Il populismo penale e i morti in carcere di Claudio Cerasa Il Foglio, 21 agosto 2025 Ancora un suicidio fra i detenuti. Secondo Nordio il sovraffollamento delle galere non c’entra nulla con la disperazione di chi si uccide, mentre Gratteri butta la palla in tribuna. Il cinismo bipartisan. Ferragosto è passato, e pure il meritorio Ferragosto in carcere dei Radicali. Il pomeriggio di Ferragosto s’è portato via anche un detenuto di 53 anni, la prima volta in un istituto di pena, suicidatosi a Benevento. Nemmeno l’ultimo: ieri la notizia di un detenuto extracomunitario di 34 anni che si è tolto la vita nel bagno della cella nella Casa circondariale di Catania. Il conto sale così a 56 detenuti che si sono uccisi da inizio 2025, oltre a tre operatori penitenziari. Una situazione fuori dallo stato di diritto, da ogni criterio di umanità ma soprattutto fuori da ogni controllo responsabile da parte delle autorità. “Nei paesi in cui gli uomini non si sentono al sicuro in carcere, non si sentono sicuri neppure in libertà”. È una celebre frase dello scrittore polacco Stanislaw Jerzy Lec. Bisogna augurarsi che un ministro di vena intellettuale e liberale, come Carlo Nordio, la conosca bene. Dal Guardasigilli si sono sentite invece, nei giorni scorsi, parole e giustificazioni irricevibili, come quella secondo cui il sovraffollamento delle patrie galere, per il quale l’Italia è stata più volte richiamata e condannata a livello europeo, non c’entra nulla con la disperazione di chi si uccide. Anzi, non ci sarebbe “nessun allarme suicidi”, dacché sarebbero addirittura sotto la media. Dall’altra parte ci sono magistrati come Nicola Gratteri, ieri su Repubblica, che danno la colpa della situazione delle carceri al fatto che “comandano i boss”. Che significa semplicemente buttare la palla in tribuna, magari per non ammettere che le prigioni andrebbero per prima cosa alleggerite di tutte le persone che vengono arrestate in modo “preventivo” e senza - statistiche alla mano - che sia necessario e giusto fare. Gratteri preferisce lamentarsi che “l’interrogatorio preventivo prima della misura cautelare” rallenta, evidentemente, il riempimento delle galere, quelle dove comandano i boss. Chiedere, invece, più stato di diritto? A destra e a sinistra, solo populismo penale. In mezzo, i morti. Carceri affollate e suicidi, la strada difficile del ddl “salva-detenuti” di Valentina Stella Il Dubbio, 21 agosto 2025 Il provvedimento divide la maggioranza, vede favorevoli le opposizioni e rischia di riaccendere lo scontro con le toghe. Trattativa difficile per approvare al rientro dalle ferie il ddl “salva-detenuti”. Nel giorno del 56esimo suicidio in carcere e durante una estate ancora meteorologicamente rovente, soprattutto dietro le sbarre, abbiamo cercato di capire se ci siano concrete possibilità che il Parlamento alla sua riapertura metta l’acceleratore su un provvedimento che dia respiro agli istituti di pena. Ma probabilmente la strada è in salita e non si esclude che questo scenario potrà configurare l’ennesimo scontro tra politica e magistratura. Com’è noto, prima del termine dei lavori a Palazzo Madama, il presidente del Senato Ignazio La Russa aveva affidato alla vice presidente, la dem Anna Rossomando, il compito di stilare il testo di un disegno di legge per deflazionare la popolazione carceraria. L’elaborato è pronto ed è sulla scrivania della seconda carica dello Stato. Si tratterebbe di una liberazione anticipata da concedere ai detenuti con pena residua inferiore a 18 mesi e per reati non gravi. Per superare le possibili obiezioni, come già anticipato a fine luglio, l’idea è quella di non proporre al Parlamento una copia del ddl Giachetti, che prevede di aumentare a 75 i giorni di premialità per la liberazione anticipata, ma una versione rivista della norma adottata durante l’emergenza Covid, quando con il decreto “Cura Italia” si stabilì che i detenuti con pene non superiori a un anno e mezzo avevano la possibilità di scontare la pena ai domiciliari oppure in altre strutture di cura, assistenza o accoglienza. Difficile al momento prevedere come si evolverà la questione in quanto, fatta eccezione per Fi, gli altri due partiti di maggioranza non sono compattamente a favore del ddl. Sergio Rastrelli, senatore di Fratelli d’Italia e segretario della commissione Giustizia, ci dice: “Come sempre valuteremo ogni provvedimento con la massima serietà, consapevoli che occorre uno sforzo comune - soprattutto in questa fase di particolare delicatezza - per conciliare certezza della pena e umanizzazione del trattamento, e coniugare quindi la necessaria sicurezza delle strutture carcerarie con la piena dignità dei detenuti”. “Siamo disponibili quindi - conclude - a ogni riflessione, purché la soluzione da adottare sia rispettosa dei pilastri della certezza della pena e della sicurezza sociale, e non svilisca in alcun modo l’autorità dello Stato”. Anche il vice presidente della commissione Giustizia, Sandro Sisler di Fd’I, ci racconta che del testo ha discusso con La Russa ma che solo a settembre se ne parlerà con tutto il gruppo per fare “opportune valutazioni: dovremmo capire quando si vedranno gli effetti dei pacchetti di riforma messi in campo dal Governo” (piano di edilizia penitenziaria, ndr) e “se non si corra il rischio che la proposta Rossomando si riveli solo una risposta tampone, mentre il carcere necessita di provvedimenti strutturali”. Inoltre, proprio qualche giorno fa vi avevamo raccontato di un botta e risposta tra il forzista Tommaso Calderone, che sollecitava a mettere mano quanto prima a riforme sulla custodia cautelare e sulla liberazione anticipata, e il potente sottosegretario alla giustizia Delmastro Delle Vedove che ribadiva il suo secco “no” a qualsiasi strumento deflattivo orizzontale, quale dovrebbe essere proprio il meccanismo pensato da La Russa e Rossomando. Ma quindi i numeri ci sarebbero? Al momento il pallottoliere è indefinibile: la premier Giorgia Meloni, prima ancora che La Russa, dovrebbe convincere i contrari all’interno del suo partito a dire “sì”; e in più si registrano diversi mal di pancia all’interno della Lega. Mentre gli azzurri sarebbero appunto favorevoli insieme ai partiti di opposizione Pd, Iv, Azione, Avs contrariamente al M5S. In più, i tempi di una eventuale approvazione non sarebbero brevissimi: si pensa, se tutto dovesse filare liscio - ipotesi lontana adesso - a prima di Natale. Se tale scenario fosse confermato, ossia se il governo continuasse a non fare nulla nell’immediato contro sovraffollamento e suicidi, si potrebbe aprire uno nuovo scontro con la magistratura, dopo quello che si è avuto a seguito della decisione della Cgue sulla questione migranti. Proprio ieri in una intervista ad Avvenire, il segretario generale dell’Anm, Rocco Maruotti, ha attaccato la visione carcerocentrica dell’Esecutivo e del ministro Nordio, in particolare. Nello stesso giorno La Stampa ha dato notizia di una decisione del tribunale di sorveglianza di Torino che ha concesso i domiciliari a un detenuto affetto da patologie che si sarebbero aggravate a causa del sovraffollamento. Nelle motivazioni si precisa infatti che “non sussiste incompatibilità in senso stretto con il regime carcerario”, ma che “il quadro di sovraffollamento impone una riflessione sulla necessità di mantenere in carcere soggetti con serie patologie, ancorché monitorate e non in fase di immediato peggioramento”. Si deve anche ricordare che a luglio il “parlamentino” dell’Anm all’unanimità aveva detto “sì” alla pdl Giachetti e qualche giorno dopo Claudio Galoppi, segretario di Magistratura Indipendente, la corrente da sempre più timida verso misure deflattive per il carcere, in una intervista al Tempo aveva sollecitato addirittura l’amnistia. Dunque tra qualche mese potremmo trovarci nuovamente tra due fuochi: da una parte la maggioranza che tiene dentro tutti i detenuti in nome di certezza della pena e sicurezza e dall’altra la magistratura unita nel condurre una battaglia politica per un carcere subito più umano e tesa a sottoscrivere provvedimenti, come quello di Torino, che salvano i reclusi dall’inferno carcere. Detenuti dimenticati: la politica faccia di più di Antonio Mattone Il Mattino, 21 agosto 2025 La clamorosa evasione di due detenuti dal penitenziario di Poggioreale ha alimentato la discussione sulle condizioni e sulle criticità delle carceri italiane. Un dibattito che si apre puntualmente nei giorni di caldo afoso, e che quest’anno ha visto anche il contributo del detenuto “eccellente” Gianni Alemanno, già ministro nel Governo Berlusconi ed ex sindaco di Roma, che ha saputo descrivere efficacemente la durezza della vita all’interno delle celle. Inoltre, giorni addietro c’è stata la polemica sulle dichiarazioni del ministro della Giustizia Carlo Nordio, che ha contestato la correlazione tra il numero di suicidi, dall’inizio del 2025 arrivati a quota 55, e il sovraffollamento all’interno degli istituti di pena, dove sono presenti quasi 16mila detenuti in più rispetto ai posti disponibili. Che la situazione nelle carceri italiane sia difficile e allarmante, appare abbastanza evidente. Soprattutto in alcuni penitenziari. Basta parlare con chi ci lavora o con chi ne è rinchiuso per scontare una condanna, per rendersene conto. Il carcere di Poggioreale è sicuramente tra quelli più problematici, soprattutto per le condizioni di estremo degrado strutturale, per il deficit di personale (una carenza di organico di oltre 150 agenti, per non parlare di medici, infermieri, psicologi e psichiatri) e per il numero di persone recluse: 2100 su una capienza di 1624. E la situazione viene aggravata dalla chiusura per lavori di ristrutturazione di un intero padiglione, e della metà di un altro reparto. Tuttavia, per cercare di affrontare e comprendere la criticità del sistema carcerario italiano, bisogna rendersi conto della grande complessità dei problemi del pianeta carcere. Non ci sono ricette facili né si può colpevolizzare chi ci lavora, a volte con fatica e sacrifici. Ad esempio, solo per parlare di una delle soluzioni che di tanto in tanto vengono proposte, è velleitario pensare di costruire nuove carceri senza fare i conti con la mancanza cronica di personale: se c’è difficoltà a coprire i posti necessari per far funzionare gli istituti attualmente aperti, come si può pensare di poterne realizzarne di nuovi con lo stesso organico? La vicenda dei due detenuti evasi, e immediatamente riarrestati dalla polizia penitenziaria, apre un altro fronte, quello della presenza degli stranieri. A chi ha conosciuto il ragazzo siriano di 23 anni fuggito da Poggioreale, etichettato dalla cronaca come un rapinatore, è sembrato essenzialmente un ragazzo di estrema fragilità. Viveva in un paese ai confini con la Turchia ed è scappato a piedi fino a giungere in Italia. Quando gli è stato chiesto della sua famiglia gli sono scesi due lacrimoni: erano tutti morti, uccisi in quell’infinita guerra civile che insanguina la Siria dal 2011. Arrivato nel nostro Paese, senza riferimenti e legami, ha vissuto per strada dove ha iniziato a drogarsi e a compiere gesti di autolesionismo, quasi a volersi lasciare andare. Poi le rapine per avere qualche soldo ed è così finito in carcere. Qui, al momento dell’ingresso, non ha reso nota la sua tossicodipendenza, probabilmente non ha compreso che con quella dichiarazione avrebbe potuto essere seguito ed aiutato dal Serd di Poggioreale, forse il servizio più efficiente e funzionante all’interno dell’istituto. Per chi è straniero, la mancanza dei mediatori culturali al momento del colloquio con l’avvocato, così come è avvenuto per il ragazzo siriano, è un grande problema, perché nega la possibilità di una completa elaborazione della strategia difensiva. Per questi detenuti le attività rieducative sono quasi nulle, mancano prospettive e c’è poco lavoro all’interno degli istituti. Molti non parlano l’italiano e non riescono a comunicare con il personale. Trascorrono 22 ore in cella senza far niente ed alla fine può succedere che danno sfogo alla rabbia con gesti violenti e inconsulti. Anche la condizione dei carcerati malati è molto difficile. Sottoposti a tempi di attesa infiniti per ricoveri ed esami diagnostici importanti, vedono scorrere il tempo senza che nulla accada. E poi, quando arriva il giorno fatidico della visita, può succedere che manca la scorta che dovrebbe accompagnarli in ospedale e i detenuti restano in carcere. Non è vero che la difficoltà di curarsi è uguale per chi è libero e per chi non lo è. Nella recente visita a Poggioreale, il Capo dipartimento ha auspicato l’utilizzo di una TAC per risparmiare costi all’amministrazione e sofferenze ai detenuti. Una proposta che speriamo possa concretizzarsi in tempi brevi. Oggi la politica appare disinteressata al destino dei carcerati. E in fondo, a parte alcune eccezioni, lo è sempre stata. Attualmente sono i partiti di sinistra a chiedere misure per rendere il carcere più umano, ed è giusto che lo facciano. Ma non dobbiamo dimenticare la grande occasione persa quando, alla vigilia delle elezioni politiche del 2018, per motivi di opportunismo, il Pd non approvò la Riforma frutto della discussione degli Stati Generali, pur avendo i numeri necessari. Forse è giunto il tempo di fare scelte nuove e coraggiose. Ci sarebbe bisogno non di carceri nuove, ma di nuove carceri e di un sistema di trattamento che possa incidere con efficacia sui detenuti. Si avrebbe così anche un tornaconto perché rieducare, laddove possibile, significherebbe avere meno criminalità nelle città. Sovraffollamento delle carceri: siamo al punto di rottura di Antonio Bincoletto* tuttieuropaventitrenta.eu, 21 agosto 2025 Quasi 63.000 detenuti nelle carceri italiane, capaci di contenerne regolarmente 48.000. Erano circa 56.000 i detenuti quando, nel 2021, assunsi il ruolo di Garante comunale a Padova. La situazione è andata via via peggiorando negli anni, con un aumento costante delle persone ristrette. Ci stiamo avvicinando al punto di rottura, come avvenne nel 2013, quando una sentenza della Corte europea condannò l’Italia per le condizioni in cui teneva i carcerati, che rasentavano la tortura: celle con meno di 3m² di spazio disponibile per persona. Si ricorse allora a misure straordinarie, quali l’apertura delle sezioni attraverso la vigilanza dinamica, e il riconoscimento di una riduzione di pena per chi risultasse sottoposto a condizioni detentive non adeguate e dignitose. Ora di nuovo le cifre parlano da sole e denunciano ancora la precarietà in cui versa il sistema dell’esecuzione penale in Italia: andiamo incontro a nuovi richiami e sanzioni dall’Europa, mentre l’esecutivo pare preso sempre più dall’incauto esercizio di rispondere col carcere a nuovi reati e aumentare le pene relative, ovvero ad eliminare quegli ammortizzatori che, come la sorveglianza dinamica, tendevano ad attenuare le inadeguate condizioni detentive. Bisogna capire