“Emergenza suicidi in carcere Impegnarsi tutti. E partire da qui” di Gian Luigi Gatta*, Cesare Parodi**, Francesco Petrelli*** Corriere della Sera, 24 agosto 2025 Lettera aperta ai presidenti del Senato e della Camera, al presidente del Consiglio dei ministri e al ministro della Giustizia. L’emergenza dei suicidi in carcere - 56 dall’inizio dell’anno, 7 dei quali ad agosto - indice di inaccettabili condizioni di vita dei detenuti, impone di portare ancora una volta con urgenza alla vostra attenzione la drammatica situazione di sovraffollamento che contraddistingue la realtà italiana. Essa rappresenta una palese violazione dei principi costituzionali della dignità umana e della finalità rieducativa della pena, nonché degli impegni internazionali assunti dal nostro Paese in materia di diritti umani. I dati ufficiali confermano che il numero dei detenuti è di gran lunga superiore alla capienza regolamentare degli istituti penitenziari, evidenziando una realtà indegna di un Paese civile. Il rapporto drammatico tra le dimensioni delle celle disponibili e il numero dei detenuti determina conseguenze devastanti sulla salute fisica e psichica di questi ultimi, sul lavoro del personale penitenziario (3 i suicidi quest’anno) e sulla possibilità di intraprendere adeguati percorsi trattamentali. È una situazione di ormai cronica emergenza che mina alle fondamenta la funzione stessa della pena, trasformando la detenzione in una mera afflizione, anziché, secondo la Costituzione, in un percorso volto al reinserimento sociale. Le ricadute negative si estendono all’intera società, compromettendo l’abbattimento della recidiva, e di conseguenza la sicurezza dei cittadini e la coesione sociale. Pur consapevoli della complessità della questione, siamo fermi nella convinzione che non siano più procrastinabili interventi risolutivi, capaci di incidere subito su una situazione destinata ad aggravarsi di giorno in giorno. In tal direzione, l’apporto tecnico, esperienziale e scientifico dell’avvocatura, della magistratura e dell’accademia rappresenta per il Paese una risorsa disponibile. Tra le possibili azioni, ulteriori rispetto agli strumenti dell’amnistia e dell’indulto, come è noto, previsti dalla Costituzione e riservati al Parlamento, suggeriamo di valutare con attenzione le seguenti: - Misure di deflazione carceraria: estensione della liberazione anticipata per i detenuti che si trovino nella parte finale dell’esecuzione della pena e che abbiano dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione; ampliamento e rafforzamento delle pene sostitutive delle pene detentive brevi e delle misure alternative alla detenzione, laddove possibile e compatibile con le esigenze di sicurezza, al fine di ridurre la popolazione carceraria; - Potenziamento degli organici e delle risorse: incremento degli organici degli Uffici di Sorveglianza e del personale educativo, sanitario e di supporto psicologico, essenziale per una gestione più umana ed efficace delle carceri; revisione e attuazione dei piani di prevenzione dei suicidi in carcere; ampliamento dell’organico - allo stato largamente insufficiente - degli Uffici interdistrettuali di esecuzione penale esterna (Uiepe); - Revisione delle politiche penali: un’attenta analisi e una revisione delle politiche penali che contribuiscono al sovraffollamento, valutando l’introduzione di pene meno afflittive per determinate tipologie di reati, così da consentire una più ampia applicazione di pene sostitutive e la contestuale riduzione dei casi in cui è possibile disporre la custodia in carcere. Quali testimoni, nelle nostre rispettive vesti, delle costanti conseguenze drammatiche della condizione carceraria, riteniamo fondamentale, riaffermare i principi costituzionali secondo i quali la vita e la dignità di ogni persona, anche di chi ha sbagliato, devono