Quelle parole in libertà di chi non ha mai messo piede in carcere di Gianpaolo Catanzariti Il Dubbio, 22 agosto 2025 Il Ministro Nordio minimizza sui suicidi, il procuratore Gratteri invoca nuovi penitenziari e il segretario dell’Anm Maruotti nega l’incidenza dell’abuso della custodia cautelare sulle condizioni di sovraffollamento. La calura estiva e la stasi ferragostana non hanno arrestato le solite “parole in libertà” di chi forse, nel visitare un penitenziario, si sarà soffermato nelle stanze ben tenute degli amministrativi, per qualche foto di rito, con dietro le bandiere istituzionali che, per il degrado delle nostre carceri, meriterebbero di essere perennemente poste a mezz’asta. Probabilmente non sarà mai entrato nelle celle ammuffite, con le latrine a vista, nelle sezioni stracariche oltre ogni limite, nelle salette testimoni di una degradata socialità. Non avrà mai gettato lo sguardo oltre lo spioncino di un blindo, chiuso a doppia mandata, per osservare i volti rassegnati dei detenuti costretti, per mancanza di spazi, a condividere la cella con un loro compagno affetto dalla scabbia. Proprio in questi giorni abbiamo letto le interviste al ministro Nordio, al segretario dell’Anm Maruotti e al Procuratore di Napoli, Nicola Gratteri. Ognuno di questi - meritevoli di considerazione per il ruolo svolto e la funzione espressa - pronto a puntare il dito contro gli altri protagonisti delle politiche e della gestione dei flussi carcerari. Mai, però, a ricordare la propria responsabilità su una emergenza carceraria oramai atavica. Mai ad una rigorosa autocritica sulla propria condotta, ovviamente non come singolo, ma in quanto espressione di una categoria, quella dell’esecutivo, della magistratura giudicante e di sorveglianza, della magistratura requirente, che contribuiscono, pro quota, al mantenimento di una condizione disonorevole per la Repubblica italiana. Il ministro Nordio, supportato dallo smarrito Garante per i detenuti, giura, contro la logica e la statistica, che il fenomeno dei suicidi non solo sia slegato dal grave sovraffollamento, ma addirittura che l’essere stipati in 8, 10 o 12 in celle che, al massimo, ne possono ospitare 6, giochi un ruolo di deterrenza sui suicidi in quanto i “molti” compagni di cella “ esercitano una sorta di controllo” e che il “sovraffollamento porta all’esasperazione più che alla disperazione, e quindi alla rivolta violenta piuttosto che all’autolesionismo”. Il segretario dell’Anm, Rocco Maruotti, nega, pro domo sua, l’incidenza dell’abuso della custodia cautelare sulle condizioni di sovraffollamento, arzigogolando su comparazioni europee delle misure emesse e sulla “costante riduzione” dell’uso della “carcerazione preventiva” (così definita senza ipocrisie), da parte dei magistrati, che ha consentito “di contenere l’aumento a dismisura della popolazione carceraria”. Il Procuratore di Napoli, Gratteri, sempre più proiettato verso ruoli in politica, nelle pause del lungo tour estivo nelle piazze calabresi, ci propina la solita ricetta dei suicidi e del “malessere che serpeggia tra i detenuti e gli agenti di polizia penitenziaria” determinati dallo strapotere dei mafiosi e della necessità di miracolose e immediate nuove carceri da 5.000 posti ciascuno. Per Gratteri i suicidi sono il prodotto di una serie di costrizioni e intimidazioni subite dai detenuti deboli ad opera dei “boss”, mentre l’indulto è del tutto inutile. “Parole in libertà” senza rispetto dei dati statistici. Senza leggere i report, le segnalazioni che diverse associazioni - fra queste le Cameri penali, impegnate nell’iniziativa dell’Osservatorio carcere, “Ristretti in Agosto” - offrono alla politica in vacanza e ad un’opinione pubblica distratta. E così il Ministro ignora l’irresponsabilità del “non fare” o, peggio, del “fare male” come con la “deforma” della liberazione anticipata della scorsa estate e che il 90% dei suicidi circa avvenga in istituti sovraffollati. L’Anm ignora l’incidenza delle misure cautelari, al pari delle limitate misure alternative, sul sovraffollamento e che la tanto sbandierata regressione della carcerazione preventiva degli ultimi anni non emerge affatto. Basterebbero le relazioni al Parlamento per scoprire che dal 2020 le misure cautelari in carcere hanno subito un progressivo aumento (24.928 nell’anno 2020 - 27.261 nell’anno 2024). Così come il sovraffollamento, in costante crescita (+ 10.499 detenuti dal 2020 al 2025), si alimenta anche grazie a circa 11.972 detenuti in più che ogni anno entrano in carcere, ma non ci escono. Quanto allo strapotere dei boss, si omette di considerare che il fenomeno suicidario e i decessi per cause diverse o da accertare avvengono, senza distinzione, in tutti i circuiti. Nella prima metà del 2025, il 4,35% dei suicidi ha riguardato detenuti in Alta Sicurezza, benché il loro numero sia poco più di 9.000. Inoltre, per come affermato in tutte le relazioni ministeriali e nelle statistiche Dap, ogni interazione tra i diversi circuiti è inesistente. Il 100% dei detenuti AS, compresi quelli al 41 bis, infatti vivono in sezioni “chiuse”, senza contatti con quelli di Media. D’altro canto, la storiella delle carceri in mano ai boss è priva di fondamento scientifico. Anche in occasione delle rivolte del marzo 2020, in cui hanno trovato la morte in circostanze ancora oscure almeno 13 detenuti. Anche allora i soliti magistrati in tv avevano affermato che dietro quelle rivolte ci fosse la regia delle mafie, tesi, però, clamorosamente smentita dalla Commissione di indagine voluta dall’allora ministro Cartabia e presieduta dall’ex Pg di Caltanissetta, Sergio Lari. Che importa, siamo in agosto e le parole in libertà svolazzano allegre tra le spiagge e le montagne, mentre in carcere, tra l’indifferenza e l’abbandono, si continua a morire. Sul sovraffollamento delle carceri l’Anm si sdoppia da sé stessa (e dalla realtà) di Luciano Capone Il Foglio, 22 agosto 2025 Il segretario dell’Associazione nazionale magistrati Rocco Maruotti sostiene che “la custodia cautelare non incide sul sovraffollamento” e così accusa di fake news il presidente Parodiche solo qualche mese fa ha detto che la soluzione al sovraffollamento passa anche dalla “riduzione del ricorso alla custodia cautelare in carcere”. L’Associazione nazionale magistrati (Anm), impegnata a pieno regime contro la riforma della giustizia, arriva a un doppio sdoppiamento: dalla realtà e da se stessa. In un’intervista ad Avvenire di due giorni fa sul sovraffollamento carcerario e l’emergenza suicidi tra i detenuti, il segretario generale dell’Anm Rocco Maruotti arriva a sostenere che “la custodia cautelare non incide sul sovraffollamento”. “Chi sostiene che il sovraffollamento carcerario dipende dall’abuso della custodia cautelare - ha detto Maruotti - fornisce una falsa informazione, smentita dai dati contenuti nel rapporto del Consiglio d’Europa sulla situazione carceraria, aggiornati al 31 gennaio 2024, dai quali risulta che la percentuale dei detenuti italiani in attesa di sentenza definitiva è nella media europea ed è comunque più bassa di quella di Francia, Germania e Regno Unito”. Per smentire la logica di questa affermazione basta guardare, come ha segnalato il deputato Enrico Costa (FI), i dati sui detenuti al 31 luglio 2025 del ministero della Giustizia: rispetto a una capienza di 51.300 posti, i detenuti sono 62.569. Di questi, i detenuti in custodia cautelare sono 14.898 (di cui 9.021 in attesa di primo giudizio): il 23,8 per cento del totale. Uno su quattro. Sostenere, come fa Maruotti, che la custodia cautelare non incida sul sovraffollamento sfida la logica. Affermare che chi lo sostiene “fornisce una falsa informazione” sfida invece il ridicolo. Basta guardare proprio i dati e i rapporti citati dal segretario generale dell’Anm. Il rapporto Space 2024 sulle popolazioni carcerarie del Consiglio d’Europa, in effetti, mostra come dice Maruotti che la quota dei detenuti italiani in attesa di una sentenza definitiva è in linea con il resto dell’Europa. Il dato dell’Italia è del 26 per cento e la mediana è del 25,9 per cento. Non è un dato particolarmente più basso rispetto a Francia, Germania e Regno Unito - come afferma il segretario generale dell’Anm - ma piuttosto in linea con Francia (26,6 per cento) e Germania (26,3 per cento), mentre per il Regno Unito probabilmente Maruotti considera solo il dato della Scozia (27 per cento) perché quello di Inghilterra e Galles è molto più basso (18,3 per cento). In ogni caso, il fatto di avere una quota di detenuti non ancora condannati in via definitiva analoga alla Francia non è di per sé molto rassicurante, perché la Francia - come l’Italia - è uno dei paesi che soffre di sovraffollamento carcerario: secondo i dati del Consiglio d’Europa, il tasso di affollamento carcerario francese è pari al 124 per cento, superiore a quello italiano che è del 118 per cento. Più correttamente, Maruotti nell’intervista dice che il sovraffollamento ha raggiunto il 133 per cento perché, come ha spiegato l’associazione Antigone nel suo ultimo rapporto sulle condizioni di detenzione, almeno 4.500 posti non sono effettivamente disponibili per “inagibilità o ristrutturazioni”. La spiegazione di Maruotti, quindi, non è che il sovraffollamento non ci sia. Anzi, è un problema gravissimo. Solo che non dipende per nulla dall’abuso delle misure cautelari bensì dalle “scelte di politica criminale improntate ad una visione carcerocentrica”. È quindi colpa della politica penale (o meglio del populismo penale) del governo. Mentre puntare il dito anche sugli arresti preventivi farebbe parte della “continua opera di delegittimazione della magistratura, portata avanti anche mediante la falsificazione dei dati, per orientare in senso negativo l’opinione pubblica in vista del referendum costituzionale”. Il paradosso dei numeri e della logica di Maruotti, però, è che se la quota di detenuti prima della condanna è nella media europea, vuol dire che anche la quota di carcerati dopo una sentenza definitiva è nella media europea. Se però l’Italia ha il sovraffollamento carcerario più alto di tutta Europa, e sia la percentuale di detenuti preventivi sia quella di detenuti dopo la condanna è nella norma, allora vuol dire che quantomeno il problema dipende da entrambi i fattori: l’abuso della carcerazione preventiva e l’eccessivo aumento di pene e reati. È tra l’altro sorprendente che Maruotti, esponente di Area, quella che dovrebbe essere la corrente progressista e “garantista” della magistratura, dica che non è un problema che un detenuto su quattro delle carceri italiane sia in attesa di sentenza definitiva. Lo stretto legame tra custodia cautelare e sovraffollamento delle carceri è stato sollevato anche dalla Commissione europea in una specifica raccomandazione in cui - proprio facendo riferimento ai paesi con un tasso di occupazione superiore al 100 per cento - si dice che “l’uso eccessivo o non necessario della custodia cautelare e la sua durata contribuiscono al fenomeno del sovraffollamento nei centri di detenzione, che compromette gravemente il miglioramento delle condizioni di detenzione”. E che su questo fronte ci sia un problema serio in Italia lo dimostra la relazione al Parlamento sulle misure cautelari personali e la riparazione per ingiusta detenzione: secondo i dati del ministero della Giustizia “una misura cautelare coercitiva su tre emesse è quella carceraria (31 per cento)”. I magistrati, insomma, tra le 11 misure cautelari disponibili, preferiscono nettamente il carcere. Ma nulla di tutto questo è ignoto all’Anm. Anche perché solo pochi mesi fa lo ha detto anche il suo presidente. In un articolo su Repubblica del 9 giugno, scritto insieme al presidente dell’associazione dei professori di diritto penale (Aipdp) Gian Luigi Gatta e al presidente dell’Unione delle Camere penali Francesco Petrelli, il presidente dell’Anm Cesare Parodi afferma che la soluzione al sovraffollamento passa anche dalla “riduzione del ricorso alla custodia cautelare in carcere”. È davvero singolare che ora il segretario generale dell’Anm definisca il presidente dell’Anm come uno spacciatore di “falsa informazione”. Maruotti manca di misura e di cautela. Penalisti contro Gratteri: “Sui suicidi parole superficiali” di Paolo Comi L’Unità, 22 agosto 2025 Dopo l’intervista del procuratore di Napoli, che aveva legato le morti in cella alla prepotenza dei boss, la dura replica di Petrelli: “Analisi fumosa e poco credibile”. I suicidi nelle carceri italiane sarebbero determinati dal fatto che i detenuti “di alto spessore” sono soliti dare ordini “ai più deboli”, come ad esempio “l’ambasciata all’esterno”, “il trasporto di un cellulare”, “la custodia di un’arma”. Ciò determina che i detenuti “più fragili”, non avendo via d’uscita, si sentono “schiacciati”: rischiano infatti di incappare in “infrazioni disciplinari” se vengono scoperti o di mettere a repentaglio la propria “incolumità personale” se si rifiutano di obbedire ai boss. A dirlo è Nicola Gratteri, procuratore di Napoli, in una intervista a tutto campo rilasciata questa settimana al quotidiano La Repubblica. La singolare teoria del procuratore calabrese ha scatenato ieri la reazione delle Camere penali le quali hanno stigmatizzato il fatto che una “questione grave e seria come quella dei suicidi in carcere venga affrontata con tanta superficialità”. Per il presidente dell’Unione camere penali, l’avvocato romano Francesco Petrelli, “quella poco credibile interpretazione dei fatti secondo cui sarebbero le angherie dei boss causa del drammatico fenomeno costituirebbe materia di reato su cui indagare e non su cui costruire fumose teorie criminologiche, magari ricche dell’appeal mediatico necessario a un personaggio televisivo, ma atte a nascondere le reali e tragiche cause ambientali di quella diffusa disperazione che conduce al suicidio, che sono invece sotto gli occhi di tutti”. I suicidi in carcere, a dispetto delle teorie di Gratteri, sono determinati dal sovraffollamento e dalla presenza fra i reclusi di tantissime persone affette da problemi psichiatrici. Un elemento che ha trasformato ultimamente le carceri nei nuovi manicomi. Secondo gli ultimi dati disponibili, circa il 20 per cento della popolazione carceraria è affetta da turbe psichiche che rendono incompatibile la loro detenzione dietro le sbarre. Analizzando poi le statistiche dei suicidi, è emerso che molti di essi avvengano a pochi giorni dalla libertà. L’incognita del “dopo” determina spesso una angoscia difficile da superare, non esistendo programmi di reinserimento sociale dei detenuti degni di questo nome. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio, da parte sua, parlando dei suicidi in carcere non perde occasione per dire che si tratta di una “questione irrisolvibile”. Senza, ovviamente, ricordare il penoso stato in cui versano le prigioni italiane, quasi sempre ospitate in stabili fatiscenti e nati per tutt’altro. Come Regina Coeli a Roma, un ex convento del 1600 adattato a prigione durante il Regno d’Italia, oggetto di una visita a Ferragosto da parte del deputato di Italia viva Roberto Giachetti. Tornando comunque a Gratteri, in molti hanno notato in questi ultimi giorni un certo suo attivismo politico, forse in vista dell’avvio del programma divulgativo sulle mafie che condurrà dal mese prossimo su La7. Nei suoi recenti interventi, Gratteri ha dichiarato di essersi “ricreduto” sul governo di destra per aver varato riforme come quella dell’abolizione del reato di abuso d’ufficio o delle intercettazioni e di essere pronto ad intervenire sulla Corte dei Conti. Parole che certamente non faranno piacere al centrodestra. Se Gratteri è diventato procuratore di Napoli e non è tornato a fare il sostituto a Catanzaro lo deve infatti esclusivamente ai laici di centrodestra del Consiglio superiore della magistratura che hanno votato in maniera compatta per lui. Nonostante ciò, dalle parti di Fratelli d’Italia la stima per Gratteri è sempre ai massimi livelli. “Solidarietà al procuratore Nicola Gratteri troppo spesso bersaglio immotivato di attacchi strumentali”, ha scritto Andrea Delmastro, meloniano sottosegretario alla Giustizia. “Se il 41 bis esiste così com’è, lo si deve ad Andrea Delmastro”, ha prontamente replicato Gratteri. “Al ministero della Giustizia - ha aggiunto il procuratore di Napoli - è quello che più di tutti sta insistendo sulla gestione del 41 bis”. Il sottosegretario alla Giustizia, come si ricorderà, era finito al centro di una bufera mediatica dopo alcune parole pronunciate in occasione dell’inaugurazione di un nuovo mezzo in dotazione alla polizia penitenziaria. “È per il sottoscritto un’intima gioia l’idea di veder sfilare questo potente mezzo che dà prestigio, con sopra il Gruppo operativo mobile della polizia penitenziaria e far sapere ai cittadini come noi sappiamo trattare e incalziamo chi sta dietro quel vetro e non lo lasciamo respirare”, aveva detto riferendosi ai mafiosi in regime di 41 bis. Giachetti: “Sul sovraffollamento delle carceri dal ministro Nordio solo parole” di Daniele Magliocchetti cityrumors.it, 22 agosto 2025 “Utilizzare le caserme dismesse? Ma per favore… e chi ci va se mancano gli agenti anche per far funzionare gli istituti penitenziari?”