Esecuzione penale e vita reale: rimettere la persona al centro di Daniela Piana Il Dubbio, 29 agosto 2025 Si costruiscono muri per separare un “di qua” e un “di là”. Per dare materia a una differenza. Differenza di funzionare, di gestire, di governare, di rispondere a norme, regole, aspettative, prassi. Si costruiscono muri. La vita non ne ha, ma ne trova. La persona che ha trascorso un periodo di limitazione della libertà personale si troverà a un certo punto dall’altra parte e lì troverà le condizioni nelle quali costruire il suo vivere quotidiano. Condizioni largamente non studiate con metodi scientifici che comparino fra distretti, territori, realtà. Eppure, quelle condizioni quelle culture quelle aspettative quelle capacità faranno molta differenza. Ottenere un prestito? Aprire una azienda? Comprare casa? Avere un lavoro? Laurearsi? Cosa accade davvero quando si apre il varco dal di qua verso il di là? Si costruiscono muri. La vita non ne ha, ma ne trova. Li incontra e si piega, si adatta, si trasforma. Di qua, di là, un noi sotteso, come se lo si pensasse linfa sotterranea di una normatività sociale, di un dover essere diffuso, di una cultura dei diritti e del diritto che permea una comunità politica e ancor più caratterizza una comunità politica legata ad un territorio. Si dibatte molto di carceri. Molto si dibatte di esecuzione penale e di messa alla prova. Non si intende qui entrare nel merito del dibattito normativo né di quello mediatico. Certo, quando, in sistema politico, la giustizia penale diventa spazio polarizzato e polarizzante, accade qualcosa di grave. Perché se vi è un ambito di esercizio del potere in cui una democrazia avrebbe bisogno di una trasversale, condivisa, non conflittuale, solida visione, è proprio quello dell’esercizio dell’azione penale. Essa è la massima espressione di un potere che entra nello spazio delle libertà individuali. Per questo dall’habeas corpus in poi si dispiega nella storia delle istituzioni del costituzionalismo la tensione a bilanciare e contro- bilanciare tale esercizio di garanzie controlli responsabilità istituzionali. La polarizzazione del discorso pubblico e politico sulla giustizia non è un fenomeno italiano. È un fenomeno che attraversa le democrazie, che ne indebolisce la capacità di creare fiducia fra cittadini e istituzioni. Perché la giustizia non è solo “una fra le tante funzioni” di una società democratica. La giustizia è la funzione che garantisce le regole e che assicura che ci si possa aspettare la qualità della “vita” delle regole stesse. È la vita delle regole che fa la differenza per le persone. Quindi la giustizia è funzione fondamentale per tutte le altre funzioni. Eppure, nel dibattito sulle carceri e sulla esecuzione penale, pur accesissimo, manca una conoscenza empirica, rigorosa, basata attentamente su dati ed evidenze, raccolti con metodi oggettivi che parli in chiaro dei fatti che riguardano il dopo. Una conoscenza che permetta di capire in modo condiviso e con un linguaggio comune - ne abbiamo tanto bisogno! - il fluire della vita dentro e fuori dagli istituti penitenziari e dalle istituzioni di messa alla prova. Dopo i muri, aperti i varchi, passati i periodi di pena, cosa accade? Rispondere a questa domanda in modo rigoroso ed oggettivo permette anche di capire quali capacità, competenze, speranze siamo in grado, con le politiche, le azioni, i fatti, di generare prima dei muri. Un fluire della vita che assai poco riesce a trovare descrizione nelle categorie giuridiche. Sono evidenze sociali ed economiche quelle di cui abbiamo bisogno. Non sono difficili da raccogliere. Occorre solo dare loro un quadro strutturato e poi assicurare che siano analizzate e comprese in modo tale che chi prende le decisioni di policy possa avvalersene per fare politiche e strategie aventi la persona al centro, la persona e i suoi contesti di vita, di qua, di là, attraverso i muri. Ad esempio, quanto accade nella comunità politica, culture della responsabilità, aspettative, pregiudizi e giudizi, non è irrilevante rispetto alla concreta, fattibile, sostenibile ed efficace apertura della porta del muro. La persona che ha trascorso un periodo di limitazione della libertà personale si troverà a un certo punto dall’altra parte e lì troverà le condizioni nelle quali costruire il suo vivere quotidiano. Condizioni largamente non studiate con metodi scientifici che comparino fra distretti, territori, realtà. Eppure, quelle condizioni quelle culture quelle aspettative quelle capacità faranno molta differenza. Ottenere un prestito? Aprire una azienda? Comprare casa? Avere un lavoro? Laurearsi? Cosa accade davvero quando si apre il varco dal di qua verso il di là? Mentre il dibattito pubblico è ricco di interventi ed elaborazioni intellettuali sul tema delle carceri molto più limitata è la analisi scientifica svolta con categorie di carattere socio-giuridico sulle rappresentazioni sociali della esecuzione carceraria della pena e sulla significatività che questa ha nel co-determinare la effettività della crescita professionale, sociale, economica, della persona che ha esperito un periodo di limitazione della libertà personale per esecuzione penale. Certo, si tratta di un approfondimento che urla pochissimo. Anzi. Non urla affatto. Si tratta di un momento di conoscenza che ha il tono pacato della scienza. Ma forse esso potrebbe davvero contribuire a mettere la questione delle carceri e della giustizia penale nei soli termini in cui dovrebbe essere messa. C’è una persona. C’è la sua vita. C’è una società. C’è uno Stato di diritto. Le seconde due cose sono trasversali ai muri. Cerchiamo di fare politiche che siano capaci di rendere giustizia alla prima e alla seconda. Suicidi in carcere. Quel pasticciaccio di mezza estate di Franco Corleone L’Espresso, 29 agosto 2025 La polemica sul numero dei suicidi in carcere non può essere ridotta a un effetto del caldo agostano. Perciò è utile ricapitolare i fatti. Il Garante nazionale per i diritti delle persone private della libertà pubblica il report mensile sui suicidi in carcere e sugli eventi critici, riferito al periodo gennaio-luglio 2025, e un’agenzia di stampa rilancia i dati mettendo in luce la gravità del fenomeno. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, si risveglia dal torpore e dichiara che i suicidi sono diminuiti. Anche Irma Conti, a nome del Collegio del Garante, conferma la soddisfazione: solo 46 rispetto ai 58 dell’anno prima. “Ristretti Orizzonti” certifica, invece, 56 suicidi: una discrepanza probabilmente dovuta a morti avvenute non in carcere, ma in ospedale dopo i soccorsi. A quel punto, il professor Mario Serio, altro membro del Collegio, denuncia l’iniziativa personale e si appella al presidente del Garante, Riccardo Turrini Vita, che mantiene un silenzio assoluto. Il ricordo va ai polli di Renzo di manzoniana memoria e giustamente la giunta dell’Unione delle Camere penali ha chiesto un intervento per ridare credibilità a un’istituzione allo sbando. Tuttavia, il report offre un’analisi che merita di essere seguita non facendosi distrarre da una disputa che ha un sapore di necrofilia. Il dato che colpisce maggiormente sono i 30 decessi per cause da accertare, rispetto agli 11 del 2024. Resta il fatto che - se si sommano i decessi per varie cause (soprattutto per “cause naturali”) - gli ultimi tre anni segnano un aumento vertiginoso, da 101 a 146. Dei 46 suicidi, 44 erano di sesso maschile e due femminile, 24 italiani e 22 stranieri; in relazione alla popolazione carceraria, si rileva un rischio suicidario significativamente più alto per i detenuti stranieri. Ancora: 17 suicidi sono stati di persone in custodia cautelare e 16 di persone in prossimità del fine pena e comunque con una pena inferiore ai tre anni. A questo proposito, la relazione contiene valutazioni e suggerimenti: l’attivazione di percorsi alternativi al carcere nella fase finale della pena, come l’affidamento in prova o la semilibertà; il potenziamento dei servizi territoriali di accompagnamento al reinserimento, con particolare attenzione alla salute mentale; la costruzione anticipata del progetto di vita già durante la detenzione. Importante la censura per la pratica dell’isolamento punitivo e del contenimento, con la clamorosa denuncia che 36 eventi (78,26 per cento) sono avvenuti nelle Sezioni a custodia chiusa, con evidente correlazione tra livello di restrizione e propensione al suicidio, tanto da porre il problema della legittimità di tale condizione. Solo due casi riguardano l’alta sicurezza, ciò conferma che la detenzione sociale va eliminata. I numeri dei tentati suicidi (1.123), degli atti di autolesionismo (7.486), degli atti di contenimento (448) e delle manifestazioni di protesta (individuale 6.736 e collettiva 680) indicano poi una realtà terrificante. In questo quadro, va rilevata la corresponsabilità del Servizio sanitario pubblico: una riforma tradita, se non fallita. Il report, infine, lancia un allarme preciso: “Senza una riduzione cospicua del numero dei detenuti e senza seri investimenti nell’esecuzione penale esterna, la situazione, già insostenibile, potrà solo peggiorare”. Da qui, probabilmente, la reazione scomposta di Nordio. “Io, prete dei carcerati, dico a Nordio: guardi la vera realtà dei suicidi” di Don David Maria Riboldi* Il Dubbio, 29 agosto 2025 Il drammatico appello del cappellano del carcere di Busto Arsizio: “Come può il sovraffollamento fermare la strage?”. Vorrei ricordare quanto abbia affermato il ministro Nordio in visita a San Vittore lo scorso 22 luglio: “Ogni vita spezzata dietro le sbarre è una sconfitta dello Stato. Non possiamo rassegnarci alla retorica dell’inevitabile”. Dentro queste parole possiamo sentirci a casa. “Il sovraffollamento c’è, ma non si sente”. Così dissero gli amici di Nessuno Tocchi Caino, in visita al penitenziario di Busto Arsizio lo scorso 1 luglio. “È una struttura decorosa e ben organizzata” riconobbero gli avvocati della camera penale locale nell’ormai tradizionale incursione estiva, lo scorso 5 agosto. Eppure il dolore non guarda in faccia nessuno e una persona si è tolta la vita. Una persona entrata da poco e in un periodo dell’anno già di suo meno affollato di personale, ma altamente sovraffollato di persone detenute: l’estate. Meno orecchie ad ascoltare un dolore che, senza bussare, si è portato via la sua storia con la sua vita. Ho raccolto molta compassione girando per la sezione, mentre il corpo inerme giaceva dietro il blindo chiuso, in attesa dell’autorità giudiziaria. Non molta empatia: era lì da poco e non aveva raccontato molto di sé. “Ma non lo capiscono che noi qui stiamo male?”: mi sono avvicinato per calmare un ragazzo, qualche cella più in là, che stava cercando forse di sfogare un po’ di rabbia, provocando il poliziotto in sezione. È bastato un po’ di ascolto, con le mani intrecciate sulle sbarre della ‘camera di pernotto’ e la temperatura interiore è scesa. Quell’ascolto che non siamo riusciti a offrire a chi ci è stato strappato troppo alla svelta dalla disperazione. Certo, le celle chiuse non aiutano. Come cappellani della Lombardia l’avevamo detto in un comunicato il 21 febbraio 2024, a pochi mesi dall’entrata in vigore della circolare, la cui attuazione si tradusse in un “chiusi tutti”. Le operazioni per avvisare il personale, far sì che giunga e provi a evitare il peggio diventano più macchinose. Ci sono più giri di chiave da fare. Noi che siamo dentro tutti i giorni lo sappiamo bene: la maggior parte delle volte sono “colpi di testa”, momenti, passati i quali le persone sopravvissute ringraziano per essere state salvate. Da se stesse e dal proprio dolore. Questa volta non si è arrivati in tempo. In pieno giorno. Alle 13.30. Mandate all’aria le persone che volevano, sola e indisturbata, senza autorizzazioni di sorta, la sofferenza si è portata via una persona. Bisogna anche dire che il Ministro Nordio non sembra aver raccolto consenso, prendendo la parola sul tema, in questi anni. L’insistenza sulla non dipendenza tra aumento dei suicidi e aumento del sovraffollamento sembra una via di fuga da entrambi i problemi. La recente formulazione addirittura contraria, per cui il sovraffollamento li ridurrebbe - perché ci sono più occhi a vedere - è semplicemente inveritiera, visti i dati di questi anni. La querelle estiva avviata dalla relazione del Garante dei diritti dei detenuti ha lasciato l’amaro in bocca a molti, che hanno sentito in questa “contabilità mortuaria” un senso di leggerezza quasi più drammatico della cosa stessa. Non sto qui a riprenderla. Piace però ricordare quanto abbia affermato l’inquilino di via Arenula in visita a San Vittore lo scorso 22 luglio: “Ogni vita spezzata dietro le sbarre è una sconfitta dello Stato. Non possiamo rassegnarci alla retorica dell’inevitabile”. Dentro queste parole possiamo sentirci a casa. Invito a non frequentare i social, dove esce l’animo più belluino del paese. Facebook in particolare, con cinquantenni che, volto e nome in vista, scrivono le più becere ed esecrabili affermazioni. Davanti a cui il Magistrato e Beato Livatino avrebbe detto: “Davanti alla morte, chi crede, prega; chi non crede, tace”. Parole da fare nostre anche oggi. Giravo per la sezione e con due persone detenute ci siamo messi davanti a quel blindo chiuso, divenuto tomba per qualche ora. Abbiamo detto una preghiera lì, in mezzo al reparto. C’è ancora umanità, c’è ancora speranza. Dentro. *Cappellano Casa Circondariale Busto Arsizio, Fondatore de La Valle di Ezechiele Carceri, sovraffollamento al 134,9%. Proposte zero di Eleonora Martini Il Manifesto, 29 agosto 2025 Carcere Superati i 63 mila detenuti. Al Senato si lavora sulla detenzione domiciliare. “Con 63.019 detenuti presenti è stata sforata la soglia simbolica delle 63 mila presenze in carcere, a fronte di soli 46.705 posti disponibili, con un sovraffollamento reale del 134,93%”. E con un organico di polizia penitenziaria che soffre di oltre “20mila agenti mancanti, attese anche le assegnazioni soprannumerarie e illegittime in uffici ministeriali ed extra penitenziari”. A fare il punto dell’emergenza carceri è il sindacato di polizia penitenziaria Uilpa che ha anche diffuso la notizia di altri due detenuti che si sono tolti la vita negli ultimi giorni, a Busto Arsizio e a Barcellona Pozzo di Gotto (qui è il terzo in sei mesi). Sono 58 i suicidi in cella dall’inizio dell’anno, e 32 gli altri decessi per cause ancora da accertare. “Una mattanza”, la definisce Di Giacomo, segretario generale del S.Pp, che denuncia: “Il detenuto che si è tolto la vita a Busto Arsizio (un italiano di 61 anni, ndr) era in carcere da soli 10 giorni, a conferma che l’allarme che abbiamo lanciato da tempo per concentrare attenzione ai detenuti nei primi giorni è reale e purtroppo ignorato”. Mentre a Pozzo di Gotto la vittima è un uomo di 48 anni, di nazionalità indiana, arrestato nei mesi scorsi per maltrattamenti in famiglia. A Busto Arsizio “i posti regolamentari sono 240 - riferisce il consigliere regionale lombardo dem, Astuti - mentre attualmente vi si trovano oltre 400 persone” al netto della “già grave carenza di personale che rende impossibile garantire sicurezza e dignità”. Numeri in linea con i dati diffusi dalla Uilpa che parla di “punte del 173% in Puglia, del 160% in Molise, del 154% in Lombardia e del 150% nel Lazio”. Eppure, a pochi giorni dalla riapertura dei lavori parlamentari dopo le ferie estive, nessuna proposta che contrasti davvero l’emergenza sovraffollamento ha ancora trovato una convergenza politica possibile. Sul piatto, solo il piano di edilizia penitenziaria che, come dice il segretario Uilpa, De Fazio, fa annaspare il commissario straordinario Doglio “in bandi di gara imprecisi per poche centinaia di posti da ricavare con moduli prefabbricati in stile Albania”. Alla Camera, il dem Merola (commissione Finanze) ieri ha rivolto un nuovo appello alla maggioranza affinché voti a favore della pdl Giachetti sulla liberazione anticipata speciale. Mentre al Senato il presidente La Russa e la dem Rossomando stanno lavorando insieme ad un testo per automatizzare la detenzione domiciliare per i detenuti con buona condotta che abbiano una pena residua di 18 mesi (esclusi reati ostativi). Ma la convergenza trasversale che sembrava a portata di mano grazie all’impegno di La Russa, al momento non è neppure all’orizzonte. “Il macigno securitario soffoca la Costituzione. Sul carcere false ricette” di Simona Musco Il Dubbio, 29 agosto 2025 Intervista a Patrizio Gonnella, presidente dell’Associazione