Costruire nuove carceri e rivedere la legge del 1975 di Luca Tescaroli Il Fatto Quotidiano, 27 agosto 2025 Chiedere o disporre che un essere umano vada in prigione significa incidere sul bene supremo di cui dispone: la libertà. Sono dunque scelte che debbono essere attentamente soppesate e che incidono in profondità sulla coscienza di chi è chiamato a farlo e che tolgono il sonno. I nostri Padri costituenti hanno fissato un principio di civiltà democratica: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, che costituisce il punto di partenza per avviare percorsi reali di recupero e di accesso ai valori della socialità e della legalità, che devono essere parametrati alla tipologia di detenuto, al grado di pericolosità, alla nazionalità dei ristretti e all’essere costoro provenienti da fasce di emarginazione della società. L’attuazione concreta si scontra con la realtà della situazione carceraria pervasa da numerose criticità, che rendono la materia estremamente complessa. Il sovraffollamento, numerosi suicidi, strutture fatiscenti, la carenza degli organici della polizia penitenziaria, procedure di recupero dei detenuti inadeguate, plurime strutture carcerarie si sono trasformate in agenzie del crimine, che gestiscono all’interno e all’esterno attività criminose, anche di tipo organizzato, che riescono a mantenere i rapporti con l’esterno con l’impiego di telefoni cellulari, gestione della violenza in seno alla struttura carceraria da parte di detenuti nei confronti di altri detenuti, anche permessanti, per ottenere supporto per far entrare lo stupefacente al loro rientro nella struttura, gravi episodi di violenza sessuale di detenuti nei confronti di altri detenuti per soddisfare pulsioni, collusioni e corruzione del personale della polizia penitenziaria, rivolte di detenuti. Un esempio fra i tanti: il caso del carcere pratese La Dogaia. L’avvio di attività investigative, dal luglio 2024 a oggi, ha consentito il rinvenimento di 47 telefoni cellulari (e 12 risultano essere stati e sono attivi), i detenuti sono risultati avere la disponibilità di più router per collegarsi alla rete Internet, più detenuti in Alta Sicurezza continuano a gestire propri profili Tik Tok e sono stati sequestrati 25 quantitativi di droga. Due rivolte in carcere ravvicinate (la prima il 4 giugno 2025 e la seconda sabato 5 luglio 2025, con il proposito durante la stessa di sfondare i cancelli per evadere). Al di là del caso citato, occorre ragionare su quali possano essere i rimedi, che richiedono scelte politiche e strategie giudiziarie appropriate. Innanzitutto, occorre prevedere e attuare in tempi brevi l’incremento degli istituti penitenziari, per consentire luoghi di custodia coerenti con la salvaguardia della dignità dei detenuti, e di procedere all’assunzione di altro personale. Inoltre, è necessario stabilizzare le posizioni apicali delle strutture carcerarie. È importante poter contare su un Direttore e un Comandante presente stabilmente, in modo che possano diventare punto di riferimento per i detenuti e il personale, che deve essere in numero adeguato per assicurare il monitoraggio costante di quanto avviene all’interno delle strutture penitenziarie, ivi compresi i movimenti dei detenuti ammessi alle attività lavorative, e per controllare attentamente i contenuti dei pacchi inviati ai detenuti. La tutela dei detenuti richiede che le camere di sicurezza non possano rimanere aperte costantemente e non può essere consentito il movimento indiscriminato dei detenuti all’interno della struttura. Il reinserimento sociale per essere efficace deve necessariamente tradursi in un’opportunità lavorativa, interna ed esterna. I detenuti possono essere impiegati in molteplici attività, come ad esempio si è fatto negli uffici giudiziari di Firenze, ove sono stati coinvolti nell’informatizzazione degli atti relativi ai processi inerenti alle sette stragi del biennio 1993-94. La visione globale delle condotte che si verificano all’interno delle strutture, sul piano giudiziario, consente di adottare le strategie investigative più appropriate e la pronta disponibilità di adeguata strumentazione tecnica (come l’IMSI Catcher, il cui impiego consente, a seguito dell’analisi sul campo di celle di risalire ai telefoni impiegati) è idonea a impedire che i detenuti in regime di Alta Sicurezza e Media Sicurezza continuino a utilizzare in seno alle strutture carcerarie telefoni cellulari e social network. Per i detenuti sottoposti al regime del 41 bis, occorre pensare a soluzioni che congelino la possibilità di comunicare con il mondo criminale esterno e quindi di continuare a esercitare il proprio potere dal carcere. Vi è l’esigenza del monitoraggio investigativo dei soggetti più pericolosi per impedire la ripresa di attività delittuosa e il rischio recidivante, soprattutto sul terreno della criminalità organizzata. Vi sono stati casi clamorosi che sono lì a insegnarci quanto concreto sia tale rischio e l’esigenza del monitoraggio. Cinquant’anni fa è stato introdotto l’ordinamento penitenziario, con la legge n. 345/75, con lo scopo principale di garantire il rispetto della dignità umana dei detenuti, il trattamento rieducativo e il loro reinserimento sociale. Credo sia giunto il momento di rivedere quell’impianto nelle fondamenta, armonizzandolo con il mutamento della realtà carceraria del Paese, il rispetto autentico della dignità del detenuto e la tutela delle garanzie collettive dei cittadini. Carceri affollate e suicidi di Luigi Mollo osservatoriorepressione.info, 27 agosto 2025 Suicidi in carcere e mancanza di rideterminazione della pena: un’emergenza ignorata da una politica inetta tra inerzia e mancata volontà. Nel cuore delle carceri italiane si consuma una tragedia silenziosa e costante: quella dei suicidi tra i detenuti. Il sistema penitenziario, sempre più afflitto da sovraffollamento, carenza di personale e strutture inadeguate, si trasforma troppo spesso in una trappola mortale per chi vi è recluso. A questo si aggiunge una questione giuridica tanto delicata quanto urgente: la mancata rideterminazione delle pene a seguito di mutamenti normativi, che alimenta la sensazione di abbandono e ingiustizia. Nel solo 2025, fino ad agosto, sono già oltre 50 i detenuti che si sono tolti la vita dietro le sbarre. Si tratta di numeri allarmanti, che confermano un trend in crescita e pongono l’Italia ai vertici europei per suicidi in carcere. Dietro ogni numero, una storia di solitudine, di disagio psichico, di disperazione. I fattori scatenanti sono molteplici: condizioni detentive disumane, tempi lunghissimi della giustizia, mancanza di supporto psicologico, ma anche l’assenza di prospettive concrete per chi sconta una pena senza alcun orizzonte di riduzione o revisione. Uno degli aspetti più controversi riguarda la mancata applicazione, in molti casi, dei principi di legalità e favor rei in materia di esecuzione penale. In seguito a recenti interventi legislativi o pronunce della Corte Costituzionale, alcuni reati hanno subito modifiche nei limiti edittali di pena. Tuttavia, molti detenuti continuano a scontare condanne calcolate sulla base di norme più severe, ormai superate. Il principio di retroattività della legge penale più favorevole è un pilastro dello Stato di diritto, sancito dall’art. 25, comma 2, della Costituzione e dall’art. 7 della Cedu. Tuttavia, la sua concreta applicazione in fase esecutiva è spesso ostacolata da inerzie burocratiche, interpretazioni restrittive o dalla mancanza di un meccanismo automatico di revisione. Per un detenuto, sapere che la propria pena non è più proporzionata al reato, e che ciò nonostante non vi sarà alcun intervento correttivo, può rappresentare una forma di tortura psicologica. La giustizia che non sa correggersi diventa vendetta, non rieducazione. Non si tratta solo di una questione formale o procedurale: la mancata rideterminazione della pena può tradursi in una violazione dei diritti fondamentali della persona, negando ogni possibilità di reinserimento e generando un senso di impotenza che, in alcuni casi, sfocia nel gesto estremo del suicidio. È urgente che la politica, la magistratura di sorveglianza e l’amministrazione penitenziaria affrontino con determinazione questa doppia emergenza: quella sanitaria e psicologica dei suicidi in carcere e quella giuridica della stagnazione delle pene. Occorre prevedere meccanismi agili per la rideterminazione automatica delle pene in caso di modifiche legislative, istituire sportelli legali dentro le carceri per assistere i detenuti in queste procedure, e rafforzare il ruolo dei garanti dei detenuti. Allo stesso tempo, è necessario aumentare il numero di psicologi e educatori, investire in programmi di salute mentale e ridurre drasticamente il sovraffollamento con misure alternative alla detenzione. Un carcere che non garantisce dignità e giustizia è un carcere che fallisce la sua missione costituzionale. Non può esserci vera sicurezza senza umanità, né vera giustizia senza equità. Affrontare con serietà il dramma dei suicidi in carcere e la mancata rideterminazione delle pene non è solo una questione di legalità, ma di civiltà. Colosimo dice stop ai permessi premio per i boss mai dissociati. Cos’è successo? di Davide Mattiello* Il Fatto Quotidiano, 27 agosto 2025 Il riferimento ai “boss mai dissociati” rappresenta una clamorosa novità nel discorso pubblico di Fratelli d’Italia. D’accordo: in guerra e in propaganda la verità è come il panda, quasi estinta. Però a tutto dovrebbe esserci un limite, soprattutto se in ballo c’è la credibilità delle istituzioni parlamentari sul terreno del contrasto alle mafie. Invece, sul profilo Facebook (ed è tutto dire!) di Fratelli d’Italia campeggia il seguente roboante post: “Nessun premio ai boss. Nessuna apertura a chi non si è mai dissociato. Lo stop ai permessi premio, deciso dalla presidente della Commissione Antimafia Chiara Colosimo, è un segnale chiaro e netto. Con il Governo Meloni lo Stato non arretra: nessun tentennamento, nessuno sconto”. Cosa diavolo è successo? Come avrebbe fatto la presidente della Commissione parlamentare antimafia, la super-meloniana on. Chiara Colosimo, a decidere (!) niente meno che lo stop (!) ai permessi premio a chi non si è mai dissociato (!)? (sottointeso il riferimento ai boss di mafia naturalmente, visto il campo di applicazione dell’impeto ordinatorio della Colosimo). Il lettore sembra infatti indotto a pensare che la presidente di una Commissione parlamentare, sia pure d’inchiesta sul fenomeno mafioso, abbia esercitato un oscuro quanto taumaturgico imperio capace di fare giustizia della presunta allegra gestione dei permessi da parte di una magistratura quanto meno poco accorta. Una cosa che, se fosse vera, sarebbe eversiva dell’ordine democratico, prefigurando una inaudita sostituzione del potere giudiziario. Nemmeno Licio Gelli si sarebbe spinto a tanto. Chissà che forse, per i gagliardi comunicatori di Fratelli d’Italia, questo post non tradisca la granitica fiducia nella svolta autoritaria della Nazione, che passando dalla abnorme riforma costituzionale della separazione delle carriere tra magistratura procedente e giudicante, approdi finalmente al controllo da parte del Governo dell’esercizio dell’azione penale. Ovviamente l’entusiasmo cameratesco dei sodali di Meloni e Colosimo non ha nulla a che fare con la realtà. Nessuno “stop” ai permessi premio è stato “deciso” dalla presidente della Commissione antimafia per i boss che non si siano mai “dissociati”. Molto più modestamente all’inizio del mese di agosto, il 5 per l’esattezza, è stata presentata una proposta di legge a prima firma Colosimo, Atto Camera 2559, che punta a “modificare la Legge N. 354 del 26 luglio 1975, in materia di accertamenti per la concessione di benefici penitenziari e di provvedimenti e reclami in materia di permessi, nonché al testo unico di cui al Decreto del Presidente della Repubblica 9 Ottobre 1990, N. 309, in materia di provvedimenti restrittivi nei confronti dei tossicodipendenti o alcool dipendenti che abbiano in corso programmi terapeutici”. La proposta di legge non risulta ancora assegnata, quindi l’iter parlamentare sta a zero. La questione dalla quale muove la proposta di legge è senz’altro importante e rimanda a due preoccupazioni. La prima che i boss mafiosi ottengano i benefici senza una adeguata valutazione della attualità della loro pericolosità sociale, cioè, detto in altri termini, che li ottengano senza meritarseli. La seconda che la concessione dei benefici ai boss mafiosi non sia tempestivamente comunicata agli organismi che sul territorio hanno la responsabilità di prevenire la recrudescenza del fenomeno. Il nodo a cui rimandano queste legittime preoccupazioni è quello del ruolo della magistratura di sorveglianza titolare di questo “tratto” della giurisdizione. A legislatura vigente già oggi questa magistratura quando si trova a valutare la concessione dei benefici acquisisce quanti più elementi per evitare il rischio di favorire il crimine organizzato con decisioni avventate, raccogliendo pareri da Prefetture, Procure, Tribunali, forze dell’Ordine (Dia e Dda in primis), Procura Nazionale Antimafia Antiterrorismo e dal Dap (il dipartimento dell’amministrazione carceraria presso il Ministero della Giustizia), avendo però la libertà di decidere, oltre un certo termine, anche se i pareri richiesti non siano arrivati. Un giudizio prognostico delicatissimo, naturalmente, che chiama ad un bilanciamento difficile tra aspettative costituzionalmente fondate del detenuto di “vedere la luce” al fondo del tunnel della punizione e le aspettative altrettanto costituzionalmente fondate della società di non ripiombare nel buio della violenza criminale. Però attenzione! Una cosa è rendere obbligatoria la raccolta di tutti questi pareri (se non ci sono, non si decide), altra cosa è renderla vincolante per la magistratura di sorveglianza. La Colosimo in un video utilizzato pedissequamente dalla Rai adopera proprio il termine “vincolante” per descrivere il contenuto della proposta. Ritenere i pareri non soltanto obbligatori ma anche vincolanti per la magistratura di sorveglianza, la quale cioè si troverebbe nella condizione di doverne prendere semplicemente atto, senza potersene scostare, oltre a rappresentare una grave offesa (un’altra) della dignità professionale della magistratura, rischia anche di essere irrimediabilmente incostituzionale. Il magistrato, ad oggi (!), è sottoposto soltanto alla legge e in nessun caso deve ubbidire ad altri, fossero pure magistrati, prefetti, parlamentari, ministri e chi più ne ha più ne metta. Mi rendo conto che invocare il rispetto della Costituzione possa sembrare puerile e velleitario, ma che altro possiamo fare? Ma la vera “bomba” contenuta nel post è un’altra: il riferimento ai “boss mai dissociati” rappresenta infatti una clamorosa novità nel discorso pubblico di Fratelli d’Italia, visto che il nostro ordinamento, ad oggi, non riconosce la “dissociazione” dei boss come fondamento dei benefici, ma soltanto la “collaborazione” con la giustizia. È “dissociato” il criminale che prende le distanze dalla sua propria esperienza fuorilegge, ammettendo le proprie responsabilità, senza però raccontare ai magistrati nulla di più. I mafiosi negli ultimi trent’anni hanno ripetutamente chiesto allo Stato di aprire alla “dissociazione” e non soltanto alla “collaborazione” (come non capirli?). Fratelli d’Italia ha fino ad ora fatto muro su questa richiesta: ha cambiato idea? Sarebbe davvero una notizia! Che farebbe, questa sì, fare la ola nelle carceri italiane ai mafiosi detenuti in attesa di sollievo. *Articolo 21 Piemonte, Deputato Pd XVII Legislatura Giustizia minorile, servono più Comunità e più risorse di Ilaria Dioguardi vita.it, 27 agosto 2025 Christian Serpelloni e Ilaria Summa, responsabili del settore penale dell’Unione nazionale camere minorili: “Quando si commette un reato, spesso la causa è da ricercare in bisogni di varia natura, che non riescono ad essere intercettati. La carenza di comunità e di risorse per minorenni è un problema che non potrà essere ignorato ancora a lungo dalle istituzioni, pena il collasso del sistema”. Dopo i recenti fatti dei quattro bambini rom che, a Milano, alla guida di un’auto rubata hanno investito e ucciso Cecilia De Astis e del diciassettenne che si è suicidato nel Centro di prima accoglienza annesso all’Istituto penale per minorenni di Treviso, l’Unione nazionale camere minorili ha preso posizione per dichiarare l’urgenza di “comprendere che le risorse per il settore della giustizia minorile, necessariamente integrata con il sistema dei Servizi socio-sanitari, debbono essere assolutamente incrementate e veicolate, in una ottica non solo emergenziale ma strutturale”. Abbiamo dialogato con Christian Serpelloni e Ilaria Summa, responsabili del settore penale dell’Unione nazionale camere minorili. Com’è lo stato di salute della giustizia minorile italiana? È una situazione molto complessa, che richiede particolare attenzione, ma che non può definirsi drammatica. L’analisi statistica e comparativa dei dati elaborata dal Dipartimento della Giustizia minorile, aggiornata al 30 giugno 2025, può aiutare molto a formarsi un’opinione scevra da pregiudizi. Per esempio, gli ingressi nei Cpa (strutture che ospitano minorenni in stato di arresto, fermo o accompagnamento) dal 2008 fino al 2013 hanno sempre superato le 2mila unità. Nel 2014 si è giunti sotto quota 2mila (per la precisione 1.548) e il trend è sempre stato in decrescita fino al 2023, anno in cui si sono registrati 852 ingressi, mentre nel 2024 effettivamente vi sono stati 1.144 ingressi. Il trend è in crescita da un paio di anni, ma fortunatamente siamo ancora lontano dai numeri ai quali eravamo abituati solo una quindicina di anni fa. Certamente dobbiamo lavorare per non ritornare a quei valori. Cosa c’è dietro i recenti fatti di cronaca? Quando si commette un reato, quando si pongono in essere agiti antisociali, spesso la causa è da ricercare in bisogni di varia natura, che non riescono ad essere intercettati. Il fatto che nel Nord Italia il 46-50% delle persone che sono detenute negli Ipm siano minori stranieri non accompagnati è significativo. Perché è significativo? Perché si tratta di ragazze e ragazzi che arrivano nel nostro Paese senza punti di riferimento e purtroppo spesso vengono risucchiati dal vortice della criminalità, che “fa fronte” con una velocità molto superiore a quella delle istituzioni ai bisogni di queste persone. Quando poi questi ragazzi vengono arrestati, l’assenza di adulti di riferimento e la carenza di posti in comunità spesso determina per loro il collocamento in carcere, con tutto ciò che questo significa perché il sistema penitenziario minorile purtroppo non gode di buona salute. L’assenza di comunità che cosa comporta? La carenza di comunità e di risorse per minorenni è un problema che non potrà essere ignorato ancora a lungo dalle istituzioni, pena il collasso del sistema. Molte comunità sono state costrette ad issare bandiera bianca, si sono arrese, sia per la difficoltà a reperire personale sia anche (e la mancanza nel reperimento di personale ne è una conseguenza) per le enormi difficoltà economiche alle quali, quotidianamente, dovevano fare fronte. Poi in molte comunità c’è un continuo turnover di personale, questo vanifica tutti gli sforzi fatti per aiutare il minorenne e ne impedisce una effettiva presa in carico. Ben sappiamo cosa significhi l’assenza di stabili e sani punti di riferimento per adolescenti che vivono profondi momenti di crisi. Inoltre, c’è il problema di giovanissimi che manifestano disagio psichico e che fanno uso di sostanze stupefacenti, le cosiddette doppie diagnosi. Trovare comunità attrezzate per affrontare tali problemi è davvero difficile. Anche i posti in neuropsichiatria infantile sono molto scarsi e, quindi, il rischio è che questi ragazzi, contro tutte le linee guida nazionali, finiscano nelle psichiatrie, luogo in cui un adolescente non dovrebbe mai essere collocato. Cosa intendete per assenza di risorse? In Italia ultimamente sono di moda le riforme ad “invarianza finanziaria”, in sintesi si introducono norme per modificare alcuni settori, ma il tutto deve essere gestito con le risorse già in essere. Questo significa un fallimento annunciato, perché il sistema di welfare e di giustizia minorile è già in profonda sofferenza. Lo dicevamo prima, è fondamentale intercettare con celerità le esigenze di molti minorenni che agiscono comportamenti devianti e che commettono reati. Per fare ciò è assolutamente necessario, per esempio, incrementare gli organici e le dotazioni degli Uffici dei servizi sociali per i minorenni-Ussm, affinché questi ultimi vengano presi in carico fin dai primi momenti dell’iscrizione nel registro delle notizie di reato e non, come spesso accade, a distanza di molto tempo e solo in prossimità dell’udienza. La percezione che un adolescente ha del tempo non è quella di un adulto. Inoltre, sarebbe molto importante rafforzare i sistemi di neuropsichiatria infantile per assicurare un efficace e rapido intervento nei casi di sofferenza e disagio psichico, che purtroppo sono in costante aumento. E ancora, aumentare i fondi per le cosiddette “educative di strada”, servizi importantissimi perché vanno direttamente a rapportarsi con realtà complesse, fornendo aiuti concreti a molti ragazzi e ragazze, comprendendone i bisogni e prevenendo spesso condotte devianti prima che sia troppo tardi. È necessario agire seriamente, arrivare al cuore dei problemi e smetterla di parlare alla pancia della gente, introducendo norme che non avranno alcun impatto concreto sui problemi per i quali sono state pensate. Ad esempio? Pensare che inasprire o aumentare in generale la repressione serva per ridurre il fenomeno della devianza minorile è una visione, lo abbiamo scritto nel nostro comunicato, miope. Gli effetti “special preventivi” e “general preventivi” delle norme poco funzionano con gli adolescenti, che spesso quelle norme neanche le hanno mai sentite o, meglio, nessuno gliele ha mai spiegate. Certamente i nuovi strumenti a disposizione del sistema di giustizia minorile, introdotti con il decreto legislativo 123/23, possono avere una loro rilevanza, soprattutto in alcune zone d’Italia ove la complessità criminale è maggiore, ma i problemi strutturali che ammorbano il sistema debbono essere affrontati non solo con strumenti di natura retributiva, ma con interventi mirati, integrati e multidisciplinari. Sotto il profilo penale ciò che maggiormente preoccupa non è tanto l’incremento dei reati commessi da minorenni, quanto l’aumento della violenza con la quale i minorenni pongono in essere i loro agiti devianti. Capita con una certa frequenza, ad esempio, che i reati predatori posti in essere da adolescenti, vedano questi ultimi più interessati all’agito violento verso la vittima che non al provento economico. Il prossimo 30 settembre a Napoli, nella Biblioteca De Marsico a Castel Capuano, presenteremo un docu-interviste dal titolo “Voci di Giustizia minorile “nel quale sette procuratori minorili parleranno di ciò che quotidianamente si trovano a gestire. Il problema penale comunque è solo la punta di un iceberg. Perché il problema penale è la punta di un iceberg? Perché dietro gli adolescenti spesso ci sono delle famiglie disfunzionali, non sempre e non necessariamente prive di mezzi economici, come pure istituzioni non in grado di svolgere appieno il proprio ruolo. Intervenire solo sugli aspetti penali e dimenticarsi di tutto il resto sarebbe come curare il sintomo disinteressandosi della causa. La presa in carico e la risposta a queste situazioni non può essere, quindi, solo quella penale, se realmente vogliamo intervenire sul disagio giovanile e abbattere la recidiva nei minorenni e nei giovani adulti. Riforma del processo penale, tensione tra toghe e avvocati in Commissione di Valentina Stella Il Dubbio, 27 agosto 2025 Il ministro Nordio rischia un testo “al ribasso” per poter blindare la separazione delle carriere. A far discutere le impugnazioni e la revisione della custodia cautelare. Oltre a quello sotto la luce del sole sulla separazione delle carriere, è in atto un altro scontro tra magistratura ed avvocatura. E si sta consumando al di là dei riflettori mediatici, nel silenzio delle stanze della Commissione Mura per la riforma del processo penale. Istituita per volere del ministro della Giustizia Carlo Nordio a maggio 2023, terminerà i lavori a settembre di quest’anno. Le aspettative sono alte, tuttavia, spifferi di via Arenula fanno sapere che la montagna molto probabilmente partorirà un topolino. Il motivo? Toghe da un lato e penalisti e accademici dall’altro non avrebbero raggiunto accordi su significative iniziative riformatrici, anzi ci sarebbe un muro contro muro su due tematiche in particolare: impugnazioni e custodia cautelare. In merito alla prima questione, i magistrati designati a far parte della Commissione avrebbero proposto modifiche irricevibili per l’avvocatura: appello a critica vincolata per accedere al secondo grado di giudizio, monocraticità del giudice di appello, riduzione dei ricorsi per Cassazione, numero chiuso di avvocati abilitati a discutere a Piazza Cavour. In sintesi, una restrizione delle possibilità di impugnazione delle sentenze. Una strada che era stata già segnata anche dalla prima presidente di Cassazione, Margherita Cassano, quando lo scorso 19 giugno, durante l’assemblea generale degli ermellini, aveva parlato di “impressionante numero di ricorsi in Cassazione, pari a oltre 80.000 l’anno, che non ha eguali nel panorama europeo”. Al contrario i penalisti, col sostegno di diversi professori universitari, sarebbero voluti andare nella direzione opposta, ossia quella dell’ampliamento dell’accesso alle impugnazioni. Questo perché partono da due considerazioni basilari, di merito e metodo. La prima: in tutti i sistemi processuali ispirati ai principi accusatori è prevista la possibilità di un riesame di merito e di un controllo di legittimità della decisione del giudice. Ogni limitazione imposta ai meccanismi di controllo della decisione si riflette fatalmente sulla qualità della decisione stessa, a scapito dei diritti di difesa. La seconda: era stato lo stesso Guardasigilli alla prima riunione della Commissione a sostenere che era necessario “attuare fino in fondo i principi del processo accusatorio”, “portando a compimento l’opera di Giuliano Vassalli” e favorendo allo stesso tempo “un’efficienza qualitativa della giustizia penale”. Invece, da quanto appreso, la direzione che vorrebbero dare le toghe al lavoro finale della Commissione è quella di sacrificare sull’altare dell’efficienza quantitativa, cuore della riforma dell’ex ministra Marta Cartabia, le garanzie di indagati e imputati. Proprio ai tempi dell’altra Commissione di riforma, quella di Giorgio Lattanzi, nata appunto su propulsione di Cartabia, la proposta dell’appello a critica vincolata era stata messa su un piatto della bilancia che dall’altra parte poneva l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione. Allora, per alcune settimane, questa ipotesi era stata considerata come un possibile scambio equo tra istanze della magistratura e istanze dell’avvocatura. Alla fine, però, non se ne fece nulla. Ci si sarebbe aspettati che lo stesso bilanciamento fosse riproposto durante i lavori della attuale Commissione Mura, ma così non è stato: infatti, gli avvocati non si sarebbero resi disponibili ad alcun baratto, anzi avrebbero metaforicamente ribaltato il tavolo chiedendo maggiori garanzie per i loro assistiti. Altresì, in merito alla proposta di creare un numero chiuso di legali patrocinanti in Cassazione, ci sarebbe stata una forte opposizione da parte dei legali. La ragione è semplice: qualora si creasse un albo speciale, i difensori esclusi avrebbero comunque la possibilità di chiedere a quelli abilitati di firmare i loro ricorsi dinanzi ai consiglieri di Piazza Cavour e allo stesso tempo si creerebbe un gruppo di élite di avvocati facilitati nei guadagni e nella popolarità mediatica, a scapito degli altri. A questo già complicato quadro, si aggiunge la circostanza che, secondo le nostre fonti, la magistratura si sarebbe opposta anche all’abolizione della custodia cautelare in presenza del requisito della reiterazione del reato. La causa risiederebbe nella convinzione di alcune toghe che il carcere preventivo debba essere considerato ancora come una forma anticipata di punizione, a prescindere dall’esito processuale futuro. Eppure, era stato lo stesso ministro Nordio, sollecitato più volte sul tema da Forza Italia in Parlamento, a garantire che se ne sarebbe occupata la commissione Mura. Purtroppo così sembra non dover essere, se le nostre indiscrezioni venissero confermate. Da qui la previsione di un elaborato blando di riforma. Il peccato originario, a monte di tutte queste grandi criticità sarebbe, secondo alcuni, pure il fatto che la commissione non solo è formata da troppi membri - quarantotto componenti - ma in essa prevarrebbero i magistrati: ventotto contro nove avvocati. Quindi ora cosa accadrà? Nordio sarebbe comunque determinato a portare in Parlamento ad ottobre l’elaborato finale della commissione. Nonostante non si sia raggiunto il lavoro di sintesi da lui auspicato, vorrebbe porre all’attenzione delle Camere un progetto embrionale di riforma del processo penale. E qui, però, il cerchio si chiude con il tema citato all’inizio di questo articolo: la separazione delle carriere. Più volte, più fonti ci hanno spiegato che in nome di questa riforma, che per la maggioranza è considerata “epocale”, tutto sarebbe stato congelato e rinviato a dopo il referendum. Prima di allora, auspicando nella vittoria finale, il governo e i partiti che lo sorreggono sarebbero propensi a non mettere altro sul tavolo per due motivi: non dare all’Anm ragioni per ingaggiare battaglie mediatiche, ma soprattutto non indispettire quella parte di elettorato di destra-centro che, ad esempio, non sarebbe tanto d’accordo con una riduzione della custodia cautelare. E però è proprio quell’elettorato che dovrà garantire il “sì” al referendum della prossima primavera. Ingiuste detenzioni: il progetto “PagaPinto” risarcisce un danno già subito, ma non previene la causa di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 27 agosto 2025 La legge Pinto e i suoi correttivi, per quanto utili a tamponare le urgenze, non bastano a cambiare la percezione di un sistema che, ancora oggi, appare più lento delle sue stesse riforme. “Giustizia ritardata è giustizia negata”, così già recitava il filosofo Montesquieu nel 1700. Mai frase fu più vera di questa e si sa che il ritardo della giustizia non può ripagare, in alcun modo nessuna sofferenza e non può restituire alla persona un bene prezioso e supremo come la libertà. Eppure, in Italia il diritto a un processo di durata ragionevole continua a essere spesso una mera aspirazione. Il rimedio previsto ormai più di venti anni fa con la legge n. 89/2001, la cosiddetta legge Pinto, non ha saputo incidere significativamente