essere tutelate, e le pene, compreso il carcere, devono servire a restituire alla società persone migliori. Serve l’impegno di tutti, nei rispettivi ruoli, affinché si operino con urgenza i necessari interventi normativi e le norme vengano interpretate ed applicate in senso conforme alle suddette finalità. Auspicando un vostro pronto e concreto intervento, restiamo a disposizione per ogni confronto e contributo, ognuno nel proprio ambito di competenze, che possa condurre alla risoluzione di questa annosa e ormai strutturale problematica. *Presidente dell’Associazione italiana professori di Diritto penale **Presidente dell’Associazione nazionale magistrati ***Presidente dell’Unione Camere penali italiane Se la (civile) protesta dei detenuti scatena odio e voglia di lager di Marco Neirotti La Stampa, 24 agosto 2025 “Non siamo bestie ma esseri umani”, scriveva nei giorni scorsi un detenuto: “La politica è andata in ferie, lasciandoci come cani abbandonati”. Parole che annegano nel web: “Siete in vacanza tutto l’anno, mantenuti da noi!”. Una lieve protesta nel carcere di Asti e la visita del Radicale Daniele Robotti scatenano un colpo di spugna sulla storia del diritto. Tra sberleffi (“Rinchiudiamo anche i Radicali con loro”) spunta voglia di lager: “Per me possono dormire 40 in 3 metri quadri e mangiare un tozzo di pane ogni due mesi”. “Se non mangiano risparmiamo”, “Paghiamo le tasse per mantenerli”. Addestrata all’odio e alla sopraffazione, la società non approva una condanna nei limiti del vivere civile. “Speriamo che rinuncino anche al riscaldamento”, “Se si fossero comportati bene non sarebbero lì, quindi che non si lamentino”. Sicuri? Dietro le sbarre ci sono più di 60 mila persone, 9 mila in attesa del primo giudizio, meno di 6 mila già condannate ma non ancora in via definitiva: alcuni potrebbero risultare innocenti. Secondo dati del Garante per i Detenuti e del sito di poliziapenitenziaria.it in vent’anni sono state 30 mila le detenzioni a carico di gente uscita pulita. Fra i “40 in 3 metri quadri” può trovarsi chiunque di noi, leoni da tastiera compresi: litighi con un vicino di casa birbone e lui t’infila un etto di cocaina in macchina, spiega che non è tua. Un ex detenuto: “Il carcere dovrebbe essere luogo di rieducazione. Invece è luogo di sofferenza e morte”. Non è un rivoluzionario, è un ex senatore democristiano, poi Udc, Totò Cuffaro, già presidente della Regione siciliana: “Il carcere è una comunità nella quale ci sono tante brave persone sfortunate, un luogo dove finisce soprattutto gente distrutta dalla povertà. Il carcere trasforma gli uomini in maiali. Ma per l’Europa i maiali hanno diritto a sette metri quadrati per uno. Noi ne avevamo meno di cinque in quattro”. Cinque metri gratis! Non è vero, il recluso deve pagare due terzi del mantenimento, fino a 1.300 euro l’anno. Lasciare le prigioni nel degrado significa sperare che chi esce torni a delinquere e significa, pur tra proclami di solidarietà, non capire il lavoro di agenti sotto organico con un compito delicato e difficile in una tensione alla quale fanno argine princìpi ed equilibrio del singolo. Ancora il detenuto citato all’inizio: “Se qualche politico a caccia di voti, o qualche giornalista assetato di lettori, pensa di giocare sul contrasto tra agenti della polizia e persone detenute è completamente fuori dal mondo. Qui non siamo in mezzo alle piazze dove tra celerini e manifestanti violenti c’è un costante clima di scontro e spesso di odio. Qui i reparti delle carceri sono ormai in cogestione”. E non è un buonista del “liberi tutti”, si chiama Gianni Alemanno, già sindaco di Roma e ministro in un governo Berlusconi, una vita nel Movimento Sociale, in Alleanza Nazionale, in Fratelli d’Italia (partito dal quale è uscito). Volete saperne di più? Alemanno invia un “Diario di