Se nei vari Stati il diritto dell’Unione fosse interpretato e applicato in modi diversi è la stessa Unione che verrebbe meno. È dunque molto grave l’orientamento che esce da Palazzo Chigi di nazionalistico rifiuto della dimensione europea. La questione su cui si è pronunciata la Corte di Giustizia riguarda i criteri da utilizzare nel definire “Paese di origine sicuro” quello dei migranti che, giunti in Italia, chiedono di ottenere la protezione internazionale e di non essere espulsi verso Paesi che non garantiscono il rispetto dei fondamentali diritti umani. Il nodo della discussione della richiesta dei singoli migranti è spesso proprio quello della situazione nel Paese verso il quale rischiano di essere espulsi. La qualifica di sicurezza da riconoscere o negare al Paese verso il quale si ipotizza l’espulsione è di particolare importanza. Se si tratta di Paese sicuro si applica una procedura semplificata, che si basa su una forma di presunzione relativa di protezione sufficiente nel Paese d’origine, la quale può essere superata dal richiedente protezione solo se produce gravi motivi riguardanti la sua situazione personale. L’adozione della procedura semplificata, tra l’altro implica che in caso di diniego della protezione internazionale è possibile dar corso alla espulsione anche prima dell’esito della eventuale impugnazione della decisione. In Italia poi l’applicazione del sistema del trasferimento nei centri in Albania presuppone che si tratti di migranti soggetti alla procedura semplificata per la provenienza da Paesi qualificati come “sicuri”. Come ritenevano i giudici italiani che l’hanno investita della questione, la Corte di Giustizia ha affermato che la “non sicurezza” di uno Stato va ritenuta non solo quando essa riguarda parti del suo territorio, ma anche quando concerne categorie di persone. Gli Stati dell’Unione possono stabilire, anche con lo strumento della legge, un elenco di Paesi di origine sicuri, a condizione che tale designazione possa essere oggetto di un controllo giurisdizionale. Ad ogni singolo migrante richiedente protezione internazionale deve essere garantito un efficace ricorso al giudice. Per essere efficace, l’accesso al giudice deve assicurare la conoscenza dei motivi per i quali un Paese è stato ritenuto sicuro. E anche il giudice deve esserne portato a conoscenza e deve poter considerare fonti di informazione ulteriori rispetto a quelle utilizzate dal governo nel formare la sua lista. Se il giudice conclude che non è da riconoscere la qualità di Paese di origine sicuro, la conseguenza, richiamata dalla Corte, è che il margine di discrezionalità che spetta agli Stati membri dell’Unione “non incide sull’obbligo di ogni giudice nazionale di garantire la piena efficacia delle disposizioni (della normativa europea - direttiva 2013/32), disapplicando all’occorrenza di propria iniziativa, qualsiasi disposizione del diritto nazionale, anche posteriore, che sia contraria a una disposizione di tale direttiva produttiva di effetti diretti, senza dover chiedere o attendere la previa rimozione di tale disposizione dal diritto nazionale in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale”. È questo ciò che ora i giudici italiani (e quelli di tutti gli Stati membri dell’Unione europea) sono tenuti ad osservare, anche prima che intervenga una modifica della legislazione messa in linea con le norme europee, nella interpretazione che ne ha dato la Corte di Giustizia. Migranti. La Corte di Giustizia Ue boccia il governo Meloni e i suoi “trucchi” sui Paesi sicuri di Gianfranco Schiavone L’Unità, 2 agosto 2025 Un Paese di origine è sicuro se lo è per tutti, ha chiarito la Cgue, e l’ultima parola spetta al giudice. Spazzato via l’escamotage delle “eccezioni” utilizzato dall’esecutivo per includere casi come l’Egitto. Il 1° agosto 2025 la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (Cgue), ha pubblicato l’attesa sentenza nelle cause riunite C-758/24 [Alace] e C-759/24 [Canpelli]. Come noto, la vicenda ebbe inizio con il trasferimento nel centro di Gjader in Albania di un gruppo di cittadini bengalesi cui la