. Il sovraffollamento delle carceri è un problema serio, non da adesso ma da diversi anni. Quello che non torna è che sono anni che c’è questa situazione e si dibatte su come risolverlo, ma alla fine si torna sempre al punto di partenza. I numeri sono agghiaccianti con un percentuale del circa 200% di persone che sono all’interno dei penitenziari ma non si fa nulla. Doveva essere l’estate per cercare di trovare un modo, una maniera ma alla fine “solo parole, nient’altro che parole che non hanno portato a nulla”, la severa presa di posizione di Roberto Giachetti deputato di Italia Viva che più di tanti altri avverte il problema, molto più grave di quello che si pensa. Orami sta diventando uno scontro tra il Ministro della Giustizia Nordio e tutto il resto, anche con qualcuno che fa parte della maggioranza ma non si espone più di tanto, chi lo fa come sempre è Giachetti che conosce bene la situazione e cerca da tempo di portare avanti alcune proposte per cercare di risolvere il problema: “Si fa passare la proposta che abbiamo fatto sulla liberazione speciale anticipata come una specie di resa da parte dello Stato ma non è così”. Quasi non ce la fa più a ripetere questo concetto il deputato anche perché non fa che parlarne da mesi anzi anni, soprattutto con la sua proposta che è stata presentata ufficialmente un anno fa, anche se si dibatte da più tempo, ma è stata scartata, anche se nessuno ha capito realmente il motivo. “Quello che non capisco e non capiscono chi conosce bene il problema di cui si sta parlando è che quello che è proposto io non è altro che l’estensione di una norma che già esiste e viene applicata da almeno vent’anni, che è la legge Gozzini, che prevede che ogni 6 mesi chi ha un comportamento corretto in carcere possa usufruire di uno sconto della pena di 45 giorni, io ho solo proposto di portare questo limite a 75 giorni, ma in questa situazione che c’è l’emergenza, non come situazione fissa”. “Le caserme? Secondo tanti addetti ai lavori e anche chi fa politica dal Parlamento e non, il Ministro Nordio “non si rende conto di quello che sta dicendo su tante tematiche e da parte sua ma anche del Governo non c’è la minima voglia né l’interesse di risolvere per bene questa situazione, nel frattempo i penitenziari sono in situazioni allucinanti, con gente costretta a stare in pochissimo spazio, è inumano, è una vergogna che in uno stato democratico e civile come il nostro si consenta una situazione e delle condizioni di questo genere” Si è proposto di usare le caserme, come avrebbe ribadito lo stesso Nordio, ma Giachetti, che conosce bene la situazione, replica stizzito a questa proposta da parte di chi “conosce poco la condizione”, anche perché “se ci sono già adesso pochi agenti di polizia penitenziaria, chi va nelle caserme a controllare? Ma per favore, quando si dicono queste cose è perché non si conosce bene la vicenda e si parla tanto per farlo”. Tutti sedati per resistere alla prigione di Margherita Abis L’Espresso, 22 agosto 2025 Un recluso su cinque fa uso di psicofarmaci, più di uno su tre di ipnotici. La salute mentale dietro le sbarre non è un diritto. E i farmaci diventano la soluzione per tutto. Il 12 per cento della popolazione detenuta in Italia presenta una diagnosi psichiatrica grave. È una percentuale in aumento e fotografa una delle criticità più profonde e strutturali del sistema penitenziario: la gestione della sa- Iute mentale. Il disagio psichico in carcere si muove lungo due direttrici. Da una parte ci sono persone che entrano già con patologie pregresse, spesso legate a condizioni di marginalità, dipendenza, povertà. Dall’altra, detenuti che sviluppano disturbi all’interno dell’istituto, come risposta all’impatto psicologico della reclusione. Secondo i dati raccolti da Antigone, l’associazione impegnata nella tutela dei diritti nel sistema penitenziario, oltre il 20 per cento dei detenuti assume psicofarmaci: antidepressivi, stabilizzatori dell’umore, antipsicotici. Spesso utilizzati non soltanto a scopo terapeutico, ma anche come strumento di redazione collettiva. A Modena questa quota arriva al 44 per cento, a Trento tocca il 70 per cento. Il 40 per cento della popolazione carceraria fa uso di sedativi o ipnotici. In assenza di alternative, la somministrazione di farmaci diventa la risposta standard, a volte l’unica. L’assistenza psicologica resta carente: 6,76 ore settimanali di psichiatra ogni 100 detenuti, 20,6 per gli psicologi. Troppo poco per un supporto vero: i colloqui sono brevi, i percorsi discontinui, i casi gravi lasciati a sé. In molte strutture, la presenza di personale specializzato si limita a pochi giorni - o persino a poche ore - alla settimana. Alle carenze sanitarie si sommano quelle strutturali. Più di un terzo degli istituti visitati da Antigone è stato costruito prima del 1950, molti addirittura prima del 1900. Celle roventi in estate e gelide di inverno, senza raffrescamento né riscaldamento, acqua calda assente in quasi metà delle strutture, un quarto delle carceri senza spazi per attività o lavoro. Il sovraffollamento completa il quadro. Al 30 aprile 2025, i detenuti in Italia erano 62.000, contro una capienza regolamentare dì circa 51.000 posti. In alcuni istituti, come San Vittore a Milano, il tasso di affollamento ha superato il 220 per cento. Il risultato è una spirale che si autoalimenta. Nel 2024 sono stati 91 i suicidi in carcere, il numero più alto mai registrato in Italia. Nei primi sette mesi del 2025 siamo già a 47. Giovani, stranieri, in attesa di giudizio, accusati di reati minori: è questo l’identikit più frequente. Poche settimane fa, a San Vittore, un 22enne si è impiccato in cella. I suicidi si concentrano soprattutto nel primo periodo di detenzione, quando l’impatto è più violento e l’assistenza minima. Alla radice c’è anche una questione di impostazione: il carcere italiano fatica a rispondere alla funzione rieducativa prevista dall’articolo 27 della Costituzione. Il modello teorico punta al reinserimento sociale, ma la quotidianità racconta altro, e la logica punitiva continua a prevalere su quella riabilitativa. Eppure, modelli alternativi esistono, anche in Italia. Il carcere di Bollate, nel Milanese, si fonda su un impianto partecipativo. I detenuti lavorano, studiano, gestiscono un ristorante aperto al pubblico, collaborano alla redazione di un giornale interno. Il principio è quello del “carcere aperto”, basato sulla responsabilizzazione e sull’acquisizione di competenze. I tassi di recidiva sono bassissimi (si attestano sul 7 per cento), le condizioni di vita sono migliori, le tensioni più contenute. Ma estendere esperienze simili richiede risorse, personale e una visione politica stabile. Guardando all’Europa, mentre molti Paesi si orientano verso carceri sempre più grandi, crescono anche modelli di detenzione su piccola scala che mettono in discussione l’efficacia delle grandi strutture carcerarie. In Scandinavia, celle simili a stanze universitarie e relazioni fondate sulla fiducia tra detenuti e operatori contribuiscono a una recidiva inferiore al 20 per cento. In Norvegia e Svezia funzionano le open prison, fondate sul principio della responsabilizzazione. E la mappatura di Rescaled, rete europea che promuove il superamento del modello di detenzione tradizionale, mostra sviluppi anche altrove. In Belgio e Lituania, per esempio, si stanno diffondendo le transition house, strutture aperte, a basso livello di sicurezza, pensate per accompagnare i detenuti verso il rilascio. Un’alternativa concreta rispetto al modello punitivo ancora dominante in molti Stati americani (con le Supermax) o rispetto alle radici storiche del sistema carcerario moderno degli Usa. Come l’Auburn system, nato nello Stato di New York nel XIX secolo, che prevedeva che i detenuti lavorassero insieme in silenzio durante il giorno e fossero isolati durante la notte: secondo questa impostazione, il lavoro e la disciplina erano considerati strumenti di redenzione. Un altro archetipo storico è il Pennsylvania system, sviluppato nell’Eastern State Penitentiary di Philadelphia dal 1829 e poi replicato in diverse strutture. Il modello si basava sull’isolamento totale: ogni detenuto in una cella singola, privo di contatti umani, con l’unica compagnia di una Bibbia. L’edificio stesso rifletteva questa visione, con sette bracci disposti a raggiera intorno a una torre centrale di controllo. L’idea (di impronta religiosa) era che solitudine e silenzio avrebbero favorito il pentimento. Ma già all’epoca emersero gli effetti devastanti sull’equilibrio psichico dei detenuti. Molti di loro hanno raccontato anni dopo che quel modello generava rabbia e frustrazione, e non favoriva il reinserimento sociale. Col tempo, il carcere venne trasformato, le celle diventarono collettive e nel 1971 l’Eastern State Penitentiary fu chiuso; oggi ospita un museo per sensibilizzare proprio sul sistema di giustizia penale. Ma l’isolamento non è affatto un relitto del passato. In Italia è ancora utilizzato - per ragioni disciplinari, sanitarie o di protezione - e spesso si trasforma in punizione vera e propria. I provvedimenti (limitati a un massimo di 15 giorni consecutivi) sono in aumento. Le celle dell’isolamento sono anguste, senza arredi, con scarsa ventilazione. In alcuni casi i detenuti restano senza materasso, nudi, senza bagno. Gli effetti sono devastanti: ansia, depressione, disturbi del sonno, regressione cognitiva, sociofobia, perdita del senso del tempo. In queste condizioni, parlare di rieducazione è pura retorica. Il tasso di recidiva in Italia è del 68 per cento. Più di due detenuti su tre tornano a delinquere dopo aver scontato la pena. Nonostante le iniziative e le sollecitazioni sul tema - come in questi giorni gli scioperi della fame di magistrati e legali per i diritti dei detenuti - nulla si smuove. Le riforme non mancano, ma faticano ad andare oltre la carta. Il decreto carceri, approvato per ridurre il sovraffollamento e migliorare le condizioni di detenzione, è ancora fermo dopo più di un anno. A pesare non è solo l’inerzia istituzionale, ma anche un clima culturale ostile. L’opinione pubblica vede il carcere come un mondo distante, che riguarda solo chi è ai margini, “chi ha sbagliato” e quindi deve pagare. Di conseguenza, chi governa è riluttante a investire. Indulti per reati minori, più misure alternative, puntare su rieducazione e reinserimento, formare più personale, riqualificare gli spazi: tutto questo richiede soldi, tempo, volontà politica, e non porta consensi. Ma i diritti delle persone detenute non sono in contrasto con quelli dei cittadini liberi, anzi, vanno di pari passo. Un carcere che punisce senza rieducare è un loop che si ripete: chi esce, spesso torna al punto di partenza. E le conseguenze ricadono su tutti. Tossicodipendenti senza recupero di Camillo Cantarano e Delia Cascino L’Espresso, 22 agosto 2025 Tanto la premier, quanto il ministro Carlo Nordio nel suo piano carceri di luglio hanno ribadito l’impegno ad agevolare il passaggio dei detenuti tossicodipendenti alle comunità di recupero. Ma, in assenza di altri interventi, le Comunità terapeutiche non sono pronte. Questione di cifre e non solo: la platea di tossicodipendenti in carceri idonee per un percorso di cura in comunità comprendeva il 29 per cento del totale a fine 2023, ovvero 17.400 detenuti circa. I posti letto disponibili nelle strutture, però, sono 13.000. “Dire: faremo una lista di strutture per ricevere i detenuti, non basta - dice Massimo Barra, direttore della fondazione Villa Maraini, che si occupa di terapia e cura di dipendenze a Roma dal 1976 - noi non chiudiamo mai, abbiamo un presidio che può garantire cure 24 ore al giorno sette giorni su sette a 30 persone, ma ci mancano risorse. Per anni, dalla Regione Lazio abbiamo ricevuto 50 euro al giorno per paziente, una cifra non sufficiente. Adesso servono risorse e serietà: se il governo volesse far uscire e curare 200 persone si potrebbe fare, basta volerlo”. Andrebbe potenziato il numero dei posti letto e andrebbero create le condizioni perché la custodia sia garantita in condizioni di sicurezza per tutti. Nel corso degli anni, il numero di consumatori di cocaina è aumentato in maniera esponenziale, e questo ha avuto ripercussioni sulla popolazione carceraria: “Nel crimine organizzato ci sono molti cocainomani, potenzialmente violenti e con una soglia del dolore molto alta. Queste persone sono più difficili da gestire in sicurezza per un operatore”, afferma Marco Strano, criminologo e direttore del dipartimento di psicologia militare del sindacato dei carabinieri Unarma. Il rischio, per un settore sottofinanziato, non è tanto quello delle evasioni (“Non conviene al detenuto, perderebbe i suoi benefici”, dice Barra), quanto la mancanza di sorveglianza all’interno delle comunità. Se è vero che i controlli sono all’ordine del giorno, diverse strutture si sono trovate impreparate a gestire ospiti socialmente pericolosi: come Dorian Petoku, inviato dalla Corte d’Appello di Roma nella comunità San Pio di Nola. Malgrado la condanna a 12 anni per traffico internazionale di droga il narcotrafficante, ora a Dubai in attesa di estradizione, aveva trasformato la permanenza in comunità in una vacanza. Libero di comunicare con l’esterno, si concedeva il lusso di far arrivare anche cibo per cene gourmet. Del resto a Rebibbia, a Roma, tra il 2017 e il 2024 era stato creato un “sistema” per rilasciare perizie di tossicodipendenze false ai detenuti. Un tema che lo psichiatra Corrado De Rosa conosce bene: “Chi ha una dipendenza e un legame con la criminalità, potrebbe usare la comunità come una zona grigia per continuare a delinquere con meno restrizioni”. Pur favorevole a una valorizzazione delle strutture di recupero, De Rosa pone una condizione: “Va bene, ma solo dopo aver messo in piedi un sistema di controlli sulla gestione delle terapie, sull’efficacia dei percorsi di recupero e sulla selezione dei pazienti”. Altrimenti, si rischia di ripetere il sistema dei “falsi folli” degli anni ‘70-’80, come per i killer di Cosa Nostra, i membri della banda della Magliana o il camorrista Michele Senese. La molla che ha spinto a imboccare la deflazione carceraria è la percentuale abnorme del sovraffollamento carcerario: 62.000 detenuti contro 51.000 posti, di cui 4.500 neppure disponibili. Le percentuali variano, ma anche stando al dato del ministero della Giustizia, i penitenziari sono pieni al 133 per cento. Vanno alleggeriti, ma poiché di detenuti si tratta, spostarli in comunità non è solo questione di accoglienza ma anche di uomini. “Se un detenuto deve uscire per una visita medica, va accompagnato da un operatore. Questo ci lascia sguarniti. La Regione ci paga solo 150 euro al giorno per l’accompagnamento. Certo, se dovessimo guardare l’aspetto economico, non faremmo, questo lavoro, ma abbiamo un atteggiamento pragmatico, siamo terapeuti. E lo shock della realtà è quotidiano per noi”. Come dire: non bastano i proclami. Emergenza carcere e dipendenze, il modello “Nave” e la rete tra Terzo settore e istituzioni di Paola Canevini* Corriere della Sera, 22 agosto 2025 Ogni anno nelle 190 carceri italiane transitano circa centomila detenuti. Oltre al sovraffollamento, l’emergenza del disagio psichiatrico. Il dato è aggiornato al 31 luglio scorso: 62.569 le persone detenute quel giorno nelle 190 carceri d’Italia. Complessivamente - tra quelle che ci entrano, quelle che ne escono e quelle che ci restano - ogni anno ve ne transitano circa centomila. Più di una su tre è detenuta per reati legati alla droga e una quantità compresa fra il 35 e il 50 per cento ha problemi legati all’uso di sostanze. A questo si sovrappone l’uso di psicofarmaci prescritti in carcere: secondo il Rapporto Antigone 2025 quasi il 45% dei detenuti assume sedativi o ipnotici, due su dieci prendono antidepressivi, stabilizzanti dell’umore o antipsicotici. Il sovraffollamento aggrava tutto con 748 posti a San Vittore per oltre 1.100 detenuti, 918 posti Opera per più di 1.300 persone effettive, 1.267 a Bollate per quasi 1.400. Più della metà dei ristretti, per esempio a San Vittore, ha problemi di disagio psichico o veri e propri disturbi psichiatrici. Molti portano con sé traumi legati a storie di migrazione. Una recente delibera regionale ha previsto per San Vittore l’attivazione di un reparto con 24 posti dedicato a detenuti con diagnosi psichiatriche ad assistenza intensificata. I posti di cui avremmo avuto bisogno solo nel primo trimestre 2024 sarebbero stati 126. E i numeri continuano a crescere. Il progetto punta a favorire la consapevolezza della malattia, autonomia e capacità sociali preparando i detenuti alla presa in carico sul territorio dopo la scarcerazione. È fondamentale che i nuovi progetti assistenziali nascano come già avviene a San Vittore per “La Nave” - una Comunità terapeutica intramuraria per le dipendenze, con almeno 60 e fino a 70 pazienti in carico sui circa 500 complessivi del SerD a San Vittore - come progetti incardinati nell’organizzazione assistenziale del Sistema socio Sanitario Regionale. Come realtà con personale sanitario dedicato e motivato a trovare nuovi approcci di cura. Le soluzioni infatti non sono facili. La salute mentale, già fragile e complessa da affrontare sul territorio, si scontra in carcere con condizioni che moltiplicano le criticità. E si sommano problemi: oltre alle patologie psichiatriche, alle dipendenze da sostanze illegali, spesso arrivano persone già con terapie psicofarmacologiche complesse. Alcuni detenuti chiedono di mantenerle anche quando non necessarie arrivando a minacciare o praticare atti di autolesionismo. Per affrontare il fenomeno è stato avviato un Prontuario Terapeutico condiviso tra tutte le realtà penitenziarie con Regione Lombardia. Si aggiungono poi nuove criticità, come l’uso improprio delle bombolette di gas butano per cucinare: alcuni detenuti le inalano. La proposta è sostituirle con piastre a induzione, ma la rete elettrica delle carceri spesso non è adeguata. La soluzione non può che passare attraverso un reale lavoro di rete. Tra psichiatri, psicologi, educatori, assistenti sociali, personale infermieristico, personale penitenziario. E le associazioni del Terzo settore, il volontariato. Da portare avanti anche dopo la scarcerazione: momento ancora più difficile di quello dell’ingresso in carcere, in molti casi, visto che per quanto possa sembrare assurdo ci sono persone - soprattutto migranti - che all’interno delle carceri ricevono più cure che fuori. Quello che serve è una presa in carico multidisciplinare, chiara e coordinata, tra tutte le istituzioni coinvolte. E una politica che garantisca il diritto alla cura per tutti, dentro e fuori. Anche per la sicurezza di tutti: perché una persona seguita e curata, dentro e fuori dal carcere, è anche una persona meno pericolosa. Per sé e per gli altri. *Professoressa ordinaria Università di Milano, direttrice Dipartimento salute mentale e dipendenze di Asst Santi Paolo e Carlo L’umanità dissolta e sepolta nelle carceri e nell’abisso di Gaza di Giuseppe Tiani L’Identità, 22 agosto 2025 Le Carceri e Gaza luoghi d’umanità dissolta. Le carceri domestiche, istituzioni nate per rieducare ridotte a discariche sociali, il lavoro dei poliziotti