cella” pubblicato sui social: non piange su stesso, racconta nel nome di tutti. L’autore di questo articolo (perdonate l’autocitazione) è entrato in galera tante volte, ha narrato sofferenze, speranze, spettacoli, rivolte, overdosi, ire violente, malattia, disperazione, suicidi, solidarietà. All’alba del 3 giugno 1989 è stato in un cortile di silenzio e singhiozzi fra le donne scampate al rogo del braccio femminile delle Vallette (11 vittime tra le quali due eroiche agenti che s’immergevano nel fumo per aprire le celle). E alle Vallette ha visto qualcosa mai visto fuori: nel teatro cattolici rivolti all’altare e musulmani rivolti verso la Mecca pregavano insieme. Il carcere è una palestra di sopravvivenza diversa dalle fantasie che sfarfallano in un’aula di Parlamento, su un palco di comizio o davanti alla tastiera di casa fra pasticcini, bibite e sigarette. “Stanziati nuovi soldi per il lavoro in carcere, no alla clemenza secca, non è rieducativa” di Paolo Rossetti ilsussidiario.net, 24 agosto 2025 Intervista al Viceministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto. Solo il 2% dei detenuti con un lavoro commette ancora reati, motivo in più per fare del carcere un’occasione di fattiva riabilitazione. Finora solo un terzo dei reclusi accede al lavoro, anche se il ministero ha appena emanato un decreto, animato da fondi europei, per incrementare le attività nell’area trattamentale. Un piano che va di pari passo con una strategia per ridurre il sovraffollamento, puntando, fra l’altro, su soluzioni alternative per chi è tossicodipendente e sulla diminuzione dei detenuti in custodia cautelare. Un impegno che vede sullo sfondo i grandi temi del dibattito sulla giustizia, la separazione delle carriere prima di tutto e, in stretta connessione, i rapporti politica-magistratura. L’ordinamento penitenziario prevede che sia favorita la destinazione dei detenuti al lavoro. Ora però, su oltre 60mila detenuti, solo 20mila accedono ad attività lavorative. C’è un piano per incentivare il lavoro in carcere? Con una decisione del 30 luglio, comunicata l’11 agosto scorso, il ministero della Giustizia ha emesso un decreto ad hoc per l’ammissione al finanziamento di numerose iniziative dei provveditorati regionali, nell’ambito dei fondi europei di sviluppo regionale, nel programma nazionale di inclusione e lotta alla povertà 2021-2027. Riguarda, infatti, le regioni che hanno presentato progetti approvati dai rispettivi provveditorati dell’amministrazione penitenziaria. Si tratta di somme importanti, che vanno dai 3 ai 13 milioni per regione, a disposizione di Friuli-Venezia Giulia, Sicilia, Campania, Sardegna, Puglia e Basilicata, Lombardia, Toscana, Umbria, Piemonte, Liguria, Calabria, Lazio, Abruzzo, Emilia-Romagna. Per cosa potranno essere utilizzati i finanziamenti? Il governo ha a cuore il problema del lavoro di chi è detenuto, visto che chi lavora ha un tasso di recidiva solo del 2%. L’incremento delle risorse è finalizzato anche all’ampliamento degli spazi utilizzati per lo svolgimento delle attività lavorative e per finanziare strutture che possano ospitare temporaneamente coloro che hanno percorsi di reinserimento, ma non hanno un luogo di riferimento. Dunque non sono soldi solo per il lavoro? Riguardano tutto quello che ruota intorno all’attività trattamentale. Rientrano nel tema attività riferite all’esecuzione penale esterna, come all’housing sociale. Si potranno corrispondere ratei di locazione mensili per i destinatari; edifici demaniali o di proprietà delle regioni potranno essere ristrutturati per realizzare aree di lavoro trattamentali, hub per l’incontro con i professionisti e gli assistenti sociali che seguiranno i detenuti come tutor. Queste somme saranno anche destinate a creare nuove occasioni di lavoro: creazione di libri tattili, laboratori di