domanda di asilo fu rigettata per manifesta infondatezza il 17 ottobre 2024 dopo un esame sommario condotto in poche ore, applicando la cosiddetta “procedura accelerata di frontiera” in ragione della loro provenienza da un paese di origine che il Governo italiano aveva qualificato come “di origine sicuro” tramite un decreto legge. Liberati dal trattenimento e rientrati in Italia a seguito della decisione del Tribunale di Roma-sezione specializzata per l’asilo che aveva ritenuto illegittima l’applicazione della procedura accelerata di frontiera in Albania e il loro trattenimento nel centro, i ricorrenti presentarono ricorso avverso il diniego della loro domanda di asilo dinanzi al Tribunale ordinario di Roma, il quale sospese il procedimento chiedendo alla CGUE di esprimersi sulle importanti questioni pregiudiziali su cui ora la Corte si è ora pronunciata. Non si tratta di un contenzioso tra i tanti, ma di una decisione le cui ricadute politiche sono di estrema rilevanza, dal momento che il Governo italiano aveva coltivato con estrema determinazione la propria scelta di aprire in un paese terzo (Albania) un centro di detenzione dove condurre il maggior numero possibile di persone salvate in acque internazionali e che chiedevano asilo all’Italia, dilatando a dismisura la nozione di paese di origine sicuro in modo da farvi rientrare quanti più richiedenti asilo possibile e nello stesso tempo cercare di limitare il controllo giurisdizionale sulle decisioni relative alle domande di asilo. Nella sua difesa dinnanzi alla CGUE erano due le tesi principali del Governo italiano: la prima è che fosse possibile qualificare un paese di origine come sicuro inserendo delle eccezioni per categorie di persone (ad esempio oppositori politici, minoranze etniche, persone con diverso orientamento sessuale) e che tali eccezioni potessero anche arrivare a un numero indefinito. Un approccio che mirava a svuotare di ogni senso la stessa nozione giuridica di paese sicuro in modo generale. Tali forzature erano state stigmatizzate dall’avvocato generale della CGUE che aveva proposto alla Corte un’interpretazione della normativa vigente in materia di paesi di origine sicuri (la Direttiva 2013/32/UE) secondo la quale era ammissibile qualificare come sicuro un paese di origine del richiedente se ciò comportava “circoscrivere le eccezioni personali a un numero molto limitato di persone”. La Corte non ha accolto questa tesi e ha scelto invece l’interpretazione più rigorosa ritenendo che l’art.37 della vigente Direttiva “osta a che uno Stato membro designi come paese di origine sicuro un paese terzo che non soddisfi, per talune categorie di persone, le condizioni sostanziali di siffatta designazione, enunciate all’allegato I a detta direttiva”. In altre parole nessuna eccezione per categorie di persone è possibile. La tesi della legittimità delle eccezioni, specie se plurime e rivolte a molte e diverse categorie di persone, viene dunque spazzata via, e con essa la legittimità stessa della designazione attuale dei paesi di origine sicuri previsti dal DL 158/2024. Non si potrà più sostenere, ad esempio, che l’Egitto è un paese di origine sicuro salvo che per chi dissente dal regime in carica, ovvero, potenzialmente, qualunque cittadino ogni giorno. Quasi tutti i paesi qualificati come di origine sicuri con il DL 158/2024 non lo sono dunque affatto per contrasto con il diritto dell’Unione. La costruzione tenacemente portata avanti dal Governo italiano crolla e l’applicazione della nozione di paese di origine sicuro dovrà essere radicalmente rivista, salvo andare incontro a nuove censure di legittimità. La CGUE conferma la possibilità che uno Stato membro dell’Unione stabilisca una lista di paesi di origine sicuri mediante un atto avente forza di legge ma deve garantire un “accesso sufficiente e adeguato alle fonti di informazione (…) sulle quali si fonda tale designazione. Accesso che deve, da un lato, consentire al richiedente protezione internazionale interessato, originario di tale paese terzo, di difendere i suoi diritti nelle migliori condizioni possibili” e deve