sulle lentezze strutturali del nostro sistema giudiziario, limitandosi ad una riparazione ex post. È alle ripetute violazioni dell’art. 6 Cedu che il Legislatore domestico si è visto obbligato a intervenire sul tema: invece di attendere i ricorsi, si istituisce un procedimento interno volto a ottenere un risarcimento. L’idea era quella di “internalizzare” il rimedio, evitando ricorsi massicci in sede europea. Nei fatti, però, l’indennizzo monetario si è trasformato in una sorta di surrogato della giustizia negata: si compensa il danno subito dal cittadino, senza però modificare le condizioni che hanno prodotto il ritardo. Insomma, il malato che contagia il medico. Negli anni, l’Italia ha progressivamente ristretto l’accesso e ridotto gli importi riconoscibili. I parametri originari, più generosi, sono stati abbassati per contenere la spesa pubblica. Contestualmente, è stato imposto al ricorrente di dimostrare di aver attivato strumenti “acceleratori” del processo, trasformando la richiesta Pinto in un vero e proprio percorso a ostacoli. In altre parole, la vittima del ritardo deve provare di aver fatto il possibile per evitarlo: un ribaltamento che ha scaricato sul cittadino l’inerzia dell’apparato giudiziario. Secondo i dati diffusi dal ministero della Giustizia, il sistema è arrivato ormai a un punto critico, quasi al collasso: a fine 2022, risultavano pendenti circa 80 mila decreti di pagamento emessi dalle Corti d’Appello, per un debito complessivo nell’ordine dei 400 milioni di euro, comprensivo non solo della sorte capitale, ma anche di interessi e spese di giudizio derivanti dalle azioni esecutive intentate dai beneficiari. Una situazione che, di fatto, ha moltiplicato il paradosso: cittadini che hanno ottenuto un risarcimento per la giustizia lenta hanno dovuto avviare nuovi contenziosi per vederselo riconosciuto. Per tentare di porre rimedio a quest’impasse, a inizio dell’anno corrente è stato avviato il progetto PagaPinto, con l’obiettivo di smaltire l’atteso entro il 31 dicembre 2026. La novità principale consiste nel passaggio da una gestione cartacea a una piattaforma digitale. Si tratta di un passaggio non di certo banale, perché alleggerisce il carico delle Corti d’Appello, che d’ora in avanti potranno occuparsi dei decreti emessi dal 2023 in avanti. Ora, volendo analizzare con occhio critico di chi vive i tempi giudiziari quotidianamente, occorre chiedersi se sul piano pratico PintoPaga rappresenti concretamente un passo in avanti. L’obiettivo dichiarato è chiaro: ridurre drasticamente i tempi di liquidazione degli indennizzi e chiudere una partita che rischiava di diventare un debito strutturale per lo Stato. Tuttavia, non va dimenticato che si tratta pur sempre di un rimedio ex post: si paga un danno già subito, non si previene la sua insorgenza. La Giustizia, nel frattempo, continua a produrre ritardi e il rischio è che tra qualche anno si torni a parlare nuovamente di arretrato. Il nodo irrisorio resta il medesimo: ridurre i tempi dei processi alla fonte. Perché il Parlamento non interviene sui filtri del processo? Sull’udienza preliminare, ad esempio, come già annotato da chi scrive su queste pagine quando fu introdotta la cd. predibattimentale a marchio Cartabia. E le carenze di organico? Perché non investire lì. Non sarà dunque sufficiente limitarsi a compensare il danno o a tagliare i procedimenti troppo lunghi: digitalizzazione, maggiore organico e semplificazione delle procedure sono i veri cardini per una giustizia efficace. La legge Pinto e i suoi correttivi, per quanto utili a tamponare le urgenze, non bastano a cambiare la percezione di un sistema che, ancora oggi, appare più lento delle sue stesse riforme. *Avvocato, direttore Ispeg Ti punisco per ciò che sei: la deriva distopica della giustizia di Fabrizio Costarella e Cosimo Palumbo* Il Dubbio, 27 agosto 2025 Ormai due anni or sono, dalle pagine di questo giornale, denunciavamo l’istituzione del “sistema Giove” da parte della Polizia di Stato: un software di polizia predittiva, basato su un algoritmo in grado di incrociare i dati di tutte le forze dell’ordine, per “prevenire e reprimere i reati di maggior impatto sociale”, mediante l’osservazione di fattori critici ricorsivi. Fattori tra i quali venivano inseriti l’etnia, l’orientamento sessuale, il credo religioso, le condizioni economiche ed altre caratteristiche individuali che, da un lato, sono tutelati dalle disposizioni legali e convenzionali in tema di diritto alla privacy e, dall’altro, hanno una impostazione dipendente dal pregiudizio che ciascuna delle dedotte condizioni reca in sé e che non pare essere un criterio affidabile sul quale poter prevedere le future azioni delle persone, magari da sottoporre ad arresto preventivo. Segnalavamo, in proposito, che il catalogo degli “arnesi” della prevenzione sembrava così arricchirsi di una misura pre-cautelare - degna del futuro distopico descritto in Minority Report - così attrezzandosi a soppiantare il sistema penale anche nell’ambito degli strumenti di polizia. Oggi, quella profezia degna di Tiresia viene letteralmente trasfusa in un Disegno di Legge attualmente in discussione in Commissione Giustizia del Senato. Sull’onda lunga del Decreto Sicurezza, che segna la definitiva fusione tra diritto penale e diritto di prevenzione, un buon numero di parlamentari si è fatto promotore di una riforma legislativa che, eufemisticamente, potrebbe definirsi allarmante, ma che è, nei fatti, semplicemente da doppio Stato. Al vessillo della “sicurezza”, indefinibile motore immobile delle ultime produzioni normative - che sacrificano le nostre libertà individuali sull’altare della paura di un male maggiore -, si unisce quello della tutela di genere. Dalla osmosi di due argomenti di grande interesse populistico non poteva che nascere un pensiero obnubilato ed obnubilante. Basta leggere il testo ed ancor più la relazione accompagnatoria del Ddl 1517 per rendersene immediatamente conto. Già in esordio, il progetto di riforma viene presentato come “finalizzato all’introduzione di misure precautelari nel contrasto alla violenza contro le donne e alla tempestiva attivazione di strumenti di tutela della persona offesa, a partire dalle prime fasi del procedimento penale”. Fine nobilissimo, ma sono i mezzi che lasciano sconcertato chiunque abbia una cultura liberale. Infatti, “nella convinzione che non tutte le devianze possono essere rilevate come patologia, ma possono anche avere esito omicidiario” - concetto da chiacchierata al bar, ma espresso con eloquio degno del conte Mascetti di “Amici miei” - si introduce, fuori dai casi di flagranza, la misura pre-cautelare dell’accertamento e del conseguente trattamento sanitario temporaneo obbligatorio, in presenza di “concreto ed attuale rischio” per la persona offesa. E questo rischio si accerta attraverso indagini per le quali il codice di rito penale, fino al positivo approdo di questo progetto di riforma, pone un generale divieto: l’esame peritale circa l’abitualità o la professionalità nel reato, la tendenza a delinquere, ma soprattutto il carattere, la personalità e le qualità psichiche indipendenti da cause patologiche dell’indagato. Tradotto in termini pratici, a fronte di una denuncia per reati riconducibili al c. d. Codice rosso, lo Stato potrà procedere ad accertare forzosamente le qualità psichiche dell’indagato (presunto innocente, ma è solo un dettaglio ormai…) e, altrettanto forzosamente, applicare un trattamento sanitario obbligatorio, in base non solo alle patologie cliniche riscontrate, ma anche al carattere ed alla personalità. Detto in termini più brutali: non si sarà trattati per quello che si è sospettati di aver fatto, ma per come si è! Vi ricorda qualcosa? A noi si: il Täter-Prinzip nazista. L’osceno Diritto penale d’autore, che credevamo definitivamente consegnato ai libri di storia. Il diritto penale del nemico, per usare le parole di Gunther Jakobs. Gridate e denunciate questo scempio costante dei costituti fondamentali del diritto penale. Non giratevi dall’altra parte, solo perché oggi tocca agli indagati di un crimine odioso. C’è un problema democratico e riguarda ciascuno di noi. Ricordate la lezione di Martin Niemöller (non a caso, oppositore del regime nazista deportato a Dachau): “Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare”. *Osservatorio Misure di Prevenzione e Patrimoniali dell’Unione delle Camere Penali Italiane Obiettivi velleitari, mezzi insufficienti: la trappola del Pnrr per la giustizia di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 27 agosto 2025 Tra esoneri mai toccati e mancanza di riforme strutturali, il traguardo fissato da Bruxelles appare sempre più lontano. “In un momento quanto mai delicato come l’attuale, i magistrati, per primi, avrebbero dovuto sentire l’esigenza di dare un “segnale” anche solo simbolico. Invece non è stato così ed è un vero peccato”, afferma il togato indipendente Andrea Mirenda. Il Consiglio superiore della magistratura, la prossima settimana, si appresta ad approvare la deliberà relativa alle sedi in sofferenza per il raggiungimento degli obiettivi del Pnrr e che saranno oggetto degli interventi straordinari contenuti nel dl numero 117 dello scorso 8 agosto “Misure urgenti in materia di giustizia”. Fra i rimedi previsti, ad esempio, la creazione di una maxi task force di 500 magistrati da applicare da remoto per la redazione delle sentenze civili di primo grado. “Al netto delle molte criticità che mi avevano condotto ad astenermi in Plenum al momento della votazione del parere su questo dl, avevo chiesto che venissero eliminati, almeno sino al prossimo giugno, quando bisognerà rendicontare l’attività svolta in questi anni, gli sgravi che hanno molti colleghi. Sarebbe stato un messaggio importante per il Paese”, prosegue Mirenda. Gli “esoneri” dall’attività giurisdizionale riguardano una platea molto vasta di toghe: da chi ricopre un incarico direttivo o semidirettivo, ai componenti dei Consigli giudiziari, a coloro che si occupano della formazione decentrata della Scuola superiore della magistratura, ai referenti distrettuali per l’innovazione. L’emendamento, proposto da Mirenda e anche dal laico Michele Papa (M5S) non era stato però votato dal Csm. “Gli sgravi vanno dal 50 percento con punte fino al 100 percento”, prosegue Mirenda. “Si tratta di esoneri - aggiunge - di cui si poteva fare tranquillamente a meno per questi pochi mesi”. “Io noto dai magistrati, non tutti ovviamente, un atteggiamento spesso critico”, ha commentato invece la laica Claudia Eccher (Lega) sempre riguardo il tema Pnrr. “A proposito dei Consigli giudiziari è evidente la sperequazione con la categoria forense: non mi risulta che ci siano “esoneri” per gli avvocati che vi fanno parte”, aggiunge Eccher. Al netto dei provvedimenti che verranno presi, è ormai evidente che gli obiettivi negoziati con Bruxelles in materia di giustizia difficilmente potranno essere raggiunti. In particolare nel settore civile dove, entro giugno del 2026, il “disposition time” deve essere ridotto del 40 percento e l’arretrato abbattuto fino al 90 percento. Numeri, considerato lo stato complessivo settimane, questa ipotesi era stata considerata come un possibile scambio equo tra istanze della magistratura e istanze dell’avvocatura. Alla fine, però, non se ne fece nulla. Ci si sarebbe aspettati che lo stesso bilanciamento fosse riproposto durante i lavori della attuale Commissione Mura, ma così non è stato: infatti, gli avvocati non si sarebbero resi disponibili ad alcun baratto, anzi avrebbero metaforicamente ribaltato il tavolo chiedendo maggiori garanzie per i loro assistiti. Altresì, in merito alla proposta di creare un numero chiuso di legali patrocinanti in Cassazione, ci sarebbe stata una forte opposizione da parte dei legali. La ragione è semplice: qualora si creasse un albo speciale, i difensori esclusi avrebbero comunque la possibilità di chiedere a quelli abilitati di firmare i loro ricorsi dinanzi ai consiglieri di Piazza Cavour e allo stesso tempo si creerebbe un gruppo di élite di avvocati facilitati nei guadagni e nella popolarità mediatica, a scapito degli altri. A questo già complicato quadro, si aggiunge la circostanza che, secondo le nostre fonti, la magistratura si sarebbe opposta anche all’abolizione della custodia cautelare in presenza del requisito della reiterazione del reato. La causa risiederebbe nella convinzione di alcune toghe che il carcere preventivo debba essere considerato ancora come una forma anticipata di punizione, a prescindere dall’esito processuale futuro. Eppure, era stato lo stesso ministro Nordio, sollecitato più volte sul tema da Forza Italia in Parlamento, a garantire che se ne sarebbe occupata la commissione Mura. Purtroppo così sembra non dover essere, se le nostre indiscrezioni venissero confermate. Da qui la previsione di un elaborato blando di riforma. Il peccato originario, a monte di tutte queste grandi criticità sarebbe, secondo alcuni, pure il fatto che la commissione non solo è formata da troppi membri - quarantotto componenti - ma in essa prevarrebbero i magistrati: ventotto contro nove avvocati. Quindi ora cosa accadrà? Nordio sarebbe comunque determinato a portare in Parlamento ad ottobre l’elaborato finale della commissione. Nonostante non si sia raggiunto il lavoro di sintesi da lui auspicato, vorrebbe porre all’attenzione delle Camere un progetto embrionale di riforma del processo penale. E qui, però, il cerchio si chiude con il tema citato all’inizio di questo articolo: la separazione delle carriere. Più volte, più fonti ci hanno spiegato che in nome di questa riforma, che per la maggioranza è considerata “epocale”, tutto sarebbe stato congelato e rinviato a dopo il referendum. Prima di allora, auspicando nella vittoria finale, il governo e i partiti che lo sorreggono sarebbero propensi a non mettere altro sul tavolo per due motivi: non dare all’Anm ragioni per ingaggiare battaglie mediatiche, ma soprattutto non indispettire quella parte di elettorato di destra- centro che, ad esempio, non sarebbe tanto d’accordo con una riduzione della custodia cautelare. E però è proprio quell’elettorato che dovrà garantire il “sì” al referendum della prossima primavera. Sicilia. Manca da quattro mesi il Garante dei detenuti cataniatoday.it, 27 agosto 2025 La regione Sicilia è priva del Garante regionale dei detenuti da oltre quattro mesi. Nel più totale silenzio, il governo Schifani non provvede alla nomina del Garante dopo le dimissioni di Santi Consolo, risalenti all’aprile scorso. Ho presentato un’interrogazione parlamentare urgente per chiedere che non si tergiversi ancora sulla nomina”. Lo afferma Roberta Schillaci, vice capogruppo del Movimento Cinque Stelle all’Assemblea regionale siciliana. “La nostra regione - prosegue- conta ben 23 istituti penitenziari, un numero superiore a quello di qualsiasi altra regione italiana, con migliaia di detenuti che necessitano di una costante tutela dei diritti fondamentali. La mancanza del Garante regionale determina un evidente vuoto istituzionale che l’impegno dei soli tre garanti territoriali non può colmare, poiché da soli non sono in grado di affrontare le criticità di un sistema penitenziario così vasto e complesso, con il rischio di compromettere la tutela dei diritti fondamentali delle persone private della libertà e di indebolire il necessario rapporto di dialogo e vigilanza tra istituzioni e mondo penitenziario. Auspico - conclude l’esponente pentastellata - un intervento immediato, considerando che si sono ripetuti episodi