Non sono mostri, sono tre bambini su un’auto rubata e una società che preferisce punire invece che capire di Elton Kalica Ristretti Orizzonti, 25 agosto 2025 La tragica morte di Cecilia De Astis, investita da tre bambini rom alla periferia di Milano, ha immediatamente acceso i riflettori mediatici e il dibattito politico. Le prime reazioni non sono arrivate da chi, con responsabilità istituzionali, avrebbe dovuto interrogarsi sulle cause profonde di una simile vicenda, ma da chi da anni cavalca il tema della “sicurezza” come cavallo di battaglia propagandistico. Il leader della Lega ha prontamente colto l’occasione per rilanciare la sua proposta di “ruspe” contro i campi rom, trasformando la morte di una persona in uno strumento di legittimazione di odio vero un popolo. Il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, ha avuto il coraggio di ricordare che “sulla morte di una persona è vergognoso speculare”. Eppure, la macchina securitaria si è rimessa in moto: giornali e talk show hanno dato ampio spazio alla richiesta di un “giro di vite” sulla questione rom, alimentando lo schema consueto per cui ogni fatto di cronaca viene subito tradotto in un’occasione per proporre più repressione, meno diritti, nuove esclusioni. Ma se vogliamo guardare a questa vicenda con serietà e responsabilità, occorre spostare lo sguardo dalla narrazione tossica della paura che trasforma anche i bambini in mostri, e provare a ragionare sui nodi strutturali che emergono dalla condotta di tre bambini dipoco più di undici anni che escono dal loro campo rom nel caldo soffocante di metà agosto, rubano un’auto per andare in giro in una Milano quasi deserta, e finiscono per perdere il controllo dell’auto nel modo più drammatico uccidendo una persona. Quando i rom erano miei vicini di casa Il carcere si rivela sempre un ottimo campo per osservare le traiettorie di vita delle persone che ci finiscono, offrendo elementi di riflessione sulle loro condizioni familiari, economiche e sociali. Sono venticinque anni che frequento il carcere di Padova e in tutto questo tempo ho conosciuto molte persone di etnia rom. Lo spazio del carcere mi ha permesso di interagire con loro su diversi piani relazionali, prima come detenuto, come volontario di Ristretti Orizzonti e infine come ricercatore dell’Università di Padova. Io avevo conosciuto i rom in un tempo e contesto diverso rispetto a quello odierno e devo confessare che anch’io sin dall’infanzia sono stato abituato ad alcuni considerazioni negative su campi rom. Nato e cresciuto nell’Albania del periodo del “socialismo reale”, ho assistito ai programmi di integrazione dei rom promossi dallo Stato, che aveva come obiettivo la trasformazione di tutta la popolazione, compresi i rom, in proletari coscienziosi, ovvero in persone competenti nel lavoro e rigorose nella condotta comunista. Veniva quindi preteso da tutti il rispetto dell’uguaglianza e l’eliminazione di ogni forma di discriminazione etnica o razziale. Questa politica aveva prodotto l’inserimento delle famiglie rom sia nei contesti abitativi sia nel sistema scolastico e lavorativo di allora. Sono cresciuto in un quartiere in cui ogni condominio ospitava almeno una famiglia rom e i loro figli frequentavano la mia stessa scuola. A volte c’erano problemi d’integrazione: ogni tanto qualche famiglia abbandonava l’appartamento assegnatole per tornare nella vecchia baraccopoli, oppure succedeva che qualche bambino non studiava e veniva più volte bocciato. Successivamente, nelle assemblee scolastiche e di quartiere spesso si affrontava il tema dei rom in modo problematico, che poi diventava anche tema di discussione in famiglia e tra compagni. Infine, era facile sentire conclusioni semplificatorie sulla “loro” incapacità di accettare il “nostro” stile di vita. Quindi ricordo che a scuola i bambini rom si sedevano spesso all’ultimo banco segnando una sorta di distanza, nonostante l’insistenza delle maestre. Anche in quartiere, sebbene le dichiarazioni di solidarietà riempissero le assemblea, poi nel quotidiano si sentivano spesso commenti di biasimo rispetto al “loro” stile di vita. La zingara che amavo da bambino Tuttavia a scuola il tema dell’inclusione dei rom occupava non solo le assemblee, ma anche lo stesso programma scolastico. Ricordo di aver scritto più volte tesine sulla figura dello zingaro in letteratura e il suo significato politico. Ad esempio “Gli zingari” di Pushkin era un romanzo considerato importante per l’educazione proletaria, poiché poneva in contrasto la società corrotta della Russia dell’ottocento e la comunità rom, libera, amante della natura, che rifiutava i vincoli sociali imposti dall’ordine aristocratico. Quel romanzo mitizzava gli zingari e i valori della loro comunità che proprio per una cultura ancestrale e pre-politica, rifiutavano la logica della vendetta e della violenza. Allo stesso tempo demoliva il cittadino russo, rappresentato da Alekò, che nonostante la sua volontà di scappare da una cultura oppressiva andando a vivere in un campo rom, nonostante si fosse innamorato proprio di una zingara di nome Zemfira, alla fine non riesce a liberarsi dalle sue passioni corrotte e distruttive tipiche della sua società di appartenenza. E proprio in ragione della sua gelosia e della sua mascolinità finisce per uccidere Zemfira. La figura della zingara l’avevo studiata anche in Notre-Dame di Paris di Hugo, dove attraverso la storia di Esmeralda, una zingara bellissima e libera che conquista il cuore di tutti i personaggi (del poeta, del diacono e perfino del povero Quasimodo) viene descritta la periferia di Parigi del quattrocento in cui vivono ladri, vagabondi e zingari. Alla fine Esmeralda viene accusata di stregonerie e impiccata, una fine tragica che denuncia la persecuzione borghese e la repressione religiosa verso gli zingari. Così come di zingari avevo letto in Carmen di Mérimée, dove José, un soldato onesto, si innamorava di Carmen, una gitana bellissima e decisa a conservare la sua libertà. Pur di conquistare il suo cuore Jose si fa coinvolgere in attività di contrabbando dimenticando i suoi valori di soldato. Quando questa sua trasformazione si rivela inefficace, ha una crisi di coscienza e anche lui finisce per uccidere la donna che ama. Un’altra tragedia che denuncia l’incapacità maschile e borghese di accettare il rifiuto di una zingara. Ecco, questa consapevolezza romantica sul contrasto storico tra i due mondi e le ragioni strutturali che producono l’intolleranza verso una categoria percepita come libera, indomabile e pericolosa, si è scontrata, una volta arrivato in Italia, con campagne mediatiche che descrivevano i rom come il nemico pubblico numero uno: a onor del vero non solo gli zingari, anche noi albanesi siamo stati rappresentati dai media come mostri, poi i romeni, i magrebini e ora gli africani. Solo che mentre c’è la cronaca nera che ha bisogno di spostare i riflettori su diverse etnie per costruire il mostro, lo zingaro torna sempre utile poiché fa sempre notizia. I rom che ho conosciuto in carcere Confuso tra romanzi e giornali, ho avuto modo di conoscere diversi ragazzi rom finiti in carcere. Le loro storie sono state così significative che oggi mi pento di non averne raccolto le testimonianze, e non avere annotato le loro riflessioni, dati davvero importanti per svolgere una ricerca che potrebbe decostruire molti luoghi comuni e stereotipi. Le traiettorie di questi ragazzi erano il risultato di processi complessi di marginalizzazione, come l’esclusione urbana ed educativa sommate a discriminazioni che attraversano gli ambiti economici e sociali. I percorsi giudiziari erano spesso anelli della stessa catena di ingiustizie: percorsi penalizzanti quasi inevitabili. Ricordo che in carcere molti ragazzi Rom scoprivano l’interesse per lo studio e frequentavano la scuola media e in alcuni casi proseguivano con le superiori. Questo dimostra come l’abbandono scolastico non sia legato a un fattore culturale, ma a difficoltà concrete: la distanza tra l’accampamento e la scuola, la mancanza di mezzi per acquistare libri o pagare la mensa, l’impossibilità delle famiglie di accompagnare i figli ogni giorno. Giovanna Campani, in L’integrazione dei rom in Italia (2008), ha mostrato come la frequenza scolastica dei bambini rom aumenti sensibilmente quando vengono messi a disposizione servizi di trasporto, mediatori culturali e insegnanti formati. Tutti elementi fondamentali che noi diamo per scontato che siano nella disponibilità di tutti. Anche quando le famiglie si impegnano a mandare i figli a scuola, questi devono affrontare la discriminazione dei coetanei, fatta di disprezzo e fastidio, che finisce per scoraggiarli. Inoltre, le condizioni di vita nei campi - come studiare in una roulotte affollata - rendono l’apprendimento quasi impossibile. Un rapporto della Caritas del 2015 evidenzia che laddove sono stati attivati progetti di sostegno economico e tutoraggio, la frequenza scolastica supera l’80%. E infatti ho conosciuto in carcere diversi ragazzi che nonostante tutto erano riusciti a concludere non solo la scuola dell’obbligo, ma anche ad andare oltre. Eppure la propaganda securitaria insiste puntualmente nella rappresentazione delle famiglie rom come incapaci di educare i propri figli: genitori colpevoli di negligenza, incuria, assenza di scolarizzazione. Non a caso, nella vicenda dei tre bambini di Milano, la magistratura minorile pare abbia disposto l’allontanamento dalle famiglie, accusando i genitori di aver “messo a rischio” i figli. Una dinamica non nuova: ogni anno decine di sentenze dei tribunali minorili in Italia revocano la potestà genitoriale a famiglie rom, motivando la decisione con la mancata scolarizzazione o le condizioni di vita nei campi. In altre parole, la giustizia minorile interviene dove la politica ha fallito: laddove mancano politiche di inclusione, la magistratura supplisce spesso con la sottrazione familiare. Io invece rimango convinto che non sono i genitori a condannare i figli a un destino di devianza, bensì la combinazione di stigmatizzazione sociale, discriminazione istituzionale e abbandono politico. Attribuire tutta la colpa alle famiglie serve solo a scaricare la responsabilità dalle istituzioni: punire i genitori diventa un alibi e un’arma di controllo. I bambini rom agli occhi della politica Se dispersione scolastica e povertà alimentano i pregiudizi sui rom, in carcere ho scoperto come questi stessi elementi compromettano anche i loro percorsi penali. I resoconti scolastici negativi, uniti alla disoccupazione e allo status di “nullatenente”, vengono spesso usati nei contesti processuali come aggravanti o prove di una personalità incline al crimine. In carcere, i conflitti tra detenuti (spesso su base etnica) sono frequenti. Tali conflitti, a cui ho assistito in prima persona e talvolta sono stato persino implicato, coinvolgevano molto spesso gruppi di italiani, albanesi, magrebini, romeni e persone dell’africa subsahariana. La sociologia del carcere ha da sempre analizzato le dinamiche di gruppo e l’assunzione di ruoli all’interno della comunità reclusa, rilevando puntualmente il bisogno di riaffermazione come motore di dinamiche machiste e dimostrazioni di forza sia simbolica che agita. Tuttavia, ho osservato che i ragazzi rom tendono a evitare il conflitto e si rifiutano di farsi coinvolgere in situazioni violente. Non si tratta sicuramente di paura. Molti mi raccontavano che da bambini, nei campi, si esercitavano nel pugilato o nella lotta, rituali che insieme ai balli collettivi accelerano il passaggio verso l’età adulta e il matrimonio, ma mai vengono usati per aggredire. Chiaramente, sono consapevole che fuori dal carcere i reati non hanno né etnie e tantomeno colore, però credo sia importante sottolineare la capacità di tanti ragazzi rom di tenersi lontani dalla violenza. Però la mia osservazione contrasta con lo stereotipo dello “zingaro violento”, usato oggi per invocare l’abbassamento dell’età imputabile, ossia la soglia a partire dalla quale un minore può essere processato penalmente. In Italia, attualmente, i minori sono imputabili dai 14 anni in su, ma sull’onda dell’emozione di questo fatto di cronaca che ha visto come protagonisti 3 bambini rom non imputabili si invoca di scendere a 12 o addirittura a 10 anni. Personalmente penso che sia una proposta fallimentare tanto sul piano giuridico, quanto su quello sociale. Infatti la storia di altri ordinamenti che hanno abbassato l’età imputabile ha prodotto solo disastri nei bambini coinvolti e nelle loro famiglie. Negli anni 90, sull’onda del panico per i cosiddetti super-predators diffuso negli Stati Uniti, molti Stati hanno abbassato l’età imputabile e aumentato le pene per i minori con la promessa di impedire “l’uragano della violenza giovanile”. Una ricerca importante sulla violenza giovanile negli Stati Uniti (Zimring, 1998) ha dimostrato come questa normativa non solo non ha ridotto i tassi di criminalità minorile, ma ha addirittura prodotto un aumento drammatico della recidiva. I minori trattati come adulti tendono a reiterare i comportamenti devianti, poiché il carcere minorile diventa una scuola di criminalità. E mentre veniva pubblicata questa rigorosa ricerca in Gran Bretagna si seguiva lo stesso approccio punitivo statunitense con il Crime and Disorder Act del 1998, che fissava l’età minima di responsabilità penale a 10 anni, una delle più basse d’Europa. I rapporti dello Youth Justice Board hanno però mostrato che anche in GB i tassi di recidiva sono diventati elevatissimi, ovvero oltre il 70% dei bambini criminalizzati torna a delinquere nei tre anni successivi alla prima condanna. Per questo motivo il Consiglio d’Europa e l’UNICEF hanno più volte ribadito che abbassare l’età imputabile non solo è inefficace, ma contrasta con i principi della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia (CRC), che invita gli Stati a privilegiare la prevenzione e le misure alternative alla detenzione. La grande menzogna delle ruspe La condizione economica precaria di tanti rom è sicuramente prodotto di uno stile di vita ai margini, ma a volte diventa anche ragione di relazioni positive. La povertà dei rom in carcere smentisce lo stereotipo mediatico delle “ville di lusso” e delle auto di grossa cilindrata di cui tanti disporrebbero. Nonostante gli sforzi visibili che facevano le loro famiglie per sostenerli portando in occasione dei colloqui vestiario e qualche aiuto alimentare, la maggior parte era sprovvista di disponibilità finanziaria. Disponevano invece di un forte senso di solidarietà condividendo il poco che avevano. Infatti li vedevo spesso scambiarsi il bicchiere di olio, di caffè o di zucchero, segno che non sempre tutti riuscivano a fare la spesa, come succede tra i detenuti benestanti. La loro condizione economica era in linea con i loro racconti di vita. Molti avevano pure avuto esperienze lavorative fuori dal carcere, ma evidentemente si trattava di lavori che non consentivano di risparmiare: spesso non avevano nemmeno un conto in banca. Certo non sono sempre degli angioletti. Dalla prospettiva istituzionale anche i ragazzi rom sono spesso considerati fonte di problemi. C’era anche qualcuno che proveniva da storie di abuso di sostanze, una dipendenza che lo costringeva in carcere ad usare psicofarmaci. Un bisogno che, come per tutti gli altri tossicodipendenti presenti in carcere, li porta a mettere in atto comportamenti di disturbo, di protesta e perfino di autolesionismo. Ma il livello di comportamenti violenti dei ragazzi rom non superava sicuramente quello degli altri detenuti, però quando succedevano questi comportamenti la reazione degli agenti era secondo me più pesante rispetto ad episodi analoghi messi in atto da altri. La mia percezione era che, mentre il disturbo generato da altri detenuti suscitavo fastidio, quello prodotto dallo “zingaro” provocava il disprezzo di alcuni agenti che intervenivano con maggiore “libertà” per ripristinare l’ordine. Lo stesso disprezzo che emerge violentemente da parte di chi oggi minaccia di usare le ruspe per distruggere i campi rom, “cacciandoli dall’Italia”. È un discorso che sembra proporzionato, ma in realtà riproduce la stessa logica repressiva che, da sempre, segna la relazione tra istituzioni e comunità rom. Su questo argomento vale la pena leggere qualche studio di tipo sociologico per capire come le relazioni tra le comunità rom e le autorità sono mediate da stereotipi, pregiudizi, e una marcata asimmetria di potere. L’antropologo Leonardo Piasere, nel suo volume Popoli delle discariche (2006), ha documentato come i rom in Italia non siano mai stati “nomadi per cultura”, ma siano stati resi nomadi per forza dalle continue espulsioni, persecuzioni e sgomberi subiti. Ogni volta che cercavano di stabilizzarsi in un luogo, si scontravano con l’intervento repressivo delle autorità e con politiche di esclusione e di controllo, come sgomberi di insediamenti abusivi e restrizioni alla mobilità. Sono questi conflitti che li hanno da sempre costretti a spostarsi, costruendo così la narrazione del “popolo errante” come tratto identitario. In realtà, è stata la politica dell’esclusione a rendere instabile e precaria la loro condizione abitativa. Il rifiuto istituzionale, in quanto zingari e in quanto poveri, porta a un processo che Nando Sigona, nel suo libro Figli del Ghetto definisce di urbanistica del disprezzo. Si tratta di un approccio istituzionale di “gestione della povertà” con strumenti urbanistici segregativi. Infatti i cosiddetti “campi nomadi attrezzati”, nati negli anni Ottanta in spazi periferici e spesso insalubri, venivano presentati come soluzioni temporanee e in realtà sono diventate vere e proprie prigioni etniche a cielo aperto. Anche Tommaso Vitale, in Politiche possibili (2009), dimostra come tali campi non siano affatto neutrali, ma frutto di precise scelte politiche che hanno istituzionalizzato la marginalità. La storia italiana è quindi costellata di sgomberi e ruspe, senza che questo abbia mai portato a una riduzione dei problemi sociali connessi. Al contrario, tutti gli studi academici dimostrano come lo sgombero riproduce disagio familiare, discontinuità scolastica, perdita di lavoro e sradicamento delle reti sociali essenziali per le comunità povere: ogni volta che una comunità rom viene “cacciata” da un luogo, lo spostarsi in un altro posto comporta un peggioramento delle condizioni di vita. Quelle ruspe oggi invocate, non fanno altro che creare ulteriore instabilità e alimentare l’immagine dei rom come “stranieri ovunque”, incapaci di radicarsi. Quello che la tragedia di Cecilia ci può insegnare A proposito di stereotipi, la cosa che maggiormente mi colpiva durante le nostre conversazioni in carcere era la loro capacità di sognare le cose semplici: un lavoro dignitoso, una famiglia, una casa, la possibilità di provvedere ai figli garantendogli un’educazione adeguata, assistenza medica e sicurezza economica. Sono questi gli obiettivi che i vari progetti virtuosi cercano di valorizzare attivando relazioni inclusive e creando contesti positivi sia scolatici e sia sociali, perché possano affrontare con maggior autostima l’ambiente scolastico e quello lavorativo. Ad esempio in Spagna, progetti di scolarizzazione obbligatoria e sostegno familiare nelle comunità gitane hanno portato a una riduzione significativa della devianza minorile. E nei Paesi scandinavi, il focus su welfare, sostegno psicologico e politiche educative ha mantenuto bassi i tassi di criminalità minorile senza ricorrere alla repressione penale precoce. Queste esperienze mostrano come una scuola più inclusiva previene non solo l’abbandono scolastico ma anche i percorsi devianti che spesso ne derivano. Inoltre, confermano che il sostegno alla genitorialità è infinitamente più efficace della criminalizzazione. Va da sé che abbassare l’età imputabile non è solo un errore tecnico, ma rappresenta un’arroganza inaccettabile per chi come me crede nel cambiamento, poiché rifiuta l’idea che anche i bambini possono avere la capacità di cambiare e riduce la complessità sociale a una mera questione di ordine pubblico. La morte di Cecilia De Astis è una tragedia che interroga tutti. Ma la risposta non può essere l’ennesima stretta securitaria. Non possiamo accettare che la rabbia e il dolore diventino strumenti per rilanciare una politica delle ruspe, della sottrazione familiare e della carcerazione precoce. Se si vuole davvero che tragedie simili non si ripetano, occorre avere il coraggio di ragionare sui fallimenti delle istituzioni per rovesciare il discorso e ribadire che la sicurezza non nasce dalla repressione, ma dalla giustizia sociale; non dalle ruspe, ma dal diritto alla casa; non dalla sottrazione dei figli, ma dal sostegno alla genitorialità e non dalla criminalizzazione dei bambini ma dalla loro inclusione scolastica. Se la morte di Cecilia deve insegnarci qualcosa, è proprio che non serve costruire mostri e tantomeno usare le ruspe contro i bambini, anche se sono zingari. L’unica alternativa credibile è quella dell’inclusione abitativa, dell’accesso a case popolari, della fine delle politiche ghetto. Cecilia merita giustizia. Ma la giustizia non è vendetta: è costruzione di una società in cui nessun bambino debba crescere nell’abbandono, nella marginalità e nello stigma. Solo così la sua morte potrà avere un senso e invece di offrire un alibi per nuove esclusioni potrà diventare un monito per nuove responsabilità collettive. In carcere la salute mentale non è un diritto di Margherita Abis L’Espresso, 25 agosto 2025 Gli psicofarmaci diventano la soluzione di tutto. Il 12 per cento della popolazione detenuta in Italia presenta una diagnosi psichiatrica grave. È una percentuale in aumento e fotografa una delle criticità più profonde e strutturali del sistema penitenziario: la gestione della salute mentale. Il disagio psichico in carcere si muove lungo due direttrici. Da una parte ci sono persone che entrano già con patologie pregresse, spesso legate a condizioni di marginalità, dipendenza, povertà. Dall’altra, detenuti che sviluppano disturbi all’interno dell’istituto, come risposta all’impatto psicologico della reclusione. Secondo i dati raccolti da Antigone, l’associazione impegnata nella tutela dei diritti nel sistema penitenziario, oltre il 20 per cento dei detenuti assume psicofarmaci: antidepressivi, stabilizzatori dell’umore, antipsicotici. Spesso utilizzati non soltanto a scopo terapeutico, ma anche come strumento di sedazione collettiva. A Modena questa quota arriva al 44 per cento, a Trento tocca il 70 per cento. Il 40 per cento della popolazione carceraria fa uso di sedativi o ipnotici. In assenza di alternative, la somministrazione di farmaci diventa la risposta standard, a volte l’unica. L’assistenza psicologica resta carente: 6,76 ore settimanali di psichiatra ogni 100 detenuti, 20,6 per gli psicologi. Troppo poco per un supporto vero: i colloqui sono brevi, i percorsi discontinui, i casi gravi lasciati a sé. In molte strutture, la presenza di personale specializzato si limita a pochi giorni - o persino a poche