Carcere, troppi vuoti e molti silenzi di Daniela De Robert vocididentro.it, 28 agosto 2025 Voci di dentro è il nome di questo giornale, che ha l’ambizione di portare fuori il racconto del mondo di dentro. Quello che scorre dietro le sbarre e i muri di cemento nell’indifferenza dei più. Ma le voci di dentro sono sempre più flebili di questi tempi, un po’ per il caldo insopportabile nelle celle affollate oltre ogni limite, anche oltre quei tre metri quadri a testa che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha indicato come soglia minima al di sotto della quale c’è una forte presunzione di trattamento inumano e degradante (vietato dall’articolo 3 della Convenzione europea insieme alla tortura). È lo stesso Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria a registrare queste situazioni. Al 31 luglio dieci persone detenute vivevano in uno spazio vitale inferiore ai tre mq. Molte di più quelle tra i tre e i quattro mq: 15.314. Bastano 5 cmq in più per superare la fatidica soglia segnata in rosso dal Dap e rientrare così nella “normalità” dell’anormale sovraffollamento, arrivato a una media del 134, 29%, ma che nella Puglia supera il 170%: in altre parole, ogni cento posti ci sono settanta persone in più. Al caldo, si unisce la rarefazione delle attività, complice il personale in ferie, i volontari in vacanza, le scuole chiuse, i progetti fermi. E questo vuol dire che in quelle celle, in cui i posti sono calcolati in base alle brande (o ai materassi) spesso impilate una sopra l’altra perché i letti a castello diventano a tre se non quattro piani, in quelle celle si sta chiusi per quasi tutto il giorno, sdraiati o a turno in piedi, con il caldo e l’afa che rendono irrespirabile quel poco di aria che entra dalle sbarre e dove anche parlare costa fatica. Ma non è solo il caldo ad attutire le voci di dentro. Contribuisce anche l’introduzione del nuovo reato di Rivolta all’interno di un istituto penitenziario che punisce con la reclusione da 1 a 5 anni chiunque partecipi a una sommossa all’interno di un carcere mediante atti di violenza, minaccia o resistenza agli ordini delle autorità, o anche solo condotte di resistenza passiva. Un modo per mettere a tacere le proteste anche civili che nascono dietro le sbarre. Ogni manifestazione di dissenso non violenta, anche se espressa attraverso uno sciopero della fame o del vitto, una battitura delle sbarre e dei blindo è vietata. Ma nel rumore continuo dei cancelli che sbattono e delle urla che accompagnano i giorni e le notti, in carcere a volte parlare non serve. Occorre trovare un modo per farsi sentire. Per questo si ricorre a forme collettive, che dal mese di giugno sono diventate un reato. Negli anni 80 gli scioperi della fame e le proteste pacifiche erano il segnale di un clima positivamente cambiato negli Istituti. Non più rivolte violente, ma proteste pacifiche. Oggi anche queste sono represse, anche la resistenza passiva è considerata un atto illegale da punire con altro carcere. Un modo evidente per limitare l’espressione della legittima protesta e del libero pensiero. Dunque, alzare la voce in carcere è diventato più pericoloso. Così come nei Centri di permanenza per il rimpatrio, dato che il reato di rivolta è stato esteso anche alle strutture per il trattenimento per migranti. Da lì, fare uscire la propria voce è ancora più difficile. Non ci sono insegnanti, psicologi, volontari e i medici dipendono dalle cooperative che gestiscono i Centri e, quindi difficilmente si mettono contro il proprio datore di lavoro. Nel 2020, nel presentare al Parlamento la Relazione annuale del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale avevo definito i Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) dei “luoghi vuoti e sordi: vuoti perché privi di tutto, dagli arredi, spesso delle semplici sporgenze in muratura, a qualsiasi attività proposta; sordi perché isolati anche dalla società civile organizzata, presente invece in luoghi per definizione chiusi e separati come le carceri”. Oggi possiamo dire che i Cpr rischiano di divenire anche muti, non potendo fare sentire la loro voce oltre il muro che li separa dal mondo degli inclusi, neanche un grido di dolore o di rabbia. Con i loro corpi nascosti allo sguardo e le loro voci smorzate all’udito, le persone rischiano di svanire, dissolversi, sfumare e diventare niente. Ma non basta. Un freno è arrivato anche a una serie di redazioni dei giornali di carcere, quelle stesse redazioni che il Ministero della giustizia nel suo sito istituzionale definisce “Un’importante attività risocializzante”. Realtà che, spesso sotto la guida di giornalisti professionisti, operano negli istituti penitenziari da tempi più o meno lunghi. Spazi di riflessione, di lettura critica e di scrittura, contesti di formazione e di informazione che mettono in contatto il dentro con il fuori, che raccontano il mondo prigioniero con lo sguardo di chi quel mondo lo vive, ma in maniera professionale e corretta. Sono laboratori, che si propongono di promuovere una cultura di rispetto della legalità all’interno degli istituti di pena, di sensibilizzare il territorio sui valori della tolleranza, della solidarietà e della pace e di far maturare tra i detenuti la consapevolezza del proprio ruolo sociale e delle proprie risorse - come si legge nel documento programmatico della Federazione nazionale dell’informazione dal carcere e sul carcere che li raccoglie quasi tutti. Questa l’ambizione dei tanti giornali di carcere, che vanno avanti con i loro mezzi e con i finanziamenti che trovano. Eppure, molte di queste esperienze si sono viste porre dei limiti e degli ostacoli, come divieti di firma, blocchi preventivi e sospensioni di autorizzazione all’ingresso per alcuni volontari che da anni garantivano un lavoro nelle redazioni. Comportamenti che hanno allarmato la Federazione dei giornali e lo stesso Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti che ha approvato un documento con il quale ha espresso preoccupazione per quanto denunciato e ha chiesto al Ministro della giustizia “di adottare gli opportuni interventi per garantire il pieno diritto alla libera informazione delle persone detenute che partecipano alle attività delle redazioni, coscienti anche della finalità rieducativa che le stesse svolgono in una prospettiva costituzionalmente orientata della pena”. Una presa di posizione importante a garanzia del diritto alla tutela della libera manifestazione del proprio pensiero e della libertà di stampa, affermato dall’articolo 21 della Costituzione. Il Consiglio nazionale continuerà a monitorare la situazione in stretto contatto con il Coordinamento dei giornali di carcere che, nel frattempo, ha avuto un incontro con il vicecapo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Massimo Parisi per un chiarimento: nessuna volontà di censurare - ha assicurato. Infine, questo 2025 è segnato anche dal silenzio del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà. Con l’insediamento del nuovo Collegio nel 2024, il silenzio è calato sulle condizioni delle carceri e degli altri luoghi di privazione della libertà. Da quasi due anni, nonostante riferiscano di avere svolto oltre cento visite agli Istituti penitenziari, non vengono pubblicati i Rapporti e le Raccomandazioni. Nulla si sa sugli esiti dei controlli, su quanto è stato riscontrato, sugli interventi che chiedono all’Amministrazione. Solo ultimamente, dopo molte proteste di realtà del Terzo Settore, delle Camere penali, del mondo accademico e dei media sono usciti due brevi Rapporti su due visite in carcere e un Report con il quale comunicano il numero di visite effettuate in due anni e i chilometri percorsi (dato, quest’ultimo, del tutto irrilevante). Sono invece presenti due Rapporti del 2024 su due visite a Cpr. Nulla sui Servizi psichiatrici di diagnosi e cura (Spdc), sulle Rems, sulle Rsa, sui posti di Polizia, sui monitoraggi dei voli di rimpatrio forzato. E siamo ancora in attesa delle Relazioni annuali al Parlamento: quella del 2024 è saltata nel silenzio generale e ancora non si hanno notizie di quella del 2025. Confidiamo nei prossimi quattro mesi perché il Garante nazionale la presenti, adempiendo così a un obbligo di legge. Il silenzio dell’Istituzione di garanzia, nata come risposta alla condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza Torregiani per le condizioni inumani e degradanti delle carceri italiane, è una perdita per tutti. Occorre che l’Autorità garante torni a svolgere in maniera indipendente il proprio compito, illuminando luoghi bui e opachi come sono quelli della privazione della libertà. Occorre che il compito di visitare senza preavviso questi luoghi sia esercitato pienamente. Occorre che il Parlamento, le Istituzioni e la società civile siano messi in condizione di sapere cosa succede nelle carceri e nei Cpr, nelle Rems e negli Spdc, nelle strutture residenziali per persone anziane o con disabilità e nelle camere di sicurezza delle Forze di Polizia e in ogni altro contesto in cui persone siano private - de iure o de facto - della libertà. È necessario che siano pubblicati Rapporti dettagliati e completi sulle visite effettuate e che siano presentate e rese pubbliche le Relazioni annuali al Parlamento. Occorre che le Amministrazioni preposte alla gestione di tali luoghi trovino nel Garante nazionale un interlocutore competente e non compiacente, che lavori per innalzare gli standard di tutela dei diritti di chi vive in tali luoghi. Il vuoto lasciato dal Garante nazionale è una perdita per tutti: per chi è privato della libertà, per le istituzioni, per la collettività, per la democrazia. Lavoro in carcere. Le best practices che possono contrastare la recidiva di Giancamillo Palmerini ilsussidiario.net, 28 agosto 2025 Al Meeting di Rimini si è parlato anche dell’importanza del lavoro in carcere e del ruolo rieducativo della pena. Non solo Mario Draghi e Giorgia Meloni al Meeting di Rimini che si è appena concluso, ma anche tanti altri, più o meno rilevanti a livello mediatico, incontri e dibattiti in cui si affrontano i grandi temi dell’attualità italiana ma non solo. Nei giorni scorsi, ad esempio, partendo da un corposo lavoro di studio, ma anche di proposte, prodotto dal Cnel di Brunetta nelle scorse settimane, sulla questione “recidiva zero” e sul ruolo rieducativo, come ci ricorda anche la nostra Costituzione del 1948, della pena. Il documento contiene anche un articolato disegno di legge che si propone di ridisegnare il sistema, e le politiche, destinati ai carcerati “in cerca di un lavoro” dietro, o davanti, alle sbarre. Un progetto che parte da due principi. Valorizzare le migliori esperienze già “testate” sui territori, potremmo dire le “best practices”, e, allo stesso tempo, dedicare una particolare attenzione a quelle realtà che, per i più diversi motivi, sono, a oggi meno attrezzate. In termini poi più strettamente “normativi” è emersa la necessità di mettere sullo stesso piano, per quanto possibile, i lavoratori liberi e i cd “lavoratori ristretti”, così come, con specifico riferimento a questa seconda fattispecie, un’equiparazione tra lavoro esterno e lavoro “interno” (alle dipendenze dirette delle amministrazioni penitenziarie) alle strutture. Impianti che, è bene ricordare, nella realtà sono ben diversi da quelli raccontati, ad esempio, da produzioni cinematografiche ambientate sul lungomare di Napoli. Utilizzare al meglio, e implementare, quindi, quando possibile, gli strumenti di “partecipazione” dei territori e delle parti sociali al funzionamento degli istituti penitenziari e/o disegnarne di nuovi. Si pensi, ad esempio, al rapporto con le istituzioni formative e le scuole con le quali lavorare per accrescere il capitale umano di chi sta dall’altra parte delle sbarre. Dare così più opportunità ai detenuti più giovani (tra i 18 e i 25 anni) una volta usciti, si spera per sempre, dalle logiche del sistema penitenziario in una prospettiva, però, di responsabilizzazione dei ragazzi. Un Paese migliore, più coeso, e, sotto molti aspetti, più ricco e più giusto, si costruisce anche non disperdendo le tante competenze rinchiuse, insieme e troppo spesso per sempre, alle persone, dentro le carceri. Credere nel valore rieducativo della pena non deve essere, insomma, solo un nobilissimo “slogan”, ma deve diventare un’azione concreta che parta, prima di tutto, dai più giovani per cui un errore e/o un reato non devono diventare una condanna a vita senza fine. Il sovraffollamento non si risolve con la riduzione della custodia cautelare di Edmondo Bruti Liberati Il Dubbio, 28 agosto 2025 Il carcere che conosciamo ha poco più di due secoli: progresso rispetto a pene corporali, mutilazioni, deportazione e pena capitale, spesso con supplizi aggiuntivi. La storia è di riforme per una pena più rispettosa della dignità delle persone e più idonea a prevenire la recidiva; soprattutto limitarla come extrema ratio per i reati più gravi e allargare le possibilità di pene alternative. Ma è anche storia di regressi di fronte a gravi fatti di criminalità, e ancor più di fronte alle campagne “law and order”. Sono gli Stati Uniti la democrazia che più paga lo scotto di queste campagne. Permane la barbarie della pena di morte, che i democratici non hanno mai avuto il coraggio di affrontare alla radice, limitandosi alle “moratorie”, facilmente spazzate via da repubblicani al potere. Non caso uno dei primi atti della seconda presidenza Trump è stata la ripresa delle esecuzioni al livello federale. Il democratico Clinton aveva introdotto con three strikes and you are out un truculento trattamento della recidiva. Risultati, a tacere delle persistenti discriminazioni razziali: tasso di carcerazione dieci volte più alto della media europea, condizioni carcerarie spesso durissime e inumane cui corrispondono tassi di criminalità violenta elevatissimi rispetto all’Europa. Ma i “cattivi maestri” d’oltre oceano hanno ora seguito da noi con “decreti sicurezza”, indefessa introduzione di nuovi reati e aggravamento delle pene. Il sovraffollamento carcerario ha radici lontane ma il nuovo clima “legge e ordine” lo ha aggravato. “Legge” sono modifiche legislative irrazionali e talora controproducenti, “ordine” sono iniziative che nessun beneficio portano in termini di sicurezza ed anzi contrastano quelle misure, come le pene alternative al carcere, che si sono dimostrate le più idonee alla prevenzione della recidiva. Eppure la riduzione della recidiva attraverso misure che preparino e facilitino il reinserimento nella società è la migliore ricetta per promuovere la sicurezza effettiva. E’ stata lanciata una lettera aperta alle massime autorità dello Stato, da Gian Luigi Gatta, presidente dell’Associazione italiana professori di diritto penale, Cesare Parodi, presidente dell’Associazione nazionale magistrati e Francesco Petrelli, Presidente dell’Unione Camere Penali italiane con una serie di proposte sull’emergenza carcere. Accanto a riforme di più lungo periodo, in primo piano una proposta di immediata attuazione: “Misure di deflazione carceraria: estensione della liberazione anticipata per i detenuti che si trovino nella parte finale dell’esecuzione della pena e che abbiano dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione.” L’appello così rilevante, per il contenuto e per i firmatari, non ha avuto alcun risconto. Il Ministro Nordio, che ha firmato tutte le leggi carcero- centriche, ha opposto una chiusura totale alla liberazione anticipata allargata. Non solo ha mantenuto le deleghe nel settore penitenziario al Sottosegretario Delmastro, quello che il 16 novembre 2024 aveva espresso ‘ Una gioia non lasciare respirare chi sta nell’auto della penitenziaria”, ma sembra averne anche adottato la filosofia: “Nella mia persona convivono entrambe le pulsioni sia quella garantista che quella giustizialista a corrente alternata, secondo le necessità” (14 marzo 2025). Ora in questa alternanza il Nordio, al momento “garantista”, indica come immediata decisiva misura per il sovraffollamento carcerario la riduzione della custodia cautelare: nobile condivisibile proposito, ma che una attenta analisi dei dati dimostra del tutto ininfluente allo scopo immediato. Siano prudenti i Pm nel richiedere misure cautelari, siano prudentissimi i Gip nel concederle solo nei casi strettissimamente necessari. Sia vigile l’opinione pubblica e la stampa nella attenzione e nella critica. Ma non creiamo confusione con dati e false aspettative. Al 31 luglio 2025 detenuti presenti 62.569, di cui 9.021 in attesa di primo giudizio, 3.422 appellanti, 1.697 ricorrenti in cassazione e 758 “misti”. Il totale dei detenuti in attesa di sentenza definitiva (compresi appellanti e ricorrenti per cassazione) è il 23,81%, dato in linea con la media europea, peraltro fortemente influenzato per l’Italia da possibilità di appello e di ricorso per Cassazione molto più ampi di quelle previste in altri paesi. Il dato più rilevante è quello dei detenuti in custodia cautelare in attesa di primo giudizio: 14.42% Tutti vorremmo giudizi più rapidi, ma questa percentuale è la più bassa degli ultimi decenni. Di quel 14,42 % una percentuale significativa (non abbiamo un dato preciso) è costituita dagli arrestati in flagranza per i reati cosiddetti di strada, arresti convalidati, ma in attesa di giudizio. Solo il residuo è costituito dai detenuti per ordinanza del Gip su richiesta del Pm. Inoltre, tra questi detenuti in attesa di giudizio vi sono imputati per reati di grave allarme sociale (es. rapinatori seriali, trafficanti di droghe) che nessuno vorrebbe rimanessero in libertà. Se lo valutiamo con un minimo di attenzione, il dato del 14,42% dei detenuti in attesa di primo giudizio è in parte non riducibile e comunque marginale nel determinare il complessivo sovraffollamento, a dispetto di quanto dice il Ministro. Un classico esempio di parlar d’altro, per evitare di affrontare il nodo della questione. Lo stato delle carceri è intollerabile per il dramma dei suicidi. Situazioni difficili per la polizia penitenziaria. L’incattivimento nelle condizioni di detenzione, il “non lasciamoli