panificazione, pasticceria, pizzeria, estetica, corsi di formazione affidati prevalentemente alle regioni. Ma quante persone in più potrebbero lavorare grazie a questo intervento? È difficile quantificarne il numero, perché dipenderà dalle singole situazioni, dalle singole regioni, dai singoli istituti, dai detenuti che accetteranno i percorsi rieducativi. Lo ha ribadito recentemente la Corte costituzionale con la sentenza 10 del 2024: lo Stato ha il dovere di offrire i percorsi rieducativi, ma il detenuto deve accoglierli convintamente per potere usufruire dei conseguenti benefici. Si tratta, comunque, di risorse molto importanti che comporteranno indubbiamente un significativo incremento del numero di soggetti che potranno utilmente lavorare. Rimane, comunque, il tema del sovraffollamento delle carceri: ci sono 62.986 detenuti a fronte di una capienza massima di 51.805. Su questo, come intendete intervenire? Innanzitutto, c’è un commissario per l’edilizia penitenziaria che ha ultimato le sue riflessioni, pronto ad attuarle. Quando la nostra proposta diventerà realtà, i tossicodipendenti lasceranno il carcere, destinati a strutture che si occuperanno specificamente del loro recupero, con un beneficio deflattivo di circa 8mila unità. Già questo permetterebbe di ristabilire un più corretto rapporto fra capacità abitativa e numero dei soggetti collocati all’interno degli istituti di pena. Lavoriamo anche a una rilettura più certificata della custodia cautelare: il 15-20% dei detenuti è in questa condizione, una categoria molto ampia. Se riuscissimo a ridurre anche quest’ultima percentuale, potremmo garantire ai detenuti spazi più dignitosi. Serve anche un provvedimento di clemenza, magari di liberazione anticipata per buona condotta? Ne hanno parlato Mattarella, il Papa, lo stesso La Russa... Allo stato la discussione all’interno della maggioranza è piuttosto ferma: non si pensa a provvedimenti di clemenza “secchi” perché vengono ritenuti non rieducativi. Lasciare il carcere perché non c’è posto, una sorta di sfratto per finita locazione, non viene ritenuto utile dalla maggioranza, vista l’alta percentuale di recidivazione che ne conseguirebbe. Direi che, come noi di Forza Italia predichiamo da sempre, bisogna avere un po’ di pazienza, testare queste iniziative ed eventualmente, magari in forma progressiva, sempre considerando la buona condotta del detenuto, pensare a un incremento dei tempi della liberazione anticipata. Non è un’ipotesi che noi azzurri consideriamo blasfema. Il piano presentato prevede una spesa di 758 milioni: è pensato sul lungo termine? C’è la possibilità di interventi più immediati? Non è pensato sul lungo periodo, esattamente il contrario: gli interventi saranno anche a brevissimo, alcuni potrebbero comportare soltanto qualche mese. Molto dipende, come sempre, più dalle persone che dalle norme: un direttore di istituto solerte, un provveditore attento, contribuiscono a rendere gli sforzi del legislatore concreti. Si tratta di un lavoro articolato, composito, spesso difficile: per citare Mary Poppins, nulla può essere risolto con uno schiocco di dita. L’inchiesta di Milano sull’urbanistica, le dimissioni di Occhiuto in Calabria seguite all’apertura di un’inchiesta, le dichiarazioni di esponenti dell’ANM in seguito agli sviluppi del caso Almasri: tra magistratura e politica c’è ancora tensione? In una certa fetta della magistratura, quella più legata alle correnti, c’è indubbiamente una sorta di nervosismo da riforme costituzionali: dalla separazione delle carriere al sorteggio per i componenti del CSM, fino all’Alta Corte disciplinare. Sia chiaro: nel nostro Paese, per fortuna, tutti hanno il diritto di non essere d’accordo, ma, nella specie, bisogna stare attenti. Il Parlamento scrive le leggi, i giudici le applicano, così scolpisce la separazione dei