Per Gratteri dietro i suicidi in carcere c’è il potere dei boss. Giachetti (Iv): “Delmastro si dimetta” giustizianews24.it, 23 agosto 2025 Nei giorni caldi delle polemiche sulle mille disfunzioni delle carceri italiane, segnate profondamente da suicidi e problemi di sicurezza (in pochi giorni quattro detenuti sono evasi da Poggioreale e Bolzano), arrivano le dichiarazioni del procuratore di Napoli Nicola Gratteri ad alimentare nuove discussioni sulla vita all’interno degli istituti di pena. In una intervista rilasciata pochi giorni fa, Gratteri non ha usato mezzi termini. “Preoccupato? Certo che lo sono. E come si fa a non esserlo, di fronte alla situazione delle carceri? Basta entrarci e capisci”. Nicola Gratteri non rinuncia ai toni franchi. Il pm nato nella Locride e diventato nel mondo simbolo della lotta alla ‘ndrangheta, una vita sotto scorta, dal 2023 è procuratore a Napoli. Ha sulla scrivania i fatti dell’altra notte, l’evasione choc da Poggioreale. Il carcere, peraltro, è a un passo dai suoi uffici. “Questo sistema organizzativo - sottolinea Gratteri in una intervista a La Repubblica - ha portato al progressivo controllo delle carceri da parte dei detenuti di alto spessore: i quali ordinano ai più deboli una serie di “favori”. Può essere l’ambasciata all’esterno, il trasporto di un cellulare, la custodia di un’arma. E i più fragili ne sono schiacciati, perché rischiano sempre: infrazioni disciplinari, se vengono scoperti; o gravi ripercussioni sull’incolumità, se si rifiutano. L’esito è paradossale - ribadisce - le relazioni comportamentali sui boss descrivono questi capi come soggetti che in carcere sono irreprensibili, così possono fruire di tutti i benefici di legge; e i detenuti deboli, costretti a servire i primi, non possono aspirarvi. Questa, che tanti ignorano, è una condizione che può portare ai suicidi”. Parole che non sono piaciute al presidente delle Camere Penali, Francesco Petrelli, che in una nota ha replicato con durezza: “Indigna che una questione grave e seria come quella dei suicidi in carcere venga affrontata dal dott. Gratteri con tanta superficialità: quella poco credibile interpretazione dei fatti secondo cui sarebbero le angherie dei boss causa del drammatico fenomeno costituirebbe infatti materia di reato su cui indagare e non su cui costruire fumose teorie criminologiche, magari ricche dell’appeal mediatico necessario a un personaggio televisivo, ma atte a nascondere le reali e tragiche cause ambientali di quella diffusa disperazione che conduce al suicidio, che sono invece sotto gli occhi di tutti”. Sul tema della sicurezza interviene anche la Confederazione Sindacale della Polizia Penitenziaria (CON.SI.PE.), che in una nota denuncia: “La recente evasione dal carcere di Poggioreale mette nuovamente in luce una verità ormai innegabile: la sicurezza nelle nostre carceri è al collasso. Durante il servizio notturno, circa 30 unità della Polizia Penitenziaria devono garantire il controllo su oltre 2.100 detenuti. Numeri che parlano da soli e che rendono impossibile un’efficace gestione della sicurezza e del trattamento rieducativo”. L’organizzazione sindacale punta il dito anche contro la soppressione del reparto “sentinelle”, “abolito per l’inagibilità del muro perimetrale, avrebbe rappresentato un deterrente fondamentale contro episodi di evasione e l’introduzione di materiale illecito tramite droni”. A Poggioreale, sottolinea il sindacato, “mancano circa 200 agenti rispetto alla pianta organica prevista. Non è raro che un solo agente debba sorvegliare fino a 100 detenuti”. “La tecnologia può fornire un supporto, ma non potrà mai sostituire la presenza umana, essenziale per prevenire e gestire situazioni critiche. Nonostante tutto, anche il secondo detenuto evaso è stato arrestato, dimostrando l’abnegazione e il coraggio della Polizia Penitenziaria, un Corpo messo in ginocchio da tagli politici del passato e da scelte gestionali disattente. Come sottolineano i dirigenti sindacali CON.SI.PE. Luigi Castaldo e Vincenzo Santoriello: la Procura farà sicuramente chiarezza, ma intanto rimane la domanda cruciale - qual è il prezzo che lo Stato è disposto a pagare per aver ridotto ai minimi termini un Corpo di Polizia essenziale per la sicurezza dei cittadini e dei detenuti?”. Sulla stessa linea anche il deputato di Italia Viva, Roberto Giachetti, che parla senza mezzi termini: “La situazione delle carceri italiane è disastrosa: detenuti stipati, caldo insopportabile, sovraffollamento non da Paese civile, polizia penitenziaria costretta a lavorare in condizioni difficilissime. Da tre anni il governo annuncia il potenziamento degli organici della polizia penitenziaria: parole vuote, non fatti. Ho denunciato di recente la situazione drammatica a Regina Coeli, dove gli agenti sono insufficienti rispetto al fabbisogno. Quanto successo a Poggioreale era praticamente inevitabile e la foto del buco nel muro è una condanna per il governo”. L’esponente renziano rincara la dose chiedendo un passo indietro al sottosegretario alla Giustizia: “È la logica conseguenza della crisi di organico, dei ritardi nelle assunzioni, dell’incapacità del governo. Delmastro si dimetta, subito. La sicurezza nelle carceri non si aggiusta con annunci, ma con responsabilità e personale sul campo”. Dura la denuncia anche dall’Unione Sindacati di Polizia Penitenziaria (USPP). Il presidente Giuseppe Moretti e il segretario regionale Ciro Auricchio commentano così: “È da tempo che denunciamo nel carcere tra i più sovraffollati d’Europa la grave carenza in organico degli agenti di Poggioreale. Purtroppo a seguito dell’ultima mobilità le assegnazioni di qualche nuovo agente si avranno soltanto a fine settembre e non basteranno a colmare il grave deficit pari ad oltre 150 unità”. I due sindacalisti sottolineano anche un altro nodo: “Sempre più numerosi sono i detenuti stranieri presenti, e anche in merito a ciò abbiamo più volte richiesto degli accordi con gli Stati di provenienza perché le misure restrittive siano espletate nei Paesi di origine”. Un coro di voci diverse, tra magistrati, avvocati, sindacati e politica, che converge però su un punto: la situazione del sistema penitenziario italiano è ormai al limite. E ogni nuovo episodio non fa che rivelare, con crudezza, la fragilità di un sistema da troppo tempo lasciato in sofferenza. Donne transgender: nelle carceri niente cure e zero prospettive di Alice Dominese Il Domani, 23 agosto 2025 Le detenute trans versano nelle “condizioni più sfavorevoli in assoluto”, come riporta Antigone. A Ivrea uno dei pochi istituti in Italia. Cosa accade in carcere alle persone transgender? A Ivrea - circa 50 chilometri a nord di Torino - si trova uno dei sei istituti di pena che (su 189) in Italia ospitano una sezione dedicata a persone transessuali. Si tratta di una popolazione detenuta composta in media da sette donne trans, in prevalenza di origine straniera, collocate all’interno del carcere maschile della città. In base alla riforma dell’ordinamento penitenziario introdotta nel 2018, “anche laddove la persona abbia ottenuto la rettificazione degli atti anagrafici, l’unico criterio di assegnazione dell’amministrazione penitenziaria resta quello legato all’apparato genitale”, spiega l’associazione Antigone. “Per questo oggi in Italia, a meno che non sia stato effettuato un intervento di chirurgia di genere, le donne trans sono collocate in istituti maschili e gli uomini trans in istituti femminili”. Le criticità - Come nelle carceri di Rebibbia a Roma, di Como, Reggio Emilia, Napoli Secondigliano e Belluno, che dispongono di un’area in cui le donne transgender vivono separate dal resto dei detenuti, anche nella sezione di Ivrea il sovraffollamento non è mai stato raggiunto. Ma a fronte di 20 posti di capienza “le condizioni generali delle celle sono critiche e non sono garantiti i tre metri quadri calpestabili a persona”, osserva Antigone nel “Primo rapporto sulle donne detenute in Italia” pubblicato due anni fa. Nello spazio a loro riservato, le donne che dichiarano di essere transgender non hanno contatti coi detenuti uomini e quando li hanno - per esempio in occasione di corsi scolastici e laboratori - sono limitati. Accanto ai problemi comuni all’intero sistema carcerario, la popolazione transgender affronta criticità peculiari che, secondo l’analisi di Antigone, rispetto alle gravi condizioni di isolamento in cui si trovano le donne prigioniere, pongono le detenute trans “nelle condizioni più sfavorevoli in assoluto”. “La difficoltà principale è che il carcere è maschile ed è gestito come tale. Nella quotidianità il sopravvitto fornito dall’amministrazione penitenziaria è pensato per gli uomini e questo genera tensioni e proteste da parte delle detenute, che non hanno accesso neppure a una regolare terapia ormonale” dice Silvia De Giorgis, volontaria che opera da due anni e mezzo nel carcere di Ivrea con l’associazione volontari penitenziari Tino Beiletti, impegnata a favorire il reinserimento sociale degli ex carcerati. Niente trattamento - La mancanza di un trattamento ormonale strutturato nel carcere in questione è stato denunciato da Antigone già nel 2023. In assenza di un endocrinologo interno, le visite specialistiche si svolgono presso il Centro Interdipartimentale Disturbi Identità Di Genere di Torino, dove le detenute vengono trasferite per ricevere le consulenze psicologiche e la terapia ormonale previste dalla struttura. Secondo la volontaria però non è questo il percorso di cui le detenute hanno bisogno: “Le detenute vengono gestite come se dovessero iniziare un percorso di affermazione di genere da zero. Ma loro assumono ormoni da anni, non hanno intenzione di affrontare un intervento chirurgico per la riassegnazione di genere né di fare una rettifica anagrafica, anche perché molte non hanno i documenti. Necessitano invece di ricevere una terapia ormonale sotto controllo, con il monitoraggio di un endocrinologo e una somministrazione corretta”. Opportunità mancate - Per contrastare la solitudine, i volontari come Silvia aiutano le detenute a riallacciare i contatti con le famiglie, trovare un avvocato, recuperare gli effetti personali. Le attività a disposizione nell’istituto di pena sono poche, il che complica la permanenza. A rotazione, le detenute possono accedere a lavori di pulizia nel carcere, ma trovare un’occupazione all’esterno è complicato. La maggioranza delle donne transgender sconta pene detentive che vanno da pochi mesi a un paio di anni; il tempo rende difficile l’organizzazione di percorsi formativi e lavorativi fuori dall’istituto. Come molti detenuti, una volta conclusa la detenzione, le donne non hanno riferimenti. L’associazione Tino Beiletti prova a fornire una rete di supporto, ma in molti casi non basta a chi è senza risorse: dal carcere non riceve supporto legale per regolarizzarsi e ha bisogno di soldi per aiutare le famiglie nei paesi d’origine, dove rischierebbe la vita se rimpatriata. “Come ex detenute, trans e clandestine che cercano un lavoro, non hanno chance. L’unico bene che possiedono è il loro corpo: spesso tornano a prostituirsi e poi anche in carcere”, racconta la volontaria. “Così fallisce ogni intento di riabilitazione”. La vita delle persone con disabilità in carcere: cosa sappiamo e cosa manca di Angelo Andrea Vegliante abilitychannel.tv, 23 agosto 2025 E chi ci pensa alle persone con disabilità in carcere? Bella domanda, a cui sembra le istituzioni non sappiano dare una risposta concrete. È quanto emerge da un’analisi collettiva, in cui abbiamo analizzato report, dati e testimonianze. Se in linea generale le persone con disabilità sembrano messe ai margini della società, i detenuti disabili vivono condizioni ancora peggiori. Dopo aver letto il nuovo report dell’Associazione Antigone, “L’emergenza è adesso”, basato su 86 visite effettuate negli ultimi 12 mesi negli istituti penitenziari italiani, ci siamo chiesti quali fossero le condizioni delle persone con disabilità in carcere. Ciò che è venuto fuori è un quadro assolutamente disumano. Innanzitutto, abbiamo contattato l’Associazione Antigone per avere il quadro della situazione, la quale ci ha scritto che il problema principale sta nella mancanza di un censimento completo e aggiornato a livello nazionale dei detenuti con disabilità. Di fatto, non esistono accordi specifici tra il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) e il Sistema Sanitario Nazionali (SSN) sulla raccolta di dati in merito. È importante sollevare questo dato, in quanto un piano che prevede un censimento può aiutare la società a comprendere in che modo i detenuti disabili vengono trattati all’interno delle carceri. “Questa carenza rende difficile comprendere la reale portata del problema, pianificare interventi mirati e verificare il rispetto dei diritti di queste persone”, ci scrive Antigone. In aggiunta, Antigone si è presa la premura di studiare le schede di trasparenza degli istituti penitenziari italiani, con dati all’estate 2025, da cui sono emerse alcune importanti statistiche: a fronte di una presenza al 10 agosto di 62.307 detenuti, questi