esattamente cosa significa tutto ciò e cosa comporti il sovraffollamento nelle prigioni: non si tratta infatti solo di un dato spaziale, riferito ai m² disponibili, bensì di un quadro che mette in crisi un sistema già provato da decenni di trascuratezza rispetto alla missione costituzionale affidatagli. Vediamo un po’. Pensiamo ad un contesto qualunque, di scuola, lavoro o altro, ideato per un certo numero di persone, che si trovi ad essere popolato da una quantità di individui superiore del 30% e più rispetto a quanto previsto, senza alcun adeguamento di spazi e personale. È evidente che un sistema in tali condizioni si troverà in forte difficoltà e sofferenza. Lo si è per esempio constatato quando nelle scuole venne innalzato a 30 e più il numero di alunni per classe. Le lezioni si potevano fare ugualmente ma la qualità della vita interna, dell’insegnamento e degli interventi personalizzati ne risentiva, a principale discapito dei più fragili. Lo stesso succede nelle carceri, con l’aggravante che lì le persone sono affidate in toto allo Stato e devono trascorrere tutto il tempo ristrette, senza possibili alternative. La mancanza di spazio è la prima conseguenza: celle pensate per 1-2 persone ora ne ospitano 3-4, attraverso l’inserimento di letti a castello. I metri procapite si riducono, si devono fare i turni per andare al bagno, manca lo spazio per le proprie cose, la promiscuità e il disagio per una convivenza obbligata aumentano. Studi antropologici mostrano chiaramente come le condizioni di cattività e di costrizione in spazi angusti scatenino reazioni di aggressività verso se stessi e gli altri in tutte le specie animali, uomo compreso. Come si può dunque affermare che il fenomeno dei suicidi, 20 volte superiore nelle carceri rispetto a fuori, non c’entri nulla col sovraffollamento? Si è perfino andati oltre, sostenendo che essere in tanti ridurrebbe il rischio suicidario perché si starebbe meno da soli (sic!). Non meriterebbe nemmeno risposta, se il numero dei suicidi non fosse in continuo aumento negli ultimi anni (90 nel 2024, 55 ad oggi nel 2025). Certo, non sarà l’unica causa, ma un nesso causale senza dubbio esiste in molti casi, anche alla luce delle osservazioni seguenti. Sovraffollamento non ha solo a che fare con gli spazi, bensì (e forse anzitutto) con le attenzioni che un sistema è in grado di dedicare al singolo individuo. Non è la stessa cosa per un educatore seguire 50 persone o seguirne 100, tener presenti le dinamiche e gli interventi da fare verso ciascuno affinché il trattamento sia efficace e porti ai risultati attesi. Gli psicologi, già scarsi rispetto alle necessità “normali”, poco potranno fare verso chi ne chiede l’intervento: sarà già molto se riusciranno a vedere per una volta i richiedenti colloquio e a registrarne il profilo. Lo stesso vale per mediatori culturali e altri operatori trattamentali. Gli unici ad avere contatto quotidiano con le persone recluse sono gli agenti di sezione, pure loro comunque sotto organico, che si fanno carico in qualche modo delle innumerevoli richieste emergenti, senza poter, in molti casi, dare risposte esaurienti e adeguate. E questo non per trascuratezza ma per il ruolo specifico che si trovano a ricoprire nel carcere. Il sovraffollamento poi riduce le quote di chi riesce ad usufruire dei servizi scolastici o del lavoro, interno ed esterno, e appesantisce l’opera già gravosa del servizio sanitario. Pensiamo per esempio alla grande quantità di tossicodipendenti presenti nei nostri istituti. Il loro numero aumenta costantemente, mentre gli psicologi del SERD rimangono pochi e con scarsi mezzi d’intervento. Mandarli in comunità, dice il Ministro, come se fosse facile e immediato: e perché allora non si è già fatto? Lo stesso vale per l’assegnazione in misure alternative fuori di chi ne potrebbe usufruire: se è praticabile, come mai non lo si fa già? Nessuno parla delle condizioni in cui versano gli ULEPE, con pochissimi assistenti sociali a seguire migliaia di persone, o i Tribunali di sorveglianza che decidono sull’assegnazione in misura alternativa al carcere: 250 magistrati ca. in tutta l’Italia, a coprire una popolazione di oltre 60.000 detenuti + 90.000 già assegnati. Insomma, le parole volano leggere, ma sono ben diverse dai fatti! Dunque il sovraffollamento non implica solo problemi di spazio ma anche una grande serie di effetti secondari che oggi comportano conseguenze molto pesanti. Ma per capirlo bisogna conoscere e per risolvere bisogna volere. E ci vuole senso di umanità e coraggio per affrontare un problema che non porta grandi consensi elettorali. Per molti è più comodo cavalcare il populismo e non intervenire per evitare che il sistema degeneri. Ma in quella direzione inevitabilmente si andrà se non si riporta con urgenza la legalità costituzionale anche dentro alle carceri. *Garante dei diritti dei detenuti Comune di Padova Rita Bernardini: “Nelle carceri la situazione è disastrosa e a rischio peggioramento” di Barbara Roffi tuttieuropaventitrenta.eu, 21 agosto 2025 Se negli ultimi tempi il sovraffollamento nelle carceri italiane ha raggiunto già il 133% della sua capacità a livello nazionale - con percentuali superiori al 200% in alcune carceri come a Milano, a Brescia, a Lucca e a Foggia - la situazione rischia ancora di peggiorare a causa dei più di centomila cosiddetti “liberi sospesi” cioè individui condannati, ad una pena inferiore a 4 anni, che aspettano la decisione di un magistrato di sorveglianza se mandarli in carcere o dargli una qualunque altra misura alternativa. “L’attesa per queste persone può durare anche diversi anni - ci dice Rita Bernardini, Presidente dell’associazione Nessuno tocchi Caino - con un impatto immaginabile sulla vita di queste persone, ma se per ipotesi anche solo il 40% di queste persone dovesse finire in carcere la situazione esploderebbe e rischierebbe di succedere un finimondo”. I dati del sovraffollamento secondo il Ministero della Giustizia indicano che la capienza regolamentare sarebbe di 51.312 posti a cui vanno sottratti 4.475 posti inagibili, a fronte di una popolazione carceraria di 61.861 persone al 31/12/2024. Ma secondo Rita Bernardini - ex parlamentare radicale ed ex vicedirettrice di Radio Radicale - occorre sottrarre dalla capacità ricettiva 4.474 posti che sono inagibili e quindi inutilizzabili. Quello del sovraffollamento non è certo l’unico problema ma la situazione è in gran parte dovuta allo Stato che per primo non rispetta le proprie leggi. Uscire dalla visione carcerocentrica - “Per esempio, nella nostra Costituzione, scritta da persone che in molti casi hanno vissuto il carcere in prima persona, la parola carcere non compare mai in nessun articolo, mentre si parla invece solo di pene - prosegue Bernardini - e di pene ce ne possono essere molte e diverse fra loro; malgrado questo la mentalità resta prevalentemente ‘carcerocentrica’ con le conseguenze che sono sotto gli occhi tutti”. L’articolo 27 infatti dice tra l’altro che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato, mentre le condizioni di vita dei carcerati è spesso disumana e degradante, come la nostra associazione - attiva da più di 30 anni - denuncia regolarmente dopo le visite effettuate negli istituti di pena in tutta Italia”. Secondo Rita Bernardini le pene che potrebbero essere declinate in vario modo di fatto sono poco praticate anche per l’assenza di tutto il personale che dovrebbe occuparsi di metterle in atto. Carenza del personale penitenziario - La carenza del personale è severissima per ogni professione necessaria per un corretto funzionamento del carcere, a partire dai magistrati di sorveglianza di cui ne servirebbero mille in più, gli educatori, gli assistenti sociali che avrebbero un ruolo cruciale nell’organizzazione delle attività ‘trattamentali’ e si dovrebbero occupare del reinserimento dei detenuti nel tessuto sociale, fino ad arrivare alla carenza degli agenti penitenziari di cui Bernardini stima attualmente un deficit di 6.298 unità. Il caso degli agenti è particolarmente inquietante anche a fronte del numero dei suicidi nelle loro stesse fila, spesso compiuti con la pistola di ordinanza “perché gli agenti sono l’unica figura professionale che sta a diretto contatto con il detenuto - prosegue Bernardini - e tutta l’attenzione di una persona ristretta nella propria libertà, che per fare qualsiasi cosa deve chiedere, da una informazione, una preoccupazione per un famigliare, una telefonata e a volte anche una doccia, si rivolge sempre per primi agli agenti”. I suicidi in carcere - Per cercare di capire invece le ragioni dell’elevato numero di suicidi tra i detenuti, Bernardini dice: “bisogna partire da una domanda, chi c’è in carcere? Che tipologia di persone troviamo in carcere? Troviamo innanzitutto persone che hanno problemi di dipendenza problematica da sostanze stupefacenti, tossicodipendenti per intenderci, i casi psichiatrici, molti poveri nel senso di gente che vive il degrado della povertà, come i senza tetto o senza fissa dimora, e poi gli stranieri, quelli soprattutto che non hanno il permesso di soggiorno, che sono degli invisibili, che spesso commettono reati perché nessuno gli dà un lavoro”. La combinazione tra sovraffollamento, emarginazione sociale e carenza degli organici sono secondo Bernardini le tre ragioni principali dell’alto tasso di suicidi in carcere. Il carcere e la droga - Alcuni casi di buona gestione esistono per esempio Villa Maraini a Roma che segue circa 700/800 tossicodipendenti al giorno “una struttura non pubblica che fa un lavoro immenso e che ha pochi finanziamenti pubblici ma dovrebbe averne molti di più perché non aspetta che le persone problematiche arrivino, ma le va a cercare indicando loro una possibilità di scelta alternativa”. “l loro ruolo è molto importante anche in termini di prevenzione, così come dovrebbero esserci più psicologi o psichiatri, perché quando si innesca un percorso di gestione quotidiana problematica poi è molto difficile tornare indietro, mentre il carcere resta comunque una grande piazza di spaccio di stupefacenti, di tutti i tipi e questo grava molto sulla sicurezza sia dentro ma anche fuori dal carcere”. Uscire dalla situazione di illegalità - In assenza di tutto questo bisognerebbe prendere altri provvedimenti come fu fatto per esempio a seguito di un fortissimo monito dell’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che aveva recepito molti dei suggerimenti di Marco Pannella, in un messaggio alle Camere in cui scrisse a chiare lettere che è obbligo delle istituzioni, nel momento in cui c’è uno stato strutturale di illegalità nell’esecuzione penale, uscire immediatamente da questa situazione. Il messaggio alle Camere di Napolitano fu successivo alla sentenza Torreggiani della Corte europea dei Diritti dell’Uomo - continua Bernardini - che condannò l’Italia per trattamenti inumani e degradanti legati soprattutto al sovraffollamento, e anche se non ci fu indulto o amnistia, nel 2014 ci fu la “liberazione anticipata speciale” che consentì di liberare circa 6000 detenuti meritevoli, aiutando ad alleggerire il sovraffollamento. Ma da allora non è più stato fatto niente e dall’inizio di questa legislatura la popolazione carceraria è aumentata di più di 5000 unità e la nostra associazione, con un’iniziativa dell’on. Roberto Giachetti, ha riproposto di aumentare, per un periodo di anni limitato, il numero dei giorni di sconto della pena, da 45 a 75 giorni, a cui ogni detenuto ha diritto ogni sei mesi di buona condotta. Politica militante - Secondo Bernardini infatti la costruzione di nuove carceri prenderebbe molti anni e nel frattempo non contribuirebbe in nessun modo ad uscire da questa situazione di illegalità. “La nostra è sempre stata una politica militante, noi cerchiamo di cambiare le leggi le impostazioni politiche e cerchiamo di risolvere i problemi in modo concreto” conclude Rita Bernardini ricordando che Nessuno tocchi Caino si occupa dell’abolizione della pena di morte nel mondo, e che il nome stesso dell’associazione, tratto dal libro della Genesi della Bibbia “ci spinge a batterci per una giustizia senza vendetta”. Il Garante dei detenuti di Palermo: no all’uso del Taser nelle carceri Giornale di Sicilia, 21 agosto 2025 “L’uso del Taser, tanto diffuso in America, non sembra servire a fare diminuire gli atti criminali o le aggressioni, mentre crescono le denunce, purtroppo, nei confronti dei poliziotti che usandolo hanno causato la morte di alcune persone. Adesso sarà consegnato anche alla Polizia penitenziaria e creerà certamente altri gravi danni nei rapporti fra gli agenti e i detenuti”. Lo dice Pino Apprendi Garante dei detenuti di Palermo, il quale lamenta anche che un suicidio avvenuto nel carcere di Catania lo scorso lunedì “pare non sia stato reso noto”. “Le nostre denunce di incompatibilità del carcere per persone con problemi di salute mentale, cadono nel vuoto. Non si costruiscono Rems - aggiunge - che alleggerirebbero di molto il lavoro degli agenti anch’essi sottoposti a stress. I suicidi in carcere dei detenuti non sono un problema per il ministro e non passa giorno che non ci siano scontri fra detenuti e agenti, frutto di un clima pesante che esiste nelle nostre carceri. Tutti i ritardi e le disfunzioni, vengono scaricati su chi quotidianamente si confronta con tutte le problematiche del singolo individuo: è dimostrato dal grave episodio di ieri del carcere di Palermo Pagliarelli, non è un caso che anche fra la Polizia Penitenziaria ci sia un alto numero di suicidi, non è il Taser che può essere alternativo alla carenza di personale”. “Il clima è diventato pesante: viene riferito di un suicidio che sarebbe avvenuto lo scorso lunedì nel carcere di Catania, che pare non sia stato reso pubblico e non si capisce perché”, conclude. “Suicidi in cella provocati dai boss, partiti vigilati dai pm”: riecco Gratteri di Errico Novi Il Dubbio, 21 agosto 2025 Alcuni anni fa, subito dopo la nomina di Carlo Nordio a via Arenula, il Dubbio profetizzò un dualismo fra il neoguardasigilli e Nicola Gratteri. Finora le incursioni mediatiche, se così possiamo definirle, del procuratore di Napoli nel dibattito sulla giustizia erano state piuttosto occasionali, estemporanee. Ma sempre orientate in una chiara direzione: di attacco alla maggioranza e all’Esecutivo Meloni. In un’intervista pubblicata ieri da Repubblica, il capo dei pm partenopei, il magistrato che in Calabria è entrato in conflitto permanente effettivo con l’avvocatura penale, è riapparso con valutazioni piuttosto nette sulle scelte di Nordio e, in generale, del centrodestra. Valutazioni non di totale censura, va detto, visto che Gratteri ha citato come positive le modifiche introdotte esattamente due anni fa dal governo, col “celebre” decreto 105/2023, sull’estensione delle norme antimafia in materia di intercettazioni ai reati non associativi. Non si è trattato, insomma, di un attacco a prescindere, ma delle valutazioni di un libero opinionista. Alcune di queste opinioni, però, sono assolutamente contestabili. Innanzitutto, la tesi del procuratore di Napoli riguardo alle monarchie criminali che sopravvivrebbero in carcere. Gratteri parla di “boss”, i “detenuti di alto spessore”, che “ordinano ai più deboli una serie di “favori”, e creano così un sistema di intimidazione tale da contribuire all’aumento dei “suicidi”. Ora, è un’idea, questa, che impone una critica ontologica, per così dire: i boss, i “capi”, se sono veramente tali, vengono destinati al 41 bis. Quando proprio si è incerti sull’eventualità che abbiano un pur minimo potere direttivo nell’organizzazione criminale, li si spedisce ai reparti di “Alta sicurezza”, e cioè in sezioni in cui, di poveri disgraziati esposti all’intimidazione dei pezzi grossi, francamente se ne dovrebbero trovare pochi. La tesi di Gratteri, insomma, non sembra reggere. Non si può spiegare così la spoon river dei reclusi che si uccidono. E ci pare che la maggior parte degli osservatori la pensi diversamente dal magistrato antimafia, anche fra i colleghi in toga: basti pensare alla decisione, riportata da La Stampa di oggi, con cui il Tribunale di Sorveglianza torinese ha concesso i domiciliari a un detenuto con problemi di salute non particolarmente gravi giacché comunque “il quadro di sovraffollamento” genera un disagio capace di “arrecare” in modo assolutamente intollerabile, ai reclusi affetti da patologie, “un surplus di sofferenza e disagio”. Secondo i magistrati in servizio all’ombra della Mole, dunque, la relazione tra il sovraffollamento e gli autolesionismi, che spesso consistono nel gesto estremo di suicidarsi, esiste eccome. Gratteri affronta diversi dossier. È interpellato sul carcere per via della duplice evasione a Poggioreale, stroncata in poche ore, ma non manca di incenerire per l’ennesima volta la separazione delle carriere e di bollare, in termini generali, la politica giudiziaria del centrodestra come funzionale a sottrarre i “controllori”, cioè la politica, ai “controllanti”, vale a dire i magistrati, Corte dei conti inclusa. È un altro indizio di una visione assai criticabile: Gratteri continua ad additare la politica come un’infida masnada di mascalzoni che la magistratura sarebbe istitutivamente chiamata a cogliere con le mani nel sacco. E no, caro Gratteri: la Costituzione dice altro, soprattutto quella del 1948, in cui non a caso si era scolpita la piena immunità per i parlamentari, in nome di una separazione fra i poteri che, all’Italia reduce dalla dittatura fascista, sembrò giustamente un requisito indispensabile, per la costruzione di un Paese finalmente democratico. Gratteri è una controparte strutturale di tutte le politiche giudiziarie che non siano quelle care al Movimento 5 Stelle. Suo pieno diritto. Certo, è un magistrato pesante, il procuratore di Napoli, sul piano mediatico: a breve inizierà la trasmissione sulla mafia cucito perfettamente su di lui da La7. Una novità assoluta, nel rapporto fra magistratura e comunicazione. E insomma, la previsione avanzata su queste pagine subito dopo la nomina di Gratteri a procuratore di Napoli sembra avverarsi man mano più chiaramente. Che poi il suo “protagonismo antagonista” (antagonista a Nordio) sia un balsamo, per gli obiettivi politici della magistratura associata, è da verificare. Il magistrato antimafia calabrese, gli va dato atto pure di questo, è tra i pochissimi, nell’ordine giudiziario, ad ammettere che il Csm, dai tempi di Palamara, non ha “perso il vizio”. Se ripetesse un concetto simile nel pieno della campagna referendaria sulla separazione delle carriere, assesterebbe il colpo di grazia alle speranze dell’Anm. Non è insomma il massimo, come testimonial, per il “sindacato” di giudici e pm. Il che se non altro conferma come Gratteri sia un battitore libero imprevedibile e minaccioso. Non foss’altro perché la “minaccia” di trovarselo contro non riguarda solo i politici. Riparare, un’altra via di giustizia di Marco Roberti L’Espresso, 21 agosto 2025 Dalla violazione della norma, di cui si occupano i processi, alle conseguenze psicologiche su vittime e autori del reato. Lo prevede la riforma che procede, sia pure tra molte difficoltà. La giustizia riparativa sposta l’attenzione dalla violazione di una norma alla violazione di una persona. Per questo e? un paradigma completamente differente”. Patrizia Patrizi e? ordinaria di Psicologia giuridica all’Universita? di Sassari ed e? stata presidente dell’European forum for restorative justice, che quest’anno arriva al quarto di secolo. Secondo la definizione dello stesso Forum, la giustizia riparativa viene definita come un “approccio volto a fronteggiare il danno o il rischio di danno, coinvolgendo tutte e tutti coloro che ne sono toccati. Invece di separare le persone o escludere quelle ritenute una minaccia, i processi riparativi ripristinano protezione e sicurezza proprio riunendo le persone cosi? da annullare l’ingiustizia, riparare il danno subito e alleviare la sofferenza attraverso il dialogo e l’intesa”. Una pratica che può essere utilizzata in qualsiasi ambito sociale nel quale siano nati conflitti grandi o piccoli. Dal 2022 - con la riforma Cartabia - la giustizia riparativa e? entrata a pieno titolo anche nell’ambito penale come percorso complementare e alternativo a quello del processo. Al centro c’e? il fine rieducativo attraverso l’incontro tra autore del reato e vittima, in un percorso basato non sul pentimento e sul perdono ma sull’ascolto e sul riconoscimento dell’altro con l’aiuto di un soggetto terzo imparziale. Un modello che nasce da lontano, dagli studi del criminologo americano Howard Zehr, considerato il pioniere di questo tipo di approccio. In Italia ci sono state diverse esperienze di incontro tra vittime e responsabili della lotta armata degli anni Settanta, tra cui Agnese Moro, figlia di Aldo Moro, il politico ucciso dalle Br, e Franco Bonisoli, ex brigatista che fece parte del commando responsabile dell’omicidio. Ma c’e? anche l’esempio di padre Adolfo Bachelet, fratello del vicepresidente del Csm Vittorio Bachelet, ucciso dai terroristi nel 1980. Il gesuita negli anni seguenti andò in carcere a visitare diversi ex terroristi in molti incontri che - cosi? confesseranno in seguito i detenuti - servirono per riflettere sulle loro azioni e reinserirsi nella società con nuovi strumenti e nuove certezze psicologiche. “Questo e? un lavoro che va avanti da tempo. Ci sono centri che hanno lavorato benissimo”, spiega Roberta Palmisano, presidente della terza sezione della corte d’Appello di Roma. “La riforma Cartabia - prosegue Palmisano - da un lato fa tesoro dell’esperienza già fatta, dall’altro da? adempimento a direttive europee, formalizzando un procedimento all’interno del processo penale”. In sostanza e? un percorso volontario - per entrambe le parti - che deve essere autorizzato dal giudice e può essere attivato in ogni momento e senza limitazioni legate alla gravita? del reato commesso. La forma più comune - ma non l’unica - e? quella dell’incontro tra autore e vittima del reato alla presenza di uno o più mediatori specializzati. Al termine del percorso viene inviata una relazione sull’esito della pratica al giudice, che può tenerne conto nella concessione di attenuanti o di sconti di pena. “Ma e? una scelta che non può essere fatta solo perché possono esserci effetti favorevoli - avvisa sempre Palmisano - la finalità e? un’altra: e? uno strumento che serve per ricomporre la frattura che si crea ogni volta che viene commesso un reato”. La giustizia riparativa arriva a dare una risposta che non può arrivare dal processo penale dove, necessariamente, bisogna cercare una verità basata sui fatti e non c’e? spazio per indagare le ripercussioni psicologiche sulle vittime. “C’e? un concetto chiave - spiega Patrizia Patrizi - che e? quello di accountability, un termine inglese di cui non abbiamo un’esatta traduzione in italiano. E? il sentimento di responsabilità che si prova per le conseguenze che le nostre azioni hanno arrecato agli altri. Nel dialogo tra chi ha agito, chi ha subito e la comunità di cui si fa parte emerge una verità molto diversa da quella processuale. E diversi studi dimostrano come cali anche la percentuale di recidiva perché se mi metto di fronte all’altra persona e capisco il suo vissuto, cambia il mio modo di pormi”. Nel nostro Paese c’e? pero? ancora una forte resistenza verso questa pratica. Per la giudice Palmisano “c’e? una difficolta? culturale a maneggiare tutti gli strumenti che si discostano dalla custodia cautelare in carcere che non e? efficace per alcuni tipi di reati e per alcune persone. E, soprattutto, in molti casi non riesce ad avere un effetto rieducativo. Anzi spesso produce solamente maggiore criminalità”. Oltre a questo, a frenare la riforma, e? anche la mancanza di strutture adeguate. Il cortocircuito ha riguardato anche le figure dei mediatori che devono essere formati dalle università anche con un periodo di pratica in un centro. Ma se questi luoghi non esistono ancora, non e? possibile neanche concludere la formazione degli operatori. Qualcosa pero? si muove: alla fine dello scorso luglio le varie conferenze locali - istituite presso ogni corte d’Appello - hanno individuato gli spazi e gli enti che dovranno gestirle. Quindi si dovranno stipulare le convenzioni e i centri potranno cominciare le loro attività. Nel frattempo, pero?, questa possibilità viene negata a chi ne avrebbe diritto. E? il caso di Luca - il nome e? di fantasia - imputato di maltrattamenti nei confronti della madre. Dopo che le parti hanno prestato il loro consenso, il giudice del tribunale di Civitavecchia ha disposto lo “svolgimento di un programma di giustizia riparativa” che può “essere utile alla risoluzione delle questioni derivanti dal fatto”, come si legge nelle carte. Ma proprio qui nasce il problema. “La norma prevede che questi percorsi debbano essere svolti in strutture pubbliche istituite presso gli enti locali”, spiega Gabriele Colasanti, avvocato penalista del foro di Roma che difende Luca. “Ma, dato che nel circondario della corte d’Appello di Roma non ci sono, si arriva alla compromissione di un diritto sancito dalla legge. Se poi un soggetto e? detenuto - prosegue il legale che da tempo si occupa di carceri per diverse associazioni - sorgono ancora maggiori difficolta?. Per quella che e? la mia esperienza, al momento l’istituto e? rimasto purtroppo inattuato”. Chi invece e? pronto a partire e? il centro L’innominato, a Lecco, che ha ricevuto il riconoscimento dal ministero della Giustizia, forte dell’esperienza maturata sin dal 2012. “Siamo partiti come gruppo informale dal basso”, racconta la psicologa Bruna Dighera, responsabile del progetto. “Siamo un tavolo nato per diffondere questo approccio a tutti gli ambiti del vivere sociale. La pratica riparativa più utilizzata qui, finora, e? stata il circle che, insieme con le vittime e agli autori di reato, ha visto partecipi anche i membri della comunità. Si comincia con due gruppi che lavorano in parallelo: da una parte - assieme a cittadini e mediatori - ci sono gli autori di reato, dall’altra le vittime. Dopo alcuni incontri le due parti si incontrano per continuare la tessitura del dialogo”. Ora, la speranza e? di cominciare, come centro riconosciuto dal ministero, i primi incontri in autunno. “L’effetto e? trasformativo per chiunque abbia confronti del genere. Chi attraversa un percorso come questo - conclude Dighera - ne esce diverso rispetto a come era entrato”. Per valorizzare i beni confiscati le risorse del Fondo unico giustizia di Luigi Lochi Il Sole 24 Ore, 21 agosto 2025 Il dibattito sull’uso efficace dell’ingente patrimonio rappresentato dai beni e dalle aziende confiscate, che un rapporto Eurispes di qualche anno fa quantifica in oltre 32 miliardi di euro, quasi il 2% del Pil, al netto del valore dei beni mobili, dei titoli e delle liquidità confiscate, quantificato intorno ai 4,3 miliardi, è pressoché unanime nel riconoscimento della valenza sociale ed economica di questo patrimonio. Il bene confiscato, infatti è considerato giustamente come una opportunità di promozione della coesione sociale di un territorio, opportunità che si concretizza soprattutto quando il bene è affidato in gestione alle organizzazioni del Terzo Settore, e al tempo stesso volano di sviluppo dell’economia civile e un simbolo di ripristino della legalità. È altresì unanime nel riconoscere l’importanza del ruolo che svolge l’Agenzia Nazionale per i Beni Sequestrati e Confiscati (Anbsc) nell’attuale sistema di gestione. L’articolo apparso su questo giornale il 5 agosto scorso da conto dei positivi risultati ottenuti, con particolare riferimento alla grande mole di immobili “destinati” ai diversi Enti territoriali. Il processo attraverso il quale il bene e l’azienda sono destinati è particolarmente complesso, in quanto richiede il coinvolgimento, attraverso lo strumento della conferenza di servizi, di diversi soggetti, e, perciò, tempi non brevi che si aggiungono a quelli decisamente lunghi che precedono la confisca definitiva. E tuttavia, la “destinazione” del bene, non è ancora la conclusione del processo. Migliaia di immobili stazionano nei patrimoni comunali per anni senza che sia decisa la loro valorizzazione. Da una recente indagine condotta sul campo da Libera, sono appena un migliaio i beni assegnati in gestione ad associazioni e cooperative del territorio. È da sottolineare che tra la destinazione e la eventuale assegnazione, c’è quasi sempre un problema di “cantierabilità” del bene. Il bene, diverso dal terreno, per essere utilizzato esige infatti preliminari interventi di ristrutturazione. Si apre qui una delle maggiori criticità: la disponibilità di risorse finanziarie per rendere il bene accessibile. È inimmaginabile che il Comune possa disporre di queste risorse. Le varie legislazioni regionali tentano di rispondere a questa criticità, prevedendo apposite risorse per un uso efficace dei beni. Ma, rispetto al reale fabbisogno, queste risorse non sono sufficienti. Il Governo centrale, attraverso l’ufficio del Commissario straordinario per il recupero e la rifunzionalizzazione dei beni confiscati alla criminalità organizzata, ha destinato un budget di 30o milioni per il finanziamento di complessivi 254 progetti. Si tratta di progetti finalizzati ad attività di infrastrutturazione sociale (servizi sociali, accoglienza, formazione, inclusione, etc.), in grandissima parte realizzati senza il coinvolgimento degli enti del terzo settore, come avrebbe dovuto essere in ossequio al principio della co-progettazione, con la conseguenza che anche questo è ancora un risultato parziale, dovendosi chiudere il processo con la successiva assegnazione del bene per la sua concreta gestione. Occorrerebbe un modello di gestione che non si limiti a svolgere funzioni di carattere amministrativo, ma preveda