ore - alla settimana. Alle carenze sanitarie si sommano quelle strutturali. Più di un terzo degli istituti visitati da Antigone è stato costruito prima del 1950, molti addirittura prima del 1900. Celle roventi in estate e gelide di inverno, senza raffrescamento né riscaldamento, acqua calda assente in quasi metà delle strutture, un quarto delle carceri senza spazi per attività o lavoro. Container per i detenuti: l’appalto è da rifare di Luca Rondi altreconomia.it, 25 agosto 2025 Ritarda il piano del ministero della Giustizia. A metà agosto la centrale di committenza Invitalia ha revocato il bando da oltre 32 milioni di euro per la costruzione di 16 moduli prefabbricati che sarebbero dovuti essere pronti entro la fine del 2025. Nuovi approfondimenti negli otto istituti coinvolti hanno fatto lievitare i costi per un importo totale di 45,6 milioni di euro. Più di 118mila per ogni posto. Mentre il sovraffollamento continua ad aggravarsi, il nuovo termine per le offerte è il 25 settembre. La gara d’appalto per la costruzione dei moduli detentivi prefabbricati voluti dal ministero della Giustizia per ridurre il sovraffollamento carcerario è da rifare. A cinque mesi dalla pubblicazione del bando la centrale di committenza Invitalia, l’agenzia nazionale di proprietà del ministero dell’Economia, ha dovuto infatti revocare a metà agosto il bando per un aumento nella stima dei costi che lievitano da 32 a 45,6 milioni di euro a base d’asta, ovvero 118.814 per ognuno dei 384 posti previsti nei 16 container. Un’altra tegola per il Commissario straordinario Marco Doglio che a fine luglio, dopo mesi di attesa, aveva ottenuto il via libera dal Consiglio dei ministri per il nuovo piano di edilizia penitenziaria descrivendolo come “concreto e attuabile in tempi brevissimi”. L’8 agosto è stato lo stesso Doglio a dover interrompere l’appalto da 32 milioni di euro per la realizzazione dei prefabbricati, sul modello di quelli installati a Gjadër, nella struttura prevista dall’accordo sui migranti tra Italia e Albania. Il bando è stato pubblicato da Invitalia il 21 marzo di quest’anno con tre differenti lotti per otto istituti penitenziari suddivisi per area geografica (Nord, Centro Nord, Centro-Sud) e tempi strettissimi per la definizione della procedura. Al 10 aprile, data di scadenza per la trasmissione dei documenti, ben sette aziende avevano inviato le loro offerte: tutto filava liscio, secondo i tempi dettati dal bando che prevedeva l’entrata in funzione dei moduli per la fine del 2025. Il 18 aprile, però, la Corte dei Conti bacchetta il ministero della Giustizia: nella relazione “Infrastrutture e digitalizzazione: piano carceri” l’organo di controllo evidenzia con riferimento all’edilizia penitenziaria una “diffusa e generalizzata dilatazione dei tempi di realizzazione degli interventi” con un “frequente disallineamento tra velocità di attuazione dell’intervento e velocità di mutamento delle esigenze detentive dell’Istituto interessato”. Insomma, l’intervento necessario si modifica a progettazione già in corso e questo crea ritardi e diverse problematiche. Tra le cause -scrive la Corte- ci sarebbe anche la “mancanza del necessario coordinamento o quanto meno della tempestiva comunicazione delle variazioni esigenziali da parte della direzione dell’Istituto al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria”. Per questo motivo Doglio ferma l’esame delle offerte delle partecipanti e chiede a Invitalia e al Dap di svolgere “approfondimenti integrativi” nelle carceri in cui è prevista l’installazione dei moduli. Siamo al 6 giugno quando la stazione appaltante invia al Commissario i risultati dell’istruttoria da cui emerge “una variazione in aumento dei quadri economici riferiti ai lavori necessari”. Tutto si ferma, nuovamente, per due mesi fino all’8 agosto, giorno in cui Doglio comunica a Invitalia che “le risultanze degli approfondimenti eseguiti impediscono di proseguire la procedura di gara”. L’iter è da rifare da capo, con l’Agenzia che revoca l’appalto il 12 agosto e pochi giorni dopo pubblica quello nuovo con alcuni elementi di novità. L’importo infatti è lievitato a 45,6 milioni di euro, oltre 13 milioni in più rispetto a quelli iniziali con un costo per posto pari (al massimo) a 118.814 euro. Nel nuovo appalto vengono indicati come “prioritari” il carcere di Opera a Milano, quelli di Biella, Reggio Emilia, Frosinone e Palmi mentre non prioritari Alba, Voghera e Agrigento. Tra i documenti disponibili sul sito di Invitalia non è indicata una stima per la consegna dei lavori. Nel precedente bando si parlava di 240 giorni, circa otto mesi che a questo punto non partiranno prima di metà ottobre: la scadenza per la presentazione delle offerte è infatti per il 25 settembre. Sei mesi dopo il primo appalto pubblicato da Invitalia. Al 16 agosto, intanto, i detenuti erano 62.840 a fronte di 46.709 posti effettivamente disponibili e a Torino il Tribunale di sorveglianza ha concesso i domiciliari a un detenuto di 47 anni presso il Lorusso Cutugno sottolineando come “il quadro di sovraffollamento impone una riflessione sulla necessità di mantenere in carcere soggetti con serie patologie”. I suicidi a metà agosto sono invece già 55. Misure tardive e poco efficaci per ridurre i tempi di definizione di Marco Fabri Il Sole 24 Ore, 25 agosto 2025 Il decreto legge 117 dell’8 agosto scorso riprende, solo in parte, gli interventi proposti dal Csm per raggiungere gli obiettivi Pnrr e cerca di aumentare il numero di giudici negli uffici in sofferenza. Molti interventi appaiono però tardivi, farraginosi e macchinosi ed è quindi probabile che non siano sufficienti al raggiungimento degli obiettivi Pnrr. I dati mostravano da tempo come diversi uffici, nonostante l’ingente investimento nell’ufficio per il processo, non sarebbero stati in grado di contribuire al raggiungimento degli obiettivi Pnrr e cercare di porvi rimedio adesso con interventi tardivi e poco coerenti appare velleitario. Vediamo perché. I (pochi) giudici onorari di pace, i cui uffici sono già in grandissima sofferenza, ma il cui contenzioso non rientra negli obiettivi del Pnrr, potranno essere impiegati nei tribunali. Non viene però definito il numero di procedimenti da smaltire e non è prevista un’indennità aggiuntiva. Non più di 20 magistrati (anche qui pochi) provenienti da uffici dei distretti di corte d’appello che, al 30 giugno 2025, avevano già raggiunto gli obiettivi Pnrr (i dati non sono ancora disponibili ma non dovrebbero essere molti), potranno inoltre essere trasferiti, ovviamente a domanda e per un periodo massimo di due anni e quindi anche oltre i130 giugno 2026, presso le corti d’appello che non hanno raggiunto gli obiettivi. Il decreto non indica il numero di procedimenti da definire ma prevede un’indennità aggiuntiva lorda di 46.022 euro, a cui si aggiungono 13.879 euro come indennità di prima sistemazione. La procedura prevista è però necessariamente lunga e occorreranno almeno alcuni mesi prima che i magistrati siano operativi e invece il tempo stringe. Per i tribunali viene poi introdotta la possibilità di applicare a distanza non più di 500 magistrati (sempre ovviamente a domanda) agli uffici in difficoltà. Dovranno definire almeno so procedimenti, ai quali se ne potranno aggiungere altri 50. Il tutto entro il 3o giugno 2026. Anche per loro è prevista un’indennità aggiuntiva che, per 5o procedimenti, è pari a 15.273 euro (lo stanziamento per il solo 2026 è di oltre 15 milioni). Anche in questo caso le procedure saranno lunghe e complesse e trascorreranno mesi prima che i giudici possano operare negli uffici di destinazione. In entrambi i casi, trasferimenti e applicazioni a distanza, è probabile che salgano i tempi di definizione negli uffici di provenienza e sorgano problemi legati all’organizzazione del lavoro, in particolare dei ruoli di udienza. Il decreto legge prevede poi che i capi degli uffici in sofferenza possano derogare dai carichi di lavoro aumentando la produttività richiesta ai giudici. Fin da subito era pacifico che con i carichi esigibili indicati dal Csm non si sarebbero potuti raggiungere gli obiettivi del Pnrr: adesso si prevede la deroga ma con troppo ritardo. Non sono previsti spostamenti per il personale amministrativo, altrettanto importante per l’aumento di produttività. Ministero e Csm dovrebbero prendere finalmente atto che il miglioramento del servizio giustizia richiede il contributo di una pluralità di professionalità, che vanno tutte coinvolte e valorizzate, oppure i risultati saranno sempre drammaticamente scarsi. *Dirigente di ricerca del Cnr Consulenti tecnici pagati meno del salario minimo proposto in Italia. Ma una soluzione c’è di Francesco Sanna Il Fatto Quotidiano, 25 agosto 2025 Per le prime due ore di lavoro i consulenti ricevono 14,68 euro lorde, 7,34 euro l’ora, mentre per le successive vacazioni l’importo orario scende. In Italia c’è un problema giustizia. Difficile negarlo. Chiunque abbia avuto a che fare con la giustizia dello Stato, quella con la “G” maiuscola, lo potrebbe testimoniare. Oltre i tempi lunghi, talora infiniti, emerge sempre più la sensazione diffusa di un sistema inefficiente nell’accertare i fatti. Ad ulteriore prova di questa tesi, negli ultimi anni abbiamo assistito all’instaurazione di Commissioni d’inchiesta parlamentare su fatti storici sanguinosi, avvenuti in Italia, dei quali la giustizia di stato aveva reso verdetti inverosimili e talora persino surreali. Quando devono arrivare le inchieste parlamentari a “fare piena luce” su un evento - come disse il Presidente Mattarella per la strage Moby Prince - significa che il sistema giudiziario, almeno su quell’evento, ha fallito. E se ha fallito sarebbe necessario interrogarsi sul perché. Pochi sanno realmente come la giustizia di Stato arriva a giudicare, in questo paese. In particolare pochissimi hanno consapevolezza di come si arrivi ad accertare un fatto penalmente rilevante, quindi un evento con vittime e loro responsabili per cui la legge prescrive una pena da scontare. Faccio una sintesi for dummies: accade il fatto, arriva un magistrato titolare dell’inchiesta su quanto accaduto, questo ha a disposizione la polizia giudiziaria (Carabinieri, Polizia, Guardia di Finanza, Vigili Urbani) per fare gli “accertamenti” - quindi acquisire testimonianze, indizi, prove tecniche - e quando la polizia giudiziaria non ha le competenze tecniche per capire qualcosa di specifico, quel magistrato titolare dell’inchiesta nomina dei consulenti tecnici, i Ctpm. I consulenti tecnici servono quindi per accertare quanto né la polizia giudiziaria né il magistrato riescono a capire con i propri mezzi, per motivi di competenza. E rispondono a quesiti specifici formulati dal magistrato al momento dell’incarico. Esempio: c’è un incidente stradale con una vittima. Il magistrato delega l’indagine agli agenti della polizia accorsi sul posto, che hanno fatto i rilievi. Poi viene fuori che questi non riescono, coi loro mezzi, a capire esattamente la dinamica di quanto accaduto e ammettono la loro ignoranza al magistrato. Questo a quel punto nomina dei consulenti tecnici per accertare i fatti, oltre ogni ragionevole dubbio. La stessa cosa avviene anche in giudizio, cioè durante il processo. Quando il giudice da solo non riesce a capire come sono andati i fatti, quindi a giudicare oltre ogni ragionevole dubbio, nomina un consulente, il cosiddetto “perito”. Nella stragrande maggioranza dei casi giudiziari italiani sono i consulenti dei magistrati o i periti dei giudici la chiave per arrivare al