erano ospitati in 28.881 celle, di cui 427 attrezzate per portatori di handicap. Gli istituti meglio attrezzati sono Cagliari Uta (26 camere), Sassari (22), Catanzaro (22), Messina (21), Bari (17), Parma (16). In 98 istituti (circa la metà del totale) non ci sono celle per portatori di handicap. “Questo comporta che molte persone con disabilità fisica finiscono per essere detenute in celle non adeguate, talmente striminzite ed affollate da essere invivibili per chiunque, ma che per loro diventano una pena aggiuntiva”, conclude l’Associazione. Non è la prima volta che l’Associazione Antigone si interessa così da vicino alle problematiche dei detenuti con disabilità in carcere, in quanto già nel 2017 aveva fatto emergere la difficoltà di avere dati chiari e precisi a livello nazionale. Di fatto, all’epoca veniva riporta un unico grande dato: 628 detenuti con disabilità, un numero ottenuto grazie a una rivelazione unica dell’agosto 2015. Di questi, 345 erano ospitati in sezioni/camere non attrezzate, gli altri 283 invece in zone attrezzate. Com’è la vita in carcere dei detenuti con disabilità? Oltre ai dati, è necessario vedere più da vicino come procede la vita di una persona con disabilità in carcere. E, purtroppo, le condizioni sono pessime - ed è già stato più volte enfatizzato come problema reale. Ad esempio nel 2021 Sandro Libianchi, intervistato nel 2021 a retisolidali.it in qualità di presidente del Coordinamento Nazionale per la Salute nelle Carceri Italiana, spiegò che “Il detenuto disabile è del tutto invisibile, e la sua condizione non gli permette di avere le stesse opportunità del detenuto non disabile: non può fare quasi niente, tra le altre cose non può nemmeno lavorare all’interno né tantomeno avere una retribuzione, e questo è un grosso problema che si traduce con una sofferenza indicibile”. Un anno dopo RollingStone riuscì a parlare addirittura con un detenuto con disabilità, in quel momento in carcere. In base al suo racconto, all’inizio era entrato nella casa circondariale riuscendo a deambulare con l’aiuto delle stampelle. “Facevo anche riabilitazione con una cyclette - si legge nell’intervista -. Ero anche in grado di vestirmi, svestirmi e andare in bagno da solo. Insomma, ero quasi una persona autonoma. Poi sono stato trasferito in un altro istituto penitenziario”. Un cambio di sede che ha compromesso l’autonomia del detenuto. “Nel nuovo carcere non ho potuto fare riabilitazione per tre anni e mezzo. Per un po’ ho continuato a camminare, ma senza i giusti esercizi sono finito in carrozzina. E adesso vivo in mano agli altri”. Cosa dice la legge in Italia sulle persone con disabilità in carcere - E invece cosa dice la normativa italiana in materia? In realtà, c’è poco e niente. Sempre come riportava l’Associazione Antigone qualche anno fa, in seguito alla rivelazione unica di cui vi abbiamo dato conto all’inizio dell’articolo, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha emanato la circolare “La condizione di disabilità motoria all’interno degli istituti penitenziari - Le limitazioni funzionali”, che principalmente parla di barriere architettoniche, formazione e assistenza sanitaria. E infine abbiamo l’articolo 65 dell’ordinamento penitenziario, che al comma 1 stabilisce che “i soggetti affetti da infermità o minorazioni fisiche o psichiche devono essere assegnati ad istituti o sezioni speciali per idoneo trattamento”. Veramente troppo poco, se poi consideriamo che la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità prevede, all’articolo 1, di “Promuovere, proteggere e garantire il pieno ed uguale godimento di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali da parte delle persone con disabilità, e promuovere il rispetto per la loro intrinseca dignità”. Bennardo Bommarito, cieco e sulla sedia a rotelle, che pericolo costituisce per la nostra sicurezza? di Emiliano Silvestri L’Unità, 23 agosto 2025 Ha 89 anni, da 33 è rinchiuso in carcere e ora si trova nella Casa di reclusione di Opera, alle porte di Milano; i compagni di pena lo chiamano “Zio Bennardo”. Da otto anni è assiduo frequentatore dei laboratori di Nessuno Tocchi Caino - luogo di dialogo tra detenuti e “liberi”; spazio di ricerca, individuazione e ricostruzione - per gli uni, non di rado anche per gli altri - della propria identità. Gli esseri umani rinchiusi nelle carceri italiane patiscono trattamenti inumani e degradanti. Questo ha certificato, l’8 gennaio 2013, la sentenza-pilota (pilota perché non si limitava a giudicare la fondatezza delle doglianze dei ricorrenti ma allargava il suo giudizio all’intero sistema penitenziario italiano) della Corte europea dei diritti dell’uomo. Nella Causa “Torreggiani e altri contro Italia”, infatti, la Corte riscontrava che, in particolare a causa del sovraffollamento nei suoi istituti di pena (148% nel 2012), l’Italia violava l’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Per questo ricordava che: “lo Stato è tenuto a organizzare il suo sistema penitenziario in modo tale che la dignità dei detenuti sia rispettata” ed esortava lo Stato italiano: “ad agire in modo da ridurre il numero di persone incarcerate, in particolare attraverso una maggiore applicazione di misure punitive non privative della libertà”. Al 30 maggio 2025 (relazione del Garante Nazionale delle persone private della libertà personale) la situazione pare altrettanto disumana e incivile: sovraffollamento medio al 134%; in 10 penitenziari tra 236,84% e 187,34%. A dispetto della sua inciviltà, il carcere può divenire tempo e spazio di conversione dalla violenza alla nonviolenza, dalla barbarie alla civiltà. È anche per innescare e accompagnare questo percorso che l’associazione concepì i suoi laboratori, oggi sono diventati quattro, nelle sezioni di alta sicurezza. Li chiamò: “Spes contra spem”; un richiamo all’originale interpretazione che del motto paolino faceva Marco Pannella quando esortava tutti, in particolare i carcerati, a “essere” e non ad “avere” speranza. Bennardo Bommarito questo cammino di speranza - quando ogni speranza sembra razionalmente essere preclusa - lo ha intrapreso e per i compagni di pena è divenuto: “uno che non dice mai una parola fuori posto ma che, per tutti, ha sempre una parola di conforto e di pace”. Venerdì 8 agosto è arrivato nella sala del teatro del carcere di Opera in carrozzina, spinto dal suo compagno di cella Antonio D’Alì, ultrasettantenne, che lo accudisce amorevolmente ogni giorno. Perché carità, empatia e fraternità sopravvivono anche in questi luoghi. Chi ha partecipato negli anni ai laboratori di Opera e lo ha visto sempre vitale, allegro, sorridente, ha scoperto con sgomento che “zio” Bennardo all’improvviso è diventato cieco. Non vede più perché dopo trentatré anni, tutto il suo essere rifiuta di continuare a vedere le sbarre, le celle, i corridoi, il cemento che lo contorna e lo sovrasta? Perché ormai non vuole vedere più nulla, nemmeno chi partecipa ai laboratori? Per ché ha vissuto trentatré anni in spazi angusti dove l’occhio non può spaziare ed è ridotto a orizzonti di pochi metri? Questo non lo sappiamo. Quello che sappiamo è che un uomo di quasi novant’anni in carrozzina e cieco rimane segregato in una cella. Si dirà che vi è rinchiuso in forza di una sentenza e di una pena irrogata regolarmente da un Tribunale della Repubblica. Ma il punto sembra non essere questo. Il punto sembra essere: in che Stato viviamo? La nostra Costituzione proclama che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato: quale rieducazione ci aspettiamo possa produrre il mantenere quest’uomo nelle patrie galere? Direttrice del carcere di Opera, Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria e Tribunale di Sorveglianza di Milano sono a conoscenza delle condizioni di Bennardo Bommarito. Agiranno? Quando? Come? Lo Stato - molti dicono - siamo noi. La domanda perciò diventa: in che stato siamo ridotti? Un ottantanovenne cieco e in carrozzina rappresenta un pericolo per la nostra vita? Cosa ci guadagniamo oggi dal suo essere privato delle cure e della libertà? Pensiamo davvero che diventerà un uomo migliore se continuerà a “marcire in galera”? L’ardua sentenza non spetterà ai posteri ma a noi. Oggi. Alle personalità delle istituzioni, della politica. E dell’informazione. Perché la situazione di “zio Bennardo” grida perdono, non vendetta. L’impegno di Maurizio D’Ettore per un carcere più umano e giusto di Luca Muglia Il Dubbio, 23 agosto 2025 A distanza di un anno dalla improvvisa scomparsa del presidente del collegio del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, il calabrese Felice Maurizio D’Ettore, mi preme rivolgere ed esprimere qualche pensiero in ricordo della sua memoria. Avvocato e docente universitario stimato ed apprezzato, negli otto mesi di mandato che hanno preceduto la sua scomparsa D’Ettore ha svolto un ruolo di grande rilievo, impresa non facile e per niente scontata ove si consideri l’encomiabile lavoro svolto negli otto anni precedenti dal suo predecessore. Ma al di là dell’infaticabile impegno istituzionale e delle indiscusse capacità professionali, D’Ettore era anche e soprattutto una persona onesta, ironica e di grande umanità. Di certo - va detto - non era persona che amava stare al centro dei riflettori. Non a caso appena due giorni prima della morte del Garante nazionale, dalle pagine de “Il Dubbio” Errico Novi segnalava opportunamente come sull’emergenza carcere, il dramma dei suicidi e il sovraffollamento D’Ettore avesse in corso da tempo interlocuzioni importanti con il ministro Nordio aventi ad oggetto le misure deflattive da adottare. In altri termini Novi palesava come, a dispetto di certe critiche (a dir poco prevenute), l’allora Garante nazionale stesse lavorando “sotto traccia” all’attuazione di proposte legislative in grado di assicurare al sistema penitenziario italiano l’auspicato “cambio di passo”, quello invocato da alcuni decenni e mai attuato. Il tempo - ahimè - è mancato, in una torrida giornata di agosto Maurizio D’Ettore ci ha lasciati, improvvisamente e prematuramente. Rimane e rimarrà sempre il suo instancabile impegno, rimane e rimarrà sempre il sorriso, l’empatia e la commozione con cui Maurizio accoglieva le persone costrette a vivere la propria esistenza in pochi impercettibili metri. Il resto è cronaca, una cronaca triste ed amara che ci notizia quasi ogni giorno di occasioni mancate “sul carcere e per il carcere”, nonostante i reiterati appelli del Presidente della Repubblica, del Papa e dell’intero mondo penitenziario. L’accumulo delle carriere di Claudio Cerasa Il Foglio, 23 agosto 2025 Gratteri, il frontman dell’Anm, in una campagna mediatica permanente La prima pagina del Dubbio di ieri aveva un titolo e un argomento curioso, e gustoso, per chi sia preoccupato del pessimo meccanismo mediatico che polarizza da decenni il rapporto tra i poteri della politica e quello della magistratura: “L’Anm arruola Gratteri - Sarà lui il frontman per il no alla separazione delle carriere”. Il procuratore di Napoli, figura mediaticamente arcinota fin dai tempi delle indagini, non tutte coronate dal successo, in Calabria, è notoriamente contrario a praticamente ogni virgola della riforma Nordio. Di recente ha detto in un’intervista che per un magistrato dover impiegare “tutto il suo tempo” per “sequestrare tre volte la memoria dello stesso cellulare” è una scocciatura, così come “perdere tempo appresso a meri orpelli procedurali”. Che è come dire che le norme di garanzia sono un intralcio. Ma è soprattutto contrario alla divisione delle carriere. E secondo l’interpretazione del Dubbio, anche se nell’Anm non tutti sono sulle sue posizioni, si ragiona però che in una battaglia che si farà campale contro il governo è “meglio averlo che non averlo”. Non si tratta ovviamente dell’ingaggio a contratto di un testimonia) pubblicitario, ma l’associazione è compatta a ritenere che potrà essere tra i più incisivi oppositori della riforma Nordio. Le opinioni di ognuno, comparsi i magistrati, sono ovviamente lecite e garantite. In un paese “normale”, D’Alema dixit, e negli altri paesi di democrazia liberale, i magistrati fanno però i magistrati. Gratteri, così contrario alla separazione delle carriere, è invece uno specialista dell’accumulo delle carriere: le sue. Non solo magistrato, non solo scrittore e divulgatore festivaliero e televisivo di libri che spesso intrecciano il suo stesso lavoro di magistrato, ma addirittura da settembre protagonista di un programma di La7, “Lezioni di Mafie”. Troppe parti in commedia? Del resto l’Anm, anche con altri magistrati star, da tempo è impegnata in una campagna mediatica permanente. La fanfara mediatica c’è già, ci mancavano solo i frontman. Perché il potere sia senza controllo serve piegare i pm di Entico Bellavia L’Espresso, 23 agosto 2025 È una resa dei conti con i magistrati: la riforma della giustizia non la renderà più efficiente. C’è qualcosa di profondamente evidente nella foga con cui il governo Meloni sta spingendo la cosiddetta riforma della giustizia che non riforma un bel niente. Lascia intatti i problemi che ne intralciano il corso - dai tempi alla macchina, dagli organici all’arretrato, dall’iperproduzione normativa al disastro penitenziario - e, ancora una volta, interviene per segmenti, la separazione delle carriere, inceppando un meccanismo già farraginoso, con il pastrocchio di un doppio Csm per sorteggio e l’Alta corte disciplinare. Facendo impallidire anche i peggiori colpi di mano della Prima Repubblica, si è arrivati a tappe forzate al sì del Senato a fine luglio. Il doppio passaggio in autunno è una pura formalità. La maggioranza dei due terzi, anche con il puntello dei centristi, di Azione e Italia Viva, è improbabile e nel 2026 si andrà a referendum: sarà la più lunga, noiosa e defatigante campagna elettorale che saggerà la tenuta dell’esecutivo con un anno di anticipo rispetto alla fine della legislatura. Ammesso che si arrivi a scadenza naturale, servirà a mascherare il sostanziale vuoto che ne ha contraddistinto lo svolgimento. Sotto i colpi dei provvedimenti che hanno demolito la costosa scenografia della campagna securitaria albanese, lasciando la voragine delle spese, di quelli che hanno smascherato la genuflessione governativa ai criminali libici con il caso Almasri, sull’onda di inchieste imbarazzanti per la distrazione di denaro pubblico dei suoi, la premier, evoca i complotti delle solite toghe rosse. E viaggia non verso una riforma, ma verso il regolamento di conti con una categoria, i magistrati, di cui sembra stimare solo gli accomodanti e proni, che, va detto, non sono pochi. E i morti, come Paolo Borsellino, evocato quasi sempre a sproposito sul tema. La separazione delle carriere è l’ennesimo regalo avvelenato di questo esecutivo alle lobby, un modo neppure troppo elegante per neutralizzare il potere giudiziario quando si mette di traverso agli interessi del palazzo. Non è un caso che Forza Italia abbia dedicato il passaggio a Silvio Berlusconi - il Cavaliere che per decenni ha sognato di addomesticare i magistrati che osavano indagarlo. Nordio contrabbanda questa riforma come una necessaria modernizzazione europea. Ed è l’Europa che piace, quella che però ha sistemi giudiziari frutto di tradizioni costituzionali completamente diverse, che non discendono da riforme imposte per risolvere i problemi giudiziari di chi comanda. La separazione delle carriere è un formidabile espediente per indebolire l’autonomia della magistratura inquirente, renderla docile. Controllare chi controlla. Quando un pubblico ministero avrà un percorso di carriera completamente separato e sottoposto a pressioni politiche diverse, sarà più facile condizionarlo, ricattarlo, annientarlo. Altrimenti non si comprenderebbe l’euforia di una maggioranza che esulta come l’avessero liberata dall’incubo del controllo di legalità. Il caravanserraglio propagandistico dovrà attrezzarsi per ribaltare i sondaggi che non danno affatto per scontato l’esito referendario. Dovrà provare a darla a bere agli italiani, facendo loro credere che d’un colpo, votando sì a pm e giudici separati, vedranno materializzarsi la giustizia giusta. Veloce, efficiente, equa e inesorabile. Con tutti. Perché la sensazione forte è che a separarsi saranno principalmente i destini di chi la invocherà: colletti bianchi e potenti da una parte, scudati, salvati, graziati e protetti. Il resto, dall’altra. Con buona pace dello Stato di diritto. Cervo: “La separazione delle carriere è fumo negli occhi” di Antonella Ferrara e Luisa Cirillo - lamagistratura.it, 23 agosto 2025 Paola Cervo è giudice di sorveglianza a Napoli ed è componente della Giunta esecutiva centrale dell’Anm. A lei chiediamo una valutazione sulla riforma Nordio. Quali sono le maggiori criticità del ddl costituzionale che ha già ottenuto i primi due passaggi in Parlamento? “Il disegno di legge costituzionale non è una riforma ma è un un atto di strabismo istituzionale. Perché non si può parlare di riforma della giustizia senza parlare di giustizia civile. E invece questa riforma non ne parla. Perché non genera risorse. Perché non accelera i tempi dei processi. Perché è un pot pourri. E per accorgersene basta ascoltare le istanze di chi la sta sostenendo. È una riforma nella quale si va a toccare l’architrave di un ordinamento, la Costituzione, senza avere una visione chiara. Gli avvocati dicono che per loro è la soluzione per avere parità di strumenti rispetto al pubblico ministero nella fase delle indagini. I sostenitori del sorteggio, sostengono che è lo strumento per scardinare il correntismo e ridimensionare il Consiglio superiore della magistratura. I sostenitori dell’Alta Corte dicono che è la sola strada per avere una giustizia disciplinare che non sia addomesticata. Tutte queste finalità forzatamente ficcate in un barattolo che forse non le contiene tutte, restituiscono l’immagine di una riforma che in realtà forse vuole altro, cioè vuole regolare i vecchi conti e ridimensionare la magistratura”. Quali sono gli aspetti più preoccupanti? “Quelli che non si esplicitano. Per esempio la sottoposizione del pubblico ministero all’esecutivo, che tutti i sostenitori della riforma negano essere presente tra le sue finalità, è una di quelle che io reputo particolarmente insidiose, appunto perché non è esplicitata e quindi si rischia che i cittadini, che poi sono quelli diciamo ai quali noi stiamo cercando di spiegare le nostre ragioni, non la comprendano con la immediatezza con la quale invece questa impatterà su di loro”. Il governo la definisce, o meglio la presenta, come separazione delle carriere. È giusto definirla così? “Assolutamente no. È uno slogan efficace, ma la portata di questa riforma è molto più ampia. Però questo slogan della separazione delle carriere è quello più insidioso perché è quello che rischia di fare breccia. Se ci soffermiamo con un attimo di attenzione, vediamo che la sua insidia sta nel fatto che questo slogan implica una serie di cose. Si parla di processo giusto, di parità tra accusa e difesa, di terzietà del giudice. Come se queste cose non ci fossero già, come se fossero obiettivi da conseguire. In realtà quello che dovrebbe essere più correttamente rappresentato ai cittadini è che questa è una riforma della magistratura. La separazione delle carriere è solo fumo negli occhi”. “Sulle carriere separate l’Anm non la dice tutta” di Valentina Stella Il Dubbio, 23 agosto 2025 Intervista ad Antonio Di Pietro, per il quale “la separazione delle carriere è la naturale e logica conseguenza della riforma del 1988 e dell’art. 111 Cost. sul giusto processo”. L’annullamento dell’arresto di Manfredi Catella certifica che nessuna delle sei misure cautelari disposte dal gip su richiesta della Procura milanese è stata confermata dal Tribunale del Riesame. Secondo lei, con la separazione delle carriere il presunto appiattimento del gip sull’accusa ci sarebbe stato comunque? Non credo ci sia un appiattimento del gip sul pm dovuto all’unicità delle carriere. Penso che debba esserci la separazione delle carriere in quanto colui che entra nel palazzo di giustizia deve avere la percezione concreta che avrà a che fare con due organi diversi. L’appiattimento c’è stato in passato e ci sarà pure in futuro perché è legato all’indipendenza che ogni giudice ha o meno in cuor suo. Quello che invece vorrei sottolineare rispetto a questa vicenda è un altro aspetto. Prego... A prescindere dal fatto che non condivido la riforma dell’interrogatorio preventivo, sono ancora più contrario al fatto che, con riferimento a specifici reati quali quelli contro la pubblica amministrazione, possano sussistere i requisiti dell’inquinamento probatorio e ancor di più della reiterazione del reato dopo la richiesta di interrogatorio: divenuta pubblica sui giornali, nessuno vorrà più avere a che fare con l’indagato. In questi giorni si torna anche a parlare della presunta incidenza delle misure cautelari sul sovraffollamento. Lei ritiene che esista questo collegamento? Non credo che in nome del sovraffollamento debbano comprimersi le esigenze di misura cautelare. Semmai occorre valutare misure alternative al carcere e aumentare e migliorare gli istituti di pena. Però in attesa del nuovo piano carceri, cosa fare per l’emergenza? Per coloro che hanno una pena definitiva, che non si sono macchiati di reati gravi, che li hanno commessi decenni fa e che sono cambiati nel tempo bisognerebbe lasciare al giudice di sorveglianza la maggiore facoltà di decidere se possano lasciare il carcere. Alcuni commentatori oggi pensando all’inchiesta sui palazzinari milanesi fanno riecheggiare Mani pulite. Come replica a chi sostiene ancora che a quei tempi la custodia cautelare venne usata come ricatto per far parlare gli indagati? Io c’ero e so per certo in cuor mio che la misura cautelare era richiesta solo per evitare l’inquinamento probatorio in quella specifica tipologia di reato, laddove le persone contro cui si procedeva erano componenti di primo livello o di una struttura societaria o di strutture partitiche. Quei soggetti se non fossero stati sottoposti alla misura cautelare avrebbero potuto non solo inquinare le prove ma altresì mettere altri nelle condizioni di non poter essere liberi di riferire ciò che potevano dire. E poi le persone per le quali chiedevo la misura cautelare tornavano in libertà poco dopo, a strettissimo giro, appena l’esigenza veniva a mancare. Dell’iconografia di Mani Pulite forse l’immagine più forte è quella del pool circondato dalla gente sotto la Galleria di Milano. Oggi invece sembra essere calata la fiducia dei cittadini verso la magistratura. Lei che idea ha su questo? Certamente i cittadini hanno meno fiducia di un tempo nella magistratura e sicuramente ciò è dovuto al martellamento continuo che è stato fatto in questi trent’anni da parte di certa politica verso l’opinione pubblica, per cui la colpa non è di chi commette i reati ma di chi li scopre. Ciò premesso occorre avere il coraggio, la responsabilità e l’umiltà di ammettere che a questa diversa valutazione da parte dei cittadini hanno concorso pure alcuni eccessi di zelo o alcune interventi della magistratura non in linea con ciò che prevede la procedura penale. A cosa si riferisce? Diciamo all’attività inquirente di qualche pm che molte volte invece di ricercare il colpevole di un reato ha messo in atto indagini a strascico per vedere se qualcuno avesse commesso un reato. Il pm ha la stessa funzione del becchino, cioè, interviene quanto il fatto è commesso, quando il morto c’è. Purtroppo, al contrario, in questi ultimi decenni, abbiamo assistito a inchieste esplorative a cui poi sono seguite archiviazioni o assoluzioni ma intanto dal punto di vista etico, politico, professionale si è distrutta la vita di qualcuno. L’Anm da mesi sta portando avanti una campagna comunicativa per “spiegare ai cittadini” le ragioni del “no”. A suo parere una magistratura eccessivamente esposta può subire l’effetto boomerang? Credo che questo martellamento nei confronti della libera opinione dei cittadini che devono andare a votare possa condizionarli e questo mi preoccupa. Non ho ancora visto stampato da nessuna parte l’art. 104 della Costituzione così come è adesso e come sarà con la riforma: i cittadini devono capire che la magistratura rimarrà un organo indipendente e autonomo dagli altri poteri seppur diviso in due corpi distinti. Invece l’Anm sta mandando un messaggio volutamente distorto per mortificare il libero convincimento dei cittadini. Vorrei aggiungere una cosa. Mi dica... La separazione delle carriere è la naturale e logica conseguenza della riforma del 1988 e dell’art. 111 Cost. sul giusto processo. Inoltre mi rammarica e mi fa anche incavolare il fatto che ci abbia messo su il cappello Berlusconi alla riforma, tuttavia questo non deve impedire di approvarla. Le maggioranze passano ma la Costituzione resta. Per quanto concerne il sorteggio, si sostiene che non possa essere previsto per un organo di rilevanza costituzionale come il Csm. Lei che pensa? Premesso che non si capisce perché per un organo costituzionale non possa essere previsto il sorteggio, aggiungo che il meccanismo attuale della scelta dei componenti del Csm è parallelo a quello che succede nelle elezioni parlamentari. Si va alla ricerca del consenso politico, per cui sono nate le correnti e c’è uno scambio di favori all’interno del Csm, come riferito da Palamara. Che poi lo ha detto lui perché è stato intercettato ma in giro ci sono ancora centinaia di ‘Palamara’. Concludo in merito dicendo che chi ha vinto un concorso in magistratura ha già una capacità di intendere e di volere e se può giudicare una persona e condannarla anche all’ergastolo credo che possa anche far parte dell’assemblea del Csm. All’interno dell’Anm si è discusso della opportunità o meno che i magistrati prendano parte agli incontri sul tema organizzati dai partiti politici. Dove finisce la libertà di espressione delle toghe e dove inizia la necessità di mostrarsi terzi e imparziali? Le toghe hanno indubbiamente la stessa libertà di espressione del pensiero come tutti gli altri cittadini, salvo che il tema non riguardi fatti specifici di cui debbano occuparsi. Io, per esempio, non ho condiviso il comportamento di quel giudice (Iolanda Apostolico, ndr) che prima va a manifestare su un porto in Sicilia in difesa degli immigrati e poi decide sugli immigrati stessi. Secondo lei sulla questiona Albania, la magistratura vuole riscrivere le politiche migratorie del Governo? La decisione presa dai giudici civili rientra nell’ambito della loro funzione giurisdizionale e come tale va rispettata. Personalmente però non la condivido, ciò non vuol dire che sia una decisione politica. Decreto Sicurezza e prevenzione penale: il diritto è a rischio di Fabrizio Costarella e Cosimo Palumbo* Il Dubbio, 23 agosto 2025 In questi giorni agostani, rarefatti e sospesi, nei quali quella che si chiama “opinione pubblica” è, giustamente, interessata alle varie vicende belliche internazionali e, sul piano interno, alle involuzioni della ennesima inchiesta “... poli” della Procura di Milano, vorremmo idealmente vestire i panni di un moderno Catone Censore. Non per dire, ovviamente, che Cartagine è ancora pericolosa e deve essere cancellata, ma per ricordarvi che le recenti riforme legislative in materia penale sono ispirate dalla logica della prevenzione e sono, dunque, l’anticamera di una assai prossima illiberalità. Ed allora, “ceterum censemus: la prevenzione deve essere rivista ed in qualche modo contenuta”. Ne va della tenuta democratica del nostro ordinamento, come ormai molti studiosi ritengono, dal momento che la logica della prevenzione sta contaminando il sistema penale. L’abbraccio fatale è iniziato quando le misure di prevenzione, specie quelle patrimoniali, sono diventate un succedaneo delle sanzioni penali, secondo una evoluzione giurisprudenziale - dovuta a una legislazione lacunosa e vaga - che le ha portate a essere, da provvedimenti “di bando” com’erano stati concepiti, mezzi di contrasto alla criminalità da profitto. Questa evoluzione, tanto utile al “sistema”, in quanto ha portato alla deformalizzazione pressoché totale dei criteri di applicazione di provvedimenti personali e patrimoniali particolarmente afflittivi, è stata facilitata, secondo la più classica eterogenesi dei fini, da quei provvedimenti di legittimità, costituzionali e convenzionali che sembravano destinati, invece, a segnarne la fine. Ogni volta che ne è stata denunciata la non conformità agli statuti minimi del giusto processo (sul piano processuale) e del diritto penale liberale (sul piano sostanziale), la prevenzione è riuscita a sopravvivere, mutando leggermente e costantemente forma, con un formale e superficiale ossequio ai principi costituzionali più basilari in tema di limitazione dei diritti di libertà personale, iniziativa economica, proprietà privata. Nella sua capacità di mimesi, nella sua attitudine ad addolcire i suoi veri caratteri, imbellettandosi secondo le sembianze del “diritto dei galantuomini”, come il professor Vincenzo Maiello ha icasticamente definito il diritto penale, comparandolo con la prevenzione, quest’ultima ha trovato nuova e prospera vita. Accennando il proprio percorso di nobilitazione, ha nascosto agli occhi di molti la sua vera natura “saprofitica”, secondo l’espressione evocativa del professor Vittorio Manes: si è abbarbicata al sistema penale solo per fini di autoconservazione, finendo con l’avvelenarlo, più che con l’esserne emendata. Così, il sistema ha partorito una inquietante ibridazione. Da un lato, le misure di prevenzione hanno assunto una dimensione afflittiva in tutto simile alle pene (si pensi, su tutto alla confisca o alle particolari modalità di esecuzione della sorveglianza speciale da “Codice rosso”), varando una sorta di “diritto di prevenzione punitivo”, nel quale alla gravità della sanzione si accompagna la labilità dei presupposti per la sua applicazione. Dall’altro, il Decreto Sicurezza ha inaugurato il “diritto penale preventivo”, nel quale si applicano pene in assenza di lesioni concrete al bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice, ovvero si abbassa di molto la soglia di intervento penale, che ormai dipende dalla offesa alla sicurezza. E, quindi, da qualcosa che sia idonea a costituire un pericolo. Questo è il salto decisivo che ormai sovrappone pene e misure di prevenzione, già sostanzialmente identiche quanto a gravità della compromissione dei diritti di libertà individuali, anche in relazione ai presupposti applicativi. Con il Decreto Sicurezza, la pericolosità è perimetro anche della sanzione penale, che diventa così tendenzialmente onnivora. Cadono, così, le “colonne d’Ercole” del Diritto Penale: offensività necessaria, frammentarietà, extrema ratio, oltre a quasi tutti i corollari del principio di legalità (tipizzazione delle fattispecie, prevedibilità della reazione ordinamentale). Nel frattempo, la prevenzione - la vicenda Loro-Piana ne è l’ultimo emblematico esempio - smantella i costituti della responsabilità colposa omissiva, rarefacendone, se non smaterializzandone del tutto i presupposti e aprendo, così, la strada ad un nuovo terreno di contaminazione tra ambiti ordinamentali, agevolata in questo percorso, oltre che dalle iniziative giudiziarie che di fatto impongono alle imprese la “prevenzione collaborativa” come unico strumento per evitare la amministrazione giudiziaria, dallo stesso legislatore che, introducendo l’art. 94 bis nel codice della prevenzione, sotto le mentite spoglie della “prevenzione mite” dimostra di voler consolidare il sistema, rendendo “appetibili” misure preventive di controllo estranee alla giurisdizione. Nel suo fatale abbraccio, la prevenzione, nelle sue varie, nuove, originali declinazioni, sta soffocando il diritto penale. E il Decreto Sicurezza, per una sorta di beffardo contrappasso, è un segnale di insicurezza per la democrazia. *Osservatorio Misure patrimoniali e di prevenzione dell’UCPI Lazio. Permessi premio: in ritardo e con il contagocce di Gianni Alemanno e Fabio Falbo Il Dubbio, 23 agosto 2025 Non è stato lo stesso Ferragosto per le persone detenute permessanti, cioè quelle che hanno maturato i requisiti per ottenere i permessi premio dai magistrati di Sorveglianza. Alcune di questi permessanti hanno ricevuto l’autorizzazione all’uscita dopo due mesi dalla richiesta e quindi senza il rispetto delle date che erano state indicate. Ad altri è andata peggio: sono rimaste nella loro ‘ bella cella’ del carcere sovraffollato di Rebibbia, senza ottenere nessuna risposta, con grave nocumento per sé stessi e per i propri familiari. Noi ci ricordiamo ancora le parole del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella inviate, in occasione del convegno per il cinquantesimo dell’Ordinamento penitenziario, con un messaggio alla giudice Monica Amirante, coordinatrice nazionale dei magistrati di Sorveglianza: “La dignità umana non conosce zone franche di esclusione. È questa la premessa che offre ai detenuti, attraverso percorsi lungimiranti, il recupero e l’accesso ai valori della socialità e della legalità”. Ci chiediamo se la stessa coordinatrice è a conoscenza di come alcuni magistrati di Sorveglianza operano, e della parsimonia per la quale vengono concessi i benefici penitenziari da parte del Tribunale di sorveglianza di Roma. È giusto far conoscere questo dato, visto che con meno popolazione detenuta e con meno magistrati di Sorveglianza, lo stesso Tribunale nel periodo di Ferragosto 2024 ha concesso il permesso premio a circa 60 persone del Carcere di Rebibbia N. C., mentre quest’anno sono uscite circa 10 persone detenute. Questi dati sono a conoscenza dei nostri Garanti dei diritti dei detenuti, che non dicono niente in merito, forse perché anche loro sono in ferie. Ebbene, nel Reparto G8 ci sono diverse persone detenute ‘permessanti’ che stanno subendo una regressione del trattamento penitenziario senza A un giustificato motivo. Fino a qualche tempo fa ottenevano i permessi nei giorni effettivamente richiesti, con delle ore continuative di libertà e molto spesso venivano avvisati con largo anticipo, in modo da poter programmare al meglio i 45 giorni di intervallo tra un permesso e l’altro. Adesso molti di loro hanno perso queste possibilità. Sempre all’evento in questione il Capo dello Stato ricordava che la vita penitenziaria deve assicurare sempre “il pieno rispetto dei diritti dei detenuti. in particolare di quelli più vulnerabili, nell’adempimento dei principi della Costituzione, ispirandosi al senso di umanità che essa prescrive”. Ci chiediamo che umanità può esserci se le persone che hanno diritto al permesso premio rimangono in carcere senza motivo? Vi avevamo accennato in un precedente articolo che nel 2024 nel Lazio sono stati concessi solo 1.138 permessi premio su 6.665 persone detenute (senza conteggiare le 749 persone al 41 bis o. p. in carico allo stesso Tribunale), con un rapporto di 0,17 permessi per persona detenuta, il più basso d’Italia. In Lombardia, nello stesso anno, sono stati invece concessi 14.840 permessi su 8.840 persone detenute, con un rapporto di 1,68, una percentuale enormemente più alta rispetto al Lazio. Non sappiamo se anche la Coordinatrice nazionale Amirante, oltre ovviamente al ministro Nordio, hanno qualcosa da dire in merito, visto che vi è una palese violazione dell’art. 3 della Costituzione dato che il destino di una persona sembra dipendere dalla regione in cui è detenuta. Ma vi è da dire un’altra cosa sul modus operandi usato dal Tribunale di sorveglianza di Roma, che obbliga la persona ‘permessante’ a rispettare un intervallo di 45 giorni tra il rientro da un permesso premio e una nuova concessione. Sappiamo che non vi è una norma che disciplina tutto ciò, visto che la Lombardia non impone nessun intervallo di 45 giorni, e questo deve far riflettere su come viene amministrata una concessione di permesso premio in Lombardia e nel Lazio. Inoltre nel Lazio è accaduto che, nei provvedimenti di concessione, il Magistrato indica il rientro nell’istituto di pena in anticipo rispetto ai giorni concessi e conteggiati. Capita spesso che le ore libere non siano continuative e che l’uscita sia solo in presenza di un prossimo congiunto, così se questo congiunto lavora o è occupato, il ‘permessante’ non ha la possibilità di fruire delle ore libere. Se poi il permesso non viene concesso nei giorni richiesti, i disagi dei familiari si moltiplicano, poiché in molti casi hanno chiesto ferie al proprio datore di lavoro, o hanno programmato delle ospitalità in date stabilite. Ancora, il Capo dello Stato auspicava che l’anniversario era l’occasione per compiere: “un bilancio e riflettere sul nostro sistema detentivo in un contesto particolarmente critico”. Non sappiamo se questa riflessione è stata fatta da chi vigila negli istituti di pena ed è consapevole del contesto particolarmente critico del sistema carcerario, che allo stato attuale è al collasso. Ci si dimentica che una palese regressione nel trattamento deve essere motivata da comportamenti negativi della persona detenuta, come la violazione delle prescrizioni, la commissione di nuovi reati o altri elementi che dimostrino un venir meno del percorso rieducativo. Non è ammissibile una retrocessione immotivata nel percorso trattamentale, perché ogni passo nel trattamento deve essere orientato verso il reinserimento sociale della persona detenuta. Vogliamo ricordare che ogni magistrato di Sorveglianza è tenuto a motivare in tempi adeguati ogni provvedimento, specialmente se questo incide negativamente sui diritti della persona detenuta. Lo stesso provvedimento che può essere impugnato, anche denunciando l’omissione in atti d’ufficio. Ci si augura che anche gli educatori possano intervenire, facendo capire ai magistrati che una risposta in ritardo, o in alcuni casi mancata, è lesiva del percorso rieducativo e contraria al principio di progressività del trattamento sancito dall’Ordinamento Penitenziario. Chiudiamo citando ancora le parole del Capo dello Stato: “La pena si ispiri al senso di umanità prescritto dalla Costituzione”. Questo richiamo costituzionale non può non ispirare ogni scelta che incide sulla vita delle persone detenute. Brescia. “Qui nel carcere non è vita: vorremo chiudere gli occhi per sempre” di Walter Monaco L’Unità, 23 agosto 2025 La drammatica lettera inviata al ministro Nordio da Walter Monaco, detenuto al Canton Mombello. “Sovraffollamento e suicidi sono legati. Ha preso carta e penna, esasperato, e ha scritto una vibrante lettera al ministro Nordio, pubblicata dal Giornale di Brescia. Ecco che cosa ha scritto al Guardasigilli Walter Monaco, un detenuto del carcere di Canton Mombello di Brescia, che è tra i più sovraffollati d’Italia. “Caro ministro Nordio, sono Walter Monaco, uno dei tanti detenuti in misura alternativa, oggi sono “quasi libero” ma come ogni anno rivedo nei miei occhi quei colori degli alberi sottostanti al carcere di Brescia Nerio Fischione. Caro ministro Nordio, se è vero che il sovraffollamento non ha nulla a che vedere con i continui suicidi nelle carceri, desidero illustrarle questa prospettiva. Mi trovavo nel rumore più assoluto, in mezzo ad urla di disperazione, in mezzo ad altri detenuti che compivano gesti autolesionistici davanti all’infermeria di Canton Mombello per farsi dare psicofarmaci per poter non pensare più a nulla. Il carcere di Brescia è un ambiente strano, un’isola in centro città, fuori si ode il rumore delle auto, del traffico cittadino e dentro ci si sente soli, come noi detenuti di Brescia ci sentiamo ogni anno in questo periodo. Ci troviamo ad essere in mezzo ad un sacco di gente ma dentro siamo soli, siamo vuoti. Sa ministro Nordio questo, come il Natale, è il peggiore periodo dell’anno. Tutto è fermo, non vediamo gli educatori, non vediamo nessuna prospettiva futura, il personale è in ferie, il caldo rovente nelle celle si trasforma in una trappola: troppo caldo per poterci muovere e scendere all’aria, troppo caldo per poter dormire, troppo stanchi per stare svegli. In questo periodo dell’anno caro ministro Nordio, parecchi di noi desiderano uscire da questa trappola e forse l’unica maniera è quella di chiudere gli occhi per l’ultima volta. Ringrazio Brescia e i bresciani per aiutarci ad andare avanti anche se difficile. Caro ministro Nordio il caldo, la polvere di Canton Mombello, le urla dei detenuti tossicodipendenti che desiderano solo chiudere gli occhi, non ce la facciamo più. Un Paese democratico concede l’indulto anche solo come atto di clemenza. Oggi Canton Mombello si riqualifica come uno dei penitenziari più affollati d’Italia. Ogni anno si odono voci, ogni anno si ascoltano promesse, ogni anno ci illudono che le cose per noi presto cambieranno, realmente l’unica soluzione possibile è chiudere gli occhi per dormire e forse per non riaprirli più. Caro ministro Nordio buona fine estate, con affetto uno dei tanti”. Asti. Ferragosto dietro le sbarre: visita al carcere tra luci e ombre di Betty Martinelli lavocediasti.it, 23 agosto 2025 L’ispezione del radicale Daniele Robotti dell’associazione Marco Pannella, conferma alcuni progressi nella struttura, ma restano criticità su isolamento, sovraffollamento e servizi essenziali. La tradizionale visita di Ferragosto, compiuta da Daniele Robotti dell’associazione Marco Pannella di Torino, ha riacceso i riflettori sulle condizioni del carcere di Asti. L’ispezione, avvenuta ieri ed effettuata come ogni anno nelle festività simboliche per osservare migliorie e criticità, ha evidenziato una situazione fatta di passi avanti e persistenti problemi strutturali, gestionali e sociali. Gli aspetti positivi: ristrutturazioni e servizi sanitari - Tra i miglioramenti più significativi, Robotti sottolinea i lavori di ammodernamento delle strutture: “Sono state completamente ristrutturate le sale colloqui, e messi condizionatori all’interno, per cui adesso è meglio rispetto allo scorso anno”. Anche l’area dedicata ai bambini, figli di detenuti, ha beneficiato di interventi: “Hanno rifatto tutta l’area bimbi, però non c’è una copertura per il caldo, quindi d’estate con queste temperature è impossibile starci... Il comandante mi ha riferito che la situazione sarà presto risolta”. Le celle hanno visto sostanziali miglioramenti: “Sono state rifatte tutte le finestre delle celle, per cui adesso c’è più aria all’interno della cella con le finestre nuove”. Robotti riferisce inoltre che, “tutta la parte muraria è stata completamente ristrutturata, è tutto è in ordine”, anche se avverte che “visto che il carcere è vecchio, andrebbe fatta una ristrutturazione generale. Si ripresenteranno problemi di infiltrazione d’acqua con un nuovo deterioramento delle pareti delle celle”. Un fiore all’occhiello del carcere astigiano, secondo il radicale, rimane l’assistenza sanitaria: “A differenza degli altri carceri, la cosa buona davvero di Asti è l’assistenza medica nel senso che c’è sempre un medico 24 ore su 24 e una volta alla settimana vengono effettuate diverse visite specialistiche”. Le criticità persistenti: isolamento e sovraffollamento - Nonostante i progressi, permangono problemi strutturali significativi. Il primo riguarda la posizione della struttura: “Quello che è emerso è sempre questa sensazione di isolamento totale del carcere di Asti, per la posizione in cui è situato, per cui i parenti hanno difficoltà a raggiungerlo se non con il taxi”. Un problema correlato riguarda l’accoglienza dei familiari: “Un’altra cosa, sempre riguardo i rapporti con i parenti, è la mancanza di un’area attrezzata, di accoglienza all’esterno del carcere, per il tempo in cui il parente o il familiare deve attendere l’ingresso in struttura”. Il sovraffollamento, seppur meno grave rispetto ad altri istituti, resta una realtà: “Rispetto ad altre carceri piemontesi, Asti sembra abbastanza tranquillo. Torino è quello più critico, perché lì c’è un sovraffollamento importante, anche ad Asti c’è sovraffollamento, ma non ha ancora raggiunto dei numeri gravi. Nelle sezioni sono quasi tutti in due posti letto per cella, mentre il carcere era stato progettato per un posto letto”. Carenze di personale e proteste alimentari - La cronica mancanza di personale continua a pesare sulla gestione quotidiana: “Gli organici della polizia penitenziaria sono sempre sottodimensionati, per cui anche lì c’è il sistema di straordinaria gestione, essendo meno di quelli che servono”. Una delle criticità più attuali riguarda il servizio mensa, oggetto di proteste da parte dei detenuti: “Stanno iniziando lo “ sciopero del carrello”, che non è uno sciopero della fame, ma i detenuti rimandano indietro il carrello del pranzo per sollecitare un ammodernamento della cucina, quindi nuovi macchinari, pentole nuove e una maggiore funzionalità”. Tra le mancanze strutturali, Robotti evidenzia anche problemi apparentemente minori ma significativi per la qualità della vita:” Al terzo piano hanno i ventilatori, questo è un po’ comune dappertutto e sarà difficilmente risolvibile perché bisognerebbe ristrutturare tutto. L’acqua calda nelle docce fortunatamente c’è “. I commenti del garante Domenico Massano - A fine luglio, il neo garante aveva effettuato una visita nel carcere di Asti (ricordiamo, di massima sicurezza) , in occasione della mobilitazione della conferenza nazionale dei Garanti per dare un seguito alle parole del Presidente Mattarella che aveva denunciato la drammatica situazione del sistema carcerario, “contrassegnato da una grave condizione di sovraffollamento nonché dalle condizioni strutturali inadeguate di molti Istituti”, difficoltà amplificate dalle carenze di organico della polizia penitenziaria, del personale educativo ed amministrativo. Il Presidente aveva sottolineato la necessità di investimenti, in modo da garantire un livello dignitoso di vita e di trattamento dei “detenuti e, al contempo, migliori condizioni del lavoro per il personale”. ??????? Ribadisce Massano: “Tutte le istituzioni e i corpi sociali si sentano non estranei al mondo penitenziario ma si sentano chiamati a dare collaborazione. Al momento della mia visita erano presenti 237 detenuti, 32 in più rispetto alla capienza regolamentare che è di 205 posti (dato del Ministero della Giustizia)”. E rimarca anche le carenze di personale:” Erano 138 gli effettivi (tra agenti, ispettori) a fronte dei 167 previsti, segnalando una carenza di organico che riguarda anche le aree amministrativa ed educativa (4 Educatrici a fronte delle 7 previste)”. “La situazione di sovraffollamento, continua, combinata alle carenze di personale, nonostante l’impegno dello stesso, rischia di determinare una situazione di affanno dell’intera struttura, ripercuotendosi su diversi ambiti, come sulla possibilità di sviluppare al meglio le attività trattamentali e di utilizzare i diversi spazi”. È conclude: “Sul piano lavorativo, nonostante la necessità di percorsi occupazionali, sono pochissime le persone detenute che hanno un contratto con un datore di lavoro esterno, nonostante l’importante impegno delle cooperative e realtà attualmente operanti. Chi ha l’opportunità di lavorare, lo fa per lo più a turnazione e per lavori interni alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria. Incrementare questo aspetto richiederebbe una maggior partecipazione anche della comunità esterna e del mondo imprenditoriale”. Bologna. Fare impresa si può… anche in carcere. di Laura Branca italiaeconomy.it, 23 agosto 2025 FiD compie dieci anni. L’impresa nata e cresciuta all’interno del carcere bolognese, che comunemente è chiamato “la Dozza”, Fid sta per “Fare Impresa alla Dozza”, fa un bilancio della sua attività e fornisce i risultati che sono stati concreti e tangibili. Fare Impresa può vantare di aver dato lavoro a cinquanta detenuti che, grazie ad un percorso formativo e ad un lavoro regolarmente retribuito, hanno avuto l’opportunità di integrarsi nella comunità locale. Ma c’è di più perché una volta scontato il periodo di reclusione gli ex detenuti hanno continuato a “rigar dritti”. Infatti si è registrato un indice di rientro in carcere intorno al 12%, contro il 68% della media nazionale. Fid: impresa a tutti gli effetti - L’impresa oggi conta 35 dipendenti, tutti detenuti, che si occupano di meccanica. Il progetto è stato ideato da tre colossi del settore della meccanica e del packaging: Marchesini Group, Gd e Ima, a cui si è aggiunto, in un secondo momento, anche Faac. Un’idea imprenditoriale innovativa e certo complessa da avviare perché ha dovuto confrontarsi non poche difficoltà e non pochi pregiudizi, ma a distanza di anni dall’avvio i risultati arrivano. Maurizio Marchesini di Marchesini Group, oltre che presidente di Fdi, ha spiegato durante l’incontro pubblico che si è svolto nell’aula bunker della Dozza: “Scegliamo chi ha una pena detentiva lunga così potrà avere uno sbocco lavorativo in regime di semilibertà. Fdi è una azienda a tutti gli effetti che tenta di chiudere il suo bilancio in attivo”. I tutor che seguono gli operai/carcerati sono a loro volta operai in pensione e anche questa soluzione si è rivelata strategica. Il progetto ha creato sinergia tra diversi soggetti: le aziende sopra menzionate, ma anche la Fondazione Aldini Valeriani, oltre che allo stesso carcere. Al convegno erano presenti anche la direttrice del carcere Rosa Alba Casella, Alvise Sbraccia professore associato di Scienze Giuridiche dell’università di Bologna, padre Giovanni Mengoli, presidente del gruppo Ceis, Mauro Palma, garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, ed Emma Petitti, presidente dell’Assemblea Legislativa della Regione, la quale ha dichiarato in apertura del suo intervento. “Il lavoro, anche in carcere, è un diritto, ed è un segno di civiltà. È la stessa Costituzione, nell’articolo 27, a ricordarcelo quando afferma che ‘le pene devono tendere alla rieducazione del condannato’. Un trattamento pedagogico-risocializzante con obiettivi chiari. Per ripartire, per ricostruire”. Asti. Dal carcere alla mensa sociale: la solidarietà circolare passa attraverso gli ortolani di Paolo Viarengo La Stampa, 23 agosto 2025 I titolari degli orti comunali hanno regalato alla mensa le verdure prodotte grazie alle piantine di pomodoro donate dai detenuti. Verdure fresche a chilometro zero alla mensa sociale. Gli “ortolani” degli orti messi a disposizione dal Comune ai cittadini over 60 nei giorni scorsi hanno portato alcune cassette colme di ortaggi nella sede di via Genova. Frutta e verdura figlie di un’iniziativa di solidarietà “circolare” che si ripete da qualche anno sotto la supervisione dell’assessorato alle Politiche sociali e istruzione. I “piantini” di pomodoro che hanno dato adesso i loro frutti erano cresciuti nella casa di reclusione di Quarto. Alcune migliaia, prodotte dai detenuti, erano state donate dai “ortolani” astigiani che, a loro volta, hanno contraccambiato adesso alla mensa sociale. “Nel ringraziare tutte le persone che si sono attivate per questo progetto colgo l’occasione per evidenziare come lo spirito di iniziativa e di collaborazione a sostegno di una circolarità virtuosa possano avere ricadute positive ed importanti per tutta la comunità” ha commentato il sindaco Maurizio Rasero. “Nella colonia penale”, il carcere agricolo diventa cinema di Alessia de Antoniis globalist.it, 23 agosto 2025 Premiato a Locarno78 il documentario di Crivaro, Perra, Goia e Diana che racconta la vita quotidiana delle colonie penali in Sardegna Locarno78, “Nella colonia penale” premiato alla Semaine de la Critique - intervista di Alessia de Antoniis. Premiato al Locarno Film Festival con il Marco Zucchi Award, Nella colonia penale è il documentario corale diretto da Gaetano Crivaro, Silvia Perra, Ferruccio Goia e Alberto Diana, presentato nella sezione Semaine de la Critique. La giuria lo ha definito “il documentario più innovativo in termini di immagine e linguaggio cinematografico”, capace di intrecciare con uno sguardo poetico e spiazzante la vita quotidiana di detenuti, guardiani e animali nelle colonie penali della Sardegna. Girato a Isili, Mamone, Is Arenas e all’Asinara, il film racconta uno dei dispositivi più longevi e controversi della giustizia italiana: le colonie penali agricole, retaggio dell’imperialismo europeo, luoghi in cui la pena si sconta lavorando la terra e allevando animali. Qui i detenuti, in gran parte migranti extra-europei, vivono un tempo sospeso, scandito dal lavoro all’aperto ma segnato da regole che riproducono le stesse logiche di controllo dei penitenziari ordinari. Questi istituti, introdotti formalmente dal Codice Rocco nel 1930 e ancora presenti nell’ordinamento penale, hanno avuto in passato un ruolo anche politico: durante il fascismo vi furono deportati dissidenti, omosessuali, antifascisti e renitenti alla leva. Alcuni internati sperimentavano l’”ergastolo bianco”, una detenzione potenzialmente senza termine. Il film riflette su un “dispositivo” che resiste immutato, e interroga lo spettatore: fino a che punto le colonie penali sono retaggio del passato e quanto, invece, specchio del nostro presente? Le colonie penali in Sardegna hanno una storia lunga. Qual è la loro origine e che cosa rappresentano oggi? Gaetano Crivaro: Le colonie penali sarde esistono da molto prima del Codice Rocco. Il Codice del 1930 le ha formalmente integrate nell’ordinamento penitenziario, ma le prime nascono già nel 1875. Erano luoghi di quarantena e di detenzione, sulla scia dei modelli coloniali inglesi o francesi. Sono dunque un retaggio di un passato violento e controverso, che però è sopravvissuto fino alla Repubblica e che oggi viene presentato come spazio di rieducazione attraverso il lavoro. Qual è la condizione concreta dei detenuti nelle colonie? Alberto Diana: La particolarità è la sovrapposizione fra il detenuto e il lavoratore salariato. I reclusi, spesso a fine pena o con pene lievi, hanno orari, ricevono una paga, vanno al lavoro nei campi o nelle stalle, ma la sera tornano in cella. È una contraddizione evidente: da un lato c’è un regime meno repressivo del carcere “classico”, dall’altro resta comunque un sistema di sorveglianza e controllo. Le riprese hanno avuto limiti o vincoli particolari? Crivaro: Sì. La produzione aveva ottenuto le autorizzazioni ministeriali, ma una volta dentro ci siamo scontrati con la complessità gerarchica delle strutture. In alcuni casi c’era apertura, in altri molta chiusura. Non siamo mai entrati nelle celle: abbiamo filmato sempre attraverso barriere, tende, muri, sottolineando che il nostro sguardo non poteva essere totalmente interno. E abbiamo scelto di non indugiare sui ritratti individuali, per rispetto verso persone a fine pena che magari volevano dimenticare quella parentesi. Avete avuto la sensazione che vi venisse mostrata una “vetrina”, un carcere presentabile? Diana: Sì, inevitabilmente. È normale che un’istituzione tenda a mostrare gli aspetti più controllati e non quelli più critici. Le strutture sono ferme a decenni fa e necessiterebbero di ristrutturazioni profonde. Però a noi interessavano più le dinamiche umane e lavorative che non le rovine architettoniche. Avete già mostrato il film all’interno delle colonie? Quali reazioni ci sono state? Crivaro: Abbiamo fatto proiezioni a Isili e a Is Arenas. Erano presenti detenuti, agenti, operatori e direttori. È stato un momento importante perché la sala cinematografica crea uno spazio democratico: per un’ora e mezza l’esperienza è uguale per tutti. Alcuni detenuti si sono riconosciuti nel racconto e hanno detto che la colonia è una forma di detenzione meno dura del carcere ordinario. Non volevamo esaltare il modello, ma restituire il nostro punto di vista. Non temete che il film venga strumentalizzato, magari come elogio delle colonie penali? Diana: È un rischio che abbiamo considerato. Qualcuno potrebbe leggerlo come alternativa “mite”, ma sarebbe un travisamento. Nel film e nelle note di regia è chiaro che non c’è nessuna volontà di esaltare questo sistema. Certo, qualcuno ha fatto battute tipo “quasi quasi qui si sta bene, all’aria aperta”, ma resta sempre un sistema detentivo. In che modo avete gestito il lavoro collettivo, essendo quattro registi? Crivaro: Ciascuno ha girato in una colonia diversa, da gennaio 2022 a gennaio 2023. Condividevamo tutto il materiale: chi arrivava dopo poteva vedere le riprese dei colleghi. In montaggio abbiamo fatto scelte collettive, rinunciando a inquadrature ripetitive. La fotografia di Federica Ortu, presente in tutti gli episodi, ha garantito uniformità tecnica e stilistica. Qual è la “violenza invisibile” nelle colonie? Diana: Le colonie sembrano spazi aperti, quasi agricoli. Ma sono disseminati di muri invisibili. Penso a una scena banale: un detenuto bussa a una porta e non succede nulla. Poi arriva un agente, bussa con la chiave e il rumore metallico fa capire chi detiene il potere. Sono dettagli che rivelano la gerarchia costante e la disparità di voce. Cos’è, oggi, un docufilm come ‘Nella colonia penale’? Crivaro: un invito allo spettatore a immaginarsi in uno spazio dove lavoro e detenzione coincidono. Per noi è stata un’epifania, ci auguriamo che possa esserlo anche per chi guarda. Il carcere è sempre specchio della società: raccontare le colonie significa interrogare anche la nostra condizione di cittadini “fuori”. Nello sgombero del Leoncavallo c’è lo scontro tra politica e “legalità” di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 23 agosto 2025 Il Governo esulta e l’opposizione sa solo replicare: “E allora Casapound?” Ma l’ordine pubblico fa solo da sfondo all’egemonia trionfate della destra. Lo sgombero del centro sociale Leoncavallo sarebbe dovuto avvenire il 9 settembre come stabilito dal tribunale, ma i reparti della celere si sono presentati con tre settimane d’anticipo, mentre la metà dei milanesi era ancora in vacanza e la città avvolta da una sonnolenta aria da fine estate. Del blitz il sindaco piddino Giuseppe Sala non era stato minimamente informato, uno sgarbo istituzionale per un’operazione interamente condotta dal ministro Piantedosi: “Oggi è stata ristabilita la legalità”. Anche Matteo Salvini esulta a modo suo: “Finalmente si cambia, la legge è uguale per tutti”. La chiusura dello storico spazio di via Watteau è diventata così l’ennesima dimostrazione di forza della destra di governo che ha voluto colpire uno dei storici simboli della sinistra antagonista; fra poche settimane il Leoncavallo avrebbe celebrato i cinquant’anni di occupazione. La legalità e l’ordine pubblico però sono solo il contorno, lo sfondo e il pretesto di una vicenda che ha un cuore tutto politico. Eppure l’opposizione si muove dentro lo schema disegnato dai suoi avversari con la più attesa e pavloviana delle repliche: perché il governo non sgombera anche Casapound, lo spazio nel centro di Roma occupato da anni dai giovani di estrema destra? Lo ha preteso l’onnipresente Anpi, lo hanno tuonato diversi esponenti del Partito democratico, dei Cinque stelle, di Avs. Un coro unanime di personaggi che parlano come zelanti ufficiali giudiziari. Persino i leader di Casapound, dimenticando le suggestioni ribelli e “non conformi” si sono allineati a questa retorica da geometri del comune scrivendo in un comunicato in cui spiegano che la loro sede “è un immobile del demanio dello Stato sottratto al degrado e alla speculazione”, mentre il Leoncavallo “occupava uno spazio privato”. Che si tratti di un’operazione squisitamente politica lo dimostrano le parole della premier Giorgia Meloni che, tra un vertice internazionale sulla guerra in Ucraina e un altro sulla crisi in Medio Oriente, ha trovato il tempo di commentare la vicenda in prima persona: “In Italia non esistono zone franche”. La determinazione con cui il governo ha messo in scena lo sgombero - anticipando i tempi, rivendicandolo in conferenza stampa, costruendolo come evento mediatico - mostra quanto conti la dimensione simbolica nella battaglia politica. Nessun governo in mezzo secolo era riuscito, pur minacciandolo, a smantellare in modo definitivo il centro sociale milanese, questione di equilibri politici e di egemonia culturale. L’ampio consenso di Meloni e soci e la debolezza della sinistra hanno fatto saltare quegli equilibri e, come accade in forme molto più brutali negli Stati Uniti di Trump, la mancanza di una vera opposizione permette agli esecutivi di esercitarsi in continue esibizioni di potenza. C’è anche da dire che da tempo i centri sociali sono diventati un bersaglio a bassa resistenza: poco radicamento sul territorio, capacità di mobilitazione ridotta, consenso esterno limitato, nessun movimento reale a cui agganciarsi. Obiettivi perfetti, insomma, per prove di forza a costi politici quasi nulli. Negli anni novanta e nei primi duemila i centri sociali facevano parte di una rete globale di movimenti: dalle mobilitazioni contro la globalizzazione neoliberale a Seattle, Genova, Porto Alegre, fino al legame ideale con lo zapatismo in Chiapas, ed erano punti di riferimento per migliaia di giovani di sinistra. Il Leoncavallo, come altri spazi analoghi in Italia, riusciva a calamitare e organizzare generazioni di studenti, precari, militanti che vi trovavano un luogo di condivisione e di sperimentazione politica. Non era solo “l’impegno” a muovere: c’erano la musica, i concerti, le cucine popolari, i mercati alternativi, il mutualismo, ne sa qualcosa Matteo Salvini che ammise di aver (persino lui) il “Leonka”, ma solo per bere qualche birra e corteggiare le ragazze. In quella cornice il Leoncavallo era un laboratorio vitale, che parlava tanto alle periferie quanto a una parte della borghesia cittadina, attraendo personalità e artisti importanti della scena milanese, italiana e internazionale. Oggi chiunque varchi la soglia di un centro sociale occupato in un normale sabato italiano può osservare il cambiamento antropologico: qualche giovane volenteroso e tante, tantissime teste bianche, perlopiù 50 60enni reduci intristiti della prima generazione di “antagonisti” a cui pochi hanno saputo dare il cambio della guardia, sacerdoti del tempo che fu spiaggiati in immobili fatiscenti a tenere viva la memoria di non si sa cosa. Lo sgombero del 21 agosto 2025, dunque, non è solo la fine di un’occupazione storica e il ritorno allo stato di legalità: è una delle tante fotografie della mutazione epocale, in altre parole della feroce sconfitta subita dalle sinistre in tutto l’occidente. E la destra di Meloni, Trump e compagnia non ha fatto altro che aspettare il cadavere del nemico mentre passava sul greto del fiume. La storia silenziosa di Tarek. L’arresto, la condanna, la solidarietà di Giuseppe Mammana napolimonitor.it, 23 agosto 2025 Il 5 ottobre del 2025 è stata una giornata storica: migliaia di persone scesero in piazza a Porta San Paolo, a Roma. I manifestanti, sfidando i divieti del governo, reclamavano a gran voce la fine del genocidio a Gaza. Per diverse ore, sotto una pioggia torrenziale, le forze dell’ordine circondarono il presidio con i blindati permettendo l’ingresso ai manifestanti solo previa identificazione; anche nei pressi della città, nelle aree di servizio autostradali adiacenti la capitale, le forze dell’ordine impedirono ai manifestanti, tramite fogli di via, di raggiungere il presidio. In piazza, dopo una serie di provocazioni poliziesche e un fitto lancio di lacrimogeni, si arrivò agli scontri su via Ostiense. In serata venne arrestato uno studente italiano, Tiziano, portato in questura e posto agli arresti domiciliari. Il tribunale l’ha condannato a due anni, ma la pena è stata sospesa per l’applicazione della condizionale in quanto soggetto incensurato. Qualche settimana dopo, nel silenzio dei media, venne arrestato un altro ragazzo, un tunisino di nome Tarek. Anche lui, come Tiziano, accusato di resistenza a pubblico ufficiale. A differenza dello studente italiano, Tarek è un ragazzo straniero con precedenti penali, con lo stigma della sua condizione etnica. Le accuse inchiodano Tarek seguendo il solito razzismo istituzionale. Il ragazzo viene descritto come un uomo dalle sembianze magrebine, che dopo aver colpito gli agenti a ombrellate, e lanciato delle bottiglie, si infligge volontariamente dei tagli per impedire il fermo da parte delle forze di polizia. La vicenda emerge diversi mesi dopo, a maggio, grazie a una corrispondenza telefonica, su Radio Onda Rossa, in cui l’avvocato di Tarek spiega che il ragazzo è stato condannato, con il rito abbreviato, a una pena di quattro anni e otto mesi. Una sentenza singolare perché la condanna è superiore alla richiesta del pubblico ministero che chiedeva tre anni. Il 21 maggio, davanti al carcere di Regina Coeli, viene indetto un presidio per esprimere solidarietà al ragazzo tunisino, e agli altri detenuti, in cui tra l’altro i manifestanti leggono una lettera di Tiziano indirizzata allo stesso Tarek. Per approfondire la vicenda decido di incontrare l’avvocato del ragazzo, Leonardo Pompili. Una chiacchierata in attesa della pronuncia dell’udienza di appello fissata il prossimo 21 novembre. Mi racconti la storia di Tarek? Tarek è arrivato in Italia nel 2008, dalla Tunisia. In Italia ha conosciuto una compagna con cui ha avuto una relazione, e da cui sono nati due figli. Aveva il permesso di soggiorno e lavorava. Dopo sono iniziati i primi problemi e Tarek ha deciso di separarsi dalla compagna. Da questo momento comincia a precipitare nella marginalità: difficoltà a trovare una casa, difficoltà a trovare un