poteri l’articolo 101 della Costituzione. Se qualcuno cerca di sconfinare, di disturbare il corretto esercizio della prerogativa di ciascuno, si creano cortocircuiti istituzionali dannosi per la democrazia. Entrando nello specifico c’è qualcosa che non quadra nell’inchiesta di Milano? Non conosco gli atti e quindi, con la doverosa prudenza del tecnico, mi guardo bene dall’esprimere giudizi di merito. Prendendo però atto degli interventi demolitori del Tribunale del Riesame, mi permetto un giudizio di metodo. Secondo me c’è un rischio grave, non necessariamente legato a questa vicenda: la trasformazione automatica, tutta patologica e del tutto inaccettabile, di eventuali ex abusi d’ufficio in fatti di corruzione. Un fenomeno che va arginato: l’abolizione, magari non condivisa, di un reato non può diventare pretesto per applicarne uno più grave, in barba al principio di stretta legalità. La Cassazione dovrà necessariamente dire la sua. Come giudica la scelta di Occhiuto di dimettersi nonostante sia solo indagato? Nel nostro Paese, finché non c’è una sentenza di condanna definitiva, nessuno può essere definito colpevole, secondo l’articolo 27 della Carta. Accade però che un’informazione di garanzia, atto unilaterale del Pm, metta subito alla berlina la persona che l’ha ricevuta, e senza che vi sia stato nessun intervento del giudice. Roberto Occhiuto, nel rispetto del principio costituzionale, non si è fatto logorare, si è smarcato e ha detto: “A questo punto chiedo ai miei elettori se mi accettano anche con questa pendenza”. Mi sembra un modo coraggioso di raccogliere la sfida della presunzione di non colpevolezza, il tentativo di debellare una pessima abitudine tutta italiana. Ci sono le condizioni anche per una riforma dell’immunità parlamentare? È un tema delicato che merita una riflessione assai profonda. So che la Fondazione Einaudi sta raccogliendo firme per supportare il ritorno all’originario articolo 68. Si vedrà. Per ora credo che il must sia portare a casa la riforma, correttamente definita epocale da Antonio Tajani, in discussione in Parlamento, prossima all’approvazione e pronta per i referendum confermativi. Ai cittadini, cancellando il messaggio fallace che qualcuno ha confezionato ad usum, bisognerà chiarire che non c’è una guerra della politica contro la magistratura, anzi che si tratta di un intervento a tutela di ciascuno, perché pone il giudice in posizione di vera terzietà e imparzialità, e a tutela anche di tutti i magistrati, finalmente liberati dal giogo delle correnti. Le polemiche su questo tema non mancano... Qualcuno si sbraccia facendo riferimento alle idee di Gelli, tra l’altro “a spanne”. Voglio solo ricordare qualche nome di chi era a favore della separazione delle carriere: Matteotti, Chiaromonte, Terracini, Moro, Calamandrei. Giovanni Falcone stesso, in un’intervista del 1991, disse che il Pm non deve essere un paragiudice. Vogliamo restituire alla giustizia il suo equilibrio, realizzare quel triangolo isoscele in cui in cima c’è il giudice, e alla base, alla stessa distanza, pubblico ministero e avvocato difensore. Diciamolo con una metafora calcistica: non si è mai visto un arbitro della stessa città di una delle due squadre in campo. Perché impedire al detenuto al 41 bis di cucinarsi nella propria cella dopo le ore 20? approdocalabria.it, 24 agosto 2025 Ha suscitato notevole clamore la diffusione della notizia che Piromalli Antonio, detenuto al 41 bis, considerato il capo di una potente cosca mafiosa, abbia chiesto di potersi cucinare la cena in cella dopo le 22, senza alcuna limitazione di orari, ottenendo un netto rigetto dalla Cassazione sul presupposto che ai detenuti al 41 bis tale prerogativa fosse preclusa. Abbiamo chiesto al suo difensore di fiducia, l’avv. Domenico Infantino del Foro di Palmi, delucidazioni su tale vicenda: