L’economia civile fa il suo ingresso nei penitenziari contro la recidiva di Tamara Esposto Il Riformista, 26 agosto 2025 Trasformare il carcere da luogo di segregazione a spazio di rinascita. Questo l’obiettivo di “Recidiva Zero”, il progetto promosso dal CNEL con il Ministero della Giustizia e il Ministero del Lavoro per abbattere il tasso di recidiva, oggi al 70%, attraverso scuola, formazione e lavoro. Martedì scorso, durante la seconda giornata nazionale dedicata al progetto, il CNEL ha siglato un protocollo d’intesa con sedici organizzazioni datoriali per rendere il reinserimento lavorativo dei detenuti una politica strutturale, capillare nei 189 istituti penitenziari italiani. La pena deve rieducare, recita l’articolo 27 della Costituzione. I dati lo dimostrano: la recidiva precipita al 2% per chi accede a percorsi di formazione e lavoro durante o dopo la detenzione. Eppure, su 60mila detenuti, solo un terzo è coinvolto in attività lavorative, spesso poco qualificate e senza prospettive solide. Con un costo annuo del sistema carcerario di oltre 3 miliardi di euro, “Recidiva Zero” propone un cambio di paradigma: non solo giustizia, ma un investimento economico per ridurre i costi sociali della criminalità. A raccogliere con forza la sfida c’è anche Assocontact, l’associazione che rappresenta le principali aziende italiane di Business Process Outsourcing (BPO). “Il progetto Recidiva Zero è concreto e visionario allo stesso tempo, capace di generare un impatto sociale reale e duraturo”, ha detto il presidente Lelio Borgherese a margine dell’evento al CNEL, in cui, oltre al presidente Renato Brunetta, hanno partecipato i ministri Nordio e Calderone. “Il nostro settore - ha proseguito - ha le carte in regola per offrire opportunità qualificate: infrastrutture digitali consolidate, flessibilità organizzativa, processi standardizzati e formazione continua a distanza. E lo sarà ancora di più appena sarà approvata la pdl 1316, a prima firma Longi, sul riordino e rilancio del settore. Offrire lavoro significa restituire ruolo, speranza e dignità a ogni individuo, qualunque sia la condizione di partenza”. Borgherese sottolinea la capacità del comparto dei contact center di creare un ponte tra carcere e società: “Il richiamo di Brunetta al contributo del BPO è forte e condivisibile. Rispondiamo con entusiasmo e responsabilità”. Il protocollo impegna le parti a monitorare i fabbisogni del mercato (il Ministro Calderone ha fatto molto opportunamente notare che “abbiamo bisogno di almeno 1,4 milioni di lavoratori in più”), creare una banca dati domanda/offerta e riattivare spazi produttivi inutilizzati nelle carceri. Tra gli strumenti, spicca il Sistema Informativo per l’Inclusione Sociale e Lavorativa (SIISL), piattaforma digitale del Ministero del Lavoro e INPS, che grazie all’IA abbina curricula a offerte di lavoro ed è già in sperimentazione presso alcuni istituti di pena. Il progetto, insomma, punta a fare del lavoro in carcere una priorità nazionale. E se un percorso professionalizzante può essere la leva opportuna per scardinare il meccanismo della recidiva, settori come quello dei contact center sembrano pronti a fare la loro parte. Con pragmatismo e senza retorica, la scommessa è trasformare il carcere da costo passivo a incubatore di capitale umano. E da luogo delle ombre a officina di futuro. Sisto: “Necessaria cultura del lavoro nelle carceri” askanews.it, 26 agosto 2025 “C’è la necessità di creare innanzitutto una cultura del lavoro all’interno delle carceri. Significa cambiare prospettiva”. Il viceministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto, ha illustrato ad askanews al Meeting di Rimini le iniziative per migliorare le condizioni carcerarie e ridurre la recidiva. “Norme, finanziamenti, progetti certo servono, ma ci vogliono persone che credono in questi progetti e diano al detenuto la contezza che partecipare a questi percorsi è fondamentale ai fini della propria salute fisica, psichica, ma anche della prospettiva post carcere”, ha spiegato Sisto annunciando un importante provvedimento governativo. “L’11 agosto c’è stato comunicato un decreto del Ministero della Giustizia con cui vengono utilizzati fondi europei di sviluppo regionale per decine di milioni di euro su progetti in tutte le regioni proposti dagli istituti e dalle regioni e ratificati dai provveditorati. Avremo interventi su strutture da risistemare, immobili demaniali da adibire a residenze anche temporanee di detenuti che abbiano necessità di sedi trattamentali. Abbiamo soprattutto tanti corsi di preparazione per i nostri detenuti: forni per la panificazione e pasticceria, corsi di sartoria, di estetisti”, ha dettagliato il viceministro. Per potenziare ulteriormente questi interventi, Sisto ha evidenziato l’importanza del coinvolgimento privato: “Il privato ha potenzialità che consentono di scrivere percorsi che il pubblico da solo non è in condizione numericamente di proporre. Ci vuole un grande gioco di squadra fra imprenditori, ministero e operatori della struttura carceraria”. “Bisogna aggiungere a questo gioco di squadra lo spirito, la spiritualità all’interno delle carceri. La Corte Costituzionale dice che lo Stato ha l’obbligo di offrire percorsi rieducativi. Il detenuto può o meno aderire. Su quel ‘può aderirè bisogna lavorare, fare in modo che comprenda che il lavoro - rischio recidiva al 2% - è davvero l’unica possibilità di redenzione vera”, ha concluso Sisto, evidenziando come “sdegno e depressione sono i due fenomeni che dobbiamo evitare” nelle carceri perché “le nostre carceri non sono un mondo diverso rispetto a quello che è fuori dal carcere”. Il lavoro avvia al reinserimento, ma solo il 10% delle carceri lo permette di Carlo Ciavoni La Repubblica, 26 agosto 2025 Su 200 Istituti di reclusione italiani, solo in 20 i detenuti riescono a lavorare e ad imparare un mestiere. È come se favorire la rieducazione fosse un insulto alla Costituzione. Nelle carceri italiane è solo dal lavoro che può cominciare una nuova strada verso il reinserimento, la rieducazione, il riscatto: un lavoro che però deve essere vero, serio. È un concetto semplice, questo, eppure nei luoghi di reclusione è applicato solo in casi rarissimi, come se far lavorare i detenuti e permettere loro magari di imparare un mestiere fosse un’offesa alla nostra Costituzione, che invece nell’articolo 27, comma 3 dice che “le pene non possono essere contrarie al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Solo 20 su 200 case di pena permettono di lavorare. È sostanzialmente di questo che al Meeting di Rimini parla Stefano Gheno, presidente CDO Opere Sociali a margine dell’incontro dal titolo: “Il valore del lavoro per chi sconta la pena”. Un dato: su circa 200 istituti di pena italiani, solo una ventina hanno le caratteristiche che consentono lo svolgimento di attività lavorative. Secondo Gheno “se si vuole affrontare realmente il tema del lavoro all’interno delle carceri occorre una forte semplificazione burocratica. L’attuale situazione complica e rende difficile il coinvolgimento di realtà che, per vocazione o per interesse professionale, desiderano offrire opportunità di lavoro a persone ristrette”. I tre aspetti fondamentali. 1) - Favorire una sussidiarietà vera utilizzando lo strumento dell’amministrazione condivisa per un partenariato virtuoso tra Terzo Settore, imprese sociali e amministrazione penitenziaria. 2) - Nelle carceri si trovano spesso persone che dovrebbero essere in luoghi di cura. Ciò rappresenta un danno all’inclusione lavorativa perché si tratta di persone che non sono in grado di lavorare. Dunque è urgente cominciare a conoscere meglio le persone in stato di detenzione perché i dati che ci sono non permettono un buon accoppiamento tra domanda e offerta di lavoro. 3) - Bisogna pensare e rendere concrete offerte per lavori veri, con contenuti reali, spendibili sul mercato. Lavori che generano soddisfazione. È dimostrato da quanto sia virtuoso iniziare un’attività lavorativa in carcere con una cooperativa e procedere con la stessa realtà produttiva anche al termine del periodo di detenzione. È la condizione ideale per l’abbassamento della recidiva e per la continuità lavorativa della persona. Un contratto di lavoro a “causa mista”. Sarebbe dunque utile - ha ribadito, in sostanza, Gheno - promuovere la definizione di un contratto di lavoro a causa mista, come è già per l’apprendistato, tenendo conto delle peculiarità del mondo carcerario. Così si potrà generare lavoro non solo vero, ma capace di funzionare e di dare soddisfazione alla persona ristretta”. Quei 15mila detenuti presunti innocenti che il Fatto vuole in cella di Valentina Stella Il Dubbio, 26 agosto 2025 La polemica “estiva” del giornale di Marco Travaglio contro il governo arriva in piene emergenza sovraffollamento e suicidi. In queste giornate di stasi parlamentare si continua comunque a parlare di temi legati alla giustizia. In particolare della custodia cautelare. È di ieri, ad esempio, la polemica sollevata dal Fatto Quotidiano con l’articolo dal titolo “Governo pro colletti bianchi: manette (ancora) più difficili”. A finire del mirino l’abrogazione, giusto un anno fa, del reato di abuso di ufficio, l’introduzione dell’interrogatorio preventivo come rafforzamento delle prerogative della difesa, il gip collegiale per decidere delle misure cautelari, che dovrebbe entrare in funzione dal 2026. In particolare poi il giornale diretto da Marco Travaglio ha puntato il dito contro il vice ministro alla Giustizia Francesco Paolo Sisto e il deputato di Forza Italia Enrico Costa. Le loro colpe? Proporre iniziative per ridurre la carcerazione preventiva che banalmente significa una cosa sola: essere in carcere in attesa di una sentenza definitiva. Il primo, in una intervista al Sussidiario di tre giorni fa, ha detto: “Lavoriamo a una rilettura più certificata della custodia cautelare: il 15- 20% dei detenuti è in questa condizione, una categoria molto ampia. Se riuscissimo a ridurre anche quest’ultima percentuale, potremmo garantire ai detenuti spazi più dignitosi”. Siamo andati a prendere i numeri nel dettaglio: secondo le statistiche del ministero della Giustizia, al 31 luglio 9021 reclusi sono in attesa di primo giudizio, 5877 i condannati non definitivi (appellanti, ricorrenti). Quindi su 62569 ristretti, 14898 detenuti, pari al 23,81 per cento del totale, stanno vivendo una condizione di privazione della libertà seppur presunti innocenti. Per mettere un freno al presunto abuso di tale strumento è in corso un dibattito parlamentare e lo stesso Carlo Nordio ha istituito a Via Arenula nel 2023 la commissione Mura per la riforma del processo penale che dovrà occuparsi anche di questa questione. I lavori sono in corso. Il tema è un vecchio pallino del Guardasigilli che - ricordiamo - prima di prendere in mano le redini del Dicastero era stato presidente del comitato del Sì ai referendum “giustiziagiusta”, promossi da Lega e Partito radicale, che puntavano, tra l’altro, a contrastare proprio l’abuso della custodia cautelare in carcere. Lo stesso Nordio in Aula ha più volte ripetuto che “il principio costituzionale della presunzione di innocenza, principio fondativo del processo accusatorio, deve valere, a maggior ragione, in via anticipata per la fase cautelare”. È evidente, infatti, come tutte le esigenze cautelari pongono un problema di compatibilità con la presunzione d’innocenza, e quella che appare in più stridente contrasto con essa è proprio il rischio di reiterazione del reato. Per questo il governo, e tra i partiti di maggioranza Forza Italia in primis, sta lavorando per rivedere la normativa vigente. I fronti su cui si stanno svolgendo valutazioni e approfondimenti sono due: valutazione dello status di incensurato per garantire una maggiore attenzione nel comminare il carcere preventivo a chi non si è mai macchiato di un reato e abolizione della custodia cautelare in presenza del requisito della reiterazione del reato. “L’abuso della custodia cautelare, in carcere e ai domiciliari, è sotto gli occhi di tutti - ci dice Enrico Costa -. Una misura molto spesso non necessaria, posta in essere per accendere i riflettori su una inchiesta. Due sono gli interventi da mettere in campo: sicuramente uno processuale, sull’esigenza cautelare del pericolo di reiterazione del reato, su cui oggi si fondano prognosi impalpabili, generiche e fumose”. L’altro - aggiunge il parlamentare della commissione Giustizia di Montecitorio - sulla responsabilità di chi priva ingiustamente della libertà una persona. Subire un arresto ingiusto è un marchio indelebile nella vita di una persona. Sulla carriera di chi ha arrestato ingiustamente non solo non resta un marchio indelebile, ma neanche un asterisco nel fascicolo personale”. Sempre tra gli azzurri era stato anche Tommaso Calderone a sollecitare una riforma del codice di rito in tal senso, in particolare prospettando una rivalutazione dopo 60 giorni del carcere preventivo da parte del giudice in particolari condizioni. Insomma la volontà c’è tutta da parte della maggioranza, bisogna solo sperare che il primario raggiungimento della vittoria al referendum sulla separazione delle carriere non freni l’accelerazione su queste modifiche. Edilizia penitenziaria, spese sottostimate e il bando è da rifare di Eleonora Martini Il Manifesto, 26 agosto 2025 Il piano per aumentare i letti con moduli prefabbricati costa 12 milioni in più. Gara d’appalto cancellata e sostituita. Nuova procedura per 45,6 milioni di euro. In fumo i posti promessi entro l’anno. Avevano fatto i conti senza l’oste - è proprio il caso di dirlo - il ministro della Giustizia Carlo Nordio, il Dap e il Commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria Marco Doglio, quando giusto cinque mesi fa annunciarono “l’avvio di una gara pubblica per la costruzione di 384 nuovi posti detentivi entro il 2025”, per un “importo complessivo di 32 milioni di euro”. Una cifra decisamente ragguardevole, per “la progettazione, la fornitura e l’installazione” di 16 blocchi detentivi prefabbricati da installare all’interno delle cinta murarie di nove istituti penitenziari italiani, eppure non sufficiente. Dopo la scadenza del bando prevista per il 10 aprile, rifatti i conti con le imprese che avevano manifestato interesse nel primo avviso pubblico del 21 marzo, l’impatto con la realtà del mercato ha infatti mandato tutto a monte. Conti sbagliati di ben 12 milioni di euro (in più, naturalmente). Il commissario Doglio è costretto ad annullare il bando. E a ricominciare tutto da capo. Perciò Invitalia, che gestisce le gare in qualità di Centrale di Committenza e che già il 10 marzo aveva pubblicato una dettagliata “Relazione tecnico illustrativa preliminare” sui blocchi di detenzione, il 18 agosto ha lanciato una nuova procedura (non ristretta, a differenza della prima, ma rivolta a tutti stavolta) del valore complessivo di 45,62 milioni di euro. E il limite per la risposta delle imprese è fissato al 25 settembre 2025. Non si tratta di una procedura accelerata e la durata stimata per la messa in opera è di 48 mesi. È evidente, a questo punto, che per assistere alla realizzazione del nuovo piano di edilizia penitenziaria - che secondo il governo di ultradestra sarebbe la soluzione all’emergenza sovraffollamento (aumentato, in questi cinque mesi) - possiamo metterci comodi. O scomodi, se malauguratamente si è ospiti delle pubbliche galere che in cento posti letto stipano attualmente in media 133 detenuti. Ancora ad aprile scorso, però, a Palazzo Chigi spergiuravano che non ci sarebbero stati ritardi sul progetto, pena le ire di Giorgia Meloni in persona; e giusto un mese fa, prima delle ferie estive, Nordio festeggiava l’approvazione in Cdm del piano “per la restituzione e la creazione di 9.696 posti detentivi aggiuntivi in tre anni”. Già era arrivata però, a maggio, la reprimenda della Corte dei Conti che con una delibera di oltre 240 pagine aveva messo in guardia l’esecutivo sulle “inadempienze contrattuali da parte delle imprese”, sui “mutamenti repentini delle esigenze detentive rispetto al passo dei lavori” e sulle “carenze nei finanziamenti necessari per attuare le modifiche progettuali” che solitamente mandano in tilt tutti i piani di edilizia penitenziaria. E aveva intimato al commissario Doglio di non sforare in alcun modo le previsioni, chiedendogli di ricontrollare accuratamente “cronoprogrammi procedurali e finanziari”. La “simulazione” di marzo, come la chiamano a via Arenula dove la questione viene presa con sportiva nonchalance, ha costretto il commissario a riscrivere il bando. La procedura prevede la divisione in tre lotti: il primo è per l’ampliamento delle carceri di Alba, Milano e Biella (il feudo del sottosegretario Delmastro) con un costo totale di oltre 14,5 milioni di euro; il secondo da 16,2 milioni circa riguarda il “Centro nord” con i moduli prefabbricati da installare nei penitenziari de L’Aquila, Reggio Emilia e Voghera; mentre il lotto “Centro sud” prevede una spesa di circa 15 milioni per aggiungere con i moduli posti detentivi a Frosinone, Palmi e Agrigento. Pochi giorni prima, il 13 agosto, il commissario Doglio tramite Invitalia ha lanciato altre tre gare “per la riqualificazione e l’ampliamento” di altrettanti istituti: Santa Maria Capua Vetere, con un appalto dal valore di circa 4,9 milioni di euro; Castelfranco Emilia, in provincia di Modena, per “circa 1,5 milioni di euro”, e il carcere di Trani la cui ristrutturazione vale - sulla carta - 3,8 milioni di euro. In questo caso le imprese hanno tempo per la presentazione delle offerte fino al 16 settembre. Ma quella che il Commissario Doglio definisce “una risposta concreta e strutturata al grave problema del sovraffollamento carcerario che affligge l’Italia da anni” arriva evidentemente - a voler essere ottimisti - con grave ritardo e monca. Perché nel frattempo, per usare le parole dell’illustre detenuto Gianni Alemanno prese in prestito dal suo ultimo diario di bordo, “il sovraffollamento delle carceri uccide gli agenti della penitenziaria come le persone detenute”. L’ultimo, sabato scorso, a Cremona, un detenuto quarantenne è morto per inalazione di gas. Un probabile suicidio, secondo il sindacato UilPa che riferisce: “Nel carcere di Cremona sono ammassati ben 563 ristretti in soli 384 posti disponibili, mentre si contano 187 operatori di polizia penitenziaria assegnati, quando ne servirebbero almeno 335”. E ampliando gli istituti, ne occorrono ancora di più. Forse, però, è ancora presto per dei conti fatti bene anche in questo campo. I sogni interrotti dal carcere, viaggio tra i minori in cella di Diana Ligorio Il Domani, 26 agosto 2025 Casal del Marmo è il penitenziario minorile romano. Molti sono migranti arrivati da soli nel nostro Paese. L’operatrice: “Non hanno un progetto migratorio chiaro”. La differenza tra sezioni maschile e femminile. Bisogna superare il quartiere del tribunale penale e salire lungo le pendici del Monte Mario per sbucare in un territorio asettico, livellato da un cielo basso e nascosto allo sguardo della città: il carcere minorile di Roma. “Alt farsi riconoscere” è la prima scritta che si incontra, fatta a mano con un pennarello, come per gioco, sul vetro di un vecchio gabbiotto dismesso. L’entrata è in un edificio di mattoncini rossi che sembra immune al passare del tempo. Nella sala d’attesa, sedie di plastica e armadietti con le bocche spalancate. Qui in altri orari e altri giorni attendono il loro turno i parenti in visita. Gli avvisi sulla bacheca raccontano una storia di nutrimenti che passa dalle mani della famiglia a quelle del controllo. “Si ribadisce che è possibile portare ai congiunti ristretti pacchi con generi alimentari e/o di vestiario consentiti per un tot di kg 20 al mese divisibili in n.4 pacchi totali”. E ancora: “Si avvisano i familiari dei minori ristretti che i generi alimentari verranno aperti a campione per controlli più approfonditi e inoltre non saranno più consentiti generi non ispezionabili (biscotti tipo gocciole, galletti, pan di stelle, ecc.)”. L’aggettivo “ristretto” passa dallo spazio al corpo del minore che lo restringe, lo fa piccolo, adattandolo alle pareti di un luogo dove le stelle non possono entrare. Nemmeno di zucchero. Il giorno precedente al mio primo ingresso nel carcere minorile, mi rompo un piede. La frattura, penso subito, mi richiede di entrare in questo posto con un altro passo. Asimmetrico, trascinato, incerto. Il giorno della visita chiamo un taxi. Arriva Christian, che diventerà il mio Caronte in questo viaggio dal mondo fuori al mondo dentro. Christian è separato, ma lui e la moglie sono uniti per curare la serenità dei figli. Con i ragazzi è un attimo, dice, e le loro strade possono svicolare: “Non esistono le buone famiglie, dentro al minorile ci possono finire anche i figli nostri”. Pago, prendo un bigliettino dal cruscotto e prima di lasciare la mia borsa nell’armadietto, salvo il numero di Christian. La sua immagine su WhatsApp è una foto di Dostoevskij. Quando incontrai nei suoi uffici Antonio Sangermano, capo del dipartimento per la giustizia minorile, per richiedere l’autorizzazione al mio ingresso in carcere, gli comunicai il mio interesse nel fare un’indagine sulla condizione umana dei minori detenuti, una prospettiva attraverso cui esplorare la libertà individuale, i dilemmi esistenziali, i contesti familiari e sociali di provenienza. La mia intenzione era guidata dal pensiero di Dostoevskij. Dall’altra parte del tavolo avevo di fronte un profondo conoscitore dello scrittore russo. C’è una frase, in Delitto e castigo, che mi ha accompagnata durante il primo tragitto in taxi verso il carcere: “Tutto dipende dalle circostanze e dall’ambiente in cui si trova l’uomo. Tutto è determinato dall’ambiente, l’uomo per se stesso non è nulla”. La sezione degli uffici nel minorile è un corridoietto con porte sempre aperte. Un via vai di persone, che si scambiano fogli, si toccano, si parlano. Un odore di caffè arriva da un baretto modesto anni Ottanta con sedute in vimini dove il cappuccino costa 90 centesimi e il gestore sta attento che i poliziotti della penitenziaria varino la loro alimentazione: “Non potete mangiare ogni giorno panino col prosciutto”. La stanza di Elisabetta Ferrari, coordinatrice degli educatori, è un caos, non solo di persone che le chiedono cose, ma anche di libri, vocabolari, tabelle con nomi, attività e mollette che sorreggono il tutto e alle pareti mandala stampati su fogli di carta sottile. Tutto trova posto, ma è in continuo movimento. La sensazione è di una precarietà che mette in discussione gli spazi e chi li abita e che è sempre in trasformazione. Ma non per l’arredo su cui il tempo sembra essersi fermato. Nell’Istituto penale minorile Casal del Marmo ci sono 48 maschi e 6 femmine, divisi in tre plessi. Hanno dai 15 ai 23 anni. Nel maschile la pena in media è di un anno, un anno e mezzo. Nel femminile invece i reati sono più lunghi. Un folto gruppo del maschile è formato dai minori stranieri non accompagnati. “Se il minorile di Milano è caratterizzato dalle seconde generazioni di immigrati e quello di Napoli dalla criminalità organizzata”, dice Giuseppe Chiodo, direttore dell’IPM, “Casal del Marmo è una sorta di laboratorio per l’accoglienza e la gestione dei minori stranieri non accompagnati a cui sono imputati reati”. Anche il carcere minorile di Torino, trovandosi sulla linea di Ventimiglia, ha una tradizione in questo senso, ma con un’organizzazione più stabile nell’accoglienza. Roma invece è approdo di chi dalla Sicilia cerca di raggiungere il Nord. “Dal punto di vista umano l’IPM di Roma è un’altra cosa”, dice Ferrari. “Ha un’accoglienza più fluida che parla di un fenomeno del tutto e nulla. Siamo in presenza di un gruppo che non ha un’identità. È qualcosa che si muove e noi ci muoviamo insieme a loro. Non hanno un progetto migratorio chiaro, stanno sperimentando un sogno e in alcuni casi sulla loro strada incontrano il reato. Questi ragazzi hanno la forma dell’acqua”. Nella sezione femminile il quadro cambia radicalmente. Un ragazzo che sta dentro per rapina ne ha commesse almeno tre prima del reato per cui è stato condannato. La ragazza che sta dentro invece ha commesso solo quel crimine. Nel femminile ci sono reati molto gravi come omicidi o reati contro il patrimonio. “La maggior parte di queste ragazze proviene da storie di disagio familiare e personale, acuito dall’essere adolescenti”, dice Chiodo. “Hanno alle spalle famiglie disfunzionali e disgregate. Manca un genitore o ci sono rapporti familiari conflittuali”. “Il reato come espressione del loro star male diventa una forma comunicativa”, secondo Ferrari. Diverso è invece, a seconda della pena, il senso che i ragazzi danno al tempo da scontare in carcere: “Chi ha pene lunghe sogna il fuori: ha la prospettiva di costruire una vita partendo dall’esperienza dentro. Ad esempio, studiando”. L’educatrice riporta la sua esperienza di molti anni a contatto quotidiano con i minori: “In questi casi il fuori viene visto in positivo. Chi invece ha una pena breve, vive male sia il fuori sia il dentro. Il fuori è una realtà identica a quella che ha lasciato. Il dentro è un parcheggio. Non si costruisce niente”. Il carcere è per loro come una bolla. “Chi ha pene brevi alla domanda: qual è il tuo desiderio? La risposta è: non ce l’ho”. Propongo al direttore e all’educatrice di incontrare i ragazzi e le ragazze per raccontare i miei romanzi che hanno al centro il tema del sentirsi invisibili. Partirei dalla mia esperienza per provare poi a intercettare la loro: si sono mai sentiti non visti durante la loro infanzia e adolescenza? E adesso che sono in carcere? Ferrari e Chiodo si scambiano un’occhiata. “Chi sta qui dentro ha spesso molta difficoltà di introspezione”, sorride l’educatrice. “Se chiedi a uno di loro come sta, ti risponde: normale. E in quel normale c’è chissà quale tumulto. Un ragazzo, a cui ho chiesto come stesse tutte le volte che l’ho incontrato, solo dopo sei mesi è riuscito a dirmi: oggi sono arrabbiato!”. La sera scrivo un messaggio a Elisabetta. Mentre digito “questa ricerca dentro l’IPM”, il telefono corregge in automatico IPM con uomo. Il messaggio diventa: “Ti ringrazio per la tua disponibilità nell’accompagnarmi in questa ricerca dentro l’uomo”. Dentro l’uomo è diventata poi, in effetti, la mia indagine nel carcere minorile di Casal del Marmo. Caos scarcerazioni, il Dap non ha la lista dei boss in permesso premio di Salvo Palazzolo La Repubblica, 26 agosto 2025 Da sei mesi, la Commissione parlamentare antimafia e la Direzione nazionale antimafia stanno provando ad ottenere dal Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, la lista completa dei boss ergastolani andati in permesso premio. Ma un elenco completo non è stato ancora fornito, semplicemente perché non c’è. Insomma, regna il caos in una materia così delicata. E le conseguenze si sono viste: il ritorno a Palermo di pericolosi mafiosi come Raffaele Galatolo o Ignazio Pullarà non è stato comunicato dai tribunali di sorveglianza alla direzione distrettuale antimafia. I rischi si possono immaginare. Per giorni, mafiosi di calibro non sono stati controllati, monitorati. Così, potrebbero anche aver incontrato i complici vecchi e nuovi. Perché - per restare a Galatolo e Pullarà - l’Acquasanta e Santa Maria di Gesù restano territori permeati da una pesante presenza criminale. E quei cognomi pesano ancora, nonostante le valutazioni dei tribunali di sorveglianza che considerano i due anziani padrini come dei detenuti modello. Lo saranno pure detenuti modello (in realtà, tutti i mafiosi lo sono), ma restano degli irriducibili, con tanti segreti mai svelati. Ma torniamo alla lista che non c’è. Dopo svariate sollecitazioni, il Dap ha inviato un elenco lunghissimo di nomi, sono tutti i detenuti scarcerati negli ultimi mesi. Per fine pena, per motivi di salute e anche per permessi di vario tipo. In questo lungo elenco, non è neanche chiaro il motivo della scarcerazione. Come dire, caos su caos. Con un ulteriore paradosso, già denunciato da “Repubblica”: la lista degli scarcerati è stata classificata dal Dap come segreta. Evidentemente, per il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria i provvedimenti emessi dall’autorità giudiziaria sono riservati. Insomma, al danno la beffa di un segreto su una materia che invece avrebbe bisogno del massimo di pubblicità: i dati sugli scarcerati dovrebbero essere condivisi il più possibile. Non solo tra le forze dell’ordine e la magistratura, ma anche nella società civile. Per le finalità più diverse, dal dibattuto sulla sicurezza allo studio, la ricerca, in questa fase nuova della lotta alla mafia caratterizzata dal ritorno di nomi di primo piano dell’organizzazione mafiosa. E, allora, se la lista del Dap è segreta, gli unici nomi di cui sappiamo restano quelli svelati dall’inchiesta di “Repubblica”: l’ultimo a fare qualche giorno di vacanza a Palermo è stato Salvatore Rotolo, il killer del professore Paolo Giaccone. Pure lui in permesso premio. Com’è noto, dal 2019, anche i boss posso accedere ai benefici penitenziari, così ha stabilito la Corte Costituzionale. È sufficiente che vengano escluse due circostanze: “L’attualità della partecipazione all’associazione criminale” e poi anche “il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata”. La Cassazione ha poi ribadito che è necessario un altro parametro importante: i boss devono dare prova di avere risarcito le loro vittime. Ma è il paramento meno rispettato: tutti i boss dicono infatti di essere nullatenenti per i sequestri subiti. Per certo, il problema più urgente resta quello del monitoraggio dei provvedimenti adottati. Nel passato, le comunicazioni sui permessi premio sono state curate dagli “uffici matricola” dei penitenziari, che hanno inviato fax o email alle stazioni dei carabinieri o alle questure del territorio. Una comunicazione parcellizzata, senza una visione d’insieme. È il motivo per cui oggi non esiste una banca dati dei mafiosi che escono dal carcere in permesso premio. Eppure, basterebbe una semplice App per geolocalizzare i mafiosi temporaneamente scarcerati sul territorio. Una App gestita dal Dap, aggiornata in tempo reale, a disposizione delle procure distrettuali antimafia e delle forze dell’ordine impegnate sul territorio. Uno strumento utile per la prevenzione, ma anche per le indagini: la mappa dei mafiosi in permesso premio andrebbe infatti incrociata con quella dei boss definitivamente scarcerati perché hanno finito di scontare il loro debito con la giustizia. A Palermo, ce ne sono di pericolosi in libertà: Calogero Lo Piccolo a Tommaso Natale, Giovanni Sirchia a Passo di Rigano, Tommaso Di Giovanni a Porta Nuova. È un momento davvero delicato per la lotta alla mafia e i boss continuano ad avere un’idea fissa: riorganizzare Cosa nostra. La giustizia e il fantasma di Gelli di Rinaldo Romanelli* L’Altravoce, 26 agosto 2025 La separazione delle carriere era “Il sogno di Licio Gelli” ed infatti era prevista nel suo “piano di rinascita democratica”, sequestrato il 4 luglio 1981 in un doppio fondo di una valigia di Maria Grazia Gelli, figlia del “venerabile” e successivamente pubblicato negli atti della Commissione Parlamentare di inchiesta sulla loggia massonica P2, presieduta da Tina Anselmi. Si tratta di un argomento utilizzato, a rotazione, da molti per screditare la riforma costituzionale della magistratura in corso di approvazione in Parlamento. Senza pretesa di completezza, lo hanno a più riprese detto o scritto Caselli, Travaglio, Conte (e un numero imprecisato di appartenenti al Movimenti 5 Stelle), Di Matteo e qualche altro magistrato più o meno autorevole a titolo personale. Fin qui poco male. Si tratta di una suggestione di basso livello, che evidentemente nasconde l’incapacità di utilizzare qualche argomento critico più efficace, alla quale, restando sullo stesso piano di superficialità, basterebbe rispondere che anche la riduzione del numero dei parlamentari era espressamente prevista nel “piano” del Gran Maestro e proprio su proposta del governo Conte, è stata approvata nel 2019, in seconda lettura alla Camera, con una maggioranza bulgara (553 favorevoli, 14 contrari, 2 astenuti). Tutti d’accordo insomma. Quando però la medesima affermazione viene veicolata direttamente dalla Associazione Nazionale Magistrati, sui propri canali social, attraverso le dichiarazioni del rappresentante dell’Associazione tra i familiari delle Vittime della Strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, appare doveroso ristabilire la verità dei fatti e, al contempo, porsi qualche domanda. Il “piano” di Licio Gelli, com’è noto era un progetto eversivo che mirava al controllo delle istituzioni democratiche, inclusa la magistratura, attraverso una serie di azioni volte alla destabilizzazione del sistema politico e sociale italiano. Prevedeva espressamente al primo punto del programma relativo all’ordinamento giudiziario: “unità del Pubblico Ministero (a norma della Costituzione - articoli 107 e 112 ove il P. M. è distinto dai giudici)”. Nessuna differenza, dunque, tra Giudici e Pubblici Ministeri, ovvero esattamente il contrario di quello che prevede la riforma Nordio, secondo la quale la separazione delle carriere si realizza con la creazione di due Consigli Superiori della Magistratura, e quindi, una netta divisione delle organizzazioni dei magistrati d’accusa e dei Giudici. Al secondo punto è prevista poi: “responsabilità del Guardasigilli verso il Parlamento sull’operato del P. M. (Modifica costituzionale)”. Responsabilità che presuppone, ovviamente, un Pubblico Ministero alle dirette dipendenze del Ministro. La riforma, al contrario, assicura espressamente l’autonomia e l’indipendenza del P.M. (esattamente come quella del Giudice) da ogni altro potere. Immagina poi il Venerabile la: “riforma del Consiglio Superiore della Magistratura che deve essere responsabile verso il Parlamento (modifica costituzionale)”. Il P.M. dipende dal Ministro della Giustizia e il C.S.M. (unico) risponde del proprio operato al Parlamento e così viene totalmente cancellata l’autonomia e indipendenza di tutta la magistratura, requirente e giudicante. Qualcuno può seriamente sostenere che queste linee programmatiche abbiano qualcosa a che fare, anche in lontananza, con la riforma costituzionale della magistratura di cui si discute? Certo è vero che nel “piano”, tra l’altro è scritto anche “separare le carriere requirente e giudicante”, locuzione che, letta alla luce di passaggi sopra riportati significa, con tutta evidenza, semplicemente escludere la possibilità di passare dalla funzione giudicante a quella requirente e viceversa, cosa che è già stata in larga parte realizzata nel 2007 e resa ancora più difficile dalla riforma “Cartabia”, approvata nel 2022 dal Governo Draghi sostenuto da: Movimento 5 Stelle, PD, + Europa, Italia Viva Forza Italia e articolo Uno. Tutti d’accordo insomma (tranne Fratelli d’Italia). I responsabili della comunicazione di A.N.M. che associano il “piano” del Gran Maestro alla riforma Nordio, dunque, non lo hanno letto? O Non lo hanno capito (ipotesi improbabile, posto che il testo è facilmente comprensibile anche da parte di un utente di intelligenza meno che media)? O semplicemente scelgono consapevolmente di fare disinformazione propalando tesi tanto infondate quanto offensive nei confronti di chiunque sostenga la riforma? Scegliete voi cosa vi sembra meno peggio. In ogni caso l’immagine che ne esce non è particolarmente edificante per il sindacato delle toghe. *Segretario dell’Unione Camere Penali Italiane I ritardi del governo su Pnrr e giustizia civile. Il Csm va in soccorso di Ermes Antonucci Il Foglio, 26 agosto 2025 L’obiettivo principale concordato con l’Unione europea, cioè la riduzione del 40% della durata media dei processi civili, appare lontano. Così il governo ha adottato un decreto con misure d’urgenza, tra ritardi e contraddizioni. Il Csm pronto a un plenum straordinario. Il 3 settembre il Consiglio superiore della magistratura terrà un plenum straordinario per deliberare sulle misure urgenti che sono state richieste dal governo per cercare di raddrizzare la rotta e rendere possibile il raggiungimento degli obiettivi del Pnrr sulla giustizia civile. Lo ha appreso il Foglio da fonti autorevoli del Csm. Il target principale concordato con l’Unione europea, cioè la riduzione del 40 per cento entro giugno 2026 della durata media dei procedimenti civili (il cosiddetto “disposition time”) appare al momento fuori portata, se si considera che al 30 giugno scorso si attestava al 20,1 per cento rispetto al 2019. Per queste ragioni, con un decreto adottato quasi in gran silenzio l’8 agosto prima della pausa estiva, il governo ha definito una serie di interventi d’urgenza per provare a cambiare la situazione. Il decreto (n. 117/2025) prevede due interventi principali. Il primo riguarda le corti d’appello che non hanno ancora raggiunto gli obiettivi del Pnrr, alle quali potranno essere destinati fino a venti magistrati provenienti da sedi diverse. Il secondo intervento riguarda i tribunali, ai quali potranno esseri applicati a distanza in via straordinaria fino a cinquecento magistrati, che avranno il compito di definire da remoto i procedimenti civili. In entrambi i casi il decreto prevede che il Csm individui le sedi interessate entro quindici giorni dall’entrata in vigore del decreto. Il Consiglio superiore ha accolto con la dovuta responsabilità questo impegno: i consiglieri, in particolare quelli che compongono le commissioni interessate (la terza e la settima) hanno interrotto il periodo di ferie e nei giorni scorsi hanno svolto le dovute riunioni per individuare le sedi e il numero dei magistrati da trasferire. Questo lavoro preparatorio sfocerà il 3 settembre nell’approvazione di una delibera specifica in occasione di un plenum straordinario, convocato dal comitato di presidenza il giorno prima del plenum straordinario che, alla presenza del capo dello stato Sergio Mattarella, nominerà il nuovo primo presidente della Corte di cassazione, in sostituzione di Margherita Cassano, che andrà in pensione il 9 settembre. Una volta adottata la delibera che individua le Corti e i tribunali ai quali trasferire o applicare da remoto i magistrati, il Csm dovrà completare le procedure entro il 23 settembre. Uno sforzo non indifferente per il Csm, che non intende lasciare al governo nessun appiglio per polemiche future che possano riguardare, appunto, presunti ritardi nell’attuazione delle norme. Le misure del governo e del Guardasigilli Carlo Nordio non sono prive di elementi di criticità, se non di schizofrenia. Lo scorso ottobre, in seguito alla diatriba che ha riguardato alcune decisioni dei tribunali in materia di immigrazione, il governo ha deciso di trasferire alle corti d’appello la competenza relativa alla convalida dei procedimenti di trattenimento dei migranti che richiedono protezione internazionale, caricando quindi le corti di ulteriori procedimenti da smaltire, a organico invariato. Con il decreto dell’8 agosto, il governo si premura ora di “aiutare” le corti d’appello che sono in sofferenza rispetto agli obiettivi del Pnrr. Una contraddizione palese. Come se non bastasse, le misure previste dall’esecutivo stanno già generano non poche tensioni tra gli stessi magistrati. Ai magistrati che saranno trasferiti presso le corti d’appello, anche se di prima nomina, sarà attribuita un’indennità mensile “pari all’importo mensile dello stipendio tabellare previsto per il magistrato ordinario con tre anni di anzianità”. Una forma di incentivo, che però sta inevitabilmente facendo storcere il naso alle toghe con maggiore esperienza. Per non parlare dei 500 giudici che saranno applicati da remoto ai tribunali: per le loro retribuzioni è previsto uno stanziamento di 15 milioni di euro. Potranno aderire anche i magistrati fuori ruolo, cioè quelle assegnati a incarichi extra-giudiziari, per esempio presso i ministeri. Quelli che un tempo per Nordio costituivano un problema, e ora invece persino una platea dalla quale attingere toghe da premiare con bonus extra. Quel feeling tra toghe e ministero di Sergio Rizzo L’Espresso, 26 agosto 2025 È nella bufera perla vicenda Almasri, ma si dice pure che sia lei il vero capo della Giustizia. Giusi Bartolozzi è legata a doppio filo a Carlo Nordio. Nel gioco delle parti tra magistrati e Palazzo. Ah, se gliele aveva cantate! Quel 27 maggio del 2020, alla Camera, Giuseppa Lara (detta Giusi) Bartolozzi si mostrava irrefrenabile. Infilzava senza pietà il ministro della Giustizia grillino, Alfonso Bonafede, reduce da un lungo intervento al question time, con una serie di stoccate. La più dolorosa: “Il ministro adesso rilancia progetti di presunta incompatibilità per i magistrati eletti a cariche politiche, mentre nulla dice, come dovrebbe, sulla incompatibilità di coloro i quali, pur non rivestendo ruoli politici di natura elettiva, svolgono incarichi a stretto contatto con la politica. Ma non è allora incompatibilità anche questa?”. A chi era diretto l’affondo di Giusi Bartolozzi, giudice della Corte d’Appello eletta deputata per Forza Italia? Forse a quei suoi colleghi senza più seggio parlamentare riparati in via Arenula con la scusa di dare supporto all’apparato ministeriale? Chissà. Fra i cento e più magistrati saldamente innestati nella macchina governativa ce n’era almeno una proveniente dal Parlamento: Doris Lo Moro, passata dal Partito democratico a Liberi e Uguali, che, dopo otto anni di sindaca a Lamezia Terme, cinque nel Consiglio regionale della Calabria e poi due legislature alla Camera e in Senato, aveva deciso di non ricandidarsi. E il ministro dem, Andrea Orlando, predecessore di Bonafede, l’aveva volentieri accolta al dipartimento Affari di giustizia del ministero. Tuttavia, i magistrati ex parlamentari in realtà sarebbero stati due, se Bonafede non si fosse opposto all’arrivo di Anna Finocchiaro, due volte ministra e 31 anni di fila fra Montecitorio e Palazzo Madama. E si può stare certi che, al tempo di quella sua intemerata pubblica contro “coloro i quali, pur non rivestendo ruoli politici di natura elettiva, svolgono incarichi a stretto contatto con la politica”, Giusi Bartolozzi sinceramente ignorasse che un giorno si sarebbe trovata nella stessa situazione da lei così criticata. Ma la politica è l’arte del possibile, per non dire che in questo momento storico la coerenza non sembra dote così popolare nel Palazzo. Siciliana di Gela, giudice a Gela e quindi a Palermo, prima di approdare alla Corte d’Appello di Roma, eletta alla Camera in Sicilia e incidentalmente consorte dell’ex vicepresidente della giunta regionale siciliana, Gaetano Armao, è ritenuta più influente dell’attuale ministro Carlo Nordio. Dopo le elezioni vittoriose del centrodestra, Giusi Bartolozzi segue Nordio al ministero. Due anni prima era stata lei, allora deputata componente dell’Antimafia, a volere il magistrato trevigiano alla commissione parlamentare come consulente. E quando Nordio si era dimesso per protesta con l’uscita del grillino Nicola Morra sulla presidente della Calabria, Jole Santelli, gravemente malata, Giusi Bartolozzi l’aveva difeso pubblicamente: “La commissione Antimafia ne esce completamente delegittimata”. Nel novembre 2022 il sodalizio si ricostituisce, anche se a ruoli formalmente invertiti. Ma non bisogna aspettare molto per capire che alla ex deputata forzista quel ruolo sta piuttosto stretto. Passa un anno e la coabitazione con il capo di Gabinetto, il magistrato Alberto Rizzo, è alla frutta. E lei lo soppianta, meritandosi rapidamente su qualche giornale l’appellativo (questo, sì, maligno) di “zarina” del ministero. Per il deputato dei Verdi, Angelo Bonelli, “Giusi Bartolozzi è il vero ministro della Giustizia. Nordio è solo una comparsa: è lei che costruisce le strategie politiche e Nordio si limita a prenderne atto”. Nello sconcertante episodio della liberazione dell’aguzzino libico Osama Almasri le frecciate dell’opposizione fanno parte del gioco. Ma questa non è una semplice frecciata. È l’innesco dei siluri che arrivano da tutte le parti. Mentre l’onda monta. Il Movimento 5 Stelle sostiene, “documenti alla mano”, che “già il 19 gennaio le informazioni, il mandato di arresto, i documenti ufficiali erano in possesso degli uffici competenti del ministero. E soprattutto: la capo di Gabinetto sarebbe stata avvisata, sarebbe intervenuta, avrebbe parlato con funzionari e partecipato a una video-riunione con i servizi segreti”. Vedremo come finirà. Ma la vicenda per cui l’ex deputata Bartolozzi non è indagata, a differenza di Nordio e del suo collega dell’Interno, Matteo Piantedosi, è la spia della situazione venutasi a creare in via Arenula. Davvero curiosa, nonostante Nordio si ostini a ripetere che la sua capo di Gabinetto non avrebbe fatto altro che agire in seguito a suoi ordini. Sullo sfondo di questa storia si delinea certamente l’anomalia di un ministero dove non è chiaro chi manovri realmente le leve del potere. Ma che è il risvolto di un’altra anomalia, ben più profonda e mai risolta: quella del rapporto fra magistrati e politica. Altro che l’inutilissima riforma costituzionale per la separazione delle carriere, che, come sanno tutti, sono nei fatti già abbondantemente separate. Diversamente, per dirne una, gran parte dei processi penali (fino al 40 per cento) non si concluderebbe con l’assoluzione degli imputati. Vero è che nelle ultime elezioni politiche generali la presenza dei magistrati si è drasticamente ridotta. Nelle undici legislature della cosiddetta Prima Repubblica vennero eletti complessivamente 125 magistrati, con una prevalenza di tre quarti dei partiti di governo, a cominciare dai 72 giudici eletti con la Dc. Nelle otto legislature della presunta Seconda Repubblica sono stati invece 128, con una prevalenza del centrosinistra: 60 per cento circa. Ma anche con una flessione ormai apparentemente inarrestabile. Dai 18 magistrati eletti nel 2013 si è scesi a quattro nel 2018 e poi a tre, per giunta tutti pensionati: Nordio di Fratelli d’Italia, Simonetta Matone della Lega e Roberto Scarpinato del M5S. La ragione ha a che vedere con i limiti sempre più rigidi al rientro dei giudici alla fine del mandato parlamentare. Anche qui, però, non sono mancati i colpi d’ingegno per aprire un po’ di paracadute ai poveri magistrati privati del seggio. Prendete, per esempio, l’incompatibilità denunciata da Giusi Bartolozzi nel 2020, giusto un paio d’anni prima di viverla in prima persona. Ossia quella di chi non è stato più eletto, ma continua ad avere incarichi a stretto contatto con la politica, continuando di fatto ad avere un ruolo politico mascherato. Sapete come l’ha risolta la legge 71 del 2022 che porta il nome della ministra Marta Cartabia, approvata poche settimane prima della fine della legislatura? Facilissimo: rendendo compatibile l’incompatibilità. L’articolo 19 prevede che i magistrati ex parlamentari nazionali ed europei, ex consiglieri regionali, ex presidenti di Regione, ex sindaci o ex consiglieri comunali siano “collocati fuori ruolo presso il ministero di appartenenza o, per i magistrati amministrativi e contabili, presso la presidenza del Consiglio”. Cioè, esattamente “a stretto contatto con la politica”, per citare sempre la capo di Gabinetto di Nordio in una vita precedente. In alternativa, dice sempre l’articolo 19, i magistrati usciti dalla politica possono andare negli organi di autogoverno, quelli che dovrebbero sancire l’indipendenza delle magistrature. E proprio così hanno fatto i due magistrati eletti nel 2018 e non riconfermati. Giusi Bartolozzi è al ministero della Giustizia, mentre Cosimo Ferri di Italia Viva è vicepresidente del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria. Va bene che la cosa in teoria non li riguarda, perché l’articolo 19 si applica ai magistrati il cui incarico politico sia iniziato dopo l’entrata in vigore della legge. Ma che male c’è a portarsi avanti sul lavoro? La favola dei reati “culturalmente motivati”: la strumentalizzazione mediatica ignora la complessità del diritto di Valentina Stella Il Dubbio, 26 agosto 2025 Il caso dopo un articolo del Giornale dal titolo “Se hanno culture diverse per loro il reato sparisce - Quelle assoluzioni di africani in nome della dottrina propugnata da Md, il sindacato delle toghe rosse”. “Se hanno culture diverse per loro il reato sparisce - Quelle assoluzioni di africani in nome della dottrina propugnata da Md, il sindacato delle toghe rosse”: questo il titolo di un articolo di ieri de il Giornale che va all’attacco di Magistratura democratica che si farebbe sostenitrice di una politica assolutoria nei confronti dei “reati culturalmente motivati”. Secondo il quotidiano, se a commettere un pestaggio in famiglia o uno stupro è un italiano questo sarebbe condannato dai giudici di sinistra; al contrario, se l’autore fosse un immigrato sarebbe assolto. A giustificare questo modus operandi ci sarebbe una vera e propria ideologia delle “toghe rosse”, tanto è vero - scrive il Giornale - che sulla rivista di Md, Questione Giustizia, si legge: ““Quando gli immigrati giungono nel nostro Paese, trovano reati diversi rispetto a quelli previsti nel loro Paese d’origine”. E ancora: “L’immigrazione diventa, per il nostro Paese, fonte di pluralità di culture”“. Da qui poi un elenco di sentenze che dimostrerebbe la teoria propugnata dalla testata diretta da Alessandro Sallusti. Proviamo però a fare chiarezza. Per questo abbiamo contattato l’autore dell’articolo, pubblicato su Questione Giustizia, Fabio Basile, che non è un magistrato ma un Ordinario di diritto penale all’Università degli Studi di Milano. “Quello scritto nel 2017 e citato dal Giornale ieri è un contributo di sintesi di una monografia molto più ampia che avevo sviluppato anni prima. Non nasce per la rivista Questione Giustizia né mi è stato commissionato da una certa fetta di magistratura”. Andando nel merito, poi, ci spiega Basile: “il compito del giudice penale è valutare il singolo fatto e l’eventuale responsabilità di un singolo autore, non quello di condannare una cultura”. Quando si trovano a dover emettere una sentenza “i giudici cercano le ragioni all’origine del gesto, tra cui la cultura dell’imputato che deve essere adeguatamente provata in giudizio”. Per il docente “è assurdo” quanto letto sul Giornale che “ha riportato in maniera scorretta e decontestualizzata” alcune decisioni: “nel mio articolo non si teorizza affatto di non punire stupri, mutilazioni genitali, o qualsiasi reato lesivo dei diritti fondamentali di una persona solo perché l’imputato è un immigrato”. Quando parliamo di “reati culturalmente motivati” per Basile ci riferiamo ad una situazione per cui “quando gli immigrati giungono nel nostro Paese, trovano reati diversi o diversamente strutturati rispetto a quelli previsti nel loro Paese d’origine; e tale diversità è, almeno in parte, dovuta alla diversità della cultura (la cultura italiana), che impregna le norme penali qui vigenti, rispetto alla cultura (la cultura albanese, marocchina, cinese, egiziana, pakistana, siriana, etc.) del loro Paese d’origine”. A tal proposito, i casi messi sotto la lente di ingrandimento dal Giornale sono tre. Primo: assoluzione nel 2012 da parte della Corte di appello di Venezia di due genitori nigeriani accusati di aver sottoposto le loro figlie alle mutilazioni genitali. Secondo: annullamento senza rinvio da parte della Cassazione nel 2011 di una sentenza di condanna di una madre nigeriana di religione cattolica che aveva fatto circoncidere il figlio. Terzo: nel 2007 sempre Piazza Cavour, nel confermare la condanna per violenza sessuale di un marocchino verso la moglie nella prima settimana di un matrimonio combinato dalle famiglie, gli concede l’attenuante della ‘minore gravità’. Ora, andare nel dettaglio di ogni singola decisione necessiterebbe di uno spazio che qui non abbiamo ma rimandiamo alla fonte (https://www.questionegiustizia.it/rivista/articolo/i-reati-cd_culturalmente-motivati-commessi-dagli-immigrati_possibili_soluzioni-giurisprudenziali_425.php). Basile ci chiarisce però, ad esempio, “che nel primo caso non si era in presenza di una mutilazione rilevante ai sensi del primo comma dell’art. 583-bis c.p., ma di un’incisione superficiale sulla faccia antero-superiore del clitoride, della lunghezza di circa 4 mm, riconducibile, semmai, alla ben meno grave previsione del secondo comma dell’art. 583-bis. I genitori avevano sottoposto le neonate alla aruè al fine di soddisfare una funzione di purificazione, di umanizzazione, e per sancire un vincolo identitario, e non già al fine (richiesto, invece, dalla norma incriminatrice in termini di dolo specifico) di menomarne le funzioni sessuali, compromettendo il desiderio o la praticabilità dell’atto sessuale”. In pratica, attraverso una accorta ponderazione di tre variabili - livello di offensività del fatto commesso; natura della norma culturale osservata; biografia del soggetto agente - , è possibile per Basile approdare, in presenza di determinati presupposti, “ad un cauto e circoscritto riconoscimento benevolo del fattore culturale da parte dei giudici: riconoscimento il quale risulta equo e ragionevole ogni qual volta la realizzazione del reato costituisca davvero l’esito di un conflitto normo-culturale ancora irrisolto, di tal ché il reato commesso dall’immigrato di cultura diversa potrebbe effettivamente risultare meno rimproverabile rispetto ad uno stesso identico fatto commesso da un imputato di cultura italiana”. Conclude l’accademico: “possiamo considerare certe pratiche corrette o meno. Ma non è questo il punto. Il punto è sperare di veicolare un messaggio: ossia che le sentenze non diventino un ostacolo per un processo di inclusione. Eventualmente è compito del legislatore criminalizzare certi comportamenti”. Per Nello Rossi, direttore di Questione Giustizia, “le pacate e argomentate considerazioni del professor Basile fanno giustizia del malvezzo di attribuire a non meglio precisati giudici di Md tutte le sentenze ritenute sgradite e non condivisibili. I giudici penali non devono solo accertare un fatto penale ma anche sforzarsi di capire chi lo ha commesso e perché. Questo vale per tutti gli imputati, italiani e stranieri”. Infine, per Nello Rossi, “ovviamente non si può escludere un reato invocando la cultura di origine dell’imputato ma la comprensione di tale cultura può contare ai fini del corretto inquadramento giuridico del fatto, di eventuali attenuanti e della misura della pena”. Bibbiano, la lettera di 224 assistenti sociali: “I colleghi vittime. L’Ordine? Ci ha lasciati soli” di Simona Musco Il Dubbio, 26 agosto 2025 La vicenda, sottolinea la missiva di protesta, “ha avuto e continuerà ad avere un’influenza mai rilevata in precedenza”. Indignazione e profonda amarezza. Sono questi gli stati d’animo espressi da 224 assistenti sociali, che in una lettera indirizzata alla presidente nazionale Barbara Rosina e per conoscenza all’ordine dell’Emilia Romagna hanno chiesto di ritirare la richiesta di risarcimento nei confronti di Federica Anghinolfi e Francesco Monopoli, dopo la debacle del processo “Bibbiano” sui presunti affidi illeciti, conclusosi il 9 luglio scorso con una valanga di assoluzioni. I due sono stati infatti condannati solo per due reati marginali con pena sospesa, venendo assolti rispettivamente da 56 e 32 capi di imputazione a testa. Una diapositiva chiara del crollo di un’inchiesta che ipotizzava un sistema illecito completamente smentito dalla sentenza, dove tutti i fatti oggetto di capo d’imputazione - eccetto uno - sono stati cancellati in quanto ritenuti insussistenti o perché non costituenti reato. Nonostante ciò, il Consiglio nazionale dell’Ordine ha deciso di rivalersi in maniera “simbolica” su Anghinolfi e Monopoli, vittime - insieme a tutti gli altri imputati - di una gogna mediatica senza precedenti nella storia recente d’Italia. Un processo lungo 142 udienze - per giunta praticamente senza testimoni della difesa, data la rinuncia degli stessi legali -, dal quale sono emersi elementi sufficienti a “garantire alla collettività la loro professionalità, trasparenza e specchiatezza”. Rispetto, inoltre, all’accertamento dell’eventuale sussistenza di violazioni del Codice deontologico, gli assistenti sociali sottolineano come la presenza del legale di parte civile incaricato dall’Ordine nazionale “è stata garantita in un numero irrisorio di udienze”, cosa che dunque non consentirebbe alla stessa di farsi “una qualsivoglia idea rispetto ai complessi contenuti emersi chiaramente in sede processuale”. La vicenda, sottolinea la lettera, “ha avuto e continuerà ad avere un’influenza mai rilevata in precedenza”, così come sottolineato anche da Claudio Cottatellucci, Presidente dell’Associazione italiana dei magistrati per i minorenni e la famiglia (Aimmf), secondo cui nonostante le assoluzioni “restano gli effetti di attacco e denigrazione sistematica dell’istituto giuridico dell’affidamento”, in particolare la “perdita di fiducia da parte della collettività nel sistema del sostegno pubblico a protezione dell’infanzia e nel sistema della giustizia minorile e di famiglia”. Gli assistenti sociali esprimono dunque “un senso di profondo sgomento e inquietudine in merito al motivo di tale inchiesta e, soprattutto, al coinvolgimento dei media in una attività di discriminazione della professione senza precedenti”. Il tutto in spregio al principio costituzionale della “presunzione di innocenza”, il cui rispetto “avrebbe salvato non solo i colleghi dalla “gogna” e dal cordone sanitario, ma anche l’immagine della nostra professione e il nostro operato”. Non sono, dunque, gli assistenti sociali finiti a processo “i responsabili della “perdita di onorabilità” della professione”, stando alla sentenza. “Occorrerebbe, invece, analizzare profondamente quanto è accaduto, perché qualcosa di molto grave è successo su altri piani. E noi dove eravamo? - si chiedono i firmatari - Che ruolo abbiamo avuto attraverso il Cnoas?”. L’Ordine nazionale, continua la lettera, avrebbe dovuto garantire “una presenza volta all’ascolto, alla comprensione dell’accaduto e alla raccolta di informazioni sul piano tecnico e professionale e non solo ad una “corretta ricostruzione delle vicende processuali” dal punto di vista squisitamente legale”. Un appunto, infine, rispetto alla domanda risarcitoria, già contestata in passato dagli assistenti sociali che si sono dichiarati non disponibili a ricevere soldi dai colleghi finiti a processo: “Chiediamo non solo di ritenere completamente superate qualsiasi richiesta di risarcimento - concludono - ma di valutare, altresì, la promozione di una raccolta fondi nazionale a favore dei colleghi ingiustamente accusati che sono stati costretti, al fine di difendere la propria innocenza e il proprio corretto operato a tutela di minori in gravissime difficoltà, a contrarre debiti e cedere la proprietà delle proprie abitazioni”. Vicenza. Sit-in per il giovane suicida in carcere. Ilaria Cucchi: “Lasciato solo dallo Stato” di Claudia Milani Vicenzi Giornale di Vicenza, 26 agosto 2025 La senatrice è intervenuta dopo il dramma. Giovedì organizzato a Treviso un presidio per chiedere “verità e giustizia”. “Nessuno che lo proteggesse, nessuno che gli offrisse la benché minima speranza di futuro. La vita senza futuro di Danilo è finita pochi giorni fa. Morto tra le braccia di uno Stato che lo ha lasciato solo quando aveva più bisogno di aiuto. Sono indignata. Dovremmo tutti indignarci. Perché uno Stato che nega il presente a un ragazzo di 17 anni ha perso il lume della ragione. Ma uno Stato che condanna a morte un ragazzo di 17 anni è uno Stato fallito”. Sui social, nei giorni scorsi, la senatrice Ilaria Cucchi è intervenuta sulla tragica vicenda del giovane immigrato che, dopo essere stato arrestato a Vicenza e trasferito nel carcere minorile di Treviso, si è tolto la vita. Arrivato su un gommone poco più di un anno fa, il giovane, tra gennaio e aprile, era fuggito quattro volto dai centri di accoglienza straordinaria per i minori non accompagnati. Aveva qualche piccolo precedente alle spalle poi, sabato 9 agosto, aveva improvvisamente fatto scoppiare il caos in centro, prima rapinando i passanti per strada, poi barricandosi in un appartamento. Era stato arrestato dalla polizia dopo due ore e quindi portato a Treviso e accolto al Cpa, la struttura di prima accoglienza all’interno del carcere minorile. Dopo l’arrivo aveva sostenuto il colloquio con il medico che non avrebbe rilevato criticità particolari o segni che potevano lasciare presagire quello che è successo più tardi. Poi il dramma. Il giovane trovato agonizzante - Il giovane, che secondo gli amici avrebbe in realtà avuto 21 anni e avrebbe mentito sull’età per paura del rimpatrio, era stato trovano privo di sensi dopo che aveva cercato di togliersi la vita utilizzando i suoi stessi jeans. Dopo due giorni di agonia la morte in ospedale. Il medico ha stabilito il decesso per asfissia ed è stata aperta un’inchiesta: sul registro degli indagati al momento non sarebbe stato scritto alcun nome. La richiesta di “verità e giustizia” - E intanto chiedono “verità e giustizia” per Danilo il collettivo Rotte Balcaniche e i centri sociali Django e Arcadia che si sono dati appuntamento per giovedì sera, alle 19, in via Santa Bona, fuori dal carcere minorile di Treviso. “Vogliamo sapere esattamente che cosa è successo al momento dell’arresto, in carcere, in ospedale. Vogliamo sapere perché un ragazzo di 17 anni è morto mentre si trovava sotto la custodia dello Stato”. Un presidio organizzato perché “la sua storia ha avuto un epilogo tragico, ma sta a noi non farla finire qui”. “Appare evidente che il ragazzo si trovasse in un grave stato di crisi psicologica - continuano i promotori dell’iniziativa - perché è stato portato in un carcere minorile invece che in un ospedale? Era stato visitato dopo essere stato fermato con il taser? Cosa (non) è stato fatto per accertarne le condizioni di salute psico-fisica prima di rinchiuderlo in un carcere? E ancora: per quanto tempo è stato privo di sorveglianza mentre tentava il suicidio?”