posto di lavoro. Nel 2020, un altro episodio segna la vita di Tarek. Un litigio con due persone si trasforma in una colluttazione. Viene aperto un fascicolo a suo carico e Tarek viene condannato per tentato omicidio. In carcere la situazione si aggrava, e la depressione lo porta a un consumo esorbitante di farmaci. Scontata la condanna ricomincia a lavorare, ma a nero. A tal punto che dopo l’arresto, avvenuto qualche giorno dopo il 5 ottobre, il datore di lavoro con cui lavorava nega di conoscerlo. Tutto questo impedisce al ragazzo di recuperare una parte della retribuzione che gli spettava. Inoltre, al momento, appare difficile regolarizzare la sua posizione. Tarek ha una carta d’identità ma il permesso di soggiorno scaduto. A giugno doveva presentarsi all’ufficio immigrazione per il rinnovo, ma a causa della detenzione carceraria non è riuscito a presentarsi all’appuntamento ed è stato chiesto un rinvio. Ci racconti che è successo il 5 ottobre? Tarek frequentava la zona di Ostiense e si trovava in un locale lì vicino. Non era andato appositamente al corteo. Decide di avvicinarsi quando la piazza era già blindata. E quando vede la polizia che manganella da un lato, e le bandiere della Palestina dall’altro, decide di compiere un gesto di protesta estrema: si leva la maglietta, e comincia a tagliarsi. Si tratta di un gesto comune a molti detenuti ed ex detenuti: compiere mutilazioni corporali come quelli che avvengono nei Cpr, quando i reclusi si cuciono la bocca. Un gesto di protesta nonché irriverente, perché il corpo è l’unica parte che non è soggetta al controllo del carceriere. Oltre al gesto autolesionistico, la procura lo accusa di aver preso a ombrellate un agente, e di aver lanciato delle bottiglie. La cosa singolare è che per giustificare il reato di resistenza a pubblico ufficiale l’accusa capovolge la cronologia della condotta: sostenendo che prima il ragazzo prende a ombrellate gli agenti, dopo lancia le bottiglie, e infine si taglia per non farsi arrestare. Tutte accuse opinabili. Per esempio, riguardo al lancio di bottiglie, nei video non si vedono i lanci né contro cose e né contro persone. Stessa cosa per l’accusa di aver colpito a ombrellate gli agenti: le forze di polizia sostengono che Tarek abbia colpito con l’ombrello un agente sull’avambraccio. Eppure non ci sono agenti refertati. Si vede solamente che lui agita un ombrello, per quarantanove secondi, verso il contingente di polizia, e poi scappa, senza colpire nessuno. Altra anomalia resta l’aggravante del numero di persone. Gli agenti sostengono che Tarek si sia messo alla testa dei manifestanti, dal video invece si nota come un piccolo contingente di poliziotti si stacca andando verso il ragazzo tunisino, e nel momento in cui prenderebbe a ombrellate gli agenti, lui si trova da solo. Questo dimostra che Tarek ha fatto tutto da solo. E il fatto che lo stesso giorno nella piazza ci siano stati disordini, non significa che puoi unire gli episodi. Per me non c’è resistenza perché nessuna delle condotte ha impedito nulla. Ma a ogni modo, pure che fosse resistenza aggravata, che va dai tre ai quindici anni, non puoi partire dai sette anni. Se immaginiamo il massimo della gravità, che può arrivare a un massimo di quindici anni, chi agita un ombrello non può rischiare sette anni, cioè la metà. Tanto più se la condotta è durata solamente un minuto e cinquanta secondi. Pensi ci sia un nesso tra la condanna di Tarek e il nuovo ddl sicurezza? Sì, il suo caso è un’anticipazione di quello che è il Ddl sicurezza. Introduzione di nuovi reati, aumento di pene. Reati che non sono certamente delle novità. Nel nuovo ddl tuttavia c’è un salto di qualità: le norme sono incentrate sulla punizione di quei soggetti che vivono nella marginalità sociale. E contro coloro che questa marginalità sociale non l’accettano. Soggetti che combaciano con il profilo di Tarek, un ex detenuto che in piazza ha fatto un gesto estremo. Nel suo caso forse scimmiottante rispetto a un vero e proprio conflitto. Il ddl è pieno di norme che vanno a sanzionare il dissenso. I reati di opinione, con il nuovo pacchetto sicurezza, rientreranno nella cornice del 4-bis: la condanna della pena deve essere espiata in carcere. A me è capitato di seguire dei processi per reati di opinione. Uno per una rivista anarchica, e un altro per delle canzoni trap, in cui c’è l’aggravante del terrorismo. Una cosa impensabile alcuni anni fa. Oltretutto in questo pacchetto sono previste aggravanti per la resistenza. Insomma, hai una pena aggravata se commetti degli abusi contro un operatore delle forze dell’ordine. In più, nella normativa, ci sono benefici per gli agenti: il pagamento delle spese legali, o la possibilità di girare con un’altra arma oltre a quella di ordinanza, senza bisogno di avere il porto d’armi. Adesso si sta parlando di approvare un’altra legge che permetterebbe di non iscrivere più notizie di reato a carico degli agenti di pubblica sicurezza. Quali sono le condizioni di Tarek? Alterna periodi in cui sta male, non parla molto, ha tanti pensieri, e non riesce a dormire, ad altri in cui sta meglio, e sembra molto attivo e dialogante. A fine maggio hanno organizzato una manifestazione davanti al Regina Coeli, nel penitenziario dove si trova, ma non aveva capito che fosse per lui. Ha detto che aveva sentito le grida da fuori, e quando gli ho riferito che era per lui è rimasto molto sorpreso. Mi dice che lo spostano continuamente, ora lo hanno messo in una sala ricreativa, adibita a cella, per assenza di spazio. È apparso molto felice quando ha saputo che era apparsa una storia a fumetti su di lui pubblicata da Internazionale. Non immaginava tutta questa solidarietà. Tarek ha delle problematiche di salute che sono state evidenziate nel processo. Problemi che sono stati ignorati. Ho chiesto una perizia ma non è stata concessa. Non c’è stato nemmeno un confronto con la documentazione prodotta, nessuna motivazione. Hanno semplicemente detto che non c’erano motivi validi per indagare sui disturbi di Tarek. Perché un conto è la condotta di una persona che sta bene, un altro è quella di un soggetto con dei problemi. Spesso è una scelta di opportunità, altre volte dettata da altre ragioni, come evitare perdite di tempo, in quanto approfondire le condizioni di un detenuto implica la nomina di un perito. Molte persone che sono in carcere soffrono di questi problemi, ma dal momento che dovrebbero metterli tutti fuori e non ci sono le strutture, ti dicono che queste non sono malattie psichiatriche ma disturbi. Il carcere non funziona, è una discarica sociale e se andiamo a vedere la popolazione carceraria, la maggior parte dei detenuti sono poveri e immigrati. Riarmo Ue, l’Eurocamera fa ricorso alla Corte di Giustizia contro von der Leyen di Roberta Zunini Il Fatto Quotidiano, 23 agosto 2025 “L’utilizzo della procedura d’urgenza” da parte della commissione Ue “mina la legittimità democratica agli occhi dell’opinione pubblica”. Il Parlamento europeo porta Ursula von der Leyen di fronte alla Corte di Giustizia Ue. La presidente Roberta Metsola aveva già fatto capire che l’Assemblea di Strasburgo non avrebbe lasciato passare la decisione della capa della Commissione di scavalcarla per velocizzare l’approvazione del Safe, lo strumento di azione per la sicurezza dell’Europa mediante il rafforzamento dell’industria europea della difesa. Promessa mantenuta, come ufficializzato dall’ufficio stampa dell’Eurocamera: “A seguito della raccomandazione della Commissione Affari Giuridici del Parlamento europeo - informa l’ufficio stampa dell’Eurocamera - il Parlamento ha presentato una richiesta di annullamento del regolamento Safe alla Corte di giustizia”. Nel suo ricorso, il Parlamento chiede al contempo che, qualora la Corte ritenga fondato il ricorso stesso, gli effetti del regolamento siano comunque mantenuti fino alla sua sostituzione con un nuovo atto adottato sulla base giuridica appropriata, cioè senza l’uso della procedura d’urgenza, prevista dall’art.122. Questo perché in realtà, come emerso da numerose votazioni che hanno toccato il tema del riarmo europeo, la Plenaria si è sempre dimostrata allineata alla proposta della Commissione di istituire lo strumento, ma non accetta che questo avvenga senza essere consultata. “L’utilizzo di questa procedura per approvare il Safe come base giuridica era, a parere del Parlamento, proceduralmente scorretto e semplicemente superfluo e mina la legittimità democratica agli occhi dell’opinione pubblica. Non esiste un Parlamento al mondo che lo accetterebbe”. E si legge ancora: “Per questo motivo, il Parlamento presenta un ricorso per inadeguatezza della base giuridica. Il Parlamento ha attuato riforme radicali per poter agire in modo rapido e coerente. Ciò è già stato dimostrato dall’adozione di diversi testi legislativi chiave nel giro di poche settimane. Il Safe - sottolinea l’Eurocamera - come strumento gode del pieno sostegno del Parlamento. Riconosciamo la sua importanza per l’Europa, per l’Ucraina e per tutti noi. Non si tratta di contenuto ma della base giuridica scelta, che mina la legittimità democratica. Il Parlamento accoglie pertanto con favore il fatto che la maggioranza degli Stati membri abbia espresso la volontà di contrarre prestiti UE per gare d’appalto per un importo di 127 miliardi di euro”. Stati Uniti. Addio Alligator Alcatraz: chiude la prigione-circo di Trump di Umberto Di Giovannnageli L’Unità, 23 agosto 2025 Costruito in fretta e furia per stipare 3mila migranti in attesa di espulsione, attorniati da alligatori, il Cpr di Donald è ai titoli di coda: “È in un’area protetta”. Era il fiore all’occhiello del tycoon, ma è appassito subito: la giudice federale degli Stati Uniti, Kathleen Williams, ha ordinato infatti la chiusura di Alligator Alcatraz, il centro di detenzione per migranti presentato dallo stesso Trump in pompa magna appena il 2 luglio scorso. Nell’ordinanza della giudice Williams si concedono 60 giorni di tempo per interrompere le attività della gabbia per migranti e rimuovere generatori, impianti gas e fognari installati nel sito. La sentenza denuncia inoltre che la struttura sta causando gravi danni ambientali alla zona e ripercussioni alle specie in via di estinzione che ospita. Viene proibito pertanto l’ampliamento del centro di detenzione, oltre che l’inserimento di nuovi detenuti. “Si tratta di una vittoria storica per le Everglades e per gli innumerevoli americani che credono che questa natura selvaggia in pericolo debba essere protetta, non sfruttata”, ha affermato Eve Samples, direttrice esecutiva di Friends of the Everglades, come riporta Bbc News. Trump aveva detto in estasi che ad Alligator sarebbero stati deportati “i criminali più spietati e violenti d’America”, ma della stessa opinione non erano i nativi americani. “Non si tratta di una terra desolata infestata da alligatori e pitoni (…) bensì l’area protetta di Big Cypress (adiacente alla Tamiami Trail) è terra della nostra tribù” aveva avvertito un portavoce della tribù Miccosukee. “Ospita 19 villaggi tradizionali di Miccosukee and Seminole, (…) la Miccosukee Reserved Area, e la Miccosukee Water Conservation Area 3-A”. Il supercarcere per migranti voluto da Trump è stato oggetto di varie denunce presentate dagli attivisti e dai residenti. Lo Stato della Florida, che sta collaborando con l’amministrazione Trump nella costruzione del sito, ha già presentato ricorso. Costruito due mesi fa nel mezzo di una palude di Miami, Alliogator Alcatraz è diventato il fulcro dell’attività repressiva dell’immigrazione illegale voluta dall’amministrazione Trump. Il suo nome deriva dalla fauna selvatica di alligatori, coccodrilli e pitoni che, secondo Trump, avrebbero impedito ai detenuti di fuggire. Può ospitare fino a 3mila detenuti. Il carcere è stato presentato ufficialmente come un luogo di transito per migranti in attesa di espulsione, una specie di Cpr nostrano, appena un po’ più rustico. La segretaria alla Sicurezza Interna, Kristi Noem, aveva parlato della struttura come parte di un piano per raddoppiare i posti letto nazionali destinati alla detenzione di migranti, portandoli a quota 100mila. L’obiettivo, aveva spiegato Noem, è sostenere una nuova ondata di arresti che l’Ice - Immigration and Customs Enforcement, l’agenzia federale statunitense preposta al controllo dell’immigrazione e alla lotta contro i crimini legati all’immigrazione irregolare e al traffico illecito di persone e merci - intende incrementare fino a 3mila fermi al giorno. “Se non volete finire qui, autoespelletevi subito”, aveva avvisato Noem, affermando che oltre un milione di persone avrebbero già lasciato volontariamente il Paese dall’inizio del mandato Trump. The Donald stesso ha visitato la struttura, il mese scorso, descrivendola come “più dura della vecchia Alcatraz” allietando gli astanti con sapide battute su come sfuggire agli alligatori: “Dovete correre a zigzag, così le vostre chance di sopravvivere aumentano dell’1%”, aveva detto. Ma a sopravvivere resterà soltanto il ricordo della sua prigione barnum. Stati Uniti. “Alligator Alcatraz, strutture