giudizio finale. Al punto che in molte vicende, da ultimo penserete al delitto di Garlasco, pare quasi sia tutta una questione di consulenti: “l’errore della perizia”, “la novità della perizia”, lo “scontro peritale”. Alla fine è sempre il magistrato o il giudice a scegliere, ma è chiaro che se si affida ad un consulente tecnico per incompetenza su un tema, difficile poi si ponga in contrasto con i suoi risultati. Quindi i consulenti sono figure fondamentali nella giustizia italiana. Ebbene pochi sanno che queste figure fondamentali, in Italia, sono pagate meno del salario minimo. Il dm Giustizia (Decreto Ministeriale della Giustizia) del 30 maggio 2002 stabilisce infatti gli importi per le cosiddette “vacazioni”, che sono unità di tempo di due ore utilizzate per calcolare il compenso di periti, consulenti tecnici, interpreti e traduttori nominati da magistrati titolari d’inchiesta e giudici. Ebbene per le prime due ore di lavoro i consulenti ricevono 14,68 euro lorde, 7,34 euro l’ora, mentre per le successive vacazioni, quindi dalla terza ora in avanti, l’importo orario scende a 4,075 euro lorde. Il salario minimo proposto per l’Italia è di 9 euro l’ora. Incredibile? Non è tutto. Ogni vacazione corrisponde infatti a due ore di lavoro del consulente, ma il giudice può far pagare massimo quattro vacazioni al giorno per incarico, quindi 8 ore al giorno. Se il consulente ne ha lavorate 10, magari per un sopralluogo, due non le può esporre. Inoltre c’è il tema del massimale. Un consulente può fare massimo 240 vacazioni, raddoppiabili solo in casi di particolare complessità. Totale quindi dell’incasso standard: 1956 euro lorde, per trenta giorni di lavoro intensivi (8 ore al giorno). Incasso di solito bonificato dai sei a diciotto mesi dopo dalle casse pubbliche. Poi siccome sono tutte autodichiarazioni, cui nessun magistrato può fare la tara, ovvero verificare effettivamente, finisce che il massimale lo raggiungono in molti, anche quelli che magari effettivamente hanno lavorato al caso meno ore ma dense di competenze acquisite in decadi di formazione, aggiornamento ed esperienza. Pagati pochissimo, quindi, questi consulenti. Ma pare la cosa si equilibri sul piano delle occasioni. Un amico consulente mi spiegava infatti che in Italia c’è un eccesso di richieste di consulenze tecniche a privati da parte della giustizia di Stato. Su quasi tutto, si nomina un consulente. Con il paradosso che su alcuni ambiti, come gli incidenti stradali, lo stesso professionista privato può fare in un caso il consulente per il magistrato e nell’altro per l’assicurazione, con qualche problemino di conflitto di interessi evidente. Nei paesi di diritto anglosassone l’hanno risolta con la polizia giudiziaria specializzata, tagliando perlopiù fuori i consulenti privati. Il magistrato ha bisogno di competenze tecniche per capire la dinamica di un incidente? Chiama il nucleo della polizia specializzato in incidenti stradali. Al centro del sistema di queste specializzazioni c’è un Dipartimento Tecnico che prepara, forma e controlla l’operato della Polizia Giudiziaria al servizio della giustizia di Stato. Funzionerebbe anche da noi? Magari la soluzione sta nel mezzo: migliorare la formazione specialistica della polizia giudiziaria - Carabinieri, Polizia, Guardia di Finanza - che già hanno gruppi di eccellenza e intanto iniziare a pagare meglio e in modo più efficiente i consulenti tecnici privati. *Funzionario comunicatore pubblico e scrittore Basilicata. La Garante: “Il carcere non è una caserma” Il Mattino di Basilicata, 25 agosto 2025 Silletti boccia l’idea dell’esercito e rilancia la sicurezza fondata sulla dignità. “La sicurezza negli istituti penitenziari non può e non deve essere affidata alla presenza dell’esercito”. Lo afferma con chiarezza Tiziana Silletti, Garante dei Detenuti, delle vittime di reato, della salute e degli anziani della Regione Basilicata, intervenendo dopo le recenti dichiarazioni del Sappe (Sindacato autonomo della Polizia penitenziaria) che chiedeva l’intervento dei militari nelle carceri. “La strada da seguire è un’altra - spiega Silletti. Servono più risorse, più personale penitenziario adeguatamente formato e condizioni di lavoro migliori. Non possiamo ridurre il tema della sicurezza a un piano meramente numerico o logistico”. Per la Garante lucana, la chiave per una reale sicurezza penitenziaria non è il controllo armato, ma l’investimento nelle persone. “Un carcere sicuro non è un carcere blindato - ribadisce - ma un luogo che restituisce dignità. Un luogo che investe sul reinserimento, sulla responsabilizzazione e sull’umanità”. Secondo Silletti, puntare sulla riabilitazione significa prevenire la recidiva e, di conseguenza, rendere la società nel suo insieme più sicura. “Dare amore, rispetto e opportunità a chi sta scontando una pena - sottolinea - significa lavorare per una vera sicurezza collettiva. Perché una persona che esce cambiata, formata, accolta dalla comunità, non rappresenta più un rischio, ma una risorsa”. La Garante insiste su un punto fondamentale: “La sicurezza nasce non dalla paura o dalla chiusura, ma dalla capacità di restituire fiducia e prospettive”. E aggiunge: “Solo così le nostre carceri potranno diventare davvero più giuste, più umane e più sicure”. Nella parte finale del suo intervento, Silletti rivolge un pensiero al personale penitenziario lucano: “Rinnovo la mia assoluta disponibilità e vicinanza a tutte le operatrici e agli operatori penitenziari della Regione Basilicata. Sono grata per ogni sforzo e per la dedizione con cui svolgono quotidianamente un lavoro complesso e prezioso, spesso sottovalutato ma essenziale per l’equilibrio della nostra democrazia”. Cremona. Morte detenuto, i Radicali chiedono commissione di inchiesta e autopsia cremonaoggi.it, 25 agosto 2025 Una commissione di inchiesta per chiarire le circostanze della morte del 40enne magrebino che ha perso la vita sabato nel carcere di via Ca’ del Ferro, a Cremona, dopo aver inalato il gas di una bomboletta da cucina. A chiedere chiarimenti e forse anche misure drastiche è il cremonese Gino Ruggeri, esponente del Partito Radicale, una cui delegazione ha fatto visita alla casa circondariale di Cremona il 15 agosto scorso. Un incontro durante cui sono state “constatate le gravissime condizioni di degrado in cui versano le celle, le condizioni igienico sanitarie fuori dalla legalità costituzionale, con focolai parassitari, di pericolo per l’intera comunità penitenziaria e di salute pubblica, denunciate alla Garante provinciale dr.ssa Bellezza (che ha prontamente risposto)” sottolinea Ruggeri. Ma a pochi giorni di distanza, è arrivata la notizia di questa morte, per la quale Ruggeri e i radicali si appellano all’Amministrazione penitenziaria di Ca’ del Ferro, alla Direzione sanitaria, alla Garante dei detenuti e al Sindaco di Cremona. Il partito chiede di sapere “in che sezione, reparto e ala della casa circondariale di Cremona è morto il detenuto”, “quando e se avesse chiesto di poter parlare con il Garante dei detenuti” e se “avesse avanzato qualche tipo di richieste alla Direzione Penitenziaria e Sanitaria”. Ruggeri chiede inoltre se l’uomo, nelle settimane precedenti la morte, avesse “manifestato comportamenti o episodi di sofferenza psicofisica” e “se in trattamento con scabianil, o altro farmaco perché colpito da infestazione di parassiti presente al momento della visita”. “La delegazione del Partito Radicale chiede, sin da ora, che venga eseguito l’esame autoptico per determinarne la causa e le modalità della morte, non escludendo una commissione d’inchiesta” conclude Ruggeri. Cremona. Carcere: già tre disinfestazioni, ma le cimici restano di Francesco Gottardi cremonaonline.it, 25 agosto 2025 La Garante dei detenuti Ornella Bellezza: “Filo di comunicazione sospeso, nuova segnalazione”. Dopo la denuncia dei radicali su una presunta infestazione da cimici da letto a Ca’ del Ferro arriva la risposta di Ornella Bellezza, garante provinciale dei diritti delle persone detenute. La segnalazione, i radicali l’avevano scritta anche al sindaco, Andrea Virgilio, ad Ats e ad Asst, ed era stata inviata giovedì, a breve distanza dalla visita ispettiva alla casa circondariale di via Ca’ del Ferro. La missiva ha denunciato la “grave situazione igienico-sanitaria del carcere di Cremona, causata da un’infestazione parassitaria ignota”. I radicali chiedevano al garante “quali azioni siano previste per contenere l’infestazione e prevenirne la diffusione dentro e fuori dall’istituto, nonché quali campagne informative e sanitarie si intenda avviare, per evitare nuovi focolai mentre diverse persone detenute hanno dichiarato di essere state sottoposte a trattamento farmacologico con una pomata per la scabbia”. Ieri è arrivata la replica del garante che ha reso noto “un primo ciclo di interventi di disinfestazione tra giugno e luglio contro il propagarsi delle cimici da letto”. La disinfestazione non sarebbe bastata però, come constatato dalla delegazione radicale nel corso della propria visita e, a quasi due mesi di distanza dai primi interventi, i parassiti tormentano ancora i detenuti a Ca’ del Ferro. Sollecitata dalla nuova richiesta, Bellezza ha trasmesso la segnalazione alle autorità sanitarie per un nuovo intervento. Il Garante ha ricordato, tra l’altro, come “la tutela dei diritti delle persone presenti negli istituti penitenziari italiani è uno dei principali compiti del garante”. Bellezza specifica che la presenza in struttura, l’ultima volta il 14 agosto, aveva proprio lo scopo di “verificare il rispetto dei diritti fondamentali dei soggetti e, in caso di eventuali violazioni, procedere alle debite segnalazioni”. Bellezza spiega anche che in questi anni il rapporto tra la popolazione carceraria e la figura di riferimento è stato “consolidato e positivo”. A richiedere un colloquio individuale con il garante, negli anni di attività di Bellezza è stato circa il 7% della popolazione detenuta. Nella sua risposta, il garante ha evidenziato come il dialogo consolidato con l’amministrazione penitenziaria, in particolare con la direttrice Rossella Padula (attualmente in ferie), abbia “significativamente contribuito al superamento delle criticità” emerse nel tempo in diverse situazioni. Tuttavia, proprio per l’assenza della dottoressa Padula, attualmente sostituita dalla direttrice reggente Giulia Antonicelli, si sarebbe spezzato quel filo operativo sempre adottato in precedenza. Insomma, manca la direttrice, e i protocolli di intervento saltano, o vengono rimandati. Riguardo al problema specifico dell’infestazione parassitaria, il garante ha confermato di aver ricevuto la lettera di segnalazione datata 21 agosto e di averla “contestualmente trasmessa alle autorità competenti per la corretta analisi e l’adozione di risoluzioni idonee e tempestive”. Nella nota si fa riferimento a una comunicazione del 31 luglio 2025 della stessa amministrazione penitenziaria nella quale venivano documentati “3 interventi di disinfestazione da cimici da letto a cura di ditta specializzata” effettuati il 4 giugno, 30 giugno e 8 luglio 2025. Pur avendo preso atto della nuova segnalazione a firma di Maria Antonietta Farina Coscioni, Maria Teresa Molaschi e Gino Ruggeri - che durante la visita del 15 agosto erano accompagnati dal comandante del reparto polizia penitenziaria Maria Letizia Tognali e dall’assistente capo Adriano Botti - il garante ha quindi deciso di inoltrare la documentazione “per una definitiva risoluzione della problematica”. La risposta del garante, pur riconoscendo le criticità