gravi con suicidi e aggressioni alla polizia penitenziaria che hanno dato uno spaccato di quella che è la situazione carceraria in Sicilia”. Barcellona Pozzo di Gotto (Me). Terzo suicidio in sei mesi, detenuto di 48 anni si impicca messinaindiretta.it, 27 agosto 2025 Un altro detenuto si è tolto la vita all’interno della Casa circondariale di Barcellona Pozzo di Gotto, il terzo caso registrato negli ultimi sei mesi. Una tragedia che riaccende i riflettori sulle gravissime criticità di un istituto penitenziario giudicato inidoneo e che ha spinto il procuratore di Barcellona, Giuseppe Verzera, a inviare una nuova e urgente segnalazione al Ministero della Giustizia. La vittima è un uomo di 48 anni, di nazionalità indiana, arrestato nei mesi scorsi nell’ambito di un’inchiesta per maltrattamenti in famiglia condotta dalla Procura di Patti. Nel tardo pomeriggio di lunedì scorso, ha messo in atto il suo tragico piano approfittando dell’ora d’aria dei due compagni di cella. L’uomo, fingendo di volersi fare la doccia, si è recato nel bagno della cella situata nel sesto reparto, ha fatto scorrere l’acqua per coprire i rumori e, servendosi di un lenzuolo attorcigliato, si è impiccato nell’antibagno. I compagni, insospettiti dal getto d’acqua continuo e dal suo mancato rientro, hanno aperto la porta trovandolo ormai senza vita. I soccorsi del personale della polizia penitenziaria sono risultati inutili. Il procuratore Verzera ha disposto gli accertamenti per fugare ogni dubbio sulle circostanze della morte, ma il tragico episodio si inserisce in un allarmante filo rosso. Solo il 24 maggio scorso, un giovane tunisino di 23 anni, detenuto in isolamento, si era suicidato con la stessa modalità, usando un lenzuolo legato all’inferriata della cella. Un altro caso si era verificato ad aprile, quando un uomo di poco più di quarant’anni originario dei Nebrodi si tolse la vita in circostanze in parte oscure. Dietro a queste tragedie, come denunciato più volte dalla Procura, non ci sono solo drammi personali, ma un sistema al collasso. Il carcere di Barcellona sorge infatti nello stesso stabile edificato nel 1925 per ospitare l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario. Con la soppressione degli OPG, l’edificio è stato riconvertito a istituto penitenziario senza gli adeguamenti strutturali richiesti dalla normativa. Una “trasformazione incompleta” che, nel tempo, ha evidenziato limiti sempre più gravi in termini di sicurezza, funzionalità e tutela della dignità dei detenuti. “Non è un caso che si siano verificate fughe, perché nemmeno le mura di cinta del carcere sono a norma e con esse le stesse finestre delle celle”, è l’amara constatazione del magistrato. Le criticità denunciate non riguardano solo la vetustà dell’edificio, ma anche l’assenza di adeguati spazi, la cronica carenza di personale, la mancanza di misure preventive e il difficile equilibrio tra esigenze di sicurezza e diritti dei detenuti. Già in passato il procuratore Verzera aveva sollecitato interventi ministeriali, sottolineando come la struttura metta a rischio non solo la permanenza dei detenuti, ma anche quella degli agenti della Polizia penitenziaria, esposti a continue aggressioni. Cremona. Suicidio in carcere, i penalisti: “Basta con questo abominio” cremonaoggi.it, 27 agosto 2025 “Era accaduto a febbraio di quest’anno, ed era già accaduto pochi mesi prima di allora, ad agosto 2024. È accaduto ancora. Un detenuto è morto venerdì pomeriggio nel carcere di Cremona, inalando gas. Era un’altra vita in custodia allo Stato che è stata persa. È il 57 esimo caso dall’inizio dell’anno di un detenuto che si toglie la vita. E casi di suicidio accadono con frequenza allarmante anche tra gli operatori che in carcere lavorano”. Gli avvocati della Camera Penale di Cremona e Crema “Sandro Bocchi” tornano a lanciare l’allarme sul “collasso” del sistema carcerario, “a livello nazionale con oltre 62mila detenuti su 46.700 posti disponibili e a livello locale con oltre il 140% di sovraffollamento nel carcere di Ca’ del Ferro”. “A ciò”, fa sapere l’avvocato Micol Parati, presidente della Camera Penale, “si aggiunge la carenza di tutto in carcere, come constatiamo nelle nostre visite periodiche. Mancano gli psicologi, mancano le possibilità, manca la speranza. Dobbiamo immaginare quindi che questo abominio continuerà ad accadere. se non si prende consapevolezza della drammatica situazione delle carceri italiane. Noi avvocati della Camera Penale la denunciamo ancora: la mancanza di un programma di serie riforme strutturali e di ripensamento dell’intera esecuzione penale e l’irresponsabile indifferenza, anzi, oggi la distorta narrazione della politica di fronte al dramma del sovraffollamento delle carceri e alla tragedia dei fenomeni suicidari”. La presidente Parati - Oggi sul Corriere della Sera è stata pubblicata una lettera aperta indirizzata ai presidenti del Senato e della Camera, al presidente del Consiglio dei ministri e al ministro della Giustizia a firma congiunta del presidente dell’Unione delle Camere penali italiane, del presidente dell’Associazione italiana professori di Diritto penale e del presidente dell’Associazione nazionale magistrati. “L’emergenza dei suicidi in carcere rappresenta una palese violazione dei principi costituzionali della dignità umana e della finalità rieducativa della pena, nonché degli impegni internazionali assunti dal nostro Paese in materia di diritti umani”. Per gli avvocati della Camera Penale, “una situazione di ormai cronica emergenza che mina alle fondamenta la funzione stessa della pena, trasformando la detenzione in una mera afflizione, anziché, secondo la Costituzione, in un percorso volto al reinserimento sociale. Le ricadute negative si estendono all’intera società, compromettendo l’abbattimento della recidiva, e di conseguenza la sicurezza dei cittadini e la coesione sociale. Pur consapevoli della complessità della questione, siamo fermi nella convinzione che non siano più procrastinabili interventi risolutivi, capaci di incidere subito su una situazione destinata ad aggravarsi di giorno in giorno. La vita e la dignità di ogni persona, anche di chi ha sbagliato, devono essere tutelate, e le pene, compreso il carcere, devono servire a restituire alla società persone migliori. Vive, innanzitutto. Serve l’impegno di tutti, nei rispettivi ruoli, affinché si ponga fine a queste atrocità con interventi immediati che possano rendere il carcere un luogo in cui resta viva la parola “futuro”. Treviso. Adolescente suicida in carcere. “Doveva essere portato in ospedale” di Francesco Brun Corriere del Veneto, 27 agosto 2025 Domani sit-in degli attivisti nella Marca. “Troppe domande restano senza riposta”. “Le autorità dovranno rispondere delle loro azioni e delle loro omissioni, perché troppi punti di domanda rimangono aperti. Adesso pretendiamo verità e giustizia: vogliamo sapere esattamente che cosa è successo al momento dell’arresto, in carcere, in ospedale, perché un ragazzo di diciassette anni è morto mentre si trovava sotto la custodia dello Stato”. Una richiesta che arriva dagli attivisti del collettivo Rotte Balcaniche e dei centri sociali Django e Arcadia. Alle 19 di domani sera, fuori dal carcere di Treviso, è previsto un sit-in per chiedere giustizia sulla morte di Danilo Rihai, il 17enne tunisino morto il 13 agosto dopo aver tentato di togliersi la vita all’interno del carcere minorile di Treviso. Il ragazzo, un minore non accompagnato arrestato il sabato precedente dalla polizia per il caos creato a Vicenza, era stato trovato impiccato nella sua cella dal personale carcerario, privo di respiro da circa 6-7 minuti, ed è morto il giorno successivo. A nulla sono servite le cure dei medici del Ca’ Foncello, le sue condizioni erano troppo gravi. “L’ultima volta che un ragazzo si era tolto la vita in un carcere minorile era il 2003 - le parole degli attivisti - 22 anni fa. E non è un caso che accada ora, dopo il decreto Caivano del governo Meloni. Con questo decreto, nelle carceri minorili italiane si registra un sovraffollamento inedito e l’adozione di un paradigma sempre più punitivo anche per i minori detenuti. E non è un caso che succeda a Treviso, l’istituto più sovraffollato d’Italia, dove si sfiora il doppio delle presenze rispetto alla disponibilità di posti”. L’azione dei collettivi, a loro dire, nasce dall’urgenza di fare luce su una vicenda drammatica che rischia di essere oscurata e ridotta a un racconto distorto e parziale. “Appare evidente dalla descrizione dei fatti - spiegano - che il ragazzo si trovasse in un grave stato di crisi psicologica. Una situazione che richiedeva cura, non repressione. Come mai è stato portato in un carcere minorile invece che in un ospedale? È stato visitato dopo essere stato colpito con il taser? Cosa (non) è stato fatto per accertarne le condizioni di salute psico-fisica prima di rinchiuderlo in un carcere? Per quanto tempo è stato privo di sorveglianza mentre tentava il suicidio?”. Gli attivisti ora chiedono che chi ha avuto un ruolo in questa vicenda si prenda le proprie responsabilità, e che vengano effettuate approfondite indagini sul corpo del ragazzo prima che venga rimpatriato in Tunisia, come già richiesto dall’avvocato della famiglia. “Questa storia non è e non può essere archiviata come una “piccola storia ignobile” - concludono - perché è una storia che parla delle migliaia di ragazzi che vivono le nostre città, costantemente etichettati come soggetti pericolosi “delinquenti”, “maranza”, per giustificare la sempre maggiore militarizzazione della vita sociale. Come hanno dimostrato i commenti sui social alla morte di Danilo, diventano il capro espiatorio per sfogare odio e violenza”. Avellino. Caso Paolo Piccolo, Venanzoni: “La richiesta di trasferimento resta senza risposta” corriereirpinia.it, 27 agosto 2025 “Paolo è a limite della sopravvivenza e ha diritto ad essere salvato”. “Mio nipote si deve riprendere e dobbiamo riportarlo a casa”. Il commovente appello di diversi mesi è quello di nonna Cira Russo. Chiede di trovare con urgenza, per suo nipote Paolo Piccolo, un posto in una struttura riabilitativa del Centro-Sud Italia specifica per le cure di cui necessita il 26enne originario di Barra, ridotto in fin di vita nel carcere di Bellizzi Irpino, da dieci detenuti che si sono accaniti con violenza sul corpo del giovane detenuto ad ottobre scorso. Sul caso è intervenuto il consigliere regionale della Campania, Diego Venanzoni (gruppo “A testa alta con De Luca”). “Questa mattina mi sono recato presso l’ospedale Giuseppe Moscati di Avellino in visita a Paolo Piccolo, il giovane detenuto e brutalmente picchiato in carcere lo scorso ottobre. Le sue condizioni cliniche sono gravissime, classificate come codice 75, ovvero estremamente pericolose e bisognose di assistenza intensiva e monitoraggio continuo. Sebbene l’ospedale stia adottando tutte le misure possibili, la struttura non è adeguata a garantire le cure avanzate necessarie per una situazione di tale complessità. Paolo necessita urgentemente di trasferimento in una struttura specializzata, capace di offrire monitoraggio costante e trattamenti appropriati”. “Resta estremamente preoccupante che, nonostante l’Ospedale Moscati abbia trasmesso in data 19 maggio 2025 tramite PEC ad una struttura sanitaria convenzionata - idonea ad accogliere pazienti in codice 75 - una richiesta urgente di trasferimento, ad oggi non sia pervenuto alcun riscontro ufficiale. Si rinnova con la massima urgenza la richiesta di trasferimento e si sollecita un riscontro immediato da parte delle autorità competenti”, aggiunge ancora Venanzoni. Milano. Il Comune è senza Garante dei detenuti, mentre le carceri sono ormai al collasso di Francesco De Felice Il Dubbio, 27 agosto 2025 Milano affronta una doppia emergenza: da un lato il sovraffollamento negli istituti penitenziari, dall’altro la vacanza del Garante dei diritti delle persone private della libertà, figura cruciale per dare voce a detenuti e operatori in un contesto già segnato da gravi tensioni. Dal 6 agosto, infatti, il ruolo di Garante comunale è rimasto vacante, dopo la fine del mandato di Francesco Maisto. L’ex magistrato racconta all’Agi di avere saputo della sua decadenza soltanto con una telefonata da un funzionario del Comune, senza alcuna comunicazione ufficiale. “Non sono attaccato alla sedia, sapevo che la mia esperienza era finita - spiega - ma avrebbero potuto prorogare la posizione fino alla nomina del successore, come si fa in questi casi. È grave che il posto sia vacante perché ci sono tante richieste inevase. Avvocati, operatori della giustizia, volontari continuano a chiamarmi, ma io non posso più fare nulla per loro”. Preoccupazione condivisa anche da Eliana Zecca, vicepresidente della Camera Penale di Milano con delega al carcere: “Come Camera Penale siamo molto preoccupati e sollecitiamo la scelta di un garante il prima possibile per l’importanza che ha la figura . Ci sono situazioni molto delicate da gestire, penso soprattutto al Beccaria e a San Vittore. Col sovraffollamento delle carceri e ad agosto, che è un mese particolarmente critico, non possiamo permetterci che manchi questo punto di riferimento”. Sul sito del Comune di Milano, si legge che è “in fase di perfezionamento la procedura per nominare il nuovo Garante” e che, nel frattempo, ci si può rivolgere al Garante regionale. E le cifre sono impressionanti. A San Vittore, nel cuore della città, ci sono 1.084 detenuti a fronte di 748 posti: un tasso di affollamento del 145%, che in alcuni momenti ha toccato 220%. Peggio ancora a Opera, la più grande casa circondariale d’Italia, con 1.308 detenuti per 918 posti (sovraffollamento del 142%). Più contenuta, ma comunque oltre la soglia, la situazione a Bollate, dove i 1.385 reclusi superano del 9% la capienza prevista (1.267). Nel complesso, le tre principali strutture milanesi accolgono 3.777 persone a fronte di una disponibilità di 2.933 posti, con un tasso medio di affollamento del 129%, ben superiore alla media nazionale, che già sfiora il 134%. Non va meglio al Beccaria, l’istituto penale minorile: 69 ragazzi sono reclusi in spazi progettati per 48, con un sovraffollamento del 144%. Un dato che assume un peso particolare perché parliamo di adolescenti e giovanissimi, molti con storie segnate da marginalità e violenza, per i quali il carcere dovrebbe rappresentare un luogo di rieducazione, non di ulteriore trauma. Proprio il Beccaria è diventato negli ultimi anni il simbolo delle contraddizioni del sistema penitenziario. Qui l’inchiesta avviata grazie alle segnalazioni trasmesse proprio dal garante milanese Maisto alla Procura ha portato all’arresto di 13 agenti accusati di violenze e maltrattamenti. “Non era solo la voce dei ragazzi a denunciare - ricorda l’ex Garante - ma anche educatori e operatori. Era emersa una situazione gravissima”. Oggi, dopo l’intervento del Dipartimento della giustizia minorile, il quadro sembra migliorato sul fronte dei maltrattamenti. Restano però problemi strutturali: sovraffollamento, carenze di personale e continui trasferimenti di minori in istituti lontani centinaia di chilometri dalle famiglie, con gravi conseguenze sui legami affettivi e sul percorso educativo. Maisto, qualche settimana fa, aveva fatto sentire la sua voce sulla vicenda: “Dalle indagini è emerso molto di più, una catena di comando che non ha funzionato e responsabilità non assunte. Mi ha colpito che il Comune, che ha investito tanto sul Beccaria, non si sia costituito parte civile: un passo doveroso, non solo per le vittime ma per la credibilità dell’istituzione”. Intanto Milano resta senza Garante. Un’assenza che pesa proprio mentre i suoi istituti sono al collasso, con celle sovraffollate, carenze sanitarie, casi di disagio psichico sempre più frequenti e un numero crescente di suicidi e atti di autolesionismo. Senza un presidio istituzionale in grado di raccogliere e indirizzare le istanze, la voce dei detenuti rischia di restare soffocata dalle mura che li circondano. Venezia. Il carcere sempre più affollato. “Libero chi ha poco da scontare” di Alberto Zorzi Corriere del Veneto, 27 agosto 2025 Sopralluogo dei penalisti. Un anno fa, più o meno nello stesso periodo, il 28 agosto, i detenuti erano 260, ben più dei 159 previsti dalla capienza regolamentare. Ora la situazione non è migliorata, anzi: quando ieri una delegazione della Camera penale veneziana, guidata dal presidente Renato Alberini con vari membri del direttivo e della commissione carcere, ha varcato la soglia del penitenziario di Santa Maria Maggiore, ha trovato ben 284 persone dietro le sbarre, 24 più di un anno fa. Quasi il doppio della capienza, che sebbene non sia un record (anni fa si era arrivati anche vicini ai 350), di certo crea pesanti problemi di vita quotidiana dei detenuti: da un lato perché limita le opportunità di formazione, studio, lavoro, dall’altro per questioni igieniche, tanto più in un periodo in cui più volte è stata denunciata la presenza di cimici dei letti, per risolvere la quale servirebbe una maxi-profilassi che non avrebbe alternative allo sfollamento temporaneo della struttura. La delegazione è stata accolta dal direttore Enrico Farina, affiancato dai vertici della Polizia penitenziaria, che si occupa della gestione dei detenuti. E anche qui le note sono dolenti: gli agenti in servizio sono un terzo in meno rispetto a quanti dovrebbero essere, così come gli educatori che sono 3 invece dei 5 previsti dalla pianta organica. Proprio a fronte di questi numeri, i penalisti hanno lanciato una proposta: “Dato che ben 117 detenuti presentano un residuo pena inferiore a 18 mesi - hanno spiegato - sono necessarie azioni deflattive della popolazione carceraria, rafforzando le misure alternative, ampliando le pene sostitutive ed estendendo la liberazione anticipata per chi si trova nella parte finale dell’esecuzione della pena”. I penalisti evidenziano che la detenzione non dev’essere “mera afflizione, con palese violazione della dignità umana e delle finalità rieducative” e per questo fondamentale è il reinserimento sociale che passa soprattutto dal lavoro. Ma anche qui i numeri sono impietosi: solo 27 detenuti lavorano all’esterno, 11 in regime di semilibertà, 16 sotto altre forme. La Camera penale ringrazia le coop sociali e gli imprenditori che offrono con generosità opportunità di impiego e annuncia che a breve diventerà anch’essa datore di lavoro per un detenuto: farà il bibliotecario in tribunale. Di carcere si parlerà anche domani nella sala Laguna in via Buratti 1 al Lido di Venezia. E sarà il Patriarcato a farlo, in occasione della presentazione e proiezione (alle 18.30) del docu-film “Le farfalle della Giudecca”, nato dalla storica visita di Papa Francesco avvenuta il 28 aprile 2024 al carcere femminile e culminato nell’incontro con le detenute e la visita al padiglione della Santa Sede per la Biennale allestito proprio in quel contesto. Il documentario - firmato da Rosa Lina Giuliano Galantino e Luigi Ceccarelli e con Ottavia Piccolo - è un viaggio tra i volti, le parole e i sentimenti delle donne carcerate nella Giudecca, capaci di sorprendere tutti, diventando guide della Biennale. “Si occupano di arte e cosmesi, sono sarte, cuoche, edili, attrici, ortolane, in una trasformazione da recluse ad operatrici, regolarmente retribuite, di una factory per cui tutta Venezia fa il tifo”, dice la Diocesi. Prima, alle 17.30, una tavola rotonda. Frosinone. Suicidi e carenze nel carcere, emergenza tra sovraffollamento e personale rainews.it, 27 agosto 2025 Nel 2025 il carcere di Frosinone è stato segnato da due tragedie: due detenuti si sono tolti la vita, uno a febbraio e l’altro a metà luglio. Quest’ultimo, un giovane di 30 anni, è morto in ospedale dopo tre giorni di agonia. Questi episodi riportano l’attenzione sui problemi strutturali della Casa circondariale Giuseppe Pagliei, dove da tempo si denunciano condizioni insostenibili. Sovraffollamento cronico - Nell’istituto ci sono quasi 600 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 517 posti. Una pressione costante che rende difficile garantire sicurezza, percorsi rieducativi e assistenza sanitaria adeguata. Personale insufficiente - La situazione è aggravata da una carenza marcata di organico: mancano agenti di Polizia penitenziaria, figure amministrative ed educatori. Un vuoto che ostacola la gestione quotidiana della struttura. La visita delle istituzioni - Queste criticità sono state constatate di persona dagli avvocati della Camera penale di Frosinone, accompagnati da consiglieri regionali di maggioranza e opposizione e dal Garante regionale dei detenuti del Lazio, durante una visita organizzata nell’ambito dell’iniziativa nazionale “Ristretti in agosto”. I progetti del Governo - Il carcere di Frosinone rientra tra i nove istituti penitenziari italiani per i quali il Governo ha previsto un piano di ampliamento con l’installazione di moduli prefabbricati. Il bando di gara è stato recentemente ripubblicato, ma l’avvio dei lavori resta in attesa. Vibo Valentia. Libera: “Situazione carcere, serve un impegno concreto” ilreggino.it, 27 agosto 2025 “Ci uniamo al grido di allarme del sindacato, ribadendo la necessità urgente di potenziare gli organici e garantire la piena titolarità delle figure dirigenziali”. “Apprendiamo con preoccupazione e rammarico dell’ennesima situazione di disordine verificatosi nella casa circondariale di Vibo Valentia dove, presso la sezione destinata ai detenuti problematici, tre di loro hanno aggredito il personale della Polizia Penitenziaria brandendo lamette e oggetti contundenti e lanciando olio bollente. Ai cinque agenti rimasti feriti - si legge in una nota diffusa dal Coordinamento provinciale di Libera Vibo Valentia - esprimiamo tutta la nostra gratitudine per il delicato lavoro che sono chiamati a svolgere e auguriamo loro una pronta guarigione. Il loro intervento tempestivo ha permesso di sedare la rivolta, circoscrivere i danni e di mettere in sicurezza gli altri detenuti. Purtroppo, sappiamo bene che l’accaduto verificatosi nei giorni scorsi non è, purtroppo, un caso isolato. Infatti, quotidianamente uomini e donne della polizia penitenziaria, in sinergia con educatori e psicologi, sono costretti a gestire una complessità sempre in movimento tra mille difficoltà strutturali e con gravi carenze di organico. Come denunciato dal sindacato di polizia penitenziaria, i 190 agenti in servizio presso l’istituto sono ben al di sotto dei 288 previsti dallo stesso Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Pertanto, ci uniamo al grido di allarme del sindacato, ribadendo la necessità urgente di potenziare gli organici e garantire la piena titolarità delle figure dirigenziali, al fine di tutelare l’incolumità del personale operante e degli stessi detenuti in modo da assicurare continuità ed efficacia al servizio. Non è un caso, che uno dei dodici punti della nuova agenda politica di Libera pone al centro della discussione proprio la situazione carceraria, promuovendo l’idea di un carcere che rieduchi e sia inclusivo; investimenti e risorse per costruire luoghi che dovrebbero garantire non solo l’espiazione della pena e la responsabilità individuale, ma anche e soprattutto una forza trasformativa e rigenerante, volta a restituire alla società persone consapevoli e capaci di compiere scelte responsabili. Serve una sinergia tra il ‘dentro’ e il ‘fuori’ per rendere effettivo il disposto costituzionale previsto dall’art. 27 cost. Sappiamo bene che il carcere deve essere luogo di speranza e cambiamento non di marginalizzazione e marginalità. Il carcere dotato degli strumenti per ri-educare partecipa ad abbassare la media annua della recidiva degli autori di reato. La crisi attuale impone dunque un impegno concreto e condiviso, affinché le carceri possano essere luoghi di legalità, sicurezza e umanità, in linea con i principi fondamentali della nostra democrazia”. Isernia. Gli avvocati entrano in carcere per monitorare le condizioni dei detenuti quotidianomolise.com, 27 agosto 2025 Per la prima volta la Camera Penale di Isernia accede al carcere per monitorare le condizioni dei detenuti e delle strutture. La Camera Penale Circondariale di Isernia ha ottenuto per la prima volta l’autorizzazione dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) a far accedere i propri iscritti all’interno della Casa Circondariale della città. La visita, fissata per le 10 di mercoledì 27 agosto, coinvolgerà cinque avvocati penalisti che incontreranno i detenuti e verificheranno direttamente le condizioni di ristrettezza. L’iniziativa è promossa dall’Osservatorio Carcere dell’Unione delle Camere Penali Italiane, coordinato dall’avvocato Gianpaolo Catanzariti, e rientra nelle attività di monitoraggio previste dall’art. 117 del Dpr 230/2000. “È la prima volta che viene chiesta e concessa un’autorizzazione di questo tipo”, sottolinea La Cava, evidenziando il carattere storico dell’iniziativa. Al termine della visita, gli avvocati redigeranno una relazione sulle condizioni delle strutture e sulla vita dei detenuti. La Casa Circondariale di Isernia, ricordano dalla Camera Penale, non ha registrato episodi del drammatico fenomeno dei suicidi in carcere, che purtroppo continua a colpire altri istituti italiani. L’iniziativa rappresenta un passo importante per rafforzare il dialogo tra il mondo forense e l’amministrazione penitenziaria, con l’obiettivo di garantire maggiore trasparenza e tutela dei diritti dei detenuti. Alba (Cn). “18+1 Diciotto anni e un giorno”, presentazione del libro sulle carceri per adulti lavocedialba.it, 27 agosto 2025 Il 4 settembre alla Libreria La Torre un incontro con l’autrice e importanti figure istituzionali per affrontare il tema dei giovani detenuti e la solitudine nelle carceri Il prossimo giovedì 4 settembre alle ore 21, presso la Libreria La Torre di Alba, nel portico del cortile Maddalena, si terrà la presentazione del libro “18+1 Diciotto anni e un giorno - Il perimetro del vuoto e della solitudine: giovani perduti nelle carceri per adulti” scritto da Monica Cristina Gallo. L’autrice dialogherà sull’importante tema della condizione dei giovani detenuti nelle carceri per adulti, un argomento che affronta le problematiche della solitudine e del vuoto esistenziale che questi ragazzi vivono durante la detenzione. All’incontro parteciperanno anche figure di rilievo istituzionale, fra cui Emilio De Vitto, Garante comunale dei diritti delle persone private della libertà personale, e Paolo Borgna, ex Magistrato, che apporteranno il loro punto di vista e favoriranno un dibattito costruttivo sul tema. L’iniziativa, promossa dalla Libreria La Torre in collaborazione con Effatà Editrice, si propone di sensibilizzare il pubblico su una realtà spesso poco conosciuta e di promuovere riflessioni sulla giustizia penale minorile e l’inclusione sociale. Disinnescare la rabbia con il teatro: l’esperienza dei carcerati in scena a Ischia Famiglia Cristiana, 27 agosto 2025 A Villa Colombaia di Ischia, nell’ambito della rassegna estiva Bellissima 2025, il 31 agosto la compagnia Manovalanza, formata da attori professionisti e detenuti dell’Istituto penitenziario di Airola rappresenta “Plùma, Disadirare Project. Capitolo III”. Il progetto teatrale Manovalanza nasce dalla ricerca artistica condotta all’Ipm di Airola dal 2023. Con la Compagnia teatrale di attrici e attori professionisti insieme a persone detenute ed ex detenute, il progetto intende estendere la ricerca e creazione artistica oltre l’istituzione totale, aprendo un varco nella realtà per edificarne una nuova, alternativa a quella brutale che l’esterno ci pone come specchio. Il progetto Disadirare si sviluppa intorno al tema dell’ira come metafora distruttiva dei corpi e del loro spazio. Plùma, terzo e ultimo capitolo del progetto è uno spettacolo che fa parte della rassegna Bellissima 2025, organizzata a Villa Colombaia di Ischia durante tutta l’estate e che si concluderà il 20 settembre in quella che fu la dimora di Luchino Visconti. Domenica 31 agosto alle 21.00 anteprima nazionale di Plùma, Disadirare Project. Capitolo III, regia di Adriana Follieri, drammaturgia di Adriana Follieri e di Andrea W., disegno luci di Davide Scognamiglio, con Francesca Capasso, Gianluigi Signoriello, Andrea W. In scena tre personaggi inediti e contemporanei i cui destini citano liberamente quelli di Achille, Agamennone e Briseide, eppure percorrono tutt’altre prospettive: se gli eroi e le eroine della classicità ci si mostravano in tutta la violenza ineluttabile della predestinazione, qui le sorti e le relazioni sono spinte e determinate soprattutto dal libero arbitrio. Ad ogni bivio, ad ogni passaggio, si apre sulla scena un varco di libertà, meritevole di essere condiviso e festeggiato. Lo spettacolo è dunque composto e articolato come una festa, un evento dall’esperienza immersiva e coinvolgente, affinché ogni ospite assista con la propria presenza e partecipazione alla trama e ne determini gli sviluppi e le possibilità. Le parole della regista - Così lo spettacolo nelle parole della regista Adriana Follieri: “Consapevoli del carico di gravezza che dall’antichità e fino ad oggi l’ira e le sue inevitabili conseguenze tracciano sulle nostre narrazioni e sulle geografie corrispondenti, è con l’arte e con il teatro che indaghiamo nuove circostanze, agendole poeticamente affinché siano al tempo stesso atto scenico, atto poetico e atto politico. Il nostro peso è quello della piuma. Desideriamo “disadirarci”, lasciar andare l’ira, vedere oltre il visibile, concepire il sogno come possibilità concreta, permettere alla realtà di non essere definitiva e schiacciante, condividendo il processo artistico con ciascuna persona, anche e soprattutto nel dialogo tra linguaggi non coincidenti, consentendo all’arte e all’immaginazione di costruire ponti di leggerezza praticabile”. “Le stelle divorate dai cani”, indagine in noir sul mondo del disagio mentale di Barbara Sorrentini Il Manifesto, 27 agosto 2025 Il nuovo libro di Pierfrancesco Majorino uscito per Laurana Editore è il racconto della sparizione di Marchino, un ragazzo fragile e disagiato che improvvisamente scompare da un centro d’accoglienza. Un titolo suggestivo e astratto per rappresentare la trama attraverso un’immagine, “Le stelle divorate dai cani” è il nuovo libro di Pierfrancesco Majorino uscito per Laurana Editore nel formato ultra-tascabile della nuova collana Paginescure (pp. 136, euro 10). Tra i titoli evocativi dei suoi romanzi precedenti ci sono: Dopo i lampi vengono gli abeti, Togliendo il dolore dagli occhi, Maledetto amore mio e il più recente Sorella Rivoluzione. Titoli che raccolgono in un fotogramma il senso del libro, coerenti con una scrittura in immagini che va interpretata e decodificata pagina dopo pagina, per coglierne la complessità della trama soltanto alla fine del racconto. L’assessore che ha riformato il welfare a Milano durante il primo mandato da sindaco di Giuliano Pisapia, ha sempre trovato il tempo per scrivere libri. Che fossero saggi legati all’attualità politica e alla necessità di delineare emergenze, come