Antigone. “Il linguaggio è sostanza: Quando si dice che i detenuti non devono respirare o che devono marcire in galera non è solamente l’espressione un po’ truce del politico di turno, è un messaggio politico che poi qualcuno dovrà tradurre in realtà”. I detenuti hanno superato quota 63mila. La ricetta del ministro Nordio comprende la costruzione di nuove carceri, misure alternative per i tossicodipendenti e infine un intervento sulla custodia cautelare: come considera questi rimedi rispetto al problema complessivo? Quella del ministro Nordio non è una ricetta, sono parole che non si sono mai tradotte in fatti, tant’è che il disegno di legge non si è mai incardinato nella discussione parlamentare. Quella dell’edilizia penitenziaria è sempre la solita ricetta legata all’aumento della capienza. Ma questa è sempre stata una ricetta fallimentare, un mix di inefficienza, di lentezza, di corruzione, di scarsa qualità progettuale e architettonica. Inoltre, il numero dei posti letto non andrà mai a compensare il tasso di crescita della popolazione detenuta. Non ci sono poi risorse per l’assunzione del personale che dovrebbe gestire questi luoghi e fa veramente accapponare la pelle la parola “container” quando ci si riferisce alla gestione di un sistema penitenziario che dovrebbe assicurare opportunità e diritti. È una parola in antinomia alla funzione costituzionale della pena. Infine la norma sulle tossicodipendenze è poca roba. Penso che se non si ha il coraggio di tornare alla madre dei problemi, cioè al codice penale e alle leggi criminogene, ben poco si potrà fare. Se non si interviene sulla legge, sulle tossicodipendenze a monte, perde di senso intervenire a valle, quando il problema si è già posto. Bisogna avere il coraggio di depenalizzare. Quanto incide realmente il numero di detenuti in attesa di giudizio (14,42%) rispetto al totale della popolazione carceraria? Ridurla può migliorare le condizioni del sistema penitenziario o rischia di essere solo una misura simbolica? È sicuramente vero che rispetto a qualche anno fa c’è un peso minore della custodia cautelare sul totale della popolazione detenuta, ma è un peso ancora rilevante rispetto al quale, se si facessero politiche dirette a diversificare ulteriormente le misure cautelari puntando su quelle meno restrittive, andremmo a migliorare la vita delle persone e la qualità della vita all’interno delle carceri. I peggiori luoghi nel sistema penitenziario italiano sono le circondariali delle aree metropolitane, dove vengono recluse le persone appena arrestate. E se fra queste ci sono giovani, ragazzini, alla prima carcerazione, non con una storia deviante alle spalle, quelle modalità di carcerazione in quei luoghi fanno sì che quelle persone rischino una carriera deviante inaspettata. Perché le carceri sono ricettacoli di devianza, sono fabbriche di criminalità, le stesse parole che usava Turati nel 1904. È chiaro, quindi, che quei luoghi dovrebbero essere luoghi risanati. Le sezioni “nuovi giunti” dovrebbero essere spazi di accoglienza e orientamento, invece sono le peggiori: basti pensare al famigerato settimo reparto di Regina Coeli. Così il sistema diventa esplosivo e criminogeno. Le proposte di liberazione anticipata allargata, sostenute da accademici, magistrati e avvocati, sono state ignorate: perché secondo lei c’è questa resistenza politica? Perché oggi domina una logica securitaria e demagogica: conta solo il consenso immediato, non la ragionevolezza a medio termine né i principi costituzionali. Questo è particolarmente evidente con questo governo e lo si vede in ciascuno dei provvedimenti che prende, ma anche nel linguaggio usato. Il linguaggio è sostanza, non è solo forma. Quando si dice che i detenuti non devono respirare o che devono marcire in galera, non è solamente l’espressione, chiamiamola così, un po’ truce del politico di turno, è un messaggio politico che poi qualcuno dovrà tradurre in realtà. Di fronte a quel messaggio, ogni politica che è diretta a umanizzare, decongestionare, innovare, modernizzare diventa una politica inattuabile. Ma questo purtroppo non è solo il frutto di questi tempi. Anche in altri tempi, tempi dove il linguaggio non era truce, dove c’erano state speranze di innovazione, le innovazioni non sono arrivate. Penso alla commissione Ruotolo sul regolamento penitenziario mai attuata dal governo Draghi, o alla legge delega Orlando che produsse decreti svuotati dalla paura del voto. Quali riforme “immediate” ritiene indispensabili per affrontare oggi l’emergenza? Difficile rispondere. La madre di tutte le riforme è quella del codice penale, ma non è immediata: la attendiamo dal 1930. Intanto, la prima vera riforma sarebbe smettere di fare nuove leggi penali: le carceri non si riempiono per calamità naturali, ma per scelte legislative. Un passo decisivo sarebbe un provvedimento di clemenza: indulto e amnistia potrebbero ridurre i detenuti da 63mila a 45mila, creando lo spazio per innovare davvero. Non servono nuove commissioni: il miglior pensiero penologico degli ultimi vent’anni ha già scritto tutto, dal potenziamento delle misure alternative alla digitalizzazione, dall’aumento del personale al miglioramento delle condizioni di vita. Nordio sostiene che il sovraffollamento non causa i suicidi. Come risponde e quali strumenti concreti si potrebbero attivare subito per prevenirli? È una banalizzazione. Non c’è un rapporto causa- effetto diretto, ma i dati parlano: dove c’è più sovraffollamento ci sono più suicidi. Nelle carceri italiane ci si ammazza 25 volte più che fuori, con un tasso quasi doppio rispetto alla media europea. Non è solamente un problema dei singoli casi individuali di disperazione, che pur saranno tali. Sovraffollamento significa meno psicologi, educatori, assistenti sociali. I detenuti diventano numeri anonimi, e il disagio resta irrisolto. Bisognerebbe intervenire subito nella fase iniziale e finale della carcerazione: accoglienza nei “nuovi giunti” e percorsi di reinserimento prima della liberazione. Perché in Italia sembra prevalere la logica del “law and order”, anche quando i dati dimostrano l’inefficacia di pene più dure? Non è solo un problema italiano: parte dagli anni Novanta, con la “Zero tolerance” di Giuliani. È un macigno irrazionale, nato dalla perdita dello spirito solidale delle democrazie. Non si può trasformare il carcere nell’ultima frontiera del welfare né ogni disagio sociale in reato: pensiamo al ritorno di norme sul vagabondaggio: è scandaloso che si incida penalmente e si ritorni all’Inghilterra del Settecento, alle pre- democrazia. Per cambiare serve coraggio politico: trasformare questioni penali in questioni sociali e costruire una grande alleanza costituzionale tra avvocati, magistrati, universitari, associazioni e attivisti, capace di parlare alla vasta zona grigia dell’elettorato. Come si può restituire centralità al principio costituzionale della funzione rieducativa della pena, oggi spesso accantonato? Bisogna lavorare con le nuove generazioni: i ragazzi sono più permeabili a idee razionali e potranno diventare cittadini attivi e sensibili a questi temi. Con Susanna Marietti abbiamo scritto Il carcere spiegato ai ragazzi proprio per questo: portare la cultura costituzionale nelle scuole, mostrare che la funzione rieducativa della pena è una garanzia per tutti, oltre che una garanzia di sicurezza. “Non so più com’è la vita là fuori”. Katia e la paura della libertà di Diana Ligorio Il Domani, 29 agosto 2025 Ragazze e ragazzi dietro le sbarre del penitenziario romano raccontano le loro giornate che scorrono. Il minorile è come uno spioncino dal quale osservare i fallimenti della società e le famiglie disfunzionali. Nella biblioteca del carcere minorile l’orologio a muro è fermo alle 10.45. Nella stanza dei libri da un anno e mezzo il tempo segna sempre le 10.45. A scuola sarebbe l’ora della ricreazione. La pausa dalle costrizioni dello stare fermi in classe. Qui il carcere stesso è la pausa, ma non dalle costrizioni, di cui invece simboleggia l’immaginario per eccellenza. È l’intervallo tra il prima e il dopo, tra il dentro e il fuori. Qui le merendine non sono nello zaino, ma arrivano con il pacco durante il colloquio con i familiari. Chi li ha, ovviamente. “Ho chiesto dieci pacchi di Baiocchi”, dice Mirko. L’orologio segna sempre la stessa ora, ma per i ragazzi che ho incontrato il tempo in carcere scorre veloce. “Boh, forse per le attività”, pensa ad alta voce Alex. “Io ho imparato a fabbricare le lettere di acciaio”. “I giorni passano, ma non penso mai al fuori, a quando esco”, Mirko storce il naso come se fosse fastidioso il profumo della libertà. Allora forse il significato di questa strana ricreazione delle 10.45 non è quello della pausa, né tanto meno dello svago e del divertimento, ma di una nuova creazione. La detenzione crea individui nuovi? Un adolescente in carcere sta creando un nuovo sé? Incontro un piccolo gruppo di ragazzi e ragazze in biblioteca per parlare, partendo dai miei romanzi, del sentirsi invisibili e chiedo se a loro è mai capitato. Katia muove lo sguardo tra gli scaffali e senza pensarci troppo risponde: “Da mia madre e mio padre. Non mi hanno vista, mai”. Fa una pausa: “Adesso però mi viene da piangere”. Da quando è stata arrestata invece è diverso: “Qui preferirei proprio non essere vista. Dai maschi, intendo. Stanno sempre con gli occhi sopra. Li vorrei menare, ma mi devo tenere perché fra una settimana esco libera”. Poi pianta lo sguardo in quello di Damian e alza un sopracciglio. Lui raccoglie la sfida e riesce solo a dire: “Risponde lei”. Affida così il suo racconto alla sua educatrice che in un dialogo silenzioso di sguardi riesce a centellinare il pensiero del ragazzo. Fatto di piccole cose: una richiesta inascoltata, un colloquio familiare saltato. Cose che sembrano insignificanti, come il non sentirsi considerato dall’educatrice che in un momento deve dare priorità a un altro detenuto. Invece sono punte di un iceberg, un blocco di ghiaccio enorme, tutto dentro, difficile a sciogliersi. Ci sono cose che non si possono dire perché non si conoscono le parole, e non è solo una questione di lingua; Damian è un ragazzo rom. L’educatrice conosce quelle parole e si fa carico di una trasmissione emozionale. Il tempo adesso si è fermato davvero. Una vita al contrario - “A me piacciono i manga”, Anna la prende da lontano, “perché devi cominciare a leggerli al contrario. Sai quante cose si possono vedere nei disegni?”. Forse è così che bisognerebbe leggere questi ragazzi. Al contrario. Dalla loro ultima pagina, il carcere. E da qui tornare indietro verso il prima, l’inizio: la famiglia, il quartiere, la scuola, l’infanzia. Come sfogliando un fumetto giapponese, un flusso visivo in bianco e nero. Eppure, di grigi ce ne sono molti di più di quelli che riusciamo a vedere. Forse Anna con i suoi manga, fatti di immagini senza parole, ci invita a pensare a una nuova grammatica, alla creazione nuova di una regola comunicativa. La ricreazione di un tempo e di uno sguardo che si forma a partire da quello dei ragazzi dentro. I loro occhi sul fuori. Forse per questo Antonio Sangermano, capo del dipartimento della giustizia minorile, ebbe a dirmi che il carcere minorile è lo spioncino attraverso cui vedere le famiglie disfunzionali, il nichilismo della società, i fallimenti dello Stato. Non essere visti è non avere nessun familiare che ti venga a trovare. O perché vive troppo lontano. O perché proprio non c’è. Una di loro ha solo una zia in Sardegna: “Mi manda roba. Prima avevo la fissa del pancarré e mi facevo mandare sette pacchi di pancarré. Poi ho avuto la fissa dei Baiocchi e mi facevo mandare quindici pacchi di Baiocchi al mese”. Il sentirsi considerati passa allora in un pacco di merendine, fatte in serie, ma qualcuno si è preso il tempo per comprarle e spedirle. Magari con un bigliettino dentro scritto a mano. Essere visti è quando in carcere ti fanno notare che sei diventata più alta: “Tutti mi dicono che da quando mi hanno arrestata sono cresciuta in altezza”, la ragazza si mette in piedi, drizza la schiena. “L’assistente che lavora in magazzino mi conosce dal mio primo ingresso. C’era la prima volta che sono entrata, mi ha perquisito quando sono arrivata. Lei mi ha detto che sono più alta. Ho preso un centimetro”. Uscire liberi - “Sul sentirsi non visti ha scritto qualcosa di interessante Banana Yoshimoto”, esordisce Marg, mettendo tra la mia domanda e il suo vissuto lo scudo della conoscenza. “Mi piace Dosto, soprattutto I fratelli e I demoni”, continua allungando le maniche del maglione, le gambe magre incrociate, gli stivaletti slacciati. “Ho sempre voluto fare l’attrice, ma poi mi hanno arrestata ed è finito tutto”. Katia ritorna su un punto per essere sicura che io l’abbia ascoltata o forse per convincere se stessa: “Fra una settimana esco libera”. Uscire libera. Le ragazze di 17 anni escono e basta. Una detenuta di 17 anni, quando esce, esce libera. E forse non c’è risposta più complessa di questa al sentirsi invisibili: continuerà a non essere guardata dalla famiglia? Verrà vista per sempre dalla società come una che si è fatta il carcere? “E non sei contenta che esci?”, le domando. “Boh, sì”, fa una smorfia con le labbra come se d’improvviso le fosse arrivato qualcosa di amaro in bocca: “Non so più com’è la vita fuori”. Ma su questo Marg la rassicura: “Ti riabitui subito alle cose belle. Come quando ci hanno messo la tavoletta sul water e poi ce l’hanno tolta”. Vedere gli altri andar via - Nel cortile è arrivata la luce livida del tramonto. Marg e Katia si fanno accendere una sigaretta. Katia sputa lentamente il fumo in faccia a un ragazzo che si è avvicinato per chiederle di che quartiere è, quando esce libera: “Roma. Fattela bastare”. “Qui dentro ci sono storie d’amore incredibili”, Marg sorride tremando per il freddo. “Lettere d’amore clandestine, sguardi da lontano, qualche bacino”, Katia strizza un occhio: “La storia più lunga è durata tre settimane”. “Aspetta, è in corso una scarcerazione!”, Marg butta la cicca e tutti corrono verso la fila di cipressi tra cui spunta un ragazzo magrebino. Fuma una sigaretta nervosa. Ha in una mano una shopper plastificata. Tutta la sua detenzione è in una busta. Lo sguardo gli trema, agitato, smarrito. Gli altri lo abbracciano. Lui li lascia fare. “Quando scarcerano qualcuno, si piange con un occhio solo”, dice Marg. Si è contenti per chi esce, ma piomba un’angoscia pesante su chi rimane dentro. “La prima volta che ho visto una scarcerazione”, continua, “ho pensato che non ce l’avrei fatta a vedere tutti andar via”. Marg ha una pena lunga, molto lunga. “Poi ho iniziato a scrivere racconti e anche lettere da mandare fuori. Mi piace il gesto della scrittura”. E fa il pugno con la mano che si torce e incide: “Quanti anni devo passare a vedere gli altri che escono e io che resto?” Forse per questo, l’orologio, nessuno lo ha mai aggiustato. Per indicare la relatività del tempo. Solo due volte al giorno quell’orologio segna l’ora giusta. Per il resto i ragazzi si sentiranno sempre in ritardo o in anticipo. In ritardo rispetto a chi è fuori e in anticipo rispetto alle tappe della vita. Quell’orologio fermo sulle 10.45 invita i ragazzi e le ragazze a dilatare quell’istante dell’ora giusta, entrare dentro il tempo e succhiarne gli anni, i mesi, le settimane, i minuti, i secondi. Prenderselo tutto, quel tempo, farlo loro, renderlo giusto, crearselo nuovo. È questa la loro ricreazione. La replica di Anm (e non solo) a Meloni: “Noi applichiamo la Costituzione” di Valentina Stella Il Dubbio, 29 agosto 2025 Da Area a Magistratura indipendente, passando per Unicost e Magistratura democratica: i gruppi associativi, espressione della giunta dell’Anm, sono compatti nel replicare alle dichiarazioni della premier Giorgia Meloni che dal palco del meeting di Comunione e liberazione a Rimini ha assicurato che la maggioranza andrà avanti sulla riforma della giustizia “nonostante le invasioni di campo di una minoranza di giudici politicizzati” e che nessun magistrato potrà porre un freno alla politica sull’immigrazione del Governo. Ma le toghe non ci stanno, come si vedrà dalle dichiarazioni che seguono: rivendicano il primato del diritto comunitario, accusano l’Esecutivo di voler assoggettare la magistratura, reclamano modifiche che veramente migliorino l’efficienza della giustizia. Per Silvia Albano, presidente di Md, “i magistrati applicano e rispettano le leggi dello Stato, in primo luogo la Costituzione. Del nostro ordinamento fanno parte