penitenziari sempre più impegnativo e massacrante. Le celle sono alveari claustrofobiche, turni per respirare aria in un grigio cortile. Dove lo Stato e la civiltà del diritto dovrebbe correggere, ci si abbrutisce. Gaza rappresenta l’abisso in cui è precipitata l’umanità, ove la segregazione ha i colori dello sterminio del popolo della Striscia, la colpa, esistere sotto il cielo sbagliato, innocenti pagano le barbarie subite dal popolo israeliano. Una prigione priva di sbarre, sostituite dall’assedio e dall’acqua negata, corpi sepolti tra le macerie per disfarsi di ingombranti reclusi, non è retorica affermare che non si può ridurre a residuo da scartare una popolazione, cifra dell’equilibrio dei poteri. Gaza e carceri non sono la stessa cosa, ma protagoniste inconsapevoli nel gioco degli specchi dell’umanità perduta, lasciate scivolare nella burocratica dell’indifferenza, entrambe testimonial della fragilità umana, quando vita e libertà sono piegate alla logica del potere non hanno più valore. Nel carcere disumanizzato il detenuto non è più cittadino, in Palestina non è più un uomo. Carceri e Gaza antico problema, si discute di riforme penitenziarie e tregue temporanee, ma dovremmo domandarci quale futuro ci resterà, rassegnati dalla normalità dell’abisso. Il fil rouge che lega le patrie galere alla Striscia di Gaza e la perduta umanità. Nonostante il principio fissato dall’articolo 27 della Costituzione, sulla funzione “rieducativa” della pena, il carcere è diventato un luogo disumano, in quelle condizioni si odia di più. Il ceto politico nella sua interezza parla e il sovraffollamento resta, come a Gaza si chiude un occhio, e pure due davanti ai massacri in diretta. Palazzi rasi al suolo, ospedali bombardati, bambini muoiono di fame, pedine sacrificabili di una scacchiera avvolta dalla nebbia. Carcere e Gaza, mondi lontani ma non troppo, in entrambi i casi gli esseri umani sono fastidi da nascondere o eliminare. Qui si comprimono nelle celle, là si riducono in macerie. Cambia la narrazione ma non la sostanza, la dignità e il rispetto per la vita sono materiale di scarto. Eppure, continuiamo a credere di essere un continente civile, un occidente “democratico” infatti sotto gli occhi di tutti, subisce la colonizzazione dell’islam, il cui credo e principi sono incompatibili con il nostro modello di società e le nostre leggi. Ma se il carcere è diventato una discarica e Gaza un cimitero a cielo aperto, la civiltà smarrita non è più di casa in Europa. Gianni Alemanno, ha scoperto che le carceri italiane sono invivibili, una denuncia roboante, come se avesse rivelato il terzo segreto di Fatima. In realtà tutti sanno, come denunciano da tempo immemore il Sappe e altre sigle della polizia penitenziaria, per celle stipate come vagoni bestiame, suicidi non solo di detenuti ma anche di poliziotti penitenziari. Ma se lo afferma Alemanno un ex barone della politica, la notizia prende quota e fondata. Ci commuoviamo a intermittenza per il disumano sovraffollamento carcerario, e per un popolo che a poche ore di volo è stipato in una prigione a cielo aperto chiamata Gaza. Lì non serve la denuncia di un ex sindaco e ministro, ci sono macerie imbrattate del sangue innocente dei bambini estratti dai palazzi demoliti, di famiglie cancellate in diretta ma quella non è un’emergenza umanitaria è “un’operazione militare” di antiterrorismo. E così, mentre Alemanno riscopre la compassione, l’occidente pratica l’ipocrisia, il detenuto è materiale di scarto, il palestinese un fastidio da rimuovere. Due facce di un’umanità diventata optional, ma sempre utile per la strategia politica del momento. In molti, specie i più snob e salottieri, continuano a raccontarsi che siamo una democrazia garantista, una civiltà evoluta che rispetta le differenze di genere e la contaminazione culturale, quindi anche il burqa e veli vari, nonostante privino le donne della loro libertà e femminilità. Poi, quando servirà ci sarà un Alemanno a ricordarci che le carceri sono disumane e che a Gaza anche gli innocenti periscono, fingeremo ancora una volta di stupirci e indignarci, non costa nulla e prendere iniziative costerebbe troppo. Ma ci definiamo “culla della civiltà e del cristianesimo”, i cittadini credenti si battono il petto in chiesa la domenica invocando la misericordia, leader e politici vestiti di nero ai funerali di Papa Francesco recitavano il Padre Nostro, ma varcata la soglia della chiesa e terminato il rito funebre il Vangelo e posato nel messale, la compassione evapora davanti alla disumanità delle carceri e delle macerie di Gaza. La nostra decadente civiltà, ridotta a stipare corpi nelle carceri o seppellirli sotto le macerie di Gaza. L’Anm arruola Gratteri: sarà lui il frontman anti-Nordio di Valentina Stella Il Dubbio, 22 agosto 2025 Il procuratore di Napoli contro la riforma: secondo le correnti (tutte o quasi) sarà un’arma preziosa nella campagna referendaria dei magistrati per il “No” alla separazione delle carriere. Nicola Gratteri sarà o no una risorsa per la campagna comunicativa dell’Anm contro la separazione delle carriere? La risposta è sì, anche a parere dei suoi colleghi magistrati, fatte alcune eccezioni che vedremo. Ma prima di tutto arriva il suo pensiero, a corroborare questa nostra tesi: quest’anno non solo ha disertato per la prima volta nella sua carriera l’inaugurazione dell’anno giudiziario, ma ha altresì aderito formalmente, pur rimanendo nel proprio ufficio a lavorare, allo sciopero dell’Anm del 27 febbraio scorso. Secondo il procuratore di Napoli, da un lato la magistratura avrebbe subìto troppi attacchi dal governo e dalla maggioranza di turno, dall’altro lato la riforma costituzionale targata Carlo Nordio sarebbe un falso problema. Dunque Gratteri si è schierato con l’Anm, e ha “ringraziato” il guardasigilli per essere riuscito a ricompattare la magistratura come non mai. È vero però che il pm antimafia in diverse interviste si è espresso a favore del sorteggio dei componenti togati e laici di Palazzo Bachelet: “C’è l’esigenza di una riforma del Csm, cioè dell’elezione dei suoi componenti: in questo modo si eliminano quasi totalmente certe anomalie delle correnti che, in certi momenti storici, abbiamo visto non funzionare”, ha ripetuto spesso. Ma nell’approccio di Gratteri prevale la contrarietà alla riforma: il suo timore è che la separazione di giudici e pm preluda al passo successivo, ossia la sottoposizione della magistratura requirente all’Esecutivo. Previsione da sempre negata, in realtà, dai fautori della modifica dell’ordinamento giudiziario. Considerate queste premesse, l’ex procuratore di Catanzaro che sogna di passare alla storia con la stessa potenza del ricordo di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, pur se non ingaggiato ufficialmente dall’Anm rappresenta, e lo sarà probabilmente ancora con più forza di qui in avanti, uno dei frontman più incisivi nella campagna referendaria della prossima primavera. Ne sono convinti anche alcuni suoi colleghi dell’Anm i quali, pur mantenendo l’anonimato, ci dicono: “Meglio averlo che non averlo”, in questo delicato momento per la magistratura, in cui tutto è utile pur di rafforzare il “fronte” antagonista a Meloni, Nordio e Mantovano. Un’altra toga sostiene che il vertice della Procura partenopea “può rappresentare certamente una risorsa, insieme anche ad ex magistrati come Edmondo Bruti Liberati, Armando Spataro, Gianrico Carofiglio, che in televisione e sulla stampa riescono a far passare il pensiero condiviso dalla quasi totalità della magistratura”. Infatti, benché “Gratteri possa essere a favore del sorteggio - aggiunge un altro magistrato- per il resto, ossia per il 95 per cento dei temi riguardanti la giustizia, è d’accordo con noi. Quindi ben venga la sua esposizione mediatica”. Invece per Andrea Reale e Natalia Ceccarelli, che rappresentano il gruppo Articolo Centouno nel Comitato direttivo centrale della Anm, Gratteri non sarebbe né un vantaggio né un pericolo, per la campagna del ‘sindacato’ delle toghe: “Gratteri è fedele a se stesso, e dice il vero a proposito di Palamara e del fatto che non è cambiato niente dopo quello scandalo. Pecca in coerenza perché recentemente ha mostrato di non ritenere il sorteggio un passaggio imprescindibile del rinnovamento etico, concentrando la propria critica sulla separazione delle carriere. Se è un pericolo per l’Anm? No: l’Anm, sul tema Palamara e post Palamara, si limita a non dire e a non fare niente”. Insomma Gratteri, seppur battitore libero e magistrato anti-correnti, non dispiace alle stesse correnti, in questo particolare momento. I gruppi, tranne come abbiamo visto quello dei Centouno, sono infatti consapevoli che il pm antimafia è gradito a larghi settori dell’opinione pubblica, giacché negli anni, anche grazie a media compiacenti che non gli hanno mai chiesto conto delle sue indagini, è riuscito ad accreditarsi come un magistrato di trincea, che combatte i poteri forti e criminali, anti-sistema, che non manda a dire le cose. In assenza quasi totale di contraddittorio. La nota di Petrelli (Ucpi) dopo le parole di Gratteri sul carcere - Ieri è arrivata anche una nota del presidente dell’Unione Camere penali, Francesco Petrelli, in merito all’intervista rilasciata mercoledì dal procuratore di Napoli a Repubblica: “Indigna che una questione grave e seria come quella dei suicidi in carcere venga affrontata dal dott. Gratteri con tanta superficialità: quella poco credibile interpretazione dei fatti secondo cui sarebbero le angherie dei boss causa del drammatico fenomeno costituirebbe infatti materia di reato su cui indagare e non su cui costruire fumose teorie criminologiche, magari ricche dell’appeal mediatico necessario a un personaggio televisivo, ma atte a nascondere le reali e tragiche cause ambientali di quella diffusa disperazione che conduce al suicidio, cause che sono invece sotto gli occhi di tutti”, ha concluso il leader dei penalisti italiani. Le manette come condanna anticipata, abuso bandito in Europa ma non in Italia di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 22 agosto 2025 Il dibattito sull’impiego delle misure di coercizione nei confronti degli imputati e, in particolare, sull’uso delle manette durante i trasferimenti e le udienze tocca uno dei punti più delicati dello Stato di diritto contemporaneo: la concreta attuazione del principio di presunzione d’innocenza. Non si tratta di un dettaglio ma di una questione che investe la legittimazione stessa del sistema penale, il rapporto tra potere pubblico e dignità individuale e, in ultima analisi, la credibilità della giustizia agli occhi dei cittadini e delle istituzioni sovranazionali. L’attenzione sollevata dalle istituzioni europee nei confronti dell’Italia, come sottolineato di recente anche da osservatori e commentatori di ogni forza politica, evidenzia uno scarto evidente tra l’impianto normativo - che già recepisce le garanzie poste dal diritto sovranazionale - e le prassi quotidiane degli apparati giudiziari e penitenziari. In altri termini, il problema non è tanto nella norma, quanto nella rappresentazione della giustizia: le immagini di imputati tradotti in aula ammanettati o sottoposti a coercizioni visibili rischiano di produrre nell’opinione pubblica un pregiudizio di colpevolezza, trasformando la misura cautelare da strumento di garanzia processuale a simbolo di stigma sociale. Al centro della vicenda v’è la direttiva Ue sulla presunzione d’innocenza e le osservazioni rivolte all’Italia dal commissario alla Giustizia Michael McGrath, che evidenziano come la traduzione degli imputati in udienza in stato di detenzione - spesso ammanettati - possa costituire violazione delle garanzie difensive e dei diritti fondamentali. Il nodo italiano appare chiaro: mentre altri ordinamenti tendono a ridurre al minimo l’impatto visivo delle misure cautelari, il nostro sistema lascia ampio margine a prassi che producono stigma e ledono la neutralità processuale. Le raccomandazioni dell’Unione europea non sono isolate: già nel 2018 la Corte Edu di Strasburgo (caso Svinarenko e Slyadnev c. Russia) aveva condannato la pratica di esporre gli imputati in gabbie o con mezzi coercitivi sproporzionati, richiamando tutti gli Stati al rispetto della dignità. Cosa avviene altrove? In Francia la normativa (Code de procédure pénale, artt. 803 e ss.) vieta esplicitamente di esporre l’imputato in manette o con altri strumenti di coercizione fisica, salvo in caso di necessità assoluta per ragioni di sicurezza o pericolo di fuga. Il Conseil constitutionnel ha più volte ribadito che la dignità della persona e la presunzione d’innocenza impongono riservatezza: per questo motivo, la diffusione di immagini di imputati ammanettati è strettamente limitata. I processi mediatici sono contrastati con severe sanzioni per chi pubblica foto non autorizzate. La Germania applica il principio di proporzionalità in modo stringente. Le manette sono consentite soltanto durante il trasferimento se e solo se sussistono motivi specifici di pericolo, e devono essere rimosse appena l’imputato entra in aula. La Bundesverfassungsgericht ha chiarito che l’uso delle coercizioni fisiche non può mai tradursi in un “marchio visibile” di colpevolezza. La scena processuale deve salvaguardare l’immagine neutra dell’imputato, evitando suggestioni negative nei confronti dei giudici popolari. In Spagna, la Ley de Enjuiciamiento Criminal disciplina con precisione l’uso delle esposizioni pubbliche. Gli imputati vengono tradotti in aula generalmente senza manette, che vengono utilizzate solo durante il trasporto. Il Tribunal Constitucional ha affermato che “la sicurezza non può prevalere sulla dignità della persona”, imponendo al potere giudiziario un costante bilanciamento tra esigenze dell’ordine pubblico e tutela delle libertà. Negli Stati Uniti, invece, la logica è spesso opposta. La cosiddetta perp walk - la camminata pubblica dell’arrestato tra i poliziotti, ammanettato e sotto gli obiettivi delle telecamere - è un rito mediatico, in particolare a New York, dove i procuratori l’hanno usata come strumento di pressione sociale e comunicativa. Negli anni, associazioni per i diritti civili (come l’Aclu) hanno denunciato la spettacolarizzazione delle manette come una forma di “pena anticipata”. Nel Regno Unito, l’imputato non deve mai comparire davanti alla giuria in manette o in divisa carceraria. Il Criminal Procedure and Investigations Act e le prassi consolidate garantiscono che le coercizioni siano invisibili al pubblico, salvo rischi eccezionali. Qui l’attenzione è posta sull’imparzialità della giuria: qualsiasi elemento che possa influenzarne la percezione è considerato una violazione del fair trial. Il dibattito aperto da un articolo con cui Marco Travaglio, lo scorso 5 agosto, ha criticato le posizini della Commissione Ue sul tema, mette in luce una tensione di fondo: l’Italia rischia di restare un unicum in Europa per la persistenza di pratiche simboliche che trasformano le aule di giustizia in palcoscenici di colpevolezza anticipata. La questione non è meramente formale, si ripete: tocca la sostanza della civiltà giuridica. Un autentico garantismo non si misura soltanto nelle leggi, ma nelle immagini quotidiane che il sistema offre di sé. Francia, Germania e Spagna ci ricordano che la dignità dell’imputato è parte integrante del processo equo; Stati Uniti e Regno Unito dimostrano che la dimensione comunicativa può incidere profondamente sull’equilibrio tra giustizia e opinione pubblica. Per l’Italia, il tempo della riforma non è più rinviabile: la presunzione d’innocenza, per essere reale, deve essere visibile e tangibile in ogni circostanza. *Avvocato, Direttore Ispeg “Stop alla gogna”. I penalisti milanesi contro stampa e procura di Ermes Antonucci Il Foglio, 22 agosto 2025 “L’inchiesta milanese sull’urbanistica rappresenta il requiem della presunzione di innocenza. Se di fronte a provvedimenti come quelli del tribunale del Riesame non si riesce più neanche a fermarsi un momento per considerare che forse l’impostazione della procura può essere sbagliata, ma anzi si mettono in piazza altre chat che proprio quel giorno vengono depositate dai pm, significa che c’è una disaffezione totale verso quel principio costituzionale”. A parlare al Foglio è l’avvocato Federico Riboldi, segretario della Camera penale di Milano, che nei giorni scorsi ha preso posizione con un comunicato stampa contro il grande circo mediatico-giudiziario sviluppatosi attorno all’indagine sull’urbanistica. Nel comunicato si sottolinea innanzitutto come molti degli indagati, compreso il sindaco milanese Beppe Sala, abbiano appreso di essere sotto indagine o addirittura di essere destinatari di una richiesta di arresto ai domiciliari o in carcere leggendo i giornali, ancor prima che i provvedimenti venissero notificati ai legali. “Una cosa inaccettabile”, dice Riboldi. “Non è accettabile che una persona venga a sapere di essere indagata dai giornali”, dice il segretario della Camera penale milanese. Anche perché si dimenticano quali sono gli effetti di questo trattamento mediatico sulle persone coinvolte nelle indagini. “Lo denunciamo da tempo. Tutti dovrebbero essere consapevoli che se si rappresenta la posizione dell’accusa come verità, nel momento in cui l’impostazione della procura viene sconfessata, dal Riesame o nel processo, ormai sono stati prodotti danni spesso irreparabili sulle persone, sulle aziende e sugli altri soggetti indirettamente coinvolti. La stampa ha degli obblighi deontologici molto precisi che dovrebbe rispettare”. “Dovrebbe essere chiaro ai giornalisti in primo luogo e all’opinione pubblica in generale - aggiunge Riboldi - che durante le indagini ciò che emerge è la posizione di una parte, cioè l’accusa. Quando c’è un provvedimento di un giudice terzo, come quello del Riesame, che mette in discussione l’impostazione accusatoria si dovrebbe dare atto di questo, e non continuare a rimanere piegati supinamente sulle posizioni dei pm”. Nel caso dell’indagine sull’urbanistica, i pubblici ministeri non si pongono neanche problemi a rilasciare interviste ai giornali. “Penso che i magistrati titolari del fascicolo farebbero meglio a non rilasciare dichiarazioni in una fase così