quella urgente dell’accoglienza dei migranti, o romanzi caratterizzati da una visione distopica del mondo, proveniente da un bagaglio culturale che annovera letture di fantascienza, fumetti tipo Nathan Never o film come Blade Runner. In Le stelle divorate dai cani Majorino sceglie il noir, senza mai abbandonare i temi sociali a lui cari. È il racconto della sparizione di Marchino, un ragazzo fragile e disagiato che improvvisamente scompare da un centro d’accoglienza. A guidare le indagini c’è l’investigatore giapponese Huan Check Tobay, un samurai contemporaneo a cui non sfugge nulla, accompagnato nella ricerca dalla figlia, ancora più sgamata di lui e da un ex poliziotto in pensione che ormai le ha viste tutte e quindi sa come muoversi. La storia si svolge in un tempo (futuro?) nel quale le diversità, le fragilità e le vulnerabilità di tutti quelli che hanno problematiche riguardanti la salute mentale, vengono fatte sparire come polvere sotto il tappeto. Il tema portante intorno al quale si sviluppa l’indagine del romanzo è legato ai centri per il disagio psichico. La trama ci immerge in un futuro che ci riporta a un passato precedente la chiusura dei manicomi ottenuta dalla Legge Basaglia. Pierfrancesco Majorino descrive un contesto in cui le istituzioni utilizzano metodi coercitivi e segreganti di fronte alle persone più deboli e con uno stile quasi horror o da thriller psicologico ci riporta ad un passato oscurantista non del tutto sepolto. Taser, un caso di provincialismo letale di Vincenzo Scalia Il Manifesto, 27 agosto 2025 Le due morti recenti di Elton Bani e Gianluca De Martis, avvenute nei giorni scorsi, hanno riportato alla ribalta del dibattito pubblico la questione relativa alla legittimità dell’utilizzo del Thomas A. Swift electronic rifle, più noto con l’acronimo di Taser, da parte delle forze dell’ordine. Un’arma introdotta per la prima volta dal governo Renzi nel 2014. All’inizio il Taser era stato dato in dotazione alle forze dell’ordine nazionali. In seguito il suo utilizzo è stato esteso, dal decreto milleproroghe emanato dal governo Draghi, anche alle polizie locali. I sostenitori dell’utilizzo del Taser fanno proprio il discorso securitario di neutralizzare le persone considerate pericolose, combinandolo con una presunta maggiore efficienza e un supposto minore impatto fisico, enfatizzando una ipotetica neutralizzazione soft. I tragici fatti che le cronache raccontano sono lì a smentirli e suggeriscono due ordini di riflessioni. La prima sul piano delle violazioni dei diritti umani, la seconda sotto il profilo simbolico e delle rappresentazioni collettive. Malgrado i fautori dell’utilizzo del Taser ne sostengano la sicura efficacia come strumento di deterrenza, già nel 2007, una commissione dell’Onu, ne evidenziava le potenzialità di strumento di tortura, raccomandando di non utilizzarlo. Anche in Italia, l’ex Garante delle persone private della libertà, Mauro Palma, evidenziava gli aspetti critici, conseguenti all’utilizzo del Taser, nelle sue relazioni al Parlamento. In particolare, si sottolineava come il ricorso a questa arma dovesse consistere in una extrema ratio, successivo ai fallimenti dei tentativi di approccio e di dialogo da parte delle forze dell’ordine. I tragici casi Bani e De Martis riportano testimonianze in cui emerge come un approccio o un dialogo con le vittime non sia stato minimamente cercato. A vent’anni dalla tragica morte di Federico Aldrovandi, a undici anni dal caso analogo di Riccardo Magherini, affiora in tutta la sua criticità la cronicizzazione di un deficit nella formazione delle forze dell’ordine. All’interazione, alla mediazione, al dialogo, si continua a preferire l’uso della forza. Che però viene contrabbandato come un approccio soft, dal momento che al manganello si sostituisce una pistola che viene da fuori, dotata di poteri taumaturgici grazie ai ritrovati tecnologici che la caratterizzano. Peccato che gli esiti, vale a dire le morti tragiche e assurde, siano analoghe a quelle dovute all’utilizzo del manganello. Se da un lato il deficit di formazione non è responsabilità degli agenti e dei militari, dall’altro lato questi dovrebbero essere consapevoli di operare all’interno di una cornice improntata allo Stato di diritto. In particolare, le relazioni del garante, sottolinea la necessità di non utilizzare il Taser in spazi ristretti, per non rischiare di oltrepassare il discrimine, già tenue, tra intervento contenitivo e tortura. Per questo raccomandano di formare adeguatamente all’utilizzo del Taser con tanto di riunioni di debriefing successive al suo uso e la stesura di relazioni scritte da sottoporre al vaglio degli organi ispettivi. Il problema, tuttavia, permane a livello simbolico. Un esecutivo che fa di legge e ordine la sua cifra e il suo collante, non contempla nel suo glossario parole come formazione e mediazione. Soprattutto, si tratta di risospingere il confine all’indietro. I casi Aldrovandi, Cucchi e Magherini, oltre a ridare dignità alle classi pericolose, avevano portato alla ribalta gli abusi delle forze di polizia, catalizzando l’approvazione della legge sulla tortura. Un percorso che appare come fumo negli occhi per chi non vuole criticare i poliziotti, e preferisce piuttosto raccontare e raccontarsi che esiste un modo soft di reprimere, così da rimuovere i conflitti contemporanei. Fosse un film, lo intitoleremmo “Provincialismo letale”. I decessi dopo l’uso del taser alimentano la polemica sui Tso. Ma il problema della psichiatria è un altro di Luciano Casolari* Il Fatto Quotidiano, 27 agosto 2025 I decessi dopo l’uso del taser alimentano la polemica sui Tso. Ma il problema della psichiatria è un altro. Il Tso (trattamento sanitario obbligatorio) è una pratica che limita temporaneamente, di solito 7-15 giorni, la libertà dell’individuo tramite ricovero per il bene superiore della sua salute. Secondo la legge italiana viene proposto da un medico che ha visitato il paziente, lo ha ritenuto in grave stato di alterazione psichica, non in grado di essere curato a domicilio e ha ricevuto un rifiuto delle terapie. Deve venir confermata la valutazione da un secondo medico in questo caso psichiatra che opera presso il servizio pubblico. A quel punto viene emessa l’ordinanza di ricovero da parte del sindaco o suo delegato. Intervengono poi le forze dell’ordine per fermare la persona malata e infine il tutto viene convalidato dal giudice tutelare di quella zona. Alcune notizie degli ultimi giorni hanno riportato in auge questo problema. Una persona malata in stato di agitazione è stata colpita dal taser nel tentativo di essere sedata e sottoposta a tso ed è deceduta. Negli stessi giorni è montata la polemica sul numero di tso. Sono troppi secondo alcuni, molti sarebbero camuffati o misconosciuti. Come si faccia a camuffare un tso è presto detto: si dice al paziente che se non accetta il ricovero si chiameranno i vigili o le forze dell’ordine per cui lui alla fine, sotto questo ricatto, accetterà obtorto collo il ricovero oppure si effettua la costrizione fisica ma poi in sede di convalida all’interno dell’ospedale si tramuta il ricovero in volontario in modo che non compaia nelle statistiche. Terza notizia di questo periodo è che la Corte Costituzionale ha stabilito l’obbligatorietà della audizione da parte del giudice tutelare prima della convalida del trattamento. Tutte e tre queste notizie denotano una profonda complessità rispetto alle metodologie con cui si può affrontare la sofferenza mentale nella sua fase acuta. Una certa confusione emerge anche perché il dibattito scientifico è funestato da prese di posizione ideologiche o politiche. Ad esempio per alcuni il numero di tso deve essere tendente allo zero e si conferiscono medaglie di valore a quei servizi psichiatrici territoriali che non li effettuano. Questa presa di posizione può essere tacciata di essere troppo estremista in quanto sarebbe come se facessimo una polemica sul numero di interventi ortopedici per ingessare una gamba. Chiaramente il numero di interventi deve essere commisurato a quelli che sono necessari. Se si lavora vicino a una pista da sci saranno di più. Allo stesso modo, statisticamente, i tso in zone di forte disagio sociale aumentano. Non può la politica o l’ideologia definire quanti siano giusti. Negli ultimi decenni in Italia movimenti di opinione hanno cercato di affermare l’assioma che pochi tso significano una maggior efficienza ed efficacia dei servizi psichiatrici. Questa affermazione può essere parzialmente vera in quanto un paziente seguito regolarmente con visite e psicoterapie incorre meno in situazione di scompenso acuto. Può viceversa essere falsa nel caso in cui venga rifiutato il ricovero a persone in stato di abbandono determinando quello che alcuni definiscono col termine di “terricomio” (abbandono del paziente al territorio che poi in sintesi è quasi sempre costituito da genitori, fratelli o alcune volte i figli). Alla base vi è un presupposto ideologico per cui si vuole arrivare ad affermare che “la malattia mentale non esiste” e i tso sono il frutto malato di una mentalità coercitiva verso la diversità. Sul versante opposto troviamo movimenti di opinione e politici che vorrebbero tornare all’uso del tso come strumento di controllo sociale. Tutta la “devianza” viene quindi accumunata in un calderone dove la parola “follia” assume una valenza negativa di ordine sociale e non solo medico. In sostanza chi non la pensa come la maggioranza dell’opinione pubblica risulta un deviante e quindi per sillogismo un folle. Le propaggini estreme di questa visione coercitiva di coloro che deviano rispetto alla maggioranza aveva portato nel 1800 all’uso smodato dell’internamento in strutture, i famosi manicomi, che erano divenuti ricettacoli di ogni problema sociale. Quindi accanto ai veri malati mentali trovavamo in queste strutture persone con problemi vari quali delinquenti, prostitute, portatori di handicap o addirittura oppositori politici dei regimi dominanti. Di fronte alle posizioni estremiste è difficile trovare una linea di equilibrio che faccia prevalere il punto di vista scientifico. Tra l’altro, dopo la pandemia, la fiducia nella scienza è crollata a livelli infimi per cui è arduo trovare un’intesa sia con l’utenza che con altri medici. Personalmente ho lavorato dall’età di 25 anni per dieci anni in un servizio psichiatrico territoriale. Per quel che vale la mia esperienza sul campo mi porta a ritenere che sia impossibile ridurre i trattamenti obbligatori sotto un certo livello. Nel servizio ove operavo li facevamo solo come ultima ratio. Il numero era fra 1 e 1,5 ogni diecimila abitanti ogni anno. La mia esperienza porta a pensare che l’uso del taser sia stato eccessivo, soprattutto se reiterato 4 volte nel giro di poco tempo, in quanto solitamente la persona sofferente di fronte a un gruppo di interlocutori che lo affrontano, che spiegano e lasciano il tempo di sbollire la paura e la rabbia arriva a calmarsi. Per quanto attiene alla sentenza della corte costituzionale la mia valutazione risalente ad una trentina di anni or sono, quindi un poco datata, mi porta a ritenere che sia velleitaria e praticamente irrealizzabile. Trovare il modo di portare la persona sofferente al cospetto del giudice per convalidare il tso credo che nella maggior parte dei casi sia impossibile se non costringendolo. Come si fa a portare qualcuno da un giudice se questi non ci vuole andare e se l’unico modo per costringerlo è proprio farlo parlare col giudice? Parlare in modo ideologico su tso sì o tso no serve a mascherare il vero problema della psichiatria, costituito dalla carenza di personale, per motivi economici. I servizi psichiatrici afflitti da queste mancanze in molti casi invece di svolgere funzioni di prevenzione e cura tendono a strutturarsi come ultima linea solo per la gestione delle emergenze e delle urgenze psichiatriche. *Medico psicoanalista Migranti. Perché i Cpr in Albania non “funzioneranno” di Vitalba Azzollini* Il Domani, 27 agosto 2025 Al Meeting di Rimini, il ministro Piantedosi ha parlato di “sabotaggi” delle politiche del governo in tema di migrazioni. Forse dimentica - oppure è proprio ciò che ha in mente - che la Corte di giustizia Ue ha dato torto al governo sulle procedure adottate in Albania. E magari continuerà a dare la colpa a chi “si mette di traverso” anche quando sarà palese che i centri albanesi non potranno funzionare nemmeno come Cpr, almeno fino a quando non cambierà il quadro giuridico europeo. C’è un passaggio dell’intervento del ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, al Meeting di Rimini, che non è stato colto da molti. “Esiste tutto un mondo istituzionale e culturale che si mette di traverso sull’applicazione di norme che prevedono la procedura accelerata di frontiera”, ha detto, con un “sabotaggio sistematico” del “tentativo del governo di sposare in anticipo norme che dall’anno prossimo diventeranno cogenti in tutta Europa”. Piantedosi ha pure affermato di non fare specifico riferimento al “progetto dell’Albania”. Ma la procedura accelerata di frontiera è proprio quella che si applica anche alle istanze di asilo presentate nelle strutture albanesi. E negli ultimi mesi i trattenimenti in tali strutture sono stati al centro di controverse decisioni dei tribunali, oltre che del dibattito pubblico. Quando parla di un “sabotaggio”, Piantedosi dimentica - o forse è ciò che ha in mente - la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea che, il 1° agosto scorso, ha dato torto al governo in tema di paesi sicuri. La questione era stata sollevata dinanzi alla Corte dopo che i primi fermi di migranti in Albania non erano stati convalidati dai giudici nazionali. In attesa della pronuncia, l’esecutivo aveva evitato nuovi trasferimenti. Ma, siccome i centri erano rimasti vuoti, aveva tentato una strada alternativa per riempirli, e dare un senso a quel “fun-zio-ne-ran-no” scandito ad Atreju da Giorgia Meloni: adibire la sede di Gjadër a Cpr, cioè a centro di permanenza per i rimpatri. Dopo la sentenza della Corte Ue, che ha precluso almeno per ora l’uso dei centri albanesi come sedi per l’esame accelerato delle domande di asilo, Piantedosi ha dichiarato che essi comunque “continueranno a funzionare come Cpr”. Tuttavia, questa soluzione appare tutt’altro che scontata. Quasi subito erano emersi problemi di “funzionamento” del Cpr albanese. Il 19 aprile, la Corte d’Appello di Roma non aveva convalidato il trattenimento di un migrante portato nel centro di Gjadër, che aveva presentato una domanda d’asilo: questa situazione era al di fuori dell’ambito disciplinato dal Protocollo Italia-Albania. Invece, il successivo 8 maggio, la Corte di Cassazione aveva equiparato tale centro ai Cpr italiani e ammesso il trattenimento anche dopo un’istanza di protezione, se finalizzata solo a ritardare il rimpatrio. Ma il 29 maggio, con un’inversione di rotta, la Cassazione aveva manifestato dubbi sulla compatibilità della disciplina del Cpr albanese con il diritto Ue: in particolare, con la direttiva Rimpatri, che consente il trasferimento in un paese terzo solo se si tratti di un paese di transito o vi sia il consenso dell’interessato; e con la direttiva Procedure, che prevede il diritto del richiedente asilo a rimanere nel territorio dello stato fino alla decisione definitiva sulla sua domanda. Anche tale questione è stata portata dinanzi alla Corte Ue, affinché chiarisca gli eventuali profili di incompatibilità. A luglio, poi, la Corte costituzionale ha rilevato la mancanza di una normativa primaria che disciplini il trattenimento nei Cpr. Esso è regolato solo da fonti amministrative, in violazione della riserva assoluta di legge, oltre che di giurisdizione, sancita dall’articolo 13 della Costituzione. La Consulta ha quindi invitato il legislatore a intervenire. Sulla scia di questa sentenza, diversi giudici non hanno convalidato trattenimenti nel Cpr albanese. La situazione di stallo potrebbe perdurare anche qualora il governo sanasse il “vulnus” rilevato dalla Corte costituzionale. Infatti, resterebbe comunque pendente la questione sollevata dinanzi alla Corte di giustizia circa il contrasto delle norme sul Cpr in Albania con la regolazione dell’Ue. Ed è probabile che intanto, analogamente a quanto accadde in attesa della sentenza sui paesi sicuri, i tribunali preferiscano sospendere le decisioni sulle conferme dei fermi, facendo rientrare in Italia i migranti, se il governo insisterà a trasferirli in Albania. Ciò almeno fino a quando non muterà il quadro giuridico europeo di riferimento. Dunque, appare azzardata l’affermazione di Piantedosi secondo cui i Cpr in Albania continueranno a funzionare. O forse, per il governo, il loro “funzionamento” consisterà nel portarvi migranti e poi - dopo la prevedibile mancata convalida dei loro trattenimenti - fare le solite sceneggiate sulla magistratura politicizzata, evocando “sabotaggi” da parte di chi “si mette di traverso”? *Giurista Migranti, Piantedosi: “Multe e fermi per le Ong che non obbediscono agli ordini sui porti sicuri” di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 27 agosto 2025 Il responsabile del Viminale ritiene che le navi delle associazioni umanitarie “favoriscono in qualche modo i trafficanti di esseri umani che spediscono i profughi su piccole barche sapendo che saranno subito soccorsi dalle ong”. La linea del governo, messa in atto dal Viminale, non cambia. E non cambierà in futuro sia nei confronti degli arrivi di migranti - aumentati da gennaio a ieri di circa un migliaio rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, da 40mila a poco più di 41 mila - sia delle ong, che nelle ultime ore hanno intensificato le loro attività in acque Sar, rischiando anche grosso, come è successo alla Ocean Viking raggiunta da centinaia di colpi di mitragliatrice esplosi da una motovedetta libica. “Chi non rispetta la legge sull’assegnazione del porto sicuro - avverte lo stesso ministro dell’Interno Matteo Piantedosi - continuerà a essere punito con multe e fermi amministrativi delle navi”. “I migranti spediti in mare su piccole barche” - Una strategia precisa, che in qualche caso ha ammesso deroghe di fronte a situazioni d’emergenza, proprio come quella della Ocean Viking, dirottata d’urgenza ad Augusta (Siracusa) dalla prima destinazione in Toscana, adottata anche nella convinzione che, sottolinea ancora il ministro “l’atteggiamento delle stesse ong, che spesso si avvicinano alle coste di Tripoli per portare in salvo i migranti, finisce piuttosto per favorire i piani dei trafficanti di esseri umani che, già senza scrupoli, si fanno ancora meno problemi a caricare ben oltre il limite piccole e precarie imbarcazioni”. Anche gommoni di dimensioni ridotte, con 60-70 persone stipate in sette metri, ben sapendo che i profughi percorreranno poche miglia, perché non arriveranno da soli sulle coste italiane vista la concreta possibilità che vengano soccorsi in mare dalle associazioni umanitarie. “Perché le ong stazionano davanti ai porti dei trafficanti?” - Uno scenario che, viste le migliaia di profughi in attesa di un imbarco per l’Italia, potrebbe contribuire a un’impennata di arrivi. Anche se negli ultimi giorni non ci sono stati contatti diretti, semmai ce ne fosse stato bisogno, c’è pieno accordo fra il ministro e la premier Giorgia Meloni. “Perché - precisa Piantedosi - non è una questione di scarsa sensibilità nei confronti di chi rischia di morire in mare ogni giorno, ma di impedire nuove partenze di migranti”, che dal 24 agosto sono infatti riprese più numerose rispetto al recente passato e a quelle registrate nello stesso periodo dell’agosto dello scorso anno. “A chi dalle opposizioni ci critica contestandoci quanto accaduto nella tragedia di Cutro - replica il ministro - vorrei chiedere come mai non spiegano il motivo per cui le unità navali delle ong non seguono le rotte più pericolose per i migranti, in modo da essere avvantaggiate in caso di intervento di soccorso, ma stazionano soprattutto di fronte alla costa libica di Sabrata, considerata quella peggiore, gestita dalle bande di trafficanti più spietate?”. “Mai soccorsi ong coordinati da autorità italiane” - Dati alla mano, in possesso del Viminale, dal 2019 a oggi sono stati circa 70 mila i migranti soccorsi in mare dalle navi ong e trasferiti nei porti italiani. Quest’anno solo in un caso in acque nazionali, mentre su 147 soccorsi 84 sono avvenuti nello specchio di mare libico, altri 34 in quello maltese, quattro della Tunisia, 18 fra Tunisia e Malta e altri cinque fra Tunisia e Libia. In totale, a ieri, i profughi sbarcati in Italia nel 2025 dalle ong sono stati 7.993, più di 6.200 dei quali dopo essere stati soccorsi in acque Sar di Libia e Malta. In tutto in Italia da gennaio sono sbarcate 41.218 persone e 19.941 di queste sono arrivate in maniera autonoma o prese a bordo da navi nazionali fuori da interventi Sar. Complessivamente in acque Sar sono stati soccorsi 21.277 migranti, con un apice a maggio (circa 4.200) mentre ad agosto finora sono stati poco più di 2.500, 955 dei quali da parte delle navi ong. “Come si vede - conclude Piantedosi - tutti i soccorsi delle ong sono stati fatti in acque Sar di altri Paesi e nessun loro intervento è stato coordinato dalla nostra Capitaneria di porto”. Migranti. Scontri sugli spari alla Ong. La Ue alla Libia: dovete spiegare di Adriana Logroscino Corriere della Sera, 27 agosto 2025 A Siracusa aperta un’inchiesta per tentato omicidio contro ignoti. Piantedosi: i soccorsi li gestisce lo Stato. Opposizioni all’attacco: ministro senza ritegno. “Il soccorso dei migranti lo gestisce lo Stato non le Ong”. Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi rivendica in modo tranchant il ruolo del governo, commentando la decisione di sottoporre la nave Mediterranea a fermo per aver disobbedito alle disposizioni del Viminale, sbarcando i migranti che aveva soccorso nel porto di Trapani, anziché in quello di Genova indicato dal ministero. L’opposizione attacca il titolare dell’Interno per non aver detto niente sugli spari, partiti da motovedette libiche, che hanno raggiunto un’altra nave impegnata nei soccorsi, la Ocean Viking. Insorgono le forze politiche di minoranza e i responsabili delle ong: “Ministro, è senza ritegno”. La Ue, intanto, chiede chiarimenti su quegli spari alle stesse autorità libiche. E si muove anche la Procura di Siracusa che apre un’inchiesta per tentato omicidio a carico di ignoti: la polizia scientifica ha eseguito i primi rilievi sulla nave e si raccolgono testimonianze. “Dobbiamo chiarire cosa è accaduto e dove”, dice la procuratrice Sabrina Gambino. La nave della ong Sos Mediterranee, Ocean Viking, domenica, mentre era in acque internazionali, è stata raggiunta da raffiche di proiettili. I colpi, di cui la nave della ong porta i segni, sono stati sparati da una motovedetta regalata alla Libia dall’Italia. A bordo della Ocean Viking in quel momento c’erano 87 migranti, quasi tutti del Sudan, 21 dei quali minori, sbarcati poi l’altra sera ad Augusta, in Sicilia. Di qui l’inchiesta aperta dalla Procura di Siracusa. Anche la Commissione Ue si attiva: “Ci siamo messi in contatto con le autorità libiche perché chiariscano i fatti riguardo a questo presunto incidente - spiega Markus Lammert, portavoce per gli Affari interni -. È ovviamente uno sviluppo preoccupante”. Non risponde, Lammert, alle domande sull’affidabilità delle autorità libiche ma ribadisce che “tutte le operazioni di ricerca e soccorso devono essere condotte nel rispetto della legge internazionale”. Il fronte politico interno è però già mobilitato. “Piantedosi dice che è il governo a contrastare i trafficanti? Il governo italiano dovrebbe ringraziare le ong”, è il monito di Riccardo Magi di +Europa. Che quindi attacca ministro ed Europa: “Piantedosi è senza ritegno. E la Commissione europea è naïf nel chiedere alla Libia di spiegare gli spari contro l’Ocean Viking. Quello libico è un regime criminale che tortura e uccide”. Anche Nicola Fratoianni, Avs, tuona: “Il ministro ha davvero faccia tosta a dire che dei migranti si occupa lo Stato, dopo aver liberato con tutti gli onori un trafficante come Almasri o dopo che assiste inerte a banditi libici, foraggiati dal suo governo, che sparano sulle navi di soccorso”. Il Pd invoca l’immediata interruzione del memorandum con la Libia, e oggi, con una delegazione di eurodeputati, parlamentari e consiglieri regionali farà un sopralluogo sulla nave sottoposta a fermo: “Il governo ha fallito su tutta la linea”, dice Antonio Nicita. Lega e FdI serrano i ranghi: “Molto bene il lavoro del governo per fermare le partenze”, sostiene Nicola Molteni, sottosegretario all’Interno. La cultura che fa paura al potere di Walter Veltroni Corriere della Sera, 27 agosto 2025 Per il nuovo potere l’informazione è un problema. Oggi si vuole togliere il bisogno di leggere, di sapere, di capire. Mariam Abu Dagga, reporter vittima dell’attacco all’ospedale di Gaza, consapevole del rischio connesso al suo lavoro, ha lasciato al figlio una bellissima lettera in cui scrive: “Voglio che tu tenga la testa alta, che studi, che tu sia brillante e distinto, che diventi un uomo che vale, capace di affrontare la vita, amore mio”. Questa donna, abituata a fissare le cose del mondo attraverso l’obiettivo di una macchina fotografica, mette così in relazione due principi da trasmettere a suo figlio, rendendoli conseguenziali: “Studia, per diventare un uomo che vale, capace di affrontare la vita”. Quella donna, insieme ad altri colleghi, è stata uccisa dal bombardamento deciso da Israele, uno Stato che rientra tra quelli in cui vige un sistema democratico. Ci sono episodi della cronaca che spesso assumono un valore simbolico, che descrivono le tendenze di uno spirito del tempo. Si può continuare a non vedere che i giornalisti, gli scrittori, l’arte, la letteratura, il teatro, il cinema e persino le università sono ormai diventati uno dei bersagli di questa stagione politica mondiale? In Florida, ha scritto il “Guardian”, lo Stato guidato dai repubblicani ha deciso di vietare centinaia di libri e di espellerli dalle biblioteche scolastiche. Sono ovviamente i volumi che riguardano le tematiche della sessualità, è in corso infatti una nuova campagna omofoba, ma persino titoli come “Il diario di Anna Frank”. Qualche giorno fa Trump ha accusato lo Smithsonian, prestigiosa istituzione museale, di privilegiare temi come lo schiavismo e le differenze sessuali e ha persino indicato un certo numero di opere d’arte da rimuovere perché non confacenti allo spirito americano fissato per decisione statale, anzi governativa. Poi il presidente si è scagliato contro le reti televisive che, a suo dire, non celebrano sufficientemente “gli otto mesi migliori nella storia”, definendo le reti “Abc” e “Nbc” “due delle peggiori e più faziose della storia” e facendo intendere che sarebbe bene che fosse revocata la loro licenza. D’altra parte giornalisti non allineati sono stati cacciati dalle conferenze stampa perché, per chi oggi siede nello Studio Ovale, la libertà dei giornali di esprimere critiche: “Deve finire. Deve essere illegale”. Così come si tagliano finanziamenti a chi disobbedisce, come è accaduto alla rete radiofonica pubblica “Cpb” o a prestigiosi atenei. Mi sono tornate alla mente le parole pronunciate all’Ahmerst College dal presidente Kennedy, pochi giorni prima di essere ucciso. Stava parlando del suo poeta preferito, Robert Frost, e disse: “Gli uomini che creano il potere danno un contributo indispensabile alla grandezza della Nazione, ma gli uomini che mettono in discussione il potere danno un contributo altrettanto indispensabile, soprattutto quando tale messa in discussione è disinteressata, perché sono loro a determinare se siamo noi a usare il potere o se è il potere a usare noi. Quando il potere conduce gli uomini all’arroganza, la poesia gli ricorda i suoi limiti. Quando il potere restringe gli ambiti di interesse dell’uomo, la poesia gli ricorda la ricchezza e la diversità della sua esistenza. L’artista, per quanto fedele alla sua personale visione della realtà, diventa l’ultimo paladino della mente e della sensibilità individuale contro una società invadente e uno Stato invadente”. Per il nuovo potere invadente la libera informazione e la libera cultura sono un problema. Il mondo che si vuole è un luogo in cui esistano solo due protagonisti: chi comanda e un popolo ridotto a consumatore passivo di fake news, se possibile orientate a favore del governo. Il potente e i followers, cioè i seguaci. Nient’ altro. Non è una storia di oggi: ogni dittatura, di ogni colore, in Urss come nella Germania degli anni trenta o nell’Italia del ventennio, ha censurato, impedito di lavorare, incarcerato chi, nella cultura o nell’informazione, non si rassegnava a piegare la testa. Il fascismo diceva agli italiani che dovevano fare solo tre cose: “Credere, obbedire e combattere”. La democrazia è nata per celebrare l’opposto: “Studiare, pensare, partecipare”. Ma il mondo non sta andando nella direzione di favorire queste tre virtù che possono essere esercitate solo se ne viene garantita la totale, assoluta libertà. Anche per questo, personalmente, non ho mai amato la cancel culture, ma preferito l’integrità della storia, con le sue spine e i suoi rovi. La cancel culture non va bene né quando è di sinistra né quando è di destra. Ma oggi il problema rischia di essere ancora più radicale. Perché non è solo una pressione dall’alto a limitare l’accesso alla cultura e al sapere o a condizionarne gli indirizzi, ma la stessa struttura cognitiva della società che ha spostato gran parte dell’uso del tempo per conoscere sugli smartphone invece che sui libri o sui giornali. Il “Washington Post” ha scritto che la percentuale degli americani che legge un libro per piacere è scesa del 40% in venti anni e il “Guardian”, parlando dell’Inghilterra, ha rivelato che è calato del 25% il numero dei genitori che sono soliti leggere ad alta voce un libro ai loro figli. Illusi di padroneggiare il mondo stiamo diventando dei semplici seguaci. Il nuovo potere e il nuovo spirito del tempo lavorano per non avere neanche bisogno di imbrigliare la libera informazione e la libera cultura. Vogliono fare di peggio: toglierci persino il bisogno di leggere, di sapere e di capire. Vogliono, per usare le belle parole di Mariam, che non siamo più capaci di “affrontare la vita”. Stati Uniti. Trump: “Pena di morte per chi commette un omicidio a Washington” di Iacopo Luzi La Stampa, 27 agosto 2025 La sua amministrazione cercherà di applicarla in tutti i casi di omicidio a Washington DC, una mossa che potrebbe incontrare non pochi ostacoli. Chi commetterà un omicidio a Washington DC potrebbe ora affrontare la pena di morte. O, per lo meno, è ciò che vorrebbe il presidente Donald Trump. “Se una persona uccide qualcuno nella capitale, Washington DC, chiederemo la pena di morte”, ha dichiarato Trump durante una riunione con il suo Gabinetto Presidenziale questo martedì. “E questa è una misura preventiva molto forte”. Allo stesso tempo, Trump guarda a una possibile estensione