da smantellare”: l’ordine di un giudice della Florida di Claudio Del Frate Corriere della Sera, 23 agosto 2025 Accolto il ricorso degli ambientalisti: a rischio le Everglades. Il provvedimento ordina anche di smantellare una serie di impianti e strutture del carcere. Un giudice federale di Miami ha dato l’ordine lo stop al trasferimento di altri detenuti nel famigerato carcere per immigrati “Alligator Alcatraz”. Il provvedimento ordine inoltre di rimuovere entro 60 giorni una serie di strutture, ad esempio recinzioni, impianti di illuminazione, di raccolta dei rifiuti e di non allestire nuove tende o alloggi. Nella sentenza del giudice del tribunale distrettuale, Kathleen Williams, ha stabilito che la struttura stava causando danni gravi e irreparabili alle fragili Everglades della Florida. Williams ha anche osservato che un piano per trasformare il sito in cui è stata costruita la prigione in un enorme aeroporto turistico era stato respinto negli anni 60 a causa del danno che avrebbe causato al territorio e al delicato ecosistema. Il provvedimento del tribunale di Miami ordina lo stop al trasferimento di altri detenuti nella struttura che attualmente ospita circa 400 persone accusate di immigrazione illegale ma che nella maggior parte dei casi non sono state condannate per alcun reato. Ad Alligator Alcatraz si trovano anche due cittadini italiani. Il provvedimento consente d’altra parte allo Stato di continuare a utilizzare le strutture esistenti. Quello della giudice Williams è un provvedimento transitorio, che interromperà per due mesi l’ulteriore espansione del carcere in attesa della discussione nel merito della causa. Ma potrebbe fin da subito aver un impatto rilevante sul funzionamento di Alligator Alcatraz dove il numero di detenuti è già sceso drasticamente rispetto ai 1.400 toccati a luglio, secondo quanto riporta il sito Miami Herald. Nelle 82 pagine del provvedimento Williams ha affermato che si aspetta che il continuo trasferimento dei detenuti fuori da Alligator Alcatraz consenta l’eliminazione graduale delle attrezzature, che potrà avvenire “in modo sicuro, umano e responsabile”. La sentenza scaturisce da un ricorso presentato da associazioni ambientaliste (tra le quali “Friends for Everglades”) secondo le quali la costruzione della struttura - che ha preso il posto di un aeroporto dismesso - rischia di danneggiare il fragile equilibrio delle paludi. La prigione sarebbe stata edificata senza le necessarie valutazioni di impatto ambientale. Il provvedimento, dunque, non è motivato dalle disumane condizione in cui vivono i detenuti, costretti a vivere in una zona infestata da serpenti e alligatori. La prigione è composta da gabbie che ospitato oltre 30 persone. “Questo è un campo di concentramento. Ci trattano da criminali, allo scopo di umiliarci. Siamo tutti lavoratori e persone che badano alla loro famiglia” ha dichiarato al quotidiano Tampa Bay Times Fernando Eduardo Artese, uno dei detenuti di cittadinanza italiana trattenuti ad Alligator Alcatraz. Prevedibile che lo Stato della Florida e il governo federale faranno ricorso contro il provvedimento della giudice Williams, tentando di fare vale re altre sentenze tra cui quella della Corte Suprema secondo la quale le decisioni prese da Trump non possono essere annullate da tribunali di rango inferiore. La sentenza è comunque un colpo alle politiche repressive contro l’immigrazione volute da Donald Trump. “Si tratta di una vittoria storica per le Everglades e per gli innumerevoli americani che credono che questa natura selvaggia in pericolo debba essere protetta, non sfruttata” ha affermato Eve Samples, direttrice esecutiva di Friends of the Everglades. Medio Oriente. L’Onu certifica la carestia di Gaza. “Una catastrofe morale: colpa di Israele” di Youssef Hassan Holgado Il Domani, 23 agosto 2025 Il rapporto delle Nazioni Unite: “È una carestia provocata dall’uomo”. Netanyahu reagisce parlando di “bugia assoluta”. Fao, Oms, Wfp e Unicef chiedono un cessate il fuoco immediato e una “risposta umanitaria senza precedenti”. A Gaza mezzo milione di persone, di cui 132mila bambini sotto i 5 anni, muore di fame per colpa delle autorità israeliane. Come se non bastassero le immagini circolate negli ultimi mesi di minori, donne e anziani ridotti all’osso, ora c’è la conferma ufficiale proveniente da un organismo delle Nazioni Unite. Per la prima volta il rapporto dell’Integrated food security phase classification (Ipc) dice che a Gaza è in corso una carestia (ieri altre due persone sono morte per fame). Secondo il report, l’insicurezza alimentare ha raggiunto il livello massimo di gravità a Gaza City e dintorni, ma entro la fine di settembre raggiungerà “condizioni catastrofiche” anche a Deir al-Balah e Khan Younis. “Proprio quando sembrano non esserci più parole per descrivere l’inferno che sta vivendo la popolazione di Gaza, ne è stata aggiunta una nuova: carestia”, ha detto il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres. “Non è un mistero, è una catastrofe provocata dall’uomo, una condanna morale e un fallimento della stessa umanità”, ha aggiunto, richiamando lo Stato ebraico alle sue responsabilità. “In quanto potenza occupante, Israele ha obblighi innegabili ai sensi del diritto internazionale, tra cui garantire cibo e forniture mediche alla popolazione”. Parole dure - pronunciate anche dai governi di Spagna e Regno Unito - che arrivano in un momento cruciale della guerra con la nuova offensiva dell’Idf che punta a occupare anche Gaza City e mette in pericolo di vita circa un milione di persone. Secondo i media israeliani, l’esercito dovrebbe lanciare la sua nuova offensiva a metà settembre, circa due settimane dopo che i riservisti richiamati saranno chiamati in servizio. Per arrestare la conta dei morti la Fao, l’Unicef, il Wfp (Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite) e l’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) hanno chiesto ieri un nuovo cessate il fuoco immediato e “una risposta umanitaria senza impedimenti”. “Facciamo arrivare cibo e altri rifornimenti senza impedimenti e nella quantità massiccia richiesta. È troppo tardi per troppi, ma non per tutti a Gaza”, è invece la richiesta del responsabile umanitario delle Nazioni Unite, Tom Fletcher. Immediata la risposta di Tel Aviv. “Israele non ha una politica contro la carestia. Israele ha una politica di prevenzione della carestia”, ha detto il premier Benjamin Netanyahu smarcandosi da ogni accusa e accusando il report di essere una “bugia assoluta”. “Gli unici a essere deliberatamente affamati a Gaza sono gli ostaggi israeliani”, ha detto. Ma le immagini provenienti dalla Striscia e le testimonianze raccolte dagli organi di stampa mostrano una realtà molto diversa da quella raccontata dal primo ministro, secondo cui il rapporto delle Nazioni Unite “ignora gli sforzi umanitari di Israele e il furto sistematico di aiuti da parte di Hamas”. Anche qui, diverse inchieste giornalistiche hanno confutato queste accuse. A contribuire alla carestia ci sono una serie di fattori tra cui il divieto di ingresso degli aiuti umanitari a Gaza, e la messa al bando dell’Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi Unrwa per mano di Israele. L’impressione è che senza contromisure concrete contro Tel Aviv o una chiamata a Netanyahu proveniente dalla Casa Bianca non c’è appello che possa fermare le decisioni del gabinetto di guerra israeliano. In mattinata il ministro della Difesa Katz ha annunciato che a Gaza si “apriranno presto le porte dell’inferno”. Ma nella Striscia, le porte degli inferi sono aperte almeno da 23 mesi. Solo nella giornata di ieri altri 65 palestinesi sono stati uccisi nei raid dell’Idf, tra questi almeno 36 persone proprio a Gaza City e cinque persone mentre erano in cerca degli aiuti umanitari. Per Hamas, che spera ancora in una tregua, le parole di Katz sono l’”ammissione del tentativo di pulizia etnica”. In Israele proseguono le proteste in favore di un accordo che fermi la guerra e riporti gli ostaggi a casa. Ieri alcuni attivisti hanno bloccato l’autostrada 6, all’altezza dello svincolo di Elyakin, allestendo una finta tavolata per la cena di Shabbat. Hanno chiesto al premier di tornare al tavolo delle trattative. Ma per il momento Netanyahu è sordo anche alle loro richieste. Iran. In 8 mesi giustiziate 900 persone, quasi tutte povere e senza famiglia di Valerio Fioravanti L’Unità, 23 agosto 2025 L’Iran ha 90 milioni di abitanti e ad oggi ha compiuto l’esecuzione n° 904 del 2025. Nel mese di luglio, ha calcolato Iran Human Rights (e la cifra coincide perfettamente con i dati di Nessuno tocchi Caino), sono state messe a morte 110 persone. L’anno scorso, nel mese di luglio, le esecuzioni erano state “solo” 48. Secondo le Ong dei dissidenti iraniani, è evidente che la cosiddetta “guerra dei 12 giorni” con Israele ha messo paura al regime degli Ayatollah, e il regime a sua volta vuole mettere paura (di più, se ce ne fosse bisogno) alla popolazione, che non si faccia venire in mente di rivoltarsi. Questa è una teoria molto diffusa tra tutti gli analisti, ma stride con un altro dato. Il rapporto di Iran Human Rights appena citato dice che “delle 110 esecuzioni, solo 8 sono state pubblicate sui media interni all’Iran, il 7%”. Questo sta a sottolineare una forte opacità del regime, certo, ma se le esecuzioni non vengono riportate dai giornali o dalla televisione, come si fa a dire con certezza che sono compiute per tenere la popolazione in uno stato di paura? Confidando sul semplice “sentito dire” o sul “passaparola”? Può essere. Eccezionale il lavoro di più di una Ong di dissidenti, che scrivono, trovano notizie, riportano arresti, hanno fonti nelle carceri da cui riescono a far uscire le informazioni su quel 93% di esecuzioni di cui il Governo non vuole dare notizia. Svolgono davvero un lavoro enorme, e sicuramente anche pericoloso. Non sono d’accordo con loro su un punto: quando, nel fare la “distinta” dei vari impiccati, li dividono in “prigionieri politici” e no. A luglio, ad esempio, 2 dei giustiziati erano detenuti politici, 5 erano accusati di stupro, 59 di reati legati alla droga, e 44 di omicidio. Quando ho approfondito il caso di un giovane uomo di 20 anni impiccato per stupro, si è aperto un mondo: il ragazzo era fuggito di casa con la sua fidanzata, erano riusciti a convivere per qualche settimana, e quando i familiari di lei li hanno rintracciati, lui è stato accusato di stupro, condannato e anche rapidamente impiccato. Questo non è stupro, è quello che noi oggi chiameremmo “tentativo di sottrarsi alle ataviche leggi del patriarcato”, per cui è il padre della ragazza che decide di chi lei può innamorarsi, non la ragazza medesima. Ma a crearmi problemi di catalogazione sono anche i condannati a morte “per reati legati alla droga”. Sono molte centinaia ogni anno. A meno di non voler essere razzisti, e pensare che chi nasce in Iran ha un quoziente intellettivo molto basso, chi mai spaccerebbe droga sapendo che si viene condannati a morte? La risposta che mi viene in mente è una sola: chi è molto povero, e non sa proprio come portare il pane a casa. Scrivo “pane” perché le Ong di esuli iraniani scrivono in inglese, e usano il termine “breadwinner”, che letteralmente sarebbe “colui che porta a casa il pane” quando vogliono dire che una persona è l’unica fonte di reddito per l’intera famiglia, che spesso va dagli anziani genitori non coperti da un praticamente inesistente sistema pensionistico (soprattutto nelle aree rurali), agli adulti, fino ai figli. Vedi le foto che le Ong diffondono degli “spacciatori” condannati e ogni tanto ne trovi uno che si fa riprendere con un cappellino di Gucci o una maglietta di Armani (cappellini e magliette, non Rolex e Porsche), ma tutti gli altri sono basici, poveri, non hanno neanche un taglio di capelli alla moda. Davvero li possiamo assimilare ai nostri ricchi spacciatori occidentali? Quando uno è costretto a commettere crimini perché il proprio paese (che pure aggira agilmente le sanzioni e vende petrolio in mezzo mondo) investe tutto solo in armamenti, apparati repressivi e guerriglie da esportare, è un criminale, o, come vorrebbe dire Nessuno tocchi Caino, un “prigioniero politico” seppure sui generis? Anche gli assassini creano a noi qualche problema di catalogazione. La legge islamica prevede che il condannato possa chiedere il perdono dei parenti della vittima versando un risarcimento, che viene parametrato ogni anno aggiornandolo con l’inflazione. In questo periodo è l’equivalente di circa 18.000 euro per una vittima uomo “musulmano” e 9.000 euro per una vittima donna “musulmana”. Per i non musulmani non è previsto un “valore”. Le Ong stimano che ogni anno, su 5 condannati per omicidio, 4 riescano a pagare il “prezzo del sangue” e a essere rilasciati. Quanto è povera, e ignorante, e priva di relazioni, la restante parte degli assassini che non riesce a raccogliere, facendosi aiutare dai familiari, o anche dal clan, come succede spesso, 18.000 euro? Forse considerare anche loro “prigionieri politici” è troppo. Ma non è neanche del tutto sbagliato.