. Cremona. Morte detenuto, il Pd: “Necessario risolvere criticità più urgenti” cremonaoggi.it, 26 agosto 2025 La morte di un detenuto nella Casa circondariale di Cremona, verificatasi sabato, continua a far discutere. A intervenire è il Pd di Cremona, che con una nota esprime il proprio dolore per l’accaduto. “È l’ennesimo episodio che richiama l’attenzione sulla condizione drammatica delle carceri italiane, segnate da sovraffollamento, carenze di organico e risorse insufficienti” sottolinea il partito. “Lo stato delle istituzioni penitenziarie misura il grado di civiltà di una società: per questo chiediamo al Governo di assumersi fino in fondo la responsabilità di affrontare la crisi del sistema carcerario”. A livello locale, spiega il Pd, “ci si sta impegnando in diversi modi. Il Garante provinciale dei detenuti - nella sua autonomia - così come il Comune di Cremona, insieme alla Casa Circondariale e alle realtà produttive del territorio, portano avanti progetti e attività per favorire percorsi di reinserimento socio-lavorativo, affinché il tempo della pena non sia solo afflittivo ma anche occasione di riscatto. Accanto a queste azioni istituzionali, il privato sociale e le associazioni di volontariato svolgono un ruolo importante, offrendo sostegno - anche psicologico - e occasioni di inclusione all’interno del carcere. È fondamentale che tutti gli attori continuino a lavorare insieme per risolvere le criticità più urgenti, garantire la tutela delle persone detenute e condizioni adeguate a chi opera ogni giorno all’interno del carcere” conclude la nota. Roma. Ecco perché non è stato concesso quel permesso di necessità di Marina Finiti* Il Dubbio, 26 agosto 2025 Egregio Direttore, in qualità di Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Roma sono a richiedere la rettifica ai sensi dell’art 8 Legge n. 47/38 in relazione all’articolo, a firma di Gianni Alemanno e Fabio Falbo, dal titolo “Quell’ultimo saluto negato in un carcere senza memoria. Familiari in fin di vita, permessi di necessità negati troppo spesso e diritti calpestati’, pubblicato in data 31.7.2025 sul giornale, sia cartaceo che online, da lei diretto. Nell’articolo in questione i due detenuti riportano e commentano vicende relative a richieste di benefici di altri detenuti rappresentandole in modo parziale, anche attraverso la trascrizione di alcuni stralci dei provvedimenti, con effetto distorsivo della realtà. Nell’articolo vengono altresì indicati nomi e cognomi dei magistrati autori dei provvedimenti, destinatari di frasi di dileggio, così sviando sulla persona i motivi della critica. L’articolo esorbita dai due dei tre requisiti fondamentali, quello della verità dei fatti e della continenza espressiva, tutti parimenti necessari affinché il libero esercizio del diritto di critica o della pubblica denunzia non trasmodi nel delitto di diffamazione a mezzo stampa. Al fine di ristabilire la verità dei fatti, anche per consentire al Suo giornale di dare un’informazione corretta e scevra da strumentalizzazioni di sorta, è doveroso da parte mia puntualizzare quanto segue. 1) Non corrisponde al vero l’affermazione secondo la quale la Corte di Cassazione avrebbe di recente aperto i permessi di necessità anche ad eventi lieti come matrimoni e battesimi, come riportato nel citato articolo, dovendosi, piuttosto, rilevare come la S. C. sia ferma nel ritenere che ai fini della concessione del permesso di necessita previsto dall’art. 30 co. 2 o. p. rilevano unicamente i requisiti dell’eccezionalità della concessione, della particolare gravita dell’evento giustificativo e della correlazione dello stesso con la vita familiare, ma non anche l’esigenza di attenuare l’isolamento del medesimo attraverso il mantenimento delle relazioni familiari e sociali (cfr. ex multis: Sez. 1, Sentenza n. 33400 del 29/ 04/ 2024 Cc. (dep. 03/ 09/ 2024) Rv. 286695). 2) Quanto, in particolare, al caso del detenuto Centro Salvatore, l’articolo riporta solo stralci, selezionati ad hoc e del tutto parziali, del provvedimento giudiziario reiettivo del permesso di necessità, rappresentando, con la tecnica del taglia-e-incolla, una realtà distorta ed una situazione totalmente difforme da quella effettivamente presa in considerazione del magistrato di sorveglianza Marilena Panariello. La realtà, ben evincibile dalla lettura integrale del provvedimento giudiziario, è che il permesso non e stato concesso in quanto il dedotto aggravamento della patologia oncologica della madre del detenuto non sussisteva, alla luce della documentazione medica allegata dal difensore a sostegno dell’istanza, in cui vi era una semplice attestazione di avvenuta assistenza infermieristica per “ impianto pic e prelievi” ed una “ diagnosi di vomito”, con prescrizione di un “ integratore antiacido per lo stomaco” (parti del provvedimento, queste, non riportate nell’articolo); elementi che, all’evidenza, non attestavano affatto un peggioramento delle condizioni cliniche della donna né una situazione di imminente pericolo di vita come richiesto dalla norma. Del resto, non ricorreva nel caso in questione neppure il requisito dell’eccezionalità della situazione familiare, atteso che il detenuto aveva avuto permessi di far visita alla madre malata sino al mese precedente allorquando si trovava in affidamento terapeutico poi revocato per gravi violazioni commesse proprio durante le suddette visite. Che poi la signora sia deceduta quattro giorni dopo, e una circostanza certamente umanamente e comprensibilmente dolorosa, che nulla toghe, tuttavia, alla correttezza del provvedimento, adottato nel pieno rispetto dei principi di diritto stabiliti dalla norma richiamata, come interpretati dalla giurisprudenza di legittimità. 3) Sempre quanto al detenuto Centro Salvatore, non corrisponde al vero che a costui sia stata preclusa la possibilità di recarsi al cimitero ove è sepolta la madre defunta, a seguito della mancata conduzione ai funerali, in quanto già in data 23.05.2025 lo stesso era stato autorizzato dal magistrato di sorveglianza a recarsi al cimitero il giorno successivo qualora non fosse stato possibile organizzare in tempi rapidi l’accompagnamento con scorta ai funerali. 4) Per quanto concerne l’omessa esecuzione dei provvedimenti della magistratura di sorveglianza per mancanza dt scorta, nulla è ascrivibile a detta Autorità Giudiziaria, trattandosi di provvedimenti amministrativi di esecuzione di competenza esclusiva dell’amministrazione penitenziaria, con la quale pure l’interlocuzione è costante nella sollecitazione dei necessari interventi. Confidando nell’integrale pubblicazione della rettifica, nei termini rappresentati, porgo cordiali saluti. *Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Roma Gentile Presidente, La ringraziamo per aver voluto ricostruire con precisione la vicenda che nell’articolo era stata riportata in maniera parziale. Ci permettiamo tuttavia di sottolineare, come da Lei correttamente evidenziato, che solo quattro giorni dopo la mancata concessione del permesso di necessità la madre del detenuto è venuta a mancare. La perdita di una persona così cara rappresenta un dolore profondo per chiunque; per chi è recluso, privo della libertà e dei gesti di vicinanza che normalmente si darebbero ai propri cari, questa sofferenza si fa ancora più intensa e silenziosa. In carcere, dove le relazioni umane sono già sospese e spesso diluite in regole e protocolli, momenti come questo ricordano quanto fondamentale sia mantenere, anche dietro le sbarre, la dimensione dell’umanità. Firenze. L’Associazione Pantagruel: “La politica torni a parlare di carcere” di Stefano Cecconi* novaradio.info, 26 agosto 2025 Nonostante gli appelli, le denunce, le segnalazioni, a Sollicciano nulla cambia. Ed anzi il solleone dell’estate aggrava i problemi cronici, senza che si intravedano alcun intervento o miglioramento. Lo segnala l’associazione Pantagruel, con il vicepresidente Stefano Cecconi, che nei giorni scorsi ha ripreso le settimanali visite in carcere ai detenuti: “Quando sono entrato in carcere ho trovato aria ferma: ciò che era successo, cioè ciò che non era successo. A luglio, e anche ad agosto è rimasto tutto invariato. Quindi la notizia direi che non è cambiato nulla”. Rimane quindi il problema del bancomat interno al carcere non funzionante da circa un anno, il montacarichi di una sezione del giudiziario che non funziona da 2 anni in attesa di un collaudo, la muffa persistente nel corridoio d’accesso al “giudiziario”, il fatto che al femminile il vitto viene servito solo una volta a giorno, pranzo e cena assieme, con le immaginabili difficoltà di conservazione degli alimenti in una settimana con 40 gradi. Rimane inoltre inalterato il problema della sezione accoglienza, dove sono ospitati sia detenuti ordinari sia quelli della sezione ATSM, ossia quelli con gravi problemi di carattere psicologico e psichiatrico: “Una bomba orologeria che in ogni momento potenzialmente potrebbe esplodere”. Una situazione che la politica, in piena campagna elettorale le regionali, non sembra o non vuole affrontare. Non solo nessun esponente quest’anno ha varcato le soglie delle carceri neppure, come talvolta capita, a Ferragosto. Ma il tema è fuori dal dibattito. E invece quello del carcere, sottolinea Cecconi, è anche un tema regionale: “Io parlo di Sollicciano, ma la Dogaia di Prato non mi sembra goda di ottima salute; a Le Sughere di Livorno da 2 anni i reparti sono stati rinnovati, ma sono chiusi in attesa sempre di un collaudo. A Porto Azzurro c’è stata una rivolta durante questa estate. Le carceri in Toscana sono in grossa difficoltà come in tutta Italia. Per quanto di competenza della Regione Toscana, quindi per quanto riguarda gli aspetti punto della salute mentale e dell’assistenza sanitaria e del diritto alla salute. Il detenuto ha questo diritto, l’unico diritto che non ha più è quello della libertà. Tutti gli altri diritti dovrebbero essere rispettati, i candidati a governatore e la giunta futura dovrebbero forse parlare, invece delle seggiole che devono essere occupate. Cosa può fare la Regione per le carceri in Toscana? Proviamo a parlarne. Secondo me qualcosa potrebbe fare”. *Vicepresidente Associazione Pantagruel Catanzaro. Giovani detenuti tra speranza e formazione: l’Avvocatura in visita all’Ipm calabria7.news, 26 agosto 2025 Gli incontri hanno messo in luce le aspirazioni dei ragazzi ristretti e il ruolo fondamentale dell’Avvocatura nel favorire reinserimento sociale e opportunità professionali per superare l’esperienza detentiva. Il 25 agosto 2025, la Camera Penale di Catanzaro insieme all’Unione delle Camere Penali, alla Camera Penale di Cosenza e al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Catanzaro, ha visitato l’Istituto Penale Minorile “Silvio Paternostro” di Catanzaro. L’iniziativa ha permesso di incontrare i ragazzi ristretti e condividere con loro alcuni momenti della quotidianità detentiva, offrendo uno sguardo diretto sulla loro realtà. La visita è stata guidata dal Presidente della Camera Penale di Catanzaro, Francesco Iacopino, e ha visto la partecipazione di rappresentanti istituzionali e associativi, tra cui il Presidente Roberto Le Pera e la Presidente Enza Matacera, insieme a consiglieri, probiviri e soci attivi delle Camere Penali coinvolte. Dialogo con i ragazzi: tra difficoltà e aspirazioni - I partecipanti hanno incontrato un gruppo di otto giovani detenuti su un totale di 31 ragazzi presenti nell’Istituto. Alcuni non hanno famiglia in Italia, vivendo quindi in totale solitudine, mentre altri hanno parenti lontani, limitando l’accesso a permessi premio e opportunità di reinserimento. Durante il colloquio, i ragazzi non hanno lamentato la condizione detentiva ma hanno espresso la necessità di spazi ricreativi maggiori e di opportunità formative. Alcuni hanno ripetuto gli studi della scuola media e aspirano a frequentare un istituto superiore o apprendere un mestiere. L’attenzione non si è concentrata sugli spazi fisici o sulle celle obsolete, ma sul desiderio di costruire un futuro migliore, superando la paura e la preoccupazione per ciò che li attende fuori dall’Istituto. L’impegno dell’Avvocatura e della collettività - I giovani, pur avendo commesso errori, cercano speranza, fiducia e umanità. L’Avvocatura, in particolare, ha il compito di essere ponte tra il mondo penitenziario e la società civile, promuovendo strumenti concreti per il reinserimento sociale dei ragazzi. La responsabilità, sottolineano i membri della Camera Penale, non ricade solo sugli avvocati, ma sull’intera collettività, chiamata a rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana. In questo contesto, la Camera Penale ha annunciato due principali linee di azione: la promozione, insieme alla Diocesi, di un progetto di “adozione” per minori stranieri senza legami familiari in Italia e l’apertura all’ingresso delle aziende in carcere, per offrire percorsi di formazione professionale e favorire un inserimento reale nel mondo del lavoro. L’iniziativa mira a trasformare l’esperienza detentiva in un momento di crescita, affinché i ragazzi possano riprendere le redini della propria vita e guardare a nuovi orizzonti. La Camera Penale ribadisce l’impegno a essere voce di chi non ha voce e a stimolare la società civile a partecipare attivamente alla rieducazione e alla