respirare” è il più forte incentivo alla recidiva. Irrazionale, ingiusto e anche controproducente sulla effettiva sicurezza. Civiltà nelle galere non è buonismo, ma investimento sulla sicurezza, attraverso incentivo al reinserimento nella società. Qualcuno riesce a spiegarlo al Ministro Nordio, in questa fase “garantista”? “Stretta sui permessi premio per chi è condannato per mafia o terrorismo” di Simona Musco Il Dubbio, 28 agosto 2025 Rendere più difficile la concessione di permessi premio per chi è condannato per mafia o terrorismo. È questo l’obiettivo del disegno di legge presentato alla Camera dalla presidente della Commissione antimafia, Chiara Colosimo, insieme ad altri deputati. La proposta vincola la concessione dei permessi al parere dei pubblici ministeri, fino ad oggi non obbligatorio. L’iniziativa nasce a seguito di articoli di Repubblica che avevano documentato come alcuni esponenti di spicco delle associazioni mafiose avessero trascorso periodi fuori dal carcere durante le festività natalizie e pasquali. Nei primi mesi del 2025, i permessi concessi sono stati quasi 200. Pur ribadendo che “il fine rieducativo della pena previsto dalla Costituzione rimane imprescindibile”, Colosimo sottolinea che “non si può trascurare la sicurezza della collettività”. La proposta stabilisce che i magistrati valutino i pareri delle procure - che quasi mai sono favorevoli -, le informazioni degli istituti di pena e degli organi di polizia prima di prendere una decisione. Per i detenuti in regime di 41 bis, l’acquisizione dei pareri sarà obbligatoria. Inoltre, rafforza il ruolo del Procuratore nazionale antimafia, che potrà intervenire come pubblico ministero davanti al Tribunale di sorveglianza e avrà facoltà di impugnare i provvedimenti o presentare ricorso. La legge interviene anche sul testo unico sugli stupefacenti per evitare che i boss possano simulare una presunta tossicodipendenza al fine di scontare la pena in comunità anziché in carcere. La proposta si è sviluppata dopo un anno di lavori e audizioni in Commissione parlamentare, dove sono stati ascoltati magistrati di sorveglianza e procuratori, secondo i quali il problema principale dell’attuale sistema è che spesso il magistrato non attende le osservazioni della procura, facilitando così l’uscita di alcuni boss per permessi premio. “È stato molto raccontato il fatto che diversi mafiosi scarcerati negli anni precedenti a Palermo sono tornati con una nuova indagine nell’anno passato grazie al procuratore De Lucia in carcere - ha spiegato Colosimo ad Agorà Estate - In quell’occasione il procuratore disse: “io non conosco mafiosi che si sono pentiti e hanno smesso di essere mafiosi”. Dopo una sentenza della Corte costituzionale, non solo i boss pentiti potevano accedere ai permessi, ma anche coloro che, secondo i presidenti dei tribunali di sorveglianza, avevano una condotta corretta. Questo ha aperto ad alcune distorsioni, rese pubbliche in diversi casi”. Secondo quella sentenza, per la concessione dei benefici è necessario escludere due circostanze: “L’attualità della partecipazione all’associazione criminale” e “il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata”. L’altro intervento riguarda il testo unico degli stupefacenti, sulla scorta, ad esempio, della storia di Dorian Petoku, narcotrafficante albanese uscito dal carcere nonostante il parere contrario della Dda per scontare la pena in comunità, dalla quale è poi fuggito. Da qui la riflessione su possibili “connivenze” di chi deve certificare la tossicodipendenza. La proposta si concentra anche sull’articolo 30 bis, relativo ai permessi per detenuti al 41 bis per gravi motivi, dopo che “boss importanti della ‘ndrangheta - ha aggiunto Colosimo - sono tornati sui loro territori addirittura per trovare familiari malati. E questo genera non soltanto una preoccupazione per chi fa questo lavoro, ma anche su quei territori”. La proposta di legge, depositata il 5 agosto, dovrebbe diventare “una priorità” per la Commissione Giustizia. Colosimo spiega che si tratta di una misura che rafforza le Dda e mette al centro la Procura nazionale antimafia, con possibilità di reclamo e verifica. “Se un boss vuole dimostrare di voler cambiare vita deve innanzitutto risarcire le famiglie delle vittime, cosa che quasi mai avviene”, aggiunge, ricordando che spesso i mafiosi dichiarano di essere nullatenenti. Per questo la proposta prevede controlli su patrimoni e attività economiche, anche delle famiglie dei boss, prima di concedere i permessi, così da verificare eventuali inganni o intenzioni di continuare a delinquere. Per la presidente della Commissione antimafia, si tratta di una proposta “prettamente tecnica”, “non divisiva” e spera che “trovi l’appoggio di tutti, perché la lotta alla mafia riguarda tutti e soprattutto le vittime. Il modo giusto per onorarle è non permettere a chi ha fatto tanto male di continuare a farne”. “Via i pm politicizzati”, Meloni da Rimini lancia la corsa verso il referendum sulla giustizia di Giacomo Puletti Il Dubbio, 28 agosto 2025 Al meeting di Cl duro affondo della premier contro una parte della magistratura. La replica dell’Anm: “Noi non facciamo opposizione”. “Andremo avanti con la riforma della giustizia nonostante le invasioni di campo di una minoranza di giudici politicizzati che provano a sostituirsi al Parlamento”. Non usa mezzi termini la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, che ieri di fronte alla platea “amica” del meeting di Comunione e Liberazione a Rimini ha rilanciato sulla separazione delle carriere e non solo, in vista del referendum che andrà in scena con ogni probabilità nel 2026. “Andremo avanti non per sottomettere il potere giudiziario a quello politico come dice qualcuno in malafede ma al contrario per rendere la giustizia più efficiente per i cittadini e meno condizionata dalla mala pianta delle correnti e dei pregiudizi ideologici”, ha scandito Meloni tra gli applausi scroscianti del pubblico che un’ora prima circa l’aveva accolta con una standing ovation. D’altronde, quella di Cl è da sempre una platea vicina al centrodestra, sin da quando a Rimini venivano Spadolini e Andreotti fino a Berlusconi, ma capace di accogliere tutti, da Gentiloni a Monti, da Renzi a Draghi. L’ultimo inquilino di palazzo Chigi a presenziare al Meeting era stato proprio l’ex presidente della Bce, nel 2022, quando Meloni venne in qualità di capo del partito che di lì a poche settimane avrebbe vinto le elezioni. Quest’anno il clima è profondamente diverso, Fd’I governa con gli alleati da tre anni e l’ “applausometro” non lascia spazio a interpretazioni. Come di consueto da queste parti l’arrivo della presidente del Consiglio è accompagnato da una “cordata” di volontari che la scortano tra i corridoi della fiera riminese, prima di entrare nell’auditorium D3, introdotta dal presidente della Fondazione Meeting Bernhard Scholz. Poi la leader di Fd’I sale sul palco sul quale campeggia la scritta “il” presidente del Consiglio, giusto per non creare imbarazzi all’ospite. La sala è gremita, alle spalle di Meloni la bandiera italiana e quella europea ma, curiosità, nell’inquadratura del maxi schermo compare entra solo il tricolore. In prima fila diversi pezzi da 90 del partito, dal ministro Francesco Lollobrigida al capo delegazione di Fd’I a Strasburgo Carlo Fidanza (con trolley al seguito), dal presidente della commissione Lavoro Walter Rizzetto alla deputata Augusta Montaruli, in dolce attesa. In prima fila anche il leader dei Noi moderati Maurizio Lupi, da sempre vicino a Cl e che i rumors danno come sempre più probabile candidato sindaco del centrodestra a Milano. Meloni parla di “comunità”, di “senso di appartenenza” e di “dignità umana”, poi il discorso si più politico e tocca tutti i temi in agenda. Dalla guerra in Ucraina, con gli sforzi per costringere la Russia al dialogo e la lode a quella che definisce “l’eroica resistenza del popolo ucraino”, fino a Gaza, con il richiamo a Israele per quanto sta avvenendo. “Condanniamo l’ingiustificabile uccisione di giornalisti e l’inaccettabile attacco alla libertà di stampa”, scandisce tra gli applausi. La reazione di Tel Aviv, secondo la premier, “è andata oltre il principio di proporzionalità”, fermo restando che “non abbiamo esitato un solo minuto a sostenere il diritto all’autodifesa di Israele dopo l’orrore del 7 ottobre”. Per poi chiedere la liberazione degli ostaggi e la fine delle ostilità. “Rivendichiamo il ruolo ricoperto dall’Italia in questa crisi” in Medioriente, “e voglio ringraziare il ministro degli Esteri Antonio Tajani. Siamo il primo paese non musulmano per evacuazioni sanitarie da Gaza - insiste - C’è chi scrive le mozioni e chi salva bambini, io sono fiera di fare parte dei secondi”. Da qui l’importanza dell’aumento delle spese militari, perché “non c’è libertà senza autodifesa”, per poi virare sull’immigrazione, con un’ampia analisi dei flussi e delle necessità del Paese. Abbiamo dato una “cornice di serietà e rigore come mai avvenuto prima”, perché “un’immigrazione regolata e legale può essere una ricchezza, ma quella illegale e incontrollata è un danno per qualsiasi società”, ha spiegato Meloni mettendo poi in guardia la magistratura. “Ogni tentativo che verrà fatto di impedirci di regolare il fenomeno migratorio verrà rispedito al mittente - ha detto - Non c’è giudice, politico o burocrate che possa impedirci di far rispettare la legge dello Stato italiano”. Nel suo discorso Meloni ha citato il cardinal Sarah e papa Leone XIV, ha detto che “la droga fa schifo” citando il modello di San Patrignano, raggiunto nel pomeriggio dalla presidente del Consiglio la quale si è poi concentrata sul “modello Caivano”, da replicare in futuro in altre zone d’Italia. Ma c’è stato spazio anche per la critica alla pratica dell’”utero in affitto”, per un focus sul sostegno alla natalità e per l’annuncio di una nuova misura a sostegno delle giovani coppie che vogliono comprare casa. Un piano messo a punto “assieme al ministro Salvini, che ringrazio”, ha spiegato Meloni. I due, ha fatto sapere poco dopo la Lega, si sono sentiti al telefono convenendo “sulla necessità di proseguire con determinazione sulla strada del rilancio infrastrutturale dell’Italia, dedicando massima attenzione a un nuovo e rilevante piano casa”. Entrambi presenti ieri a Rimini, “non si sono salutati di persona solo per problemi di agenda, alla luce della visita a San Patrignano della premier e del programma di Salvini”. Poi l’affondo finale sulle riforme, in particolare quella sull’autonomia differenziata, “che porteremo avanti”, e quella sulla giustizia, con l’attacco di cui sopra a una parte magistratura. La quale ha replicato per bocca del presidente dell’Anm, Cesare Parodi. “A fronte delle odierne parole del presidente Meloni, mi sento in dovere di rassicurare - lei e gli italiani - che non vi è nessuna volontà da parte della magistratura associata di svolgere attività di opposizione politica - in qualsiasi forma - o di impedire o rendere difficoltoso l’esercizio delle prerogative e dei poteri che spettano all’esecutivo, in forza del mandato che ha ricevuto dai cittadini: né sulle politiche migratorie, né su altri temi - ha detto Parodi - I magistrati applicano le leggi che il governo e il parlamento approvano, trasferendo i principi generali ai casi concreti, tenendo necessariamente conto del quadro normativo generale, nel rispetto delle loro prerogative”. Zaccaro: “Attacchi ai giudici violenti e inutili come la riforma” di Mario Di Vito Il Manifesto, 28 agosto 2025 Il segretario di Area democratica per la giustizia: “Noi schierati? Ma se ci sono anche indagini sul centrosinistra”. “Finiscono le ferie e ricomincia la campagna contro la magistratura. I giudici italiani non si intromettono nelle scelte governative ma si limitano a fare il loro dovere: garantire i diritti di tutti gli essere umani, così come sanciti dalle leggi italiane e da quelle internazionali che il nostro paese riconosce. Affermare il contrario non fa il bene delle istituzioni della Repubblica”. È pressoché istantanea la reazione di Giovanni Zaccaro, giudice della Corte d’appello di Roma e segretario di Area democratica per la giustizia, all’attacco di Giorgia Meloni dal palco del meeting di Rimini. “Andremo avanti con la riforma della giustizia - ha detto la premier raccogliendo applausi dal pubblico di Comunione e liberazione - nonostante le invasioni di campo di una minoranza di giudici politicizzati che provano a sostituirsi al parlamento e alla volontà popolare”. Zaccaro, in pratica Meloni ha rispolverato un grande classico. Dice che le toghe fanno politica... Da decenni lo dicono tutti quelli che sono al governo. Eppure le cronache dimostrano che le indagini riguardano anche politici di centrosinistra. Temo che sia la solita provocazione per distrarre i cittadini italiani dai pericoli della riforma Nordio. Fondare un comitato referendario per il no alla riforma, come ha fatto l’Anm, però si può anche leggere come un atto di natura politica, non crede? La Costituzione repubblicana è nata dalla resistenza contro il nazifascismo, riassume tutte le anime democratiche repubblicane, è un bene comune degli italiani. Abbiamo partecipato ai comitati referendari contro la riforma costituzionale di Renzi nel 2016 e adesso, a maggior ragione, sentiamo il dovere di tutelare l’assetto costituzionale che tutela l’indipendenza della magistratura, anche di quella inquirente. Non è una battaglia corporativa, non significa schierarsi politicamente, è un modo per garantire i diritti e le garanzie dei cittadini, soprattutto i più deboli. Forse la premier se la prende con voi giudici perché, almeno sui temi della giustizia, le forze politiche dell’opposizione non hanno ancora trovato un modo per farsi sentire davvero? A me pare che questo non sia un tema solo italiano. Ovunque chi vince le elezioni vuole governare senza limiti e controlli e per questo cerca di annichilire gli organi di garanzia, come la magistratura, gli intellettuali scomodi, la stampa critica. Ed invece la democrazia funziona al contrario, infatti si fonda sul contrappeso reciproco dei poteri dello Stato. Chi vince le elezioni ha tutto il diritto di decidere le politiche migratorie, ma le sentenze italiane ed europee riguardano i diritti fondamentali di chi cerca protezione... L’attacco di Meloni intreccia giustizia e immigrazione. Ha parlato di giudici e burocrati che vogliono mettersi contro l’autoproclamata volontà del governo “di garantire la sicurezza dei cittadini, di combattere gli schiavisti del terzo millennio e di salvare vite umane”. Si riferisce evidentemente alla gran mole di provvedimenti sfavorevoli accumulati negli ultimi tempi sia in Italia sia in Europa… Il tema delle migrazioni è un paradigma dei rapporti fra governi che vincono le elezioni ed istituzioni di garanzia. Da decenni, in tutto il mondo, si instilla la paura verso il migrante e così si vincono le elezioni. È ovviamente legittimo che chi vince le elezioni decida le politiche migratorie, ma i provvedimenti dei giudici italiani ed europei riguardano i diritti fondamentali di chi cerca protezione e non le politiche migratorie. Sarebbero piani da tenere distinti, ma molti esponenti della maggioranza e molti giornali creano confusione con lo scopo palese di additare la magistratura come nemica del popolo. In questo modo pensano di preparare il terreno al referendum sulla pessima riforma Nordio. Teme che la polemica contro la magistratura salirà ancora di tono man mano che si avvicina il referendum? La virulenza delle polemiche è proporzionale all’inutilità e alla pericolosità della riforma Nordio. Temo che il dibattito assuma un tono eccessivo e divenga un giudizio sul governo in carica. Invece dobbiamo solo decidere se vogliamo che i magistrati inquirenti siano più o meno liberi. Io, anche viste la storia del nostro paese, lascerei le cose come le hanno pensate i padri costituenti e dunque voterò no al referendum costituzionale. Separare giudici e pm è incostituzionale? Solo un falso mito di Bruno Larosa L’Unità, 28 agosto 2025 A volte è necessario scrivere di fenomeni che riguardano la nostra società senza perseguire fini scientifici, facendolo per far conoscere il proprio pensiero su argomenti che, solo apparentemente, appartengono a un settore specialistico come quello del Disegno di legge di iniziativa governativa per la riforma del Titolo IV della Costituzione, che per i più tratta della separazione delle carriere del Giudice da quella del P.M. Una proposta nevralgica, seppur non risolutiva, per un’ineludibile miglioramento del servizio della giustizia penale, che deve essere sostenuto anzitutto da coloro che hanno una visione progressista della società, più sensibili di altri ai temi della giustizia e alle preoccupanti conseguenze che derivano dai risultati di un sondaggio condotto da Alessandra Ghisleri per LA7, secondo il quale “Gli italiani hanno paura della giustizia”, nonché dal giudizio critico di Antonio Polito, scritto su Il Corriere del Mezzogiorno, ispirato ai dati pubblicati dal Ministero della Giustizia per i quali dal 2018 al 2024, lo Stato ha speso 220 milioni di euro per riparazioni di ingiusta custodia cautelare in carcere, subita da indagati e imputati. I dati e i giudizi riportati sono un pericoloso segno di sfiducia del Popolo verso un’istituzione costituzionale indispensabile che, per poter adempiere al meglio il proprio ruolo, deve assicurare sostanzialmente i diritti di libertà ed eguaglianza per poter godere della fiducia incrollabile di tutti. Eppure, davanti all’evidenza che più di qualcosa nel sistema penale non funziona, non mancano persone autorevoli, impegnate in diversi modi nel mondo della cultura, dalla letteratura allo spettacolo, che si dichiarano contrarie alla separazione delle carriere, basando le proprie convinzioni sul senso comune, anche se infondato, e su massime di esperienza alle quali ricorrono per giustificare decisioni intuitive e dipendenti da suggerimenti o suggestioni che provengono da altri, associandosi così al più comodo conservatorismo mentale. La