interventi di carattere finanziario e di accompagnamento che facciano incontrare efficacemente la “domanda” di beni proveniente dagli ETS con la “offerta” espressa dai Comuni. Da questo punto di vista, decisiva sarebbe l’utilizzazione almeno di una parte delle risorse finanziarie del Fondo Unico Giustizia (Fug), che ricordiamo è alimentato da titoli e liquidità confiscate. In tal modo, si potrebbero, tra l’altro: finanziare progetti, frutto anche del coinvolgimento del Terzo Settore; assegnare temporary manager alle imprese sequestrate e confiscate per preservare la continuità aziendale; offrire garanzie per le imprese confiscate nei confronti degli istituti di credito; assicurare sostegno al reddito e ri-orientamento dei lavoratori delle imprese sequestrate; restituire, in caso di revoca del sequestro o della confisca, le somme sequestrate o il corrispettivo economico dei beni confiscati, sottraendo tale onere ai Comuni destinatari dei beni; offrire strumenti assicurativi per i danni da ritorsioni. Una simile riforma rappresenterebbe davvero una svolta e l’affermazione della vittoria dello Stato sulla criminalità organizzata lascerebbe finalmente il piano della retorica. Il sovraffollamento è un inaccettabile surplus di sofferenza per il detenuto affetto da patologie di Vincenzo Giglio e Riccardo Radi terzultimafermata.blog, 21 agosto 2025 Un provvedimento illuminato del tribunale di sorveglianza di Torino. Il tribunale di sorveglianza torinese, emettendo un’ordinanza pilota, ha concesso la detenzione domiciliare ad un condannato affetto da obesità e cardiopatia ischemica cronica. I giudici torinesi hanno deciso in tal senso pur in presenza di una relazione sanitaria secondo la quale il detenuto era in condizioni discrete che non richiedevano ricoveri esterni e non soffriva di patologie incompatibili con lo stato detentivo. Il collegio, pur riconoscendo l’inesistenza di un’incompatibilità in senso stretto, ha inteso inserire nella propria valutazione il parametro del sovraffollamento, attualmente pari al 134,24%, dell’istituto Lorusso e Cutugno ove l’istante è ristretto ed ha concluso che tale condizione è tale da causare “un surplus di sofferenza e disagio evitabile con misure alternative”. Ha poi valutato, come fattore ugualmente rilevante, il sovraccarico organizzativo imposto all’amministrazione penitenziaria dalla presenza di detenuti che necessitino di un’assenza sanitaria oltre la norma. La decisione dei giudici torinesi è condivisibile senza riserve nel merito e negli effetti. Ha poi un ulteriore pregio: dimostra che anche a legislazione vigente sono possibili provvedimenti che sbarrino le porte del carcere a chi non deve entrarvi o rimanervi e che le condizioni concrete della detenzione tanto quanto le risorse effettive dell’amministrazione penitenziaria, soprattutto se deteriorate dal sovraffollamento, non sono una variabile indipendente dagli altri parametri da tenere in considerazione. Da Torino viene dunque un potente richiamo a chi amministra la giustizia nella fase dell’esecuzione penale: non può trasformare il carcere nell’Eden ma può certamente opporsi a che diventi un inferno in terra. Stalking, la “sbandata” non giustifica il corteggiamento insistente di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 21 agosto 2025 Scatta l’accusa di persecuzione per il detenuto in una Casa circondariale, “innamorato” della direttrice del carcere. Il corteggiamento troppo pressante e sgradito all’oggetto del desiderio è stalking. La Cassazione ha così confermato le misure cautelari a carico del ricorrente con l’accusa di stalking, per aver rivolto le sue attenzioni con insistenza alla direttrice del carcere nel quale era ristretto. Senza successo, la difesa si gioca la carta della “sbandata” sull’onda della quale l’uomo aveva agito, non per condizionare la vita della dirigente carceraria, ma perché non era razionalmente in grado di trattenersi. Ma i giudici nell’ordinanza impugnata non avevano colto la differenza tra corteggiamento e stalking. Il rischio di escalation - Di avviso diverso la Suprema corte che ha respinto il ricorso contro la custodia in carcere, mettendo l’accento sull’obiettivo dell’introduzione del reato di stalking (articolo 612-bis del Codice penale) che era quello di colmare un vuoto di tutela considerato inaccettabile rispetto a condotte che, anche se non violente, turbano la vittima. L’introduzione del reato è una protezione anticipata per punire comportamenti che, anche se all’inizio sembrano lievi, spesso degenerano nelle percosse, nella violenza privata, nelle lesioni personali o nella violenza sessuale, quando non sono alla base dei femminicidi. “Attraverso la fattispecie in esame si è inteso anticipare la tutela della libertà personale e dell’incolumità fisica e psichica, attraverso l’incriminazione dì condotte che, precedentemente, parevano sostanzialmente inoffensive - si legge nella sentenza - e, dunque, non sussumibili in alcuna fattispecie penalmente rilevante o integranti eventualmente fattispecie minori, quali la minaccia o la molestia alle persone”. Per questo il delitto di atti persecutori è ipotizzabile anche nel caso in cui il semplice corteggiamento si traduce in approcci e avances anche non minatori, che, però, per la loro frequenza e durata nel tempo, inducono il destinatario delle “attenzioni” sgradite, a cambiare abitudini di vita e producono uno stato di ansia o di paura. I giudici di legittimità ricordano la sentenza della Suprema corte 32813/2022 relativa alla condanna di un’imputato che si era limitato a inviare “messaggi contenenti frasi d’amore, e-mail contenenti disegni o frasi di canzoni” e a effettuare “chiamate non gradite”. Il peso del luogo e del ruolo della dirigente - Nel caso esaminato per la Cassazione i giudici del riesame “in modo congruo e logico hanno evidenziato che la condotta dell’indagato - scrive la Suprema corte - posta in essere, peraltro, in epoca prossima alla scarcerazione, ha ingenerato nella persona offesa un grave stato di ansia e di paura, tanto più che la stessa condotta è stata reiterata nonostante i plurimi tentativi compiuti dagli operatori del carcere di farlo desistere dai propri intenti”. Nel lamentarsi della mancata distinzione tra stalking e corteggiamento - precisa la Corte - la difesa non considera “le circostanze di contesto in cui la condotta è stata posta in essere - avuto riguardo al luogo e tempo della stessa e alla posizione assunta dalla persona offesa in ragione della sua qualifica e status professionale, in quanto direttrice della Casa circondariale nella quale il ricorrente si trovava detenuto per espiazione di pena”. Un “particolare” che non aveva impedito al ricorrente di inviare alla direttrice una lettera con un suo capello. Questo malgrado l’esplicita manifestazione di non gradimento e rifiuto da parte della destinataria. Catania. Suicidio in carcere, la Uil-Pa: “Strage senza fine” ansa, 21 agosto 2025 Un 34enne extracomunitario si è tolto la vita a Piazza Lanza. De Fazio: “Strage senza fine, governo intervenga sulla crisi penitenziaria”. Un detenuto extracomunitario di 34 anni si è tolto la vita nel bagno della sua cella nella Casa Circondariale di Catania Piazza Lanza. L’episodio risale a lunedì scorso, ma la notizia è emersa solo nelle ultime ore. Con questa tragedia, il numero dei suicidi in carcere dall’inizio del 2025 sale a 56 detenuti, a cui si aggiunge un ristretto ammesso al lavoro all’esterno, oltre a tre operatori penitenziari. A denunciare la situazione è Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Polizia Penitenziaria: “Una strage senza fine che peraltro espone gli incolpevoli operatori, in primis quelli del Corpo di polizia penitenziaria, a ripercussioni amministrative e penali in un sistema completamente disfunzionale”. De Fazio ha chiamato in causa il ministro della Giustizia Carlo Nordio e il governo guidato da Giorgia Meloni, sollecitando un intervento urgente: “La crisi penitenziaria peggiora di giorno in giorno”. Torino. Hamid suicida in carcere, la sorella: “Trattenuto ore senza cure ospedaliere, è omicidio” di Elisa Sola La Stampa, 21 agosto 2025 Esposto in procura dei familiari dell’uomo morto al Lorusso e Cutugno: “Mio fratello ha subìto un arresto concitato. Non doveva andare in prigione”. Quattordici ore tra l’arresto e la visita medica. Oltre dieci trascorse da solo nella camera di sicurezza senza ricevere cure ospedaliere. Diciassette escoriazioni forse provocate dalle fasi concitate del fermo. Ventidue minuti tra il momento in cui si è tolto la vita nella cella 214 del carcere Lorusso e Cutugno e l’inizio delle operazioni di soccorso. Infine, una constatazione: “È stato ignorato il grave ed evidente malessere psicologico”. C’è un esposto, depositato alcuni giorni fa, in cui si esortano gli inquirenti a indagare, riguardo alla morte di Hamid Badoui, su presunti “comportamenti omissivi” di poliziotti e personale del carcere che potrebbero avere determinato il suicidio del detenuto di 41 anni. La denuncia è della sorella della vittima, Zahira Badoui, che si è rivolta all’avvocato Luca Motta “affinché si faccia giustizia”. Hamid, emigrato dal Marocco a Torino con la famiglia 15 anni fa, era piombato nel tunnel del crack. Dopo essere stato più volte in carcere negli ultimi sei anni, la scorsa primavera era stato portato in Albania, nel Cpr di Gijader. Un mese e tre giorni che l’uomo aveva definito infernali, parlando con il suo legale. Liberato e tornato a Torino, Badoui è stato arrestato 48 ore dopo in corso Giulio Cesare. Aveva fatto chiamare lui la polizia, convinto di avere subito una truffa. Ma l’arresto l’uomo, molto agitato anche per via della droga che aveva assunto, ha opposto resistenza. C’è stata una colluttazione in cui sono rimasti tutti leggermente feriti. Ma, così viene segnalato nell’esposto, “gli agenti sono andati a farsi refertare in ospedale subito, Hamid è, invece, stato lasciato solo nella camera di sicurezza per oltre dieci ore”. Badoui viene arrestato il 17 maggio alle 14. E alle 3 e 43 di notte entra in carcere. “È stato visitato soltanto alle 4 e 20 di notte”, precisa la denuncia dell’avvocato Motta, che aggiunge: “Non gli viene prescritta alcuna visita psichiatrica”. Il “rischio suicidiario” era stato definito “basso”. Poche ore dopo, alle 6.07 del mattino, Badoui si impicca con un laccio della scarpa. L’autopsia, svolta dal medico legale Camilla Bonci, conferma che la causa del decesso è l’asfissia determinata dall’impiccagione. Le altre lesioni sul corpo sono “superficiali e dalle dimensioni contenute” e, in ogni caso, “non hanno avuto alcuna incidenza causale né concausale nel determinismo del decesso”. Resta il fatto, sottolinea Zahira Badoui, che nessuno, tra l’arresto e il suicidio, si sarebbe preoccupato di curare l’uomo “né dal punto di vista fisico né psicologico”. La donna chiede alla magistratura di indagare anche sulla procedura adottata durante l’arresto: “Era facoltativo - c’è scritto nell’esposto - e l’utilizzo della forza degli operanti si evince peraltro dalla relazione autoptica, dove vengono riportare in maniera dettagliata ben 17 escoriazioni ovvero ecchimosi, non ricollegabili a traumi post mortem”. Gli agenti ritengono, invece, di avere agito in maniera corretta. Colpiti dall’arrestato, avrebbero cercato di contenerlo senza usare la forza in maniera sbagliata. Anzi. Sarebbero stati insultati e aggrediti da due passanti, poi denunciate per avere intralciato le operazioni dell’arresto. La famiglia Badoui insiste: “I poliziotti dopo l’arresto sono andati in ospedale e hanno lasciato Hamid più di dieci ore da solo in una camera di sicurezza. L’arresto era facoltativo. E non doveva andare in carcere. Manca anche il decreto del pm. Hamid poteva stare benissimo ai domiciliari. La sua condizione psicologica, al di là di quella fisica, è stata nettamente sottovalutata. Aveva chiesto aiuto per un’ingiustizia subita e si è trovato, nel giro di pochi minuti, a passare da vittima a indagato. Ed era già molto provato per la detenzione patita presso il cpr in Albania”. “Alla luce di quanto descritto - è la conclusione della denuncia - parrebbe dunque ipotizzabile, più che di istigazione al suicidio, il reato di omicidio colposo, da ascriversi a una catena di negligenze o comportamenti superficiali e omissivi posti in essere da diversi soggetti”, dagli “agenti di polizia intervenuti, al medico di guardia, ai poliziotti penitenziari che, tramite condotte omissive hanno concorso causalmente a cagionare la morte di Hamid”. Roma. Il sovraffollamento nelle carceri uccide gli agenti come i detenuti di Gianni Alemanno e Fabio Falbo romalife24.it, 21 agosto 2025 Se qualche politico a caccia di voti, o qualche giornalista assetato di lettori, pensa di giocare sul contrasto tra agenti della polizia penitenziaria e persone detenute è completamente fuori dal mondo. O comunque fuori dal mondo delle carceri. Qui non siamo in mezzo alle piazze dove tra celerini e manifestanti violenti c’è un costante clima di scontro e spesso di odio. Qui i reparti delle carceri sono in ormai in cogestione (non solo “congestionati”, ma “cogestiti” con le persone detenute, una versione carceraria dell’Art. 47 della Costituzione per la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese). Gli agenti della penitenziaria sono così pochi che, senza la collaborazione dei detenuti più anziani, di quelli che lavorano e anche di quelli che si fanno sentire come noi, non riuscirebbero a mandare avanti la baracca. Certo, per non descrivere un quadro troppo idilliaco, ci sono anche i momenti di scontro, soprattutto in reparti molto degradati, dove a comportamenti aggressivi di chi è rinchiuso possono corrispondere dure reazioni del personale in divisa. Ma questa, per fortuna, è l’eccezione, non la regola, nonostante le condizioni drammatiche in cui si vive nelle carceri italiane c’è oggettiva collaborazione, e anche amicizia, tra persone detenute e agenti della penitenziaria. Mi avvicina un sottufficiale anziano e mi dice: “qui al Braccio G8 vent’anni fa c’erano 140 detenuti e 50 agenti, oggi ci sono 280 detenuti e 19 agenti. Ma come facciamo ad andare avanti?”. E in effetti ci sono notate in cui in tutto il Braccio ci sono 2-3 agenti per garantire la sicurezza in tutti i sensi, contro possibili evasioni e disordini, come a garanzia della salute e della vita delle persone detenute. Vi abbiamo già raccontato di due tentati suicidi di persone detenute che sono stati evitati nel nostro Braccio solo per il pronto intervento dei loro compagni di cella o di reparto. D’altra parte, parlando di suicidi, ce ne contano troppi tra le persone detenute (già 54 nel corso di quest’anno) come tra i componenti della polizia penitenziaria (il tasso di suicidi tra i poliziotti penitenziari è di 1,3 per mille, il doppio di quello di tutta la cittadinanza). In più, negli ultimi due anni abbiamo avuto 41 agenti della penitenziaria che sono morti di malore improvviso, con un aumento del 200% rispetto alla media degli anni pre-pandemia (dati del S.PP. Sindacato Polizia Penitenziaria). La carenza di organico dei “Baschi Azzurri” è del 16%: 31.332 persone in servizio contro una previsione di organico di 37.181 addetti. Lascia esterrefatti il semplicismo con cui il Governo promette di costruire nuovi carceri per 10.000 posti di detenzione in più, senza prevedere un massiccio reclutamento di nuovi componenti della Penitenziaria: dopo l’ultimo Consiglio dei Ministri dedicato all’emergenza carceri, il Presidente Meloni ha annunciato trionfante che nella prossima finanziaria saranno previsti fondi per arruolare altri 1.000 poliziotti penitenziari! Cioè quanti ne bastano per vigilare, a seconda dei diversi parametri, dai 1.900 ai 3.000 detenuti in più, ma che in realtà è solo un sesto dell’attuale carenza di organico. Il Sindacato Sappe denuncia ritardi di mesi nel pagamento degli straordinari, delle missioni e dei buoni pasto (che sono aumentati del 200% per fare fronte ai turni massacranti a cui è sottoposto il personale). Così, da quando abbiamo cominciato la nostra opera di denuncia contro il vergognoso sovraffollamento nei nostri istituti penitenziari, sono sempre di più gli ufficiali, i sottufficiali e gli agenti della polizia penitenziaria che ci chiedono come sta andando, se ci sono speranze per un intervento concreto del Governo o della politica in generale. Vedremo a settembre-ottobre se gli sforzi del Presidente La Russa, della vicepresidente PD Rossomando, di Roberto Giachetti e di Rita Bernardini produrranno un risultato. Intanto il giorno di Ferragosto è arrivato qui in carcere il leader della Lega, Matteo Salvini, accompagnato dalla parlamentare Simonetta Matone, ex-magistrato con le idee molto chiare sulla situazione. È stata la prima volta, dicono gli esperti, che, visitando un carcere, Salvini ha incontrato non solo la Polizia Penitenziaria ma anche le persone detenute. Mi è sembrato un incontro sincero, soprattutto con i più giovani tra i detenuti, in particolare Gabriele, il migliore calciatore del nostro braccio, che con il candore disarmante dei suoi 23 anni gli ha chiesto di poter avere una speranza per il suo futuro. Uscendo, oltre a ribadire il principio della certezza della pena, Matteo ha ammesso che bisogna fare qualcosa per garantire la dignità delle persone detenute. Due giorni prima è invece arrivato il Presidente della Regione Lazio, Francesco Rocca, insieme a Pino Gangemi, il consigliere regionale più impegnato nella solidarietà alle persone detenute, con al seguito tutti i dirigenti della ASL preposti alla salute nel nostro carcere. Motivo? Aveva letto nel nostro precedente Diario di Cella di Francesco R., quella persona detenuta a rischio di vita per non aver potuto svolgere, per carenza di scorte, le visite propedeutiche al trapianto di un rene. Insomma, il Presidente della Regione (già Presidente mondiale della Croce Rossa) è venuto appositamente in carcere per garantire il diritto alla salute di questa persona detenuta. E lo ha fatto perché la nostra attività di denuncia civile è riuscita a fare supplenza rispetto alle carenze dell’Amministrazione penitenziaria. Ma perché mancano le scorte? Perché non si riesce a garantire i servizi di cura essenziali a tante persone detenute malate (il caso di Francesco è solo il caso più eclatante del nostro braccio)? Perché i detenuti sono troppi e perché gli agenti della Penitenziaria sono troppo pochi e con troppe poche risorse. E perché i magistrati di sorveglianza chiudono gli occhi rispetto a queste carenze e non concedono gli arresti domiciliari neanche ai malati più gravi. Ecco perché quando ai piani alti ci si ricorderà dell’emergenza carceri, non si deve pensare solo agli “ultimi della terra”, cioè alle persone detenute, ma anche a chi porta la divisa per rappresentare lo Stato negli Istituti di pena. Perché la credibilità di uno Stato si misura sia da come garantisce la dignità delle persone detenute, che da come rispetta le persone che lo servono portando una divisa”. Brindisi. Detenuto a rischio suicidio scarcerato: fondamentale l’intervento della Garante brindisireport.it, 21 agosto 2025 L’uomo, che si è sempre dichiarato innocente, era stato arrestato con l’accusa di “codice rosso” a seguito delle denunce della sua ex compagna, una docente a Roma. Grazie all’interessamento e intervento di Valentina Farina, Garante delle persone private della libertà personale della provincia di Brindisi, è stata disposta la detenzione domiciliare provvisoria e l’immediata scarcerazione per un detenuto originario della Costa d’Avorio di 40 anni, la cui vicenda giudiziaria e le cui condizioni psicofisiche avevano destato preoccupazione all’interno del carcere di Brindisi. L’uomo, che si è sempre dichiarato innocente, era stato arrestato con l’accusa di “codice rosso” a seguito delle denunce della sua ex compagna, una docente a Roma. La madre del 40enne, inoltre, è impiegata presso un consolato. La contestazione del reato era avvenuta durante il periodo della pandemia da Covid-19. A causa delle restrizioni e degli spostamenti limitati, il giovane non aveva potuto seguire adeguatamente la vicenda giudiziaria, anche perché si trovava fuori per motivi di lavoro. A fine 2024 è stato emesso un ordine di arresto nei suoi confronti. La detenzione ha avuto effetti devastanti sulla sua salute: aveva smesso di alimentarsi per giorni, e i sanitari avevano evidenziato una condizione di forte incompatibilità con il carcere e un elevato rischio suicidario. Ricoverato in infermeria, presentava evidenti segni di prostrazione. Nonostante gli fosse stato proposto un percorso di rivisitazione personale, il giovane lo ha sempre rifiutato, dichiarandosi innocente e ritenendosi vittima di errore giudiziario, mantenendo una coerenza con la sua proclamata innocenza. Il caso, quindi, è stato segnalato alla Garante delle persone private della libertà personale della Provincia di Brindisi e lo scorso 19 maggio sono state attivate le procedure per affrontare la situazione. Grazie alla collaborazione dei servizi sanitari e alla segnalazione all’Autorità giudiziaria, si è agito con tempestività per evitare conseguenze irreversibili. Lunedì 18 agosto scorso la bella notizia: il Magistrato di Sorveglianza ha disposto la detenzione domiciliare provvisoria, ordinando l’immediata scarcerazione. In un post sui social Valentina Farina, ha espresso apprezzamento per il lavoro della Magistratura, che ha mostrato sensibilità e tempestività anche in un periodo complesso come quello estivo. Un ringraziamento è stato rivolto anche alla Direzione, all’Area psico-socio-educativa, al comandante e agli agenti di Polizia penitenziaria, che, nonostante il sottorganico, garantiscono la sicurezza e il corretto funzionamento della struttura penitenziaria. La Garante sottolinea che non si tratta di difendere chi ha commesso reati, ma di ricordare che lo Stato di diritto vive nel rispetto della Costituzione, anche nei luoghi di privazione della libertà personale. Cosenza. Accesso nelle carceri negato alla stampa al tempo dei suicidi e del sovraffollamento corrieredellacalabria.it, 21 agosto 2025 Il Dap ha comunicato alla Camera Penale di Cosenza l’impossibilità per la stampa di partecipare alla visita nella Casa circondariale di Cosenza. Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, con una nota, ha comunicato alla Camera Penale di Cosenza l’impossibilità per la stampa di partecipare alla visita nella Casa circondariale di Cosenza, chiesta e organizzata il prossimo 22 agosto, “per constatare le condizioni di vita dei detenuti”. A darne notizia è la Camera Penale di Cosenza. “La motivazione è tanto incredibile, quanto inaccettabile in uno Stato veramente di diritto: “come da prassi, ai giornalisti professionisti non è consentito accedere unitamente agli autorizzati alla visita, bensì attenderli al termine, al di fuori dei locali detentivi”. In disparte la illegittima prevalenza di un’asserita prassi rispetto alla legge ordinaria (il citato articolo 117 non pone, né mai avrebbe potuto porre, divieti per la stampa), è inaccettabile che la Istituzione penitenziaria escluda la stampa libera, il “cane da guardia della democrazia”, dalle visite carcerarie nel tempo in cui in cui l’opinione pubblica assiste alla continua mattanza dei suicidi in strutture penitenziarie nelle quali sono ammassati oltre 62.000 esseri umani in “celle” che ne potrebbero “ospitare”, al massimo, 47.000, dunque in uno stato di detenzione inumano e degradante. L’articolo 21 della Costituzione tutela la stampa da ogni forma di censura e così differenzia la nostra democrazia dai regimi autoritari. Vi chiediamo, perciò, di autorizzare, il prossimo 22 agosto, l’accesso alla Casa circondariale di Cosenza dei giornalisti”, conclude la Camera Penale nella nota. Vicenza. Giù il personale, su i suicidi. “Così il carcere di è solo una fabbrica di delinquenti” di Matteo Bernardini Giornale di Vicenza, 21 agosto 2025 La visita nel penitenziario di San Pio X voluta dalla Camera penale nell’ambito dell’iniziativa “Ristretti in agosto”. Anche quest’anno la Camera penale di Vicenza ha aderito all’iniziativa “Ristretti in agosto”; una campagna, promossa dall’Osservatorio carcere dell’Unione delle camere penali italiane, che ha previsto, ieri, la visita alla Casa circondariale “Del Papa” di San Pio X, per testimoniare vicinanza alla comunità penitenziaria e manifestare attenzione alle condizioni di vita dei detenuti e degli operatori che prestano servizio nel penitenziario cittadino. La Camera penale di Vicenza in visita al carcere “Del Papa” di San Pio X - Un carcere che, a fronte di una capienza massima prevista per ospitare 276 detenuti, ne conta attualmente 324 di cui 177 condannati in via definitiva. Quasi il 40 per cento dei detenuti è composto da cittadini stranieri, molti dei quali giovani. In base ai numeri esposti ieri al termine della visita nel corso del 2024 al “Del Papa” si sono registrati 200 atti di autolesionismo; 16 tentativi di suicidio e un suicidio. A questi devono essere aggiunti diversi episodi di incendi e danneggiamento. A prendere parte all’incontro, in rappresentanza della Camera penale berica, oltre al suo presidente, Laura Piva, erano presenti anche il tesoriere Marco Grotto, la responsabile commissione carcere del Consiglio direttivo, l’avvocato Matilde Greselin nonché numerosi associati. Assieme a loro anche il pm Hans Roderich Blattner; il gip Nicolò Gianesini; il presidente dell’Ordine degli avvocati di Vicenza, Alessandro Moscatelli; la garante per i diritti delle persone private della libertà personale, Angela Barbaglio e Michele Bianchi per il Tribunale di sorveglianza. All’incontro hanno partecipato anche la vice sindaca, Isabella Sala; l’assessore comunale al Sociale, Matteo Tosetto; le consigliere regioanli Milena Cecchetto (lega) e Chiara Luisetto (Pd), oltre ai consiglieri comunali Jacopo Maltauro e Luisa Consolaro. Il sopralluogo nelle aree comuni e in una sezione detentiva - “La visita - osserva la presidente della Camera penale berica - si è svolta grazie alla disponibilità della direttrice del carcere, Luciana Traetta, accompagnata dai due vice comandanti della polizia penitenziaria. Abbiamo svolto un sopralluogo nelle aree comuni e in una sezione detentiva e anche un colloquio con il responsabile della Sanità penitenziaria, il dottor Tolio”. L’incontro ha fatto emergere come uno dei principali problemi del carcere di San Pio X sia la carenza di personale. Uno dei principali problemi del carcere di San Pio X è la carenza di personale - “La dotazione della Polizia Penitenziaria è ancora tarata sulla capienza originaria e la copertura è drammaticamente insufficiente - ricorda in una nota la Camera penale berica - il personale pedagogico-giuridico resta attestato su un rapporto di 1 operatore ogni 100 detenuti. La sanità penitenziaria è gestita con un organico di 30 operatori. Garantisce guardiania 24 ore su 24, medicina generale, assistenza infermieristica e alcuni specialisti”. Numeri che, secondo l’avvocato Piva, ribadiscono “l’evidente insufficienza delle risorse. Alcuni miglioramenti strutturali importanti sono stati realizzati, grazie alla determinazione della direzione, come la sostituzione della caldaia risalente al 1986 e il rifacimento dell’illuminazione. Molto resta da fare per garantire condizioni dignitose a tutti coloro che vivono e lavorano in carcere”. “È apparso chiaro - continua la Presidente della camera penale - che solo attraverso attività e trattamenti efficaci (corsi di cucina, cucito, istruzione, formazione professionale) si può garantire speranza, rieducazione e reale reinserimento sociale”. “Non ci stancheremo mai di ripetere ai cittadini che il carcere riguarda tutti” - E ancora: “Non ci stancheremo mai di ripetere ai cittadini che il carcere riguarda tutti, perché non è sul carcere che si misura la sicurezza sociale ma sull’abbattimento della recidiva - chiosa Laura Piva -. Non si tratta di costruire nuove celle da un lato e aumentare le pene dall’altro: senza personale non c’è rieducazione, e senza rieducazione il carcere rischia di restare una fabbrica di recidiva, una fabbrica di delinquenti. Quando i detenuti escono; escono dal carcere con un sacchettino. Spesso non hanno nessuno ad attenderli e nemmeno un lavoro o una casa dove andare. E così finiscono sulla strada diventando in questo modo un problema sociale”. La struttura sanitaria interna al carcere ha un servizio psichiatrico quasi quotidiano - A parlare a nome dei legali vicentini, è il presidente dell’Ordine, Alessandro Moscatelli: “Ho aderito a nome dell’Ordine con convinzione all’invito della presidente della Camera penale vicentina. Le visite al carcere, soprattutto nel mese di agosto, aiutano a comprendere bene la situazione in cui vivono i detenuti e lavora la polizia penitenziaria”. “A Vicenza ci sono molte cose che ancora non funzionano, ma moltissime che invece sono molto migliorate e questo grazie all’impegno della direttrice del penitenziario, dei medici e della polizia penitenziaria - continua Alessandro Moscatelli -. Vorrei segnalare, inoltre, come la struttura sanitaria interna al carcere funzioni al meglio con un servizio psichiatrico quasi quotidiano che aiuta a ridurre al minimo i rischi suicidari dei detenuti”. Reggio Calabria. Garante e Radicali visitano Arghillà: “Inadeguato, serve riforma strutturale” di Elisa Barresi ilreggino.it, 21 agosto 2025 Durante la visita promossa dal Partito Radicale nel carcere di Reggio Calabria, la garante dei detenuti denuncia l’inefficacia dell’attuale sistema penitenziario. A fronte dell’impegno del personale, emergono carenze strutturali e numeri preoccupanti. Appello a una riforma profonda per garantire la dignità e la funzione rieducativa della pena. Nell’ambito dell’iniziativa nazionale “Agosto in Carcere” promossa dal Partito Radicale, il membro della direzione Fabio Federico ha visitato la casa circondariale di Arghillà insieme alla Garante regionale Giovanna Russo. Un’occasione per accendere i riflettori su una realtà spesso dimenticata, quella della detenzione, e sulle condizioni strutturali e umane che ne determinano l’efficacia. Durante l’incontro, gli esponenti hanno riconosciuto il grande impegno del personale penitenziario e della direzione, che operano quotidianamente in un contesto critico. Con oltre 340 detenuti, il carcere reggino rappresenta uno spaccato di un sistema che - come sottolineato da Federico - si conferma “inadeguato e incapace di rispondere alle effettive finalità della pena”. A preoccupare maggiormente è il numero estremamente esiguo di detenuti ammessi a misure alternative. Un dato che evidenzia, secondo gli esponenti, “la sostanziale inefficacia del sistema esecutivo penale nel garantire la funzione rieducativa”, cuore dell’articolo 27 della Costituzione. “La condizione di Arghillà è lo specchio di un problema nazionale che va oltre la buona volontà dei singoli operatori. È urgente e non più rinviabile una riforma globale dell’ordinamento penitenziario, come richiesto da tempo anche dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e dalla Presidenza della Repubblica”. Gli annunci di provvedimenti emergenziali da parte del governo, afferma l’esponente radicale, “sono solo palliativi”. Il carcere - conclude Federico - “deve essere non solo il punto finale del conflitto sociale, ma anche il luogo da cui riparte la dignità dell’uomo e la giustizia sociale”. Per la Russo “La visita istituzionale di oggi svolta nel plesso di Arghillà con l’avvocato Fabio Federico ha consentito ancora una volta di monitorare con costanza quelle che sono le peculiarità, i punti di forza e di debolezza dell’istituto”. Accompagnati dalla Vice Direttrice Velletri e dal Dirigente Nicola Pangallo “abbiamo riscontrato anche meriti che nell’emergenza del quotidiano non emergono, ma che sono frutto di impegno costante di tutti gli operatori penitenziari e del personale medico sanitario. Arghillà è un istituto molto complesso e doveva essere la Bollate del meridione. Oggi affronta delle problematiche delicatissime, ataviche ed è un istituto che preoccupa molto gli addetti ai lavori. Malgrado gli sforzi profusi dall’amministrazione in loco, serviranno investimenti adeguati a realizzare le più opportune progettualità in termini di giustizia e sicurezza. Una nota di riconoscimento la rivolgo al personale di polizia penitenziaria che compie importanti sforzi per la tenuta della sicurezza che è baluardo per la garanzia dei diritti e della dignità delle persone. Quanto al piano carceri e all’invio di personale di polizia penitenziaria nel territorio, così come dichiarato oggi dal sottosegretario alla giustizia On. Andrea Delmastro, ritengo che sia un’attenzione importante da parte del governo poiché tale risposta va nella direzione di quel reale investimento per realizzare il welfare penitenziario nel quale crediamo. L’aumento di risorse umane all’interno delle carceri calabresi è il baluardo primo per la garanzia dei diritti, della giustizia e quindi di costruzione di quella legalità concreta che distrugge le maglie della criminalità organizzata sulla quale non intendiamo indietreggiare di un solo passo e che nelle nostre carceri imperversa e distrugge chi vorrebbe davvero una seconda chance. In Calabria vi sono dinamiche penitenziarie che si sono incancrenite nel tempo e solo compiendo passi decisi, coerenti e in linea con il dettato costituzionale potremo parlare di legalità dentro e fuori le mura. Abbiamo il dovere di salvare dalle maglie degli illegalismi e della criminalità quante più vite possiamo”. Voghera (Pv). “Il personale corre dei rischi e il nodo sono gli organici” di Serena Simula La Provincia Pavese, 21 agosto 2025 Nessun commento riguardo l’ampliamento del carcere di Voghera arriva da via Prati Nuovi, dove gli stessi vertici sono in attesa di scoprire di più sui modi e i tempi. L’istituto di detenzione vogherese, inaugurato nell’agosto 1982 e inizialmente destinato alle sole donne, nel è stato trasformato in maschile ospitando dapprima i detenuti provenienti inizialmente dal vecchio penitenziario di Voghera (ospitato dal castello della città). Oggi nell’istituto i detenuti appartengono a quattro diversi circuiti con prevalenza numerica (parliamo dell’80%) per il circuito AS3, dedicato ai reati di stampo mafioso e comunque inerenti alla criminalità organizzata. I posti regolamentari, attualmente, sono 341, ma il totale dei detenuti ammonta a 397. E se i detenuti sono più del previsto, il personale invece è sottodimensionato: se l’organigramma prevedrebbe, per funzionare bene, 231 agenti, all’appello ne sono presenti sono 205. In deficit anche gli amministrativi (sono 13 a fronte dei 21 previsti) e gli educatori (4 invece di 5). La struttura da tenere sotto controllo, poi, è già molto ampia: parliamo di un piccolo paese, che oltre alle sezioni con le loro 190 stanze, comprende 3 sale colloqui, 2 campi sportivi, un teatro, tre laboratori (tra cui falegnameria e sartoria), 10 palestre, un’officina, 2 biblioteche, 19 aule, un locale di culto e 3 mense. Ampliare ulteriormente la superficie vorrebbe dire, quindi, aumentare di conseguenza anche il personale, che poco più di un anno fa aveva lanciato l’ennesimo appello in merito alla situazione. “Voghera - avevano scritto in una nota congiunta le sigle sindacali Uilpa Pp, Fns-Cisl e Sappe - sta diventando luogo di aggressioni e di eventi critici al pari di altri istituti con ben diverse tipologie detenuti. Alle aggressioni, contestazioni e disordini, si aggiungono le moltissime segnalazioni di introduzione e utilizzo di oggetti non consentiti, soprattutto cellulari, che rendono chiara l’idea di una sostanziale ingestibilità dell’Istituto che, evidentemente, espone ai più svariati rischi il personale di Polizia Penitenziaria (e non solo)”. Il direttore Davide Pisapia aveva minimizzato, ammettendo però che sarebbero serviti “10 o 15 agenti in più per poter svolgere il nostro lavoro in maniera più serena”: chissà che, con l’ampliamento, ciò non venga concesso. S. Sim. Bari. Un progetto del Gruppo Cobar e di Seconda Chance per il reinserimento dei detenuti La Gazzetta del Mezzogiorno, 21 agosto 2025 “Abbiamo conosciuto ragazzi per bene che ci hanno guardato negli occhi e ci hanno raccontato perché sono finiti in carcere”. Domenico Spinelli, responsabile delle risorse umane del Gruppo Cobar racconta a “La Gazzetta del Mezzogiorno” l’incontro con “Seconda Chance”, l’associazione guidata da Flavia Filippi, che cerca di inserire detenuti o ex detenuti nel mondo del lavoro. “Offriamo così un futuro diverso a questi ragazzi”. “Abbiamo deciso di aderire al progetto anche grazie alla grande sensibilità dei vertici Cobar - spiega Spinelli - e oggi ci sono tre detenuti assunti nella nostra impresa e due che attendono le autorizzazioni del magistrato”. L’impresa altamurana è una delle maggiori imprese italiane del settore edile, specializzata nel recupero e nella riqualificazione di immobili storici, nella costruzione di grandi opere infrastrutturali e nell’edilizia residenziale. “Abbiamo cercato di individuare giovani che fossero pronti a un lavoro che è prettamente fisico. È stato un percorso molto intenso, abbiamo incontrato oltre trenta detenuti tra i diciotto ai venticinque anni. Ragazzi per bene che nel loro percorso di vita hanno sbagliato. Su di loro e sul loro futuro abbiamo deciso di investire”. “Vite radicalmente cambiate in pochi giorni” - “Il merito è di Orienta Agenzia per il lavoro - ha commentato la Filippi sui social - che ci ha presentato il gigante delle costruzioni Cobar, azienda di Altamura con ottanta cantieri attivi sul territorio nazionale. I primi operai ingaggiati sono giovanissimi e li ha seguiti e li segue l’Ufficio di Servizio Sociale per i Minorenni di Bari. Due sono all’Aquila, impegnati dal lunedì al venerdì per poi tornare a casa a Bari nel week end. Un altro invece lavora in un cantiere di Bari. Altri due ragazzi attendono le autorizzazioni del magistrato. Vite cambiate radicalmente in pochi giorni, emozioni inattese, peccato non poter mostrare queste facce tenere e imbarazzate”. Il progetto è rivolto a chi è nella condizione giuridica adeguata per uscire dal carcere, ma anche a chi non è autorizzato a uscire. Per questo gli imprenditori vengono anche accompagnati negli istituti per visionare i capannoni e i locali inutilizzati che le direzioni concedono in comodato d’uso gratuito. I costi del personale sono vantaggiosi. Lavanderie industriali, sartorie, officine, falegnamerie, call center, biscottifici, sono molteplici le attività commerciali che si possono avviare negli istituti sfruttando una manodopera che ha costi vantaggiosi e regalando tante seconde chance ai detenuti non ammessi a lavorare fuori. Seconda Chance - La giornalista di giudiziaria Flavia Filippi ha creato il progetto Seconda Chance da sola all’inizio del 2021, procurando decine di offerte di lavoro per detenuti ed ex detenuti e arrivando a firmare protocolli d’intesa con aziende pubbliche e private. Nel 2022 Seconda chance è diventata un’associazione no profit del Terzo Settore con referenti in ogni regione e collaboratori in varie città svolgendo un ruolo di cerniera tra le carceri e le imprese grazie a un protocollo di collaborazione con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. La mission è quella di individuare aziende smart e di convincerle a fare colloqui in carcere agevolate dalla legge Smuraglia, che offre sgravi fiscali a chi assume, anche part time e a tempo determinato, detenuti in articolo 21, cioè ammessi al lavoro esterno al carcere. Naturalmente si tratta di persone che le direzioni delle carceri considerano meritevoli e pienamente riabilitate, gente selezionata sulla base dei requisiti indicati dagli stessi imprenditori. Sciascia, l’uomo che odiava le carceri di Antonio Coniglio L’Unità, 21 agosto 2025 Infine, in piazza Vetra, fu costruita una baltresca, e Caterina, “carnosa ma di ciera diabolica”, venne torturata con tenaglie arroventate, strangolata, e i suoi resti gettati nel fuoco. È la giustizia dei vendicativi pensieri - che coarta a confessioni insincere e anela a premi mortiferi - della quale Leonardo da Racalmuto, perché la Sicilia è metafora di un intero paese, si occupò tutta la vita. Di questa ingiustizia di regime, il carcere è la massima espressione, l’acme. Per dirla con lo Sciascia de La corda pazza: “la più terribile, la più inumana delle pene; e nello stesso tempo la più inutile”. La galera non è mai un semplice edificio con mura e sbarre. È un simbolo, un prisma attraverso cui osservare il rapporto tra verità, potere e giustizia. Lo aveva compreso tanti anni fa Marco Pannella: guai a distrarsi un solo secondo dal carcere, perché la giustizia è la più grande questione sociale del nostro tempo! Dietro le celle sciasciane non ci sono soltanto detenuti, ma le ombre della società, le ipocrisie dello Stato, i silenzi della coscienza: ciò che Foucault definiva “lo splendore dei supplizi”. Già nelle Favole della dittatura (1950), la sua prima raccolta, la prigione si presentava in forma allegorica. Non esistono sbarre visibili, ma il mutismo imposto dal potere: “E chi non si lasciava convincere / lo convincevano a non parlare più”. Il carcere è quindi una condizione interiore: la voce costretta al silenzio, il dissenso annullato, la cella invisibile che i regimi costruiscono intorno all’anima degli uomini. Con Il giorno della civetta, il carcere assurge persino a destino sociale. Gli uomini di bassa manovalanza possono finire dietro le sbarre, ma i veri registi del potere restano immuni. La prigione diventa in fondo il luogo dei poveri e dei deboli, degli inermi e dei derelitti, mentre i potenti non vi entrano quasi mai. È una giustizia di classe, che punisce chi non ha protezione e assolve chi gode di complicità e silenzi. Nel Contesto, romanzo che tanto scandalizzò la magistratura del tempo, la cella si trasforma in un ingranaggio del grande labirinto giudiziario. Non è la verità a condurre alla condanna, ma la convenienza politica. Le prigioni diventano stanze di un edificio paradossale, dove la legge non cerca la giustizia ma preserva gli equilibri del potere. La detenzione appare come una recita, una scenografia necessaria a confermare l’autorità dello Stato, mentre la sostanza della giustizia resta corrotta e inaccessibile. Con Todo modo, il convento in cui i potenti si rinchiudono per gli esercizi spirituali si trasforma in una sorta di carcere dorato, una clausura in cui il potere si autoalimenta isolandosi dal mondo esterno. Non ci sono sbarre, ma c’è la segregazione di un’élite che si imprigiona da sé, pur credendo di detenere la libertà. Il tema della prigionia diventa centrale anche in L’affaire Moro. Moro è prigioniero delle Brigate Rosse, ma anche dello Stato che sceglie di non trattare. La sua cella diventa simbolo di una doppia cattività: quella fisica, imposta dai brigatisti, e quella politica, determinata dall’intransigenza delle istituzioni. In quelle lettere scritte dal carcere del popolo, Sciascia vede la voce di un uomo che dialoga con il Paese, e al tempo stesso la sordità di uno Stato violento e incapace di ascoltare. Il carcere riaffiora ancora in Nero su nero, dove egli osserva la realtà concreta delle prigioni siciliane e italiane. Ne descrive il degrado, il sovraffollamento, la condizione dei reclusi come specchio dell’abbandono civile. La cella diventa qui non solo simbolo politico, ma misura di civiltà: da come uno Stato tratta i suoi detenuti si comprende il grado della sua umanità. Con Cruciverba, Sciascia arriva ad affermare che il carcere è la vera cartina di tornasole della democrazia. Vi coglie non solo la pena inflitta, ma l’intero assetto sociale che la produce. La cella non è mai uguale per tutti: pesa di più sul povero, quasi nulla sul potente. Ancora una volta, il carcere diventa emblema della disparità, specchio di una società che usa la legge non come strumento di equità, ma come arma selettiva. Ma il carcere, per Sciascia, non è soltanto istituzione penale. È anche destino intellettuale. Dire la verità significa spesso chiudersi in una cella invisibile, fatta di solitudine e sospetto: “Dire la verità è utile a chi la dice e dannoso a chi l’ascolta”. È la condizione dell’intellettuale che rifiuta il compromesso e resta solo, separato, quasi imprigionato nella sua stessa coerenza. Così, dalle Favole della dittatura Cruciverba, passando per Il giorno della civetta, Il contesto, Todo modo, L’affaire Moro e Nero su nero, il tema del carcere percorre tutta l’opera sciasciana, con buona pace di coloro che hanno voluto oscurare, ostracizzare o dimenticare questo aspetto. In questi anni, in tanti hanno esercitato la memoria di Sciascia intorno ai temi della giustizia e del