delicata come quella delle indagini. È la stessa normativa vigente peraltro a prevederlo”, nota Riboldi. Intanto, dopo la grancassa mediatica, ben cinque ordinanze di arresto su sei (quella nei confronti di Catella sarà valutata nelle prossime ore) sono state annullate dal Riesame. “Le misure cautelari personali, soprattutto quelle detentive, rappresentano l’extrema ratio. Dopo un anno e mezzo di indagine, ben conosciuta da tutti quanti, in cui ci sono state anche interlocuzioni tra il comune e la procura, immaginare che ci fosse la necessità di arrestare queste persone mi ha sorpreso. Il Riesame ha confermato questa mia impressione. Evidentemente il principio di extrema ratio non è stato rispettato”. La procura ha detto che farà ricorso in Cassazione. “Magari prima di annunciare ricorsi sarebbe meglio aspettare di leggere le motivazioni del tribunale del Riesame. Invece c’è una sorta di riflesso pavloviano: si è così convinti delle proprie tesi che anche di fronte a una loro smentita non si prende neanche in considerazione l’ipotesi di rivederle. L’indagine andrà avanti, si arriverà eventualmente a processo e si vedrà se quelle tesi sono fondate o meno. Ma non si può risolvere tutto nella fase delle indagini con i provvedimenti cautelari”, conclude Riboldi. Caro Saviano, le garanzie processuali non sono trappole di Francesco Petrelli* L’Altravoce, 22 agosto 2025 Dopo che alcuni imputati eccellenti erano stati scarcerati a causa della decorrenza dei termini massimi di custodia cautelare, Roberto Saviano ha scritto che “è uno scandalo che i boss stiano fuori dal carcere”, aggiungendo che è altrettanto scandaloso “che in tre anni di processo non si sia arrivati a sentenza”. Tale scandalo, secondo Saviano, sarebbe dovuto alle non meglio identificate “falle di un sistema normativo confuso”. Credo che sia magari banale, ma evidentemente necessario, ricordare che tutti i sistemi liberali, propri dei paesi democratici, come quello in cui speriamo di vivere, prevedono alcuni fondamentali meccanismi di garanzia, come la prescrizione o la perdita di efficacia delle misure cautelari una volta decorso un certo periodo di tempo, necessaria ad evitare che i cittadini si vedano privati della libertà personale troppo a lungo in attesa di un accertamento definitivo della loro responsabilità. Ma occorre anche sottolineare che i termini scaduti, per via dei quali si grida allo scandalo, non sono quelli, ben più brevi, di una singola fase processuale, bensì i termini massimi complessivi, che come hanno chiaramente ed inconfutabilmente ricordato tanto la Corte Costituzionale che la Corte suprema di cassazione, non possono mai essere superati. Nulla di “confuso” sotto questo profilo. Quando, dunque, queste garanzie vengono attivate non vi è affatto motivo di scandalo, né ragione di insorgere contro le presunte “falle del sistema”. Si tratta, infatti, di un principio di garanzia (che i nostri vecchi codici inquisitori infatti non prevedevano) assolutamente irrinunciabile, salvo che non si intenda ripristinare un codice autoritario indifferente alla tutela della libertà individuale, contro i nostri stessi principi costituzionali. Ma c’è ancora qualcosa di importante che non è stato detto. Ed è che i tempi di quel processo che dura da quasi due anni sono stati esclusivamente scanditi da cinquantadue udienze dedicate interamente all’esame dei testi del PM e, dunque, impegnate esclusivamente a dare spazio all’accusa. E tanto poco le difese hanno contribuito allo “scandalo”, che hanno persino deciso di fornire il proprio consenso alla acquisizione dei numerosi interrogatori dei collaboratori di giustizia, rinunciando così al diritto di contro-esaminarli. Passaggi, questi, che sono evidentemente sfuggiti a chi ne ha scritto. Ma ciò che appare ancor più grave è che la responsabilità degli esiti di quel processo viene da Saviano attribuita agli avvocati difensori i quali, secondo l’Autore, “spingono la linea della dissociazione” dei loro assistiti. Una scelta che, lungi dall’essere apprezzata, viene stigmatizzata come “trappola semantica”: dietro quella scelta abdicativa si sarebbe inteso perseguire la perpetuazione del dominio criminale del clan camorristico. Inaccettabile accusa rivolta nei confronti dei difensori che vengono inammissibilmente additati quali complici dei presunti disegni criminali dei loro assistiti. Insomma, l’applicazione di un condiviso ed indiscutibile dispositivo normativo di garanzia diviene il pretesto per travolgere quel che rimane delle garanzie liberali del nostro codice e dell’immagine pubblica di quei professionisti che ostinatamente le promuove e le difende. L’elaborazione di teoriche strategie sociali e culturali, oggetto dell’articolo, non ha nulla a che fare con la cultura del processo e tanto meno con le finalità proprie di un sistema penale liberale, volto esclusivamente all’accertamento delle responsabilità individuali. Occorre che le regole del processo restino al riparo da simili elaborazioni sociologiche e dalle pretese ricostruzioni criminologiche, e che la loro rigorosa applicazione non venga opportunisticamente utilizzata in maniera scandalistica solo per affermare il proprio pensiero. Insomma, avventurarsi in tali incauti accostamenti ed in simili inaccettabili accuse significa aprire la strada ai peggiori detrattori del giusto processo. Si tratta, infatti, di garanzie delle quali usufruiscono, è bene ricordarlo, anche i cittadini più umili, estranei a qualunque organizzazione. Concludere, poi, affermando che “il processo penale italiano è diventato farraginoso e inefficace: strumento per chi ha potere e danaro”, significa aver forse perso di vista la realtà dei fatti, il numero - mai visto in passato - di ergastoli comminati, il numero di imputati e di condannati al 41-bis, le nostre carceri con i reparti dell’alta sicurezza sovraffollati anche essi: poveri e meno poveri, boss facoltosi e presi per sbaglio. Il nostro sistema processuale, sotto questo profilo, non appare né farraginoso, né inefficace”. È piuttosto da intendersi come una strepitosa macchina repressiva, produttiva non solo di un numero straordinario di ingiuste detenzioni, ma anche di quei terribili guasti che caratterizzano le drammatiche ed inumane condizioni delle nostre carceri, che sono, quelle sì, il vero scandalo del nostro sistema penale. *Presidente Unione Camere Penali Italiane Un anno senza Del Turco, riformista coraggioso abbandonato dalla sinistra nella trappola dei pm di Giuliano Cazzola Il Riformista, 22 agosto 2025 L’allora governatore dell’Abruzzo fu arrestato sulla base di “prove schiaccianti” che non uscirono mai. Il 22 agosto di un anno fa ci lasciava Ottaviano Del Turco. Il Grande Sonno lo liberò dalle sofferenze che lo avevano privato di una vita degna di essere vissuta. Ottaviano, però, continuerà a vivere nell’affetto di chi l’ha accudito lungo tutto il suo calvario. Aveva iniziato a morire ben 14 anni prima, in quel 14 luglio 2008 quando la polizia giudiziaria si era presentata, in ore antelucane, nel suo buen retiro di Collelongo (un paese abruzzese lungo una strada che termina lì) per arrestarlo sulla base di accuse gravissime e infamanti. Allora, Ottaviano era presidente della Regione Abruzzo. Questa fu l’ultima tappa di un cursus honorum folgorante. Accusato di corruzione dal boss della sanità privata abruzzese Vincenzo Angelini, a cui la giunta Del Turco aveva tagliato le unghie del potere sull’intero sistema sanitario regionale, Ottaviano si è sempre dichiarato innocente. Il suo avvocato Gian Domenico Caiazza raccontò come furono costruite le sue imputazioni. In pratica, fu il procuratore capo Nicola Trifuoggi a imboccare l’accusatore di Ottaviano. Dagli atti del processo risulta che Angelini era indagato per aver sottratto dei milioni di euro alle sue aziende. Il procuratore gli chiese se fosse stato costretto a compiere questo reato allo scopo di pagare la politica. E lo invitò a pensarci bene, perché in questo caso - da potenziale indagato - Angelini sarebbe divenuto persona offesa, vittima, concussa da Del Turco e sodali. Dopo qualche giorno - raccontò Caiazza citando i verbali - Angelini ritornò in Procura, per dire che a ben riflettere, oltre sei milioni di quei soldi che aveva ritirato in contanti dalle sue aziende li aveva versati alla vorace banda Del Turco. Poi aggiunse: “Sono qui questa sera perché mi è stato assicurato che sarei stato compreso per quello che più avanti dirò”. In sostanza, ad Angelini era stata promessa l’impunità se avesse eseguito gli ordini espressi sottoforma di consigli e suggerimenti. E lui si sentì autorizzato a rivendicarla con un avvertimento paramafioso. La vicenda giudiziaria di Ottaviano Del Turco è andata avanti per un decennio. Le Corti che hanno esaminato il caso hanno, in pratica, “sfogliato la margherita” dei reati di cui era accusato: corruzione, concussione, truffa, falso e associazione a delinquere. E, ovviamente, a ogni “petalo” strappato corrispondeva una riduzione della pena. Alla fine del calvario processuale, Del Turco fu ritenuto colpevole di “induzione indebita a dare o promettere utilità” e condannato in via definitiva. L’induzione era un reato di nuovo conio, introdotto dall’abominevole legge Severino nel 2012; pertanto non era in vigore al momento dei fatti. Ottaviano è morto malato, totalmente inabile, con mezzi economici modesti. Ci fu anche un tentativo di privarlo del vitalizio maturato da parlamentare: una decisione disumana che suscitò reazioni critiche diffuse, e che per fortuna fu accantonata per la vergogna. Non ho mai creduto nella colpevolezza di Ottaviano. Standogli vicino, ho potuto constatare che quando ti cade il mondo addosso - senza che tu riesca persino a capire il perché - la ferita più profonda non è inferta dalla privazione della libertà, dalla gogna che è l’altra faccia della medaglia della malagiustizia, ma dal non essere creduto e quindi evitato dalle persone con cui hai intrecciato la vita nella quotidianità. Purtroppo Del Turco non è il solo militante che, incappato nella trappola delle procure, fu abbandonato dalle istituzioni della sinistra. Persino dalla sua Cgil. Ottaviano era un laico, ma credo che gradirà la promessa contenuta in un brano evangelico: “Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli”. Bilanciare i poteri e i diritti: l’assioma a cui Vladimiro Zagrebelsky è rimasto fedele anche nella sfida dell’IA di Daniela Piana Il Dubbio, 22 agosto 2025 Ci deve essere un giudice a Strasburgo. C’è. Fa la differenza? Sì. La fa. In molti modi diversi. Formalmente, il ricorso alla Corte europea per i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali ha significato l’accadere di processi di trasformazione a più livelli delle giurisprudenze - e, per questo tramite, delle domande di giustizia - sia nei Paesi che aderiscono al sistema del Consiglio d’Europa sia in altre parti del mondo in cui si guarda a tale sistema. Si pensi in tal senso ai Paesi dell’America Latina. Fa la differenza sul piano del pensiero e sulla luce che, per via rifratta fra le strade che si dipanano nelle terre di mezzo alle nazioni, arriva a Roma. Vladimiro Zagrebelsky quella luce non solo la ha tenuta accesa ma ha declinato princìpi che risiedono nella dottrina e nella tradizione di lunghissimo periodo del costituzionalismo e dello Stato di diritto, in una ottica capace di combinare comparazione e visione empirico- funzionale dei principi stessi. Questo profilo comparato appare ad oggi massimamente necessario non tanto e non solo per ragioni di scienza, ma anche e soprattutto per ragioni di prudentia. Un pensiero critico rispetto alle fenomenologie nazionali, capace di vedere in cosa esse siano il riflesso epifenomenico di carsici processi di cambiamento che interessano i sistemi democratici, svuotando sovente le forme garanti di diritti da contenuti funzionalmente in grado di agire, sul piano concreto e pratico, per assicurare la fruizione degli stessi, in particolare di quelli processuali, è la grammatica di cui oggi ci pare la giurisdizione abbia massimo bisogno. Quello che gli studiosi definiscono backsliding, scivolata all’indietro, è più ostensibilmente una corsa in avanti verso forme inedite di sbilanciamento fra poteri, ovvero di dominazione di poteri che non sono soggetti a forme di accountability né all’interno né all’esterno dei regimi nazionali. Non stupisce che la ricerca di una ultima ratio di tutela orientata verso le Corti rappresenti una cifra comune all’esperienza dei Paesi nei nostri tempi. Eppure, gli anticorpi ci sono. E risiedono in quel connubio di pensiero ed azione, nutriti di una ferma adesione al principio teorico e alla ratio orientativa pratica del bilanciare sempre, innanzitutto nel contraddittorio e poi nella elaborazione delle strategie di azione di esecuzione delle decisioni del giudice - anche del giudice di Strasburgo - e infine a livello sistemico, fra poteri. Bilanciare non è possibile se non si danno almeno due egualmente capaci poli della bilancia. Bilanciare non è uno stato della materia: è una dinamica in perenne aggiustamento, ed è della dinamica, che occorre avere cura, perché occorre essere certi che una bilancia, ovunque, esista. Fra le moltissime elaborazioni di pensiero che si possono annoverare nella sua vasta azione ai livelli più alti della giurisdizione e della dottrina, preme ricordare il dialogo avviato nella sede di un convegno organizzato a Torino dalla Fondazione Fulvio Croce e dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati in materia di intelligenza artificiale. Tema sovraesposto mediaticamente oggi, sul quale ancora comparazione e attenzione concreta agli elementi della bilancia sono apparsi anche allora come prezioso caveat a qualsiasi forma di elaborazione progettuale e applicazione contestuale degli strumenti dell’IA nel mondo del diritto e della giurisdizione. Né apocalittico né integrato, bilanciato per postura epistemica ancor prima che per elaborazione scientifica, Vladimiro Zagrebelsky, e con lui voci di altissima scientia e prudentia, come Giovanni Canzio e Antoine Garapon - non sfugga l’interlocuzione comparata di cui Garapon è stato ed è internazionalmente riconosciuto promotore e costruttore - punta la luce su un aspetto. Nulla di nuovo forse vi è nell’IA se la si guarda come un inedito, certo dirompente, possibile, ma esemplificativo fenomeno di una tipologia di cambiamenti di paradigma che in fondo toccano la dimensione del potere. Per questa strada allora, se di potere si tratta, occorrono le ancore e occorrono le bilance. Le ancore perché il potere sia preventivamente ancorato a regole capaci di passare il test della estendibilità ad ogni forma di diversità di visione culturale e di situazione sociale, lo diciamo impersonalità e terzietà. Le bilance perché quando le regole vengono attuate nella concretezza e fallibilità della ragione umana, la ragionevolezza della dialettica e la salubre dinamica del contraddittorio possano mitigare rischi ed errori, senza pretesa di eliminarli ex ante, ma assicurando la certezza di individuarli e correggerli - a beneficio dell’apprendimento di tutti - ex post. Una luce che potrebbe essere fiaccola. A tutti, giuristi e non, farsene carico e portarla avanti. Puglia. Le carceri più sovraffollate d’Italia: quasi il doppio dei detenuti in ogni cella di Andrea Morrone L’Edicola del Sud, 22 agosto 2025 La Puglia si conferma la regione con il più alto tasso di sovraffollamento carcerario in Italia, con una percentuale che sfiora il 150 per cento. Secondo i dati aggiornati al 31 luglio, nelle undici strutture penitenziarie pugliesi si trovano 4.415 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 2945 posti effettivi. Circa il dieci per cento della popolazione carceraria pugliese è composta da cittadini stranieri, mentre le donne sono “soltanto” 215. Il sovraffollamento è comunque solo uno dei grandi mali che affliggono i nostri penitenziari, alle prese con carenze igienico-sanitarie, mancanza di supporto psicologico, assenza di progetti di inclusione socio-lavorativa e la cronica insufficienza di personale. Le maggiori criticità si registrano nella casa circondariale “Francesco Rucci” di Bari, una struttura realizzata oltre un secolo fa e poi inglobata dall’espansione urbanistica del capoluogo, dove si registra un costante situazione di tensione con due sezioni per detenuti del circuito di alta sicurezza dove si trovano clan opposti. Nel carcere di Foggia ci sono oltre 670 detenuti (220 per cento di affollamento), e presta servizio un organico di polizia penitenziaria di 230 unità, previsto per non più di 360 reclusi. Il record di presenze spetta invece a Lecce, un istituto realizzato nel 1997 con una immensa struttura di 200mila metri quadri e un totale di 1.341 detenuti, a fronte di una capienza di 798 posti. Dati che rendono la casa circondariale leccese la più affollata d’Italia. Qui i carcerati sono rinchiusi in tre dentro celle da circa 10 metri quadrati; dormono in letti a castello (il materasso più in alto è a 50 centimetri dal soffitto), con una sola finestra e un bagno cieco spesso senza acqua calda. Condizioni simili vengono registrate anche negli istituti penitenziari di Taranto, Trani, Brindisi, Lucera, Turi e San Severo. Ora il governo corre ai ripari stanziando 14,8 milioni di euro di fondi europei per il reinserimento lavorativo e sociale dei detenuti, come annunciato dal viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto. Una parte importante delle risorse è destinata alla lotta al sovraffollamento: ampliamento degli spazi all’interno delle carceri e quindi al miglioramento delle condizioni di vita di chi è recluso. In cima alla lista degli interventi anche la sicurezza del personale e il contrasto alla diffusione incontrollata di droga e telefoni cellulari nelle celle. Basti pensare che solo a Bari dall’inizio del 2025 ne sono stati sequestrati ben ottanta. Proprio alla casa circondariale del capoluogo adriatico andranno ben tre milioni di euro. Una parte servirà alla ristrutturazione del braccio che in passato ospitava la sezione femminile, mentre in un’altra ala saranno avviati corsi per l’avviamento alla professione di panettiere e pasticcere, con la realizzazione di due forni. Tra gli altri progetti finanziati la produzione di libri tattili per bambini con disabilità nel carcere di Turi, pasta fresca nella casa circondariale di Lecce, corsi per estetiste e sarte nella sezione femminile di Trani. Avellino. Detenuto di 25 anni in coma: nessun ospedale vuole curarlo di Angela Stella L’Unità, 22 agosto 2025 L’appello del Garante campano Ciambriello: “Rifiutano le cure a Paolo Piccolo, in stato vegetativo per mesi dopo un pestaggio a Berlizzi. Tutelare il diritto alla salute per Paolo Piccolo, detenuto di Bellizzi Irpino ricoverato all’ospedale Moscati di Avellino dopo un pestaggio: è quanto chiede il garante campano dei detenuti, Samuele Ciambriello. Paolo Piccolo, classe 1999, originario di Barra (Napoli), finisce dentro per spaccio prima a Frosinone poi nel carcere nel capoluogo irpino. Nella notte del 22 ottobre del 2024 il terribile evento: il 25enne subisce un crudele pestaggio con violenza inaudita da parte di altri detenuti che presero il controllo di alcuni reparti. Da quanto risulta agli atti di indagine altri reclusi intimarono ai pochissimi agenti di polizia penitenziaria di turno: “Consegnateci le chiavi del piano terra destro e vi risparmieremo la vita”. Due agenti penitenziari, in servizio per sorvegliare tre intere sezioni del carcere, furono immobilizzati e privati delle chiavi, permettendo agli assalitori di mettere in atto il loro piano di violenza, come riferito da Avellino Today. L’obiettivo: prelevare e punire brutalmente due compagni di detenzione, tra cui Paolo Piccolo che subì 22 coltellate, fratture multiple alle costole e al braccio destro, un polmone perforato e il cranio sfondato. I motivi dell’aggressione rimangono al momento sconosciuti. Il processo che coinvolge decine di imputati accusati di tentato omicidio aggravato dalla crudeltà, sequestro di persona e resistenza al pubblico ufficiale riprenderà il 12 settembre 2025, nel frattempo con rito abbreviato ci sono state già le prime tre condanne. Su quanto accaduto quella notte la magistratura continua ad indagare. Ma il problema ora è un altro: secondo un recente bollettino medico del Moscati il paziente dopo un periodo in coma ora è sì vigile ma affetto da tetraparesi spastica e non parla. Le sue condizioni generali sono molto complesse. Avrebbe bisogno di essere ricoverato in una struttura assistenziale di riabilitazione intensiva. La dirigenza dell’ospedale avellinese si è rivolta a diverse strutture in Emilia Romagna, Lombardia, Veneto Molise, Lazio, Puglia. Tuttavia al momento nessuno vuole farsi carico del giovane che di certo non creerebbe problemi di sicurezza considerato che è immobile in un letto, tanto è vero che non è più neanche sotto vigilanza. Pertanto, il garante Samuele Ciambriello lancia un appello: “I ritardi burocratici non consentono al giovane Paolo Piccolo un ricovero in una struttura sanitaria campana, o fuori regione, per la riabilitazione neuromotoria. Lancio un appello alle strutture sanitarie della Campania, ai dirigenti sanitari e alle forze politiche affinché vi sia un intervento immediato e risolutivo per Paolo, ad oggi nessuna struttura sanitaria è disponibile ad accoglierlo. Superiamo la burocrazia e i ritardi. Paolo Piccolo merita giustizia, ha diritto alla speranza e diritto alla vita. Ringrazio i medici e gli operatori sanitari del Moscati che si sono prodigati fino ad oggi, ma invito la Direzione sanitaria dell’ospedale a trovare con le autorità competenti una struttura riabilitativa ad alta intensità in Campania al più presto”. Le parole del Garante seguono a quelle di qualche mese fa della nonna del giovane, Cira: “Mio nipote non fa parte di nessun clan, ha sbagliato e stava pagando per quanto compiuto, ma non si merita di morire. Mio nipote si deve riprendere e deve essere trasferito in un centro di riabilitazione intensivo. Ha due bambini piccoli che chiedono sempre di lui”. “Lui avverte tutto- disse disperata - è uscito dal coma, pesa venticinque chili, ora non possiamo mollare, dobbiamo salvarlo. Abbiamo anche dormito in questo ospedale, pregando ininterrottamente affinché Paolo rispondesse alle terapie. Ora che i medici del Moscati hanno fatto di tutto per salvarlo non possiamo mollare” aveva concluso la donna. Avellino. “Giustizia e cure per Paolo Piccolo” di Mirko Labriola today.it, 22 agosto 2025 Il giovane è ricoverato in stato vegetativo permanente all’ospedale Moscati. Tutelare il diritto alla salute per Paolo Piccolo, detenuto di Bellizzi Irpino ricoverato all’ospedale Moscati di Avellino dopo un brutale pestaggio. Lo chiede il Garante campano delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Samuele Ciambriello. In una nota del garante ricorda che nella notte del 22 ottobre scorso il 25enne Paolo Piccolo subì “un crudele pestaggio con violenza inaudita nel carcere di Bellizzi Irpino: da allora è ricoverato in uno stato vegetativo permanente presso l’ospedale Moscati di Avellino. Il processo che coinvolge decine di imputati accusati di tentato omicidio aggravato dalla crudeltà, sequestro di persona e resistenza a pubblico ufficiale riprenderà il 12 settembre 2025, nel frattempo con rito abbreviato ci sono state già le prime tre condanne. Su quanto accaduto quella notte la magistratura continua ad indagare”. “I ritardi burocratici - afferma Ciambriello - non consentono al giovane Paolo Piccolo un ricovero in una struttura sanitaria campana, o fuori regione, per la riabilitazione neuromotoria. Lancio un appello alle strutture sanitaria della Campania, ai dirigenti sanitari e alle forze politiche affinché vi sia un intervento immediato e risolutivo per Paolo, ad oggi nessuna struttura sanitaria è disponibile ad accoglierlo. Superiamo la burocrazia e i ritardi. Paolo Piccolo merita giustizia, ha diritto alla speranza e diritto alla vita. Ringrazio i medici e gli operatori sanitari del Moscati che si sono prodigati fino ad oggi, ma invito la Direzione sanitaria dell’ospedale a trovare con le autorità competenti una struttura riabilitativa ad alta intensità in Campania al più presto”. “La situazione all’interno del centro penitenziario di Santa Maria Capua Vetere è ormai insostenibile: emergenza sanitaria e sovraffollamento stanno mettendo a dura prova la dignità umana, la sicurezza e il diritto alla salute delle persone ristrette e di chi lavora nell’istituto.” A dichiararlo è don Salvatore Saggiomo, Garante dei diritti delle persone private della libertà per la provincia di Caserta, dopo un sopralluogo effettuato nella struttura, dove nei giorni scorsi un agente della Polizia Penitenziaria è stato aggredito da un detenuto, “verosimilmente esasperato dall’impossibilità di ricevere cure mediche, dovuta alla chiusura prolungata dell’infermeria”. “Mi sono recato personalmente presso il carcere, dove ho ascoltato il comandante, il vice comandante, il vice direttore e alcuni detenuti. Ho riscontrato - afferma il garante - una situazione allarmante: l’infermeria è chiusa dal 16 luglio 2025, per disposizione dei dirigenti sanitari, e a oggi - oltre un mese dopo - non è stata ancora riattivata”. Alla chiusura dell’infermeria si affiancano altre criticità: “Carenza cronica di personale sanitario (medici e infermieri); rifiuto del personale sanitario di recarsi nei reparti detentivi, anche solo per un primo intervento; assenza di un presidio medico attivo, con conseguente abbandono terapeutico di persone malate; crescente tensione tra i detenuti e il personale penitenziario”. C’è poi il sovraffollamento strutturale dell’istituto: “il carcere ospita attualmente circa 1.000 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di poco più di 700 posti. In alcune sezioni la densità detentiva supera ogni limite di vivibilità. Celle sovraffollate, ambienti surriscaldati, scarsa ventilazione, condizioni igieniche precarie: tutto ciò contribuisce a un clima sempre più teso e potenzialmente esplosivo”, dice don Saggiomo, secondo cui questa combinazione di assenza di assistenza sanitaria, sovraffollamento e carenze strutturali e organizzative configura “una vera e propria emergenza umanitaria. Le carceri non possono essere luoghi di esclusione dalla legalità. La Costituzione garantisce il diritto alla salute e alla dignità anche alle persone private della libertà. Quanto sta accadendo a Santa Maria Capua Vetere rappresenta un fallimento istituzionale che richiede risposte urgenti e strutturali”, aggiunge. Don Saggiomo lancia dunque un appello al Ministero della Giustizia, al Dap, alla Regione Campania, alla Asl di Caserta, alla Prefettura, affinché si provveda con alcuni interventi urgenti: “Riapertura immediata dell’infermeria e ripristino dei servizi sanitari di base; assunzione o assegnazione straordinaria di personale medico e infermieristico; piano di riduzione del sovraffollamento, tramite misure alternative alla detenzione e trasferimenti mirati; verifica strutturale e igienico-sanitaria degli ambienti detentivi; attivazione di un tavolo permanente di monitoraggio con tutte le componenti coinvolte. Non si tratta solo di sicurezza o di giustizia: si tratta di umanità, responsabilità e rispetto dei diritti fondamentali. Nessuno può voltarsi dall’altra parte”, conclude il garante. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Emergenza sanitaria e sovraffollamento in carcere casertanews.it, 22 agosto 2025 Il Garante dei detenuti Don Salvatore Saggiomo: “Celle sovraffollate, ambienti surriscaldati, scarsa ventilazione, condizioni igieniche precarie: tutto ciò contribuisce a un clima sempre più teso e potenzialmente esplosivo”. “La situazione all’interno del Centro Penitenziario di Santa Maria Capua Vetere è ormai insostenibile: emergenza sanitaria e sovraffollamento stanno mettendo a dura prova la dignità umana, la sicurezza e il diritto alla salute delle persone ristrette e di chi lavora nell’istituto”. A dichiararlo è don Salvatore Saggiomo, Garante dei diritti delle persone private della libertà per la provincia di Caserta, a seguito di un sopralluogo effettuato nella struttura. Il Garante è intervenuto dopo un grave episodio avvenuto nei giorni scorsi, in cui un agente della Polizia Penitenziaria è stato aggredito da un detenuto, verosimilmente esasperato dall’impossibilità di ricevere cure mediche, dovuta alla chiusura prolungata dell’infermeria. “Mi sono recato personalmente presso il carcere, dove ho ascoltato il comandante, il vice comandante, il vice direttore e alcuni detenuti. Ho riscontrato una situazione allarmante: l’infermeria è chiusa dal 16 luglio 2025, per disposizione dei dirigenti sanitari, e a oggi - oltre un mese dopo - non è stata ancora riattivata”, afferma Saggiomo. Secondo quanto accertato dal Garante, alla chiusura dell’infermeria si affiancano altre gravi criticità quali la carenza cronica di personale sanitario (medici e infermieri) oltre al rifiuto del personale sanitario di recarsi nei reparti detentivi, anche solo per un primo intervento. Inoltre l’assenza di un presidio medico attivo, con conseguente abbandono terapeutico di persone malate e la crescente tensione tra i detenuti e il personale penitenziario. “A queste emergenze si aggiunge un ulteriore elemento di allarme: il sovraffollamento strutturale dell’istituto. Il carcere ospita attualmente circa 1.000 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di poco più di 700 posti. In alcune sezioni la densità detentiva supera ogni limite di vivibilità. Celle sovraffollate, ambienti surriscaldati, scarsa ventilazione, condizioni igieniche precarie: tutto ciò contribuisce a un clima sempre più teso e potenzialmente esplosivo”, sottolinea. “Questa combinazione di assenza di assistenza sanitaria, sovraffollamento e carenze strutturali e organizzative configura una vera e propria emergenza umanitaria”, prosegue. “Le carceri non possono essere luoghi di esclusione dalla legalità. La Costituzione garantisce il diritto alla salute e alla dignità anche alle persone private della libertà. Quanto sta accadendo a Santa Maria Capua Vetere rappresenta un fallimento istituzionale che richiede risposte urgenti e strutturali”, sottolinea. “Non si tratta solo di sicurezza o di giustizia: si tratta di umanità, responsabilità e rispetto dei diritti fondamentali. Nessuno può voltarsi dall’altra parte”, conclude. Salerno. Carcere di Fuorni: “In sei in una cella, tre docce per 60 persone” di Nicola Sorrentino Il Mattino, 22 agosto 2025 Non c’è solo il problema dei droni che trasportano droga (l’ultimo intercettato dagli agenti conteneva dello stupefacente, bilancino e sim telefoniche) o delle piazze di spaccio che si creano di volta in volta nella struttura, o la violenza nelle celle e gli sforzi del personale, sempre attento e vigile ma nei numeri insufficiente. Nel carcere di Fuorni la vera bomba pronta ad esplodere è il sovraffollamento e le condizioni, connesse, dei detenuti, che si associa pericolosamente ad un rischio concreto di suicidio. Qualche dato: 6 detenuti in una sola stanza e 3 docce a servire almeno 60 persone. Sono i numeri impietosi diffusi da una delegazione della Camera Penale di Nocera Inferiore, che l’altro ieri ha fatto visita alla Casa Circondariale di Salerno. L’iniziativa rientra in quelle promosse dall’Unione Camere Penali Italiane, per tenere alta l’attenzione sullo stato di detenzione in tutti i penitenziari italiani. I penalisti nocerini hanno aderito all’invito di fare visita ai detenuti proprio nel mese di agosto. Dopo un colloquio con il vice direttore, la dottoressa Belen Suozzo, ed il comandante della Polizia penitenziaria, dottoressa Arancio, gli avvocati hanno visitato le diverse sezioni del carcere per verificare personalmente le condizioni dei detenuti. A conclusione del giro, in una nota diffusa al termine dell’incontro, i penalisti sottolineano che sono “visibili gli interventi effettuati nella struttura dallo scorso anno - quando per la prima volta gli avvocati nocerini hanno oltrepassato la soglia dei singoli settori del carcere - ma sempre più evidente risulta essere l’inadeguatezza dell’edificio rispetto alle esigenze della popolazione carceraria”. Per la Camera Penale di Nocera, anche Salerno riflette il dato nazionale. Infatti, a fronte di una capienza di 390 detenuti, sono circa 600 le presenze effettive. Tradotto, si sfiora l’80% in più rispetto alla capienza attuale, come aveva già denunciato tempo fa, il segretario del sindacato della Polizia Penitenziaria, Aldo Di Giacomo. La Camera Penale sottolinea, tuttavia, la fruizione dei vari servizi programmati per i detenuti, come i corsi professionalizzanti per dare un futuro lavorativo al termine della permanenza in carcere. Insieme al Vice direttore Suozzo, supportata dal medico della struttura, la dottoressa De Chiara, i penalisti hanno toccato con mano le iniziative per la riorganizzazione del servizio di prenotazione delle visite mediche e specialistiche per i detenuti. Lo stesso si dica per il settore femminile, “unico dimensionato rispetto alla capienza. Corsi professionalizzanti ah hoc - si legge nella nota - supporto medico e psicologico, progetti culturali: più semplice la gestione e la fruizione da parte delle detenute, contenute nel numero, circa 50 in tutto”. La delegazione - composta dal presidente e avvocato Nobile Viviano, insieme ai penalisti Arturo della Monica, Rosanna Zequila, Giovanna Ventre, Giovanna Fasanino, Fabio Annosi, Gaspare Dalia, Giovanni Pentangelo e Giacomo Morrone - vuole però portare all’esterno il messaggio delle persone che hanno incontrato. La carenza di spazio è una sofferenza corale per tutti i detenuti e i numeri, nei fatti, non rendono l’idea. “Abbiamo trovato una situazione sempre critica a causa del sovraffollamento - dice il Presidente Nobile Viviano - aggravato da una carenza strutturale ormai innegabile. I numeri ci dicono che i cambiamenti introdotti dalla Cartabia sono assolutamente fallimentari. Il sovraffollamento degli istituti di pena nel nostro Paese rappresenta il dramma nel dramma dell’estate nelle carceri italiane. Dall’inizio dell’anno ad oggi, già 55 persone detenute, di tutte le età, si sono tolte la vita. Non c’è più tempo”. Asti. “I detenuti rifiutano il cibo per protesta contro i problemi del carcere” di Thomas Usan La Stampa, 22 agosto 2025 La visita dei Radicali nell’istituto penitenziario di Quarto: “Ci sono stati dei miglioramenti ma non bastano”. “I detenuti hanno rimandato indietro il carrello del pranzo per protestare contro la scarsa qualità del cibo e per i problemi strutturali dell’istituto: muri ed edificio sono da rinnovare”. A raccontarlo è Daniele Robotti del Partito Radicale, che ieri mattina ha visitato il penitenziario di Quarto, frazione di Asti, per l’iniziativa “Ferragosto in carcere”. Il carrello è dedicato a coloro che non hanno la possibilità di farsi portare il cibo dai famigliari dall’esterno e di conseguenza non possono cucinarsi pranzo e cena in autonomia. Una protesta che, in base al suo racconto, i detenuti porteranno avanti anche nei prossimi giorni. “È una strategia per fare pressione” alla direzione, che, secondo Robotti “sta facendo il possibile per risolvere tutte le problematiche”. I problemi - Le questioni non si limitano alla qualità dei pasti: “Ogni volta che si va a Quarto si ha l’idea di essere in un posto sperduto - racconta - come se le persone che vivono lì dentro siano state messe ai margini della società”. E infatti i trasporti per raggiungere Quarto sono un tema: “Trattandosi di un carcere ad alta sicurezza quasi tutti i detenuti arrivano da molto lontano da Asti. Quindi i problemi per far arrivare la famiglia, se non hanno l’auto e i mezzi economici, non sono pochi”. Proprio sul discorso delle visite le criticità non finiscono qui: “Non esiste un’area di accoglienza, quindi il familiare che arriva col taxi deve aspettare all’ingresso del carcere sotto la tettoia”. Ma su questo fronte, sono stati recentemente installati i condizionatori nella sala colloqui. Criticità anche nelle telefonate con l’esterno: “Durante la pandemia erano dodici, ora sono scese a quattro, come previsto prima del 2020. Fortunatamente hanno da poco permesso ai detenuti che hanno parenti in Paesi stranieri di chiamarli anche tramite Whatsapp”. La questione del caldo - E ad agosto non si può non citare anche la problematica del caldo: “In tutte le celle hanno dei ventilatori, che però non sono abbastanza nelle giornate più calde” precisa. C’è anche chi “soffre” più di altri l’afa: “La situazione peggiora per le celle al terzo piano, che sono a diretto contatto con il tetto”. Invece per quanto riguarda la parte strutturale c’è stato un miglioramento: quasi tutte le finestre sono state cambiate e ammodernate, riuscendo così a respingere più facilmente l’umidità esterna e a favorire il ricircolo dell’aria. Si registrano miglioramenti anche per quanto riguarda l’infiltrazione dell’acqua: sono conclusi i lavori di ristrutturazione delle mura. Anche se per Robotti si tratta solo di una “soluzione tampone” poiché andrebbe “rifatta tutta la struttura per risolvere tutte le criticità”. Ancora niente da fare per l’acqua calda in cella, disponibile solo nelle docce “dove si presentano ciclicamente problemi legati alla muffa” precisa il politico dei Radicali. Ma non finisce qui: “Ci sono carenze di personale sia per quanto riguarda la polizia penitenziaria, sia per il resto del personale - spiega -. Un detenuto mi ha raccontato che aveva concluso il quarto anno di superiori ma non c’era il docente del quinto e di conseguenza avrebbe dovuto ricominciare dal secondo. Sono problemi che alla lunga incidono molto soprattutto sulla vita futura, una volta scontato il periodo di reclusione”. Sulla visita interviene anche il garante dei detenuti di Asti Domenico Massano: “I temi centrali per l’istituto di Quarto sono diversi. Uno il lavoro per le persone detenute: bisogna concretizzare la finalità rieducativa della pena. Non va dimenticato il tema del sovraffollamento”. Infatti, in base a quanto ricostruito ieri nella visita, a volte alcune celle singole sarebbero occupate da due persone. “Servono interventi strutturali - continua Massano. Nonostante la buona volontà e l’impegno della direzione dell’istituto, sono necessari fondi ministeriali per portarli avanti”. Grosseto. Il Consiglio direttivo della Camera penale in visita al carcere grossetonotizie.com, 22 agosto 2025 Ieri mattina, il consiglio direttivo della Camera penale di Grosseto ha svolto un sopralluogo nel carcere del capoluogo maremmano. “Anche in questo anno l’inaccettabile numero di suicidi in carcere, le condizioni disumane in cui vivono i detenuti ed il disinteresse delle forze politiche - si legge in una nota del consiglio della Camera penale di Grosseto -, ha spinto l’Unione delle Camere penali italiane a riproporre l’iniziativa ‘Ristretti agosto’, al fine di mobilitare, proprio nel periodo estivo, le singole Camere penali territoriali, effettuando visite agli istituti penitenziari locali, con il coinvolgimento di parlamentari”. La visita alla casa circondariale di Grosseto ha visto la partecipazione dei rappresentanti della Camera penale (gli avvocati Massimiliano Arcioni, Francesca Carnicelli, Riccardo Lottini, Tania Amarugi, Federica Putignano) e di Francesca Scopelliti, per la Fondazione Enzo Tortora. “Nell’attesa dell’apertura della nuova struttura penitenziaria, il cui progetto è già stato predisposto, deve prendersi atto che nella locale casa circondariale, nonostante l’impegno del personale e della direzione, le condizioni detentive non hanno subìto alcun miglioramento - continua la nota -. Attualmente vi sono 24 detenuti a fronte di 15 posti effettivi ed il personale assegnato è al limite dell’organico necessario. Le attività trattamentali sono rivolte all’alfabetizzazione ed alla formazione professionale dei ristretti; vengono svolti con regolarità percorsi scolastici la cui frequentazione viene riconosciuta anche una volta che i detenuti siano tornati liberi. La biblioteca dell’istituto è estremamente fornita e alcuni detenuti sono stati formati per lo svolgimento del ruolo di bibliotecario. L’istituto è privo di uno spazio per la socialità e le attività trattamentali sono fortemente limitate dalla carenza di spazi, oltre che di personale”. “L’emergenza è evidente, diffusa su tutto il territorio nazionale, i penalisti italiani intendono far sentire la propria vicinanza a tutti coloro che a vario titolo vivono all’interno di una struttura carceraria - termina il comunicato. Lo scopo è sollecitare l’opinione pubblica, la politica, il mondo dell’informazione e la magistratura ad affrontare, finalmente tale, drammatica situazione ed a porvi definitivamente rimedio riportando il carcere nei confini della legalità e della cornice tracciata dalla costituzione attorno alla sanzione penale”. Padova. Grazie al teatro la Bibbia entra in carcere di Maria Cinzia Zanellato* Avvenire, 22 agosto 2025 Nei laboratori del “Due Palazzi” di Padova si intrecciano storie bibliche e storie dei reclusi. La sfida: avvicinare, tramite pratiche teatrali, alla giustizia riparativa. E la Scrittura si rivela “parola viva” per persone di religioni e culture diverse. Dal 2005 curo la direzione artistica di “Teatrocarcere Due Palazzi” alla casa di reclusione di Padova. Al centro della progettualità vive il concetto di recupero della relazione come presupposto all’inclusione sociale, sia tra le persone detenute che tra la realtà carceraria e l’esterno mediante attività artistiche, culturali e di valenza civile. L’elemento innovativo è l’approfondimento e l’avvicinamento, tramite le pratiche teatrali, alla giustizia riparativa, tanto da individuare il teatro come spazio di mediazione sociale e di sensibilizzazione ai temi che ne sono alla base. Un aspetto che caratterizza l’attività teatrale è l’acquisizione delle narrazioni di origine biblica come tema artistico. Anche dal punto di vista del valore antropologico che assumono, quindi accessibili a persone di cultura e di religioni diverse come sono nella realtà carceraria. Il teatro e i temi biblici diventano occasione non tanto o non solo per fare uno spettacolo, ma per creare delle risonanze fra le esperienze di vita delle persone detenute e le vicende esistenziali che vengono proposte nella narrazione biblica. La parola biblica irrompe nelle carceri come “parola viva” capace di generare rinascita quando viene tradotta in gesto, voce e corpo. Nei laboratori “Nel segno di Giona” e “Da Babele alla Gerusalemme celeste” i detenuti del Due Palazzi incarnano il testo, rivelando i nodi esistenziali lì nascosti. Il testo sacro non resta confinato a una lettura accademica. Diventa esperienza concreta di meditazione, che precede l’azione, e quindi con potenzialità per una trasformazione interiore. La narrazione si nutre anche dei monologhi autobiografici che nascono in risonanza: Giona nel ventre della balena è per i detenuti l’esperienza di isolamento assoluto, quando devono venire a contatto con le proprie interiorità e contraddizioni e si trovano a rivedere la propria storia di vita. Il profeta riluttante diventa figura paradigmatica: allontanatosi dalla chiamata, si trova sospeso nel buio del ventre, costretto a guardarsi dentro. Lì, “isolamento assoluto” significa confronto con la propria coscienza, riconoscimento delle ferite e desiderio di rinascita. Anche lo spettacolo “Da Babele alla Gerusalemme celeste” sottolinea la medesima dinamica: Babele e la Gerusalemme celeste evocano la contrapposizione tra male e bene. Due aspetti che coesistono anche in ognuno di noi. Possiamo assecondare la costruzione di una città come Babele oppure tentare di edificare la città con un volto Altro. Tra la prima città, il cui nome è Enoch, figlio di Caino, e la città promessa da Dio, il cui nome è “il Signore è là” c’è un cammino, un percorso, da compiere da parte dell’uomo. Nei percorsi delle persone detenute emerge il guardare a sé stessi in autenticità, rimettersi profondamente in discussione. C’è il desiderio di cambiamento in bene di una vita che nel passato, per molti di loro, non ha offerto opportunità. Nello spettacolo i brani i autobiografici testimoniano questo vibrare. La scelta di alternare narrazione biblica e testimonianza personale trasforma il palco in luogo di dialogo tra il testo antico e la vita concreta. Il pubblico sperimenta così la vicinanza del sacro, non come dottrina astratta, ma come parola capace di toccare il cuore. Per lo spettatore si apre la domanda: “Come accogliamo la persona detenuta che sta attivando un percorso di cambiamento?” Si tratta così di tenere in vita dei semi di cultura che parlano di pace, dialogo, condivisione, comunità. Il teatro in questo momento storico può fare questo: ricreare comunità attorno ad alcuni temi urgenti e condivisi. La “rinascita in carcere” non è mera retorica. Il concetto di giustizia riparativa - sottolineato come orizzonte etico-teatrale - chiede di progettare “la possibilità di una nuova vita” per chi ha sbagliato, occupandosi allo stesso tempo delle vittime e delle ferite sociali. Il metodo non è esclusivamente teatrale, ma profondamente esistenziale: la Parola diventa azione, l’ascolto si fa condivisione, il rito della rappresentazione genera comunità. La scelta di affidare ai detenuti stessi i ruoli di attori è radicale: chi ha conosciuto il dolore, proprio e altrui, impara a estendere misericordia, chi ha vissuto l’isolamento scopre la forza della relazione con l’altro da sé. In definitiva, “Nel segno di Giona” e “Da Babele alla Gerusalemme celeste” suggeriscono che la Bibbia non è un testo da spiegare, ma una “parola ribelle” con una sua forza autonoma che cammina tra le sbarre, infrange la solitudine, provoca trasformazioni e semina nelle stanze più oscure il germe della speranza. La parola biblica, una volta pronunciata, non torna indietro. Scrive il profeta Isaia (55,10-11): “Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza aver annaffiato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, affinché dia seme al seminatore e pane da mangiare, così è della mia parola, uscita dalla mia bocca: essa non torna a me a vuoto, senza aver compiuto ciò che io voglio e condotto a buon fine ciò per cui l’ho mandata”. *Direzione artistica “Teatrocarcere Due Palazzi”, Padova La propaganda sull’Intelligenza Artificiale smontata dalla filosofa della scienza di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 22 agosto 2025 Una delle ragioni per leggere “Nell’occhio dell’algoritmo. Storia e critica dell’intelligenza artificiale” (Carocci, pp. 267, euro 29), il libro scritto dal Matteo Pasquinelli è lo smontaggio della propaganda sull’intelligenza artificiale ispirata al mito capitalista dell’automazione totale, un genere di grande successo funzionale alla vendita di costosi gadget digitali, alla capitalizzazione di borse e al rafforzamento di un potere oligarchico delle Big Tech, azioniste influenti dell’Impero guidato da Donald Trump. Forte della sua formazione marxista che lo ha già portato a declinare la tesi operaista nell’ambito del capitalismo digitale, Pasquinelli realizza la stupefacente operazione della critica e rivela il complesso nel “semplice”, cioè la molteplicità dei rapporti di produzione nei prodotti dell’ideologia considerati come “naturali” quando invece sono merci prodotte all’interno di una divisione sociale del lavoro. A questa operazione è stato riconosciuto l’importante Deutscher Memorial Prize 2024 nell’ambito della teoria critica. Pasquinelli bracca i fantasmi del potere assoluto funzionali alla riproduzione di un immaginario totalitario del capitalismo, oggi più vivo che mai. La parabola dell’intelligenza artificiale non è intesa come l’espressione di una filosofia morale del soggetto individuale, creatore, potente incarnato in qualche oligarca del capitalismo informatico, ma come il risultato di una divisione politica e sociale del lavoro e di una automazione dell’intelligenza generale prodotta dalla forza lavoro e dalla società in cui essa vive. Ciò che oggi è definito “intelligenza artificiale” è emerso dall’automazione della psicometria del lavoro e dei comportamenti sociali e non dalla ricerca volta a risolvere l’enigma dell’intelligenza. Le reti neurali artificiali sono le prime macchine capaci di codificare l’intelligenza generale - il General intellect di cui ha parlato Marx - con strumenti statistici. Questo significa che il machine learning non è l’esito di un pensiero magico, quello delle macchine che prendono vita umana, bensì il risultato dell’automazione delle metriche statistiche per quantificare abilità cognitive, sociali e lavorative e organizzarle in tutta la società, e non solo nelle attività che passano attraverso la Rete Questa impostazione, supportata da una ricca serie di esempi e di autori affrontati da Pasquinelli con piglio da storico materialista, ci porta a considerare la tecnologia da un punto di vista politico interessante: l’intelligenza artificiale non sostituisce i lavoratori, ma li disloca in un nuovo ordine sociale sempre più autoritario dall’alto e passivo dal basso. Dunque, l’automazione digitale non trasforma solo il lavoro, e lo rende sempre più invisibile e precario, ma rafforza le gerarchie sociali perché collabora al controllo e all’oppressione. La macchina algoritmica produce effetti nelle fabbriche robotizzate, come nella gestione dei percettori di sussidi sociali, nel governo dei flussi migratori come nella promozione della società della prestazione. Mette al lavoro la conoscenza collettiva contro coloro che la producono con il profitto di chi possiede i mezzi di produzione. Siamo lontani dall’immaginario apocalittico dei Frankenstein che si ribellano ai loro creatori. Ciò che oggi si chiama “intelligenza artificiale” è l’artificializzazione digitale della prassi umana e delle sue relazioni con le tecnologie, l’umano e la natura. Queste prassi sono messe all’opera in un sistema di misurazione, produzione, circolazione e consumo attraverso le piattaforme digitali e l’apprendimento automatico delle macchine. Senza forza lavoro tutto si ferma. Senza la sua libera subordinazione al capitale digitale, e alle sue astrazioni reali, non ci sarebbe il potere che ci domina. Per sciogliere questo problema Pasquinelli offre l’idea di una “teoria dell’automazione-lavoro” connessa alla “pratica dell’autonomia sociale”. Questo significa che una soluzione arriverà nel momento in cui il “lavoratore complessivo” del Capitale digitale avrà trovato gli strumenti per maturare una soggettività alternativa, oltre che un’organizzazione e una forza politica capace di disconnettersi dalla rete del dominio, sovvertire il tessuto del potere che lo imbriglia e al quale si immola, creando una “contro-intelligenza collettiva” contro il regime “dell’estrattivismo della conoscenza” e una politica a livello globale capace di collettivizzare le piattaforme come servizi pubblici e riprogettare i monopoli dei dati. Si dirà che siamo molto lontani da questo scenario. Il punto è un altro: per essere all’altezza di uno scenario sfavorevole bisogna almeno conoscere i problemi. Il libro di Matteo Pasquinelli è utile per uscire dall’occhio del padrone e usare le fionde per accecarlo. “Io, giornalista in incognito, inclusione e lezioni di speranza al Giubileo dei giovani” di Riccardo Benotti Corriere della Sera, 22 agosto 2025 L’accessibilità era un fatto non uno slogan. Nessuno era “aggiunto” all’evento: eravamo tutti parte della stessa esperienza, malati o in carrozzina, con pari dignità e possibilità di partecipare”. Da giornalista in incognito, al Giubileo dei giovani non ho avuto bisogno di mimetizzarmi. La carrozzina, in mezzo a migliaia di ragazzi, mi ha reso uno di loro. Sono partito da piazza di Cinecittà nel primo pomeriggio, insieme a gruppi provenienti da ogni parte d’Italia e del mondo. La strada verso Tor Vergata era un via vai continuo: navette gialle in arrivo e in partenza, volontari che indicavano le direzioni, ragazzi che pregavano, parlavano o semplicemente aspettavano di ripartire. Lì ci attendeva Leone XIV, ma il vero incontro era già iniziato lungo il cammino. L’inclusione non era confinata in un’area riservata: chi aveva una disabilità poteva muoversi liberamente, scegliere dove stare, restare con il proprio gruppo o avvicinarsi al palco, sempre con la possibilità di trovare supporto e servizi nelle aree attrezzate. Un’impostazione semplice, ma concreta: non solo accessibilità, ma libertà di partecipare secondo i propri ritmi. Ho incontrato frammenti di vita. Elena, mamma di Gloria, collegata a un respiratore, partita da Montichiari: “Mi hanno garantito corrente per il ventilatore e un sollevatore. Ho detto: restiamo”. Nicola, 40 anni, nato con tetraparesi spastica: “La mia disabilità non è una malattia, è una caratteristica. E fa parte della mia missione”. Maria, madre di Sara, una ragazza con mutazione genetica: “I miracoli non sono solo quelli in cui ti alzi in piedi. Ci sono anche quelli dello spirito”. Era chiaro che l’inclusione non fosse uno slogan, ma un fatto. Nessuno era “aggiunto” all’evento: eravamo tutti parte della stessa esperienza, con pari dignità e possibilità di partecipare. I volontari non erano figure di assistenza, ma compagni di percorso. Poi il silenzio. Centinaia di migliaia di giovani radunati sotto il cielo di agosto, il Veni Sancte Spiritus cantato insieme e il Papa in ginocchio davanti all’Eucaristia per quaranta minuti. In quell’unità silenziosa, le differenze si sono dissolte. L’inclusione non si spiega, accade. Semplice e potente come un gesto che non chiede permesso. Lo sgombero del Leoncavallo è una minaccia per chi dissente di Giuliano Santoro Il Manifesto, 22 agosto 2025 Esistono sconfitte che contengono, seppure in potenza, risvolti positivi, storie che si evolvono in modo da ribaltare il corso degli eventi. Lo sgombero del Leoncavallo è una vendetta del governo contro un luogo storico dell’opposizione sociale. Ed è inequivocabilmente una sconfitta della quale chiunque, a sinistra, dovrebbe assumersi la sua parte di responsabilità. Ma è anche una delle occasioni propizie per far scattare il contropiede. Sia chiaro: siamo di fronte a un arretramento oggettivo. Ma lo sfratto senza colpo ferire di una casamatta della sinistra sociale merita di essere indagato perché mostra i segni di una riscossa possibile. Per motivi storici, fu proprio da uno sgombero di un altro agosto milanese del 1989 che si dipanò un grande movimento, e per contingenze politiche e sociali. Per comprenderlo è necessaria una sana dose di ottimismo della volontà, ma non solo quella. Nel 1994, quando si era agli albori del berlusconismo e alle prime vittorie della Lega nelle grandi città del nord, anche allora a colpi di allarmi sicurezza ed egoismi territoriali, le ruspe avevano appena cominciato a demolire la sede originaria di via Leoncavallo. I centri sociali milanesi mostrarono di aver compreso benissimo che la posta in gioco andava ben oltre la resistenza e l’esistenza degli spazi occupati. “Su queste macerie non costruirete niente”, dissero, prefigurando la contraddizione fondativa della città che si avviava a uscire definitivamente dalla dimensione industriale per approdare, dopo il laboratorio degli anni Ottanta, alla centralità del terziario avanzato, dei flussi di capitale e forza lavoro, della rendita immobiliare. Il terreno di lotta, dunque, erano le nuove forme del lavoro, la pianificazione urbana e la liberazione delle energie nelle pieghe della crisi del lavoro salariato. Nei decenni successivi il Leoncavallo e i suoi fratelli e sorelle a Milano e in tutto il paese hanno spesso vinto la battaglia della sopravvivenza strappando grosse fette di consenso e di riconoscimenti culturali. Ma hanno perduto, anche questa volta non da soli, quella più grande in difesa della città pubblica. Le energie che hanno prodotto non sono servite a liberare la metropoli dalla cappa del profitto. E siccome la storia dei rapporti tra le classi è spesso fatta di paradossi e rivolgimenti, proprio Milano è divenuta il luogo paradigmatico della speculazione neoliberale. Eppure sta ancora tutto lì il nodo, tra spazi da conquistare e tempi di vita da affrancare. Non è una vicenda marginale: è così che funziona oggi la produzione, spalmata sui territori per estrarre valore da ogni forma di cooperazione sociale. Anche per questo lo sgombero del Leoncavallo è una lettera di minaccia spedita da governo all’indirizzo di chi dissente. Meloni parla di “zone franche” intollerabili ma è sotto gli occhi di tutti, anche dei funzionari della questura, che l’operazione di ieri mattina arriva proprio nei giorni in cui la trattativa per lo spostamento del centro sociale era in corso. Siamo di fronte a una prova di forza contro un soggetto politico dichiarato nemico, non a una forma di ripristino della legalità. Da mesi un movimento vasto e plurale ha saputo coinvolgere ampi settori della società civile e smuovere le opposizioni parlamentari per denunciare la torsione autoritaria impressa dall’esecutivo nel nome della “sicurezza”. Del resto, non è difficile cogliere le ragioni per le quali la presidente del Consiglio vede i centri sociali come fumo negli occhi: dovete figurarvi questa donna cresciuta coi suoi camerati negli anni in cui le occupazioni attiravano pezzi interi di società e accoglievano migliaia di persone, il tutto mentre la destra postfascista viveva in ghetti accerchiati e minoritari. Al punto che hanno avuto bisogno di salire sul predellino televisivo di Berlusconi per essere cooptati nei palazzi del potere senza passare per alcuna forma di egemonia. Ce ne accorgiamo dai goffi tentativi di costruire una cultura nazionale e con le violente manovre di lottizzazione delle postazioni di potere volte anche a colonizzare l’immaginario. Milano, lo dimostrano gli eventi degli ultimi mesi, è la città nella quale il centrosinistra in tre lustri di amministrazione troppo spesso non ha arginato lo sfruttamento selvaggio del territorio apparecchiato dalle giunte di destra a uso e consumo di grandi eventi e operazioni speculative. È una città in cui ormai, per fare solo un esempio, neanche un professore associato di università può permettersi un normale affitto. È la città che non può consentirsi di perdere il Leoncavallo e gli altri rifugi dalla cultura del consumo, dalla violenza del privilegio e dalle politiche dello sfruttamento. Una zona franca davvero necessaria, un bosco verticale della resistenza. Migranti scaricati e lanciati in acqua “come rifiuti” di Michele Gambirasi Il Manifesto, 22 agosto 2025 Salvataggio di Mediterranea in zona Sar libica. I dieci lanciati in acqua da un’imbarcazione veloce che poi si è allontanata. L’ong: “Vicenda che illumina sui rapporti tra mafie, trafficanti e sedicente Guardia costiera”. Ha effettuato il suo primo salvataggio la Mediterranea Ship, la nuova nave dell’omonima ong italiana in precedenza appartenuta alla tedesca Sea Eye. La nave si trovava circa a 30 miglia a nord di Tripoli, in zona Sar Libica, quando intorno alle tre di notte di ieri è stata affiancata da un assetto di tipologia militare che ha gettato in mare dieci persone per poi allontanarsi. “Come se fossero rifiuti” ha commentato l’ong. Si tratta di un caso di “Run away boat” (Rab), ovvero imbarcazioni veloci che affiancano le navi della flotta civile per poi scaricare in acqua i migranti ed allontanarsi velocemente. Il gommone, ha raccontato l’equipaggio a bordo, era molto simile agli otto che lunedì mattina avevano accerchiato per circa tre ore la Mediterranea. Dopo quell’episodio la nave era stata nuovamente avvicinata dai libici, questa volta a bordo della motovedetta Zawiya 656, appartenuta in precedenza alla Guardia di finanza italiana e donata alla Libia nel 2017 nell’ambito del memorandum tra i due paesi. Ancora l’equipaggio ha raccontato che la Mediterranea è stata poi seguita in scia per 25 ore da un potente assetto cabinato, con a bordo un ufficiale della sedicente “Guardia costiera” libica. “Dopo due giorni di attenzionamento di tutta l’area tra miliziani e assetti “istituzionali”, di notte ci sono solo i trafficanti senza scrupoli né pietà. Che relazione esiste tra questi diversi livelli di “gestione” del mare e degli esseri umani? Il sistema Libia ha prodotto questa promiscuità tra criminalità organizzata in milizie e istituzioni riconosciute” ha denunciato Mediterranea. Tra i dieci salvati ieri notte ci sono quattro persone curdo-iraniane, quattro siriani tutti provenienti da Homs e due egiziani. Tre di loro sono minori non accompagnati, gli altri poco più che maggiorenni, tutti maschi e tutti hanno trascorso un periodo di almeno due mesi in un campo di detenzione libico. “Sono in mare da sei anni, alle spalle decine di missioni, ma una cosa del genere non l’avevo mai vista. I nostri rhib erano già in acqua e il team di soccorso ha agito con prontezza evitando il disastro, c’era un metro e mezzo d’onda e vento molto forte” racconta al manifesto Beppe Caccia, capomissione a bordo della Mediterranea. “Questa vicenda illumina sul livello di integrazione tra mafie, trafficanti e sedicente “guardia costiera”. Siamo stati tallonati per giorni e poi arriva questo episodio. Tre giorni che la dicono lunga sulla situazione in Libia, c’è un’arroganza che fa capire come sia stata recepita da queste parti la vicenda Almasri” prosegue. La Mediterranea con a bordo le dieci persone sta facendo ora rotta verso Lampedusa, dove dovrebbe arrivare intorno alle 9 di questa mattina. Alla nave è stato assegnato come porto di sbarco Genova. Opzione rifiutata, perché troppo lontana, dall’equipaggio che ha prodotto un rapporto medico sulle condizioni sanitarie dei soccorsi. “A queste dieci persone non possono essere imposte ulteriori sofferenze: devono essere sbarcate al più presto nel più vicino porto sicuro” ha detto l’ong. Stati Uniti. Il Cecot, la prigione dei morti viventi deportati da Trump di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 22 agosto 2025 “Qui non ci sono avvocati, non ci sono telefonate, non ci sono giudici, non c’è niente. L’unica cosa che avete è quello che indossate e quello che sta dentro la cella”. Benvenuti al Cecot, la prigione dei morti viventi. Non è un film dell’orrore ma una fotografia del carcere del Salvador dove vengono rinchiusi in maniera per lo più illegale le migliaia di immigrati espulsi dagli Stati Uniti. Il Cecot - il Centro per il Confinamento del Terrorismo - è stato progettato per l’internamento di massa dei membri delle bande più violente e pericolose di El Salvador, un simbolo dell’approccio intransigente del presidente Nayib Bukele all’ondata di omicidi ed estorsioni che aveva terrorizzato il Paese. Da quando è stata aperta nel 2023, le autorità sono state reticenti sulle condizioni di detenzione della più grande prigione dell’America Latina, già denunciate da diverse ong. Quindi ci sono poche informazioni disponibili su ciò che accade dietro i muri di cemento e le recinzioni elettrificate. Bukele è anche un fervente ammiratore di Donald Trump con il quale ha uno stretto rapporto e non mancano i reciproci elogi pubblici. Ma dopo la denuncia di un gruppo di cittadini venezuelani (almeno 250), espulsi dagli Stati Uniti, e rinchiusi nel Cecot a marzo, per un accordo come parte della campagna del presidente Trump di deportazioni di massa di migranti, la verità sta venendo a galla e con essa i racconti dell’inferno vissuto in questo carcere. Nelle testimonianze, vengono descritte infatti percosse regolari, a volte con bastoni, mentre i migranti erano ammanettati. Inoltre è stato riportato anche un caso di abuso sessuale commesso dalle guardie. I venezuelani hanno parlato di come dormivano su cuccette di metallo senza lenzuola o materassi e dovendo mangiare a mani nude. Gli è stato negato accesso agli avvocati o al mondo esterno, e non avevano orologi facendogli perdere la cognizione del tempo. Di età compresa tra i 23 e i 39 anni, i migranti vivevano tutti negli Stati Uniti. Alcuni erano entrati in conformità con la legge statunitense, altri avevano attraversato il confine illegalmente, prima di essere accusati di essere membri di gang violente. Tutti negano qualsiasi coinvolgimento in bande e attività criminali, e dicono che non gli è mai stata data l’opportunità di contestare le accuse contro di loro. La maggior parte è convinta che siano stati presi di mira a causa dei loro vari tatuaggi, che secondo le autorità statunitensi dimostrano potenziali legami con Tren de Aragua, un potente gruppo criminale regionale originario del Venezuela. Gli Stati Uniti affermano che i deportati sono stati attentamente controllati, ma non hanno fornito le prove che sarebbero state usate contro di loro. Anzi, a seguito delle accuse di tortura e maltrattamenti di ogni sorta, la portavoce della Casa Bianca Abigail Jackson ha risposto: “L’amministrazione Trump è grata per la nostra collaborazione con il presidente Bukele per aiutare a rimuovere i peggiori stranieri illegali violenti e criminali dalle comunità americane”. Naturalmente anche le autorità salvadoregne hanno negato qualsiasi responsabilità. I venezuelani hanno anche cercato di protestare quando il segretario alla sicurezza interna degli Stati Uniti, Kristi Noem, ha visitato la prigione a marzo. Il suo ufficio coordina l’Immigration and Customs Enforcement (ICE) degli Stati Uniti, la stessa che effettua i raid iniziati qualche mese fa in alcune città statunitensi e gestisce voli di deportazione. Ma Kristi Noem è la stessa che ha registrato un video davanti a una cella, con indosso un top bianco e un berretto da baseball blu, dichiarando sprezzante: “se vieni nel nostro paese illegalmente, questa è una delle conseguenze che potresti affrontare”. In realtà aveva invece una cella piena di salvadoregni dietro di lei, cosa facilmente dimostrabile perché gli uomini avevano tatuaggi sul viso e sul collo, che sono tipicamente associati ai membri delle gang. Cecot e una vera e propria città che sorge su una superficie di 23 ettari ed è monitorata completamente da telecamere e 19 torri di guardia. Tale dispendio di sicurezza non va di pari passo con le condizioni alle quali sono sottoposti i detenuti. Le luci sono lasciate costantemente accese, nelle celle (dove si trovano rinchiuse almeno una ventina di persone) vi sono solo due serbatoi d’acqua per lavarsi e bere e due servizi igienici, senza la carta igienica, che gli uomini scaricano con un secchio. Nessuna ventilazione, nessun flusso d’aria. caldo soffocante. Unico conforto le visite della Croce Rossa durante le quali le condizioni migliorano temporaneamente. Il Comitato Internazionale ha confermato di aver visitato i venezuelani due volte, ma ha detto che non condivide pubblicamente informazioni sulle condizioni della prigione al fine di mantenere l’integrità del dialogo confidenziale con i detenuti, le autorità e le loro famiglie. Per giustificare la deportazione in El Salvador, l’amministrazione Trump aveva invocato l’Alien Enemies Act del 1798, utilizzato per l’ultima volta durante la seconda guerra mondiale, che consente la detenzione e l’espulsione di cittadini da paesi con cui gli Stati Uniti sono in guerra. Anche se un giudice del Distretto di Columbia ha stabilito che l’atto non poteva essere utilizzato per deportare i migranti venezuelani, perché gli Stati Uniti non stavano affrontando un attacco armato organizzato e ha sospeso i voli. Stati Uniti. Dentro la macchina delle espulsioni di Brent McDonald* Internazionale, 22 agosto 2025 Grazie al suo enorme sistema carcerario e a giudici che condividono la linea del presidente, lo stato della Louisiana è diventato il centro nevralgico delle politiche repressive dell’amministrazione Trump. L’aeroporto internazionale di Alexandria, in Louisiana, ha l’aspetto di un piccolo scalo commerciale, con un negozio che vende caffè e merendine e finestroni affacciati sulle piste, da cui ogni giorno decollano e atterrano una decina di voli gestiti dall’American Airlines e dalla Delta. Ma a poche centinaia di metri dagli imbarchi c’è un’altra pista, molto più trafficata. È qui che Badar Khan Suri è atterrato in un pomeriggio di marzo. Quel giorno Suri, cittadino indiano di 41 anni con un visto per ricerca all’università di Georgetown, a Washington, è sceso da un aereo con manette ai polsi e alle caviglie, e poi è stato portato all’Alexandria staging facility, un centro di detenzione di settemila metri quadrati. Il dipartimento di stato voleva espellere Suri, sostenendo che la sua presenza negli Stati Uniti metteva in pericolo “la politica estera del paese”. La moglie di Suri, palestinese-statunitense, aveva attirato l’attenzione dei sostenitori di Israele per aver pubblicato online commenti critici verso lo stato ebraico, oltre che a causa del ruolo avuto in passato dal padre nel governo di Gaza. Così Suri è diventato uno dei tanti stranieri arrestati nel giro di vite contro l’immigrazione imposto dall’amministrazione Trump. In questo piano nessun aeroporto è più importante di quello di Alexandria. Dall’inizio del secondo mandato di Trump più di 21mila persone arrestate dagli agenti dell’Immigration and customs enforcement (Ice) sono passate dal centro di detenzione di Alexandria. L’aeroporto è il primo del paese per numero di voli di rimpatrio gestiti dall’Ice, come conferma una banca dati curata da Tom Cartwright, attivista per i diritti dei rifugiati e dei migranti che fa parte dell’organizzazione Witness at the border. Nel raggio di 160 chilometri intorno da Alexandria ci sono altri otto centri simili. Inoltre la Louisiana conta il numero più alto di detenuti dopo il Texas. Queste condizioni lo hanno trasformato nell’asse più trafficato della macchina di espulsioni che l’amministrazione Trump sta cercando velocemente di costruire. Il sistema di detenzione dei migranti dello stato si è sviluppato a partire dagli anni ottanta, sotto la spinta di presidenti determinati ad arrestare ed espellere persone senza documenti. Tuttavia, le sue dimensioni sono cresciute in modo esponenziale quando Trump è entrato alla Casa Bianca per la prima volta, nel 2017, e molte prigioni sono state riconvertite in centri di detenzione dell’Ice. Trump ha immediatamente riattivato il sistema quando è tornato al potere, nel gennaio 2025, e da allora lo ha spinto al massimo. L’aeroporto di Alexandria e i centri di detenzione che lo circondano dimostrano cosa intendesse Todd Lyons, direttore dell’Ice, quando ha detto di voler trasformare l’agenzia in un colosso logistico come Amazon o FedEx, “ma per gli esseri umani”. L’idea che il governo dovrebbe funzionare come un’impresa di spedizioni non è nuova. Da anni l’Ice collabora con esperti del settore privato e con aziende che gestiscono prigioni. La novità è che oggi le operazioni logistiche sono al centro di questo approccio imprenditoriale alla detenzione e agli allontanamenti. Lyons non è il primo funzionario dell’Ice a considerare la FedEx un modello per le espulsioni degli immigrati. Più di dieci anni fa, quando il centro di detenzione dell’aeroporto non era ancora stato costruito, l’ufficio dell’Ice di New Orleans usava già una serie di tecniche prese in prestito dalla multinazionale, a cominciare dall’hub-and-spoke, in cui i pacchi transitano dalla struttura centrale di Memphis per essere organizzati e smistati. Ricalcando questo sistema, le persone arrestate dall’Ice in Louisiana o in uno degli stati vicini venivano portate in una struttura centrale per poi essere trasferite in una struttura della regione che avesse spazio. Ma l’ultima fase del processo, quella che prevede i voli di rimpatrio, rimaneva costosa e complicata. Un funzionario dell’Ice racconta che il piano per risolvere il problema è stato abbozzato su un tovagliolo di un ristorante. La base dell’aeronautica di Alexandria era stata chiusa nel 1992, e il governo statale stava cercando di capire come usare la struttura. Così i funzionari dell’Ice hanno pensato di costruire un centro di detenzione direttamente sulle piste, da dove sarebbe stato più facile caricare i migranti sui voli. Nel 2014 ha aperto l’Alexandria staging facility, gestita dall’impresa Geo Group. All’inaugurazione c’erano bande musicali e decine di politici, compresa Mary Landrieu, senatrice democratica della Louisiana. Con i suoi quattrocento posti letto a ridosso della pista d’atterraggio, la struttura, dedicata a ospitare i migranti per 72 ore, è unica nel suo genere, motivo d’orgoglio dei funzionari dell’Ice e degli amministratori locali. “Immaginate questo posto come se fosse un hub: gli agenti prelevano i migranti, li portano qui e poi li smistano”, spiega Ralph Hennessy, direttore esecutivo dell’organizzazione che gestisce l’ex struttura dell’aeronautica. In un’intervista recente, Hennessy ha ammesso di capire le polemiche sulle attività