loro non è altro che una manifestazione di “pensiero prevenuto”, alimentato da opinioni preconcette. C’è da dire che sulla separazione delle carriere, da oltre un secolo, si è detto e scritto molto, facendolo, gli sfavorevoli, con l’uso di slogan che, propagandosi sino all’infinito - affinché “anche l’ultima persona, arrivi a coglierne l’idea” -, comportano una semplificazione condivisa del rischio, giungendo a quel giudizio affrettato che è proprio delle “affermazioni categoriche”, fatte da chi, nel pubblico, dà l’impressione di sapere cosa sta dicendo, generando quella che i neuroscienziati chiamano “fenomeno della verità illusoria”. Gli elementi che caratterizzano questo fenomeno ci sono tutti: leader riconosciuti e autorevoli; un avversario che, con le sue proposte, appaia di volta in volta un pericolo concreto; l’uso di slogan che prefigurano scenari tragici; la ripetizione continua di questi detti; una condizione di tribalismo da parte dei maggiori organi di informazione. La realtà, invece, è ben diversa e si svela solo attraverso il ragionamento logico e con la matura conoscenza delle dinamiche processuali e storico-politiche che riguardano l’argomento. Non potendo immaginare che quanti sono contrari alla separazione delle carrier, ignorino il substrato storico-culturale nel quale si è formata e alimentata l’attuale proposta di riforma costituzionale, devo dedurne che le loro affermazioni siano una manifestazione di slealtà istituzionale, con l’obiettivo, da una parte, di continuare ad assicurare il potere che i Padri costituenti non intendevano attribuire, dall’altra, seguitare a fungere da ipocrite ancelle, ossequiose di quell’Ordine, peraltro senza più ritrovarsi con la propria tradizione politica. Ciò avviene a danno della giurisdizione penale, ispirata costituzionalmente a un giudice rispettoso della legge, terzo e imparziale. L’obiettivo che qui mi propongo, dunque, è di provare a disabituare il cittadino dagli effetti che derivano da questo continuo stillicidio di affermazioni persuasive, ma irreali. Da autorevoli personalità che stabilmente occupano le pagine dei giornali e i salotti televisivi, sentiamo ripetere che: “Questa riforma è un attentato alla Costituzione… che essa nasconde il vero scopo del Governo che vuole sottoporre i PM alle sue dipendenze o a quelle del ministro della Giustizia”. Una “rottura con la Costituzione”, in questo caso, è davvero impensabile: il nuovo testo è all’esame del Parlamento, ed è trattato con la procedura prevista dall’art. 138 della Costituzione. D’altronde sulla legittimità della separazione delle carriere dei magistrati e della sua compatibilità anche con l’attuale testo costituzionale, si è incidentalmente espressa la stessa Corte Costituzionale con la sentenza n. 37 del 3-7 febbraio 2000 quando, dovendo giudicare sull’ammissibilità del referendum abrogativo dell’art. 190 comma 2 dell’Ordinamento Giudiziario, riguardo alla possibilità di passaggio delle funzioni requirenti a quelle giudicanti e viceversa, la Corte ha fatto due affermazioni di particolare interesse: 1) che quel quesito referendario non investiva le disposizioni il cui contenuto normativo essenziale fosse costituzionalmente vincolato, con la conseguenza che il referendum sulla materia era ammissibile; 2) che “La Costituzione, infatti, pur considerando la magistratura come un unico “ordine”, soggetto ai poteri dell’unico Consiglio Superiore, non contiene alcun principio che imponga o al contrario precluda la configurazione di una carriera unica o di carriere separate fra magistrati addetti rispettivamente alle funzioni giudicanti e a quelle requirenti…”. Questo per dire che, salvo a voler considerare la stessa Corte eversiva dell’Ordine Costituzionale, lo slogan sbandierato è un atto irresponsabile. Anche l’altro argomento, quello della perdita di indipendenza e autonomia esterna del P.M., è ingannevole. Per dimostrarlo basta leggere il testo del disegno di legge costituzionale, dal quale si comprende che non sarà possibile in alcun modo sottoporre il P.M. al controllo o alla volontà dell’Esecutivo o a quella del Ministro della Giustizia. Piuttosto, è da dire che sul tema la storia della magistratura e la psicologia insegnano che il magistrato corra sempre questo rischio, ciò a prescindere dalle norme che lo garantiscono: il fenomeno delle c.d. “porte girevoli” è sotto gli occhi di tutti; come lo è il fatto che il pericolo dipenda dal cedimento morale dell’individuo a favore di chi, di volta in volta, detiene il potere: sono l’ambizione, l’amore per il proprio ego, il desiderio di successo, quei diversi fenomeni interiori che in vario modo offuscano il limite etico di una persona, a determinare il superamento di ogni regola scritta diretta a evitarne il rischio. Lo sapeva bene anche Pietro Calamandrei quando scriveva che “bisogna altresì togliergli [al magistrato] ogni speranza che un atteggiamento servile ed inchinevole possa giovare alla sua carriera futura… se il nostro ordinamento giudiziario riesce a proteggere il giudice contro le vendette, non riesce a proteggerlo contro un’arma più insidiosa e più penetrante, cioè contro i favori dei governanti”. Questo condizionamento appartiene alla nostra storia recente, ma soprattutto è quanto accaduto durante il regime fascista, dove, a fulgidi esempi di indipendenza e autonomia della funzione, si sono accompagnate situazioni di spregevole asservimento: a magistrati che hanno ceduto alle chimere del potere perdendone l’autonomia, come quel Gaetano Azzolini che, proveniente dalla magistratura ordinaria, divenne Presidente del Tribunale della Razza e poi, caduto il regime, venne nominato primo presidente della Corte di Cassazione e, ancora dopo, Presidente della Corte Costituzionale, si contrapposero magistrati eroici. Questi fecero valere quei limiti etici che derivano dalla responsabilità della funzione, alla quale adempirono con coraggio e onore: tra i molti, va ricordato Mauro Del Giudice che, indagando sull’omicidio del deputato Giacomo Matteotti, si rifiutò di accogliere le pressioni provenienti dal Partito unico e dai suoi stessi superiori, i quali pretendevano che l’omicidio volontario dell’esponente socialista venisse degradato a omicidio preterintenzionale. Menzionare questo luminoso e valoroso esempio di magistrato, con la sua autonomia e indipendenza interna ed esterna, è un dovere e va fatto riportando le sue parole, rese a verbale quando, caduto il fascismo, la vicenda giudiziaria che lo aveva visto protagonista si riaprì: “Allora gli dissi chiaro e aperto: che avevo capito ciò che si pretendeva da me e che io non mi sarei mai prestato a simili ribalderie, giacché alla infamia pubblica, io preferivo la persecuzione, la miseria, ed anche, occorrendo, la morte”. Referendum, l’Ucpi e il dilemma del sì alla riforma di destra di Valentina Stella Il Dubbio, 28 agosto 2025 Tra un mese l’Unione delle Camere Penali italiane si riunirà a Catania per il XX Congresso ordinario, probabilmente l’ultimo prima del referendum sulla riforma costituzionale della separazione delle carriere, che dovrebbe tenersi nella tarda primavera 2026. Il titolo dell’evento è appunto “La giustizia che sarà - Il Giudice e le parti: ruoli, funzioni, culture”. Sarà ovviamente un momento di riflessione collettiva sulla battaglia delle battaglie per i penalisti italiani, tanto è vero che qualcuno - come battuta ma non tanto - sostiene che “se vinceranno i “sì” al referendum l’Ucpi si deve sciogliere, se vinceranno i “no” l’Ucpi deve comunque sciogliersi”. Questo perché, potremmo dire ontologicamente, Ucpi equivale a separazione delle carriere: con la vittoria dei “sì” non avrebbe più una ragion d’essere, con la vittoria dei “no” la sconfitta sarebbe troppo grande per proseguire l’attività. “Se non ora, quando?”, pensano in molti. Per questo, l’associazione politica degli avvocati sta affinando le armi per affrontare la campagna comunicativa da qui al plebiscito. Ha infatti costituito il comitato “Camere Penali per il sì”, con il quale “promuovere in sede di campagna referendaria le ragioni della riforma, che costituisce un obiettivo storico dei penalisti italiani e sollecitare il dibattito pubblico sulla necessità della separazione delle carriere, al fine di realizzare una giustizia moderna, trasparente e democratica, ma anche più giusta e funzionale nell’interesse di tutti i cittadini”. Inoltre ha anche ingaggiato una agenzia di comunicazione per creare contenuti social sempre più performanti. Insomma l’Ucpi tiene il passo con l’Anm, l’altro grande attore sul palcoscenico della giustizia, che si era già mossa mesi fa. Dovendo recuperare posizione, il “sindacato” delle toghe, presieduto da Cesare Parodi, aveva immediatamente istituto a marzo all’interno del “parlamentino” un apposito Ufficio comunicazione, composto da magistrati, aveva ampliato l’organico dell’ufficio stampa e dato vita qualche mese dopo al comitato referendario. Dunque tutti ai posti di combattimento, inizi la sfida. E però all’interno dell’Unione c’è una preoccupazione: che una parte degli avvocati possa votare “no” al referendum per due motivi: il fatto che questa riforma dell’ordinamento giudiziario è stata promossa dall’attuale governo di destra e che il testo preveda il sorteggio per i membri togati e laici del Csm. In merito alla prima questione, alcuni penalisti di sinistra non sarebbero pronti a darla vinta indirettamente a Giorgia Meloni, la quale sulla riforma della giustizia sarebbe pronta a scommettere tutto, forse in parte anche la rielezione. Su questo punto poi c’è da ricordare che nel 2017 l’Unione aveva riportato al centro del dibattito il tema della separazione delle carriere, raccogliendo le firme per una proposta di legge di iniziativa popolare. Quel testo era stato poi fatto proprio da alcune forze politiche di maggioranza in Parlamento, ma il ministro Nordio aveva poi scelto di presentare un proprio testo di riforma per porci su il personale sigillo. Da qui l’irritazione di alcuni avvocati. Per quanto concerne l’altro aspetto, molti legali ritengono che il metodo del lancio dei dadi sia antidemocratico e troppo vicino al sistema dell’uno vale uno, propagandato fortemente in passato dal M5S. Tanto è vero che nella proposta di legge del 2017 la previsione dell’Ucpi per abbattere il correntismo a Palazzo Bachelet era stata quella di proporre un numero pari di membri togati e membri laici, a differenza della situazione attuale, in cui il rapporto è di venti a dieci. Insomma nulla è scontato e questo sta creando malumori nell’Ucpi, all’interno della quale, anche se non in maniera evidente, il dibattito è in corso. Il messaggio che, al contrario, vorrà molto probabilmente far passare la giunta diretta da Francesco Petrelli è che non si può politicizzare il diritto, non ci si può opporre ad una riforma ritenuta giusta negli scopi solo perché chi la propone non è gradito. Il pacchetto, purtroppo o per fortuna, è all inclusive, quindi bisogna turarsi il naso e puntare sul risultato globale. Che è sia quello di rafforzare terzietà e imparzialità del giudice sia, per la prima volta, secondo molti, riportare la magistratura nei ranghi. Quello che verrà rivendicato a Catania è il carattere politicamente trasversale dell’Ucpi e sarà ricordato a tutta l’assise che i penalisti non hanno fatto sconti alla premier e ai suoi ministri sul decreto Sicurezza, sulla torsione panpenalista, sulle carceri disumane. Ed è nel solco di questa visione laica che Petrelli quasi sicuramente inviterà tutti con forza a non indietreggiare neanche per un minuto rispetto all’obiettivo finale: vincere il referendum, per poi rivendicare di aver riportato il tema al centro del dibattito negli ultimi otto anni. I penalisti puntano, infatti, ad uscire dallo scenario che si sta delineando, quello di uno scontro tra politica e magistratura, e spiegare la riforma nei suoi contenuti, evitando qualsiasi tipo di strumentalizzazione politica. Nordio e la riforma dimenticata sul sequestro degli smartphone di Ermes Antonucci Il Foglio, 28 agosto 2025 Nelle ultime settimane sui quotidiani sono state riversate decine di chat, spesso penalmente irrilevanti, di soggetti indagati (e non) coinvolti nell’inchiesta milanese sull’urbanistica. Colpa di un enorme vuoto normativo che consegna ai pm poteri immensi. E la riforma annunciata dal ministro è bloccata. Decine di chat scambiate tra i soggetti indagati (e non) nella maxi inchiesta milanese sull’urbanistica sono state pubblicate nelle ultime settimane sui principali quotidiani italiani. Conversazioni in molti casi dal contenuto penalmente irrilevante. Non si tratta di un caso isolato. Anche l’indagine su alcuni presunti appalti illeciti a carico di Matteo Ricci, candidato del centrosinistra alla presidenza delle Marche, è incentrata su alcune conversazioni scambiate tra l’ex sindaco di Pesaro e un suo collaboratore. Ruota attorno a chat ritenute “scottanti” anche l’indagine che ha portato alle dimissioni del governatore della Calabria, Roberto Occhiuto. Insomma, da nord a sud del paese, i pubblici ministeri sono scatenati nel condurre inchieste fondate sul sequestro di smartphone e dispositivi elettronici, con estrazione delle conversazioni in questi contenute (ad esempio quelle avvenute su WhatsApp). La ragione è presto detta: in Italia i pm possono sequestrare i telefonini ed estrarre copia di tutti i dati contenuti senza alcuna autorizzazione del giudice delle indagini preliminari, come invece avviene normalmente con la realizzazione delle intercettazioni e anche l’acquisizione dei tabulati telefonici. Siamo di fronte a un buco nero nella normativa che risulta in contrasto con la direttiva europea n. 680 del 2016 e diverse sentenze della Corte di giustizia dell’Unione europea, che impongono un controllo preventivo da parte di un’autorità terza prima di consentire l’accesso a dati personali contenuti nei dispositivi elettronici. Un problema ben noto al ministro della Giustizia, Carlo Nordio, che nel febbraio 2024 annunciò una riforma della disciplina del sequestro degli smartphone, spiegando che “oggi nel cellulare non ci sono solo le conversazioni, c’è una vita intera”, e questa vita “non può essere messa nelle mani di un pubblico ministero che con una firma se ne impossessa e magari dopo non vigila abbastanza sulla sua divulgazione”. “In un telefonino o in uno smartphone sono contenute cartelle cliniche, dichiarazioni dei redditi, conversazioni intime, immagini, non soltanto del sequestrato, ma dei suoi amici e degli amici degli amici”, sottolineò Nordio, aggiungendo: “La tecnologia oggi consente questa concentrazione di notizie che poi vengono assorbite nel telefonino e che possono essere sequestrate con la sola firma di un pubblico ministero. Cosa inaudita che confligge contro qualsiasi regola umana e divina, contro l’articolo 15 della Costituzione che tutela la riservatezza delle conversazioni”. Il tema è diventato ancora più attuale dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 170/2023, che ha equiparato i messaggi elettronici, “e-mail, sms, WhatsApp e simili”, a corrispondenza tutelata dall’articolo 15 della Costituzione. Sulla base di tutto ciò, nell’aprile 2024 il Senato ha approvato un disegno di legge con primi firmatari Pierantonio Zanettin (Forza Italia) e Giulia Bongiorno (Lega), con l’astensione del Pd e il voto contrario del M5s. Il ddl prevede che il pm non possa più disporre in autonomia il sequestro di uno smartphone o di un dispositivo informatico, ma dovrà chiedere l’autorizzazione del gip (salvo i casi urgenti). Entro cinque giorni, poi, si svolgerà una procedura per duplicare i dati (che non hanno carattere di comunicazioni telematiche o informatiche) contenuti nello smartphone o nel dispositivo. Infine il pm potrà chiedere al gip il sequestro dei dati ritenuti penalmente rilevanti. L’intero duplicato informatico dovrà essere conservato con modalità tali da assicurarne l’assoluta riservatezza. La procedura, seppur farraginosa e con alcuni aspetti migliorabili, avrebbe certamente evitato l’incredibile fuoriuscita delle chat relative all’inchiesta sull’urbanistica dalla procura di Milano, con conseguente pubblicazione sui giornali. Da un anno e mezzo, però, dopo essere stato approvato al Senato, il testo è fermo alla commissione Giustizia della Camera. “Sono piuttosto sconfortato”, ammette al Foglio Zanettin. “Dopo essere stata portata in palmo di mano da Nordio, la proposta ora langue da un anno e mezzo alla Camera. Nessuno riesce a capirne il motivo, eppure assistiamo sempre di più a tempeste mediatiche basate sulla pubblicazione di chat estrapolate durante le indagini, piene di battute il cui valore indiziario e probatorio mi appare assai labile”. Anche il deputato forzista Enrico Costa si definisce “perplesso” di fronte allo stallo parlamentare. Di certo non hanno aiutato le bordate lanciate lo scorso maggio in audizione alla Camera dal procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo, secondo cui la riforma “avrebbe un impatto disastroso sulle indagini di mafia”. Il contrasto alla mafia rappresenta da sempre un totem intoccabile per Fratelli d’Italia e nei corridoi parlamentari in molti sospettano che sia stato proprio il partito di Meloni a imporre uno stop alla trattazione del ddl Zanettin. Intanto, però, i giornali continuano a riempirsi di chat penalmente irrilevanti, con relativo sputtanamento delle persone coinvolte, a volte neanche indagate. Alemanno, il silenzio della destra e la dignità di una battaglia di Gaetano Amatruda avantionline.it, 28 agosto 2025 C’è qualcosa di profondamente ingiusto, quasi disumano, nella vicenda di Gianni Alemanno. Da mesi, l’ex sindaco di Roma è rinchiuso nel carcere di Rebibbia, condannato a un anno e dieci mesi per traffico di influenze illecite: un reato che non esiste nel mondo, dai contorni nebulosi, “evanescente”. È una formula moralistica e non una fattispecie penale chiara. Alemanno sta pagando un prezzo altissimo. Eppure, quello che colpisce di più non è solo la severità di questa vicenda, ma il silenzio assordante della politica, della sinistra che rinuncia