processo. Taluni lo hanno elevato perfino a vate della “certezza della pena”. Altri hanno ripreso lo scrittore dei “professionisti dell’antimafia”. Oggi forse sarebbe il caso di meditare su cosa avrebbe scritto di questo carcere, impastato di sordi, storpi, ciechi, diavoli innocenti, irriducibili disgraziati. A futura memoria. A noi di Nessuno tocchi Caino - che pannellianamente abbiamo aderito al suo programma - piace pensare che egli continui, nella compresenza capitiniana dei morti e dei vivi, ad andare alla ricerca di qualcosa di meglio: di meglio della violenza, della sopraffazione, dell’ossessione spasmodica di giudicare a ogni costo, della ricerca diabolica di una verità che non è di questa terra. Di meglio di un mondo di gabbie nelle quali sono rinchiusi gli uomini. Di meglio del diritto penale. “Il carcere criminalizza i più fragili” di Marco Birolini Avvenire, 21 agosto 2025 L’antropologa Francesca Cerbini, autrice del saggio “Prison lives matter”: “Il carcere è un luogo oscuro della nostra democrazia. I penitenziari sudamericani? Non sono così lontani”. “Il carcere è un luogo oscuro della nostra democrazia, dove non sappiamo realmente cosa accade”. Francesca Cerbini, docente di antropologia culturale all’Università di Palermo, va dritta al punto. Con l’occhio della ricercatrice, fissa lo sguardo sulle radici della grande questione penitenziaria: “Il sistema è assai poco trasparente e orientato verso la repressione, spesso violenta. In nome della sicurezza è tutto consentito, ma è chiaro che così com’è lo strumento non funziona. Non serve alla rieducazione del reo e non protegge la società”. Il vizio di fondo è il sostanziale disinteresse per ciò che accade oltre le sbarre, come se non riguardasse né l’opinione pubblica né tantomeno la politica. Per provare a cambiare la prospettiva la professoressa Cerbini ha scritto il saggio Prison lives matter (le vite in prigione contano, ndr), riprendendo il celebre slogan “Black lives matter”. Così come i neri d’America, anche i detenuti sono una popolazione di serie B. Il suo libro (Elèuthera, 2025), frutto di ricerche etnografiche - l’etnografia è una branca dell’antropologia che studia determinati gruppi sociali - nelle carceri del mondo, del Sudamerica in particolare, mette a nudo i forti limiti di un’istituzione che andrebbe drasticamente ripensata. “In cella ci sono soprattutto immigrati e tossici - spiega Cerbini -. Le carceri scoppiano, ma anche questo è funzionale a una certa narrazione, secondo cui il carcere serve a punire e perciò non è un hotel a 5 stelle. Ma non è questo il punto: a parte la necessità di rispettare i diritti, occorre chiedersi chi c’è dentro. E basta studiare per capire che la maggior parte dei detenuti viene dagli strati più poveri, che non hanno accesso a capitali umani e sociali. Gente che non aveva opportunità. In carcere non ci sono ricchi, o comunque sono pochissimi. Questo vuol dire che i cattivi sono solo i meno abbienti? Un racconto fuorviante, che rischia di criminalizzare la povertà”. Ultimi nella vita, ultimi anche dietro le sbarre. Intervistato da Repubblica, il procuratore di Napoli Antonio Gratteri ha squarciato il velo del non detto: “Questo sistema organizzativo ha portato al progressivo controllo delle carceri da parte dei detenuti di alto spessore: i quali ordinano ai più deboli una serie di “favori”. Può essere l’ambasciata all’esterno, il trasporto di un cellulare, la custodia di un’arma. E i più fragili ne sono schiacciati, perché rischiano sempre: infrazioni disciplinari, se vengono scoperti; o gravi ripercussioni sull’incolumità, se si rifiutano”. Una situazione che Cerbini ha toccato con mano nelle prigioni sudamericane. Ma che non è così distante da quella italiana: le indagini di varie procure hanno portato alla luce l’esistenza di un commercio sommerso, addirittura regolato da appositi tariffari. “Il traffico di droga e cellulari è talmente diffuso da sembrare ormai sistemico - evidenzia la professoressa, che a settembre presenterà il libro al Festival della letteratura di Mantova -. In gioco ci sono attori diversi, e non tutti sono carcerati. Per portare oggetti in carcere servono complicità, parlare di corruzione mi pare riduttivo”. Le patrie galere, insomma, non hanno molto da invidiare a quelle di Bolivia o Venezuela, gestite di fatto dalle grandi organizzazioni criminali. La tradizione mafiosa in materia è quantomeno altrettanto consolidata. “Basti pensare al sistema messo in piedi a suo tempo da Raffaele Cutolo, che governava dal carcere la Nuova camorra organizzata. O a quello che era l’Ucciardone di Palermo negli anni 80 e 90, per capire che il Sudamerica non è un posto esotico e strano: non è che solo laggiù accadono certe cose”. Come fermare una spirale che trascina sempre più in basso? “Prima di tutto bisogna rendere le carceri più aperte alla società civile. Dopo il Covid sono diventate ancora più inaccessibili di prima. Entrare per fare ricerche è un’impresa. Per tentare di risolvere alcuni problemi occorre invece poter osservare da vicino”. Uno dei più urgenti, il sovraffollamento, andrebbe però affrontato in maniera profonda e radicale. “Bisogna riflettere sulla nostra società. La rivoluzione neoliberista ha smantellato lo Stato sociale e le sue garanzie. Se vogliamo eliminare alcune delle cause che gonfiano le carceri bisogna aumentare le opportunità. In poche parole, ci vuole più giustizia sociale”. Altra piaga, le violenze e le torture subite dai detenuti. “Ci sono agenti penitenziari straordinari, di grande umanità. Ma mi pare che il sistema spinga spesso a comportarsi in modo brutale. Per invertire la tendenza è necessario che ciascuno si chieda cosa sta facendo, quale contributo sta portando. Se mancano queste domande di senso si scivola nella banalità del male, così ben descritta da Hannah Arendt. Serve la forza di dire no”. Roberta Caronia: “La mia ribalta è un film in carcere, lì il teatro è salvezza” di Arianna Finos La Repubblica, 21 agosto 2025 Dalla serie “Gerri” alla Mostra di Venezia protagonista di “La salita” esordio alla regia di Massimiliano Gallo. È una donna di camorra irrequieta, fragile e colta. Roberta Caronia è in vacanza con il figlio dodicenne a Favignana, “abitudine familiare, sì”. Palermitana doc, “vivo a Roma da quando vinsi il provino per l’Accademia ma la Sicilia me la porto dentro per memoria e identità” sorride, evocando Elio Vittorini “che ho letto a sedici anni”. Tanto teatro, la popolarità arrivata con la serie Gerri, alla veneziane Giornate degli autori porta La salita, esordio alla regia di Massimiliano Gallo. Come è arrivata al set? “Nel modo più classico: i provini. Non conoscevo Massimiliano”. Il film è ispirato a storie vere? “Alla base due linee vere di racconto. Negli anni 80, a causa del bradisismo, alcune detenute furono trasferite dalle carceri di Pozzuoli in altri istituti, tra cui Nisida, carcere squisitamente maschile e orribile. È vero anche che Eduardo De Filippo, all’epoca alla fine della carriera, senatore della Repubblica, fu incaricato di gestire il teatro a Nisida e di inaugurarne le attività di recitazione e arti sceniche. Su questo s’innesta la finzione, il rapporto tra Beatrice Pane, una delle detenute, e un giovane che ha quasi scontato la pena. La forza del film è nel farci respirare quegli anni e il racconto di due anime che cercano qualcosa”. Beatrice è un personaggio ricco di chiaroscuri... “È una donna che non dipende dagli uomini: non è più madre, non è più moglie, è una donna. Paga il prezzo di una vita che non ha scelto, perché a volte l’amore è così forte che sceglie per noi. Si trova in carcere in nome di questo amore - per un marito e un figlio che le sono stati strappati via dalla camorra. Non mi sono collegata all’immagine classica della “donna di camorra”: Beatrice è una donna colta, che cita Pasolini, non uno stereotipo. Ho interpretato donne di mafia ma siamo lontani da quell’immaginario. È entrata in quel mondo per amore, senza convinzione. È fragile, ma allo stesso tempo una donna di potere”. Il film rende omaggio al teatro popolare, canzoni e sketch... “Mi ha colpito l’allegria del teatro napoletano, la sua gioia. Tutti sono competenti, sanno cantare pezzi di tradizione… E questa favola nera identifica il teatro come elemento salvifico. Lo è per i ragazzi di Nisida nella finzione e credo anche nella realtà. Per Beatrice è diverso: non pensa di potersi salvare ma il suo canto diventa una culla. Il teatro per per me è stato e resta un farmaco, un luogo in cui riempire dei vuoti”. Che momento è della carriera? “Non ho mai fatto un film da protagonista, è l’occasione per vedere a che punto è la mia storia, non sono una ragazzina. Ho fatto cose belle, mi considero fortunata. Non mi aspetto chissà che, voglio fare bene il mio lavoro”. Quanta popolarità ha regalato una serie come Gerri? “Di rado qualcuno mi ferma. Ho un’età in cui queste cose fanno meno effetto. Ma sono felice della tv e dell’incontro con il pubblico”. Il provino più tosto? “Quello per Le baccanti, regia di Mario Martone. Per l’adrenalina sbattei con forza la mano sul tavolo e poi realizzai che me l’ero rotta. Oggi direi che forse mi sarei dovuta arrabbiare e basta”. Un momento divertente? “Il set della serie Il cacciatore, il mio personaggio viene impiccato, mi imbragano, sospendono e poi “adesso tutti in pausa pranzo”, e fingono tutti di andarsene. Se ci penso rido ancora”. L’incontro con Albertazzi? “Alla Compagnia dei giovani. Ricordo la paura l’attimo prima di andare in scena, e lui che dice “bambina, puoi farlo, devi solo pensarlo”. Ho capito che noi attori siamo le parole che diciamo”. Il momento più difficile della sua carriera? “Probabilmente la gravidanza. Rimettersi in piedi dopo la nascita di mio figlio è stato difficile: servono sostegni, persone che ti aiutino. Questo è un lavoro che ti porta a partire e spesso ti assillano i sensi di colpa, soprattutto se sei donna”. Ha pensato di mollare? “No. Ho pensato che forse non mi avrebbero permesso di continuare, ma non che avrei smesso io”. Colpevoli di capitarci di mezzo (Non sarà per caso) di Marcello Maria Pesarini vocididentro.it, 21 agosto 2025 Il mondo non è impazzito, ha cambiato i parametri della sua vita e ha perso il controllo anche di quella parvenza di facciata che, prima dell’accentuarsi della crisi climatica e delle migrazioni di massa, ancora conservava. I conflitti armati sono stati sdoganati dagli interventi Usa nel 1991 e con lo smembramento della Jugoslavia nello stesso anno sono entrati nel cuore dell’Europa. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia nel 2022 e il genocidio del popolo palestinese da parte di Israele accentuatosi in reazione all’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 stanno addormentando le coscienze. Non c’è bisogno di andarne a cercare i risultati lontano. Stiamo perdendo sempre più l’attitudine all’azione, ma anche a un sano giudizio politico e umano. Di fronte alla violenza con cui si risponde ai reati siamo osservatori muti e disinformati. Si era pensato e sperato che con la particolare eco suscitata dal femminicidio di Giulia Cecchettin il cui corpo era stato ritrovato il 18 novembre 2023 e dopo la presa di posizione della sorella Elena e del padre Gino la società a forte marchio patriarcale italiana avrebbe iniziato ad affrontare se stessa a fondo. Ma accadeva che mentre Elena Cecchettin dichiarava che l’ex fidanzato di Giulia non era un mostro ma un figlio sano del patriarcato, mettendo fortemente in difficoltà i conduttori di tanti talk show, che non comprendevano cosa volesse dire “Se domani sono io, se domani non torno, mamma distruggi tutto” dalle parole della poesia di Cristina Torre Caseres, dall’altra un’esponente della maggioranza di Giorgia Meloni intervenuta a una premiazione letteraria proprio a due passi da Fossò (Venezia), aveva dichiarato compiendo un’evidente gaffe che era necessario tornare ai tempi nei quali le “ragazze” uscivano con ragazzi conosciuti, di cui ci si poteva fidare. Chi più conosciuto dell’ex-fidanzato Filippo Turetta? La Fondazione Giulia Cecchettin è stata istituita e lavora non solo nelle scuole ma raccoglie materiale per il suo ufficio scientifico. È necessario che i programmi di Educazione alle relazioni nelle scuole inizino, come quelli di supporto psicologico, senza essere un fiore all’occhiello o finanziare enti sorti ad hoc. Non ci sono traguardi da raggiungere quando si parla di educazione e rieducazione: parliamo delle figure dei sex offenders in carcere a favore dei quali sono numerosi i progetti attivi anche se mai sufficienti, come gli interventi per le donne vittime dello sfruttamento della prostituzione, oppure di violenza maschile. Non c’è solo curiosità di fronte all’aspetto delle donne uccise, che spesso così fotogeniche rispondono ai diktat della moda e della società, che parte della popolazione pensava di avere abbattuto negli anni 70 con le ondate del femminismo e un’iniziale presa di coscienza dei maschi. A riprova che, come per la lotta di classe, nessuna conquista è mai definitiva, soprattutto se sono pochi e poche a beneficiarne. C’è invece un profondo senso di inadeguatezza; un’incapacità di reazione che diventi organizzazione e poi educazione, perché solo attraverso un processo lento e continuo, che non pensi mai di avere esaurito il suo compito, i maschi possano venire educati all’amore, al sentimento e, come si proponeva negli anni 70 sul modello dei paesi scandinavi, all’educazione sessuale. Va analizzata questa incapacità di reazione a partire ad esempio dal clamore suscitato dai delitti e poi dai successivi schieramenti assunti dai vari osservatori. Sara Campanella, uccisa il 31 marzo, aveva in comune con gli altri il volto giovane e sorridente della ventiduenne, riportata come quasi tutte le altre vittime con abiti colorati, quando non con trucco e colorito che stridono ancor di più con la loro triste fine e con gli ambienti, fisici e morali, nei quali essa è maturata. Stefano Argentino di 27 anni, dopo avere infastidito la prossima vittima con messaggi, telefonate e violenze verbali, l’aveva barbaramente uccisa per strada. Poi era fuggito in auto, come tanti altri, ed era stato rintracciato dai Carabinieri anche grazie alle testimonianze delle amiche di lei. Condanna, stupore, anche se qualcuno l’aveva aiutato nella fuga, per cui il cliché del mostro non torna. Ma, in assenza di un’educazione dell’opinione pubblica, dei cittadini, ed un cattivo funzionamento delle istituzioni carcerarie anche Stefano Argentino dopo un periodo di isolamento era stato riammesso al carcere ordinario, pur avendo manifestato più volte l’intenzione di togliersi la vita, cosa che è avvenuta il 6 agosto. Ora ci sono 7 indagati dalla Procura nel carcere di Messina, il suo avvocato afferma che avrebbe dovuto essere ospitato in una Rems, residenza per l’esecuzione di misure di sicurezza. Fermiamoci qui, noi popolo purtroppo non informato