del controllo federale sulla capitale, con l’aiuto del Congresso. The Donald avrebbe già discusso i piani per una proroga con il presidente della Camera Mike Johnson, e ne parlerà presto con il leader della maggioranza al Senato, John Thune. Entrambi sono repubblicani. Secondo la legge, la sua autorità sul dipartimento di polizia della città scadrebbe fra poco più di due settimane, a meno che il Congresso non voti per estenderla. In quasi quattro ore di riunione-fiume del suo gabinetto - mai si era registrata una sessione così lunga alla Casa Bianca - Trump ha parlato spesso del crimine a Washington e di come questo tema sarà una questione politica vincente per il suo partito alle prossime elezioni. “Penso che la criminalità sarà il tema principale delle elezioni di metà mandato e sarà il tema principale delle prossime presidenziali”, ha affermato. Tuttavia, la sua richiesta di un uso più esteso della pena di morte a Washington potrebbe richiedere modifiche legislative e probabilmente incontrerà notevoli ostacoli sia legali che politici. Nella capitale, la maggior parte degli omicidi è perseguita secondo le leggi locali, ma i procuratori federali possono richiedere la pena di morte per determinati reati, ai sensi delle leggi degli Stati Uniti. I crimini che possono essere puniti con la pena di morte sono vari e includono alcuni tipi di omicidio di primo grado, omicidi legati al terrorismo, spionaggio, omicidi legati al traffico di droga su larga scala e omicidi di funzionari federali. Per esempio, il caso dell’uomo accusato di aver sparato a morte a una giovane coppia al Capital Jewish Museum di Washington a luglio è attualmente al vaglio del Dipartimento di Giustizia per una possibile condanna a morte. Una condanna a morte può essere imposta solo se una giuria è d’accordo, una sfida significativa per i procuratori in una città dove l’opposizione alla pena capitale è diffusa, dopo che nel 1981 venne abolita. Il desiderio di Trump di estendere la pena di morte a Washington sarebbe anche in contrasto con una tendenza nazionale. Il numero di condanne negli Stati Uniti è in costante calo da oltre due decenni, con meno di venti emesse in tutto il paese negli ultimi anni. Per quanto riguarda il controllo federale di Washington, la presenza costante per le strade della città di agenti federali e soldati della Guardia Nazionale - ora anche armati - ha rappresentato una drastica incursione della vita di chi risiede e lavora nel Distretto. Sono sempre più comuni gli episodi, spesso documentati dai cittadini, di agenti dell’Immigration and Customs Enforcement (ICE) che hanno trattenuto e deportato persone davanti a scuole e ristoranti, trasformando una città un tempo accogliente per gli immigrati senza documenti in un luogo dove è facile essere arrestati. I democratici del Congresso hanno dichiarato che si opporranno a qualsiasi mossa volta a estendere il controllo di Trump sulla città, ma non è chiaro se riusciranno a impedire alla maggioranza repubblicana in entrambe le camere di approvare la richiesta del presidente. I leader democratici della città, da parte loro, sono rimasti per lo più in silenzio, mentre il presidente afferma che, grazie a lui, la città ora è sicura. La loro speranza era che, collaborando, Trump avrebbe distolto la sua attenzione da Washington dopo un mese. Ora, tutto ciò sembra molto improbabile. Colonialismo e discariche umane, così Trump sceglie l’Africa per deportare migranti di Luca Attanasio Il Domani, 27 agosto 2025 Quest’estate è scattata la nuova strategia del presidente Usa per esternalizzare la questione migratoria, che mira ai paesi africani: prima il Sud Sudan, poi eSwatini, più di recente il Rwanda e l’Uganda, con cui la Casa Bianca ha stretto alcuni accordi. Prima il Sud Sudan, poi eSwatini (ex Swaziland), più di recente il Rwanda e qualche giorno fa l’Uganda. È scattata questa estate la nuova strategia di gestione esternalizzata della questione migratoria di Donald Trump, una controversa politica di vere e proprie deportazioni sperimentata fin dal suo primo mandato in America Latina e ora indirizzata a una serie di paesi africani. La scelta che ha visto fin qui la sigla di accordi con i quattro stati sopracitati, è stata impostata nel corso del mini vertice voluto dal presidente americano con alcuni leader africani alla Casa Bianca a luglio. L’idea iniziale è di inviare in Africa richiedenti asilo, rifugiati o immigrati condannati per vari reati, ma non esclude la possibilità di appaltare in seguito a questi stati e ad altri una gestione più complessiva del fenomeno migratorio. È la nuova tendenza dell’occidente nella gestione dei migranti: dopo aver sigillato da decenni le frontiere e fomentato percorsi illegali in mano ai trafficanti quali unica via per approdare in Europa o America, ora si sperimenta il cosiddetto outsourcing e si punta a paesi tendenzialmente poveri come luogo di destinazione di migranti, richiedenti asilo, profughi, senza riguardo per diritto internazionale e dei singoli. Il primo a immaginare questa formula fu il Regno Unito che si accordò con il Rwanda (ma senza riuscire a realizzare deportazioni), poi arrivarono altri tra cui l’Italia con il drammatico flop dell’Albania. Ora è la volta di Trump che dopo aver fatto sapere di voler prendere solo richiedenti asilo bianchi “perseguitati” in Sudafrica, stringe accordi con paesi africani volti a rendere il suo paese sempre più impenetrabile per chi voglia lì emigrare. Trump, dopo il noto taglio di UsAid che ha colpito in modo particolare l’Africa, sa che il continente vive una nuova fase di grande difficoltà nella via verso lo sviluppo e punta a prendere alcuni paesi per il collo. Come riporta Foreign Policy, con la scadenza dell’African Growth and Opportunity Act prevista per settembre e le drastiche riduzioni degli aiuti, la pressione di Washington sta mietendo accoliti. Ma assieme alle firme, piovono feroci proteste da parte della società, di politici e di varie organizzazioni che smontano gli accordi dal punto di vista giuridico, da quello economico e sul piano dei diritti umani. “L’accordo tra gli Stati Uniti e il governo di eSwatini, deciso unilateralmente dal primo ministro senza il sostegno collettivo del suo gabinetto e senza l’approvazione del parlamento, è incostituzionale, irrazionale e illegale e deve essere annullato” ha scritto il direttore dell’eSwatini Litigation Centre, Mzwandile Masuku, nell’istanza urgente presentata a metà agosto con dibattito previsto entro la fine del mese. Il piccolo paese sudafricano, sede dell’ultima monarchia assoluta d’Africa e teatro di proteste di massa soffocate nella violenza tra il 2021 e il 2022, è in fermento in queste settimane con una società civile preoccupata per l’accordo. Tra i punti critici ci sono il netto sovraffollamento delle prigioni (i deportati sono condannati in Usa ma gli stati di appartenenza rifiutano l’estradizione), la poco chiara gestione dei fondi che verrebbero erogati, ma anche questioni relative ai diritti dei cinque cittadini stranieri coinvolti e di tutti gli altri che potrebbero seguirli. Le richieste di accesso agli uomini da parte degli avvocati sono state finora rifiutate e si ritiene che non abbiano avuto contatti con alcun rappresentante legale. C’è poi un’enorme questione che l’operazione voluta da Trump sembra ignorare, pensare di inviare in Africa persone non desiderate in Usa ha il sapore di legalizzazione di discariche umane, perpetua un’idea del continente coloniale e persegue una strategia irrispettosa di ogni forma di diritto. “Gli Stati Uniti - ha dichiarato la direttrice del Southern African Litigation Centre, Anneke Meerkotter - sanno per certo che non hanno concesso alcun diritto al giusto processo alle persone che hanno imbarcato in modo disumano sui voli per i paesi terzi. La popolazione non può permettere che la regione diventi complice di tali violazioni dei diritti umani”. Ma c’è anche chi si è rifiutato decisamente di firmare l’accordo proposto da Trump. Il fermo diniego della Nigeria, il potentissimo e più popoloso paese continentale, come giustamente sottolinea Foreign Policy, fa parte di una più ampia presa di coscienza del Sud globale. Per troppo tempo ci si è aspettati che gli stati africani assorbissero gli oneri a valle della gestione delle crisi occidentali e attuassero le decisioni prese in capitali lontane, spesso in cambio dell’assistenza dei donatori. Mauritania. Capo d’accusa: andare in Europa di Nadia Addezio Il Manifesto, 27 agosto 2025 Un rapporto di Human Rights Watch denuncia il governo: torture, stupri, detenzioni arbitrarie dei migranti che attraversano il paese, “frontiera esterna” Ue. Dal 2020 a oggi, le forze di sicurezza mauritane hanno commesso gravi violazioni dei diritti umani contro le persone migranti e richiedenti asilo. Lo denuncia Human Rights Watch (Hrw) nel suo ultimo rapporto, pubblicato oggi. Secondo l’organizzazione, gli abusi sono stati aggravati dai programmi di esternalizzazione delle frontiere che Unione europea e Spagna portano avanti da vent’anni in Mauritania. L’ultimo passo è stato il partenariato migratorio dal valore di 210 milioni di euro siglato a marzo 2024. “Per anni, le autorità mauritane hanno seguito un copione repressivo di controllo migratorio, violando i diritti dei migranti africani provenienti da altre regioni”, ha dichiarato Lauren Seibert, ricercatrice Hrw specializzata in diritti dei rifugiati e dei migranti. Il rapporto They Accused Me of Trying to Go to Europe: Migration Control Abuses and EU Externalization in Mauritania analizza in 142 pagine cinque anni di violenze commesse dalla polizia, la guardia costiera, la marina, la gendarmeria e l’esercito mauritani contro migranti e richiedenti asilo. Tra le altre: torture, stupri, molestie sessuali, arresti e detenzioni arbitrarie, trattamenti razzisti, condizioni di detenzione inumane, estorsioni, espulsioni sommarie e collettive. Hrw ha osservato cicatrici e ferite sui corpi delle persone intervistate. Ha inoltre esaminato foto, video e documenti legali a supporto delle testimonianze raccolte. “Mi hanno spogliato e picchiato. Mi hanno dato scariche elettriche. Dicevano che stavo aiutando le persone ad andare in Spagna”, ha raccontato un uomo torturato dalla polizia di Nouakchott che lo accusava di traffico di migranti. L’Ong ha intervistato 77 persone provenienti da Senegal, Mali, Guinea, Sierra Leone, Camerun e Liberia, tutte vittime di violazioni dei loro diritti. A queste si aggiunge un uomo mauritano, un elemento che conferma il ruolo centrale della profilazione razziale nelle violenze. Infatti, gli afromauritani e gli Haratin - discendenti da persone rese schiave, anche noti come “mori neri” - molto spesso vivono negli stessi quartieri dove risiedono le persone migranti. Per una questione di pregiudizio razziale, le autorità mauritane ipotizzano di avere di fronte degli stranieri che stanno pianificando o intendono imbarcarsi alla volta dell’Europa. Lo ricordava un anno fa Hassan Ould Moctar, ricercatore alla School of Oriental and African Studies di Londra (Soas), in un’intervista al manifesto. Moctar allertava sul rischio di un aumento della violenza della polizia all’indomani del partenariato migratorio tra Ue e Mauritania. Sia nei confronti delle persone in transito, in arrivo dai paesi vicini dell’Africa occidentale, sia verso afromauritani e Haratin. A un anno di distanza, la previsione di Moctar si è rivelata giusta, come dimostra il lavoro di Hrw. L’organizzazione ha inviato al governo mauritano una lettera dove ha chiesto chiarimenti sul materiale raccolto. Il governo presieduto da Mohamed Ould Ghazouani ha replicato il 16 luglio, respingendo “categoricamente le accuse di tortura, discriminazione razziale o violazioni sistematiche dei diritti dei migranti”. Ha aggiunto che “nessun caso di tortura è stato formalmente accertato a seguito di indagini interne”. Sul punto, il 30 maggio, il governo mauritano ha adottato delle procedure operative standard (Sop) - come sistemi di monitoraggio per gli sbarchi e la detenzione, e un “rigoroso divieto di espulsioni collettive” - che dovrebbero migliorare la protezione delle persone migranti e dei loro diritti. Appena due mesi fa, il manifesto riportava l’ondata di espulsioni di massa iniziata a gennaio di quest’anno che si stava verificando nella Repubblica islamica. L’avvocata mauritana Fatimata M’Baye, presidente dell’Associazione mauritana per i diritti umani, denunciava che molte persone erano state gettate nell’irregolarità a causa dei documenti di soggiorno scaduti. Laddove i centri amministrativi deputati al loro rinnovo risultavano chiusi da oltre un anno. Il rapporto di Hrw segnala che le espulsioni di massa sono avvenute a prescindere dal possesso o meno dei documenti, oltre che dallo specifico status di immigrazione. Infatti, tra i 77 cittadini stranieri citati, 3 erano richiedenti asilo, 19 avevano uno status regolare, 33 irregolare. Gli altri avevano status speciali: erano maliani deportati dalla Spagna in Mauritania; o ancora, senegalesi o gambiani intercettati dalle forze mauritane. L’organizzazione segnala che gli abusi delle forze di sicurezza mauritane, uniti agli ostacoli a regolarizzarsi o a ottenere asilo, possono alimentare le partenze verso le Canarie. Secondo Frontex, fino a luglio sono state 11.575 le persone che hanno attraversato la rotta Atlantica. Il collettivo spagnolo Ca-minando Fronteras stima che, solo tra gennaio e maggio, siano morte 1.482 persone mentre percorrevano la Ruta Canaria. La sensazione è che le persone in transito siano, ora da una parte, ora dall’altra, braccate. L’escalation di arresti ed espulsioni di migranti e richiedenti asilo ha spinto le autorità mauritane ad aprire nuovi centri di detenzione a Nouakchott, nei distretti di Dar Naïm, Arafat e Sebkha. Nei centri dei distretti di Ksar e di Bagdad (a Nouakchott) e in quello di Nouadhibou, attualmente chiusi ma visitati da Hrw tra il 2020 e il 2024, sono state documentate condizioni inumane e precarie. Se quello di Ksar è in fase di ristrutturazione per adeguarlo alle procedure Sop, quelli di Nouadhibou e Bagdad sono stati già ristrutturati con fondi europei. Dovrebbero riaprire a settembre e accogliere esclusivamente persone intercettate o soccorse in mare. Assumeranno, quindi, la forma di Centri di accoglienza temporanea degli stranieri (Cate). Quali ne saranno le effettive sorti, sarà tutto da vedere. Intanto la Commissione europea, contattata da HRW, ha affermato che “le azioni esterne sono saldamente radicate in un approccio basato sui diritti umani (Human Rights Based Approach, Hrba)”. L’Ue ha rinnovato a maggio l’Hrba e, a tal proposito, ha ribattuto di averne rafforzato le linee guida interne sulla sua applicazione ai partenariati internazionali. Ha detto inoltre di aver previsto “obblighi più chiari per il rispetto dei valori dell’Ue da parte delle sue parti contrattuali, nonché per segnalare entro 30 giorni”. Ma come le persone che hanno subìto violenze permanenti, nell’animo come nel corpo, potranno essere risarcite? Questo è un quesito che non viene affrontato dalle istituzioni europee, tantomeno dal governo mauritano. “Un poliziotto ci minaccia - dice che se non diamo soldi, saremo espulsi. Costringe anche le donne a dormire con lui o (in alternativa, ndr) la deportazione”, ha dichiarato a Hrw una donna senegalese di 43 anni senza documenti che lavorava in un ristorante a Zouérat, nel nord del paese. L’organizzazione ha documentato 9 casi di stupro commessi dalla polizia mauritana: otto donne e un uomo.