anche i trattati e le norme sovranazionali e la Corte di Giustizia Ue con la sentenza del 1° agosto ha evidenziato che non erano i magistrati a violare la legge. Se poi davvero - prosegue Albano - si vogliono combattere i trafficanti di esseri umani non si può collaborare con la Libia. Lì sta il crocevia internazionale del traffico, i migranti che vogliono venire in Europa vengono portati lì per dare ulteriore profitto ai trafficanti. Sono rinchiusi in centri di detenzione dove vengono torturati, il video delle torture è poi mandato ai familiari che si indebitano ulteriormente per pagare il riscatto per la loro liberazione. Questo ormai non solo risulta da tutti i rapporti delle organizzazioni internazionali tra cui l’Onu, ma anche dalle prove raccolte dalla Corte penale internazionale”. “Se si vuole davvero colpire il traffico di esseri umani, rispettare il diritto internazionale e le convenzioni che l’Italia ha sottoscritto e ratificato, che sono leggi dello Stato, si dovrebbe collaborare con la CPI non con la Libia”, conclude Albano. Concetto ribadito da Rocco Maruotti, Segretario dell’Anm in quota Area, per cui le dichiarazioni della presidente del Consiglio “dimostrano, ancora una volta, che l’obiettivo che il Governo vuole realizzare con la riforma del Csm è quello di riscrivere i rapporti di forza tra potere esecutivo e magistratura, accusata di invasioni di campo per il solo fatto di continuare ad applicare le leggi italiane tenendo conto, come è doveroso fare, anche dell’apparato normativo sovranazionale, che non consente violazioni dei diritti fondamentali”. Per Maruotti “la stessa Costituzione, che la riforma Meloni-Nordio vorrebbe stravolgere, sta lì a ricordare a tutti che nessun potere è illimitato. La favola dei giudici politicizzati è uno slogan vecchio che parte da Almirante e arriva alla Meloni passando da Berlusconi e il cui unico obiettivo è quello di giustificare il più grave attacco alla nostra architettura costituzionale dell’era repubblicana”. Pure per Giuseppe Tango, membro della giunta Anm ed espressione della corrente di Mi, “viene ancora una volta agitato lo spauracchio dei giudici politicizzati, mentre i giudici hanno avuto la sola “colpa” di aver applicato la legge, come ha definitivamente stabilito la CGUE. Viene rispolverato il tema dell’efficienza della giustizia legato alla riforma, anche se è stato espressamente chiarito dagli stessi fautori della riforma che essa non influisce in alcun modo sull’efficienza della giustizia”. Lo stesso Ministro Nordio, ricorda Tango, “ha dichiarato: “Non abbiamo mai detto che la separazione delle carriere rende i processi più veloci”. Si sbandiera la liberazione del Csm dalle correnti politiche, salvo poi sostenere una riforma che farà entrare pesantemente la politica nella giustizia”. Insomma, per Tango, siamo dinanzi ad “un manifesto di propaganda ideologica, che non è purtroppo utile a risolvere i concreti problemi dei cittadini -primi tra tutti la lentezza dei procedimenti e la mancanza di risorse umane e materiali - e che mira a nascondere i risultati insufficienti della gestione ministeriale del sistema giustizia, che sono sotto gli occhi di tutti e che stanno mettendo in serio pericolo il raggiungimento degli obiettivi del Pnrr, che porterebbe a conseguenze disastrose per il nostro Paese”. Infine anche per Marcello De Chiara, vice presidente Anm in quota Unicost, “parlando di riforme, il Presidente del Consiglio riesce a strappare applausi solo presentando la magistratura come il nemico da sconfiggere. Nemmeno un cenno su come la riforma servirà a rendere la giustizia più efficiente, ma solo parole ostili per delegittimare i giudici che rispondono alla domanda di giustizia dei cittadini con risorse sempre meno adeguate. Nel frattempo, il crimine organizzato si compiace per rafforzarsi e sviluppare forme di infiltrazioni più insidiose. Mi domando se tutto ciò risponde veramente al bene del Paese”. Il clima si surriscalda in attesa della ripresa dei lavori alla Camera dove a settembre riprenderà la discussione sulla separazione delle carriere. Dal conflitto alle garanzie: perché la riforma Nordio può segnare una svolta nella giustizia italiana di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 29 agosto 2025 La riforma Nordio al processo penale è un episodio di alta rilevanza per il diritto italiano. Sostenerla criticamente vuol dire riconoscere il bisogno strutturale di modernizzazione, giustizia più veloce, imparziale e una direzione chiara verso sistemi più avanzati. Se accompagnata dai giusti correttivi, può rappresentare una svolta importante, un servizio alla credibilità del sistema giudiziario e dei cittadini. Chi scrive offre la seguente analisi, integrata da confronti comparati, al fine di mostrare non soltanto il “che cosa” della riforma, ma anche il “perché” valga la pena sostenerla, all’insegna di un futuro più equilibrato e funzionale del diritto processuale penale italiano. Non a caso, la tensione emersa in Commissione tra toghe, penalisti e accademici - specie su impugnazioni e custodia cautelare - conferma che la riforma del processo penale tocca i nervi scoperti del sistema. È una frizione fisiologica quando si mette mano a snodi che incidono direttamente su terzietà del giudice, tempi e qualità delle garanzie. Anche per questo il metodo Nordio, che mantiene ferma la direzione ma accetta il confronto sul merito, è la scelta giusta. L’obiettivo - separare nettamente funzioni requirenti e giudicanti e razionalizzare i poteri d’impugnazione e cautelari - risponde a un’esigenza di chiarezza costituzionale e di efficienza processuale, percepita dentro e fuori le aule. Che cosa cambia per la difesa (e perché è un bene). Si parla di parità delle armi “strutturale”. La separazione delle carriere rimuove l’attuale ambiguità ordinamentale per cui chi ha svolto funzioni requirenti può passare a quelle giudicanti (e viceversa), generando - anche solo in percezione - una contiguità culturale. Un giudice che nasce e resta giudice e un pm che nasce e resta tale, migliorano l’equilibrio del contraddittorio. Per l’imputato significa un arbitro che non è (né è mai stato) “compagno di palestra” dell’accusa. È un guadagno secco di terzietà che allinea l’Italia ai sistemi in cui i ruoli sono distinti per definizione. Impugnazioni più razionali: limitare alcune ipotesi d’appello del pm riduce l’asimmetria di fuoco contro l’imputato assolto o condannato a pene lievi, evitando che l’appello diventi uno strumento di pressione “di default”. Per la difesa è un incentivo a concentrare la battaglia sul primo giudizio e una barriera contro il contenzioso seriale che allunga i tempi e logora le risorse (anche pubbliche). Custodia cautelare più selettiva. Una riscrittura che rafforzi soglie probatorie e oneri motivazionali incide sull’”area grigia” del sospetto, quella dove più facilmente si producono danni reputazionali irreversibili. Per la difesa significa riportare la libertà personale al centro, con un controllo più incisivo sulla reale necessità delle misure. La riforma può (e dovrebbe) importare prassi “di qualità” già sperimentate altrove: una disclosure effettiva e scandita da termini, con sanzioni processuali per l’inadempimento, tutela la strategia difensiva e riduce gli imprevisti d’aula. Nel modello inglese la Cps disciplina la rivelazione di atti e materiale secondo un manuale operativo legato alla legge sulla disclosure: la difesa sa cosa attendersi e quando, il che restringe lo spazio per sorprese e contenziosi dilatori. Per chi scrive, la riforma attua un allineamento a sistemi giudiziari più evoluti. Ad esempio, in Inghilterra e in Galles, il pubblico ministero è un’autorità distinta dal giudice e indipendente da polizia e governo; il suo compito è portare in aula il caso giusto con la prova giusta, non “vincere a ogni costo”. Questo si riflette su disclosure, early case management e culture of fairness: gli oneri di rivelazione sono puntuali e monitorati, con ricadute tangibili sulla capacità della difesa di impostare tesi alternative, confutare attendibilità, negoziare esiti. Un pm separato dall’organo giudicante e legato a protocolli di qualità rende più prevedibile il processo e accresce la fiducia degli imputati nella neutralità del giudice. Questo è il tipo di convergenza culturale a cui mira Nordio. In Svezia, l’Åklagarmyndigheten è un’autorità di procura organizzata sotto il ministero della Giustizia, ma opera in modo indipendente: l’interferenza ministeriale sui singoli casi è incostituzionale. La separazione da giudici e polizia è netta. Questo equilibrio - direzione politica delle risorse, indipendenza funzionale sui fascicoli - riduce le zone d’ombra e tutela anche la difesa, che sa che il pm risponde a standard interni verificabili, non a prassi informali. In Danimarca e in Norvegia le catene di comando sono chiare e pubbliche (Direttore della Pubblica Accusa/ Rigsadvokaten; Riksadvokaten) con tre livelli e criteri uniformi di esercizio dell’azione penale. Laddove l’organizzazione è trasparente, la difesa beneficia di prevedibilità: tempi, scelte accusatorie e linee guida sono conoscibili e sindacabili. Anche qui: pm separato dal giudice, governance distinta, standard condivisi. Chi critica la riforma come attentato all’indipendenza del giudice dimentica che i modelli a cui Nordio guarda operano da decenni con separazioni nette e con alti standard di garanzia. Lo stesso dibattito accademico italiano, pur severo, offre l’occasione per perfezionare contrappesi (es. disciplina e nomine) senza rinunciare alla chiarezza dei ruoli: non è un riduzionismo, è un perfezionamento dell’assetto accusatorio. Anche la cronaca parlamentare più recente conferma che il cantiere è aperto e in avanzamento, segno che l’opzione riformatrice è politicamente matura e istituzionalmente praticabile. Nordio indirizza il sistema verso un modello più moderno, trasparente e imparziale dove la separazione delle carriere porta coerenza tra funzione giudicante e requirente, rafforzando la fiducia dei cittadini. Le modifiche processuali possono accelerare i tempi, snellire i procedimenti e riaffermare l’equilibrio tra accusa e difesa. Fortunatamente, la scelta di un dialogo serio e non rituale con l’Anm testimonia una volontà politica di preservare un equilibrio dove la costruzione graduale di un sistema più moderno e ordinato vale il rischio, purché accompagnata da salvaguardie costituzionali evolutive, di creare attriti costruttivi. La riforma Nordio significa, in sintesi, tre cose concrete: (1) un giudice più terzo per struttura e cultura; (2) un pm più accountable perché separato, regolato e trasparente; (3) un processo più governabile grazie a disclosure, impugnazioni selettive e cautelare più rigorosa. Per il sistema significa riallinearsi a standard europei collaudati, in cui l’autorità dell’accusa non si confonde mai con l’imparzialità del giudice. È la via più breve per recuperare fiducia, rapidità e qualità delle decisioni, senza arretrare di un millimetro sulle garanzie dell’imputato. *Avvocato, direttore Ispeg Separazione delle carriere? Ero contrario, ma il testo approvato cambia davvero poco di Alberto Iannuzzi Il Dubbio, 29 agosto 2025 Fra tutte le riforme della giustizia proposte dal governo Meloni la separazione delle carriere è sicuramente quella che più fa discutere politica e magistratura. Devo confessare che quando si iniziò a parlarne ero contrario, perché, come molti magistrati, intravedevo il rischio che, indipendentemente dalle intenzioni del legislatore, si aprisse un varco pericoloso, che poteva condurre alla graduale subordinazione del pubblico ministero dal potere esecutivo, mediante la sottoposizione al controllo politico dell’attività di indagine e delle determinazioni riguardanti l’esercizio dell’azione penale. La separazione delle carriere mi appariva in contrasto con i principi, affermati anche in ambito europeo, che incoraggiano l’autonomia del pubblico ministero, quale presupposto fondamentale dell’indipendenza del potere giudiziario, condizione indispensabile per una giustizia equa, imparziale ed efficiente. Oggi, alla luce del testo approvato e del contesto normativo vigente, il pericolo anzidetto sembra scampato. La separazione delle carriere, invero, così come disegnata dalle Camere in prima lettura, appare una riforma della quale non si comprende la ragione, oltre che l’effettiva utilità per il funzionamento della giustizia, in quanto la distinzione tra la funzione giudicante e quella requirente costituisce un dato normativo ormai conclamato e consolidato già per effetto della riforma Cartabia, dal momento che secondo l’ordinamento giudiziario vigente il magistrato può transitare a una funzione diversa una sola volta nell’arco della sua vita professionale ed entro i primi dieci anni di carriera. Senza dimenticare che già in precedenza il passaggio da una funzione ad un’altra costituiva un fatto piuttosto raro. Pertanto, il rischio che l’interacambiabilità delle funzioni tra giudice e pm faccia venir meno la terzietà di chi è chiamato a giudicare appare oggi privo di consistenza. Basti pensare che, secondo gli ultimi dati ministeriali, ogni anno in media sono meno di 20 i magistrati che da giudice diventano pm e meno di 30 quelli che da pm passano alla funzione giudicante, su di una platea di circa 10.000 magistrati! Ciò nonostante, non può sottacersi che nell’attuale assetto normativo permane il pericolo di un uso “politico” del procedimento penale, e, ancora più pericoloso, il tentativo della politica di condizionare, o comunque controllare, le vicende giudiziarie che toccano gli equilibri politici. Emblematico risulta il caso Almasri, sol che si consideri che è stata sufficiente la mera trasmissione di un esposto, contenente fatti di astratta rilevanza penale, per innescare un corto circuito tra il governo ed il Procuratore della Repubblica di Roma, che pure si era limitato a compiere un atto dovuto, rientrante nelle sue prerogative istituzionali. In realtà, l’attività del pubblico ministero può presentare in taluni casi dei margini di discrezionalità, che sono sottratti al controllo esterno, in quanto investono ambiti non coperti dall’obbligatorietà dell’azione penale (si pensi ad esempio alla direzione da dare all’indagine, ovvero alla scelta di richiedere l’applicazione di misure cautelari, oppure di utilizzare strumenti investigativi particolarmente invasivi, come le intercettazioni). In tali casi il rischio che questi spazi di discrezionalità possano essere condizionati da logiche di natura squisitamente politica non può essere certamente neutralizzato dalla separazione delle carriere, laddove la subordinazione del pm al potere esecutivo costituirebbe il rimedio peggiore del male che si vorrebbe combattere. Di contro, è necessario salvaguardare l’indipendenza del pubblico ministero, che, unitamente al principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, garantisce l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, essendo del tutto evidente che tale garanzia sarebbe inevitabilmente inficiata qualora il pubblico ministero fosse attratto nell’orbita dell’esecutivo, che ragiona ed opera con logiche diverse da quelle giudiziarie. E tutto ciò avverrebbe - si badi bene - a prescindere dal colore politico della maggioranza governativa del momento. Ebbene, se ci si limita a esaminare oggettivamente l’assetto normativo che scaturisce dalla riforma, nel testo recentemente approvato, è agevole notare come non vi sia traccia di una sottoposizione del pubblico ministero all’esecutivo, mentre l’indipendenza del pm viene affermata in maniera chiara. In altri termini, rebus sic stantibus, il rischio della subordinazione del pubblico ministero appare più paventato che reale, fondandosi sull’assunto per cui la separazione delle carriere ne costituisce storicamente il preludio, e si anniderebbe nelle pieghe della trama complessiva della riforma, mirante a ridisegnare i rapporti tra potere giudiziario e potere politico. Sempre in agguato, infatti, sarebbe il principio affermato Francis Bacon quattro secoli fa, per cui “i giudici devono essere leoni, ma leoni sotto il trono”, ripreso e sostenuto bipartisan dalla politica, che mal tollera l’indipendenza del potere giudiziario e il principio della divisione dei poteri. Ma, sia ben chiaro, la politica, sia di destra che di sinistra, tenderà sempre a controllare la magistratura, perché da sempre insofferente al controllo di legalità; ma ciò - si badi bene - avverrà a prescindere dalla separazione delle carriere. Pertanto, a mio avviso tale riforma nulla aggiunge e nulla toglie all’indipendenza del pubblico ministero. C’è il rischio, invece, che possa distogliere l’attenzione dalla riforma elettorale del Csm, in relazione alla quale il sorteggio, dopo lo scandalo Palamara, appare l’unico rimedio in grado di stroncare in radice il sistema correntocratico e di restituire credibilità all’autogoverno della magistratura. Quest’ultima sì che sarebbe una riforma reale e davvero epocale. Intercettazioni ambientali, sì alla riattivazione da remoto delle microspie di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 29 agosto 2025 Per la Cassazione, sentenza n. 29735/2025, l’utilizzo è legittimo anche se l’autorizzazione è stata emessa in altro procedimento. Sì alla utilizzabilità delle conversazioni captate per mezzo della riattivazione da remoto di congegni installati in casa in base ad un’autorizzazione emessa in altro procedimento in quanto il provvedimento di autorizzazione riguarda l’intrusione e le captazioni e non anche le operazioni materiali di collocazione delle microspie. Lo ha chiarito la VI Sezione penale della Cassazione, sentenza n. 29735/2025, nell’ambito di un procedimento nei confronti di un’associazione di tipo mafioso denominata clan “Silenzio” operante prevalentemente nel quartiere di San Giovanni a Teduccio a Napoli, con ramificazioni in altri quartieri cittadini grazie ai rapporti con altre organizzazioni riconducibili alla compagine denominata “Alleanza di Secondigliano”, una associazione criminale armata contrapposta al clan “Mazzarella” e attiva nella realizzazione di estorsioni, nel controllo delle “piazze di spaccio”. Secondo la difesa la microspia attraverso cui erano state eseguite le intercettazioni ambientali, (autorizzate con decreto n. 1175 del 2020), all’interno dell’abitazione non era la stessa oggetto di precedente autorizzazione. Nessuna autorizzazione, dunque, avrebbe preceduto l’installazione della microspia che, per tali ragioni, doveva ritenersi illegittimamente eseguita con conseguente inutilizzabilità dei risultati acquisiti. Tutti i ricorrenti, dunque, ricapitola la Corte, deducono l’inutilizzabilità delle intercettazioni sul presupposto che sia mancata un’autorizzazione che legittimasse la precedente installazione delle periferiche all’interno dell’abitazione. Da ciò deriverebbe l’illegittima installazione delle microspie, attività che, saldandosi con il decreto di intercettazioni, solo qualora previamente sussistente, avrebbe consentito di ritenere legittima l’attività eseguita. Nonostante, dunque, mancasse un provvedimento di autorizzazione all’intrusione di terminali idonei a captare i colloqui, ciò è comunque avvenuto per mezzo della riattivazione da remoto e pertanto, allorché gli stessi congegni erano stati già installati senza previa autorizzazione. Per la Suprema corte, tuttavia, non è fondata la tesi secondo cui il provvedimento con cui erano state collocate le microspie all’interno dell’abitazione oggetto di attività tecnica si salderebbe con il provvedimento che aveva disposto le intercettazioni e, mancando il primo, sarebbero illegittimamente compiute le seconde. Ai fini della legittimità dell’attività di captazione, spiega la Suprema corte, ciò che autorizza e legittima l’installazione delle microspie all’interno di un’abitazione privata è proprio il provvedimento con cui il Gip dispone le intercettazioni, per poi essere eseguite (le captazioni e non anche le operazioni materiali di collocazione delle microspie attraverso l’intrusione nell’abitazione privata), sulla base di provvedimento del Pm con cui vengono dettate le modalità di esecuzione da parte della polizia giudiziaria. Se, pertanto, come nel caso di specie, sussiste l’autorizzazione alle intercettazioni e la conseguente possibilità di poter collocare le microspie, a maggior ragione non sussistono ostacoli alla possibilità che l’autorizzazione consenta la riattivazione delle microspie “dormienti” già installate nell’immobile. Le operazioni di collocazione e disinstallazione, infatti, costituiscono atti rimessi alla valutazione della polizia giudiziaria, non essendo compito del Pm indicare le modalità dell’intrusione, né potendosi dedurre la sussistenza di alcuna nullità od inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni ambientali in ipotesi di omessa documentazione delle operazioni svolte. Del resto, prosegue la Corte, l’autorizzazione ad eseguire intercettazioni telefoniche ed ambientali implica anche il compimento di quegli atti che costituiscono una naturale modalità attuativa delle operazioni, sebbene attuati attraverso l’intrusione nel domicilio di una persona. Le Sezioni Unite Giorgi, sul punto, hanno puntualizzato come la finalità di intercettare conversazioni telefoniche e/o ambientali consente all’operatore di polizia la materiale intrusione, per la collocazione dei necessari strumenti di rilevazione, negli ambiti e nei luoghi di privata dimora. Da ciò discende l’infondatezza della inutilizzabilità dei risultati della attività di ricerca della prova, tanto più che, nel caso in esame, la microspia, in quanto già presente nell’appartamento, veniva riattivata da remoto, con ciò escludendosi - in radice - ogni compressione del diritto all’inviolabilità del domicilio che, seppur astrattamente possibile per le ragioni sopra espresse, non si è verificato. Il Viminale non può rinviare lo sgombero di immobili occupati abusivamente di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 29 agosto 2025 Per la Cassazione, ordinanza n. 24053 depositata oggi, lo sgombero deve sempre essere eseguito; difficoltà organizzative e bilanciamento degli interessi non integrano una causa di forza maggiore. Nessuna discrezionalità da parte della Pubblica amministrazione nel dare attuazione al provvedimento giurisdizionale che ordina lo sgombero di un immobile occupato abusivamente. In particolare, “la causa di forza maggiore”, ostativa al rilascio, “non può identificarsi nelle difficoltà intrinseche dell’esecuzione forzata né nella scelta discrezionale di posporre l’interesse all’esecuzione del provvedimento giurisdizionale ad altri interessi, pur legittimi, che la P.A. è tenuta a garantire”. Lo ha chiarito la Corte di cassazione, ordinanza n. 24053 depositata oggi, respingendo il ricorso del Ministero dell’Interno, condannato a pagare quasi 200mila euro alla proprietaria di un capannone industriale occupato nel 2013 da una trentina di persone e sgomberato soltanto quattro anni dopo l’ordine del giudice. Ognuno dei dieci accessi precedenti, infatti, non era andato in porto o per l’assenza dei servizi sociali (in presenza di bambini), o del medico (nonostante tra gli occupanti figurasse un disabile) o comunque per la mancanza di una soluzione alternativa da offrire agli occupanti. Su questo specifico punto, la Suprema corte chiarisce che “la politica del Welfare compete all’Amministrazione pubblica, ma è estranea all’agire della Forza pubblica, che, se chiamata a dare esecuzione ad un provvedimento giurisdizionale (quale per l’appunto era l’ordine di reintegra del 2014), deve limitarsi a dare ad esso esecuzione nei tempi previsti e, in difetto della previsione di un termine, in tempi ragionevoli”. Diversi i principi di diritto affermati dalla Terza sezione civile su un argomento - gli sgomberi forzosi - da sempre foriero di polemiche tra un’ala più rigorista ed un’altra più tollerante, soprattutto quando gli immobili sono dello Stato, con posizioni mobili a seconda dell’orientamento politico degli occupanti. “Nelle esecuzioni per il rilascio - chiarisce la Corte -, spetta all’ufficiale giudiziario il potere, riconosciuto dal combinato disposto di cui agli artt. 608 e 513 c.p.c., di richiedere in ausilio la c.d. Forza pubblica”. Con questa espressione si ricomprendono: gli agenti di Pubblica Sicurezza, i Carabinieri, le Guardie di Finanza, i Vigili del Fuoco, gli Agenti di Custodia (nonché tutti quegli organismi non militarizzati i cui dipendenti sono investiti di potestà di coercizione diretta sulle persone e sulle cose ai fini dell’ordine e della sicurezza pubblica, ivi compresi gli Agenti della Polizia Municipale). Nel caso specifico nessun rimprovero è stato mosso all’ufficiale giudiziario che ha correttamente chiesto l’ausilio della Forza pubblica a seguito della mancata cooperazione degli occupanti. Al contrario, prosegue la decisione, i “vari funzionari delle forze dell’ordine facevano ogni volta presente l’impossibilità di procedere”, una volta per la presenza di “molti manifestanti” …, un’altra per “l’assenza di un medico … un’altra volta per la mancata presenza dei servizi sociali (…)”. Infine, si è addivenuti a rinviare la procedura per l’impossibilità di reperire una “adeguata collocazione degli occupanti deboli e minori”. Tuttavia, “nell’ordinamento di uno Stato di diritto - recita il secondo principio -, l’obbligo di dare esecuzione ai provvedimenti giurisdizionali è incondizionato, con la conseguenza che l’inadempimento di tale obbligo, protratto oltre il tempo ragionevolmente necessario ad approntare i mezzi che tale esecuzione richieda, costituisce fatto che, di per sé stesso, è fonte di responsabilità della P.A. obbligata, senza necessità per il soggetto danneggiato di provare il dolo o la colpa in capo al personale che di volta in volta è intervenuto”. “Solo l’assoluta impossibilità (per forza maggiore) di prestare assistenza all’esecuzione di un provvedimento giurisdizionale - specifica la Corte, col terzo principio - può giustificare un (temporaneo) diniego da parte delle Autorità, a fronte di una legittima richiesta da parte del giudice o dei suoi ausiliari, sussistendo un diritto soggettivo ad ottenere dall’amministrazione le attività necessarie all’esecuzione forzata del provvedimento, comprese quelle relative all’uso della Forza pubblica, le quali integrano comportamenti dovuti (sempre che non ricorra un’impossibilità determinata da forza maggiore) e non discrezionali”. Ma tale causa di forza maggiore, come detto, non può essere integrata semplicemente dalle “difficoltà intrinseche” dell’esecuzione forzata o da altra scelta “discrezionale” di rinviare l’esecuzione del provvedimento. E questo è il quarto principio di diritto affermato. Del resto, nell’attuale sistema multilivello, chiarisce ancora la decisione, “qualsiasi interpretazione dell’ordinamento interno che lasciasse alla P.A. la scelta se dare o non dare esecuzione ai provvedimenti giurisdizionali sarebbe, per ciò solo, contrastante con l’art. 6 Cedu e, di rimbalzo, con l’art. 6 Trattato UE, che i precetti della Cedu ha elevato a princìpi fondamentali dell’ordinamento comunitario”. Con riguardo poi all’an e al quantum del risarcimento, anch’essi contestati dal Viminale, la Cassazione chiarisce che correttamente la corte di merito - dopo aver ritenuto sussistente l’an del danno da perdita di utilità economica, specificamente locativa, derivante dal protratto mancato utilizzo del compendio immobiliare nelle more dell’occupazione; e dopo aver escluso la risarcibilità del danno morale - ha ritenuto corretto il ricorso all’equità “considerata la peculiarità della situazione, in cui non potrebbe provarsi la perdita di specifiche occasioni di locazione di immobile che nessuno offrirebbe di locare (né materialmente potrebbe) proprio per la presenza degli occupanti”. Ed ha quantificato il danno patrimoniale subito dalla proprietaria in 183.383,51 euro, oltre interessi dalla data della sentenza fino al dì dell’effettivo soddisfo, “avuto riguardo, oltre che alla protratta durata della procedura esecutiva, alla rilevata vocazione locativa dell’immobile ed alla sua estensione (pari a circa 700 mq)”. Napoli. “Topi ed escrementi di gabbiani”: lettera di un detenuto da Poggioreale di Fulvio Fulvi Avvenire, 29 agosto 2025 Sopraffatto dal dolore e dalla solitudine un altro detenuto si è impiccato nella sua cella. Aveva 61 anni, era un italiano sottoposto a misura cautelare in carcere da dieci giorni in base al “codice rosso” che si applica a chi ha commesso reati di violenza domestica o di genere. La tragedia è avvenuta mercoledì mattina nella Casa circondariale di Busto Arsizio (Varese). Ma si è saputo solo ieri. Continua, dunque, la silenziosa mattanza nelle carceri italiane. Gesti estremi inascoltati, perché mancano ancora risposte concrete e adeguate. Sono arrivati a 58 i morti per suicidio dall’inizio dell’anno e 32 risultano i decessi “per cause da accertare”. Nell’istituto di pena lombardo sono stipati 423 reclusi ma la capienza regolamentare è di 211 posti. “Ce ne sono più del doppio - sottolinea Aldo Di Giacomo, segretario generale del Sindacato di Polizia penitenziaria (S.Pp) - gestiti da appena 178 agenti quando ne servirebbero almeno 314: il deficit è del 44%”. Anche qui, oltre al personale di sorveglianza, scarseggiano gli educatori, il che significa non poter seguire come necessario tutti i reclusi più fragili, e sono più del 25%, con disturbi psichici certificati, tossicodipendenti, affetti da altre patologie croniche. L’uomo che si è tolto la vita, oltre ad essere stato allontanato ope legis dalla famiglia avrebbe perso anche il posto di lavoro: disperato, si era chiuso in sé stesso isolandosi dai compagni di cella, appena due giorni prima era stato trasferito dal reparto a trattamento intensificato alla sezione detenuti comuni. “Non sempre, purtroppo, si riesce a intercettare il dolore che si nasconde dietro le sbarre - commenta il cappellano del carcere, don David Maria Riboldi -, e io in questo caso non ho potuto fare altro che pregare per quest’uomo: l’ho fatto insieme con due persone recluse, davanti al blindo chiuso della stanza dove si trovava il suo corpo, mentre si attendeva l’arrivo dell’autorità giudiziaria”. La vita, nelle prigioni del Paese, si fa sempre più impossibile. E d’estate con il caldo le condizioni igienico-sanitarie, in molti casi già precarie, peggiorano. Dalla Casa circondariale di Napoli Poggioreale un recluso nel Padiglione Torino (riservato ai soggetti in regime di “protezione”) ha scritto al nostro giornale per denunciare l’esistenza di ambienti insalubri e sporchi, come le aree di passeggio dei detenuti e i cortili “che vanno disinfestati”, perché sarebbero pieni “di escrementi di gabbiani e colombi, ma anche di quelli umani, inoltre, in questi spazi esterni corrono i ratti ed esiste il rischio che scoppi un’epidemia”. “Poi non ci sono panchine - aggiunge il recluso - e noi durante l’ora d’aria siamo costretti a sederci sulle scale di accesso ai passeggi che sono anch’esse sempre luride. Non esistono cestini per l’immondizia e per terra è pieno di cartacce, e infine bisogna parlare anche della mensa, che ci propina ogni giorno sbobbe immangiabili. Così il carcere produce solo recidiva”. Il detenuto chiama in causa il Garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello: “Cosa fa? Perché non interviene?”. “A Poggioreale la situazione non è molto diversa da quella di tante altre carceri italiane, quindi è disumana e intollerabile - sostiene don Franco Esposito, fino a quindici giorni fa cappellano dell’istituto di pena napoletano, oggi parroco nel quartiere Monticelli - ed è vero che spesso i topi scorrazzano nei cortili esterni, inoltre credo che la cucina andrebbe chiusa se non vi saranno al più presto interventi di risanamento”. Nei 12 padiglioni dell’istituto partenopeo, ritenuto uno dei più turbolenti d’Europa, vivono attualmente 2.113 detenuti a fronte di 1.624 posti regolamentari, 295 dei quali non disponibili per lavori di ristrutturazione. L’indice di sovraffollamento è del 160% circa. Gli edifici sono, perlopiù, fatiscenti. Gli agenti penitenziari in servizio sono 664 ma l’organico ne contempla 828. E qui operano soltanto 20 educatori. Le 598 stanze di detenzione (121 ora chiuse), molte delle quali occupate anche da dieci persone, sono dotate in totale di 348 docce, 142 bidet e 536 servizi igienici con porta. Dal primo gennaio due sono stati i suicidi, entrambi tramite impiccamento: si tratta di detenuti in attesa di primo giudizio, un italiano di 34 anni (che si è ucciso il 13 marzo) e un algerino di 34 (trovato senza vita nella sua cella quindici giorni dopo). Ancora da accertare le cause della morte di un terzo recluso. I tentativi di suicidio sono stati invece 24 mentre gli atti di autolesionismo risultano finora 196. Trentasei gli eventi critici (risse, aggressioni, proteste violente) registrati in otto mesi a Poggioreale. Infine, le evasioni: l’ultima, quella più eclatante, è avvenuta nella notte del 18 agosto, quando sono fuggiti due giovani detenuti, un algerino e un siriano: approfittando dell’assenza di controlli hanno praticato un foro nel muro perimetrale e, saliti sulla cinta, si sono calati dall’altra parte con una corda realizzata usando le lenzuola delle brandine. Ma sono stati catturati dopo poche ore. Treviso. Sit-in per Danilo, suicida in carcere: verità e giustizia di Matteo Marcon Corriere del Veneto, 29 agosto 2025 La manifestazione a Treviso, dove era stato portato il tunisino dopo l’arresto a Vicenza. Ieri pomeriggio, poco prima che si svolgesse il presidio “Verità e giustizia per Danilo Riahi”, l’europarlamentare di Avs Ilaria Salis ha effettuato un’ispezione a sorpresa all’interno del carcere minorile di Santa Bona a Treviso. “L’Italia deve rivedere completamente il modo con cui sta declinando il sistema di giustizia minorile - ha commentato - anche in questo caso ho riscontrato come la struttura del carcere non risponda in modo adeguato a situazioni di marginalità e difficoltà, come quella emersa nel caso di Danilo Riahi”. Il carcere minorile di Treviso è tornato sotto ai riflettori per la morte di Riahi, tunisino di 17 anni, che era stato arrestato a Vicenza il 9 agosto, dopo alcuni tentativi di rapina e dopo aver scatenato il caos in centro. Il ragazzo era stato immobilizzato con il taser. Riahi ha tentato il suicidio poche ore dopo in carcere ed è morto il 12 agosto al Ca’ Foncello. “Ho visitato il Centro di Prima Accoglienza, cioè il luogo dove si trovava Danilo in attesa di convalida dell’arresto - spiega Salis - il Cpa è attiguo al carcere minorile ed è già un’anomalia perché dovrebbe essere una struttura adiacente al tribunale. Si tratta di un luogo dove non è possibile sorvegliare completamente gli ospiti. Danilo è stato visitato da un medico al suo ingresso ma il personale non conosceva le circostanze che avevano portato al suo arresto e non ha visto né uno psicologo né un educatore”. L’ispezione ha riguardato anche il carcere minorile: “Al momento ospita 15 ragazzi - prosegue Salis - con una capienza di 12. Nei mesi scorsi è arrivato anche ad ospitarne punte di 28. Ho trovato ragazzi che dormivano su materassi posizionati a terra e ho notato i segni evidenti di gesti di autolesionismo”. Il successivo presidio ha visto la presenza di esponenti di diverse forze politiche (Pd, Avs, Coalizione Civica, Rifondazione Comunista), del Django e del collettivo Rotte Balcaniche. Milano. Maisto “rimosso” con una telefonata, ma doveva restare fino alla nomina del successore di Massimiliano Melley milanotoday.it, 29 agosto 2025 Fine mandato per il Garante dei detenuti Maisto, è giallo sulla proroga fino a nomina successore: il posto è vacante. L’ex magistrato Maisto ha dichiarato di avere ricevuto una telefonata da un funzionario che gli comunicava la decadenza. Il suo mandato è terminato il 6 agosto. Ma il regolamento dice che il garante lavora finché non viene nominato il successore. La fine del mandato di garante dei detenuti di Milano è scattata il 6 agosto (il Comune, però, contesta questa data) e, in attesa della nomina del successore, l’ex magistrato Francesco Maisto, garante uscente, non è più in carica. Secondo quanto da lui stesso riferito, un funzionario comunale gli avrebbe telefonato per comunicargli la decadenza, contrariamente a quanto prevede il regolamento che ha istituito, nel 2012, questa figura, con un voto bipartisan durante un consiglio comunale straordinario che si è svolto nel carcere di San Vittore. “Non sono attaccato alla poltrona”, ha dichiarato Maisto mercoledì, “ma avrebbero potuto prorogare la posizione fino alla nomina del successore”. Secondo l’ex garante, è grave che nessuno in questo periodo si occupi dei detenuti: “Avvocati, operatori e volontari continuano a chiamarmi, ma io non posso far nulla per loro”. Il Comune dal canto suo specifica che la fine del mandato non sarebbe avvenuta il 6 agosto ma il 23 giugno, e che il 6 agosto sarebbe quindi la durata massima della proroga prevista dal regolamento: 45 giorni, secondo le norme nazionali sugli organi amministrativi. Che cosa dice il regolamento - Maisto non può dunque più occuparsi dei detenuti nelle carceri milanesi. Ma, come si diceva, il regolamento prevede il contrario, proprio per evitare che vi siano periodi senza un garante. All’articolo 2 si legge che il prescelto “resta in carica 3 anni e opera in regime di prorogatio secondo quanto dispongono le norme legislative in materia”. La prorogatio è l’istituto giuridico che permette ai titolari di organi di esercitare la funzione dopo la scadenza del mandato, in attesa della nomina dei successori. Secondo il Comune, il rinvio normativo è al decreto legge 293 del 16 maggio 1994, che prevede, per gli organi amministrativi, una prorogatio massima di 45 giorni. Sul sito ufficiale del Comune è comparso l’avviso con il consiglio di rivolgersi al garante regionale: “È in fase di perfezionamento la procedura per nominare il nuovo garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Milano. Nel frattempo è possibile rivolgersi al garante regionale”, si legge. Ma, stando alla lettera del regolamento, Maisto può e deve esercitare il ruolo finché non verrà nominato il successore. Non c’è, insomma, telefonata del funzionario che tenga. Radicali: “Maisto al suo posto fino a nomina” - Dura la reazione dei radicali. “L’attuale garante, seppur scaduto, può proseguire nel suo incarico fino alla nomina del successore”, dichiarano Federica Valcauda, tesoriera di Europa Radicale, e Raffaella Stacciarini, segretaria dell’associazione Enzo Tortora: “Invitiamo Maisto a rivendicare quanto il regolamento gli consente e a continuare nel suo lavoro. Siamo nel pieno dell’estate, la stagione in cui emergono più evidenti i danni del sovraffollamento delle carceri, soprattutto a Milano: in questa situazione non sono tollerabili vuoti di responsabilità. Chiediamo al sindaco Sala e ai consiglieri comunali di adoperarsi da subito per far sì che il garante comunale dei detenuti sia nella condizione migliore per esercitare il suo incarico fino all’ultimo minuto utile”. La replica del Comune - Proprio giovedì 28 agosto era in calendario una seduta di sottocommissione carceri del Comune di Milano. Durante la seduta si è parlato anche di questo, e l’assessore al welfare Lamberto Bertolé ha chiarito che, in realtà, la scadenza del mandato di Maisto è del 23 giugno, e la legge sulla prorogatio degli organi amministrativi prevede un tetto massimo di 45 giorni, oltre i quali non si può in ogni caso andare. “Sono arrivate diverse candidature e la nomina del prossimo garante è questione di giorni”, ha assicurato l’assessore. Terni. “Situazione critica per il sovraffollamento e il poco personale” di Nicoletta Gigli Il Messaggero, 29 agosto 2025 “A Sabbione il problema del sovraffollamento è atavico. Ci sono 553 detenuti a fronte di una capienza stabilita in 422 e il personale della penitenziaria, con 206 effettivi sui 262 previsti in organico, è carente”. Il procuratore generale Sergio Sottani è appena uscito dal carcere di Sabbione. Ha voluto verificare di persona ancora una volta le condizioni all’interno del penitenziario ternano prima di recarsi nel carcere di Orvieto. A Sabbione, dal primo gennaio, si sono contati un suicidio consumato e sei tentati, 33 atti di autolesionismo e 27 aggressioni al personale della penitenziaria. Il procuratore Sottani ha visitato ogni sezione e le criticità non mancano: “Nel reparto M, quello dei protetti e delle persone che hanno compiuto reati di particolare riprovazione sociale la situazione è assolutamente inaccettabile. Ci sono quattro persone in una cella che dovrebbe ospitare due detenuti. Cosi come il reparto di prima accoglienza - aggiunge il procuratore generale - dove nelle celle singole ci sono due detenuti. La situazione è assolutamente critica per il sovraffollamento e il poco personale. Questo rende complicato il controllo della struttura detentiva, dove resta l’emergenza per la presenza dei telefonini che non arrivano più con i droni ma con i metodi tradizionali”. In carcere di Terni conta 70 detenuti psichiatrici e 150 con problemi di tossicodipendenza. “I condannati con problemi psichiatrici sono un grave problema a Sabbione - dice il procuratore Sottani. Dovrebbero stare in una Rems, che non c’è, o dovrebbero essere seguiti dai Sert che però non sene fanno carico, col risultato che restano in carcere con i noti problemi nei confronti della penitenziaria e degli altri detenuti”. La nota positiva è legata alle attività trattamentali in un penitenziario che, primo in Italia, ha aperto la stanza dell’affettività per l’intimità dei detenuti con mogli e conviventi. “La biblioteca funziona bene, nel teatro fanno diverse attività e si punta anche sull’inserimento lavorativo e sulle attività di studio con La Sapienza” spiega Sottani che, dopo Terni, visita il carcere di Orvieto. Qui ci sono 128 detenuti a fronte di una capienza di 98, anche il personale della penitenziaria scarseggia ma la situazione è completamente diversa da quella vista a Terni. “Quello di Orvieto è un carcere collocato nella città e affidabile, non ha mai dato problemi - conferma il procuratore. Rispetto a Terni è un’isola felice, c’è una buona attività educativa, un laboratorio di oreficeria e non presenta grosse criticità. L’unico problema sono le celle, che ospitano sei, otto detenuti”. La visita di Sergio Sottani agli istituti penitenziari umbri si conclude oggi con il carcere di Spoleto e poi quello di Perugia. Vasto (Ch). Un’altra vita oltre le sbarre: i detenuti trovano lavoro di Marianna Ventura Il Messaggero, 29 agosto 2025 Grazie al progetto Seconda Chance un ex carcerato è diventato aiuto cuoco. G. oggi cucina con la consapevolezza di chi ha attraversato la notte più buia e ha scelto di risalire, con lo sguardo fiero di chi ha affrontato il dolore e trovato una strada per ricominciare. È aiuto cuoco in un prestigioso hotel sulla costa adriatica, ma il suo percorso è iniziato in un istituto penitenziario abruzzese. Originario del Kenya, ha trascorso anni in carcere, trovando tra quelle mura una possibilità: lavorare in cucina, formarsi, mettersi alla prova. È lì che il progetto Seconda Chance ha incrociato il suo cammino, trasformando quella passione in un’occasione concreta. Grazie alla rete costruita dal progetto, è stato assunto direttamente in una struttura turistica senza passare per un tirocinio. Talento, dedizione e fiducia hanno reso possibile un inserimento stabile nel mondo del lavoro. È questa la forza di Seconda Chance: non solo una speranza, ma un’azione concreta capace di trasformare il tempo della pena in un tempo di crescita, e di offrire a ogni persona la possibilità reale di ricominciare. Nata nel 2022 da un’idea della giornalista Flavia Filippi, oggi l’associazione opera in tutta Italia per creare percorsi di reinserimento socio-lavorativo per persone detenute, affidate ed ex detenute. Solo in Abruzzo, in un anno, ha generato circa 15 assunzioni, coinvolgendo numerose aziende, molte delle quali scelgono l’anonimato. Tra queste, una multinazionale dell’abbigliamento che sta attivando colloqui nelle aree di Chieti e Pescara. A settembre partiranno due nuovi progetti finanziati dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap): “Vita”, all’Istituto Penitenziario di Vasto, e “Salute e Benessere”, a Teramo. Entrambi offriranno formazione, supporto psicologico e percorsi lavorativi. “L’obiettivo è costruire opportunità concrete e dignitose per chi sta scontando una pena - spiega Marta Elisio, referente regionale per l’Abruzzo - Coordiniamo una rete sempre più ampia di enti, imprese e cittadini impegnati nel generare cambiamento e inclusione”. Il valore di questi percorsi è riconosciuto anche dalle istituzioni penitenziarie. Fondamentale è la collaborazione con l’amministrazione penitenziaria: dalla direzione all’area trattamentale, fino al corpo di polizia. Questo dialogo rappresenta un ponte con la magistratura di sorveglianza e, quindi, tra carcere e società. Sono già attivi protocolli con Teramo e Vasto, e nuove collaborazioni sono in avvio a Chieti e Pescara. “L’auspicio è che Seconda Chance si radichi in tutti gli istituti penitenziari abruzzesi, costruendo una rete solida e inclusiva”, sottolinea Elisio. A Vasto, a dicembre 2024, è stata formalizzata la “Rete per l’inclusione sociale delle persone con fragilità sottoposte a esecuzione penale”: un’alleanza tra Comune, imprese e associazioni per sostenere il carcere. Il protocollo consente anche ai ristretti di svolgere lavori di pubblica utilità, contribuendo alla comunità e acquisendo competenze per il reinserimento. “Un esempio è quello del punto vendita McDonald’s di Vasto, dove il proprietario e il responsabile del personale hanno mostrato grande disponibilità. Sono stati sempre attenti e pronti a generare nuove opportunità - afferma Elisio - La loro sensibilità è un esempio concreto di come l’impresa possa essere motore di cambiamento sociale”. L’orientamento gioca un ruolo chiave. “Aiutare una persona a riconoscere le proprie competenze e immaginare un futuro: è il primo passo verso la libertà - sottolinea Elisio - Non è solo informazione: è accompagnamento, ascolto, costruzione di senso”. I tirocini sono un altro strumento centrale. “Permettono alle aziende di conoscere le persone ristrette in modo graduale. È un’occasione per superare pregiudizi e costruire fiducia”. Grazie ai fondi del Dap, questi percorsi sono sostenuti anche economicamente, facilitando la partecipazione delle imprese. “La responsabilità sociale non è un concetto astratto: è la scelta quotidiana di non voltarsi dall’altra parte - dice ancora Elisio - È il coraggio di vedere potenziale dove altri vedono solo il passato”. Seconda Chance oggi è una rete viva di enti, imprese e cittadini impegnati nel generare inclusione. “Ogni nuova adesione può fare la differenza - afferma Elisio - Servono più aziende, più enti, più cittadini disposti a credere nel valore della seconda possibilità”. E la storia di G. lo dimostra: il cambiamento è possibile, se c’è chi tende una mano. Cremona. Carceri, sicurezza e giustizia. Se ne è parlato alla festa del Pd di Sabrina Grilli cremaoggi.it, 29 agosto 2025 “Un sistema fallimentare che mina la sicurezza di tutti perché le persone che escono dal carcere sono peggio di quando entrano e non possiamo considerarle un corpo estraneo”. Le carceri italiane con il sovraffollamento dei detenuti, l’introduzione nel decreto sicurezza di 62 nuovi reati che non fanno che peggiorare la situazione, l’aumento del numero dei suicidi, 57 solo quest’anno, l’ultimo qualche giorno fa nel carcere di Cremona, è stato oggetto del dibattito che si è tenuto alla festa dell’Unità ad Ombrianello. Ad intervenire sul tema, allargato anche ai diritti e immigrazione, Valeria Verdolini, Presidente Associazione Antigone Lombardia, la deputata e Responsabile Giustizia del PD, Debora Serracchiani e l’ex sindaca di Crema, ora membro della segreteria nazionale, Stefania Bonaldi. “Il carcere di Cremona è un carcere di grande sofferenza - ha detto Valeria Verdolini, Presidente Associazione Antigone Lombardia - perché è un carcere, è una casa circondariale con dei numeri molto alti in un territorio che fatica ad occuparsi del suo carcere; in parte perché non la sente come una popolazione propria, perché molti arrivano dagli sfollamenti di Milano. E’ un carcere complicato perché ha molti detenuti comuni, ha molti detenuti stranieri e molti detenuti protetti e quindi è necessario immaginare anche dei percorsi differenziati e questo richiede risorse, operatori e pensare il carcere come un pezzo della città”. “Il rischio vero - ha continuato la deputata e Responsabile Giustizia del PD, Debora Serracchiani - è che oggi la vera e propria emergenza nazionale delle carceri italiane è che chi entra in carcere esce peggio di come vi è entrato; ora vi sembra una sintesi un po’ forte ma è esattamente così. Sono carceri sovraffollate, sono carceri fatiscenti, spesso non ci sono spazi trattamentali, non c’è personale, finiscono in carcere persone che in carcere non dovrebbero finire perché hanno altri problemi di dipendenza, piuttosto che di disagio psichiatrico. Devono scontare la loro pena ma deve essere “utile”. “Occorre rifuggire dalla sicurezza utilizzata come propaganda, come bandiera - ha concluso l’ex sindaca di Crema ed ora membro della Segreteria Nazionale PD, Stefania Bonaldi - con provvedimenti, come l’ultimo decreto sicurezza, che