ad una riflessione seria e soprattutto di quella destra che Alemanno ha servito per tutta la vita, che ha contribuito a costruire e rappresentare, che ha portato al governo di Roma e dell’Italia. Nessuna grande mobilitazione, nessuna parola forte in sua difesa, nessuna ‘osservazione’ dei ‘suoi amici storici’ e di chi oggi è a Palazzo Chigi. Il garantismo sbandierato in tanti dibattiti sembra essersi sciolto di fronte a questa storia, dimenticando che dietro il clamore dei processi e i titoli dei giornali c’è un uomo, ci sono vicende che vanno approfondite. Alemanno, dalla sua cella, sta trasformando la detenzione in una battaglia di civiltà. Le sue lettere e i suoi appelli tentano di accendere i riflettori sulle condizioni drammatiche delle carceri italiane: celle sovraffollate, caldo insopportabile, strutture fatiscenti. Non si limita a denunciare: propone una legge per la liberazione anticipata speciale, chiede una riforma che restituisca dignità a chi sconta una pena. Sta facendo, dal carcere, ciò che la politica dovrebbe fare: farsi carico degli ultimi, dare voce a chi non ne ha. Non lo ascoltano i suoi di sempre. Non lo sente la destra ipocrita. È paradossale: l’uomo accusato di un reato “di influenza” sta usando tutta la sua influenza - quella morale, politica, personale - per difendere i diritti dei detenuti. È diventato un simbolo scomodo, perché costringe tutti a guardare una realtà dimenticata, perché fa emergere le contraddizioni di certa destra. La giustizia non sempre è giusta, e le nostre carceri non sempre rispettano la dignità umana. Raramente capita. Lui lo racconta. Se c’è una parola che descrive Alemanno oggi, non è “colpevole”, ma “dignitoso”. Non cerca scorciatoie, non si lamenta: combatte. In silenzio, quasi solo, perché la politica - soprattutto quella che dovrebbe difenderlo - lo ha abbandonato. Eppure, proprio questo silenzio dovrebbe far rumore. Perché oggi non è solo Gianni Alemanno a essere in carcere: ci sono la coerenza e il garantismo della destra italiana, ci sono i valori di civiltà che la nostra Costituzione proclama. Chi ha creduto per anni in una politica capace di difendere la libertà e i diritti dovrebbe sentirsi chiamato in causa. Alemanno non chiede compassione: chiede giustizia. E con le sue battaglie, anche da dietro le sbarre, sta dimostrando che la vera forza è non arrendersi mai quando in ballo ci sono diritti scolpiti nella Costituzione. Petizione online per Vallanzasca. “È malato, muoia da uomo libero” La Verità, 28 agosto 2025 Ha superato le 1.000 firme la petizione su change.org che chiede al presidente della Repubblica Sergio Mattarella di concedere la grazia a Renato Vallanzasca, il “bel René”, ex capo della banda della Comasina e simbolo della mala milanese degli anni Settanta. Condannato a quattro ergastoli e a 295 anni complessivi di carcere per rapine, sequestri e omicidi, Vallanzasca ha trascorso oltre mezzo secolo dietro le sbarre. Oggi ha 75 anni e vive in una Rsa di Rubano, nel padovano, specializzata in Alzheimer e demenze. Come racconta Tino Stefanini, ex compagno di banda insieme a Osvaldo “Cico” Monopoli, “la situazione di Vallanzasca è quella di una persona gravemente malata, che ha smarrito la memoria, vive in uno stato di demenza, non riesce più a parlare e a stare in piedi. Mi auguro che dopo 54 anni di galera possa morire da uomo libero e non da detenuto”. Nel novembre dello scorso anno Vallanzasca è stato trasferito dal carcere di Bollate alla Rsa, dove riceve cure per la sua condizione. Stefanini aggiunge: “Di Renato ho notizie solo indirette, ma tutte confermano la gravità delle sue condizioni. Prima di Natale io e Cico, attraverso il suo avvocato, abbiamo presentato un’istanza per andarlo a trovare. Non abbiamo ricevuto risposta”. La petizione si configura così come un appello alla pietà e alla clemenza, sostenuto da chi lo ha conosciuto da vicino ed è consapevole delle sue condizioni critiche. Omicidio della compagna, più difficile provare il vizio di mente di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 28 agosto 2025 Per la Cassazione, sentenza n. 29849 depositata oggi, anomalie caratteriali o alterazioni della personalità non danno luogo alla non imputabilità. Linea dura della Cassazione sulla non imputabilità dell’imputato nel caso di uccisione della convivente e della di lei madre. La Prima Sezione penale, infatti, con riguardo ad un gravissimo caso di cronaca, ha affermato che ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, “se è vero che anche i disturbi della personalità, che non sempre sono inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali, possono rientrare nel concetto d’infermità, è del pari certo che ciò si afferma con la necessaria specificazione che tale approdo può darsi soltanto quando essi siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o facendola grandemente scemare, e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale”. Non può, dunque, annettersi rilievo, ai fini dell’imputabilità, “ad anomalie caratteriali o alterazioni e disarmonie della personalità che non presentino i caratteri sopra indicati, al pari degli stati emotivi e passionali, salvo che questi ultimi non si inseriscano, eccezionalmente, in un quadro più ampio d’infermità”. La Prima sezione penale, sentenza n. 29849 depositata oggi, ha così confermato l’ergastolo (con isolamento diurno per un anno) per un uomo che aveva ucciso a coltellate la convivente e sua madre, dopo aver appreso la volontà di lasciarlo. Il delitto particolarmente efferato è maturato all’esito di una “grave crisi” che la coppia - che conviveva da diciannove anni e dalla cui relazione erano nati due figli, all’epoca minori - stava attraversando soprattutto in seguito alla nascita della secondogenita, “evento - si legge - che aveva intensificato i dissidi e le incomprensioni tra i due, da ultimo sfociati in aggressioni fisiche e minacce verbali nei riguardi della donna, tant’è che da qualche mese l’uomo dormiva sul divano posto nel soggiorno di casa”. Qualche minuto prima del delitto, la donna aveva comunicato via Messanger di Facebook all’imputato la decisione “irretrattabile” di separarsi: siamo alle ore 00,52; la chiamata al 118, da parte del figlio, è invece delle 00,56. Entrambi gli omicidi, dunque, si sono consumati nel breve volgere di quattro minuti. L’imputato ha avuto come primo bersaglio la compagna colpita con oltre venti coltellate, delle quali due mortali; e poi, con la stessa arma, ha inferto tre fendenti, di cui uno mortale, alla madre. All’esito di entrambi i gradi di merito è scattata dunque la condanna per duplice omicidio volontario, il primo aggravato dall’art. 577, primo comma n. 1), cod. pen.. Mentre si è esclusa la sussistenza di elementi sulla scorta dei quali dubitare della piena capacità di intendere e volere dell’imputato, non ritenendosi necessaria la pur richiesta perizia volta ad accertarne l’imputabilità. Contro questa decisione ha proposto ricorso l’imputato che ha sostenuto sia l’obliterazione del vizio di mente; sia l’assenza dell’aggravante di cui all’art. 577, primo comma n.1), cod. pen. Entrambi i motivi, per la Cassazione, sono però da rigettare. Sotto il primo profilo, la Corte di assise di appello ha rimarcato l’assenza di qualsiasi diagnosi di anomalia o pregresso disturbo psichico e l’irrilevanza delle emergenze provenienti dagli Istituti di pena, “esclusivamente indicativi di una situazione compatibile di shock postraumatico derivante dalla commissione dei fatti, che - osserva il Collegio - si saldano perfettamente con il rilevato movente, non collegabile a patologia psichica”. Riguardo invece alla mancata disposizione della perizia psichiatrica richiesta, la Cassazione afferma che l’obbligo, per il giudice, di motivare il giudizio sulla sussistenza della capacità d’intendere e di volere e, specularmente, quello sulla superfluità di una perizia volta ad appurarne l’integrità, “va posto in stretta correlazione con la prospettazione, da parte della difesa, di elementi specifici e concreti, idonei a far ragionevolmente ritenere che nella singola fattispecie detta presunzione sia superata da risultati di segno contrario, per l’incidenza di una vera e propria infermità, e cioè di uno stato morboso caratterizzato da inequivocabili connotazioni patologiche”. Riguardo, infine, la contestata aggravante (art. 577, primo comma n. 1, cod. pen.) della “stabile convivenza”, per la Cassazione il ricorrente mostra di confondere i distinti profili della “relazione affettiva” e della “stabile convivenza”, ora previsti dall’aggravante come situazioni alternative, essendo stato commesso il fatto nel vigore (dal 9 agosto 2019) della novella legislativa l. n. 69 del 2919. “La scelta del legislatore - si legge nella decisione - è proprio quella di fornire un più elevato livello di tutela a coloro i quali si trovino a dover condividere uno spazio abitativo - finché la coabitazione ha luogo - anche nel momento (che è quello di maggiore fragilità) in cui la condivisione emotiva sia venuta meno, come nel caso che ci occupa in cui le Corti di merito hanno - con motivazione aderente alle risultanze di prova - posto in risalto il fatto, rimasto incontrastato, che donna aveva consentito all’ex compagno di vita di restare presso la casa coniugale nell’interesse di quest’ultimo come anche dei figli minori”. L’opzione del legislatore, spiega la Corte, è quella di tutelare in modo rafforzato (attraverso la previsione di un incremento sanzionatorio del delitto di omicidio) i soggetti che abbiano vissuto una concreta comunanza di vita con il colpevole, con linea di demarcazione basata sul dato oggettivo della convivenza fisica. “Sin quando la convivenza permane la tutela è massima (con maggior disvalore del fatto, punito con l’ergastolo) mentre quando cessa l’omicidio, pur restando di maggiore gravità - rispetto a quello comune - viene punito con pena temporanea”. Nel caso oggetto del presente giudizio, pertanto, a nulla rileva che la coppia fosse da tempo in una condizione di elevata conflittualità, posto che la condotta omicida è avvenuta in un momento in cui la convivenza fisica era ancora in atto. Busto Arsizio e a Barcellona Pozzo di Gotto: due suicidi in due giorni Il Dubbio, 28 agosto 2025 Altri due suicidi in due giorni nelle carceri italiane: uno a Barcellona Pozzo di Gotto e l’altro a Busto Arsizio. Nella casa circondariale “Vittorio Madia” di Barcellona Pozzo di Gottosi è tolto la vita un uomo di 48 anni, di nazionalità indiana, detenuto per un’inchiesta su maltrattamenti in famiglia. È il terzo caso registrato nell’istituto in circa sei mesi. A Busto Arsizio un detenuto italiano, di 61 anni, in carcere da 10 giorni per l’applicazione del c. d. codice rosso si è tolto la vita nella tarda mattinata di ieri impiccandosi. Ne dà notizia il segretario generale della UilPa Polizia Penitenziaria, Gennarino De Fazio che aggiunge: “Mentre a livello complessivo è ormai imminente superamento delle 63mila presenze in carcere, a fronte di soli 46.668 posti disponibili, a Busto Arsizio, che si conferma uno dei penitenziari più sovraffollati, sono stipati 423 detenuti in 211 posti, in pratica più del doppio rispetto alla capienza, gestiti da 178 appartenenti alla Polizia penitenziaria, quando ne servirebbero almeno 315, con un deficit del 44%. In queste condizioni è inevitabile che le prigioni si trasformino in un inferno sia per chi vi è ristretto sia per chi vi sconta le pene dell’inferno per la sola colpa di essere al servizio dello Stato”. A Barcellona Pozzo di Gotto nel pomeriggio di martedì, un uomo approfittando dell’assenza dei due compagni di cella, si sarebbe recato nel bagno del reparto sesto fingendo di fare la doccia. Avrebbe lasciato scorrere l’acqua per coprire i rumori, quindi usato un lenzuolo per impiccarsi nell’antibagno. Al rientro, i compagni lo hanno trovato privo di sensi; inutile l’intervento della polizia penitenziaria e dei sanitari. La Procura ha disposto gli accertamenti di rito. Il procuratore di Barcellona, Giuseppe Verzera, ha inviato una segnalazione al ministero della Giustizia evidenziando le criticità strutturali e di sicurezza. L’edificio nasce nel 1925 come manicomio criminale, poi Ospedale Psichiatrico Giudiziario, e in seguito è stato riconvertito in casa circondariale. Secondo il magistrato, la trasformazione è incompleta: mura perimetrali e infissi non sarebbero a norma, spazi insufficienti, reperti di telefoni cellulari, episodi di violenza e precedenti evasioni a cui i aggiunge la carenza di personale. I dati del Dap, aggiornati al 13 agosto 2025, registrano infatti 148 morti complessive dall’inizio dell’anno, con 48 suicidi. Ma la statistica di Ristretti Orizzonti, aggiornata in tempo reale, parla di 58 suicidi e 106 morti per altre cause per un totale di 164 che hanno perso la vita dall’inizio del 2025 nelle carceri italiane. Busto Arsizio. Un detenuto di 61 anni si è tolto la vita nel carcere varesenews.it, 28 agosto 2025 Un detenuto italiano di 61 anni si è tolto la vita nella mattinata di martedì 27 agosto nel carcere di Busto Arsizio. Era recluso da appena dieci giorni, in seguito all’applicazione del cosiddetto “codice rosso”. A nulla sono valsi i tentativi di soccorso da parte della Polizia penitenziaria e del personale sanitario. Con questa tragedia, salgono a 56 i suicidi tra i detenuti nelle carceri italiane dall’inizio del 2025, ai quali si sommano anche tre suicidi tra gli operatori penitenziari. “Il carcere di Busto Arsizio - si legge nella nota della Uilpa - si conferma come uno dei penitenziari più sovraffollati del Paese: 423 detenuti stipati in 211 posti, praticamente il doppio della capienza prevista”. A lanciare l’allarme è Gennarino De Fazio, Segretario Generale della Uilpa Polizia Penitenziaria: “Si continua, evidentemente, a morire per carcere e di carcere senza che si intravedano all’orizzonte prospettive concrete che possano restituire dignità alla detenzione e alle condizioni di lavoro degli operatori”. A fronte di un fabbisogno minimo di 315 agenti, nel carcere di Busto Arsizio sono attualmente in servizio soltanto 178 agenti della Polizia penitenziaria, con un deficit del 44%. La situazione riflette un quadro nazionale altrettanto critico: “In Italia mancano almeno 18mila agenti rispetto al fabbisogno organico, che diventano 20mila se si guarda solo alle carceri - ha spiegato De Fazio - In queste condizioni è inevitabile che le prigioni si trasformino in un inferno sia per chi vi è ristretto sia per chi vi lavora con la divisa dello Stato”. La Uilpa Polizia Penitenziaria ribadisce la necessità di interventi urgenti per ridurre la densità detentiva, potenziare gli organici, migliorare l’assistenza sanitaria e psichiatrica, e avviare riforme strutturali del sistema penitenziario. “La situazione è in continuo e progressivo deterioramento - conclude De Fazio - e servono misure immediate e concrete”. Benzoni (Azione): “una sconfitta per lo Stato” - Oggi un altro detenuto si è tolto la vita. un italiano di 61 anni, in carcere da 10 giorni per l’applicazione del “codice rosso”, si è tolto la vita nella tarda mattinata, impiccandosi nella sua cella della Casa Circondariale di Busto Arsizio. I soccorsi della polizia penitenziaria e dei sanitari sono arrivati troppo tardi. Dall’inizio dell’anno questo è il 56esimo recluso suicida. All’elenco vanno aggiunti anche tre operatori. Siamo ormai prossimi al superamento delle 63mila presenze in carcere, a fronte di soli 46.668 posti disponibili. In particolare quello di Busto Arsizio si conferma uno dei penitenziari più sovraffollati, dove sono stipati 423 detenuti in 211 posti: più del doppio rispetto alla capienza. Detenuti che sono gestiti da 178 uomini e donne della Polizia penitenziaria, quando invece ne servirebbero almeno 315. Il deficit del personale è quindi del 44%. A livello nazionale sono 18mila gli agenti mancanti al fabbisogno organico, che diventano 20mila considerando solo le carceri, considerate le assegnazioni soprannumerarie in uffici ministeriali ed extra penitenziari. In queste condizioni è inevitabile che le prigioni si trasformino in un inferno, sia per chi vi è ristretto per essere accusato di aver commesso reati, sia per chi vi spende ogni suo giorno lavorativo perché al servizio dello Stato, indossando la divisa della Polizia penitenziaria. I fatti dimostrano che si continua a morire per carcere e di carcere senza che si intravedano all’orizzonte prospettive concrete che possano restituire dignità alla detenzione e alle condizioni di lavoro degli operatori. Catanzaro. Tra celle invivibili e malati senza cura di Francesco De Felice Il Dubbio, 28 agosto 2025 “Bisogna aver visto”, scriveva Piero Calamandrei nel 1948 denunciando la disumanità delle carceri italiane. Parole che oggi, a distanza di oltre settant’anni, risuonano ancora con forza. Lo ha ricordato la visita compiuta il 14 agosto 2025 alla Casa Circondariale “Ugo Caridi” di Catanzaro, organizzata dalla Camera Penale “Alfredo Cantàfora” nell’ambito dell’iniziativa nazionale promossa dall’Unione delle Camere Penali Italiane e dal suo Osservatorio Carcere. Un appuntamento che non è solo simbolico: entrare dietro le sbarre nel giorno di Ferragosto, mentre il Paese festeggia, significa guardare da vicino la realtà quotidiana di chi vive recluso, in condizioni che spesso sconfinano nella negazione dei diritti fondamentali. Alla guida della delegazione il presidente della Camera Penale di Catanzaro, Francesco Iacopino, affiancato dal segretario Antonella Canino, dai consiglieri Stefania Mantelli, Angela La Gamma e Vincenzo Galeota (membro dell’Osservatorio Carcere nazionale), dai probiviri Vincenzo Ranieri e Piero Mancuso, e dagli avvocati soci Antonio Gustavo Mungo, Alessandra Coppolino, Adriano Anello, Francesco Ielapi, Francesca De Fine, Francesco Mancuso e Danila Scicchitano. Con loro i rappresentanti delle istituzioni e della società civile: Filippo Mancuso, presidente del Consiglio regionale della Calabria; Gianmichele Bosco, presidente del Consiglio comunale di Catanzaro; Luciano Giacobbe, garante regionale dei diritti dei detenuti; Valerio Murgano, componente di Giunta dell’Unione delle Camere Penali Italiane; Leo Pallone, presidente dell’Unione Giuristi Cattolici e direttore della rivista Ante Litteram. La direttrice dell’istituto, Patrizia Delfino, ha accolto la delegazione illustrando lo stato del carcere. Molto dettagliata la relazione a cura degli avvocati Francesco Maria Ielapi, Antonio Gustavo Mungo, Alessandra Coppolino, Angela Amato, coordinata dagli avvocati. Vincenzo Galeota e Pietro Mancuso. Su 680 posti regolamentari, i detenuti presenti sono 625. Quasi la metà di loro è in attesa di giudizio, un dato che raddoppia la media nazionale e conferma il peso enorme della custodia cautelare. Ancora più critico il quadro sanitario. Ben 174 detenuti soffrono di patologie psichiatriche - quasi un terzo della popolazione - a fronte di soli quattro psicologi disponibili. Gli educatori in servizio sono dieci, un numero largamente insufficiente per garantire percorsi individualizzati. Sul piano strettamente medico, la situazione non è migliore: reparti specialistici ci sono, ma dopo le 20 non vi è alcuna presenza di medici. Un’assenza che, come hanno raccontato alcuni detenuti, rende drammatica la gestione delle emergenze. Un recluso colpito da infarto ha dichiarato di aver atteso quattro ore prima di ricevere cure. La delegazione ha visitato diverse aree dell’istituto, tra cui i locali per fisioterapia (dove una piscina resta inutilizzata per mancanza di bagnini e fisioterapisti), i reparti medici, l’area di degenza, il laboratorio di pasticceria e alcune cucine. Nelle sezioni di Alta Sicurezza, i detenuti hanno denunciato docce malfunzionanti - quattro utilizzabili su otto - e orari che si sovrappongono a quelli destinati all’aria aperta. Celle di appena 12 metri quadrati, in cui vivono fino a tre persone, senza frigoriferi né aria condizionata. Un caldo insopportabile che si aggiunge alla mancanza di spazi vitali. L’ascensore spesso guasto, la lavanderia a pagamento, i surgelatori insufficienti completano un quadro di disagio. Il senso di isolamento è altrettanto forte: poche ore d’aria, poche telefonate concesse, divieto di ricevere pacchi alimentari, difficoltà a comunicare con le famiglie, visite sporadiche del magistrato di sorveglianza. Molti hanno denunciato che le istanze rivolte alla direzione restano senza risposta. Nella sezione di Media Sicurezza, oltre al sovraffollamento, i detenuti hanno lamentato disservizi sanitari analoghi, l’impossibilità di telefonare nei giorni festivi, la mancanza di attrezzature sportive e materiali ricreativi, difficoltà burocratiche per ottenere certificazioni, e l’impossibilità di comunicare via e-mail con i familiari. Un mosaico di criticità che alimenta un sentimento diffuso: quello dell’abbandono. La direttrice Delfino non ha nascosto le difficoltà e ha ribadito che senza un impegno concreto della politica non sarà possibile migliorare le condizioni. Servono interventi strutturali - docce in ogni cella, rifacimento di impianti elettrici e idraulici, ristrutturazione di tetti e facciate - ma anche potenziamento del personale sanitario ed educativo. Per gli avvocati dell’Osservatorio Carcere, la questione non è tecnica ma costituzionale: la pena non può diventare abbandono né vendetta sociale. L’articolo 27 della Costituzione, che impone trattamenti rispettosi della dignità umana e finalizzati alla rieducazione, rischia di restare lettera morta. Catanzaro. “Dimenticato il ruolo dei professionisti che mandano avanti il sistema” lacnews24.it, 28 agosto 2025 I rappresentanti dei lavoratori che si occupano del funzionamento amministrativo e psico-sociale degli Istituti penitenziari lasciano la conferenza denunciando le omissioni del sottosegretario alla Giustizia: “Qui non ci sono solo sbarre e divise”. Ieri mattina il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro ha visitato la Casa Circondariale “Ugo Caridi” di Catanzaro, ribadendo l’impegno del Governo per la sicurezza e il rafforzamento della Polizia penitenziaria. Tuttavia, il suo intervento ha suscitato polemiche per l’assenza di riferimenti al comparto Funzioni Centrali, il settore che garantisce quotidianamente il funzionamento amministrativo, educativo e psico-sociale degli istituti penitenziari. “Nessuna parola spesa per quei professionisti che ogni giorno garantiscono il funzionamento amministrativo-contabile, educativo, psicologico e sociale degli istituti penitenziari”, hanno dichiarato i rappresentanti del comparto funzioni centrali presenti alla conferenza. “Funzionari contabili, funzionari giuridico-pedagogici, psicologi, tecnici e amministrativi: tutti completamente assenti dal discorso del sottosegretario, come se il carcere fosse fatto solo di sbarre e divise”. Indignati dalla mancata considerazione, i rappresentanti hanno deciso di abbandonare anzitempo i locali in cui la conferenza si stava svolgendo. “Questa omissione non è solo una dimenticanza: è un segnale preoccupante considerato che il comparto Funzioni Centrali costituisce il motore invisibile che permette il funzionamento e la gestione delle strutture penitenziarie, nonché l’attuazione del principio costituzionale della rieducazione della pena”, hanno sottolineato. Il sottosegretario, pur avendo riconosciuto in passato la specificità del comparto con l’introduzione di un’indennità di funzione, non ha affrontato la questione durante la sua visita. “Ad oggi, tale indennità sembra essere un contentino per chi lavora dietro le quinte, spesso in condizioni difficili e con risorse insufficienti”, hanno concluso i rappresentanti del comparto Funzioni Centrali. Firenze. “Sollicciano simbolo del fallimento del sistema carcerario italiano” nove.firenze.it, 28 agosto 2025 Visita di Casini (Italia Viva) al penitenziario fiorentino: “Condizioni che definire drammatiche è poco”. “Durante la mia visita al carcere di Sollicciano di questa mattina ho avuto modo di parlare direttamente con alcuni detenuti, ascoltando le loro richieste e i loro bisogni. Mi hanno chiesto più opportunità di lavoro volontario per non stare fermi e attività riabilitative semplici, come il giardinaggio, che quest’anno hanno potuto svolgere soltanto una volta. Ho potuto constatare con i miei occhi condizioni che definire drammatiche è poco: celle sovraffollate con 6 o 7 persone, segni di cimici sulla pelle, strutture fatiscenti segnate da muffa, infiltrazioni e infestazioni, condizioni igienico-sanitarie precarie e un’emergenza psichiatrica che riguarda quasi la metà della popolazione carceraria toscana. Sollicciano è oggi uno dei simboli del fallimento del sistema penitenziario italiano. E questo evidentemente è anche parte del grande tema della sicurezza e della legalità nel nostro Paese visto che le carceri italiane sono sovraffollate e come Sollicciano spesso in gran parte inutilizzabili. Il sovraffollamento ha raggiunto il 139% della capienza, mancano educatori, mediatori culturali e personale di polizia penitenziaria, mentre crescono suicidi e atti di autolesionismo. La Toscana, prima terra ad abolire la pena di morte, non può convivere con la vergogna di uno dei peggiori istituti penitenziari d’Italia. Per questo il Governo deve immediatamente aprire una unità di crisi e l’avvio di un piano straordinario che affronti le emergenze edilizie, sanitarie e psichiatriche e potenzi il personale. Non si tratta soltanto di tutelare i diritti dei detenuti, ma anche di garantire la dignità e la sicurezza delle donne e degli uomini che ogni giorno lavorano all’interno del carcere”. Lo dichiara il capogruppo di Italia Viva Francesco Casini. Alba (Cn). Il carcere aspetta la vera riapertura: “Serve un presidio medico h 24” di Andrea Cascioli cuneodice.it, 28 agosto 2025 Il “carcere modello” promesso un anno fa ad Alba non esiste ancora. Ne aveva parlato Andrea Ostellari, sottosegretario alla Giustizia con delega al trattamento dei detenuti, in una visita al carcere “Giuseppe Montalto” a ridosso delle elezioni dello scorso anno. La riapertura completa della casa di reclusione si attende dal 2016, quando un’epidemia di legionella portò allo sgombero dell’istituto di pena. Nel frattempo, la perdita del tribunale cittadino l’aveva già “retrocessa” dal rango di casa circondariale. Se tutto va come previsto, i lavori dovrebbero terminare a ottobre e portare la capienza a 180 detenuti circa. Agli amministratori albesi il provveditore regionale delle carceri, Mario Antonio Galati, ha spiegato che l’idea è quella di inserire il penitenziario nel circuito dei detenuti di media sicurezza, con un’attenzione particolare ai progetti di reinserimento lavorativo. In questo aiutano le strutture già esistenti: dal 2005 l’istituto è dotato di una vigna interna, nella quale, in collaborazione con l’Istituto enologico albese e la Fondazione casa di carità Arti e Mestieri onlus, dodici reclusi producono 3mila bottiglie di vino all’anno. Oltre al vigneto ci sono una serra, un orto e un noccioleto, dal quale è partito il primo corso di corilicoltura. La realtà attuale, però, vede un quadro ben lontano dall’eccellenza. Non solo per gli episodi di cronaca: solo negli ultimi giorni ci sono stati due diversi episodi di devastazione, uno dei quali terminato con due agenti all’ospedale. La videosorveglianza è fuori uso. Secondo quanto afferma il sindacato autonomo Osapp, “la struttura risulta essere tra gli ambiti penitenziari con più frequenti eventi critici ed aggressioni (circa 10 nell’anno in corso) in danno del personale di Polizia Penitenziaria”. Si parla di “una battaglia pressoché quotidiana nelle azioni di prevenzione e contrasto nei confronti soggetti assai spesso fuori controllo”. I detenuti attuali sono una cinquantina, distribuiti su due sezioni (piano terra e primo piano) e “prevalentemente con gravi disturbi psichiatrici”. Anche per questo i baschi azzurri chiedono un potenziamento dell’organico, formato al momento da 80 unità a fronte delle 100 previste. Un numero “assolutamente insufficiente”, sottolinea l’Osapp, “rispetto alle necessità che una struttura del genere richiede e la cui capienza reale sarebbe di 170 posti detentivi, a cui vanno aggiunti due moduli esterni con una capacità di 24 posti ciascuno”. A pesare è anche l’assenza di presidio medico notturno. Il personale, privo “di supporto professionale, di adeguate conoscenze sanitarie e di mezzi idonei”, si ritrova così “a fronteggiare reazioni legate alla salute mentale dei soggetti custoditi a dovere gestire tali emergenze con il minor danno possibile per gli addetti e per i ristretti”. Tra le richieste sindacali, elencate in una missiva alle autorità competenti, c’è perciò anche l’istituzione di un presidio medico attivo 24 ore su 24 e la fornitura di strumenti idonei e formazione specifica per la gestione psichiatrici. Sassari. Gli avvocati della Camera Penale “Enzo Tortora” in visita al carcere di Bancali di Emanuele Floris L’Unione Sarda, 28 agosto 2025 Tappa in Sardegna per accendere i riflettori sulla condizione di isolamento e sofferenza dei detenuti. Avvocati stamattina in visita a Bancali. Stavolta come rappresentanti della Camera Penale Enzo Tortora di Sassari e per l’iniziativa “Ristretti ad agosto”, promossa dall’Unione delle Camere Penali Italiane. Una attività nata con l’intento di accendere i riflettori sulla condizione di isolamento e sofferenza delle persone private della libertà personale, in un periodo dell’anno in cui le criticità e l’isolamento stesso sono più forti, e soprattutto per manifestare vicinanza e attenzione ai detenuti. “La Camera Penale di Sassari - afferma la sua presidente Maria Grazia Sanna -partecipa attivamente all’iniziativa, confermando il proprio impegno nel monitoraggio dei luoghi di restrizione della libertà, avendo visitato nel corso degli anni diversi istituti isolani”. La struttura sassarese conferma quelle che sono le difficoltà di altre carceri. “Le criticità che caratterizzano il sistema penitenziario sono tante, in particolar modo quella del sovraffollamento. Deve altresì essere evidenziato come nel corso degli ultimi anni sia aumentato tragicamente il numero dei soggetti che decidono di togliersi la vita all’interno degli istituti di pena”. A partecipare al confronto di oggi sono stati gli avvocati Lisa Vaira, Maria Teresa Pintus e Gaetano Paoletti, e quanto riscontrato contribuirà alla raccolta dati nazionale che verrà pubblicata dall’Unione delle Camere Penali all’esito delle visite che saranno svolte su tutto il territorio italiano. “La Camera Penale di Sassari- conclude Sanna -ribadisce con forza la necessità di un sistema penale orientato alla tutela della persona e dell’individuo in quanto tale, e continuerà a vigilare e a proporre, sotto il faro dei principi della nostra carta costituzionale, alternative concrete alla mera repressione, con spirito garantista e democratico”. Benevento. I detenuti al lavoro nei cantieri dell’alta velocità Napoli-Bari di Marco Santoro Corriere del Mezzogiorno, 28 agosto 2025 Il progetto di Webuild e del ministero della Giustizia: i primi 4 detenuti sono stati già formati e assunti. In corso i colloqui per altri 5 candidati da inserire su un cantiere ad Avellino. L’obiettivo è avviare un percorso di reinserimento dei detenuti nel mondo del lavoro. E quindi, una volta scontata la pena, nella società. Da questi presupposti nasce il progetto che vede coinvolti l’azienda Webuild e il ministero della Giustizia con la collaborazione del Provveditorato della Campania. Una iniziativa che prevede l’assunzione di circa dieci persone da inserire nei cantieri edili. Partita con i primi candidati selezionati dal carcere di Benevento. I primi quattro detenuti sono stati già formati e assunti. Lavoreranno nel cantiere del lotto Apice-Hirpinia dell’Alta Velocità in costruzione tra Napoli e Bari. E nel frattempo, stavolta al penitenziario di Ariano Irpino in provincia di Avellino, sono in corso colloqui per selezionare altri cinque candidati che dovranno lavorare sul lotto Hirpinia-Orsara. I partecipanti, dopo aver completato la “Scuola del Territorio”, corso di formazione preassunzione erogato direttamente nell’istituto penitenziario, hanno preso parte al centro di formazione “Scuola dei Mestieri”, un programma di formazione intensivo tenutosi presso la sede dell’ente paritetico che si occupa della formazione dei lavoratori del comparto delle costruzioni Formedil Avellino. Avellino. Prevenzione oncologica nelle carceri, si attiva l’Azienda Sanitaria di Christian Masiello itvonline.news, 28 agosto 2025 Nell’ambito del Laboratorio Sperimentale per la Sanità penitenziaria Eleonora Amato” che vede Caserta Azienda pilota in Campania, l’Asl di Avellino entra con il suo personale nella attività di prevenzione oncologica riguardanti gli Istituti di pena sotto la sua competenza. L’Asl di Avellino entra nel Laboratorio Sperimentale per la Sanità penitenziaria che vede l’Azienda sanitaria di Caserta riferimento pilota in Campania. Con il suo personale la Direzione Generale di via degli imbimbo parteciperà attivamente ad un programma globale di prevenzione oncologica riguardanti gli Istituti di pena sotto la sua competenza. La diagnosi precoce anche grazie ad un programma di screening per il tumore del colon, della mammella e della cervice uterina (collo dell’utero), saranno attivati all’interno delle carceri irpine. L’iniziativa rientra in un impegno già ampio, che vede uniti il servizio sanitario nazionale e le regioni per difendere la salute dei detenuti anche con campagne contro il fumo e la tossicodipendenza, quindi con la promozione di stili di vita sani. L’Azienda Sanitaria Locale di Avellino fornirà il proprio supporto alle istituzioni competenti, offrendo i suoi servizi a tutti, ma rivolgendo un’attenzione particolare alle categorie più vulnerabili, i fragili, le persone che scontano in particolare problemi psichici o disabilità. Frosinone. L’attività sportiva come strumento rieducativo, al via il progetto “Legalmente Sport” opesitalia.it, 28 agosto 2025 Un campo da calcio o un impianto sportivo possono rivelarsi come degli strumenti di riscatto e inclusione? La risposta è: sì, al 100%. È con questo presupposto che il progetto “Legalmente Sport”, finanziato dal Bando Carceri di Sport e Salute SpA e realizzato da Istruzione Formazione e Lavoro, Opes, Modavi e Accademia Togliani, prenderà il via il prossimo 30 agosto, presso la Casa circondariale di Frosinone. La giornata si aprirà con un momento istituzionale, per proseguire poi con una partita di calcio tra i detenuti e la squadra del Ferentino Calcio che milita nel campionato di Eccellenza. L’obiettivo di un simile appuntamento è duplice: da una parte si prefigge di presentare il progetto; dall’altra, invece, si vuole dimostrare come lo sport possa fungere da veicolo di comunicazione e socializzazione. Opes, per l’occasione, sarà rappresentata dal vicepresidente Luigi Romani e dal consigliere nazionale Andrea Frateiacci. L’Ente, insieme agli altri partner (Istruzione Formazione e Lavoro Apsssd-Ets, Modavi aps e Accademia Togliani), porterà all’interno dell’istituto penitenziario un programma di attività sportive e culturali della durata di 18 mesi. Nello specifico, l’iniziativa prevede percorsi settimanali (1 appuntamento di 2 ore ogni 7 giorni) di pallapugno e ginnastica per 24 detenuti, seguiti da tecnici specializzati. Oltre alle attività fisiche, sono in programma due proiezioni cinematografiche con dibattito sui valori dello sport, che coinvolgeranno fino a 70 destinatari, e un incontro dedicato alle opportunità di volontariato. A conclusione del percorso, OPES rilascerà ai partecipanti più meritevoli un attestato abilitante di primo livello come istruttore nella disciplina praticata, offrendo così ai detenuti una concreta opportunità di reinserimento nel mondo del lavoro, una volta scontata la pena. Sabato 30 agosto, per il primo appuntamento di “Legalmente Sport”, oltre ai rappresentanti di Opes e alla Direttrice della casa circondariale, Anna Del Villano, interverranno altresì il primo cittadino Riccardo Mastrangeli e il garante per i detenuti della Regione Lazio, Stefano Anastasia, a testimonianza dell’importanza del grande valore dell’iniziativa nel percorso di recupero e reinserimento dei detenuti. Opes, ancora una volta, mostra tutta la sua sensibilità per le tematiche sociali legate alle carceri e al recupero dei detenuti attraverso la pratica sportiva. Negli ultimi anni, infatti, l’Ente ha realizzato ad esempio progetti del Servizio Civile Universale, nati con lo stesso obiettivo di “Legalmente”. Tra questi, meritano di essere citati come best practice “Rugby oltre le sbarre”, realizzato in collaborazione con la Federazione Italiana Rugby, che ha avuto un impatto notevole nelle carceri di Piemonte e Lombardia, e il progetto “Rugby ed inclusione oltre le sbarre a Buenos Aires”, che prenderà il via nel mese di settembre e che sarà svolto nella Capitale argentina da 4 operatori volontari di età compresa fra i 18 e i 28 anni. Ma l’impegno di Opes non si ferma certo qui: il numero uno dell’ente, Juri Morico, lo scorso 13 giugno, ha recentemente partecipato con entusiasmo alla prima edizione dei Giochi della Speranza, presso l’Istituto penitenziario di Rebibbia. L’evento, andato in scena in occasione del Giubileo degli sportivi, ha riaffermato il valore rieducativo dello sport come strumento capace di abbattere le barriere e accompagnare il reinserimento dei detenuti. Tornando indietro nel tempo, l’ente ha dato il suo patrocinio anche a “Un gol della mia mamma”, un’iniziativa che si è svolta il 13 maggio del 2023. Anche in questo caso da un campo di calcio è stato lanciato un segnale forte e chiaro: sensibilizzare l’opinione pubblica sulla condizione delle madri detenute. Il carcere è la pausa caffè dell’Illuminismo di Guido Vitiello Il Foglio, 28 agosto 2025 Nel giugno del 1997 Salvatore Ferraro fu arrestato e si fece sedici mesi di prigione da presunto innocente. Vi propongo un passo dal suo raccontino “La leggenda della nascita del carcere”, che si legge nel suo memoriale. Michel Foucault ci ha abituati a considerare l’istituzione delle prigioni moderne come il compimento dell’Illuminismo, la conseguente incarnazione della sua logica disciplinare, ma siamo certi che sia così? Esiste una versione apocrifa della storia, che dobbiamo al lampo di chiaroveggenza di un detenuto-filosofo. Nel giugno del 1997 Salvatore Ferraro fu arrestato con l’accusa di favoreggiamento nell’omicidio della studentessa Marta Russo. Si fece sedici mesi di prigione da presunto innocente (e non solo presunto, per quanto mi riguarda). In cella stese la traccia di un raccontino, “La leggenda della nascita del carcere”, che si legge nel suo memoriale Il dito contro (Avagliano editore, 2001). Nauseati dalla pena di morte, dalle torture e dall’antico splendore dei supplizi, i giuristi e i filosofi dei Lumi devono decidere cosa fare dei condannati. Isolarli è inutile, curarli impossibile, riavvicinarli per gradi alla società è macchinoso. Insomma, un bel rompicapo. “‘Signori, vi va un caffè?’ chiese all’improvviso il professor Calembour, l’esimio. ‘Certo che ci va’, risposero in coro. ‘Qui vicino c’è un bar che lo fa veramente ottimo, vogliamo andare?’. ‘Ma i condannati? I condannati sono qui che aspettano una nostra decisione’. ‘Beh, per ora chiudeteli in uno stanzino. Al nostro rientro vedremo cosa farne!’. La congrega illuminata non ritornò. I condannati rimasero chiusi per sempre nello stanzino”. Ecco, se anziché il coronamento della grande opera dell’Illuminismo il carcere fosse la sua interminabile pausa caffè? Un punto cieco della ragione, una tenace macchia di assurdità nel mondo rischiarato, una disattenzione che dura da troppi secoli? Per parte mia, non riesco più a pensare alla storica rivista dei fratelli Verri e degli illuministi lombardi, “Il Caffè”, senza ricordarmi di quel raccontino di poche pretese di Salvatore Ferraro. E aspetto - con deboli speranze ormai - che giuristi e filosofi rientrino dal bar. Se a Venezia non resta che il boicottaggio di Anna Foa La Stampa, 28 agosto 2025 Mentre a Gaza la situazione precipita ogni giorno di più verso un genocidio conclamato, in Italia la discussione si è concentrata negli ultimi giorni sul problema del boicottaggio culturale: si deve, si può boicottare la cultura, si è detto a proposito dell’appello a escludere l’attrice israeliana Gal Gadot dal Festival di Venezia fatto da numerosi intellettuali e cineasti? La cultura non dovrebbe essere un ponte di pace e non un muro di esclusione, ci si è chiesti? E l’attrice in questione, protagonista del riadattamento del cartone animato di Disney, Biancaneve, è stata esclusa perché israeliana o per le posizioni assunte in passato rispetto alla distruzione israeliana di Gaza? La polemica su di lei era già nata a marzo all’uscita del film, quando la coprotagonista, Rachel Zegler, era stata richiesta dal produttore di cancellare un suo post che diceva “Free Palestine!”. Il richiamo al concerto previsto a Caserta del direttore d’orchestra russo Gergiev e annullato in seguito alle proteste di molti, fra cui la comunità ucraina in Italia, è emerso di nuovo come un mese fa. Gergiev non è stato colpito dal boicottaggio in quanto russo ma in quanto sostenitore e propagandista di Putin. Nel suo caso quindi, non di boicottaggio culturale si trattava, ma del rifiuto di offrire un palcoscenico a un aperto sostenitore dei criminali di guerra russi. Il problema del boicottaggio culturale è comunque reale. Ma questo boicottaggio è già in atto da tempo. Esso ha colpito recentemente istituzioni universitarie israeliane, dipartimenti, fondi e progetti di ricerca, situazioni cioè ben più serie della mostra di Venezia. Molti degli stessi docenti colpiti dal boicottaggio erano impegnati in prima persona nell’opposizione al governo e alla sua politica. Molti di loro non solo non hanno protestato per l’esclusione, ma l’hanno considerata come la conseguenza prevedibile della politica del loro governo. In assenza, inoltre, di un boicottaggio economico e del blocco dei rifornimenti di armi, il boicottaggio culturale è stato certamente una scelta che coinvolgeva non i governi ma università e istituzioni, e quindi in teoria priva di serie implicazioni politiche. Dobbiamo inoltre, come ha scritto Gad Lerner in un post recente sui social, tener presente la possibilità che le persone cambino idea, sia gli israeliani sia gli stessi sostenitori di Hamas. La tendenza ad orientare le esclusioni e i boicottaggi sulle responsabilità individuali dei singoli e non in generale sull’essere cittadini di uno Stato impegnato in politiche criminali, sia la Russia che Israele, non può portarci però a trasformare ogni scelta in un processo, ad impegnarci nel valutare prima di ogni altra cose le responsabilità di ogni presa di posizione, di ogni scelta politica individuale anche superata? D’altra parte, le sanzioni da parte degli altri Stati, quelle dell’Unione europea contro Israele, sono un’arma che se attuata potrebbe rivelarsi decisiva nel fermare il massacro, nel lasciar passare i rifornimenti, nell’arrivare ad una tregua che salvi anche la vita ai pochi ostaggi ancora in vita. E questa è, in questo momento, la priorità assoluta, fermare il genocidio. Ma questo tipo di sanzioni non sono attuate. Le armi continuano ad essere vendute, i rapporti economici sono intatti. Che fare? Tutti tendono ormai a fare di tutt’erba un fascio. Nei social, ad ogni degenerare della situazione, ad ogni nuovo massacro come quello del 25 agosto dei cinque giornalisti, si tende a minimizzare al massimo la volontà di resistenza di una parte importante degli israeliani. Quanti in Italia conoscono il movimento che porta i giovanissimi nei villaggi beduini, con gravi rischi, per far loro da scudo alle violenze dei coloni? Giorni fa la macchina di una ragazza di diciotto anni, Rivka, figlia di Ygal e Galila, miei amici, è stata data alle fiamme e gli attivisti maltrattati in un villaggio. Quanti di coloro che scrivono contro tutti gli israeliani avrebbero questo coraggio? Anche sugli ostaggi, troppi sono state negli ultimi tempi i rifiuti da parte dell’opinione pubblica di valutarli come esseri umani, troppi i riferimenti a loro come a soldati responsabili di genocidio. Vogliamo ricordare, per evitare generalizzazioni pericolose, quanti degli ostaggi erano membri dei kibbutzim di “sinistra”, da sempre impegnati nel rapporto con i palestinesi. Ricordate Oded Lifschitz, l’83enne giornalista membro dei movimenti pacifisti che aiutava a portare i bambini malati di Gaza negli ospedali israeliani? In conclusione, credo che, in assenza di misure più efficaci, rinunciare all’arma del boicottaggio culturale in nome della libertà di opinione sarebbe in questo momento un errore. Perché siamo in un’emergenza spaventosa, in cui mentre noi disquisiamo troppi gazawi muoiono. Qualsiasi arma pacifica a nostra disposizione deve, oggi, essere usata. Perché l’arte non si boicotta di Elena Loewenthal La Stampa, 28 agosto 2025 Una mappa rossa grondante sangue che, in ottemperanza a uno slogan ormai popolare in tutto il mondo, ha per confini un fiume e un mare (anche se molti degli attivisti per la causa non ha idea di quale fiume e quale mare si tratti). In sovraimpressione un titolo che dice “Venice for Palestine”. Il manifesto e la campagna sono promossi dal comitato V4P che si dichiara contro il genocidio a Gaza e contestualmente ha chiesto e ottenuto il ritiro dell’invito al Festival a Gal Gadot e Gerald Butler, l’una perché è israeliana e l’altro perché nel 2018 ha partecipato a un evento a sostegno delle forze armate israeliane. La sigla V4P ha nei giorni scorsi inviato un appello in cui si invitano il Festival e la Biennale a prendere posizione contro Israele, che è stato firmato da tanti attori e registi italiani. Un appello contro. Non per la pace, per il cessate il fuoco, per la fine dei bombardamenti, per il rilascio degli ostaggi, per la coesistenza di due Stati. Semplicemente contro Israele. Puntualmente è arrivato un manifesto di segno opposto che recita “Venice for Israel”, stessa cartina ma bianca e celeste, perché “l’arte non può essere ridotta a strumento di propaganda né piegata alle campagne di odio che circolano nel mondo, chiediamo di difendere la libertà creativa e di opporsi all’uso distorto dei simboli culturali per diffondere antisemitismo e falsità”. Ora qui non è questione di decidere da che parte stare né di quale colore vestire una mappa che nel mondo migliore possibile - e al momento molto distante da quello reale - dovrebbe contenere due Stati e avere dei confini segnati ma liberamente valicabili (come aveva deciso la risoluzione Onu del 29 novembre del 1947, accolta dagli ebrei e rigettata dagli arabi). La questione a tutti gli effetti scandalosa e inaccettabile è il boicottaggio, anzi il respingimento di artisti a un Festival del cinema come arma di manifestazione politica. È la negazione del presunto “nemico” e contestualmente della persona che lo incarna, i quali perdono con ciò il diritto di presenza. Per intenderci, un conto è un talentuoso direttore d’orchestra attivo sostenitore della dittatura di Putin e dell’invasione in Ucraina. Un conto è un’attrice che ha il passaporto israeliano e ha partecipato a una manifestazione per il rilascio degli ostaggi ancora in mano ad Hamas - al pari di quelle centinaia di migliaia di israeliani che scendono per le strade ormai da quasi due anni. La questione cruciale è un’altra, e cioè la manipolazione di un territorio mentale che dovrebbe essere per definizione il luogo dell’incontro, dello scambio, del confronto, della riflessione comune partendo da punti di vista diversi. L’arte fa questo, è - o meglio dovrebbe essere - questo e non altro. Dovrebbe sempre aprire e mai chiudere. Fare entrare. Ascoltare e non gridare né tanto meno zittire. Cercare la bellezza del mondo - il che non vuol dire fare finta di non vederne la bruttezza e la violenza. Provare, anzi, a riparare i cocci e rimediare i guasti attraverso il dialogo, l’attenzione a chi non la pensa e non è come te. L’arte e la cultura dovrebbero essere un territorio franco - da pregiudizi, slogan vuoti, posizioni che escludono quelle altrui, dai “no!” a priori, da fin troppo comode battaglie a suon di slogan rinfacciati a destra e sinistra, echi sordi e inutili. La storia di Bodgan, che infrange tutti i pregiudizi sui rom di Paolo Lambruschi Avvenire, 28 agosto 2025 Cresciuto nello stesso campo dei quattro bambini che hanno investito e ucciso Cecilia De Astis, grazie alla rete dei volontari di Sant’Egidio ha iniziato a studiare e ha trovato un lavoro. Sarà il Comune di Milano, con la sua struttura di servizi sociali, ad assumersi la responsabilità genitoriale dei quatto ragazzini dagli 11 ai 13 anni che l’11 agosto travolsero e uccisero a bordo di un’auto rubata a dei turisti francesi Cecilia De Astis, in via Saponaro, per poi fuggire lasciandola agonizzante. La decisione è stata presa dal giudice delegato del Tribunale dei minori Ciro Iacomino che ha affidato al Comune due fratellini di 11 e 13 anni (il più grande era alla guida dell’auto, nessuno di loro, data l’età, imputabile) e di una undicenne che erano a bordo della vettura. Nel caso della ragazzina il provvedimento sarà notificato alla madre che non è stata trovata. Il sogno di Bogdan è diventato realtà in 10 anni. La sua è una di quelle storie capaci di abbattere i muri del pregiudizio che son tornati ad alzarsi. Nel 2015 in via Selvanesco, ai margini di Milano, nel piccolo ghetto dove vivevano i quattro minori under 14 rom - tre dei quali ora in comunità - per aver rubato un’auto e aver investito e ucciso un’anziana di 71 anni al quartiere Gratosoglio, c’era un altro ghetto con altri bambini rom, stavolta romeni e non bosniaci. Ma la storia è andata diversamente. Di uno di loro si è occupata la comunità di Sant’Egidio milanese. I bambini che seguivano avevano segnalato la storia del loro cuginetto Bogdan, che nel 2015 aveva nove anni, era sordomuto, viveva in una baracca priva di luce ed acqua e non era mai andato a scuola, esattamente come i quattro bambini che hanno investito Cecilia De Astis. Il padre non c’era più e la mamma Alina pensava che fosse impossibile per un bambino sordomuto studiare con gli altri. Lei manteneva se stessa e il piccolo chiedendo l’elemosina in strada. Stefano Pasta, responsabile rom di Sant’Egidio di Milano insieme a Flaviana Robbiati, maestra e volontaria della comunità, li presero subito a cuore. “Bogdan voleva andare a scuola come tutti gli altri bambini - spiega Pasta - e insieme a lui e alla madre sognammo di mandarcelo seguendo il detto di Danilo Dolci: ciascuno cresce solo se sognato”. Era una sfida, oltre ad essere analfabeta a nove anni, non essendo residente non aveva diritto ai sostegni scolastici per le persone disabili. Venne contattata la scuola di via Arcadia al Gratosoglio, che ha una lunga esperienza di accoglienza di bambini di famiglie rom, e il dirigente scolastico, nonostante le difficoltà, ha accettato la sfida. Bogdan si è inserito in classe ed è stato seguito da vicino da Flaviana Robbiati. Ma di suo ci ha messo una volontà e una voglia di imparare fortissime. “Bogdan nella baracca faceva i compiti al lume di candela - ricorda Pasta - ricopiava le lettere che la mamma gli dava, e così ha imparato a leggere e a scrivere aiutato da Flaviana e a comunicare con la lingua dei segni, la Lis”. In questa storia a un certo punto entrano in gioco anche le ruspe sempre evocate quando si parla di rom. Nel 2017 l’area di via Selvanesco è stata infatti sgomberata e il gruppo di rom romeni si è trasferito, ma lui ha continuato a frequentare la scuola. “Ricordo - aggiunge Pasta - ancora la festa per la sua licenza media in pizzeria con i volontari, la mamma e due cugini”. Fondamentale per vincere la sfida la mossa di dare una residenza anagrafica alla madre presso la comunità di Sant’Egidio per farle avere i sostegni scolastici e poi l’assunzione come domestica da una volontaria grazie alla quale ha potuto ottenere una casa popolare nel nord ovest di Milano e smettere di chiedere l’elemosina per strada. Bogdan è riuscito a ottenere finalmente la certificazione della disabilità e una pensione di?invalidità permanente. Si è iscritto al corso di formazione professionale di Cascina biblioteca e nonostante fosse dall’altra parte della metropoli, ha imparato a spostarsi con i mezzi pubblici in piena autonomia ed è riuscito a diplomarsi come meccanico. Oggi ha trovato lavoro in un’officina, ha un regolare contratto e ha realizzato il suo sogno, quello di sentirsi come tutti gli altri. I cugini che avevano segnalato la sua situazione si sono nel frattempo sposati. “E - conclude Stefano Pasta - ora che vivono in appartamento e lavorano ci chiedono aiuto per iscrivere i figli alla materna”. Una storia che ricorda che a Milano e in tante città italiane sono stati fatti anche passi avanti sulle questioni sociali dei rom, grazie alla scuola e alle organizzazioni di volontariato come quelle di Sant’Egidio che si sono sporcati le mani per vincere la sfida. Migranti. Il fronte del Mediterraneo di Paolo Giordano Corriere della Sera, 28 agosto 2025 Il dramma dei naufragi. I rapporti difficili con la Libia, il lavoro delle navi Ong. La politica italiana corregga la rotta. Al cospetto di due crisi maggiori - Gaza e l’Ucraina - la questione del Mediterraneo retrocede. E dire che è stata una fine dell’estate movimentata nel Canale di Sicilia. Il 13 agosto un numero imprecisato di persone, almeno ventisette fra cui una bambina di undici mesi, sono morte in un naufragio al largo di Lampedusa. Si tratta di un bilancio particolarmente cruento che tuttavia non si è meritato neppure un nome, a differenza di Cutro o Roccella Jonica. Senza un nome è già stato dimenticato. Il 23 agosto la nave Mediterranea con a bordo dieci naufraghi in cattive condizioni ha disubbidito all’ordine di raggiungere il porto che le era stato assegnato, quello assurdamente lontano di Genova, e ha fatto rotta verso Trapani, incorrendo nelle sanzioni implacabili della multa e del fermo amministrativo. Il giorno dopo la Ocean Viking con a bordo 87 naufraghi è stata colpita da raffiche sparate da un’imbarcazione della cosiddetta guardia costiera libica in acque internazionali. Tutto questo ci ricorda che il Mediterraneo è un fronte aperto. Per collocazione geografica, più vicino e personale per l’Italia di qualunque altro. Ma la sua celebrità è ondivaga, tanto nello spazio mediatico quanto nei nostri cuori, che allo spazio mediatico sempre di più assomigliano. In altri momenti, meno saturi di orrore e di Donald Trump, la sequenza di eventi eccezionali di fine agosto avrebbe riempito prime pagine e palinsesti, ma non quest’anno. Noi accettiamo la tregua emotiva che i media e la politica ci concedono almeno su questo fronte quasi con un senso di gratitudine. Desideriamo esserne risparmiati, almeno un po’. Non perché siamo diventati all’improvviso disumani ma perché ormai avvertiamo con chiarezza che la situazione del Mediterraneo esclude quelle soluzioni radicali che sono state promesse in più tornate elettorali. È una situazione punto. Che esiste ed esisterà. A cui far fronte con un grado maggiore o minore di efficienza, maggiore o minore di solidarietà, ma nei fatti ineliminabile. Dopo il rimpatrio imbarazzante di Almasri, a gennaio, siamo arrivati a desiderare, anzi a implorare che sulla vicenda venisse posto il segreto di Stato. Preferivamo non sapere i come né i perché - o almeno a me è successo -, per non essere implicati moralmente in quella che aveva tutta l’aria di un’indecenza. I segnali della nostra compromissione, in particolare con la Libia, sfuggono ormai da ogni parte. Basti dire che l’imbarcazione della cosiddetta guardia costiera libica che ha sparato sulla Ocean Viking era stata regalata alla Libia dall’Italia, nell’ambito degli accordi bilaterali che vengono rinnovati ogni anno dal 2017. E che la guardia costiera libica la chiamiamo “cosiddetta” perché è per lo più in mano a bande che dispongono del materiale umano come di una merce, mandando le imbarcazioni e ricatturandole, mentre noi fingiamo di riconoscerne la giurisdizione. E che i soccorsi in mare stanno diventando sempre di più una gara di velocità proprio con la cosiddetta guardia costiera libica, armata contro navi disarmate. I nostri rapporti con i paesi del Nordafrica sono un groviglio di ipocrisie. Non è strano che preferiamo guardare altrove. Nella nostra intermittenza, gli attraversamenti del mare continuano, e continuano i naufragi. Ma per fortuna continuano anche le missioni di ricerca e di soccorso da parte della nostra guardia costiera, della Marina Militare e delle navi delle organizzazioni non governative. Partecipando a una di quelle missioni, sulla nave di Emergency, poco più di un anno fa, mi sono reso conto di quanto un soccorso in mare aperto, di notte, fra le onde, con i naufraghi in acqua, nel panico, - proprio come quello che ha effettuato la nave Mediterranea - sembra niente guardato da qui, nelle clip, all’asciutto. Ma richiede una sfilza di professionalità avanzatissime e un rigore ferreo. I soccorsi in mare sono esperienze traumatiche anche per gli operatori esperti che le effettuano di continuo. Anche per questo l’attività che le navi delle ong svolgono accanto alla guardia costiera sono un vero e proprio patrimonio della collettività. Stringendo il discorso, concentrandosi sul tratto specifico del Canale di Sicilia rispetto alla complessità dei flussi migratori, si tratta solo di decidere se far morire più o meno persone annegate. C’è almeno un’altra informazione essenziale che ho appreso dall’esperienza sulla Life Support di Emergency. Quando mi sono imbarcato avevo in me lo strascico di anni e anni di propaganda antisbarchi, che aveva identificato la presenza delle navi delle ong nel Mediterraneo con la causa stessa degli attraversamenti. Il cosiddetto “pull factor”, il fattore di attrazione: le persone rischierebbero la traversata dalle coste libiche e tunisine perché sanno che verranno intercettati dalle ong. Avevo preso l’ipotesi molto sul serio. Mi è bastato conoscere un dato a bordo perché tutta quella propaganda, sulla quale si erano giocate centinaia di ore di dibattiti, evaporasse: di tutti i soccorsi, solo il 15% sono quelli effettuati dalle ong. Tutti gli altri sono della Marina Militare e della guardia costiera italiana (che per il suo servizio encomiabile non dovrebbe spartire nemmeno parte del nome con la cosiddetta guardia costiera libica, che spara ad altezza uomo sulle imbarcazioni). È proprio come afferma il ministro Piantedosi: “Il soccorso dei migranti lo gestisce lo Stato non le ong”. Perché è così statisticamente. Nella nostra percezione condivisa i “barconi” sono un affare delle ong, di Mediterranea, della Ocean Viking, della Geo Barents quando c’era; nella realtà stiamo parlando di meno del quindici per cento del totale. Simili illusioni ottiche, simili iperrappresentazioni mediatiche sono un tratto comune di ogni propaganda. Non avrebbero nulla di scandaloso se non producessero degli effetti nella realtà. Nello specifico, l’esagerazione dell’impatto delle ong e la fantasia del pull factor hanno portato a introdurre per decreto una serie di pratiche vessatorie ai danni delle ong: dal divieto di effettuare soccorsi multipli anche quando le navi sono in grado di sostenerli, all’assegnazione di porti di sbarco nel nord del paese, i “porti lontani” che costringono le navi e i naufraghi a giorni ulteriori di navigazione e a spese inutili, fino al fermo delle navi usato come ritorsione programmatica. Come dicevo in apertura, altre crisi hanno ormai preso il sopravvento sulla questione migratoria. È plausibile che questo cambiamento durerà, che le prossime elezioni, finalmente, non saranno decise così nettamente dalle promesse di pugno duro sul Mediterraneo. Il governo Meloni nel frattempo ha il diritto, se non il dovere, di affrontare la questione migratoria secondo il mandato dei propri elettori. Ma darebbe prova di una sorprendente sensatezza se decidesse una volta per tutte di disaccoppiare la questione reale del Mediterraneo, la “situazione”, dalla propaganda costruita ad hoc contro le ong dagli esecutivi precedenti. Rimuovendo lo stigma opportunistico e i suoi corollari di norme vessatorie: l’assegnazione dei porti lontani, il divieto dei soccorsi multipli, i fermi. Correggendo una rotta sbagliata impostata sul navigatore in un’epoca diversa da questa. Migranti. Annunci e realtà, Meloni sul “fronte” anti-sbarchi di Giansandro Merli Il Manifesto, 28 agosto 2025 Poche soluzioni, tante parole. La convergenza Ue-Italia è un gioco facile: ma non ci sono meriti, l’Europa va a destra. Mentre a Rimini la premier Giorgia Meloni si addentra “nel fronte delle migrazioni” vantandosi di aver “abbattuto drasticamente gli ingressi irregolari ma soprattutto ridotto i morti in mare” a Lampedusa si contano oltre 800 sbarchi in ventiquattro ore e si dà un nome a tre cadaveri recuperati dalla ong Nadir: tre sorelle di 9, 11 e 17 anni identificate da madre e fratello. Davanti alla platea del meeting di Comunione e liberazione la leader FdI dà una copertura cristiana alle politiche anti-migranti tirando in ballo il cardinale guineano Robert Sarah, considerato un oppositore del papato bergogliano, e le sue preoccupazioni identitarie sui giovani che lasciano “la loro terra e il loro popolo”. Così, sostiene Sarah, mettono in pericolo “storia, cultura ed esistenza del Paese che abbandonano”. A Meloni, però, restano tutti gli altri problemi di una questione su cui dall’opposizione lanciava fuoco e fiamme, ma dagli scranni del governo fatica a trovare una quadra. “Abbiamo posato mattoni nuovi contrastando gli arrivi irregolari, ampliando quelli regolari in una cornice di serietà e rigore come non era mai avvenuto prima”, dice. Per dimostrare il successo delle politiche anti-sbarchi, per nulla innovative visto che restano nel solco del sostegno a milizie e regimi nordafricani tracciato da Minniti, il governo ha ideato un escamotage: confronta i dati non con l’anno scorso, rispetto al quale si registra un aumento, ma con il 2023. Anno record di arrivi, sotto la stessa presidenza del Consiglio. La questione dei flussi regolari è invece più complessa. Perché qui la propaganda delle destre e le esigenze del mercato del lavoro vanno a sbattere. Così l’esecutivo continua a puntare il dito contro le poche migliaia di persone che attraversano il Mediterraneo e contro le ong che salvano vite, ma intanto ha varato due decreti flussi che in sei anni dovrebbero, se funzionassero, portare in Italia un milione di persone. Numeri mai raggiunti in precedenza, che a quanto pare non sarebbero in contraddizione con la retorica sulla “sostituzione etnica” alimentata per anni dai fasciosovranisti. C’è da augurarsi che gli imprenditori alla disperata ricerca di lavoratori stranieri ascoltino “il punto” sottolineato dalla premier: “Non ci interessa la migrazione per avere manodopera a basso costo da impiegare nei nostri sistemi produttivi”. Stesso lavoro, stesso salario: sembra il libro dei sogni. Meloni ha poi gioco facile a dire che l’Europa intera si è ritrovata sulle posizioni italiane: aumentare i controlli alle frontiere esterne e rafforzare la politica dei rimpatri. Più che al “nostro coraggio e determinazione”, però, la convergenza dipende dal fatto che istituzioni Ue e governi nazionali si sono spostati sempre più a destra, portando alle estreme conseguenze la guerra alle persone migranti sostenuta per anni dalle forze di centro-sinistra, incapaci di delineare un modello differente basato su uguaglianza e rispetto dei diritti. Delle “soluzioni innovative” sbandierate a ogni occasione - i centri di detenzione in Albania al momento quasi vuoti - resta solo lo scontro con la magistratura. E qui Meloni, dopo essersi sistemata giacca e camicia, promette convinta che “non c’è giudice, politico o burocrate che possa impedirci di far rispettare la legge dello Stato italiano”. Il pubblico ciellino risponde con un’ovazione, anche se evidentemente il tema è presentato al rovescio: sono state le toghe a garantire il rispetto dei diritti costituzionali e di quelli previsti dalle convenzioni europee e sovranazionali contro le pretese governative di deportare e detenere in massa chi ha soltanto chiesto asilo politico. Non un singolo giudice, ma praticamente tutti gli organi chiamati in causa: dalle sezioni specializzate dei Tribunali civili, alle Corti d’appello, alla Cassazione, fino alla Corte di giustizia Ue. Chissà se per la premier questi ultimi sono giudici o burocrati. Migranti. Sul fiume Drina la Spoon River della rotta balcanica di Francesca Ghirardelli Avvenire, 28 agosto 2025 Viaggio nei luoghi di transito di chi fugge dalle guerre e tenta di entrare in Europa via terra: qui arrivano anche i familiari che non hanno più notizie dei loro cari e cercano almeno “un corpo”. Sono le sette del mattino e Nihad Suljic con Vlasta Markovic fermano l’auto di fronte al fiorista che li aspetta. Ritirano rose bianche e corone di fiori. Le sistemano nel baule dell’utilitaria cercando di non sciuparle, perché nell’abitacolo devono lasciare il posto per due volontarie bosniache che salgono a Zvornik, più a est, sulle rive della Drina. Insieme proseguono fino a Bratunac, Bosnia orientale, dove altri attivisti li attendono, con polizia, vigili del fuoco, stampa locale. “Credo nell’azione, bisogna agire per fare qualcosa. Non importa cosa, distribuire cibo, vestiti, qualsiasi cosa, non solo a parole”, dice il giovane attivista Nihad Suljic nel tragitto in macchina. Ci crede davvero e da otto anni si dà da fare supportando i richiedenti asilo della rotta balcanica con la sua Ong “Djeluj.ba”, che significa “agisci” appunto. L’auto scende per cento chilometri verso sud-est, dentro la Repubblica Srpska, una delle due entità della Bosnia ed Erzegovina, fin sulla riva del fiume che è anche frontiera con la Serbia, nel punto in cui un anno fa, il 22 agosto, dodici persone sono annegate mentre di nascosto entravano in territorio bosniaco. Siriani ed egiziani, donne, uomini e una bambina di nove mesi, Lana, con la madre Khadija e il padre Ahmed. “Quel giorno ho chiamato la polizia di frontiera, volevo sapere se c’erano sopravvissuti, ho portato loro del cibo”, ricorda l’attivista. Erano in una ventina, il primo gruppo imbarcato dai trafficanti, poi tornati a prendere gli altri, che però non sono mai arrivati di qua. Su una piccola spiaggia di ciottoli, si pronunciano parole di ricordo. Poi i fiori vengono affidati alla corrente del fiume. “Quel mattino sono accorsi vigili del fuoco, polizia, hanno raccolto corpi tutto il giorno”, racconta un pompiere serbo-bosniaco. “Ce n’erano ovunque, in superficie e in profondità. Quattro cadaveri sulla nostra riva, otto su quella serba”. Dopo il naufragio, una famiglia siriana ha contattato Nihad Suljic. “Cercavano due cugini, Mohamed, 15 anni, e Ammar, 20 anni. Abbiamo fatto un’identificazione ufficiale e li abbiamo seppelliti”. Lui e gli altri attivisti, in questi anni di grandi transiti, si sono occupati dei vivi e ugualmente dei morti. “A Tuzla non abbiamo più molti arrivi, le persone vanno direttamente dal confine verso Sarajevo. Ma in passato, dal 2017, ogni giorno ne vedevamo anche quattrocento”. Poi aggiunge: “La cerimonia di stamattina è uno dei rari casi in cui serbo-bosniaci e bosniaci musulmani hanno commemorato qualcuno insieme. Sono dovute morire persone straniere perché accadesse. Per questo naufragio ho organizzato quattro funerali, con i fondi dell’Ong austriaca SOS Balkanroute ho comprato le lapidi”. Attraversiamo la frontiera verso la città serba di Loznica. In due cimiteri, altri fiori da posare e litanie da ascoltare. Molte lapidi non hanno un nome. Nihad Suljic è in contatto con il patologo Vidak Simic all’ospedale di Bijeljina dove si eseguono le autopsie. “Ha estratto campioni ossei utili per eventuali future identificazioni e li conserva più a lungo di quanto non preveda la legge” confida. Con i fondi dell’International Commission on Missing Persons (Icmp) si progettano test del Dna. “L’Icmp conduce queste ricerche da molto tempo qui, per identificare le vittime bosniache della guerra degli anni Novanta. Forse noi in Bosnia capiamo meglio cosa si prova quando si cerca un figlio, un fratello. Infatti stiamo ancora cercando migliaia di persone”. Secondo l’attivista ci sono circa cento tombe a Bijeljina, Bratunac, Zvornik, Tuzla e sulla sponda serba. “E parliamo solo dei corpi riemersi dal fiume. Conosco casi di scomparsa senza che le autorità abbiano avviato le ricerche. Vogliamo dare dignità a queste persone, tutti gli esseri umani meritano una tomba. Ma vogliamo anche che si sappia che queste lapidi sono il prodotto di un sistema e di un’epoca. Non si tratta di incidenti, si muore per le politiche dell’Unione europea. Fra cent’anni, qualcuno deve dire: “Avevamo afghani e siriani che morivano ai nostri confini”. La tappa successiva della giornata è a una stazione di polizia serba. Un giovane marocchino è scomparso qui, il fratello lo cerca dalla Spagna. “Un corpo è stato trovato qualche giorno fa, voglio vedere se è lui” dice l’attivista, che si presenta dagli agenti con la foto del ragazzo, per scoprire che i morti tirati fuori dal fiume sono due. Al tramonto entriamo in un altro cimitero, un campo nei boschi fuori Tuzla. Nihad Suljic e Vlasta Markovic con la volontaria Dzevida Becic sistemano le ultime rose sulle lapidi dei cugini siriani. Su ciascuna c’è scritto: “Ha provato ad entrare nell’Unione europea e ha perso la vita nella Drina”. L’attivista avvia una videochiamata alla famiglia. “Vedete, le tombe sono in buono stato”, lo sentiamo dire in collegamento. Per oggi è l’ultima delle sue azioni concrete, quelle in cui crede con determinazione, così importanti per i vivi e anche per la dignità dei morti, di chi era partito da lontano ed era diretto altrove, e che invece riposa qui. Droghe. Riduzione del danno, il Comune di Bologna fornirà pipe per il crack: la destra attacca di Alessia Arcolaci Il Domani, 28 agosto 2025 Le opposizioni attaccano il sindaco Lepore per l’iniziativa. Ma la sperimentazione si basa su dati e studi scientifici. L’epidemiologo e ricercatore esperto nelle dipendenze, Raimondo Pavarin: “Si fa molto allarmismo ma nessuno si sta preoccupando di che cosa fare. Dare le pipe da crack significa iniziare a occuparsi della salute di queste persone”. Bologna distribuirà pipe in alluminio gratuite ai consumatori di crack. Un annuncio del Comune che ha scatenato la reazione dell’opposizione con la minaccia, attraverso le parole dell’europarlamentare di Fratelli d’Italia, Stefano Cavedagna, di denunciare il sindaco Matteo Lepore perché “incentiva il consumo di droga”. Più o mento nelle stesse ore la premier Giorgia Meloni, ospite del Meeting di Rimini, ribadiva che “la droga fa schifo”, per poi spostarsi a San Patrignano per un saluto alla comunità. Al di là dei proclami facili, ci sono i dati. Su questi si basa la sperimentazione che va avanti da un anno e mezzo, curata per Fuori Binario, dall’epidemiologo e ricercatore esperto di dipendenze Raimondo Pavarin, e partita attraverso la distribuzione di 40 pipe da crack per capire l’efficacia dell’intervento. Si tratta del primo studio di questo tipo in Italia, mentre all’estero ne esistono diversi, a partire dal Canada e gli Stati Uniti. “Il target del servizio sono persone marginali”, spiega Pavarin. “Ed è stato dimostrato che fornire questo strumento aiuta queste persone ad instaurare una relazione con chi offre il servizio e a chiedere successivamente aiuto per curarsi”. In particolare, lo studio ha rilevato che dopo 60 giorni “la frequenza del fumo di crack è diminuita del 50 per cento e sempre dopo 60 giorni molti dei consumatori coinvolti hanno cessato di avere problemi diversi di salute, tra cui infezioni”. Attualmente la fase due del progetto, ovvero quella della distribuzione, non è stata ancora attivata e quando partirà, verrà data una pipa per ogni persona che lo chiederà. Seguirà un monitoraggio costante con il consumatore. “Riduzione del danno” - Il progetto rientra all’interno di un insieme di pratiche chiamate “riduzione del danno”, che nell’ambito delle tossicodipendenze ha