segnalate nel tempo dai rappresentanti dei detenuti, sembra dunque demandare la soluzione del problema alle autorità sanitarie competenti, dopo aver documentato gli interventi già effettuati dall’amministrazione penitenziaria. Quel che è certo è che, tra personale in ferie e cronicamente sottodimensionato, e lungaggini burocratiche, i parassiti sono rimasti a infestare le celle delle persone detenute che restano in attesa di una soluzione. Treviso. “Verità e giustizia per Danilo Rihai: servivano cure, non repressione”. ecovicentino.it, 25 agosto 2025 Giovedì un presidio. L’ultima volta che un ragazzo si era tolto la vita in un carcere minorile era il 2003, 22 anni fa. E non è un caso che accada ora, dopo il decreto Caivano del governo Meloni. Con questo decreto, nelle carceri minorili italiane si registra un sovraffollamento inedito e l’adozione di un paradigma sempre più punitivo anche per i minori detenuti. E non è un caso che succeda a Treviso, l’istituto più sovraffollato d’Italia, dove si sfiora il doppio delle presenze rispetto alla disponibilità di posti. Danilo Riahi era un ragazzo tunisino, arrivato da un anno in Italia attraverso il Mediterraneo. È morto il 13 agosto all’ospedale Ca’ Foncello dopo essere stato rinchiuso pochi giorni prima nel carcere minorile di Treviso. Il 9 agosto Danilo era stato arrestato in seguito a vari tentativi di furto a Vicenza, dopo essere fuggito dalla polizia in evidente stato di agitazione. Immobilizzato con il taser, veniva portato nel carcere minorile di Treviso, dove poche ore dopo, secondo la versione dei giornali e delle autorità, avrebbe tentato il suicidio. Danilo aveva sognato di venire in Italia per costruirsi un futuro, una vita degna e libera, ma quel sogno si è infranto troppo presto, in carcere. Questo comunicato nasce dall’urgenza di fare luce su una vicenda drammatica che rischia di essere oscurata e ridotta a un racconto distorto e parziale: un presunto “eccellente lavoro” delle forze dell’ordine, una morte troppo in fretta derubricata a fatalità. Vogliamo stare vicino alla famiglia - che, residente a Tunisi, ha ricevuto dalle autorità informazioni molto scarne sulla morte del figlio - e accompagnare il loro dolore, ma anche indicare le evidenti responsabilità su quanto accaduto, per far sì che simili tragedie non si ripetano. In questa vicenda un aspetto fondamentale è stato cancellato dalla narrazione mediatica: quello della condizione psicofisica in cui si trovava Danilo. Appare evidente dalla descrizione dei fatti che il ragazzo si trovasse in un grave stato di crisi psicologica. Una situazione che richiedeva cura, non repressione. Come mai è stato portato in un carcere minorile invece che in un ospedale? È stato visitato dopo essere stato colpito con il taser? Cosa (non) è stato fatto per accertarne le condizioni di salute psico-fisica prima di rinchiuderlo in un carcere? Per quanto tempo è stato privo di sorveglianza mentre tentava il suicidio? Le autorità dovranno rispondere delle loro azioni e delle loro omissioni, perché troppi punti di domanda rimangono aperti. Adesso pretendiamo verità e giustizia: vogliamo sapere esattamente che cosa è successo al momento dell’arresto, in carcere, in ospedale, perché un ragazzo di diciassette anni è morto mentre si trovava sotto la custodia dello Stato. Dalla questura di Vicenza alla polizia penitenziaria di Treviso, fino agli operatori dell’ospedale: chi ha avuto un ruolo in questa vicenda deve assumersene la responsabilità. Chiediamo inoltre che siano effettuate approfondite indagini sul corpo di Danilo prima che venga rimpatriato in Tunisia, come già richiesto dall’avvocato della famiglia. Troviamo ancora più sconvolgente che, proprio mentre Danilo era ricoverato in ospedale in fin di vita, il Questore di Vicenza abbia convocato una conferenza stampa per elogiare il “lavoro encomiabile” degli agenti. Un gesto che mostra quanto sia radicata la logica della disumanizzazione: un ragazzo in fin di vita sparisce di fronte all’occasione per celebrare l’efficienza repressiva. Questa storia non è e non può essere archiviata come una “piccola storia ignobile”, perché è una storia che parla delle migliaia di ragazzi che come Danilo vivono le nostre città, costantemente etichettati come soggetti pericolosi “delinquenti”, “maranza”, per giustificare la sempre maggiore militarizzazione della vita sociale. Come hanno dimostrato i commenti sui social alla morte di Danilo, diventano il capro espiatorio per sfogare odio e violenza. È la fiamma razzista su cui soffia questo governo, per creare consenso attorno all’emergenza sicurezza mentre definanzia il sistema d’accoglienza, istituisce le zone rosse, facilita la carcerazione preventiva dei minori, taglia la spesa sociale. Ricordiamo Danilo ma ricordiamo anche Ramy, Moussa, Wissem, e tutte le vittime del razzismo di stato, della violenza della polizia, delle carceri, dei Cpr. La storia di Danilo ha avuto un epilogo tragico, ma sta a noi non farla finire qui. Chiediamo con forza verità e giustizia, che vengano aperte delle indagini serie sulla sua morte e su tutto quello che l’ha preceduta. Invitiamo tutte e tutti a scendere in piazza con noi giovedì 28 agosto, ore 19, fuori dal carcere di Treviso. *Collettivo Rotte Balcaniche e Centri sociali Django di Treviso e Arcadia di Schio Catania. Negato il reinserimento a un detenuto che ha scontato la pena, i legali presentano ricorso cataniatoday.it, 25 agosto 2025 Fuori dal carcere lo attendeva un progetto di inserimento sociale ma un provvedimento del questore di Catania, opposto rispetto all’ordinanza del magistrato di sorveglianza, lo ha ritenuto un soggetto socialmente pericoloso e l’ha rinchiuso nel Cpr di Trapani, centro per stranieri senza permesso di soggiorno. È la storia di Kenneth Osayuwa, 26 anni, nigeriano, esempio di mancato reinserimento di un detenuto che lo scorso 8 agosto ha finito di scontare una pena di 7 anni e 2 mesi per associazione mafiosa: era legato alla mafia nigeriana, al clan Maphite. La sentenza di condanna aveva disposto l’espulsione del condannato, come misura di sicurezza, dopo l’espiazione della pena. “Il 3 luglio scorso il magistrato di sorveglianza di Catania, alla luce del percorso rieducativo condotto nel carcere di Bicocca, ha ritenuto non sussistenti i presupposti per la formulazione di un giudizio di pericolosità sociale, rigettando la richiesta di espulsione - spiegano gli avvocati Carmelinda Cannilla del Foro di Catania e Giuseppe Guttuso del Foro di Palermo -. All’atto della scarcerazione la questura di Catania ha disposto il trattenimento nel Centro di permanenza per il rimpatrio di Trapani “Milo”. Questo nonostante la dichiarazione di non pericolosità sociale e il rigetto della richiesta di espulsione da parte del magistrato di sorveglianza. Era stato trovato un alloggio a Caltagirone e la possibilità di un tirocinio retribuito secondo il progetto dell’Ufficio per l’esecuzione penale esterna di Catania, con la promessa concreta di assunzione”. Gli avvocati si sono opposti alla decisione davanti la Corte d’appello di Catania, che ha confermato il provvedimento, e adesso i legali hanno fatto ricorso in Cassazione. “Siamo in attesa dell’esito da Roma - spiega Cannilla. Kenneth Osayuwa è arrivato in Italia nel 2016, ancora minorenne. Era prima transitato dalla Libia, dove ha subito prigionia illegale, torture, pestaggi. È stato condannato per appartenenza al gruppo criminale Maphite, ma non gli è stato attribuito alcun reato specifico (violenza, minaccia, traffico, spaccio), ma esclusivamente la partecipazione passiva al gruppo. In carcere ha iniziato un percorso formativo e riabilitativo personale che lo ha portato a presentare nel giugno scorso la domanda di protezione internazionale”. Cosenza. Parlamentari cosentini disertano la visita in carcere, arrivano le scuse di Loizzo cosenzachannel.it, 25 agosto 2025 Il presidente Roberto Le Pera: “Gesto istituzionale che apprezziamo, ma dovrebbe essere rivolto ai 270 detenuti stipati in celle senza diritti e agli agenti penitenziari lasciati soli”. Lo scorso 22 agosto, il Consiglio direttivo della Camera penale di Cosenza “Fausto Gullo” ha effettuato una visita presso la Casa circondariale “Sergio Cosmai” di via Popilia, per documentare le condizioni di vita dei detenuti. Ad accompagnare i penalisti cosentini, il sindaco di Cosenza Franz Caruso e la consigliera provinciale Tiziana Battafarano, che hanno avuto modo di partecipare alla riunione durante la quale la direttrice del carcere Maria Luisa Mendicino ha risposto alle domande poste dal presidente della Camera penale Roberto Le Pera e degli altri membri del Consiglio direttivo. Caruso e Battafarano sono stati gli unici rappresentanti istituzionali che hanno accolto l’invito della Camera penale “Fasto Gullo”. Assenti, infatti, tutti i parlamentari eletti in provincia di Cosenza i quali, ad eccezione di Anna Laura Orrico - che ha giustificato la propria impossibilità ad essere presente, per impegni precedentemente assunti - non hanno inteso neppure rispondere alle mail ufficiali inviate dal presidente Roberto Le Pera. A distanza di due giorni, in considerazione anche della risonanza mediatica che la Camera penale bruzia ha inteso dare ad un’assenza tanto grave quanto ingiustificata, la parlamentare Simona Loizzo ha inviato una mail di poche righe: “Chiedo scusa alla Camera Penale di Cosenza e al presidente Roberto Le Pera se non ho partecipato all’incontro presso la Casa circondariale di Cosenza. Tuttavia, voglio dire al presidente che ho visitato le carceri di Cosenza, Rossano, Castrovillari, Paola e di altre province. Mi sono sempre battuta e mi batto contro il sovraffollamento delle carceri e per il reinserimento sociale dei detenuti. È una battaglia di civiltà che va oltre ogni steccato politico e che sostengo. Così come mi sono battuta al fianco della Camera penale per far si che i grandi processi potessero celebrarsi a Cosenza. La mia stima per l’avvocatura cosentina è totale”. Fin qui, le parole di scuse della deputata leghista cosentina Simona Loizzo. Scuse delle quali il presidente della Camera penale di Cosenza Roberto Le Pera prende atto, precisando però quanto segue: “Leggiamo la odierna pubblicazione delle Sue “scuse”, rivolteci per l’assenza all’accesso al Carcere di Cosenza. Gesto istituzionale importante e che apprezziamo, ancor più, in considerazione dell’assenza di analoga sensibilità da parte di tutti gli altri nostri silenti Rappresentanti. Che, però, deve essere rivolto ai diritti di quelle 270 anime stipate nella Casa circondariale di Cosenza, in celle che ne dovrebbero contenere 220, in cui sino a sei esseri umani sono ammassati in uno spazio angusto, con servizi igienici in una sorta di anfratto adibito anche a cucina e doccia, le cui condizioni di generale ammaloramento sono la vergogna per uno Stato che dovrebbe definirsi “di diritto”. Le scuse devono essere rivolte dallo Stato - che Lei rappresenta - a questi detenuti che vivono in celle nelle quali l’aria - occlusa dall’assurdità dell’apposizione di pannelli in plexiglass che oscurano la luce naturale, impediscono la corretta aerazione e rendono infernali le elevate temperature estive - è, così, colma dell’insopportabile odore acre della inumanità. Le scuse devono essere rivolte alla nostra Costituzione, per la inumanità di questa pena, come da noi personalmente vissuta lo scorso 22 agosto, che ne viola l’articolo 27, sfregiandolo. Le scuse devono essere rivolte alle donne e agli uomini del Personale dell’Amministrazione e della Polizia penitenziaria del Carcere di Cosenza, per averli lasciati soli nel tentativo di rendere costituzionale la pena, affinché non si trasformi in tortura. Ecco, per tutto questo, attendiamo fatti. Con viva cordialità”. Venezia. “Labirinti”, dai linguaggi alle pratiche di teatro in carcere con l’associazione Balamòs ferraratoday.it, 25 agosto 2025 Un laboratorio di formazione e specializzazione dal titolo ‘Labirinti’, a cura dell’associazione Balamòs, andrà in scena nella casa circondariale Santa Maria Maggiore di Venezia, dal 22 al 27 settembre. L’iniziativa, dedicata ai linguaggi e alle pratiche del teatro in carcere, rappresenta la seconda tranche del progetto triennale ‘Il filo di Arianna’. Il laboratorio è diretto dal regista Michalis Traitsis del Coordinamento nazionale teatro in carcere, in collaborazione con Patrizia Ninu e Lara Patrizio. ‘Il filo di Arianna’ è un’espressione che rinvia immediatamente al mito greco di Minosse e del labirinto. È il filo che servì a Teseo per trovare l’uscita dal labirinto di Minosse, dopo aver ucciso il Minotauro. Oggi si utilizza questa espressione per indicare la necessità di trovare strumenti e occasioni per uscire da situazioni particolarmente complesse. Dopo la prima edizione del progetto dal titolo ‘Metamorfosi’, diretta da Gianfranco Pedullà della Compagnia teatro popolare d’arte, e realizzata nella casa circondariale di Pesaro nel dicembre del 2023, spazio dunque alla seconda tranche dal titolo ‘Labirinti’, mentre la terza parte del progetto sarà diretta da Grazia Isoardi della Compagnia Voci erranti. Il progetto si realizzerà nella casa circondariale Santa Maria Maggiore di Venezia, dal 22 al 27 settembre, sarà diretto da Michalis Traitsis, responsabile del progetto teatrale ‘Passi sospesi’ negli istituti penitenziari di Venezia, con la collaborazione artistica di Patrizia Ninu e Lara Patrizio. Gli orari giornalieri sono dalle 9 alle 12 e dalle 14 alle 18, con orario fuori dal carcere dalle 19 alle 20 per una verifica del lavoro con il gruppo esterno. A conclusione del progetto, verrà presentato uno studio teatrale che vedrà riuniti i due gruppi coinvolti di detenuti ed esterni, e avrà il valore di restituzione dell’esperienza attraverso un video-documentario. Lavoro, che sarà poi presentato all’undicesima edizione di ‘Destini incrociati’, rassegna nazionale di teatro in carcere, in programma a Firenze. Livorno e Gorgona dal 12 al 15 novembre, a cura del Teatro popolare d’arte e del Coordinamento nazionale teatro in carcere, con il sostegno dei ministeri della Cultura e della Giustizia, della Regione Toscana, e del Comune di Livorno. Il Coordinamento nazionale teatro in carcere effettuerà una selezione tra le domande pervenute entro il 7 settembre, con curriculum personale e lettera motivazionale dei candidati da inviare all’indirizzo mail della realtà teatrale. I richiedenti selezionati potranno usufruire della formazione gratuitamente, coprendo in autonomia i costi di vitto e alloggio a Venezia, e sarà rilasciato un attestato di partecipazione. Milano. Incontro con Caterina Micolano, presidente della Cooperativa Sociale Alice di Luisa Taliento iodonna.it, 25 agosto 2025 Caterina Micolano realizza progetti professionalizzanti di alto livello per le donne recluse, rigorosi sul piano etico. E con il coinvolgimento di aziende profit. Un lavoro d’impatto. Per cui si carica a inizio giornata con la corsa sui Navigli. Piemontese, 50 anni, vive a Milano. Laureata in Lettere, ha maturato una lunga esperienza in sviluppo sostenibile, gestione sostenibile delle filiere produttive, management di Enti del Terzo Settore e marketing sociale. Dal 2018 è presidente della Cooperativa Sociale Alice, premiata nel 2023 per la categoria “Donne nel Sociale” come miglior progetto di empowerment femminile tra le imprese sociali nazionali. Nel 2024 è stata tra le fondatrici di Ethicarei, la prima filiera etica del made in italy garantita da Fair Trade. “Mi sveglio prestissimo, infilo le scarpe e vado a correre. Abito a Milano, vicino al Naviglio Grande che a quell’ora è bellissimo. In genere corro per una decina di chilometri e poi torno a casa per una doccia e per godermi una colazione ricchissima. I miei amici, infatti, mi dicono sempre che preferiscono portarmi fuori a cena che a colazione”. “Mi tuffo nel lavoro. In questo momento sono molto impegnata con l’avvio del progetto di Ethicarei nel carcere di Bollate, dove abbiamo inaugurato l’Academy, un laboratorio sartoriale gestito dalla Cooperativa Alice, in cui le detenute ricevono una formazione professionale di alto livello in ambito tessile, grazie alla collaborazione con maestranze provenienti da aziende del lusso e da istituti di design come lo IED (Istituto Europeo di Design). Stiamo sviluppando il progetto anche con altre sartorie sociali che lavorano in diversi penitenziari, come quelli della Giudecca, di Pozzuoli (case di reclusione interamente femminili, ndr) alla Dozza di Bologna e a Torino. L’obiettivo è creare una filiera del lusso etico, realizzando prodotti di qualità, abbigliamento, pelletteria, calzature. E farlo, aiutando le donne recluse a imparare un lavoro molto qualificato, secondo il saper fare italiano, che le doti di un curriculum appetibile una volta “fuori” “. “Il mio ufficio è un po’ come una casa dove posso mangiare, farmi una doccia, tenere gli abiti di ricambio, utili se devo uscire per un pranzo di lavoro o se ho degli appuntamenti serali per eventi. Per questo mi ci fermo tutto il giorno, senza staccare fino alle 19.30. Ho iniziato da poco a occuparmi di imprenditoria sociale anche nella musica, un settore per me nuovo. Già da giugno facciamo promozione agli spettacoli, distribuendo gadget etici, promuovendo il tema della sostenibilità sociale. Il nostro obiettivo è far lavorare assieme il mondo del no profit e le realtà imprenditoriali. L’integrazione del mondo delle imprese profit con quelle tradizionali è l’obiettivo che mi spinge, e il nostro lavoro è agevolato dal Codice del Terzo Settore, che consente alle aziende di trarre benefici fiscali da questa sinergia”. “Quando torno a casa, magari dopo giornate impegnative all’interno delle carceri, cerco di lasciare sulla soglia le storie e gli incontri che possono aver richiesto molte energie emotive. Per imparare a tenere i nostri spazi, a elaborare quello che accade sul lavoro senza farsene travolgere, assieme al mio staff siamo seguiti da professionisti del benessere mentale. Quindi, a casa mi dedico alla mia famiglia, cucino e resto in loro compagnia. Due volte al mese con Progetto Arca che incontra e dà appoggio ai senza dimora faccio il giro serale per le strade di Milano”. Verona. Premio a sister Anna, una vita per gli altri tra i bimbi e i detenuti del Malawi di Adele Oriana Orlando L’Arena, 25 agosto 2025 Il Comune di Affi, i cui cittadini hanno contribuito numerosi ai progetti di Tommasi, ha conferito una benemerenza alla missionaria laica Anna Tommasi che opera in Stati africani dal 1968. Una benemerenza è stata recentemente consegnata dal sindaco di Affi, Marco Sega, ad Anna Tommasi, la volontaria laica che aiuta bambini e detenuti in Malawi. Tommasi, sister Anna, come la chiamano in Malawi, è nata il 29 febbraio 1944, a corte Pace. Ben presto ha deciso di dedicarsi agli altri, diventando missionaria francescana di spiritualità a vita. “È stata una chiamata arrivata quando ero ragazza e vivevo ad Affi” ricorda Tommasi, “le missionarie parlavano molto della Cina in quegli anni. Ad Albarè c’erano missionari espulsi dalla Cina che raccontavano di quello che avevano sofferto. Il sogno di diventare una missionaria è cresciuto con me, ma non mi piaceva l’idea di portare un abito come le suore. A me piaceva andare vestita com’ero, ho trovato una comunità a Roma, dove mi sono spostata a novembre 1960”. Nel 1968, la Tanzania. “Fu un’avventura, perché nel 1967 c’era stata la guerra dei sei giorni con Israele”, osserva Tommasi. “Dopo 10 anni in Tanzania sono tornata a Roma e nel 2002 sono partita per il Malawi, dove vivo ancora oggi”. Tommasi e le altre volontarie in Malawi si occupano, e preoccupano, di persone detenute in carcere e dei bambini che frequentano gli asili rurali. “Questa missione negli anni è cresciuta e oggi abbiamo villaggi in attesa di entrare nel progetto”. Le missionarie aiutano anche persone che finiscono in carcere, con percorsi formativi e di inserimento al lavoro una volta uscite dalle strutture detentive. Una delle storie raccontata da Tommasi è quella di un ex detenuto che, grazie a un percorso di recupero, si è laureato, è ha una nuova vita. Il bene che sister Anna porta in Africa ha contagiato gli affiesi. Dopo tre anni, quest’estate Tommasi è tornata ed è stata accolta con entusiasmo. “Quando torno mi accolgono sempre con affetto qui ad Affi. Mi hanno sempre sostenuta. Nei primi anni di missione mia sorella con delle amiche organizzava raccolte”. Nel 2004 è nata “Anna per il Malawi”. Grazie a lei 124 scuole materne sono state aperte e frequentate da quasi 9mila bambini; 80 scuole sono state costruite da zero e alcune portono i nomi di persone che da Italia, Spagna, Germania, Scozia, hanno reso possibile l’impresa. Migliaia di persone che hanno un pasto ogni giorno, le insegnanti sono costantemente formate, le carceri sorvegliate e i detenuti assistiti. Grazie a sister Anna è stata costruita un’infermeria in una prigione che ogni giorno assiste almeno 20 malati gravi. Tommasi ha costruito una rete educativa, di assistenza e ascolto. “Molti cittadini hanno partecipato attivamente”, spiega il sindaco Sega. “Alcuni sono partiti per il Malawi per lavorare, altri hanno contribuito all’acquisto di un camion, per il trasporto dei materiali da costruzione. Questa collaborazione è la dimostrazione che il bene è contagioso, e che la nostra comunità ha scelto di non voltarsi dall’altra parte”. Dal 2004 l’attività interessa progetti tra alimentazione e gestione di asili, assistenza a carcerati malati, tasse scolastiche, riparazioni delle scuole, distribuzione di cibo durante la carestia, manutenzione pozzi, costruzione di case, adozioni a distanza, assistenza sanitaria e dentistica, acquisto libri per la biblioteca, trasporti e manutenzione veicoli. “Tutto questo è stato possibile grazie alla determinazione di Anna e alla fiducia che tanti ripongono in lei perché sanno che ogni euro diventa aiuto reale” sottolinea Sega. “A nome dell’amministrazione comunale e di tutta la cittadinanza, le abbiamo conferito la benemerenza come segno tangibile di gratitudine, rispetto, e affetto”. Il lavoro deve avere senso, la ricchezza non basta più di Risso Enzo Il Domani, 25 agosto 2025 Il lavoro oggi è attraversato da numerose contraddizioni che toccano le persone, le aziende e la società nel suo insieme. Sebbene l’Italia abbia raggiunto livelli ragguardevoli di occupazione, sono ancora evidenti i salari bassi, i divari di genere e generazionali e la produttività stagnante. L’aumento degli occupati non si traduce in un miglioramento diffuso delle condizioni di lavoro né nella risoluzione dei problemi strutturali. Che cosa si attendono dal lavoro gli italiani? Il tema è stato analizzato dall’osservatorio Fragilitalia del centro studi di Legacoop e Ipsos. Quale lavoro? - La principale caratteristica che dovrebbe avere il lavoro agognato è quella di fornire alle persone sicurezza economica e stabilità occupazionale (51 per cento). Secondo elemento fondamentale è la capacità di garantire un equilibrio tra la vita lavorativa e quella personale (42 per cento). Il lavoro, per le persone, dovrebbe essere fonte di benessere psicofisico (37 per cento) e strumento per accrescere e supportare costantemente i singoli, riconoscendo e valorizzando il merito (34 per cento). Altri tratti del lavoro ideale si concentrano su un adeguato livello di flessibilità e autonomia per le persone (29 per cento) e sulla possibilità di offrire discreti livelli di realizzazione personale e crescita professionale (26 per cento). Adulti e Gen Z - La visione del lavoro che hanno i giovani della Generazione Z è marcatamente differente nella scala delle priorità rispetto a quella degli adulti. Il fattore più importante che dovrebbe garantire un posto di lavoro è l’equilibrio tra vita professionale e personale (48 per cento). Al secondo posto le ragazze e i ragazzi di oggi pongono il benessere psicofisico (41 per cento), mentre la stabilità e la sicurezza economica (41 per cento) viene al terzo posto, seguita dal bisogno di flessibilità e autonomia (31 per cento). La Generazione Z è spaventata dall’idea di trovarsi in un posto di lavoro in cui si è sfruttati (44 per cento, rispetto a una media del 39) e di ritrovarsi completamente assorbiti dal lavoro senza avere più tempo per se stessi (52 per cento, contro una media del 32). In questa direzione vanno anche i timori rispetto agli orari di lavoro (41 per cento contro una media del 25). Essere adeguatamente remunerati (49 per cento), essere apprezzati (31 per cento), fare esperienze (35 per cento), dare più valore al tempo libero (25 per cento) e creare nuove amicizie con i colleghi (25 per cento) sono, infine, i tratti essenziali che i giovani ricercano da un posto di lavoro. Complessivamente un’impresa oggi deve imparare a accogliere i giovani della Generazione Z: apprezzandone le caratteristiche (31 per cento); consentendo di esprimere il loro potenziale (23); creando un ambiente ben organizzato (25); stimolando il lavoro di gruppo (26) e formando manager in grado di ascoltare e non solo di dare ordini (21). Sfida cruciale - Le aspettative degli italiani, in primis dei giovani, sul lavoro pongono una sfida cruciale alle imprese, alla società e alla politica: garantire non solo occupazione, ma anche dignità e prospettive. Il lavoro è l’arena in cui si riflettono maggiormente le profonde trasformazioni della società italiana, in cui sicurezza e benessere psicofisico sono diventati valori prioritari. La Generazione Z, più attenta all’equilibrio vita-lavoro e alla qualità relazionale, sfida i modelli occupazionali tradizionali, spingendo verso un’organizzazione del lavoro più umana e inclusiva. Il lavoro del futuro dovrà sempre più conciliare efficienza e benessere, trasformandosi da mero strumento economico a spazio di realizzazione personale e sociale. L’esigenza di flessibilità e autonomia, unita alla domanda di relazioni significative, sospinge, infine, verso un modello occupazionale ibrido tra tecnologia e umanizzazione. Le imprese, pertanto, non solo si trovano di fronte a nuove sfide, ma dovranno anche giocare la partita che si è aperta per la definizione di un nuovo paradigma occupazionale: per un lavoro che non produce solo ricchezza, ma anche senso. Droghe. L’Europa è il nuovo Eldorado della cocaina di Loretta Napoleoni* Il Fatto Quotidiano, 25 agosto 2025 Così è cambiata la geografia del narcotraffico globale. Negli ultimi vent’anni l’Europa ha superato gli Stati Uniti come principale mercato mondiale della coca. Per capire i pericoli della globalizzazione per lo stato di diritto in un mondo dove non esiste global governance, non c’è storia migliore di quella del narcotraffico della cocaina. Dopo l’11 settembre 2001, con l’approvazione del Patriot Act e il conseguente inasprimento dei controlli statunitensi sulle transazioni in dollari, le rotte della cocaina hanno subito una mutazione strategica. Il tradizionale flusso verso il mercato americano dalla Colombia è diventato più rischioso, costringendo i cartelli latinoamericani a guardare altrove alla ricerca di nuovi mercati. Grazie all’accordo tra la ‘ndrangheta e il cartello sudamericano, l’Europa è emersa come il nuovo Eldorado della polvere bianca, e per raggiungerla i narcos hanno scelto l’Africa occidentale. Paesi fragili, segnati da instabilità politica e corruzione, si sono trasformati in hub ideali: la Guinea-Bissau, soprannominata il “primo narco-stato africano”, ma anche il Senegal, la Sierra Leone e il Ghana. Qui la cocaina all’inizio degli anni 2000 ha cominciato ad arrivare nascosta in pescherecci e cargo, o su piccoli aeri da turismo, per poi essere smistata verso Spagna, Portogallo e Italia. Le nuove rotte hanno cambiato per sempre la geografia del narcotraffico globale: l’Atlantico è diventato il ponte tra le giungle sudamericane e le metropoli europee con conseguenze disastrose per diversi paesi. Venti anni dopo questa autostrada è arrivata nel cuore dell’Amazzonia. Un tempo simbolo della lotta contro la deforestazione e rifugio per diverse comunità indigene, oggi questa regione è contaminata dalla rotta fluviale della cocaina, che ha spodestato per volume e guadagni sia il contrabbando del legname illegale che quello dell’oro estratto dalle miniere clandestine. Persino la tecnologia si è adeguata al cambiamento: i droni non servono più per monitorare la biodiversità, ma scortano le spedizioni dei cartelli. I numeri ci spiegano perché: un chilo di pasta di coca costa 300 dollari nella giungla, nei mercati del vecchio continente si rivende a 60mila euro, un profitto da capogiro, ineguagliabile da qualsiasi prodotto, in grado di cooptare giovani disperati, pescatori senza futuro, comunità indigene che si vedono costrette a scegliere il salario del narcotraffico per evitare la miseria. Tutto ciò grazie alla insaziabile domanda di cocaina europea. Negli ultimi vent’anni l’Europa ha superato gli Stati Uniti come principale mercato mondiale della coca. Ed è bastato questo per ribaltare anche gli equilibri economici della criminalità globale. L’Europa, con il suo porto di Rotterdam e le rotte atlantiche, è divenuta il nuovo epicentro della distribuzione mondiale, e ciò ha rafforzato le connessioni tra cartelli latinoamericani e mafie europee, dalla ‘ndrangheta agli albanesi. E non si tratta di alleanze episodiche ma network stabili, un modello di cooperazione che le stesse istituzioni internazionali faticano a replicare. La piramide del crimine poggia sulla droga che ne è la base. Su questa i cartelli latinoamericani e i loro soci europei, che funzionano come conglomerati economici, diversificano la loro attività: oro estratto illegalmente, migrazione clandestina, traffico di esseri umani, armi, contrabbando di risorse naturali. Il modello è sempre lo stesso - come le multinazionali i cartelli operano su scala globale - ma senza vincoli legali, senza fisco, senza trasparenza. Loro non hanno bisogno di nascondersi: basta infiltrare l’economia legale, comprare un’impresa, rilevare un porto, corrompere un funzionario. In America Latina, i cartelli ormai rappresentano il volto oscuro della globalizzazione: reti transnazionali capaci di offrire servizi, infrastrutture e persino sicurezza - laddove il potere pubblico è evaporato - vengono gestiti dal crimine organizzato. E il motore dell’indebolimento degli stati sudamericani è la vorace domanda di cocaina da parte dell’Europa, una voracità che gli europei non riescono a fermare e che nascondono dietro un muro di silenzio. Ma l’epidemia della cocaina nel Vecchio continente è una realtà, forse anche più pericolosa di quella del fentalyn negli Stati Uniti. *Economista Il controverso tramonto della coerenza di Paolo Fallai Corriere della Sera, 25 agosto 2025 Trump disse di essere imprevedibile. Infatti ha annunciato dazi che poi ha sospeso, ha distrutto alleanze decennali e ha minacciato apertamente paesi di solito piccoli e deboli. Dovremo trattare con un po’ di cautela la parola “coerenza” che ai nostri occhi rappresenta tutto quello che sta unito e non è in contraddizione. La nostra coerenza è figlia di un vocabolo latino composto, cohaerens, con il verbo haerere “essere unito, attaccato”, preceduto dal prefisso “co”, insieme. Un significato senza sfumature: la fedeltà di una persona ai propri principi, la conformità costante tra le sue parole e le sue azioni. Per molto tempo nelle nostre democrazie, la coerenza è stata un fondamentale valore. Il 9 agosto 1974 il presidente americano Richard Nixon si dimise per anticipare una richiesta di impeachment in seguito allo scandalo Watergate, quando esponenti del comitato nazionale democratico vennero spiati da uomini legati al partito repubblicano. Nixon avrebbe subito l’impeachment per lo spionaggio? Non lo sappiamo, sicuramente gli avrebbero contestato la menzogna di non saperne niente. Molti anni dopo un altro presidente Usa, il democratico Bill Clinton venne messo sotto accusa “non” per la relazione avuta con la stagista Monica Lewinsky, ma per averla negata, mentendo. Tutti e due i presidenti erano venuti meno alla fedeltà ai propri principi, alla conformità costante tra le parole e le azioni. Come dobbiamo valutare oggi la coerenza assente in Donald Trump (e non solo)? Almeno non è una sorpresa: nel 2016 appena eletto la prima volta, al Mayflower Hotel di Washington, affermò: “Dobbiamo essere imprevedibili”. Infatti annuncia dazi che poi sospende, distrugge alleanze decennali e minaccia apertamente paesi di solito piccoli e deboli. Ma forse, a pensarci bene, l’unico davvero coerente è proprio Trump. Tramontate le ideologie, in gravissima crisi le idee e i valori, lui (e i suoi vassalli) sono fedeli ad un pensiero semplice ed efficace: se sei potente, bianco e ricco puoi fare tutto quello che vuoi. Gli altri? Si arrangino. Guerre, soprusi, menzogne: vediamo tutto, niente ci scuote. Ma perché? di Paolo Venturi Avvenire, 25 agosto 2025 Da Gaza alle tragedie di casa nostra, si avverte la stanchezza di restare umani in una società che esalta efficienza e individualismo, generando una vera e propria anestesia morale. Viviamo immersi in un tempo in cui tutto ci appare visibile, eppure nulla ci attraversa davvero. Siamo esposti - ogni giorno, ogni ora - a notizie, immagini, testimonianze di dolore. Eppure la realtà, quella viva e drammatica, non ci scuote più. La guardiamo, ma non ci guarda. Ci sfiora, ma non ci ferisce. È come se un vetro spesso ci separasse dal mondo: vediamo tutto, ma non sentiamo più niente. Non si tratta solo di indifferenza, ma di qualcosa di più profondo, più inquietante: una forma di anestesia collettiva. Un ottundimento morale che ci impedisce di provare compassione, di lasciarci interrogare dalla sofferenza dell’altro. Non siamo diventati cinici, ma stanchi. È la stanchezza, la fatica di restare umani in un tempo che ci chiede di essere efficienti, performanti, inattaccabili. Pier Paolo Pasolini aveva visto tutto questo con una lucidità dolorosa. Parlava di una “mutazione antropologica”: l’uomo nuovo del consumismo, privo di radici, scollegato da ogni legame comunitario, incapace di sentire davvero. Un uomo libero, sì - ma di una libertà svuotata. Una libertà ridotta a spazio privato, astratto, senza relazione. Non più promessa di vita piena, ma pretesa individuale, diritto senza dovere, espressione senza responsabilità. Il desiderio si è trasformato così in desiderio di consumo, le relazioni in competizione, l’amicizia in management. Il pensiero, sempre più tecno-oligarchico, ha convertito ogni respiro comunitario in agency individuale, ogni legame in branding personale. E la realtà, privata della sua densità simbolica e