è estremamente coerente con la visione di questo governo; il risultato è che le carceri sono piene di poveri diavoli perché chi ha i soldi si difende e sta fuori dal carcere, sono sovraffollate, ci sono i suicidi, non c’è un approccio rieducativo e la situazione è drammatica, il Paese non è certamente un Paese più sicuro”. Verona. Il racconto del confine del carcere cronacadiverona.com, 29 agosto 2025 L’associazione MicroCosmo ha raccolto le testimonianze della casa circondariale di Montorio. Tra confini e luoghi di confine, proseguono al Bosco Chiesanuova gli appuntamenti della trentunesima edizione del Film Festival della Lessinia. La giornata di venerdì 29 agosto spazia dal cinema alla letteratura fino al sociale. L’incontro di Parole Alte, alle 10.30 in Sala Olimpica, è incentrato su “Il carcere come confine: inciampi, soste forzate e superamenti”. All’interno della Casa Circondariale di Verona, con il progetto “La Montagna Dentro”, l’associazione MicroCosmo ha raccolto scritti e testimonianze di persone che la vita ha portato a sconfinare per approdare infine al carcere. La reclusione è diventata un’ulteriore linea di confine con la società. Intervengono persone che vivono o hanno vissuto la detenzione insieme con Paola Tacchella (coordinatrice dei progetti MicroCosmo), Davide Sapienza (scrittore, giornalista e traduttore) e Giuseppe Saglio (psichiatra). Alle 16, nella Piazza del Festival, Katia Tenti con il suo E ti chiameranno strega (Neri Pozza 2024, Premio Itas del Libro di Montagna 2025) accompagna nel Sud Tirolo del Cinquecento, quando una feroce caccia alle streghe condannò decine di donne innocenti alla tortura e al rogo. Tramite la ricerca di una giovane antropologa, Arianna Miele, l’autrice unisce passato e presente, riportando al lettore storie di vite per lungo tempo ingiustamente dimenticate. Proseguono le proiezioni al Teatro Vittoria. Alle 18, per la sezione Montagne Italiane, è in programma la visione di: Mut (Italia 2024) di Giulio Squillacciotti. Alle 21, nella sezione Concorso: The mountain won’t move (Francia, Macedonia, Slovenia 2015) di Petra Seliška. Zekir e Zarif si occupano del gregge di famiglia, oltre seicento pecore sorvegliate da enormi cani da guardia, su un pascolo di alta montagna in Macedonia. Ferrara. In carcere la forza della musica: “Tra i detenuti i suoni della libertà” di Mario Bovenzi Il Resto del Carlino, 29 agosto 2025 Gli Acoustic Vibes varcano la porta dell’Arginone per regalare un’ora di concerto tra jazz e country “Esperienza molto coinvolgente, alla fine ci siamo abbracciati. Il prossimo anno saremo ancora qui”. Hanno portato la forza della musica, il suono della libertà sulle corde dei loro strumenti. Ballate e melodie, un abbraccio a chi all’interno di quelle mura deve scontare una pena, per anni il sole disegnato dalle sbarre. Kevin Marchì, Federica Mosa e Christian Falzone, i componenti di Acoustic Vibes, hanno varcato il cancello del carcere, sono entrati con i loro strumenti per regalare ai detenuti un’ora di concerto o poco più. Country americano, travolgente rock, l’eleganza della musica classica. È la stretta di mano del popolo dei buskers ai detenuti dell’Arginone. Perché gli artisti di strada sono anche questo, vicinanza, note per chi la piazza, il cuore di Ferrara non può raggiungere. A raccontare questa esperienza è Kevin Marchì - il gruppo viene salla Sicilia - emozione ancora forte appena il concerto è terminato. Già in piazza con gli strumenti per l’esibizione davanti alla città. Chitarra acustica, batteria e violino, melodie e ritmi che si rincorrono, incalzanti, che trascinano. Dice: “Abbiamo varcato la porta del carcere, siamo passati vicino alle celle, poi ancora più avanti. Fino ad arrivare ad una grande sala dedicata ai concerti. Nei posti a sedere i detenuti che hanno seguito i nostri brani con grande partecipazione, è stato coinvolgente anche per noi. Ci siamo abbracciati. Pronti a tornare qui anche il prossimo anno”. Dal jazz al folk, note popolari. Gli Acoustic Vibes, ensemble dal suono originale e ricercato. Il repertorio è un mosaico di stili e suggestioni. Dal virtuosismo gitano del jazz manouche alle calde atmosfere del country americano, passando per l’energia travolgente del rock, l’eleganza della musica classica con incursioni nei ritmi latini e folklorici. Un itinerario musicale travolgente che attraversa confini, epoche e culture, guidato da un trio tanto insolito quanto affascinante. “Suoniamo - riprende Marchì - strumenti acustici, ci siamo comunque aiutati con gli amplificatori per riuscire ad arrivare con i nostri suoni, la nostra poesia a tutti”. Federica (29 anni), Christian (40) e Kevin (29) sono tre amici legati dalla passione per la musica. Sono tutti e tre insegnanti. Federica di violino alle scuole medie, Kevin di chitarra a scuola e Christian nelle accademie private. E hanno unito la loro storia e i loro strumenti. Inizialmente suonavano nei locali, ma nel 2018 nasce l’idea di fare busking per essere più vicini al pubblico. Energia, battiti che non hanno il tempo per fermarsi. Dopo il concerto in carcere i loro suoni hanno scandito il ritmo di una sera busking in centro. Trasformare le mura del carcere in facciate su cui scrivere di Guido Vitiello Il Foglio, 29 agosto 2025 Tutto in carcere può diventare pagina. Si scrive per i posteri, per sé stessi, per i futuri inquilini. Potremmo sforzarci di vedere le pagine dei nostri libri come pareti di una cella in cui non sospettavamo di vivere, e poi abbracciare idealmente i nostri simili condannati. Quando sei qui con me questa stanza non ha più pareti ma pagine, pagine infinite. Prigioni laiche ed ecclesiastiche, segrete di torri e di castelli, lazzaretti e manicomi: ovunque un uomo si sia trovato recluso, nella storia, ha sempre cercato di trasformare le quattro mura in altrettante facciate su cui scrivere. Basterà, per convincersene, scorrere le iscrizioni nelle celle del Sant’Uffizio raccolte in Sicilia da Giuseppe Pitrè o i Palinsesti del carcere di Cesare Lombroso, trascritti nel 1888 in certe prigioni torinesi. Al fondatore dell’antropologia criminale sembrò di documentare un’oscura compulsione, perché quei tipi umani difettosi - esemplari dell’”uomo delinquente” - scrivevano non solo sulle mura della cella ma anche “sugli orci da bere, sui legni del letto, sui margini dei libri che loro si concedono nell’idea di moralizzarli, sulla carta che avvolge i medicamenti, perfino sulle mobili sabbie delle gallerie aperte al passeggio, perfino sui vestiti, in cui imprimono i loro pensieri col ricamo”. Il libro in una stanza. Tutto, in carcere, può diventare pagina, altro che il soffitto viola del bordello genovese che ispirò a Gino Paoli la sua canzone. Anche perché in prigione “qui con me” non c’è nessuno, solo i compagni di cella (che sono spesso troppi), ma non è a loro che sono rivolte le scritte sui muri. A chi, allora? È un mistero. Nelle celle del Sant’Uffizio l’unico lettore certo era l’Inquisitore, che spesso le usava come prova d’accusa. Si scrive per i posteri, per sé stessi, per i futuri inquilini della cella, per Dio? E non è forse, questa, una domanda che potrebbe porsi chiunque, libero o recluso, impugni una penna? Non descrive la condizione stessa dell’atto di scrivere, tolti tutti gli orpelli? Un buon esercizio d’immaginazione morale potrebbe esser questo: sforzarsi di vedere le pagine dei nostri libri, dei nostri taccuini, dei nostri giornali come pareti di una cella in cui non sospettavamo di vivere. E poi abbracciare idealmente i nostri simili condannati, con o senza colpa, a coltivare l’illusione simmetrica. Nisida a Venezia, il teatro voluto da Eduardo alla 82^ mostra del cinema di Fiorenza E. Aini gnewsonline.it, 29 agosto 2025 Ambientato nel 1983, parte dal trasferimento di alcune detenute che a causa delle lesioni dovute al bradisismo vengono spostate dal carcere femminile di Pozzuoli a quello minorile di Nisida. In quel periodo, il Maestro Eduardo De Filippo - che appena nominato senatore a vita dedica proprio ai ragazzi di Nisida il suo discorso di insediamento - visita spesso l’istituto, contribuendo alla creazione del teatro e delle scuole di scenotecnica e di recitazione. In queste due storie vere si innesta l’incontro fra due giovani detenuti che per la prima volta vivono insieme l’esperienza del teatro. Questa in estrema sintesi la trama del film ‘La salita’, diretto e interpretato da Massimiliano Gallo, al suo esordio da regista, che oggi, 28 agosto 2025, alle 15 viene presentato nella sezione ‘Giornate degli autori’ della 82^ edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica in corso al Lido di Venezia fino al 6 settembre 2025. Nel cast lo stesso Massimiliano Gallo, Gianfelice Imparato, Francesco Siciliano. A Mariano Rigillo è stata affidata l’interpretazione di Eduardo De Filippo: “Ha fatto un lavoro straordinario - ha commentato Gallo -, Eduardo non è interpretabile e lui non ha fatto un’imitazione”. Dopo l’esordio a Venezia, il film - prodotto da Panamafilm, FAN con Rai Cinema - verrà presentato proprio nella struttura dell’Istituto penale minorile campano nell’ambito dell’iniziativa ‘Un teatro per Nisida’. Il progetto, fortemente voluto dal Sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari, è stato promosso dalla Fondazione Severino e dal Dipartimento della Giustizia minorile e di Comunità con l’intento di sensibilizzare in una raccolta fondi i soggetti privati più attenti alla importanza del teatro quale luogo e spazio di cultura, ma soprattutto quale mezzo di risocializzazione, reintegrazione dei più giovani nel tessuto sociale. La conseguenza attesa è l’abbattimento del tasso di recidiva. La manifestazione, che si terrà nel prossimo mese di ottobre, vedrà la partecipazione di personalità del mondo del teatro, dello spettacolo e della musica, che interverranno dopo la proiezione di un breve estratto di un documentario dedicato al Maestro Eduardo De Filippo. Un grande uomo, prima ancora che attore e drammaturgo, che tanto impegno ha dedicato ai ragazzi di Nisida. Come dice Massimiliano Gallo: “Una storia che rende omaggio al Teatro e al suo potere salvifico. Una storia che in pochi conoscono e per questo andava raccontata”. Gallo e Rigillo: “Così raccontiamo Eduardo tra i giovani detenuti di Nisida” di Ilaria Urbani La Repubblica, 29 agosto 2025 Il film “La salita”, il primo da regista per l’attore Massimiliano, presenta la storia dell’incontro tra De Filippo e i ragazzi del carcere minorile. “Mi hanno guidato la poesia e la convinzione che il teatro sia salvifico. Anche in un luogo dove i sogni finiscono, l’arte ci fa vedere che la bellezza è ovunque”. Massimiliano Gallo alla sua prima prova da regista ci regala un film sul riscatto sociale che invoca la tragedia greca, ma non rinuncia al sorriso. L’attore presenta oggi alle Giornate degli autori nell’ambito della 82esima Mostra del cinema di Venezia “La salita”, primo film che lo vede dietro la macchina da presa con talento e sapienza. E non solo, Gallo è co-produttore e co-sceneggiatore del film con Riccardo Brun, autore del soggetto e produttore. L’opera, raccontata in anteprima esclusiva da Repubblica un anno fa sul set all’ex Nato di Bagnoli, co-firmata anche da Mara Fondacaro, nasce da un episodio reale, l’ingresso a Nisida di Eduardo De Filippo, interpretato da Mariano Rigillo, appena diventato senatore a vita mentre nel carcere minorile arrivano le detenute di Pozzuoli evacuate per il bradisismo. Eduardo vuole costruire un teatro a Nisida, un anno prima di morire, nel 1983, il grande drammaturgo tiene laboratori di teatro che cambiano la vita ad alcuni ragazzi. L’attore-regista trasforma la realtà in cinema e immaginazione. “Il punto di vista di Eduardo è attualissimo, ha messo uno specchio davanti agli adulti, ci ha detto che se quei ragazzini non sono stati salvati è anche colpa nostra. Che se invece diamo un’opportunità a chi non ce l’ha, può volare”, spiega Gallo, tre volte interprete in tv di film dalle commedie di Eduardo. La sua è una Napoli lontana da Mare Fuori, anche se con la serie il film condivide la brava direttrice del casting, Marita D’Elia. “Volevo volti diversi - aggiunge Gallo, 57 anni, a breve sul nuovo set della serie Imma Tataranni, e poi su quello dell’avvocato Malinconico 3 - il carcere come spettacolo e il cinema verità non mi interessano, ho voluto un film che facesse sognare anche me”. “La salita”, coprodotto da Panamafilm, con Rai Cinema, F.a.n. dello stesso Gallo con Rino Pinto e distribuito da Fandango, accanto a volti noti come Gianfelice Imparato nel ruolo del direttore del carcere, Maurizio Casagrande in quello di Carlo Croccolo (delizioso nelle macchiette), Luisa Esposito è Rosalia Maggio, Francesco Siciliano il sindaco Valenzi, Antonio Milo, Gea Martire, Shalana Santana, Maria Bolignano, Angela De Matteo e in quello delle detenute Antonella Morea, Lucianna De Falco e Greta Esposito, sceglie come protagonisti un volto talentuoso del teatro come Roberta Caronia e l’esordiente Alfredo Francesco Cossu. La colonna sonora originale di Enzo Avitabile impreziosisce un film a cui si augura lunga vita (al cinema forse in gennaio). Ispirato Mariano Rigillo nel ruolo di Eduardo, autore i cui testi frequenta da decenni: “È difficile interpretare Eduardo, mi sono tenuto lontano da qualsiasi imitazione ma ci tenevo a riproporre lo spirito con cui portò all’attenzione di noi tutti Nisida. Arrivò con un assegno dal direttore dell’epoca Luciano Sommella per costruire un teatro nel carcere, ci stupì tutti. Nisida scatenò in Eduardo una enorme passione civile per il riscatto dei giovani. Napoli oggi è cambiata ma bisogna tornare a quella lezione di Eduardo e stare molto attenti quando si filma qualcosa in carcere, è rischioso per i ragazzi che guardano”. Riccardo Brun sottolinea: “È un tributo a Napoli, ai suoi figli più sfortunati, alla potenza salvifica del teatro e degli incontri che ti cambiano la vita, alla grandezza di Eduardo. È un film ibrido, un po’ favola, un po’ commedia, un po’ documentario, un po’ noir. Sull’importanza di scegliere: scegliere sempre, ogni giorno, per salvarsi la vita”. Suicidarsi con la divisa, la Spoon River degli agenti di Diana Ligorio Il Domani, 29 agosto 2025 La vicequestora Sandra Manfrè è solo uno degli ultimi casi di un fenomeno che scuote polizia e non solo. In quattro anni si sono tolti la vita in 275, uno ogni sei giorni. Da gennaio sono già 26. “Una bolla di dolore”. I rintocchi secchi della campana fendono il suono circolare e inquieto della sirena di un’auto della polizia mentre scorta il feretro di Sandra Manfrè, vicequestora aggiunta e vicecapo della squadra mobile di Brindisi, che a 41 anni l’ha fatta finita con la pistola di ordinanza. È lunedì 4 agosto, Manfrè è appena rientrata dalle ferie. Alle 7.30 arriva in questura, indossa la divisa. Chiude a chiave la porta del suo ufficio, scrive a mano un biglietto per poi compiere il gesto. Nessuno aveva capito, notato o potuto immaginare. Secondo l’Osservatorio suicidi in divisa, un gruppo informale che raccoglie dati su fonti aperte e segnalazioni tra colleghi, da gennaio a oggi sono 26 come Manfrè gli insospettabili, uomini e donne in divisa che hanno deciso di togliersi la vita senza che intorno si siano colti i segni, gli indizi o le tracce di un malessere. Per mestiere, attitudine e scelta di vita, loro sono quelli e quelle che i segni li studiano, stanano gli indizi, fiutano le tracce. Quando si tratta di sé stessi, sono invece portati a tenere dentro, a nascondere le inquietudini sotto la divisa e i distintivi luccicanti. Dall’ultima comunicazione pubblica dell’Osservatorio permanente interforze sui suicidi tra le forze dell’ordine, creato dal prefetto Franco Gabrielli, sono stati 275 i suicidi dal 2019 al 2023 tra forze armate e forze di polizia, inclusa la municipale. In media, un evento ogni sei giorni. Nella relazione trasmessa nel novembre 2024 dal ministero della Difesa al parlamento, il suicidio è la seconda causa di decesso per i carabinieri, dopo la malattia e prima degli incidenti automobilistici. L’80 per cento dei suicidi avviene con l’arma d’ordinanza. Ecco allora che la storia di Manfrè racconta non una cronaca locale ma un fenomeno più ampio e complesso che interroga l’intera società. L’11 settembre, Sandra Manfrè avrebbe compiuto 42 anni. Originaria delle Isole Eolie, nel 2017 è commissario capo a Reggio Calabria dove coordina un’indagine sull’omicidio del tabaccaio Bruno Ielo: individua mandante ed esecutore districandosi nella complessa rete della criminalità organizzata locale. Nel 2022 viene trasferita a Brindisi dove assume l’incarico di vicequestore aggiunto e vicedirigente della squadra mobile. Nell’unico video che circola in rete all’indomani di questa nomina Manfrè parla per due volte di “scelta di vita”. È una doppia scelta che la porta in Puglia, il lavoro e la famiglia: suo marito, anch’egli poliziotto, è originario di Mesagne, la città dove si trasferiscono nel 2022. Il 4 agosto di quest’anno, un colpo d’arma da fuoco che ancora risuona nelle stanze della questura e nella testa di chi resta. Manfrè lascia un biglietto, un marito e una figlia di 3 anni. Sui social i commenti intorno alla tragedia si alzano come voci di un coro greco: “Un dramma che ci lascia inquieti”; “Cosa succede veramente nelle forze dell’ordine? Una mamma non lascia la sua bambina come niente fosse”; “Perché quando una donna porta una divisa, si pensa che debba essere forte sempre, anche quando dentro sta crollando?”; “Dall’esterno è facile pensare che la divisa renda immune dalle emozioni. Purtroppo non è così”. “Fino all’ultimo ho sperato non fossi tu”, scrive il 4 agosto sui social Maria Antonietta Rositani che nel 2019 è stata cosparsa di benzina e data alle fiamme dall’uomo che aveva sposato. Con l’80 per cento di ustioni sul corpo è riuscita a sopravvivere anche grazie a Manfrè che con la sua squadra mobile ha tutelato la donna consentendole un percorso di tutela e liberazione dal marito. “L’anno scorso a Reggio hai inaugurato in questura la stanza per accogliere le donne vittime di violenza”, scrive ancora Rositani. “Non ho saputo cogliere il tuo dolore nelle nostre conversazioni”. Manfrè era impegnata a parlare di violenza sulle donne nelle scuole a Reggio come a Brindisi. La scelta di porre fine alla propria vita in questura, con indosso la divisa, al ritorno dalle ferie e usando la pistola d’ordinanza veste il gesto di una forte simbologia. È un rituale che chiama in causa quella scelta di vita di cui Manfrè ha parlato il suo primo giorno a Brindisi. Nelle forze dell’ordine il lavoro coincide con l’intera esistenza: il costante contatto con il crimine e i conflitti umani, il post trauma, i ritmi, lo stress, la lontananza da casa sottopongono gli agenti a un forte carico emotivo. Se in questa condizione sopraggiungono problemi personali, familiari o di salute e se culturalmente si teme lo stigma nel chiedere aiuto, può essere difficile tenere tutto il malessere dentro. Nel 2019 Franco Gabrielli, allora capo della polizia, istituì l’osservatorio permanente interforze sui suicidi per dare attenzione a un fenomeno silenzioso e soprattutto per gestire e prevenire situazioni di disagio. Negli ultimi anni diversi sono stati gli interventi pensati dalla polizia di stato per il supporto psicologico del personale come la figura dei pari, la presenza di psicologi nelle questure e corsi di formazione sulla gestione dello stress. E come l’introduzione nel 2023 dell’art. 48-bis: il personale in situazione di disagio psico-sociale può essere impiegato in servizi interni, che non presuppongano l’impiego di armi, invece di essere sospeso dal servizio come previsto dall’art. 48 del dPR 782/85, misura che resta valida nei casi certificati di malattia psichica. In caso di disagio psico-sociale correlato a eventi di vita o di servizio traumatici, la sospensione dal servizio poteva aggravare lo stato psicologico di un agente che in un momento di bisogno si vedeva privato della sua identità professionale. “C’è chi muore. E c’è chi resta. Ma non vive più”, scrive V.P. sul gruppo social dell’osservatorio suicidi in divisa. “E nessuno capisce perché nessuno parla di noi. Di chi è sopravvissuto, ma a cosa? A un colpo di pistola? A una corda? No. A un sistema che uccide e poi volta lo sguardo”. V.P. convive da cinque anni con una perdita inspiegabile e con queste sue parole raccoglie tra i commenti le voci dei familiari tormentati da una serie infinita di domande senza risposta: “Siamo persone che si portano addosso il peso di assenze che gridano”; “Vivo dentro una bolla di dolore”; “Per mio figlio Michele che avrà per sempre 26 anni”; “Le voci di noi che restiamo denunciano l’ipocrisia istituzionale, quel sistema che pretende obbedienza cieca e restituisce silenzi colpevoli, scaricando le responsabilità su chi non può più difendersi. È un inno alla memoria, alla resistenza, alla verità”. Sono parole di rabbia e isolamento che interrogano un unico grande corpo, quello della nostra società di cui le forze di difesa e polizia fanno parte. Queste ultime hanno una specificità interna la quale però va vista nell’ottica di una società che loro proteggono ma da cui devono anche essere protette. “Il nostro rapporto col dolore rivela in quale società viviamo”, scrive Byung-Chul Han. Secondo il filosofo di Seul, le sofferenze sono segni e cifre di un codice per comprendere la società: “Oggi imperversa ovunque una algofobia, una paura generalizzata del dolore”. Quei codici, come società, abbiamo smesso di intercettarli e di coglierne i significati. Quella paura del dolore deve aver oscurato la mente di Manfrè e delle altre e degli altri che sono approdati al medesimo tragico esito. Ma più che domandarsi perché si sono suicidati, dovremmo chiederci perché non hanno chiesto aiuto. Questione che di nuovo chiama in causa il rapporto tra l’individuo, sempre più isolato nella società ma da essa schiacciato, e il dolore. Sandra Manfrè lascia un biglietto. Lascia un marito, anch’egli poliziotto. Lascia una figlia. Per unirsi al caporal maggiore dell’esercito, 51 anni, impiccatosi a un ulivo del suo giardino in provincia di Lecce, all’ispettore, 52 anni, che si dà una pallottola in testa con la pistola di ordinanza nella sua casa a Bari, al sovrintendente, 59 anni, che si spara nel parcheggio del carcere di Secondigliano, al finanziere che si lancia dal decimo piano dell’ospedale di Chieti, alla poliziotta della municipale che la fa finita negli spogliatoi del comando a Bologna, agli uomini e alle donne che per lasciare il corpo di polizia hanno lasciato il loro corpo formando una silenziosa Spoon River di divise. Giacche e pantaloni che restano vuoti, appesi come fantasmi con il distintivo luccicante e l’arma scarica. Quei fantasmi dell’azzardo in vacanza al Bingo di Gianluca Nicoletti La Stampa, 29 agosto 2025 Monitor lampeggianti, odore di tabacco e una voce che legge veloce i numeri. Tra gli anziani e i tanti stranieri che passano le ferie in queste sale dove la luce è uguale giorno e notte e nessuno parla al proprio vicino. In una serata di agosto a Roma, mi sono unito al popolo dei fantasmi della sala Bingo. In un primo timido tentativo mi sono affacciato in un paio di quei luna park per adulti, uno stava a dieci minuti a piedi dal Cupolone. C’era pochissima gente ma ne ho approfittato per togliermi di dosso quell’aria impacciata da parvenu. Una volta dentro sono stato intriso da un odore acre che non sentivo nei locali pubblici dal tempo in cui si fumava al cinema, infatti pur non fumando mi ero infilato nella sala fumatori. Un cameriere mi aveva fatto accomodare a un tavolo dove c’era un unico signore barbuto, immobile come una statua, che sembrava una ciminiera. Non sono andato per stare solo, quindi sono restato dove si fuma, scegliendo un tavolo più composto dove sedeva una signora dal bell’aspetto che fu, immagino originaria di qualche Paese dell’America Latina, lei masticava una sigaretta elettronica. La maggior parte dei giocatori erano donne, quasi tutte straniere. Molte le filippine o in generale asiatiche. Qualcuna parlava spagnolo, è il gruppetto compatto delle peruviane, ci sono anche albanesi e romene. Provo a chiedere alla mia compagna di tavolo come si giochi, mi guarda scocciata e mi indica le operatrici in divisa che girano tra i tavoli con rotoli di cartelle. A quell’ora costano un euro l’una, mi consiglia di prenderne cinque. Solo ora so che era la cosa peggiore per un principiante. Lei infatti ne prendeva una per volta, le erano rimasti solo dieci euro e così li centellinava. I numeri escono velocissimi, non faccio in tempo a trovarli, mi sono anche seduto in un posto dove non si vede il monitor con quelli usciti. Mi viene l’ansia, ancora inseguo vanamente i numeri sulle mie cartelline, qualcuno fa cinquina e bingo in pochi minuti, quando ancora io sto cercando uno dei numeri usciti, anche nelle giocate successive restavo vergognosamente indietro. Molte giocatrici hanno accanto dei grossi piatti di tonnarelli al pomodoro, che restano a lungo dimenticati sul tavolo. Mangiano mentre annullano le caselle, ognuno esegue il suo annerimento personalizzato con il pennarello fornito dalla casa, intanto fumano. La sinestesia che mi attraversa è un mix di salsa riscaldata al microonde, tabacco e svapate aromatiche, a cui si aggiungono luci da interrogatorio, monitor dove lampeggiano numeri e scritte che non decifro, poi quella voce sempre uguale che velocissima legge i numeri. Mi comincia a girare la testa, giuro. Imperterrite le operatrici girano tra i tavoli e vendono le schedine che si pagano in contanti, la vincita a chi fa cinquina o bingo si paga sempre in contanti. Esco dalla sala per prendere fiato, i camerieri mi guardano con commiserazione. Passo attraverso delle Forche Caudine di macchinette con luci e rumori. A giocare solo un signore cinese in pinocchietti e ciabatte. Quello è il dress code dominante, io che sudavo nella mia giacchetta da Umberto D, esco finalmente a riveder le stelle. Ho già perso venti euro, mi è passata la fame, però non mi arrendo. Vado a cercare una sala Bingo più frequentata. Scende la notte e mi sposto verso la via Aurelia, mi fermo di fronte un’insegna che copre lo spazio di sei vetrine. Entro deciso, oramai mi sento un consumato giocatore. Ancora una volta la sala fumatori è la più frequentata. Conto almeno duecento giocatori, i tavoli sono quasi tutti pieni e oltre a giocare tutti mangiano. L’odore predominante è quello dei popcorn e delle piadine. Guardo il menu incellofanato, si mangia con 5 euro, patatine, verdure grigliate, un primo. Quasi tutti mangiano robe fritte e le schedine nel veloce lasso della loro compilazione si impregnano di unto. L’ambiente è più informale dei precedenti, anche qui soprattutto uomini e donne asiatici, parlano tra loro una lingua per me incomprensibile, è una sorta di basso continuo, un miagolio che accompagna l’estrazione dei numeri. Ogni tanto la numerazione si interrompe e dall’altoparlante si chiede di fare silenzio. Sul tavolo ogni giocatore ha un mucchietto di banconote e qualche spicciolo. Immagino che sia il budget che si sono prefissati per la serata. Osservo però che cala a ogni giocata. Ho scelto strategicamente l’unico tavolo dove sono sedute due coppie di coniugi romani sui settanta anni. Capisco dai discorsi che sono habitué, minimo due o tre volte a settimana si siedono a quei tavoli come andassero in pizzeria, ma non sono per niente allegri. Le signore mangiano piadine e si lamentano che sgocciolino unto sui loro vestitucci a fiori. I mariti sembrano meno convinti, parlano di cambiare l’auto e dei prezzi di mercato. Non voglio pensare che per loro il Bingo sia visto come una possibile svolta. Intanto le signore non vincono. Gli uomini borbottano all’indirizzo di un tavolo vicino di soli stranieri che può issare una specie di pinnacolo dorato, è il testimone di chi ha fatto bingo, uno simile argentato indica la cinquina. Gli inservienti, anche loro di varie etnie asiatiche e latino americane, velocemente spostano i simboli della fortuna di tavolo in tavolo, a seconda di chi vince. “Quelli hanno un culo incredibile” mi dice l’ometto pieno di rabbia e comincia a borbottare una sua teoria su un possibile complotto, che favorirebbe alcune persone piuttosto che altre. Intanto la moglie ha finito i soldi: lo manda con la carta di credito a prelevare contanti e lei continua imperterrita ad azzannare piadine grondanti e acquistare schedine a blocchi di cinque. Nell’oretta in cui resto seduto avranno sicuramente speso, tra lei e il marito, un centinaio di euro; si sarebbero potuti permettere un bel ristorante, mangiare decentemente e vedere il cielo stellato. Restano però seduti anche quando io mi alzo, capisco che per loro la notte è ancora giovane. Uscendo studio i volti impietriti di donne anziane e male in arnese, personaggi indecifrabili che di giorno non avrei mai notato per strada. Colf, badanti, uomini che vediamo nelle cucine dei ristoranti, nelle frutterie, nelle lavanderie. Gente malata di gioco, che baratta quello che di meglio può dare, anche a buon mercato, una metropoli nel confortante mortorio di una notte d’agosto, per chiudersi in una bisca autorizzata. Le loro ferie le passano dove la luce è sempre la stessa, a qualunque ora del giorno e della notte, dove c’è tanta gente ma nessuno parla al vicino, perché chiunque è un nemico che potrebbe urlare cinquina o bingo un istante prima di te. La sala Bingo è un posto più o meno uguale in tutto il mondo, buono per tutte le ore e tutte le stagioni; estate compresa. Le sedie sono comode perché non ti venga voglia di alzarti, ti puoi rimpinzare con pochi soldi, solo perché tanti altri ne lasci per inseguire una fortuna che tocca sempre agli altri. Capisco che per molti di loro questo corrisponda al metadone per un tossico, se non ci fosse la sala Bingo andrebbero ovunque si possano giocare dei soldi. Senza i cartelli che invitano a non farsi prestare denaro, di non insistere a giocare se si perde, a controllarsi. Servono le raccomandazioni scritte? Non lo so, gli sguardi che ho incrociato a quei tavoli non avevano nulla di gioioso, questo è sicuro. Non bastano cameriere sorridenti e lucette colorate per rendere glamour un luogo dove ci si rinchiude per dipendenza. A botte di due euro ogni cinque minuti ho lasciato in quella sala Bingo più di cinquanta euro. Mi sono volati tra le dita, a piccole dosi di monete che sembravano perdite veniali, quasi mance a cui nessuno fa caso. Torno a casa velocemente. Appena in tempo, prima che il “demone ludopate” attanagli anche me. Droghe. L’assessora al Welfare di Bologna: “Distribuendo pipe per il crack riduciamo il danno” di Francesca Del Vecchio La Stampa, 29 agosto 2025 Matilde Madrid: “Con la nostra iniziativa contrastiamo epatite e Hiv e avviamo i tossicomani al recupero”. “Dire che la droga fa male è banale. Chi amministra ha un compito in più. È necessario confrontarsi con la realtà cercando di raggiungere anche le persone più marginalizzate”. Per l’assessora al Welfare del Comune di Bologna, Matilde Madrid, e per il sindaco Matteo Lepore (Pd), sono ore delicate dopo le polemiche innescate dalla distribuzione gratuita di pipe monouso per l’assunzione di crack. “Le critiche del centrodestra ce le aspettavamo”, aggiunge, “ma le rispediamo al mittente: studino prima di parlare”. Assessora, facciamo un passo indietro. Qual è la genesi di questa iniziativa? “Nasce dalla consapevolezza che la diffusione del crack è in aumento, specie tra le persone che vivono in marginalità sociale. Non solo a Bologna. E chi fa uso di questa sostanza spesso riscontra patologie secondarie come epatiti, Hiv o malattie derivanti dal consumo, dallo stile di vita e anche dall’utilizzo di strumenti per fumare non monouso o addirittura improvvisati, come lattine e bottiglie”. In che modo interviene questa misura? “Si chiama riduzione del danno e dal 2017 non è più solo una buona pratica ma una legge dello Stato. Fa parte dei livelli essenziali di assistenza. È una prestazione che dev’essere garantita sui territori e che le regioni devono disciplinare. Alcune lo hanno fatto, anche se governate dal centrodestra”. Non è un paradosso intervenire così? “Negli Anni 80 e 90, per contrastare la diffusione di malattie tra chi faceva uso di eroina, si distribuivano siringhe monouso e sterili. Oggi nessuno si sognerebbe di mettere in discussione l’efficacia di quell’iniziativa. L’obiettivo immediato non è far uscire le persone dalla dipendenza, ma limitare il danno. Poi c’è il vero valore aggiunto”. Quale? “La relazione che si instaura nel momento della distribuzione: la pipa viene consegnata all’interno di una relazione di fiducia che si consolida con l’operatore sociale o sanitario. All’interno di questa relazione non giudicante la persona non è vista solo come consumatore ma come portatrice di bisogni: la si ascolta, ci si confronta sullo stato di salute, la si accompagna in un percorso di consapevolezza. E spesso succede che dopo un po’ ci chiedano aiuto per uscirne”. Perché allora tutte queste critiche? “Innanzitutto, ci tengo a precisare che la sperimentazione è partita più di un anno fa. A metà luglio abbiamo presentato i risultati. Poi, due giorni fa, questa valanga di polemiche. Le persone che fanno politica e parlano con gli slogan dovrebbero prima studiare”. Si riferisce a quanti hanno detto che “il comune di Bologna vuole i cittadini drogati”? “Governare una città, un Paese, significa provare a cambiare le cose confrontandosi con la realtà. Sporgere denuncia nei confronti del sindaco o dire che la droga fa male, che è un’affermazione che condividiamo tutti, non cambia le cose. Pensiamo a lavorare per la salute delle persone, anche quelle che nessuno raggiunge. E bisognerebbe pensare a come fare la propria parte anche a livello nazionale”. Per esempio? “Si dovrebbe investire molto di più sulla prevenzione. Ma anche in ambito sanitario su trattamenti, inserimenti in comunità. Ripeto, non serve denunciare un sindaco”. Questa cosa la preoccupa? “Al contrario: sono molto tranquilla. Se ci portano in tribunale, produrremo tutto il materiale scientifico e giuridico su cui ci siamo basati”. A proposito di contrasto, lei è favorevole alla legalizzazione delle droghe cosiddette “leggere”? “Il consumo individuale e le problematiche che porta con se l’uso di sostanze è solo la punta di un iceberg. Il contrasto ai narcotraffici deve essere la priorità numero uno. Reprimere il piccolo consumatore, stigmatizzarlo senza attaccare la radice del problema - che implica sottrarre i guadagni delle grandi organizzazioni - non ha molto senso in una prospettiva di lunga durata”. Le critiche del centrodestra erano attese. La reazione del Pd nazionale vi ha convinti? “Si sono espressi a sostegno della nostra scelta molti esponenti del Partito democratico, parlamentari e amministrazioni di altre città”. Quindi non temete di essere lasciati soli nel difendere questa misura? “Assolutamente no. La politica ha parlato chiaramente e anche nei dibattiti tra le reti sociali c’è piena condivisione. Ci sono altre città che attuano questa misura e speriamo se ne aggiungano altre”. L’Europa si riarma: munizioni, confini blindati e i bambini impareranno a usare i droni di Marco Bresolin La Stampa, 29 agosto 2025 Il piano di riarmo Ue diventa realtà: corsa agli investimenti per la Difesa comune. Fabbriche di munizioni e di polvere da sparo che aumentano esponenzialmente le loro linee produttive. Confini blindati con campi minati e bunker per la popolazione. Governi che lanciano programmi per insegnare ai civili, bambini compresi, a pilotare un drone. Piani per allestire ospedali militari nei pressi degli aeroporti. E poi i grandi progetti nel campo dell’industria della Difesa per arrivare ad avere un unico carro armato e per sviluppare aerei da combattimento di nuova generazione, con Emmanuel Macron e Friederich Merz che ieri si sono incontrati per cercare di rivitalizzare il programma Scaf. Dopo le promesse e gli impegni sottoscritti, in sede Ue e soprattutto al vertice Nato, il piano di riarmo europeo e quello per la preparazione alle crisi entrano nel vivo, passando dalle parole ai fatti. Ursula von der Leyen partirà oggi per un tour che toccherà sette Paesi lungo il confine orientale proprio per vedere come procede la “messa a terra” del RearmEU in questa regione e per mandare un messaggio chiaro: al di là degli sviluppi sul campo in Ucraina e a prescindere da un eventuale accordo di pace - questa la sua analisi - la Russia rappresenta la principale minaccia per la sicurezza nel Vecchio Continente. Che quindi è chiamata attrezzarsi per erigere le sue barriere protettive, anche in vista di un ormai conclamato graduale disimpegno americano. Ieri la Nato ha confermato che tutti gli Alleati hanno portato le loro spese militari al 2% del Pil, raggiungendo il vecchio target fissato per il 2025. Anche l’Italia, che quest’anno dovrebbe stanziare 45 miliardi di euro. Ma dopo il vertice dell’Aia l’asticella si è alzata significativamente e i governi si sono impegnati a incrementare gli investimenti nella Difesa, portandoli al 5% del Pil entro il 2035: le spese militari “tradizionali” dovranno salire al 3, 5%, ma bisognerà spendere un ulteriore 1, 5% per gli investimenti nella Sicurezza e per le infrastrutture legate alla Difesa. In termini numerici, la Germania è il Paese in cui sono in corso i maggiori investimenti, portati avanti soprattutto con il colosso dell’industria militare Rheinmetall. Mercoledì si è mosso il segretario generale della Nato, Mark Rutte, per inaugurare lo stabilimento di Unterluss, vale a dire quella che diventerà la principale fabbrica di munizioni in Europa (a regime, dal 2027, dovrebbe produrre 350 mila pezzi l’anno). In parallelo, la Rheinmetall ha firmato accordi per potenziare la produzione anche in alcuni Paesi che si trovano sul fianco orientale. In Romania, grazie a un investimento da mezzo miliardo di euro, ci sarà un impianto che produrrà polvere da sparo per le munizioni. In Bulgaria, una joint venture da un miliardo consentirà di produrre in loco proiettili d’artiglieria, oltre a polvere da sparo. Già entro la fine del 2025, l’Europa sarà in grado di produrre due milioni di munizioni l’anno: un livello sei volte superiore a quello di due anni fa. Le ex repubbliche baltiche si stanno invece specializzando nella produzione di droni, con la Lettonia che fa da capofila in una coalizione di Paesi guidata in tandem con il Regno Unito. Durante la sua visita nel Paese, von der Leyen visiterà le linee produttive finanziate con i fondi Ue. I Baltici non sono attivi soltanto sul fronte della produzione, ma stanno sviluppando una vera e propria educazione all’utilizzo dei droni: nelle scorse settimane il governo lituano ha lanciato un programma educativo che, attraverso corsi di formazione, punta a fornire nell’arco dei prossimi tre anni le competenze necessarie per controllare un drone a quindicimila civili, tra cui settemila bambini. Saranno coinvolte anche le scuole, a partire dalla terza e dalla quarta elementare: i più piccoli - ha spiegato il governo - “saranno coinvolti nella costruzione e nel pilotaggio di semplici droni attraverso esperimenti pratici e giochi”. Gli studenti più grandi lavoreranno invece alla progettazione. In Polonia il premier Donald Tusk porterà von der Leyen nell’Est del Paese, dove è in corso la realizzazione dello Scudo Orientale, un sistema di fortificazioni per blindare tutta la frontiera e prevenire eventuali attacchi. All’inizio dell’estate, il governo di Varsavia ha annunciato i lavori per installare dei campi minati al confine con Kaliningrad. Francia e Germania hanno ripreso le discussioni per rilanciare il progetto Scaf, al quale partecipa anche la Spagna, per lo sviluppo di un caccia multiruolo di sesta generazione che entro il 2040 dovrebbe prendere il posto dell’Eurofighter Typhoon e del Dassault Rafale. In parallelo, l’Italia lavora con il Regno Unito e il Giappone nel quadro del programma Gcap (Global Combat Air Programme) per un progetto alternativo, sviluppato grazie a una partnership nella quale sono coinvolte Leonardo, la britannica Bae e la giapponese Jaiec, che all’inizio dell’estate ha ottenuto il via libera della Commissione. Sul fronte dei mezzi di terra, Bruxelles ha approvato un finanziamento da 20 milioni per avviare lo studio per progettare il primo vero carrarmato europeo che coinvolge 51 aziende da tredici Paesi, inclusa l’Italia: secondo il programma Marte, il primo prototipo potrebbe arrivare nel 2030. Sulla scia della strategia sulla “Preparazione”, definita dalla Commissione sulla base degli input ricevuti dal rapporto dell’ex presidente finlandese Sauli Niinisto, molti Stati hanno iniziato ad attrezzarsi per non farsi trovare impreparati di fronte a eventuali emergenze, siano esse di natura sanitaria, ambientale, ma anche militare. In Francia sta facendo discutere l’indiscrezione, pubblicata dal Canard enchainé, secondo la quale il governo avrebbe scritto alle agenzie sanitarie regionali per chiedere agli ospedali di attrezzarsi per accogliere e curare migliaia di soldati feriti in caso di necessità e di creare dei centri, in prossimità di porti e aeroporti, per rimpatriare i militari stranieri feriti. La missione di von der Leyen - che nei prossimi quattro giorni visiterà ben sette Paesi Ue (ma non le “ribelli” Slovacchia e Ungheria - va inquadrata anche nell’ambito del piano Safe, il fondo da 150 miliardi per finanziare attraverso prestiti a tassi agevolati gli investimenti congiunti nel campo della Difesa. Sin qui sono diciotto gli Stati membri che hanno presentato la richiesta di fondi per un totale di 127 miliardi: al primo posto c’è la Polonia, che vuole 45 miliardi, seguita da Francia (15-20 miliardi), Italia (15) e Romania (10). I restanti Paesi hanno richiesto cifre minori, mentre altri si sono detti interessati a partecipare agli appalti congiunti, ma senza accedere ai finanziamenti messi a disposizione dalla Commissione. Entro la fine di novembre, gli Stati dovranno inviare a Bruxelles i loro piani nazionali per gli investimenti nella Difesa. Ripartire dalla sicurezza umana. Una via per lo sviluppo dell’Africa di Adekeye Adebajo* Il Domani, 29 agosto 2025 La sicurezza umana - definita per la prima volta nel fondamentale Rapporto sullo sviluppo umano del 1994 del programma delle Nazioni unite per lo sviluppo - è un quadro innovativo post Guerra fredda che si concentra sugli individui, in contrapposizione agli stati nazionali. Da allora ha portato a una maggiore enfasi sulla protezione delle persone dalla fame, dalle malattie, dalla repressione e dai conflitti che influenzano negativamente i risultati sanitari, aggravano l’insicurezza alimentare e interrompono l’accesso all’acqua potabile. Il 17 agosto, il programma delle Nazioni unite per lo Sviluppo ha pubblicato il rapporto Advancing Human Security for a Resilient and Prosperous Africa (per il quale ho scritto un articolo di fondo). La sicurezza umana - definita per la prima volta nel fondamentale Rapporto sullo sviluppo umano del 1994 del programma delle Nazioni unite per lo sviluppo - è un quadro innovativo post Guerra fredda che si concentra sugli individui, in contrapposizione agli stati nazionali. Da allora ha portato a una maggiore enfasi sulla protezione delle persone dalla fame, dalle malattie, dalla repressione e dai conflitti che influenzano negativamente i risultati sanitari, aggravano l’insicurezza alimentare e interrompono l’accesso all’acqua potabile. Sicurezza umana - Il concetto si è rapidamente diffuso in Africa, in parte perché il rapporto iniziale del programma delle Nazioni unite per lo sviluppo (Pnud) è stato completato poche settimane prima che il genocidio ruandese causasse 800.000 vittime nel 1994, uno dei peggiori fallimenti della sicurezza umana nella storia recente. La coincidenza temporale ha contribuito a focalizzare l’attenzione sulla necessità di proteggere gli individui in difficoltà, mentre la pletora di stati deboli e vulnerabili in Africa ha sottolineato l’urgente necessità di costruire un’efficace architettura continentale per la sicurezza umana. All’Assemblea generale delle Nazioni unite del 2012, tutti i governi africani si sono impegnati a sostenere i principi della sicurezza umana. Tuttavia, nonostante la sua importanza per lo sviluppo socioeconomico e la gestione delle crisi, questa prospettiva si è affievolita negli ultimi anni. Oggi i paesi africani lottano per affrontare i principali fattori di migrazione all’interno e all’esterno del continente - tra cui il cambiamento climatico, le malattie infettive e il crescente divario digitale - in un contesto di arretramento democratico e di frattura dell’ordine globale. Farebbero bene a ricordare che le sfide complesse richiedono una prospettiva di sicurezza umana, fondata sulle esperienze e sui valori africani. Anche se raramente riconosciuto, gli studiosi e gli operatori africani hanno svolto un ruolo cruciale nella promozione della sicurezza umana come strumento per migliorare la governance, promuovere l’integrazione regionale e perseguire politiche di sviluppo efficaci. In realtà, gli sforzi per sviluppare un quadro africano di sicurezza umana sono precedenti al rapporto del Pnud del 1994. Nel 1990, sotto la guida del tecnocrate nigeriano Adebayo Adedeji, la Commissione economica per l’Africa delle Nazioni unite ha redatto e adottato la Carta africana per la partecipazione popolare allo sviluppo e alla trasformazione, che avanzava un paradigma di sviluppo radicato nella partecipazione dei cittadini a iniziative popolari e autosufficienti. Francis Deng - Nel 1996, il diplomatico sudanese Francis Deng, allora rappresentante speciale del segretario generale delle Nazioni unite per gli sfollati interni, sviluppò il concetto di “sovranità come responsabilità”, che spostava l’attenzione dalla sicurezza degli stati alla protezione delle persone. Deng ha cercato di rendere operativa la sua idea attraverso i suoi ruoli alle Nazioni unite (in seguito è stato consigliere speciale per la prevenzione del genocidio), spesso convincendo i governi africani e di altri paesi a proteggere le popolazioni a rischio e a gestire la diversità in modo più efficace. Deng riconosceva i pericoli della sovranità assoluta, sostenendo che i governi dovrebbero consentire l’assistenza umanitaria internazionale accanto agli sforzi nazionali per aiutare le popolazioni in difficoltà. Riteneva inoltre che le opinioni delle popolazioni locali fossero importanti quanto quelle dei governi nazionali e dei potenti signori della guerra nel determinare la sovranità durante i conflitti armati. Inoltre, Deng distingueva tra il comunitarismo, che in molte parti dell’Africa consente a parenti e anziani di intervenire senza invito nelle dispute interne, e la prospettiva di un intervento straniero negli stati africani deboli, che mette a rischio la sovranità del continente. Il lavoro della Oua - Anche il premio Nobel per la pace Nelson Mandela, primo presidente del Sudafrica dopo l’apartheid, si è opposto alla sovranità assoluta. Nel 1998, al vertice dell’Organizzazione dell’unità africana (Oua), ha avvertito i suoi colleghi leader che “non possiamo abusare del concetto di sovranità nazionale per negare al resto del continente il diritto e il dovere di intervenire quando, dietro quei confini sovrani, la gente viene massacrata per proteggere la tirannia”. Il diplomatico tanzaniano Salim Ahmed Salim, durante il suo mandato come segretario generale dell’Oua tra il 1989 e il 2001, ha notoriamente invitato il continente a trascendere la visione tradizionale della sovranità sostenendo che “ogni africano è custode di suo fratello”. Per gestire i conflitti in modo più efficace e prevenire gli interventi neocoloniali, Salim ha incoraggiato i politici africani a riformulare il principio di non interferenza in modo che riflettesse meglio i valori di parentela e solidarietà del continente. Di conseguenza, l’atto costitutivo dell’Unione africana (Ua), firmato nel 2000, si discostava radicalmente dalla rigida insistenza della Carta dell’Oua sulla non ingerenza. Come ha affermato Alpha Oumar Konaré, primo presidente della Commissione dell’Ua, il nuovo organismo è passato “dal non intervento alla non indifferenza”, consentendogli di intervenire in caso di gravi violazioni dei diritti umani e di cambi di governo incostituzionali. Simili cambiamenti si stavano verificando a livello globale, spesso sotto la spinta dei leader africani. L’”Agenda per la pace” del 1992 del segretario generale delle Nazioni unite, Boutros Boutros-Ghali, che definiva un quadro di riferimento post Guerra fredda per la costruzione della pace, dichiarava che “il tempo della sovranità assoluta ed esclusiva è passato; la sua teoria non ha mai trovato riscontro nella realtà”. Il suo successore, Kofi A. Annan, ha pubblicato un rapporto del 2005, In larger Freedom, in cui si afferma che la sicurezza umana comprende la “libertà dalla paura” e la “libertà dal bisogno”. Questi cambiamenti normativi hanno dato il via a tre decenni di democratizzazione in Africa, anche se di qualità diversa. Poiché i colpi di stato militari, il mancato rispetto dei limiti di mandato presidenziale e le pratiche elettorali fraudolente erodono alcune di queste conquiste, la ripresa della sicurezza umana è diventata una priorità urgente. È l’unico modo per rimettere in moto lo sviluppo del continente. *Professore e ricercatore senior presso il Centre for the Advancement of Scholarship dell’università di Pretoria