risocializzazione dei giovani detenuti. Padova. La Cooperativa Giotto premiata al Social Contest 2025 di Rimini padovaoggi.it, 26 agosto 2025 C’è anche la cooperazione sociale padovana tra i protagonisti del Meeting di Rimini. La Cooperativa Sociale Giotto ha vinto il Social Contest 2025, promosso da Cdo Opere Sociali con il sostegno di JTI Italia, nella categoria “Città e comunità sostenibili”. La sfida era serrata, con 33 proposte arrivate da ogni parte d’Italia e solo quattro riconoscimenti disponibili, uno per ciascun obiettivo indicato dal bando. A spuntarla, per l’area dedicata a “Sconfiggere la povertà”, è stato il Banco non solo pane Odv con il progetto Too Good to Waste, pensato per contrastare lo spreco alimentare e sostenere le famiglie in difficoltà. Nella categoria “Lavoro dignitoso e crescita economica” il premio è andato invece ad ATT Srl Impresa Sociale, grazie a Ristorazione Inclusiva, un’iniziativa che crea opportunità professionali per persone svantaggiate attraverso un modello imprenditoriale nel settore food. Sul fronte “Ridurre le disuguaglianze” la vittoria è andata alla cooperativa Cura e Riabilitazione con CREA - La bottega dei talenti, percorso che intreccia cura, riabilitazione e inserimento socio-lavorativo. Infine, per la sezione “Città e comunità sostenibili”, il riconoscimento è arrivato a Padova con la cooperativa Giotto e il suo progetto Esperide, che unisce reinserimento lavorativo dei detenuti e rigenerazione degli spazi pubblici. In totale, i progetti premiati si sono divisi un contributo complessivo di 80mila euro. L’annuncio è arrivato durante il panel dal titolo “Partenariato profit - non profit: nuove frontiere di uno sviluppo sostenibile”, moderato dal direttore di Economy Sergio Luciano. Un incontro che ha visto a confronto aziende e mondo del terzo settore, con l’idea che la collaborazione tra profit e non profit possa essere la chiave per affrontare sfide sociali e ambientali. “Il Social Contest 2025 dimostra come l’impresa, quando agisce con responsabilità, possa generare un impatto positivo autentico nelle comunità in cui opera”, ha dichiarato Didier Ellena, Amministratore Delegato di JTI Italia. “Siamo orgogliosi di essere al fianco di realtà che, con competenza e passione, contribuiscono a trasformare le fragilità in opportunità di rinascita”. Per Stefano Gheno, presidente di Cdo Opere Sociali, l’esperienza con JTI “è stata davvero positiva e portatrice di un grande valore aggiunto. L’intenzione di JTI di sostenere progetti sviluppati sul territorio dalle opere sociali nostre associate rappresenta, in modo concreto, quanto sia centrale per lo sviluppo dell’economia sociale nel nostro Paese il partenariato tra imprese profit e organizzazioni non profit”. Per la Cooperativa Giotto, la vittoria a Rimini rappresenta un passaggio importante: la conferma che il lavoro fatto sul reinserimento dei detenuti e sulla cura degli spazi cittadini è un modello riconosciuto a livello nazionale. Un segnale che da Padova guarda all’Italia intera, dimostrando come la cooperazione sociale sappia essere motore di comunità. Como. “Benvenuti in galera”: l’11 settembre al Cinema Astra serata di discussione sul carcere csvlombardia.it, 26 agosto 2025 Quale carcere è possibile? È la domanda che guiderà la serata di confronto sul mondo del carcere che si terrà giovedì 11 settembre, alle 21, al Cinema Astra di Como. Prima della discussione verrà proiettato il film “Benvenuti in galera”, un documentario che racconta l’esperienza di un ristorante aperto al pubblico nel carcere di Bollate. Guidato da uno chef che ha lavorato con Gualtiero Marchesi e da Silvia Polleri, esperta del settore ristorazione, è un esempio virtuoso di recupero alla vita sociale di chi sta scontando una pena detentiva. Davide, Said, Jonut, Chester, Domingo, Pavel sono alcuni detenuti protagonisti di un’attività che li ha portati al centro dell’attenzione del mondo che si occupa della ristorazione (Guida Michelin compresa). Dall’esempio virtuoso di Bollate si passerà alle esperienze nella Casa Circondariale di Como in una discussione che prevede gli interventi di: Cecco Bellosi direttore educativo della comunità Il Gabbiano; Teresa Somma funzionario giuridico pedagogico presso il carcere del Bassone; Laura Molinari agente di rete del Centro di servizio per il volontariato Insubria, responsabile progetto “Link-ed-In”. Durante la serata sarà inaugurata la mostra “Bassone quale umanità?” realizzata dalla Caritas cittadina per raccontare la casa circondariale di Como. La mostra sarà visibile fino al 16 settembre nello spazio mostre del cinema Astra. La serata rientra nelle iniziative del progetto Link-ed- In. Tessere legami per favorire inclusione 2023-2025 realizzato nell’ambito delle iniziative promosse nel quadro della Politica di Coesione 2021-2027 ed in particolare del Programma Regionale cofinanziato dal Fondo Sociale Europeo Plus. I giorni di Pierre Clémenti tra Regina Coeli e Rebibbia di Guido Vitiello Il Foglio, 26 agosto 2025 Frutto di quei due anni furono le cento pagine di “Carcere italiano”. Agli occhi dell’attore parigino le nostre prigioni appaiono come istituzioni congegnate per dilapidare energie umane e infliggere una pena di morte al rallentatore. Imprigionare un artista è pericoloso. Rischia di intuire in un lampo l’assurdità generale del carcere, e non solo di intuirla per sé: la farà avvertire vividamente ai compagni di cella e ai piantoni, e si spenderà per comunicarla al di fuori, tanto più che un’indole creativa rifiuta con tutti i mezzi di farsi stritolare dagli ingranaggi di quella gigantesca macchina sterile. E così, quando nell’estate del 1971 arrestarono a Roma l’attore parigino Pierre Clémenti per detenzione e uso di stupefacenti, l’unico frutto di quasi due anni spesi inutilmente tra Regina Coeli e Rebibbia furono le cento pagine di Carcere italiano, tradotte nel 1973 dal Formichiere. Le nostre prigioni appaiono a Clémenti come istituzioni congegnate per dilapidare energie umane e per infliggere ai loro ospiti una pena di morte al rallentatore. A tutti i loro ospiti, beninteso; perché l’attore ascetico e gentile sentì che i secondini erano prigionieri quasi quanto lui, solo che non lo sapevano, e che bastava scambiare uno sguardo umano con uno di essi per spezzare il “circolo vizioso della diffidenza e del taglione”. Con questa sua pagina sui postumi di una rivolta carceraria - che aiuta ancor oggi a spiegarsi i troppi suicidi tra gli agenti penitenziari. “La rabbia sorda dei detenuti è una forza terrificante, che trasforma i guardiani in belve impazzite, che per ore e ore girano in tondo per i corridoi. Cercano lo sguardo di un detenuto, se non altro per trovarvi dell’odio. Non trovano che occhi vuoti. La gigantesca macchina repressiva allora è bloccata, l’arca va alla deriva, esplode l’assurdità dei gesti, degli orari, delle regole. La sensazione della profonda e disperata inutilità di tutto quel circo. Sono certo che allora la maggior parte dei secondini preferirebbe essere sotto terra. Per quanto fragile e perseguitato, esiste tuttavia un barlume di vita in una prigione. Ma può durare solo grazie a quella sorta di complicità che malgrado tutto unisce detenuti e guardiani”. Giulia di Barolo, storia di una vocazione (raccontata da Silvio Pellico) di Carla Piro Mander Corriere di Torino, 26 agosto 2025 Vandeana, sposa nel 1806 a Carlo Tancredi Falletti di Barolo, trova dietro gli splendori della reggia sabauda un popolo poverissimo. Nelle lettere un progetto sociale incentrato sulla fede e sulla rieducazione. “Non la comunione voglio, ma una minestra!”. Il grido, alto e improvviso, rompe la cantilena raccolta dei fedeli e strappa la giovane devota alla sua preghiera. È il 17 aprile del 1814, seconda domenica di Pasqua. A Torino la processione sta attraversando il reticolo di vicoli intorno a Palazzo di Città e quel grido, che sembra alzarsi dal sottosuolo, proviene in effetti dalle carceri senatorie di via san Domenico. A Giulia, già così profondamente religiosa, sembra un segno. “Turbata da quelle audaci parole - scriverà di lei e dell’accaduto Silvio Pellico - la marchesa alzò gli occhi, vide le sbarre carcerarie del Senato, e propose al servo che l’accompagnava d’entrare seco in prigione. Ella volea dare il denaro che aveva nella borsa, pensando che la fame avesse spinto il furioso grido”. È così che Giulia Falletti di Barolo comincia l’opera di assistenza e carità che porterà la Chiesa, secoli dopo la sua morte, ad attribuirle il titolo di “venerabile”. Vandeana, figlia del marchese di Maulévrier e sposata col cattolicissimo Carlo Tancredi Falletti di Barolo nel 1806, Giulia, nata Juliette Colbert, si trasferisce a Torino pochi anni dopo il matrimonio. Quella che trova è una città che all’apparenza regale - grandi strade, portici eleganti, palazzi nobiliari affacciati sulla piazza Castello - contrappone la povertà senza speranza di un popolo poverissimo (lavandaie, contadini, piccoli criminali) che vive ammassato nel reticolo di viuzze intorno al Municipio, nei vicoli bui del Moschino, in Vanchiglia, in borgo Dora. È un popolo malnutrito, analfabeta che vive di piccoli reati e paga un prezzo altissimo per la propria illegalità. Il Rondò della Forca, come lo chiamano i torinesi, si anima ogni giorno mortalmente, le carceri sono piene. È su queste che Giulia si concentra. Si dedica alle detenute, le visita, insegna la preghiera e il lavoro. Scrive, nel 1823: “Esse si gettarono per così dire, su di me, gridando tutte insieme e il loro stato di degradazione mi provocò un dolore, una vergogna che non posso ricordare senza provare una viva emozione. [...] Mi ricordo che giunsi le mani facendo tale esclamazione. Ne caddero poche monete e, come cani affamati, quelle donne si gettarono per terra per contendersi ciò che probabilmente non sarebbe servito che a procurarsi il mezzo per comprare qualche liquore forte [...]. Rincasai col cuore a pezzi per il dolore, senza sapere quale rimedio prendere per migliorare l’esistenza fisica e morale delle carcerate”. Frequenta quotidianamente le detenute. Porta vestiti, lenzuola, cibo, sapone. Dimostra rispetto. Crede in un progetto di rieducazione, per il quale investe le sue sostanze personali. Scrive nella lettera a Suor Maria Gabriella, della Congregazione di Sant’Anna: “Sono molto contenta che Monsignor Vescovo ha ottenuto i permessi di Roma per la cappella; Maria degli Angeli crede che non ci saranno più di 5 o 6 scudi da pagare per i diritti. Se Egli avesse la bontà di incaricarsi di pagare, tu potresti rimborsarglieli; e io aggiungerei questa piccola somma ai primi soldi che dovrò mandarti [...]. Una volta che i permessi saranno pervenuti, voi desidererete avere un Sacerdote che dica per voi tutti i giorni la santa messa nella vostra Cappella. Se è sufficiente dargli 120 franchi per anno, io concedo volentieri di fare questa spesa. [...]. Bisogna però dimenticare il lusso della cappella di Torino, contentarvi di ciò che è necessario. [...] Ci saranno più spese da fare di quanto sono state già fatte. Le mie finanze non me lo permetteranno senza fare dei debiti”. Dell’instancabile lavoro di Gulia (e del marito) resta traccia anche nell’epistolario tra i Barolo e Silvio Pellico, da loro assunto come segretario. Scrive Pellico, in una lettera del 1837 a Federico Confalonieri: “Ho stretto amicizia con poche persone; i più intimi sono i Barolo, marito e moglie, anime rare, sempre occupate di vera carità e di Dio. Io sono vincolato a loro, non solo come a benefattori miei, ma come ad ingegni elevati ed amabili, ed a cuori eccellenti in ogni cosa”. L’intento di Giulia è più forte di tutto. Nel 1821 ottiene di poter usare un edificio più sano e spazioso, il carcere delle Forzate e lo organizza come un carcere modello di cui è nominata sovrintendente. È una straordinaria azione progressista, per il tempo, ma lei non si ferma. Ancora Pellico: “In un suo viaggio a Napoli erasi recata a Mugnano a visitare la tomba di Santa Filomena. L’occupò allora la brama di fondare, tosto che potesse, un ospedale per povere fanciullette [...] Ritornata fra noi, comperò una casa in Moncalieri per fare ivi l’ospedale, e fabbricò contiguamente una chiesetta che fu dedicata alla Santa di Mugnano”. In 15 anni fonda - scrive Giuseppe Accornero- la scuola per ragazze povere affidata alle Suore di San Giuseppe, il Rifugio casa di accoglienza per ex-carcerate e ragazze a rischio; chiama a Torino le Dame del Sacro Cuore per l’educazione delle giovani nobili e borghesi; fonda l’Istituto delle Sorelle penitenti di Santa Maria Maddalena; le Suore di sant’Anna della Provvidenza. In decine di lettere racconta la sua visione di fiducia nella possibilità di riscatto sociale per chiunque. Scriverà, il 15 febbraio 1857 in una delle sue ultime missive alle suore di Sant’Anna: “Ho cercato da molti anni di darvi, mie care figlie, prove del mio interessamento per il vostro bene [...] Ricordatevi che siete state fondate per le classi povere. [...] Ricordatevi, care figlie, che quantunque vi abbia procurato una Casa di Noviziato fuori del Piemonte, la mia volontà però è che vi dedichiate specialmente a questo paese nel quale vi ho fondate, dove ho avuto le mie sostanze, dove sono vissuta tanti anni: le vicende politiche, qualunque cambiamento di governo, non impediscono il genere di bene al quale siete dedicate [...]Siate ferme, coraggiose [...] siete destinate a procurare la gloria di Dio e soprattutto il bene delle anime nella classe povera”. Fdi mette nel mirino tutte le occupazioni di Valerio Renzi Il Manifesto, 26 agosto 2025 Dopo lo sgombero del Leoncavallo la tentazione della destra è di spostare a Roma il fronte. E non tanto per il dossier che riguarda l’occupazione neofascista di CasaPound, per la quale la destra di governo ha invocato negli scorsi giorni una soluzione negoziale, quanto per la tentazione di far saltare un modello di risoluzione di ogni singolo caso basato sulla trattativa e sulla tutela di chi si trova in una situazione di emergenza abitativa. Un modello che ha visto negli scorsi anni la liberazione pacifica di diversi immobili grazie al passaggio da casa a casa. Una prassi che, paradosso vuole, porta il sigillo proprio dell’attuale ministro dell’Interno Piantedosi quando era prefetto di Roma. Ora il rischio è che salti tutto se a decidere sarà dall’alto il governo, intervenendo con il manganello. La stampa della destra ed espressione di poteri immobiliari soffia sul fuoco, mettendo nero su bianco chi sarà la prossima vittima della guerra del governo agli occupanti romani: per qualcuno l’occupazione di via Volontè, c’è chi invece indica il Metropoliz su via Prenestina, o Spin Time Lab di via Santa Croce in Gerusalemme. Al contrario di quanto raccontato da diverse testate, però, oggi non si terrà nessun tavolo provinciale per l’ordine pubblico e la sicurezza con all’ordine del giorno gli sgomberi da mettere a segno con urgenza. A confermarlo al manifesto sia il Campidoglio che la Prefettura di Roma. In questi anni l’amministrazione Gualtieri ha tracciato una rotta molto chiara per il futuro di numerosi spazi che si trovano nella famosa “lista” di occupazioni da sgomberare. È il caso proprio di Spin Time e di Metropoliz, di cui il Campidoglio prevede l’acquisto nell’ambito di interventi di rigenerazione urbana con la realizzazione di alloggi popolari per chi vi abita e la salvaguardia delle esperienze sociali e culturali che vi hanno trovato casa. Per la storica occupazione di via Bibulo a Cinecittà si è già arrivati a dama, con l’acquisto da parte del comune, grazie ai fondi previsti per abitazioni da destinare a edilizia residenziale pubblica. Stessa risoluzione per l’occupazione di via Volontè. Per quanto riguarda l’occupazione di via del Porto Fluviale, è iniziata la riqualificazione grazie ai fondi Pnrr: qui verranno spazi culturali e per il territorio, ma anche le case per chi ha occupato lo stabile e ne ha diritto. Solo lo scorso mese a visitare i cantieri è arrivato con una delegazione europea il ministro di Fdi Foti, per nulla turbato: “Sono cantieri che procedono a pieno ritmo e contribuiranno alla trasformazione della città”. In tutta Italia la destra galvanizzata chiede lo scalpo del centro sociale città per città. Il senatore veneziano di Fratelli d’Italia Raffaele Speranzon ha esultato per il blitz milanese, chiedendo che il prossimo fosse il Rivolta di Porto Marghera (che ha una regolare convenzione con il comune), ma anche il Sale Docks e il Morion di Venezia. Il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Ostellari della Lega, a sua volta ha messo nel mirino i centri sociali veneti, come il Pedro di Padova e il Bocciodromo di Vicenza, che a loro volta sono stati regolarizzati. Anche a Napoli la destra torna sulle barricate contro i centri sociali. Il coordinamento cittadino di FdI ha tuonato proprio ieri prendendosela con il sindaco Mandredi: “Villa Medusa, l’ex Opg e il Lido Pola restano ancora oggi occupati illegalmente. Il silenzio dell’amministrazione comunale è inaccettabile”. Realtà che però rientrano nella delibera sui Beni comuni. Giovedì al centro sociale Brancaleone di Roma si terrà un’assemblea pubblica. “Insieme proveremo a capire non solo come portare solidarietà al Leoncavallo e mobilitarci, ma cosa succede ora che il governo ha presentato in modo così eclatante la sua crociata contro le nostre esperienze”, spiegano dalla storica occupazione di via Levanna. Ci saranno anche i movimenti per il diritto all’abitare. “Il 6 settembre a San Basilio saremo in corteo per ricordare Fabrizio Ceruso, ma anche per dire che se la destra vuole aprire una nuova stagione di sfratti e sgomberi, siamo pronti a resistere tutti insieme, per questo vogliamo costruire un punto con la piazza di Milano”, spiega Margherita Grazioli. Migranti. Fermata la nave Mediterranea. “Bloccano noi, ma fanno accordi con chi spara contro le ong” di Alessia Candito La Repubblica, 26 agosto 2025 Prima missione, primo fermo. A due giorni dall’arrivo a Trapani, dove Mediterranea, la nuova nave dell’omonima ong, è approdata sabato dopo aver disobbedito all’ordine di raggiungere Genova, è arrivato il blocco deciso dal Viminale. Ancora non è chiaro per quanto la nave rimarrà ferma in porto: la durata del fermo, come l’entità della multa saranno decise e comunicate dal prefetto nei prossimi cinque giorni. “Un provvedimento osceno”, per la presidente dell’ong Laura Marmorale. “Ancora meno accettabile nel quadro attuale, alla luce di quello a cui abbiamo assistito nella Sar libica, cioè una vera e propria escalation di provocazioni e violenze da parte di milizie finanziate e addestrate anche dal governo italiano”, sottolinea il capomissione Beppe Caccia. Insieme al comandante Pavel Botica, dopo aver ripetutamente chiesto la riassegnazione del porto di sbarco alla luce delle precarie condizioni dei naufraghi, nei giorni scorsi hanno deciso di fare rotta verso il porto sicuro più vicino per questioni di sicurezza. “Salute, cura e diritti delle persone per noi saranno sempre una priorità”, aveva spiegato Caccia. Nella decisione, ha pesato anche la certificazione Rina, l’ente internazionale di classificazione delle navi, che impone a Mediterranea di non superare le 200 miglia dal punto in cui il soccorso è stato effettuato. Indicazioni - hanno confermato dalla Germania, che è Stato di bandiera - che il comandante deve tenere in considerazione, pena l’obbligo di affrontare a titolo personale la responsabilità di qualunque cosa succeda a bordo, a naufraghi o equipaggio. E per il comandante Botica le condizioni per affrontare in sicurezza altri tre giorni di navigazione non c’erano. A dimostrarlo, anche il malore che uno dei ragazzini soccorsi e sbarcati la notte di sabato a Trapani - ha avuto non appena ha toccato terra. Lui e gli altri, fra cui tre adolescenti di 14,15 e 16 anni, nella notte fra mercoledì e giovedì sono stati letteralmente tirati fuori dalle onde. In piena notte, gli uomini alla guida del motoscafo militare su cui viaggiavano, li hanno scaraventati in acqua per poi allontanarsi a tutta velocità e solo per miracolo i team di soccorso sono riusciti a rintracciarli tutti fra onde alte più di un metro e mezzo. “Fermano noi, ma collaborano con quelle milizie che in Libia sono responsabili di ogni genere di abuso e violenza nei campi di detenzione e, in mare - attacca Marmorale - sparano addosso alle navi umanitarie come avvenuto ieri contro la Ocean Viking. E in Italia sanzionano chi soccorre”. La nave di Sos Méditerranée, adesso in rotta verso Siracusa anche per riparare i gravi danni subiti, è stata attaccata da una motovedetta della Guardia costiera libica a colpi di armi da fuoco. Per oltre venti minuti, Ocean Viking è stata colpita da raffiche di mitra sparate ad altezza d’uomo, che solo per miracolo non hanno provocato feriti, o peggio morti. Nei giorni precedenti, anche Mediterranea era stata prima circondata e minacciata da otto motovedette, gommoni e motoscafi libici, poi marcata a uomo da una motovedetta, che l’ha seguita per oltre trenta ore. “Quello che sta succedendo è evidente a chiunque ne faccia una lettura in buona fede”, ragiona Beppe Caccia. “Una serie di elementi - tra il rilascio e il rimpatrio di Almasri e i continui viaggi e incontri di Piantedosi e Meloni a Tripoli - hanno creato un clima di impunità in cui sguazzano queste milizie, che pensano di poter fare qualsiasi violazione certi della protezione del governo italiano. Che siano sanzionate le navi di soccorso, è un totale rovesciamento della realtà e dei valori” Non c’è pace senza giustizia, ecco la speranza per Ucraina e Medio Oriente di Papa Leone XIV La Stampa, 26 agosto 2025 È necessario ridare respiro alla diplomazia e smettere di produrre strumenti di morte. La Santa Sede non può esimersi dal far sentire la propria voce. Pubblichiamo un estratto del discorso “Pace, verità, giustizia” pronunciato da Papa Leone il 16 maggio 2025 durante l’udienza al Corpo diplomatico presso la Santa Sede. Il testo è raccolto nel libro “E pace sia! Parole alla Chiesa e al mondo”, il primo volume autorizzato dal pontefice in uscita il 27 agosto per Libreria Editrice Vaticana, che ne ha raccolto i primi discorsi. Nel nostro dialogo, vorrei che prevalesse sempre il senso di essere famiglia - la comunità diplomatica rappresenta infatti l’intera famiglia dei popoli - che condivide le gioie e i dolori della vita e i valori umani e spirituali che la animano. La diplomazia pontificia è, infatti, un’espressione della cattolicità stessa della Chiesa e, nella sua azione diplomatica, la Santa Sede è animata da una urgenza pastorale che la spinge non a cercare privilegi ma ad intensificare la sua missione evangelica a servizio dell’umanità. (...) Nel nostro dialogo vorrei che tenessimo presente tre parole-chiave, che costituiscono i pilastri dell’azione missionaria della Chiesa e del lavoro della diplomazia della Santa Sede. La prima parola è pace. Troppe volte la consideriamo una parola “negativa”, ossia come mera assenza di guerra e di conflitto, poiché la contrapposizione è parte della natura umana e ci accompagna sempre, spingendoci troppo spesso a vivere in un costante “stato di conflitto”: in casa, al lavoro, nella società. La pace allora sembra una semplice tregua, un momento di riposo tra una contesa e l’altra, poiché, per quanto ci si sforzi, le tensioni sono sempre presenti, un po’ come la brace che cova sotto la cenere, pronta a riaccendersi in ogni momento. Nella prospettiva cristiana - come anche in quella di altre esperienze religiose - la pace è anzitutto un dono: il primo dono di Cristo: “Vi do la mia pace” (Gv 14,27). Essa è però un dono attivo, coinvolgente, che interessa e impegna ciascuno di noi, indipendentemente dalla provenienza culturale e dall’appartenenza religiosa, e che esige anzitutto un lavoro su sé stessi. La pace si costruisce nel cuore e a partire dal cuore, sradicando l’orgoglio e le rivendicazioni, e misurando il linguaggio, poiché si può ferire e uccidere anche con le parole, non solo con le armi. In quest’ottica, ritengo fondamentale il contributo che le religioni e il dialogo interreligioso possono svolgere per favorire contesti di pace. Ciò naturalmente esige il pieno rispetto della libertà religiosa in ogni Paese, poiché l’esperienza religiosa è una dimensione fondamentale della persona umana, tralasciando la quale è difficile, se non impossibile, compiere quella purificazione del cuore necessaria per costruire relazioni di pace. A partire da questo lavoro, che tutti siamo chiamati a fare, si possono sradicare le premesse di ogni conflitto e di ogni distruttiva volontà di conquista. Ciò esige anche una sincera volontà di dialogo, animata dal desiderio di incontrarsi più che di scontrarsi. In questa prospettiva è necessario ridare respiro alla diplomazia multilaterale e a quelle istituzioni internazionali che sono state volute e pensate anzitutto per porre rimedio alle contese che potessero insorgere in seno alla Comunità internazionale. Certo, occorre anche la volontà di smettere di produrre strumenti di distruzione e di morte, poiché, come ricordava Papa Francesco nel suo ultimo Messaggio Urbi et Orbi, “nessuna pace è possibile senza un vero disarmo. L’esigenza che ogni popolo ha di provvedere alla propria difesa non può trasformarsi in una corsa generale al riarmo”. La seconda parola è giustizia. Perseguire la pace esige di praticare la giustizia. Come ho già avuto modo di accennare, ho scelto il mio nome pensando anzitutto a Leone XIII, il Papa della prima grande Enciclica sociale, la Rerum novarum. Nel cambiamento d’epoca che stiamo vivendo, la Santa Sede non può esimersi dal far sentire la propria voce dinanzi ai numerosi squilibri e alle ingiustizie che conducono, tra l’altro, a condizioni indegne di lavoro e a società sempre più frammentate e conflittuali. Occorre peraltro adoperarsi per porre rimedio alle disparità globali, che vedono opulenza e indigenza tracciare solchi profondi tra continenti, Paesi e anche all’interno di singole società. È compito di chi ha responsabilità di governo adoperarsi per costruire società civili armoniche e pacificate. Ciò può essere fatto anzitutto investendo sulla famiglia, fondata sull’unione stabile tra uomo e donna, “società piccola ma vera, e anteriore a ogni civile società”. Inoltre, nessuno può esimersi dal favorire contesti in cui sia tutelata la dignità di ogni persona, specialmente di quelle più fragili e indifese, dal nascituro all’anziano, dal malato al disoccupato, sia esso cittadino o immigrato. La mia stessa storia è quella di un cittadino, discendente di immigrati, a sua volta emigrato. Ciascuno di noi, nel corso della vita, si può ritrovare sano o malato, occupato o disoccupato, in patria o in terra straniera: la sua dignità però rimane sempre la stessa, quella di creatura voluta e amata da Dio. La terza parola è verità. Non si possono costruire relazioni veramente pacifiche, anche in seno alla Comunità internazionale, senza verità. Laddove le parole assumono connotati ambigui e ambivalenti e il mondo virtuale, con la sua mutata percezione del reale, prende il sopravvento senza controllo, è arduo costruire rapporti autentici, poiché vengono meno le premesse oggettive e reali della comunicazione. Da parte sua, la Chiesa non può mai esimersi dal dire la verità sull’uomo e sul mondo, ricorrendo quando necessario anche ad un linguaggio schietto, che può suscitare qualche iniziale incomprensione. La verità però non è mai disgiunta dalla carità, che alla radice ha sempre la preoccupazione per la vita e il bene di ogni uomo e donna. D’altronde, nella prospettiva cristiana, la verità non è l’affermazione di principi astratti e disincarnati, ma l’incontro con la persona stessa di Cristo, che vive nella comunità dei credenti. Così la verità non ci allontana, anzi ci consente di affrontare con miglior vigore le sfide del nostro tempo, come le migrazioni, l’uso etico dell’Intelligenza artificiale e la salvaguardia della nostra amata Terra. Sono sfide che richiedono l’impegno e la collaborazione di tutti, poiché nessuno può pensare di affrontarle da solo. Cari Ambasciatori, il mio ministero inizia nel cuore di un Anno giubilare, dedicato in modo particolare alla speranza. È un tempo di conversione e di rinnovamento e soprattutto l’occasione per lasciare alle spalle le contese e cominciare un cammino nuovo, animati dalla speranza di poter costruire, lavorando insieme, ciascuno secondo le proprie sensibilità e responsabilità, un mondo in cui ognuno possa realizzare la propria umanità nella verità, nella giustizia e nella pace. Mi auguro che ciò possa avvenire in tutti i contesti, a partire da quelli più provati come l’Ucraina e la Terra Santa. Vi ringrazio per tutto il lavoro che fate per costruire ponti fra i vostri Paesi e la Santa Sede, e di tutto cuore benedico voi, le vostre famiglie e i vostri popoli. Come un negoziato nasce già morto di Stefano Stefanini La Stampa, 26 agosto 2025 Tanto vale dirlo ma nessuno ne ha il coraggio. Il negoziato per mettere fine alla guerra in Ucraina è morto prima di cominciare. Con la cinica spregiudicatezza di un diplomatico di classe, Sergei Lavrov, ministro degli Esteri russo, ci ha messo sopra una pietra tombale. Nel silenzio generale di tanti altri. Washington caccia la testa sotto la sabbia. Non potendo ammettere che la sua iniziativa per avviare il negoziato russo-ucraino è fallita - si è appena esibito con un “avevo ragione su tutto” - Donald Trump favoleggia di altre due settimane per dare tempo a Vladimir Putin. Per cosa? Per ripetere che “bisogna prima risolvere le cause alla radice del conflitto” - leggi esistenza dell’Ucraina come Stato indipendente, sottratto alla longa manus di Mosca - come gli ha già detto ad Anchorage? Gli ucraini, che lo sanno, hanno celebrato l’anniversario dell’indipendenza senza illusioni. I leader europei pure lo sanno ma fanno finta di non saperlo: chi osa contraddire Donald Trump? Meglio parlare di garanzie internazionali. Importantissime per il futuro dell’Ucraina ma solo quando le armi taceranno. Invece la guerra continua. Nelle capitali si parla ancora di pace. Sul terreno si fa la guerra. Il paradosso, catturato ieri su queste colonne