dell’Ice, ma ha detto che l’agenzia sta semplicemente applicando la legge: “Da qualche parte si doveva pur fare”. La Louisiana mette dietro le sbarre più persone di quasi tutti gli altri stati del paese. A differenza di quello che succede altrove, qui la maggior parte dei detenuti si trova in prigioni locali, con lo stato che versa agli sceriffi una tariffa giornaliera per detenuto. Questo sistema può essere molto redditizio, ma gestire le strutture è complicato. Negli anni novanta e duemila, mentre la popolazione carceraria continuava a crescere, alcuni sceriffi hanno cominciato ad affidare i detenuti ad aziende come la Geo Group e la LaSalle Corrections. Nel 2017 il governatore John Bel Edwards, del Partito democratico, è riuscito a far approvare una legge per ridimensionare la popolazione carceraria, e nei cinque anni successivi il numero di detenuti si è ridotto notevolmente. Nel frattempo l’amministrazione Trump stava espandendo le operazioni per arrestare gli immigrati irregolari, quindi c’era bisogno di posti nelle strutture delll’Ice. Le aziende che gestivano le prigioni della Louisiana, colpite dalla riduzione dei contratti con il sistema carcerario statale, hanno colto l’opportunità. Mentre altrove il giro di vite contro l’immigrazione provocava discussioni e proteste, in Louisiana nessuno si sarebbe lamentato. Per i prezzi contenuti degli alloggi e della forza lavoro, ospitare un detenuto dell’Ice nello stato costa molto meno che in altre zone del paese. Inoltre il più alto tribunale locale - la corte federale d’appello di New Orleans - è particolarmente vicino alle posizioni di Trump, mentre la politica statale (controllata dal Partito repubblicano) non ha fatto resistenze alle iniziative dell’Ice. Nelle aree rurali in cui si trovano i centri di detenzione, i politici locali di entrambi i partiti hanno accolto con favore la creazione di nuovi posti di lavoro. Intanto gli avvocati degli immigrati sono costretti a guidare per ore per incontrare i loro clienti in strutture che si trovano in posti remoti. Tra il 2016 e il 2020, mentre le prigioni locali venivano convertite in centri di detenzione federali, il numero di posti letto per i detenuti dell’Ice in Louisiana è più che triplicato, senza che servisse costruire nuove strutture. Tra le carceri che hanno vissuto questa trasformazione c’è il Richwood correctional center, amministrato dalla LaSalle Corrections, 150 chilometri a nord dell’aeroporto di Alexandria. Richwood, che un tempo era una fiorente comunità agricola, oggi conta 3.800 abitanti, di cui molti anziani. In passato i penitenziari statali garantivano posti di lavoro, ma la comunità è stata anche segnata da fatti violenti. Nel 2015 un detenuto è stato ucciso da un altro carcerato, che poi è morto a causa dei pestaggi degli agenti. Nel 2019 due supervisori sono stati accusati di aver protetto un gruppo di guardie che spruzzavano spray al peperoncino sul volto dei detenuti disposti in fila e ammanettati. Nello stesso anno, la LaSalle ha ottenuto un contratto per occuparsi di 677 immigrati detenuti. Pochi mesi dopo un cittadino cubano si è suicidato mentre era in isolamento. Il sindaco di Richwood è Gerald Brown, del Partito democratico. Brown dice di capire le preoccupazioni legate al centro di detenzione, ma sottolinea che il rapporto tra la comunità e gli amministratori della struttura è migliorato dopo che è stata convertita in un centro dell’Ice. Oggi quegli amministratori partecipano alle parate locali e invitano spesso Brown. I dipendenti del centro hanno uno stipendio molto più alto rispetto al passato, aggiunge il sindaco. E i soldi che la La Salle Corrections versa al comune per gestire il carcere sono triplicati, raggiungendo il mezzo milione di dollari all’anno, quasi un terzo del bilancio di Richwood. Nella struttura, che si trova in un bosco oltre un quartiere di case popolari, quasi 1.200 detenuti provenienti da tutto il mondo aspettano in un limbo. “Quando sono arrivata eravamo in cinquanta, ma poi ogni giorno si sono aggiunte tante altre persone”, racconta Adriana Mata Sánchez, 44 anni, che è rimasta lì per più di tre mesi. Entrata illegalmente negli Stati Uniti dal Messico nel 2001, spiega che a Rich­wood dormivano in letti a castello tripli, senza nemmeno lo spazio per sedersi. Le luci venivano spente a mezzanotte e riaccese quattro ore dopo, quando i secondini urlavano ordinando alle donne di alzarsi. Nelle celle c’erano ragazze, madri e donne anziane. Almeno una era incinta. Alcune erano lì da settimane, altre da mesi. Lei era tra quelle che venivano pagate un dollaro al giorno per pulire i bagni e lavorare in cucina. Una haitiana con cui aveva fatto amicizia è morta tempo dopo in un centro di detenzione della Florida. Nata in Messico, Mata Sánchez ha vissuto vicino a Fort Worth, in Texas, per più di vent’anni, lavorando negli stabilimenti per il confezionamento della carne e crescendo i figli. A febbraio è stata fermata dalla polizia mentre viaggiava in Mississippi diretta in Georgia. La polizia l’ha consegnata all’Ice, che l’ha trasferita a Rich­wood. Come molte altre persone detenute in Louisiana, Mata Sánchez è stata arrestata lontano dal confine meridionale. Un tempo nei centri di detenzione finivano soprattutto richiedenti asilo fermati mentre cercavano di passare la frontiera, ma vista la riduzione dei flussi al confine, registrata già durante l’ultima fase della presidenza di Joe Biden, l’amministrazione Trump ha cominciato ad arrestare i migranti in tutto il paese. Molti di loro vivono negli Stati Uniti da anni e non hanno precedenti penali. Alcuni sono stati incarcerati per infrazioni stradali, altri per non aver rispettato le scadenze nella consegna di documenti. In alcuni casi, come quello di Suri, la motivazione sembra politica. Molti sono stati arrestati in città come Filadelfia e New York e nel giro di pochi giorni si sono ritrovati nella Louisiana rurale dietro recinzioni di filo spinato. Gli avvocati hanno criticato le condizioni in cui vivono i detenuti, tra scarsa assistenza sanitaria, uso indiscriminato dell’isolamento e abusi. In un rapporto governativo del 2023, il centro di detenzione di Richwood è citato per la scarsa pulizia e l’assistenza sanitaria carente. Il numero di persone rinchiuse nel centro è aumentato del 50 per cento da febbraio. Oggi la popolazione supera i 1.129, la capienza massima della struttura. E hanno riferito che negli ultimi mesi sono stati aggiunti diversi letti. Per la maggior parte delle persone detenute in Louisiana è difficile uscire. Il tasso di approvazione delle richieste di asilo da parte dei giudici è tra i più bassi del paese. Nei primi mesi del 2025 alcuni tribunali hanno cominciato ad autorizzare rilasci su cauzione, ma questa possibilità è stata limitata a giugno dall’amministrazione Trump, che ha stabilito che gli immigrati entrati nel paese illegalmente non hanno diritto alla libertà su cauzione. Mata Sánchez non aveva un avvocato. Quando ha capito che rischiava di stare rinchiusa per mesi prima di ottenere un’udienza davanti a un giudice - che molto probabilmente avrebbe ordinato la sua espulsione - ha deciso di farsi rimpatriare nella speranza di poter rientrare legalmente nel paese. Il 9 maggio è stata trasferita dalla Louisiana al Texas. Il giorno dopo era su un autobus diretto in Messico insieme ad altri immigrati. In Louisiana gli avvocati riferiscono che molti clienti chiedono di lasciare gli Stati Uniti piuttosto che aspettare un permesso di soggiorno. Il dipartimento di stato ha chiarito che questo è esattamente l’obiettivo dell’amministrazione. Per quanto riguarda il sovraffollamento, la soluzione del presidente consiste nel costruire altre strutture. La legge approvata dal congresso a luglio assegna all’Ice altri 45 miliardi di dollari per creare nuovi centri di detenzione ed espandere quelli esistenti. “L’obiettivo è espellere rapidamente gli stranieri, trattenendoli nelle strutture dell’agenzia per il minor tempo possibile”, ha scritto un portavoce del dipartimento della sicurezza interna. Grazie ai nuovi finanziamenti, “l’Ice avrà a disposizione 14,4 miliardi di dollari per i voli di rimpatrio”. Suri ricorda che nei giorni trascorsi nel centro di Alexandria ha visto centinaia di uomini arrivare e partire nel giro di poche ore. Gli agenti urlavano per radunare tutte le persone provenienti da un paese e poi spostavano il gruppo da un’altra parte. Chi restava indietro non aveva idea di quale sarebbe stato il suo destino. Il 21 marzo, tre giorni dopo il suo arrivo in Louisiana, Suri è stato ammanettato, caricato sul sedile posteriore di un furgone e trasferito, da solo, in un centro di detenzione in Texas, dove ha dormito su un bancale di plastica. Cinquantaquattro giorni dopo un giudice ha ordinato che fosse rilasciato su cauzione. Il caso di Suri ha attirato l’attenzione dei giornali ed è stato preso in carico dalla American civil liberties union. Molti altri detenuti non possono contare sullo stesso sostegno. “Ho visto l’incertezza nei volti di quelle persone”, racconta Suri. Quando aspettavano ad Alexandria, ha aggiunto, “non erano da nessuna parte. Nessuno sapeva dove si trovassero”. *New York Times Medio Oriente. L’infermiera di Emergency: “La vera colpa a Gaza è restare a guardare” di Marta Serafini Corriere della Sera, 22 agosto 2025 Eleonora Colpo, medical coordinator della Ong dal 2019. “Dopo Afghanistan e Ucraina credevo di conoscere la guerra, ma ai bambini bruciati non ti abitui: perché loro e non noi?”. “Ero tornata da poche ore. Sono andata a fare la spesa. Nel negozio mi è venuto il magone. Ottanta marche di shampoo, sette tipi di ciliegie, carne, formaggio, tutto in abbondanza eccessiva mentre nella Striscia i bambini muoiono di fame e un sacco di farina costa 500 euro”. Eleonora Colpo lavora come infermiera e medical coordinator con Emergency dal 2019. Da dicembre ai primi di luglio con un mese di pausa in mezzo, in missione nel posto meno accessibile della terra e oggi più pericoloso: Gaza. “Sono entrata che non c’era ancora il cessate il fuoco, sono uscita che la tregua era finita e gli aiuti umanitari avevano smesso di entrare”. Eleonora è “abituata” alla guerra: ha vissuto e lavorato in Afghanistan e in Donbass. “Ma a Gaza ho imparato che può sempre peggiorare”. Classe 1989, resta salda senza perdere la tenerezza. “Ora che sono a casa mi sento in colpa. Gli ultimi giorni visitavo i bambini denutriti. Per fare lo screening ai bambini abbiamo uno strumento che si chiama Muac, un nastrino per misurare la circonferenza del braccio: sono sempre di più quelli che hanno il risultato giallo o rosso. E quando tornerò sarà peggio. C’è così tanto da fare. Ma lo so anche io che ora mi devo riposare”. Fermarsi vuol dire casa, a Trento, dove è nata e cresciuta. La famiglia, gli amici. “Poi magari parto e vado a farmi un viaggio”. Poca voglia di stare nello stesso posto per troppo tempo, fin da quel giorno in cui durante una manifestazione a Trento è andata a chiedere come fare a partire con Emergency. “I diritti devono essere di tutti, sennò chiamateli privilegi diceva il dottor Gino (Il dottor Gino per chi lavora in Emergency è solo uno ed è Gino Strada, ndr). Una massima che mi ha sempre guidato. Perché noi sì e loro no? Chi l’ha deciso?”. Testardaggine. Voglia di cambiare il mondo. Ma anche voglia di vederlo, il mondo. Prima in terapia intensiva in Inghilterra, poi in zone di guerra. “Ho scelto di fare l’infermiera ma poteva essere anche la giornalista, l’obiettivo era andare alla scoperta”. Ma non dei luoghi da cartolina su Instagram. “Un bel salto da Trento, passando per il Lincolnshire all’ Afghanistan. Ma è in Panjshir e nell’Helmand che ho visto i posti più belli e più disperati che esistano”. Avanti veloce fino al 2023, in Donbass, vicino a Sloviansk, a curare gli anziani sotto le bombe: “Pensavo di aver imparato a conoscere la guerra. Non ero ancora stata a Gaza. Lì ti abitui a dormire anche mentre intorno tutto esplode. Ma ai bambini che arrivano perché si sono ustionati con i pentoloni delle distribuzioni di cibo, o con le ferite perché gli israeliani hanno sparato dai quadricopter, no, a quelli non ti abitui mai”. E c’è anche da stare chiusi per settimane tra la guesthouse e l’ambulatorio: “In Afghanistan la gente può muoversi e le merci arrivavano seppur con difficoltà. A Gaza le persone si spostano a seconda degli ordini di evacuazione, i valichi sono del tutto chiusi, l’area a disposizione dei civili si va restringendo sempre di più. Dopo tre mesi ho visto colleghi smagriti. Non mi era mai successo, da nessun’altra parte”. Buzzati insegna - A volte rientrare è più difficile che partire. Si dorme comodi ma non sempre il sonno è sereno. “Uno dei miei libri guida è Il deserto dei Tartari di Buzzati. Mi ha sempre affascinata e un po’ inquietata. L’idea di rimanere fermi ad aspettare qualcosa che mai arriva e quindi sprecare la vita come il protagonista mi ha sempre spaventata. Ed ogni tanto lo leggo per ricordarmelo”. Ma anche il senso di colpa. “Qui abbiamo tutto e di là non hanno niente. Io posso andarmene. Chi curiamo invece è costretto a restare e questo non me lo riesco a perdonare”. Difficile immaginarsi tra dieci anni, soprattutto per chi vede morte e distruzione tutti i giorni. “Non voglio neanche pensarci troppo, ora come ora mi piace il lavoro che faccio e vorrei avere le energie per continuare però ho imparato che è inutile fare progetti troppo a lungo termine tanto poi il destino fa sempre quello che pare a lui”. E così si aspetta di ripartire fino alla prossima missione. L’appello. “Liberate i leader cristiani detenuti in Eritrea” Avvenire, 22 agosto 2025 La Ong Open doors, in occasione della giornata internazionale Onu delle vittime di atti di violenza basati sulla religione e sul credo, ricorda la persecuzione attuata da decenni dal regime di Isais. Corea del Nord, Iraq, Nicaragua, Afghanistan, Sudan, Pakistan, India, Eritrea, solo per citarne alcuni. E in occasione della Giornata internazionale delle vittime di atti di violenza basati sulla religione e sul credo che si celebra domani, l’organizzazione Porte Aperte/Open Doors ha scelto l’Eritrea come paradigma della situazione per lanciare un appello urgente per la liberazione di alcuni leader cristiani detenuti arbitrariamente all’Asmara, evidenziando una grave e persistente violazione dei diritti umani da parte del regime del dittatore Isais Afewerki al potere dal 1993. Dal 2004, almeno sette pastori e sacerdoti appartenenti a diverse confessioni cristiane sono detenuti senza accusa formale ne processo nel Paese in cui la presenza cristiana è oltre il 50 per cento. Le loro famiglie non hanno potuto visitarli, e le condizioni di detenzione restano sconosciute, sebbene si ritenga che siano rinchiusi nel centro di massima sicurezza Wengel Mermera, noto anche come Karchele, ad Asmara. La loro condizione incarna alla perfezione la sofferenza di migliaia di prigionieri di coscienza attualmente detenuti senza accusa né processo in Eritrea. A questo si affianca la campagna contro le Chiese, in particolare quella cattolica con minacce a sacerdoti e religiosi, confisca di beni e chiusura di scuole destinate alle fasce più povere della popolazione. Il 23 maggio 2004, il reverendo Haile Naizge, presidente della Chiesa Full Gospel (Muluwengel), e Kuflu Gebremeskel, presidente dell’Alleanza Evangelica Eritrea e docente universitario, sono stati arrestati durante mirate irruzioni notturne nelle loro abitazioni. Le loro famiglie hanno subito gravi conseguenze: la madre del reverendo Naizge è morta senza poterlo rivedere, mentre sua moglie Rahel e i suoi tre figli, Shalom, Joel e Naher, sono stati costretti a fuggire all’estero. Il 3 giugno 2004, il reverendo Million Gebreselassie, responsabile della Chiesa Evangelica Rhema di Massawa e medico anestesista presso l’ospedale di Massawa, è stato arrestato a un posto di blocco senza alcuna ragione e successivamente trasferito al carcere di Wengel Mermera. Il 19 novembre 2004, tre sacerdoti ortodossi, Futsum Gebrenegus, rinomato psichiatra, il reverendo Tekleab Menghisteab, medico presso l’ospedale psichiatrico St. Mary di Asmara, e il reverendo Gebremedhin Gebregiorgis, teologo e promotore di programmi educativi contro l’Hiv, sono stati arrestati per il loro coinvolgimento nel movimento di rinnovamento della Chiesa Ortodossa. Il governo, ostile al movimento, ha ordinato la sua chiusura e l’espulsione dei membri, provocando anche la rimozione forzata del Patriarca Abune Antonios, che si oppose a tali misure. Tutti e tre sono detenuti nel carcere di Wengel Mermera. Nel 2005 è emerso che il reverendo Menghisteab era stato portato in ospedale per problemi di salute non curati in carcere: anche durante questa emergenza, ai suoi familiari non è stato permesso di fargli visita e le notizie sul suo ricovero sono giunte alla famiglia solo attraverso il personale della prigione e dell’ospedale. La moglie Wubie Kahsay e le figlie Hana, Sesayit e Rediet sono fuggite dal Paese per garantire la propria sicurezza. La moglie e il padre del dottor Gebrenegus sono morti negli anni successivi alla sua incarcerazione. Nel giugno 2022, invece, la moglie del reverendo Gebregiorgis, Tsegeweyni Mekonnen Haile, è morta di cancro, lasciando il marito e tre figli. Un ventennio di silenzio e sofferenza - Il 18 marzo 2005, reverendo Kidane Weldou, pastore senior della Chiesa di Asmara e membro del comitato esecutivo dei Gideons International, è stato arbitrariamente arrestato. Padre di quattro figlie, è anch’egli detenuto senza processo da oltre vent’anni. Questi casi emblematici rappresentano solo una parte delle migliaia di prigionieri di coscienza attualmente detenuti in Eritrea. Porte Aperte/Open Doors chiede con forza alla comunità internazionale di intensificare la pressione sul governo eritreo affinché ponga fine a queste gravi violazioni dei diritti umani e rilasci immediatamente tutti questi detenuti. L’Eritrea è da molti anni ai primi posti della World Watch List di Porte Aperte, la lista dei paesi dove più si perseguitano i cristiani al mondo: nell’ultimo rapporto 2005 ricopre la sesta posizione del ranking mondiale tra i Paesi in cui i cristiani sperimentano un livello estremo di persecuzione.