parimenti consentire al giudice “di esercitare il proprio sindacato su una decisione concernente la domanda di protezione internazionale”. Il giudice dunque ha pieno potere di valutare, in relazione al caso concreto che gli viene sottoposto, la legittimità della designazione di paese sicuro nel senso di valutare se rispetti i criteri giuridici previsti dal diritto europeo. Nell’effettuare tale valutazione può ovviamente avvalersi di fonti plurime e diverse da quelle seguite dall’Amministrazione “a condizione, da un lato, di accertarsi dell’affidabilità di tali informazioni e, dall’altro, di garantire alle parti in causa il rispetto del principio del contraddittorio”. Chiunque, al di là dei tecnicismi giuridici, è in grado di comprendere l’importanza di ciò che la CGUE afferma: ovvero che un Governo non può arbitrariamente decidere che un paese di origine di una persona che chiede asilo diviene sicuro se ciò serve alle finalità politiche del momento, ma che tali designazioni consistono in procedure che devono rispettare i criteri giuridici fissati dalla norma, e che il giudice non è il notaio del potere esecutivo bensì è chiamato a verificare la legittimità delle scelte dall’Amministrazione in relazione all’ordinamento. Al di là della specifica e complessa materia del diritto d’asilo, si tratta di principi elementari dello stato di diritto in sé. È inquietante leggere la scomposta reazione del Governo italiano contenuta in un comunicato stampa che, con un linguaggio oramai trumpiano, aggredisce anche la Corte di Lussemburgo (dopo averlo fatto con la magistratura italiana “oggetto, in questi mesi, di pesanti attacchi pubblici per l’esercizio della loro funzione”, come ha ricordato ieri l’Anm) sostenendo che la giurisdizione europea “rivendica spazi che non le competono, a fronte di responsabilità che sono politiche” ostacolando con il suo operato “le politiche di contrasto all’immigrazione di massa e di difesa dei confini nazionali”. È la rivendicazione, dal tenore un po’ eversivo, di un potere che si vuole senza regole, libero di fare ciò che si vuole. L’impatto della sentenza della CGUE riguarda in via generale tutti i casi dei richiedenti asilo sottoposti alla procedura accelerata di frontiera perché provenienti da paesi cosiddetti sicuri, sia che siano trattenuti, sia che si trovino nelle ordinarie strutture di accoglienza, ma è particolarmente evidente sull’attuazione del Protocollo italo-albanese. Il centro di Gjader rimarrà vuoto dei richiedenti asilo che in quella struttura il Governo italiano aveva la tenace intenzione di deportare, realizzando il primo esperimento europeo di delocalizzazione in un paese esterno all’Ue dell’esame delle domande di asilo. Finora solo un’ala apposita dello stesso centro rimane aperto con funzioni di CPR nel quale sono rinchiuse appena una manciata di persone. Tuttavia, anche quella parte dell’immensa struttura non può rimanere attiva per le ragioni che ho indicato su queste pagine il 25 giugno scorso a seguito del rinvio alla stessa CGUE operato dalla Cassazione (Decisione n. 23105-25) la quale, con ottime ragioni, interroga la Corte Europea per sapere se sia possibile, per il diritto UE, allestire e gestire una struttura di detenzione amministrativa per il rimpatrio fuori dall’Unione in un paese extra UE. Il Governo italiano, sempre nel comunicato scomposto diramato ieri, sostiene che “è singolare che (la sentenza) avvenga pochi mesi prima dell’entrata in vigore del nuovo Patto UE su immigrazione e asilo contenente regole più stringenti quanto ai criteri di individuazione di quei Paesi” (di origine sicuro) fingendo di dimenticare che la CGUE giudica sul diritto vigente, non su quello futuro. Sembra così quasi ammettere che sapeva di non poter fare quel che ha fatto. Che si potrà farlo in futuro è quanto mai dubbio; il nuovo Regolamento (EU) 2024/1328 sulle procedure di asilo, prevede in effetti che la designazione di paese terzo sicuro possa essere fatta anche “con eccezioni per determinate parti del suo territorio o categorie di persone chiaramente identificabili” (art. 61 par.2) ma sul punto valgono le osservazioni già fatte dall’avvocato generale della CGUE, ovvero che l’eccezione, anche laddove fosse possibile (e oggi non lo è) non può portare a snaturare la nozione di base e deve rimanere estremamente circoscritta. Infatti anche il nuovo Regolamento è chiaro nel precisare che la nozione di paese di origine sicuro può essere applicata solo se “sulla base della situazione giuridica, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che non ci sono persecuzioni (…) né alcun rischio di danno grave (art. 61 par.1)”. Un Paese il cui ordinamento non sia democratico non potrà in nessun caso essere legittimamente inserito nella lista - che sia quella comune europea o quelle stabilite a livello nazionale dai singoli stati, poco importa - dei paesi di origine sicuri. Se anche ci trovassimo oggi nel nuovo regime normativo, le designazioni fatte dal Governo italiano sarebbero probabilmente in contrasto anche con il nuovo diritto UE. Cassese: “Quella della Corte di giustizia europea sui migranti è una sentenza inutile e suicida” di Ruggiero Montenegro Il Foglio, 2 agosto 2025 Il professore e giudice emerito della Corte costituzionale: “La sentenza sui migranti rischia di rendere l’Unione europea una babele dei diritti”. “È una sentenza inutile. E suicida perché sembra affermare che l’Ue non è un ordine giuridico unitario, ma una babele di diritti”, dice al Foglio il professore Sabino Cassese. Il giudice emerito della Corte costituzionale commenta la sentenza della Corte di giustizia europea che ieri ha assestato un altro colpo al modello Albania e alla politica migratoria del governo. Secondo Palazzo Chigi si tratta di un’invasione di campo. Meloni ha accolto la notizia “con sorpresa”, mentre era in Turchia per un vertice con il presidente turco Recep Tayyip Erdogan e con il primo ministro del governo di unità nazionale libico, Abdulhamid Mohammed Dabaiba in cui si è parlato proprio della gestione dei flussi migratori. Professore, ci spiega cosa hanno deciso i giudici? “Hanno stabilito, con la sentenza del 1° agosto, che uno Stato membro dell’Unione europea può decidere anche con atto legislativo se un paese di origine di un immigrato sia sicuro. Ha però anche stabilito che qualsiasi giudice nazionale può controllare se tale decisione legislativa sia corretta. In terzo luogo, ha deciso che il legislatore deve motivare la sua decisione indicando le fonti di informazione che hanno consentito di stabilire che il paese di origine è sicuro e che il giudice può a sua volta valutare la sicurezza di quel Paese attingendo ad altre informazioni”, risponde Cassese. “Infine - prosegue il professore - ha stabilito che un paese di origine può essere definito sicuro solo se lo è per tutte le categorie di persone, ma ha riconosciuto che il Regolamento del 2024, che entrerà in vigore nel 2026, stabilisce il principio opposto e che l’Ue può anticiparne l’attuazione, come la Commissione ha già proposto di fare”. Un quadro che presenta alcune contraddizioni. Quali sono le criticità di questa sentenza? “La direttiva 32 del 2013, all’articolo 37, stabilisce che gli stati membri possono adottare una ‘normativa’ per designare ‘a livello nazionale’ i paesi di origine sicuri. La sentenza della Corte non tiene conto per nulla dell’espressione ‘a livello nazionale’, che implica un giudizio svolto da una sola autorità centrale”, spiega il professore. “I giudici non possono decidere a livello nazionale in quanto ciascun giudice potrebbe decidere in modo diverso. Inoltre, la direttiva fa riferimento a una ‘normativa’: con questo termine indica un’autorità che ha potere normativo, non giurisdizionale, mentre la Corte di giustizia lascia al singolo giudice il potere ultimo di decisione. L’assenza di attenzione per le due espressioni ‘a livello nazionale’ e ‘normativa’ è tanto più singolare in quanto la sentenza fa un esame minuzioso delle parole della direttiva comunitaria, tralasciando invece le implicazioni importanti che le parole ‘normativa’ e ‘a livello nazionale’ comportano”. Cosa comportano? Quali sono gli effetti che questa sentenza può produrre? “Così facendo, la Corte non tiene conto né del fatto che, a quel punto, ogni giudice adito può giungere a conclusioni diverse da altri giudici, né del fatto che i giudici non necessariamente sono attrezzati per svolgere una complessiva valutazione di sicurezza di un ordinamento straniero, che richiede la conoscenza del suo diritto e delle prassi applicative, tanto più difficili da verificare in quanto va anche accertato se la sicurezza o insicurezza del paese riguarda singole categorie di persone”. La Corte è andata oltre il ruolo che dovrebbe svolgere? “La Corte di giustizia ignora che l’obiettivo della direttiva è distinguere in via preliminare tra i richiedenti asilo che hanno buone chance di protezione e quelli che ne hanno meno, perché provengono da paesi generalmente sicuri. Agli uni e agli altri è garantito un esame della domanda e il diritto al giudice, ma per impedire la libera circolazione di chi probabilmente sta abusando del diritto, gli Stati membri possono trattenere i secondi durante la decisione sulla protezione e velocizzare il rimpatrio. La decisione della Corte vanifica questo obiettivo, favorendo la libera circolazione nell’Ue di chi abusa dell’asilo”. Cosa cambia ora? I giudici avranno più potere? “La Corte stabilisce che i singoli giudici possono tener conto di altre informazioni da essi stessi eventualmente raccolte: un contributo allo sviluppo del diritto comparato nei paesi dell’Unione o una nuova babele?”, si domanda Cassese. Cosa comporterà questo per il nostro paese? “La Corte di giustizia chiede di introdurre in Italia un nuovo principio costituzionale, prevedendo un obbligo di motivazione delle leggi”. Professore, ci spieghi meglio. “Se l’atto legislativo che designa il Paese sicuro deve essere motivato e assoggettato al controllo delle condizioni sostanziali da parte di ‘qualsiasi giudice nazionale’, si apre la porta alla disapplicazione della norma nazionale da parte dei giudici, senza passare attraverso un controllo di costituzionalità e quindi attraverso un’unica autorità giurisdizionale”. Qual è, in conclusione, il suo giudizio? “La Corte di giustizia dà mano libera a ciascuna corte nazionale di stabilire se un paese è sicuro oppure no. Apre così la strada all’affermazione di una pluralità di diritti, tanto numerosi quanti sono i giudici. D’ora in poi, per un tribunale un paese potrà essere sicuro, per un altro no; una certa categoria di persone, anche numericamente molto limitata, potrà considerarsi protetta nel suo paese, per un altro no, con la conseguenza che l’intero paese non sarà sicuro e tutti i richiedenti da esso provenienti potranno circolare liberamente nell’area Schengen. Se la Corte di giustizia voleva mantenere il principio dell’unità del diritto, è riuscita a ottenere l’opposto. Si tratta - conclude Cassese - di una sentenza suicida perché sembra affermare che l’Ue non è un ordine giuridico unitario, ma una babele di diritti. Infine, una sentenza inutile sia perché ora dovrà pronunciarsi la Cassazione italiana sia perché dal 2026 entra in vigore la nuova disciplina europea che prevede la sede europea per definire i paesi sicuri”. Ora è meno “sicuro” anche il nuovo Patto asilo e migrazione di Agostina Latino Il Manifesto, 2 agosto 2025 La sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 1° agosto 2025, che affronta questioni pregiudiziali relative all’applicazione della Direttiva 2013/32/UE sulla protezione internazionale, in particolare riguardo al concetto di “Paese di origine sicuro”, segna un punto di svolta nel dibattito giuridico e politico. La sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 1° agosto 2025, che affronta questioni pregiudiziali relative all’applicazione della Direttiva 2013/32/UE sulla protezione internazionale, in particolare riguardo al concetto di “Paese di origine sicuro”, segna un punto di svolta nel dibattito giuridico e politico sul nuovo Patto Europeo sull’Asilo e la Migrazione sotto (almeno) tre profili. In primo luogo, impone un rafforzamento del controllo giurisdizionale in quanto stabilisce che la designazione di un “Paese di origine sicuro” da parte