l’obiettivo di limitare i rischi, soprattutto di salute, a cui possono andare incontro i consumatori di sostanze stupefacenti. Si tratta di interventi che sono stati formalmente riconosciuti tra i Livelli essenziali di assistenza (Lea) in Italia, a partire dal 2017. “Per questo, le regioni sono tenute a disciplinare la riduzione del danno come pratica socio-sanitaria sui territori e l’Emilia-Romagna lo ha fatto”, spiega l’assessora al Welfare, Matilde Madrid. “L’erogazione della pipetta monouso e sterile, è l’analogo contemporaneo, come principio di fondo, di quando a fine anni ‘90 in seguito all’esplosione dell’eroina, partì la distribuzione di materiale sterile e monouso per l’iniezione, come siringhe e lacci emostatici. Fare una crociata contro questo tipo di iniziative sarebbe come dire che quella stagione lì non ha portato benefici”. Secondo i dati dell’Ausl di Bologna, al 30 giugno 2025 risultavano 518 persone in carico per utilizzo di crack, di cui 134 nuovi casi. Erano 353 nel 2023 e 456 nel 2024, con un incremento del 25 per cento in un solo anno. “Questa pratica serve a intercettare i consumatori, di cui il 55 per cento sono italiani”, continua l’assessora Madrid. “La fascia di età prevalente è quella dei 45-49 anni ma c’è un incremento del consumo anche in quella 25-35, quella più bassa. Consideriamo che i nostri dati tracciano il consumo di marginalità che è solo una punta dell’iceberg. L’utilizzo di sostanze è trasversale a tutte le classi sociali e chi è socialmente inserito non si rivolge a noi. C’è molto sommerso”. Il costo - Il costo dell’operazione, sostenuto dal comune, è di circa 600 euro per l’acquisto di 300 pipe per un totale di 3.500 euro per l’intero progetto. “Le città europee e non solo che fanno questo lavoro sono tantissime” spiega l’assessora Madrid. “La mole di informazioni scientifica è molto rilevante e soprattutto confortante sull’efficacia di queste politiche, che ovviamente non sono risolutive nell’immediatezza, ma affrontano il problema con pragmaticità e non in base a preconcetti come quelli che ho ascoltato nelle ultime ore. Perché una volta che ci siamo detti che il crack fa male, non abbiamo risolto nulla. Queste persone vanno in ogni modo supportate nei loro percorsi di riscatto. Noi ci muoviamo su evidenze scientifiche non con le ideologie”. Nel 2024 il numero dei decessi per cocaina e crack, accertati dalle forze dell’ordine (80 casi, pari al 35 per cento) è risultato equivalente a quello legato all’assunzione di eroina e oppiacei (81 casi). “Il crack si sta sovrapponendo al mondo dell’eroina”, conclude il professor Pavarin. “Sento dire che il nostro studio aumenterebbe il consumo, si fa molto allarmismo ma nessuno si sta preoccupando di che cosa fare. I dati dicono il contrario. Dare le pipe da crack significa iniziare a occuparsi della salute di queste persone”. Medio Oriente. “Vittima”, quella parola in comune di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 28 agosto 2025 Gaza e Israele. Il divorzio totale dalla verità del nemico è uno dei frutti più tossici di ogni guerra. Una distanza profonda va aprendosi tra ciò che noi vediamo di Israele e ciò che Israele vede di sé. È uno iato che rende difficile persino interpretare i fatti, sempre sospesi tra verità e menzogna, mentre il discredito internazionale di Netanyahu e dei suoi ministri aumenta di strage in strage, l’ultima delle quali all’ospedale Nasser di Khan Younis. Ancora martedì il Paese è stato attraversato da un’ennesima ondata di proteste, con blocchi stradali e cortei contro la guerra condotta a Gaza ormai da quasi settecento giorni. Lo scontro asimmetrico tra una potenza altamente tecnologizzata e un gruppo terrorista incistato dentro la propria popolazione può avere forse un esito scontato: ma ha di sicuro un costo difficile da sostenere per chi continua a proclamare, almeno a parole, i valori di una democrazia occidentale. La contestazione al premier, di cui molti invocano le dimissioni, è cresciuta di fronte all’ulteriore intensificarsi dei piani d’attacco contro la Striscia, ormai proiettati verso una vera occupazione militare a dispetto di ogni mediazione. Un sondaggio dell’emittente pubblica Kan ha rilevato che solo il 28 per cento sostiene il nuovo piano, convinto che la sua realizzazione significherà la morte degli ultimi ostaggi rimasti in mano ad Hamas. Un buon 70 per cento chiede un accordo che li riporti a casa e la fine della guerra, risparmiando così la vita di tanti giovani soldati, figli e nipoti dei manifestanti che vediamo in tv. Queste immagini e questi numeri possono convincerci che la politica di Netanyahu verso la Palestina si regga solo grazie alle grucce estremiste dei vari Ben-Gvir e Smotrich e, dunque, che basti poco, in fondo, per ricondurre Gerusalemme lontano dai deliri della destra religiosa e dall’espansionismo dei coloni. Ma si tratta, probabilmente, di un’illusione ottica. Un sondaggio di luglio dell’Israel Democracy Institute, rilanciato dall’Ispi, rileva che secondo il 78 per cento degli ebrei israeliani “Israele sta facendo il necessario per ridurre le sofferenze dei palestinesi a Gaza”. Come si tengono assieme dati e fatti in apparenza così contrastanti? Accettando la perturbante tesi che il motivo del dissenso dal governo non sta nel destino dei palestinesi ma in quello degli israeliani stessi, ostaggi o soldati che siano. L’analista Dahlia Scheindlin sostiene su Foreign Affairs che il premier potrà anche cadere alle elezioni del 2026 ma difficilmente questo cambierà l’atteggiamento del Paese sui Territori, tema assoluto di sicurezza: “Gli israeliani sono d’accordo con il governo su molte questioni più profonde e a lungo termine. Sia l’opinione pubblica anti-Netanyahu che i principali partiti di opposizione differiscono poco dall’attuale leadership sul futuro status dei palestinesi, sull’inevitabilità dell’occupazione israeliana in generale e sull’accettabilità di negare l’autodeterminazione o, in alternativa, la democrazia e i diritti civili ai palestinesi nei Territori”. Può essere un punto di vista troppo cupo. Ma anche chi, nell’opposizione, ha tuonato come il democratico Yair Golan contro le uccisioni dei bimbi gazawi, non si espone granché sul punto. Tanti che due anni fa invocavano “democrazia!” nelle proteste contro la riforma giudiziaria di Netanyahu non ritenevano un problema democratico la sorte dei palestinesi. Secondo un sondaggio dell’Alliance for Middle East Peace, l’88 per cento dei ragazzi tra i 15 e i 21 anni pensa che Israele resti uno Stato democratico anche controllando la Cisgiordania, dove i palestinesi non possono votare alle elezioni israeliane. Il trauma del 7 Ottobre ha compromesso insomma un quadro già precario: creato da una lotta per la sopravvivenza che dura dalla fondazione dello Stato e che non poteva non alterare alla lunga la natura della democrazia laica e sionista. Un mese dopo il pogrom del 2023, Amir Tibon, un ultrademocratico giornalista di Haaretz impegnato sino ad allora a dare lavoro ai gazawi in uno dei kibbutzim attaccati da Hamas, scriveva: “Un Paese che non uccide le persone che hanno tentato di uccidere le mie figlie, e coloro che le hanno mandate, ha perso il diritto di esistere”. Per tragico che ci appaia, la maggioranza degli israeliani è ancora ferma lì. Finché gli Stati Uniti sono rimasti una democrazia liberale ancorata ai diritti umani questa deriva è stata rallentata. Il via libera di Trump a Netanyahu ha fatto saltare l’ultimo argine. Lo scrittore Etgar Keret partecipa ogni sabato a una veglia serale a Tel Aviv durante la quale espone in silenzio la foto di un bimbo di Gaza morto in un attacco dell’Idf: alcuni passanti gli hanno gridato che i bimbi gazawi morti non esistono, sono frutto dell’intelligenza artificiale e della propaganda di Hamas. Il divorzio totale dalla verità del nemico è uno dei frutti più tossici di ogni guerra. L’autocensura di molti media israeliani ricorda quella dei media americani dopo l’11 settembre, un moto spontaneo di allineamento alle ragioni della sicurezza nazionale che li indusse per anni a sorvolare sulle bugie di Bush, su Guantanamo, sul Patriot Act. Dall’altro lato Israele ha dovuto confrontarsi con un diffuso antisemitismo giunto a relativizzare il pogrom e a presentare come partigiani d’un movimento di resistenza i terroristi che tiranneggiano il loro stesso popolo. Sminuire gli stupri del 7 Ottobre o negare la fame di Gaza sono facce di una disumanizzazione che parte dal linguaggio e desertifica le coscienze. “I conflitti più tremendi sono non di rado quelli che scoppiano fra due perseguitati (…). Forse stanno proprio così le cose fra ebrei e arabi, da un centinaio d’anni”, scriveva Amos Oz. Riconoscere reciprocamente questa condizione in terra di Palestina sarebbe il primo passo per trovare almeno il senso comune d’una parola: vittima. Venezuela. Le sbarre di Caracas di Maurizio Stefanini Il Foglio, 28 agosto 2025 Porta (Pd) ci dice: serve una missione in Venezuela per liberare al più presto gli italiani. Sono stati liberati in Venezuela Américo De Grazia e Margarita Assenzo, resta dentro Alberto Trentini, e restano dentro anche altri cittadini italiani. “Un anno fa a Caracas l’arresto del giornalista e politico italo-venezuelano Biagio Pileri”, ha ricordato in un comunicato Fabio Porta: deputato del Pd eletto dagli italiani all’estero in America Latina, e da sempre tra i più impegnati sui problemi venezuelani. “Non dimentichiamo i nostri detenuti in Venezuela”, esorta. Il comunicato della Farnesina alla liberazione di De Grazia e della Assenzo è sembrato attribuirsi meriti. Mi pare che voi come opposizione lo abbiate criticato. “Noi del Pd stiamo all’opposizione, ma in questo momento abbiamo chiaro che l’interesse principale è la liberazione dei detenuti. Non vogliamo fare polemiche, ma soltanto collaborare. Abbiamo salutato positivamente la designazione come inviato speciale da parte della Farnesina di Luigi Maria Vignali, tra l’altro persona che stimo e conosco personalmente, perché da otto anni è anche il direttore generale per gli italiani all’estero. Ma ciò non toglie che siamo anche rammaricati per qualche errore che è stato fatto sull’organizzazione del suo viaggio (Vignali era volato a Caracas i primi di agosto per negoziare ed era stato respinto, nda). Personalmente ho seguito soprattutto la vicenda di De Grazia, ho incontrato più volte la figlia, ho accettato di essere padrino su richiesta dell’istituto Casla della sua detenzione, ma non faccio un comunicato per attribuirmi il merito della sua liberazione”. La liberazione dei 13 prigionieri politici era stata annunciata qualche giorno fa da Henrique Capriles Radonski, il leader di quella parte minoritaria dell’opposizione che non solo ha partecipato alle ultime elezioni, ma si sta dichiarando contro il possibile intervento militare americano contro il Venezuela. Una mossa di Maduro per rafforzarlo? “Una interpretazione possibile. Ma proprio per questo la cosa importante è che tutte le possibilità di trattativa per Trentini vanno comunque approfondite. A ottobre ci sono pure scadenze importanti che potrebbero essere utilizzate, dalla Conferenza Italia-America Latina alla canonizzazione a Roma di un santo venezuelano. Purtroppo, il Venezuela nell’attenzione dell’opinione pubblica tende a essere trascurato rispetto ad altre emergenze come Palestina e Ucraina, nelle quali non ci sono però così tanti italiani detenuti”. Ma quanti sono esattamente? “Sono stati fatti vari numeri: dodici, undici, ventidue... Neanche l’ambasciata riesce a saperlo, per effetto della complicatissima situazione”. Per Trentini ci sono tre scenari: riconoscimento politico della legittimità della rielezione di Maduro, che però dovrebbe essere decisa da tutta la Ue; i 2,1 miliardi di debiti che la compagnia petrolifera statale venezuelana Pdvsa ha con l’Eni; la situazione penale del faccendiere di regime Alex Saab, che dopo essere stato liberato dall’America in uno scambio è ora ministro, e della sua consorte italiana Camilla Fabri, che pure ha avuto un incarico ufficiale. Ma non possono tornare in Italia, dove hanno interessi. “Credo che neanche Maduro si aspetti un riconoscimento. Però, conoscendo certe suscettibilità latinoamericane, probabilmente si aspettavamo una interlocuzione a un livello un po’ più alto. Anche gli Usa, che sono il governo in questo momento più lontano da quello di Caracas, se devono mandare un inviato speciale mandano un esponente del governo. Anche Eni può avere un ruolo importante: non dimentichiamoci che Trump ha mandato le navi da guerra, ma dopo aver rinnovato la licenza a Chevron. Il terzo punto non dipende solo da governo e Parlamento, ma sappiamo che dall’altra parte c’è una disponibilità a chiedere qualcosa. Forse si è perso troppo tempo a non andare a verificare. Secondo me bisogna organizzare una missione, e mettere in campo anche le personalità che in questi anni hanno mantenuto un rapporto col Venezuela. Mettendo da parte le divisioni politiche: in questa fase dobbiamo avere come obiettivo la liberazione di tutti i detenuti, a partire da Alberto Trentini che è un ragazzo che passava quasi per caso dal Venezuela e che è veramente assurdo che continui a rimanere in galera”. Turchia. Rischio ergastolo per il curdo Çakas (tradito da tutti) di Futura d’Aprile Il Domani, 28 agosto 2025 Mehmet Çakas è stato condannato nel nostro paese ed estradato in Germania nel 2023. Adesso rischia di essere rimandato in Turchia, dove deve scontare una condanna per legami con il Pkk. Questo proprio quando sta giungendo a compimento il processo di pace tra movimento curdo e governo turco. Il 28 agosto Mehmet Çakas, un uomo curdo rifugiatosi in Europa agli inizi degli anni Novanta per sfuggire alle persecuzioni etniche e politiche, sarà estradato in Turchia. Una volta nel paese, dovrà scontare il carcere a vita per i presunti legami con il Partito dei lavoratori curdi (Pkk), organizzazione considerata terroristica dalla Turchia e dall’Unione europea. Più nel dettaglio, Çakas è stato condannato in Germania con l’accusa di aver ricoperto dal 2017 il ruolo di “capo settore” a Berlino, poi ad Hannover e infine a Brema. La storia di Çakas però riguarda anche l’Italia e il più grande processo di pace in corso tra il governo turco guidato dal presidente Recep Tayyip Erdogan e il movimento curdo. La storia - Mehmet Çakas è arrivato in Europa agli anni inizi degli anni Novanta, più precisamente in Germania. Una volta nel paese, ha fatto richiesta di asilo politico per la prima volta nel 1995, ricevendo però un diniego già l’anno successivo. Nel 2016 l’uomo ha ripresentato domanda di asilo, ma la pratica è stata rigettata un anno dopo, fino ad arrivare alla sua espulsione dal paese nel 2021. Si arriva così a maggio 2022: Çakas quell’anno è rientrato in Europa ha presentato richiesta di asilo in Italia. Prima di ricevere una risposta a riguardo, però, la Germania ha richiesto l’estradizione dell’uomo sulla base di un mandato d’arresto europeo per i suoi presunti legami con il Pkk. A marzo 2023, Çakas è stato così estradato in Germania e condannato un anno dopo a due anni e 10 mesi di reclusione. Durante tutto il processo, la preoccupazione maggiore degli avvocati italiani - e poi tedeschi - era il rischio dell’estradizione in Turchia. Un rischio che il 28 agosto si trasforma in realtà. Come spiega l’avvocato Losco, che ha seguito in Italia il caso di Çakas, il suo ex assistito sarebbe esposto “a gravissime forme di persecuzione per motivi etnici e politici, pertanto dovrebbe ottenere il riconoscimento della protezione internazionale sulla base delle norme della Convenzione di Ginevra del 1951 e delle direttive europee in materia”. Inoltre, spiega ancora l’avvocato, i giudici tedeschi avevano garantito ai colleghi italiani che Çakas non sarebbe stato rimandato in Turchia sulla base del principio di specialità. Per poter procedere in questo senso, la giustizia tedesca avrebbe dovuto avere l’assenso di quella italiana, che per prima aveva condannato Çakas. Questa richiesta, però, non è mai arrivata. Come spiega l’avvocato Losco, la Germania sta aggirando il principio di specialità, e quindi le stesse autorità italiane. L’espulsione di Çakas infatti è stata decisa dall’Ufficio tedesco per l’asilo e si tratta pertanto di una procedura amministrativa su cui i giudici italiani non hanno voce in capitolo. C’è un altro punto oscuro in questa vicenda. Su Çakas pende anche una red notice, un’allerta rossa inserita dalla Turchia nel database dell’Interpol, l’Organizzazione internazionale della polizia criminale. La red notice basterebbe per estradare Çakas, ma i giudici tedeschi si sono espressi contro questo provvedimento proprio perché, una volta in Turchia, l’uomo sarebbe condannato al carcere a vita, in violazione dell’articolo 3 della Corte europea dei diritti umani. Espellere Çakas tramite un provvedimento amministrativo, però, permette di aggirare anche questa decisione dei giudici tedeschi. La vicenda di Çakas riporta al centro del dibattito anche l’uso che Stati autoritari come la Turchia fanno del sistema di red notice. Come denunciato dall’Ong Statewatch, la Turchia fa largo uso di questo meccanismo per limitare la libertà di movimento dei suoi oppositori, ottenerne il congelamento dei beni all’estero e in alcuni casi anche la revoca dei passaporti. La politica - L’estradizione di Çakas arriva tra l’altro in un momento storico molto particolare. Dopo decenni di lotta, lo Stato turco e il movimento curdo sono giunti a una possibile svolta nelle loro relazioni. Il governo ha fatto ancora molto poco a riguardo, ma da marzo sono stati scarcerati i primi curdi condannati a trent’anni di carcere con l’accusa di legami con organizzazioni terroristiche, ossia il Pkk. Sulla base di queste stesse accuse, adesso, Çakas rischia proprio il carcere a vita. Da qui l’appello del deputato di Sinistra Italiana, Marco Grimaldi, per un intervento politico dell’Italia. “Il ministro Tajani dovrebbe considerare Çakas un prigioniero politico: in Turchia rischia l’ergastolo e consegnarlo significherebbe tradirlo”.