affettiva, diventa inconsistente. Invisibile. Se non ci tocca, semplicemente non esiste. Numeri, statistiche, breaking news. Ma senza carne, senza volto, senza tempo. A luglio, l’Unicef ha riportato che oltre 18.000 bambini palestinesi sono stati uccisi a Gaza. È un numero spaventoso. Eppure, cosa sentiamo davvero? Che cosa ci resta dentro, dopo aver letto una cifra così? Ma cosa accade a una società che non riesce più a sentire? Che ha smarrito il senso del limite, che rimuove la fragilità, che censura perfino la morte, come fosse uno scandalo? La vera posta in gioco, oggi, è la libertà. Non quella vuota e gridata, ridotta a diritto di dire qualunque cosa o a difesa dei propri confini identitari. Ma la libertà autentica. Quella che crea legami. Che riconosce l’altro. Che costruisce futuro. Una libertà che non si accontenta di essere liberi da, ma che sceglie di essere liberi per. Liberi per… cambiare le cose. Per non accettare la disuguaglianza come destino. Per abitare i conflitti invece di negarli. Per rigenerare le comunità, le istituzioni, i territori. Per dare voce a chi non ha voce. Per scegliere l’umano, ogni volta che ci viene chiesto di scegliere tra l’umano e il funzionale, tra il giusto e l’utile, tra la verità e la convenienza. Ma la libertà, per esistere, ha bisogno di relazione. Non può fiorire nell’individualismo e neppure nell’utilitarismo. L’impotenza di fronte alla realtà nasce da una condizione impaurita di isolamento: le persone in cerca di protezione si isolano, e così facendo, paradossalmente - come ricorda Robert Castel - aumentano la loro insicurezza. Un circolo vizioso che rende la persona più fragile, la rende impermeabile rispetto a ciò che succede, e depotenzia la sua capacità di azione e attivazione. La desertificazione della relazione sottrae alla società il dono. Il dono - cosa ben diversa dalla donazione - nel suo senso più profondo, è relazione. È pedagogia per riscoprire la realtà, quell’atto che rompe la solitudine, che crea comunità, che ci ricorda che siamo parte di qualcosa di più grande di noi. Il dono, come relazione, esercitato tanto nella sfera privata quanto in quella pubblica, in quella economica come in quella istituzionale, è ciò che manca e che sarebbe in grado di rigenerare il rapporto con il reale, trasformando la percezione individuale in un’esperienza collettiva. Come sottolineato da Arrow (1999): “Gran parte della ricompensa derivante dalle relazioni interpersonali è intrinseca; la ricompensa, cioè, è la relazione stessa”. Per vivere, e non semplicemente sopravvivere, in un tempo di anestesia morale, non basta più costruirsi una percezione della realtà: occorre avere un rapporto reale con essa. Non basta più muoversi come singoli: occorre commuoversi - nel vero senso etimologico: muoversi insieme verso… Riscoprire la nostra inquietudine e la nostra natura relazionale, come ha affermato papa Leone XIV ai giovani durante il Giubileo, diventa così non solo un atto profondamente umano, ma anche un atto politico. La diplomazia non deve fermarsi. Alternative ne restano di Andrea Lavazza Avvenire, 25 agosto 2025 Ci abbiamo provato, è andata male. Di più non si poteva fare. Il maggiore pericolo di disaffezione a una causa è il fallimento dei tentativi (almeno in apparenza) robusti e sinceri di risolverla una volta per tutte. Dopo le speranze alimentate dal vertice di Anchorage tra Donald Trump e Vladimir Putin e dal summit alla Casa Bianca con Volodymyr Zelensky e i principali leader europei (Spagna esclusa), la guerra è continuata come e peggio di prima nel gelo delle ultime dichiarazioni del presidente russo e anche di quello americano. Facile ora cadere nello sconforto e lasciare che la tragedia ci scivoli addosso. Il mondo cattolico venerdì si è mobilitato per la pace con gli strumenti della preghiera e del digiuno. Un segno forte che tuttavia ha lasciato tanti indifferenti, disillusi da quella che è apparsa una recita diplomatica tra leader poco interessati a porre fine ai combattimenti, destinati perciò a proseguire fino alla vittoria per consunzione di una parte sull’altra. Dobbiamo reagire a questa lettura e a questo atteggiamento per non cadere esattamente in quello che alla vigilia dell’incontro in Alaska molti paventavano: una Monaco del 2025, ovvero un accordo simile a quello del 1938, quando Germania, Regno Unito, Francia e Italia, senza la Cecoslovacchia al tavolo, imposero a quest’ultima di cedere la regione dei Sudeti rivendicata da Adolf Hitler. Un cedimento delle altre potenze alla Germania nazista, che si immaginava allora utile a evitare un conflitto, ma che non spense per nulla le mire espansionistiche di Berlino, sfociate l’anno successivo nella Seconda Guerra mondiale. Sembrava scongiurare quello scenario l’asserita volontà americana di dare, insieme a Ue e Nato, garanzie di sicurezza all’Ucraina mutilata di circa il 20% dei suoi territori presi dalle truppe di Mosca (si tratterebbe infatti di un’espropriazione illegale, anche se un accordo provvisorio ammettesse solo di fatto la conquista senza un riconoscimento di diritto, per non sancire apertamente un precedente nella violazione del diritto internazionale). Anche le condizioni fatte filtrare ufficiosamente dal Cremlino davano l’impressione che si potesse trovare una via per trattative finalmente solide e arrivare a un cessate il fuoco permanente. I giorni successivi ci hanno riportato all’intransigenza russa. Le pretese di territori nemmeno conquistati - comprese le zone fortificate del Donbass che costituiscono un solido ostacolo a un’eventuale nuova offensiva e che Mosca non riesce a conquistare -, neutralità di Kiev, meccanismi di difesa in cui pure l’invasore e il suo alleato cinese abbiano potere di veto e misure di imperialismo culturale (la propria lingua imposta come ufficiale) segnalano la volontà di ottenere una capitolazione del nemico e non un’intesa, pur sempre vantaggiosa viste le responsabilità nel conflitto. Trump torna a tentennare, forse interessato soprattutto a instaurare buoni rapporti con l’altra superpotenza nucleare, la Cina pare disposta a contribuire un eventuale forza di peacekeeping, l’Europa prova a tenere duro: in ogni caso essere ottimisti diventa nuovamente arduo. Appare evidente che bisogna tentare di battere altre strade. Per esempio, rimettere in gioco le Nazioni Unite attraverso l’Assemblea generale e non il Consiglio di sicurezza, bloccato dai “no” incrociati. Un cessate il fuoco richiesto a larga maggioranza dai 193 membri e garantito da una forza multinazionale di Paesi terzi potrebbe essere una via, non facile, eppure da provare. Il modello è quello della risoluzione “Uniting for Peace” adottata nel 1950 durante la guerra di Corea, che permise di aggirare i veti sovietici e autorizzò gli Stati membri a mettere in atto forme di assistenza militare collettiva. Si potrebbe poi esplorare uno sblocco condizionato dei fondi di Mosca congelati all’estero o la rimozione parziale di sanzioni in risposta a passi concreti da parte del Cremlino, con meccanismi automatici in direzione inversa (confisca o nuove penalità) in caso di violazioni degli accordi. Magari il capo della Casa Bianca stupirà in positivo con un’altra mossa imprevedibile (ha parlato di due settimane per decidere e resta comunque l’attore chiave per rompere lo stallo), di certo non ci si può aspettare nulla da Putin. Come, purtroppo, nemmeno da Benjamin Netanyahu. È davvero un paradosso essere testimoni di due crisi umanitarie così gravi (è dell’altro ieri la dichiarazione ufficiale di “carestia” a Gaza City) e di avere l’impressione di totale impotenza anche di fronte all’esecutivo di un Paese democratico (Israele), per di più nostro alleato. Sarebbe bello vedere i capi di Stato e di governo volati a Washington recarsi anche a Tel Aviv per chiedere una tregua umanitaria e permettere l’assistenza alla popolazione civile palestinese. Anche in questo caso sembra che sia sopraggiunta una rassegnazione di fronte al progetto di occupazione totale della Striscia. Parole di condanna si sono levate anche da Palazzo Chigi. Apprezzabili, certo, eppure oggi poco efficaci. Persino nazioni che hanno promesso di riconoscere a breve lo Stato di Palestina si stanno limitando ad annunci inutili a sfamare o proteggere i bambini che continuano a morire. Ci abbiamo provato, di più non si poteva fare di fronte all’ostinazione di chi vuole proseguire la sua guerra. In realtà, non possiamo arrenderci a questa sconfitta annunciata dei nostri valori e della nostra dignità, rimanendo inerti spettatori. Non cadiamo nella trappola delle strette di mano a favore di telecamera e della propaganda che nega gli orrori per anestetizzare le nostre coscienze. Lottare per la pace deve rimanere una priorità assoluta malgrado l’alternarsi demoralizzante di speranze e disincanto. Venezuela. “Caracas libera alcuni detenuti, ora esigiamo che il governo riporti nostro figlio a casa” di Gloria Bertasi Corriere della Sera, 25 agosto 2025 I genitori di Alberto Trentini: “Possiamo solo immaginare la gioia di riabbracciare i propri cari dopo tanto tempo”. Il cooperante veneziano è in carcere da nove mesi: iniziative alla Mostra del Cinema. Alcuni detenuti liberati dalle carceri venezuelane del presidente Nicolas Maduro e la famiglia di Alberto Trentini (con l’avvocata Alessandra Ballerini che li assiste da novembre) torna a redarguire il governo a fare la sua parte. Il cooperante veneziano arrestato a metà novembre mentre si trovava in Venezuela nel ruolo di coordinatore di campo per l’ong internazionale Humanity & Inclusion è in carcere da 281 giorni, senza imputazione e senza aver mai potuto incontrare nessuno. Si trova a El Rodeo a Caracas e lì, il 10 agosto, ha compiuto 46 anni. “Apprendiamo la positiva notizia della liberazione di alcuni prigionieri Italo venezuelani. Possiamo solo immaginare la felicità delle famiglie nel poter riabbracciare i propri cari finalmente liberi. Ed una felicità che vorremmo poter condividere anche noi - dice la famiglia - Alberto è carcere da oltre nove mesi e nessuno ancora lo ha potuto visitare. Esigiamo che il nostro governo concretizzi finalmente gli sforzi per portare a casa Alberto. Ogni giorno in più di detenzione e di attesa produce intollerabile sofferenza. Confidiamo nell’azione urgente della Farnesina e dell’inviato speciale. Liberare Alberto deve diventare la priorità per chi ha il potere riportarlo a casa”. Proseguono, intanto, le iniziative della società civile per sensibilizzare sulla situazione di Trentini: il digiuno a staffetta lanciato dagli amici del cooperate è arrivato, domenica, al giorno numero 171. Alla Mostra del cinema del Lido (27 agosto-6 settembre) è stato organizzato un incontro - 28 agosto, ore 10 in via Pietro Buratti 1 - alla Casa degli Autori, in collaborazione con Articolo 21, il Sindacato nazionale giornalisti cinematografici italiani e Isola Edipo, “con l’obiettivo di riaccendere i riflettori su Alberto”. Sarà predisposta anche una lettera aperta al mondo del cinema italiano per spiegare il dramma della sua detenzione in Venezuela, “una condizione assurda che dura da troppo tempo e con tanti silenzi attorno”, si legge nell’appello alla partecipazione: saranno presenti familiari e amici di Alberto, il direttore della Mostra d’Arte Cinematografica Alberto Barbera e l’attrice Ottavia Piccolo. A Mestre, durante il Festival della Politica (M9, 13 settembre, ore 11.30) è previsto un altro momento di confronto e di sollecitazione alla politica affinché Roma faccia tutto il necessario per riportare Trentini a casa.