di uno Stato membro, anche se sancita per legge, deve essere soggetta a controllo giurisdizionale effettivo, sicché è appannaggio dei giudici nazionali valutare la fondatezza delle fonti informative su cui si basa tale designazione. In seconda battuta, la Corte ribadisce l’obbligo di trasparenza e accessibilità, in quanto dispone che le fonti utilizzate per dichiarare un Paese “sicuro” devono essere verificabili e affidabili nonché nella piena disponibilità del richiedente asilo e del giudice, limitando, di fatto, l’uso politico delle liste di Paesi sicuri come strumenti di rimpatrio accelerato. In terzo luogo, si fissano limiti alla presunzione di sicurezza: un Paese non può essere considerato “sicuro” se non garantisce protezione effettiva a tutta la popolazione, incluse minoranze e gruppi vulnerabili. Se, nell’immediato, l’impatto della sentenza mette in discussione il protocollo Italia-Albania, che prevede il trasferimento dei migranti in centri esterni sulla base di tale presunzione, in una proiezione su un futuro prossimo esso determina un riposizionamento del Patto Comune di Asilo e Migrazione della Ue. La sentenza anticipa, di fatto, l’entrata in vigore, prevista per giugno 2026, del nuovo Regolamento che stabilisce una procedura comune di protezione internazionale nell’UE 2024/1348, che consentirà eccezioni per categorie vulnerabili, imponendo, fino ad allora, un’interpretazione restrittiva, rafforzando il primato del diritto dell’Unione e la tutela dei diritti fondamentali. In particolare, l’evoluzione del Patto Comune di Asilo, formalizzato nella sua nuova versione tra il 2023 e il 2026, si colloca all’intersezione fra normative sovranazionali, istanze costituzionali degli Stati membri e giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea. In tale contesto, la sentenza del 1° agosto 2025, faro nella nebbia migratoria, rappresenta un momento paradigmatico per la ridefinizione dei limiti e delle garanzie del sistema europeo di protezione, individuando principî non derogabili della protezione internazionale, affinché il nemo expellendus in terrorem non sia solo retorica, ma prassi. La pronuncia della Corte, nel sancire l’obbligo per gli Stati membri di non considerare automaticamente “sicuro” un Paese terzo sulla base di una mera designazione normativa, ridisegna un’infrastruttura normativa idonea alla tutela delle persone migranti, chiarendo che la “presunzione di sicurezza”, finora elemento cardine per l’accelerazione delle procedure d’asilo e dei trasferimenti, deve essere supportata da un’analisi concreta e trasparente, soggetta al vaglio giurisdizionale. La sentenza obbliga dunque il Patto a confrontarsi con il principio di effettività del diritto alla protezione internazionale, quale norma imperativa dell’ordine giuridico europeo, sancendo che i meccanismi di redistribuzione e di gestione dei flussi migratori non possono prescindere da garanzie individuali, soprattutto per soggetti vulnerabili, come minori non accompagnati e richiedenti con particolari esigenze mediche o psico-sociali. Nel quadro del Patto, ciò implica il superamento della concezione gerarchica delle liste in favore di un approccio multilivello, che impone il rispetto del principio del non-refoulement, in particolare, e della Convenzione di Ginevra, in generale, riflettendo nello specchio delle libertà europee valori condivisi come dignità, equità e protezione. La sentenza, baluardo della certezza normativa e presidio dell’accesso equo alla protezione, se da un lato contribuisce a frammentare l’uniformità politica delle liste, riaffermando la centralità dell’individuazione caso per caso e dunque smontando il pilastro tecnico del Patto sull’Asilo, dall’altro ne impone una lettura conforme ai diritti fondamentali sanciti dalla Carta di Nizza e dal Trattato sull’Unione europea, sicché il Regolamento che stabilisce una procedura comune di protezione internazionale nell’Ue in fase di implementazione dovrà garantire spazi normativi per deroghe protettive, preservando l’equilibrio tra sovranità degli Stati e obblighi derivanti dall’appartenenza all’Unione.