da Anna Zafesova per il versante russo, si articola su tre piani: perché il negoziato non si fa, malgrado sia stato anticipato dal presidente degli Stati Uniti dopo il suo incontro faccia a faccia con l’omologo russo; cosa attende l’Ucraina e, di riflesso, cosa fare da parte degli europei che la sostengono; come regolarsi con Donald Trump quando sbaglia visto che non gli si può dire che ha sbagliato. Problema serio per gli alleati, come l’Italia, per l’Europa, per la Nato che vogliono assolutamente continuare ad avere gli Stati Uniti dalla loro parte. Fino a che punto può funzionare la strategia anche quando Trump mostra di non esserlo più di tanto, se non di simpatizzare con la parte opposta, vedi applauso a Vladimir Putin sul tarmac di Anchorage? Il negoziato russo-ucraino non si fa perché la Russia non lo vuole fare. Al ritorno da Anchorage, Trump aveva ventilato un maxi-vertice trilaterale Putin-Zelensky-Trump stesso; dopo il gelido silenzio moscovita ha ripiegato su un Putin-Zelensky mentre la diplomazia americana esplorava possibili sedi, Budapest, Ginevra, Roma... Ci ha pensato Sergei Lavrov a gettare una cascata d’acqua sul fuocherello. Di incontro fra i due presidenti per ora non si parla anche perché uno dei due - Zelensky - è illegittimo. Al massimo, si alza il livello delle delegazioni finora incontratesi a Istanbul, ma prima l’incontro va preparato, ci vuole un ordine del giorno concordato e così via. Per continuare la guerra senza troppo scontentare il ritrovato amico Donald, Putin tace e fa parlare Lavrov, suo ministro degli Esteri, con parentesi Medvedev, da 21 anni e all’inseguimento del record di Andrei Gromyko (28), avendo già seppellito in longevità altri leggendari predecessori sovietici, Georgy Chicherin (12) e Vjačeslav Molotov (13). Rinviare alle calende greche senza mettersi contro Trump - che nel frattempo Putin loda per gli sforzi di pace - è un gioco da ragazzi per un diplomatico del suo calibro ed esperienza. Lo dice alla Nbc americana: un vertice Putin-Zelensky non è in programma. Niente cessate il fuoco lungo la linea di demarcazione - concessione fatta da Donald Trump a Anchorage. Adesso niente negoziato per una pace duratura, annunciato dallo stesso Trump al ritorno da Anchorage. All’Ucraina non rimane che difendersi - o arrendersi. Pur estenuati, gli ucraini non hanno alcuna intenzione di arrendersi. Volevano un cessate il fuoco sapendo che la Russia avrebbe mantenuto, di fatto, il possesso dei territori conquistati. Ma non cederne altri, specie la parte del Donetsk protetta da una solida linea di fortificazioni che l’offensiva russa non ha scalfito. La posizione non è cambiata. Su Fox News, il vicepresidente americano, JD Vance, ha assicurato che la Russia ha fatto importanti concessioni: quali? Vance non l’ha spiegato ed è passato al suo ritornello preferito: la parte del leone nella sicurezza dell’Ucraina la devono fare gli europei. I quali se ne sono ormai resi conto e, quali che saranno le future garanzie internazionali, sanno di doversele far carico sperando in un supporto Usa dal cielo e di intelligence. E dell’Italia per lo sminamento? Tutto fa. Ma prima di arrivare a garantire la futura pace, o tregua, bisogna che finisca la guerra. L’Europa è per il negoziato. Fino a che il negoziato non si fa - e non si fa perché la Russia lo rifiuta, l’Europa è per l’Ucraina. Questo significa due cose. Primo, prendere sulle spalle il carico dell’assistenza militare ed economico-finanziaria a Kiev. Sperando che da Washington continui a venire la collaborazione di intelligence, cruciale per la condotta delle operazioni e, magari, il Congresso estorca qualcos’altro alla Casa Bianca, sanzioni o armi. Secondo, gli europei non hanno altra scelta che continuare a far finta di credere in Donald Trump e nei suoi tentativi di negoziato russo-ucraino. Se il presidente americano si sfila dà carta bianca a Putin - come con Netanyahu a Gaza. Ancora peggio, se pur di arrivare alla fine della guerra, e aggiudicarsi l’agognato Nobel per la pace, il presidente americano rivolge le pressioni su Volodymir Zelensky per fargli accettare un negoziato ipotecato dalle condizioni russe. Chissà che a furia di sbagliare il presidente che ha sempre ragione non ne azzecchi una. Ma, almeno inter nos, non illudiamoci in un negoziato russo-ucraino prossimo venturo grazie alla genialità di Donald Trump. Se e quando ci si arriverà, sarà grazie alla capacità di resistenza ucraina all’aggressione di Vladimir Putin. Le armi contro le guerre? Sono la non violenza e la decolonizzazione di Sergio Labate* Il Domani, 26 agosto 2025 La società civile è sempre più investita dalla responsabilità di opporsi alla distruzione sistematica del presente. Ma è anche evidente che non possiamo affidarci solo alla politica alta per modificare ciò che ci indigna. L’importante iniziativa di Freedom Flottilla, ricordata da Giulio Cavalli su questo giornale, m’induce a condividere alcune considerazioni più ampie sul tempo presente. Che è quel che è, tempestoso e sciagurato. Dal quale però dobbiamo assolutamente trarre delle direzioni da prendere per trasformare la politica da esperienza catecontica a esperienza utopica. Parole difficili che vogliono dire una cosa semplice: uno dei rischi più grandi di questo tempo è che pensiamo alla politica solo in termini negativi, come se tutta la sua efficacia si potesse misurare nella capacità di rallentare la distruzione. Quest’angoscia generalizzata ci induce così a non credere alla politica come ciò che può trasformare il presente e non solo rallentarne la deriva. Per usare una metafora non proprio accademica: ci stiamo abituando a pensare alla politica come, nel migliore dei casi, il freno della storia, avremmo invece bisogno di ricominciare a pensarla come il suo acceleratore. Perché l’iniziativa di provare a sabotare il blocco di Gaza dal mare mi pare una provocazione utopica? Innanzitutto perché si evoca un diritto del mare da contrapporre all’ordine giuridico della terra. In fondo ancora adesso, quando ci riferiamo alla politica internazionale, la definiamo “geopolitica”. Del resto è proprio Schmitt a scrivere che “la storia del diritto internazionale fino ad oggi conosciuta, è una storia di occupazioni di terra”. Logica novecentesca - Tutto ciò che sta accadendo sembra tornare a questa logica novecentesca: non solo la guerra di Putin è per l’occupazione di terre, ma anche quella di Netanyahu si manifesta sempre di più come una guerra coloniale mascherata da guerra difensiva. In Occidente nessuno si scandalizza più per l’uso di termini che evocano direttamente un grande passato di cui vergognarsi: i coloni israeliani si chiamano così perché impegnati esplicitamente in un esercizio di colonizzazione. Ci siamo improvvisamente dimenticati dell’abominio delle conquiste occidentali di territori già abitati. Con che coerenza facciamo studiare criticamente la conquista dell’America e poi assecondiamo la nuova logica coloniale? (La risposta in effetti la suggerisce Trump con le università americane ma anche Valditara con la sua retorica tronfia di un Occidente senza coscienza di sé: basta modificare i programmi e trasformare la storia in propaganda). Tutto questo è segno di una delle contese culturali più importanti di questo tempo disgraziato: decidere chi rappresenta l’Occidente. Chi ne incarna orgogliosamente e senza più pudore le peggiori azioni della storia, a partire dal colonialismo, oppure chi l’identifica nella critica alle proprie azioni e nel rifiuto di quella storia di violenza? L’idea di giungere dal mare è dunque un modo per contestare questo ritorno alle occupazioni di terra su larga scala. Ma anche per sottrarre la protesta politica alla vanità del “nomos dell’aria”. A volte ho come la sensazione che la società civile si accontenti di affidare “all’etere” la responsabilità di prendere posizione: ci riteniamo soddisfatti se le nostre prese di posizione sono virali sui social. Concreti quando? Ecco un’altra questione importante: in tempi in cui “l’aria” è diventato lo spazio privilegiato dell’opposizione politica, che cos’è davvero concreto? In fondo il mare “confina” con la terra e le navi possono provare a forzare i blocchi. Ma in che modo i social forzano i blocchi? Lo possono fare certamente e, infatti, una delle prime cose a cui i regimi autoritari pongono limiti sono proprio i social. Ma forse non bastano più per rendere concreta la nostra indignazione. C’è davvero bisogno di iniziative concrete che decolonizzino i territori che qualcuno sta brutalmente cercando di ricolonizzare forzatamente. C’è un ultimo aspetto. In tempi di guerra, diffidiamo delle azioni nonviolente. Quasi con disprezzo, come se contenessero in sé un velleitarismo un po’ snob. Belle cose, ma del tutto inutili. Io penso invece esattamente il contrario. Perché le azioni nonviolente sono suscitate da un presupposto teorico sempre più importante: la distinzione tra guerre e conflitti. Dove c’è guerra, c’è il tentativo di mettere fine in forma violenta a un conflitto. Ora, in un quadro del genere è evidente che l’opinione pubblica contraria alla guerra non possa opporsi facendo a sua volta la guerra. L’unico strumento concreto che ci rimane è appunto esercitare un conflitto che spezzi l’egemonia della guerra. La lezione che traggo è dunque la seguente: è sempre più evidente che non possiamo affidarci solo alla politica alta per modificare ciò che ci indigna. Ma se vogliamo esercitare con intelligenza il nostro dovere di prendere posizione, conviene forse pensare a queste semplici cose: decolonizzare e contrapporre i conflitti nonviolenti alle guerre crescenti. *Filosofo “La Corte penale potrebbe congelare le indagini sulla Palestina” di Chiara Cruciati Il Manifesto, 26 agosto 2025 Intervista al giurista Sergey Vasiliev: “Se la Cpi si sentirà con le spalle al muro, potrebbe optare per una strategia di “de-escalation”. A rischio ci sono tutte le indagini, anche quelle su Russia e Afghanistan”. Sergey Vasiliev è professore di diritto internazionale alla Open University dei Paesi bassi e tra i massimi esperti di Corte penale internazionale. Con lui abbiamo discusso dei rischi che la Cpi corre dopo due anni di intimidazioni israeliane e sanzioni statunitensi. Fonti vicine all’Aja ci riportano di una grande paura, a ogni livello, dei singoli funzionari e nei vari uffici... Sono a conoscenza del fatto che la situazione attuale può condurre la Corte a prendere misure che ridimensionino le indagini, le facciano cadere e congelare. Politicamente e legalmente parlando, è estremamente preoccupante e senza precedenti: sei giudici, il procuratore e due vice procuratori sono sottoposti a sanzioni personali da parte dell’amministrazione Usa. La paura è comprensibile, anche se la Corte in sé non è stata ancora sanzionata. Penso comunque che non sarebbe semplice per la Cpi tornare indietro e far cadere i casi che sta trattando, sia i mandati d’arresto contro il premier israeliano Netanyahu e l’ex ministro della difesa Gallant che quelli - di cui però ancora non c’è certezza - contro i ministri Ben Gvir e Smotrich. Nel primo caso i giudici hanno già dato autorizzazione a procedere, tocca agli stati membri eseguirli. Se dovessero cadere nei prossimi mesi o nei prossimi anni, significherebbe che la Corte si è arresa alle pressioni, un colpo gravissimo all’indipendenza giudiziaria, alla credibilità della Cpi e a quella degli stati membri. Credo che quello che genera più paura dentro la Corte sia la sensazione che nessuno la stia sostenendo, che le persone che ci lavorano sono senza difese: ci sono dichiarazioni di preoccupazione degli Stati ma quasi nessuno sforzo concreto, se non dietro le quinte. L’Unione europea in particolare sta fallendo miseramente. Potrebbe quindi non far cadere le indagini ma congelarle? Se la Corte si sentirà con le spalle al muro, potrebbe optare per una strategia di “de-escalation”: non far cadere le indagini ma segnalare un rallentamento, ad esempio togliendo priorità ad alcuni aspetti delle indagini sulle autorità israeliana e concentrarsi su Hamas. È successo in passato: sul fascicolo Afghanistan, Khan aveva rivisto l’indagine per segnalare all’amministrazione Biden che non avrebbe spinto le indagini sugli statunitensi. Se dovesse accadere nel caso palestinese, sarebbe il chiaro risultato delle intimidazioni subite dalla Corte. Ha parlato di sanzioni contro la Cpi, cosa comporterebbero? Come ogni altra organizzazione, la Cpi ha bisogno di servizi tecnici, finanziari, assicurativi, bancari. Eventuali sanzioni complicherebbero enormemente la fornitura di tali servizi da parte di terzi: se li fornissero, violerebbero le misure restrittive. La Corte verrebbe privata di prodotti vitali alle sue operazioni giornaliere. Pensiamo ai prodotti forniti da Microsoft: la Corte resterebbe senza accesso agli account email, ai database…tutto bloccato. Potrebbe passare a sistemi open source come Linux ma richiederebbe moltissimo tempo riconfigurare tutti i sistemi operativi, le attività ne risentirebbero comunque. Cosa potrebbe fare l’Ue? Avrebbe dovuto, fin dal primo istante, attivare il meccanismo che permette alle parti terze, alle entità commerciali e alle imprese che cooperano con la Corte di continuare a fornire i propri cruciali servizi, in modo da mitigare le sanzioni finora poste sugli individui (conti correnti congelati, divieti di viaggiare liberalmente…). Al contrario è ancora in vigore il sistema di blocco Ue. Da cosa deriva tale apatia? Più che apatia, è paura. Camminano sulle uova intorno a Trump, hanno paura di innervosirlo. I paesi europei cercano di placarlo, di pettinare il suo ego. Se uscissero con un comunicato duro in cui dicono che l’amministrazione Usa non rispetta l’indipendenza giudiziaria e che sta attaccando anche la loro sovranità, potrebbe reagire in modo scomposto, imporre dazi, sanzioni, ritirarsi dal tavolo ucraino, rifiutarsi di inviare armi… Oggi i timori riguardano il fascicolo Palestina, ma in realtà sarebbero in pericolo tutte le indagini, comprese quelle aperte contro la Russia... Trump si muove come un elefante in una cristalleria. Se la Corte non può operare pienamente, ne risentiranno tutte le indagini: sull’apartheid di genere imposta dai Talebani in Afghanistan, sul Myanmar, sulla Russia in Ucraina…ci sono soggetti nel circolo di Trump, come il senatore Lindsey Graham, che sono molto selettivi nel supporto alla Corte e che spingono per le indagini su Putin. Dovrebbero capire che se la Cpi non sarà più operativa, non potrà fare niente nemmeno contro la Russia. La Corte ha in mano strumenti per reagire da sola a simili abusi? L’articolo 70 del suo statuto le riconosce l’autorità di indagare chi muove intimidazioni a funzionari della Corte o li punisce per le loro attività. Possono essere indagati anche cittadini di paesi non membri della Cpi perché l’effetto dell’abuso ha luogo sul territorio di uno Stato membro, i Paesi bassi. Non penso comunque che la Corte consideri seriamente la possibilità di incriminare qualcuno per questi motivi. All’amministrazione Trump in ogni caso non interesserebbe per niente.