e istituzioni che non compiono il loro dovere. I suicidi e tentati suicidi sono all’ordine del giorno nelle carceri. Sono una delle conseguenze di come non si vive là dentro, e il conoscere e l’avere promosso attività educative e partecipative in quei non luoghi stride ancora di più con le condizioni della grande maggioranza degli ospiti. È uno Stato di diritto quello dove all’unanimità viene approvata in Parlamento il reato di femminicidio, apparentemente applicando un deterrente, in realtà avvalorando l’analisi di comodo del mostro? È uno Stato di diritto quello nel quale si parla di abbassare la soglia di punibilità per età, dopo l’uccisione, in un incidente stradale, di una donna di 71 anni da parte di 4 minorenni allontanatisi dal campo nomadi nell’incuria dei genitori, fenomeno lamentato tutti i giorni di fronte al quale abbiamo avuto solo il Decreto Caivano? È uno stato di diritto quello nel quale la sezione psichiatrica del carcere di Ascoli Piceno verrà spostata a Montacuto di Ancona, carcere in sovrannumero e nel quale di casi “da REMS” non presi in considerazione ce ne sono stati molti, per tutti Matteo Concetti suicidatosi in condizioni simili a quelle di Stefano Argentino il 5 gennaio 2024? Ma soprattutto: che significato ha un’istituzione, il carcere, dove quasi tutto funziona male, c’è il sovraffollamento, non c’è igiene, non si applica l’articolo 27 della Costituzione, ma tutto deve essere registrato, annotato, scritto, riscritto su moduli predisposti come se tutto funzionasse come un orologio svizzero e invece funziona come un vulcano prossimo all’eruzione? “Negli Usa avevo casa e lavoro, ho perso tutto. In cella trattamenti inumani e razzisti” di Estefano Tamburrini Il Fatto Quotidiano, 21 agosto 2025 Parla l’italo-venezuelano espulso dagli Usa dopo 7 mesi in carcere. Intervista al 32enne, rientrato a Roma il 7 agosto dopo la prigionia: “Quel che hanno fatto è incostituzionale, valuto azioni legali”, racconta. Sette mesi in cella negli Stati Uniti, poi l’espulsione in Italia e una vita tutta da ricostruire. David D’Ambrosio, 32enne italiano di origini venezuelane, è rientrato a Roma il 7 agosto dopo la lunga prigionia, trascorsa soprattutto nel carcere della contea di Plymouth, da dove, sotto pseudonimo, aveva raccontato in esclusiva la sua storia a ilfattoquotidiano.it. D’Ambrosio era stato arrestato dagli agenti di frontiera (Ice, Immigration custom enforcement) la sera del 13 febbraio, mentre rientrava a casa: “Non c’erano motivi per catturarmi, avevo la Green card approvata (il permesso di soggiorno permanente, ndr) e aspettavo la residenza, ma non hanno voluto sentire ragioni. E mi hanno portato via lo stesso”, racconta. Dopo i primi 15 giorni al penitenziario Northwest State Correctional Facility, nel Vermont, è stato trasferito per una notte al centro di detenzione di Burlington e infine a Plymouth, in Massachussets. Il rilascio, avvenuto alle 4:30 del mattino, gli è stato annunciato dopo la mezzanotte: “Quando mi hanno detto che sarei uscito da quell’inferno non ho più dormito”, dice. “Mi hanno riportato a Burlington, dove ho aspettato altre quattro ore in una cella condivisa da uomini e donne, e infine in aeroporto, a Boston, per prendere il volo di rientro”. Finita l’odissea, D’Ambrosio parla nuovamente a ilfattoquotidiano.it da Atina (Frosinone) il paese del basso Lazio con poco più di quattromila abitanti dove è cresciuto. Bentornato a casa. Come ci si sente il “giorno dopo”? È un’esperienza strana. Da un lato sono contento di rivedere i miei: ho lasciato questo posto un decennio fa e ho lavorato in Scozia per un anno e mezzo, poi negli Stati Uniti per più otto anni. Dall’altro, il paese non è più lo stesso: qui non c’è lavoro, quasi tutti i miei amici sono altrove - chi a Torino, chi all’estero - e non ci sono prospettive per chi rimane. È difficile sentirsi pienamente a casa: nel Massachusetts avevo la casa, il lavoro, tanti amici. È lì che sono diventato adulto. Non è facile realizzare di aver perso tutto di un colpo. Ma pazienza. Meglio lì che in cella… Non c’è dubbio. Anche perché mi è capitato di condividere la cella con persone che avevano commesso dei reati - spaccio, traffico d’armi - ed erano soliti aggredirmi. Erano stati messi lì con l’etichetta di migranti irregolari per agevolare la loro espulsione e chi non aveva fatto niente doveva solo subire. Mi picchiavano, ricevevo schiaffi all’improvviso mentre ero per conto mio: loro non stavano bene, si credevano intoccabili. La situazione era diventata insopportabile, a un certo punto ho reagito e sono stato portato in isolamento per un paio di giorni: un buco di due metri per quattro, con la luce sempre accesa. Dopo mi hanno cambiato di sezione e non ho più visto i miei aggressori, anche perché il carcere era sovraffollato e c’era un turnover frenetico di detenuti: ne entravano una ventina al giorno, tra cui un minorenne ecuadoriano, cresciuto a New York, ignaro dei motivi della sua reclusione. Gli agenti ignoravano le nostre richieste e domande, e ci rispondevano con insulti razzisti. Ha mai subito torture? No, ma il trattamento è stato inumano e degradante. In una cella da cinque persone c’era soltanto un water, in vista, davanti a una finestra e videosorvegliato. La sorveglianza interna era pressoché inesistente: tra i reclusi si verificavano furti, il cibo veniva sottratto sotto minaccia. Qualcuno aveva addirittura un coltello, ma gli agenti non intervenivano. Il cibo poi era spesso crudo, perché veniva preparato dai detenuti stessi, e l’assistenza medica era superficiale: un mese fa mi sono fatto male alla caviglia e non ho ricevuto un’adeguata attenzione. “Non c’è niente di rotto”, mi aveva detto il medico della prigione dopo aver dato un’occhiata veloce. Ora sono in stampelle: la lesione è tale che forse richiederà un intervento. Anche poco prima del rientro mi è stato fatto qualche dispetto: non mi hanno restituito il telefonino e mi hanno sottratto 480 dollari, senza motivo, dal portafoglio. Le autorità italiane sono mai intervenute? Va detto che nel mio caso le guardie facevano leva sulle origini venezuelane, senza tenere conto della cittadinanza italiana. Le autorità consolari e diplomatiche erano a conoscenza della mia situazione, l’avevo raccontata al console, ma non potevano garantire condizioni detentive più giuste: quello era un compito delle autorità statunitensi. Il loro obiettivo era quello di tirarmi fuori da quel posto. E ci sono riusciti. E ora cosa farà? Direi che non è finita. Il mio caso è aperto, ciò che hanno fatto con me è incostituzionale. Mi hanno rinchiuso in carcere nonostante la Green card fosse approvata: mancava soltanto la residenza, che era in arrivo. Ora sto valutando azioni legali insieme al mio avvocato negli Stati Uniti. Ucraina. Queste garanzie scritte sull’acqua di Ettore Sequi La Stampa, 21 agosto 2025 Senza impegni chiari da parte degli Usa, le promesse di sicurezza per Kiev restano fragili. La scelta è tra una pace armata garantita e una guerra differita travestita da accordo. In diplomazia esiste una regola antica: quando non si vuole far avanzare un negoziato sulla sostanza, lo si sposta sul processo. Così agisce la Russia, negoziando sui negoziati per guadagnare tempo mentre avanza sul campo. La diplomazia diventa un prolungamento della guerra: il calendario sostituisce la strategia, sempre a vantaggio di chi occupa terreno. Sul piano politico, il processo avviato dai due vertici, Alaska tra Trump e Putin, Washington tra Trump, Zelensky e i principali leader europei, resta dunque fragile e pieno di ostacoli. Sono quattro. Primo: il vertice Putin-Zelensky caldeggiato da Trump, è ancora incerto e rischia di essere un gesto imposto più che un passo verso la pace. Mosca non riconosce la legittimità di Zelensky e userebbe il faccia a faccia per ribadire il proprio ultimatum. Per il Cremlino l’Ucraina resta uno Stato artificiale, Zelensky un presidente illegittimo e la guerra una partita per procura contro l’Occidente. Secondo: lo “scambio di terre” è incompatibile con la sicurezza ucraina e con l’architettura europea; consegnerebbe al Cremlino il controllo del Dnipro e di linee difensive vitali, anche in vista di future nuove aggressioni. Terzo: l’unità transatlantica è reale nelle dichiarazioni, meno nei mezzi. Senza una pressione americana coerente, Mosca non ha incentivi a cedere. Quarto e più cruciale: la definizione delle garanzie di sicurezza è ancora nebulosa. Più sono vaghe, più cresce il rischio di pace apparente e guerra differita. Ne hanno discusso ieri i capi di Stato Maggiore della Nato, consapevoli che per Kiev nessuna concessione territoriale è possibile senza garanzie assolutamente vincolanti. Più ampie sono le rinunce, più stringenti devono essere le tutele. Garanzie senza impegni chiari e vincolanti sono solo annunci. Qui si apre il capitolo più delicato: cosa rende “vera” una garanzia? Cinque criteri: chiarezza, vincolo giuridico, mezzi dedicati, verificabilità, automatismi di risposta. Tutto il resto è diplomazia cosmetica. Il Memorandum di Budapest del 1994 - promesse politiche in cambio della rinuncia nucleare ucraina - è la prova da manuale di ciò che non funziona. Ripetere l’errore sarebbe gravissimo. Le opzioni sul tavolo si muovono tra due poli. Da un lato, un impegno “tipo Articolo 5” fuori dalla Nato: una clausola di difesa collettiva ad hoc che coinvolga i Paesi garanti. Ma va detto con chiarezza: l’Articolo 5 non obbliga all’intervento armato. Lascia a ciascuno la scelta dei mezzi. In caso di aggressione russa, le opinioni pubbliche di Francia, Italia, Germania o altri garanti accetterebbero l’invio di proprie truppe in Ucraina? Vi è poi l’ipotesi franco-britannica di una “forza di rassicurazione” europea nelle retrovie, sostenuta da copertura aerea-navale e intelligence occidentali, più un robusto pacchetto di addestramento e munizioni. Senza impegni precisi e stringenti e regole d’ingaggio definite, però, queste garanzie restano di cartapesta: invitano il Cremlino a testarne i limiti con violazioni graduali. Gli Stati Uniti hanno escluso proprie truppe sul terreno. Possono fornire Isr, difesa aerea, guerra elettronica, antidroni, logistica e industria bellica. È molto ma non basta: senza forte impegno Usa e chiari obblighi europei, le garanzie restano promesse scritte sull’acqua. La scelta non è tra guerra e pace, ma tra una pace armata garantita e una guerra differita travestita da accordo. La prima richiede automatismi sanzionatori, monitoraggio internazionale, linee rosse funzionali (accesso ucraino al Dnipro e ai corridoi verso il Mar Nero), e un meccanismo che alzi immediatamente i costi a Mosca in caso di violazione. La seconda si riconosce subito: promesse vaghe, garanzie senza mezzi, verifiche sommarie, formule aperte all’interpretazione del più forte. Negoziati veri sono possibili solo se accompagnati da garanzie effettive, verificabili e durature. Altrimenti ogni tavolo diventa anticamera di un conflitto più ampio. Per l’Ucraina, qualsiasi compromesso è sostenibile solo con un sistema di sicurezza solido e irreversibile; per l’Europa, è in gioco la propria credibilità; per gli Stati Uniti, la leadership dell’ordine che hanno costruito. Tutto il resto è processo. E il processo, da solo, non ferma i carri armati. Sul bordo esterno si muove la Cina. Vuole Mosca resiliente ma subordinata, leva contro Washington, non però a costo di destabilizzare i mercati o compattare l’Occidente. Pechino mira a un ruolo da grande potenza, interessata a partecipare alla definizione di sfere di influenza. L’ipotesi russa di una forza di interposizione con cinesi, indiani o brasiliani serve più a confondere e prendere tempo che a stabilizzare: un teatro per affermare un “ordine non eurocentrico” senza assumersi oneri reali. La tentazione di un “Kissinger rovesciato” - distensione tra Washington e Mosca per staccare il Cremlino da Pechino - è ancora un miraggio. Medio Oriente. La Palestina cancellata, il prezzo inaccettabile della deriva di Netanyahu di Alessia Melcangi La Stampa, 21 agosto 2025 Insediamenti e barriere soffocano un tessuto fragile e mortificano l’idea di uno Stato. Ma la strategia della destra messianica al potere impone al governo scelte drammatiche. C’è una data nella storia recente di Israele che si intreccia inestricabilmente con quella del mondo arabo-musulmano, ed è il 1967: nel giugno di quell’anno, infatti, un attacco a sorpresa delle truppe dello stato ebraico fu in grado in soli 6 giorni di sbaragliare le forze militari di Egitto, Giordania e Siria e conquistare più del doppio delle terre fino ad allora controllate dal governo di Tel Aviv. La Penisola del Sinai, le Alture del Golan, Gerusalemme Est e la Cisgiordania vennero così occupate, sebbene l’Onu, tramite la famosa risoluzione n. 242, ne impose subito a Israele la restituzione. Come tante altre risoluzioni, questa è rimasta, nel tempo, lettera morta. Nel 1993, con gli Accordi di Oslo firmati dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp) e Israele, la Cisgiordania divenne il fulcro dell’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) che avrebbe dovuto guidare auspicabilmente alla nascita di un vero e proprio Stato di Palestina. Vi era, tuttavia, un problema che con il tempo e nella noncuranza internazionale avrebbe assunto un peso schiacciante nel fallimento degli accordi di pace: proprio dal 1967 in Cisgiordania iniziano a sorgere centinaia di insediamenti e avamposti israeliani, progressivamente, senza sosta, tanto che oggi ospitano almeno 700mila coloni. Un territorio che attualmente, guardando una mappa politica, appare frammentato, spezzato, diviso tra zone sotto controllo palestinese e altre, che rappresentano il 61% del territorio, sotto pieno controllo israeliano, aumentate gradualmente attraverso l’inarrestabile espansione degli insediamenti che soffocano il tessuto sociale e territoriale palestinese. Una realtà resa ulteriormente invivibile dalla costruzione della cosiddetta “barriera di separazione israeliana”, un tracciato di 730 km eretto a partire dal 2002, che limita fortemente la libertà di movimento e le attività economiche dei palestinesi in Cisgiordania, creando enormi disagi per la popolazione e depotenziando sostanzialmente il ruolo dell’Anp. Negli ultimi due decenni, la destra israeliana al potere ha usato strumentalmente la costruzione di nuove colonie ebraiche non solo per espandere di fatto i territori sotto il controllo israeliano, acquisendo de facto porzioni di Cisgiordania, ma soprattutto disarticolando la continuità territoriale delle zone palestinesi, sottraendo territori agricoli, acqua, bloccando vie di comunicazioni attraverso la presenza di continui check point. Oggi è chiaro che questa ignobile strategia aveva come obiettivo finale la realizzazione dell’ideale messianico di ricreare l’Israele biblico in violazione di ogni norma del diritto internazionale. Dopo la strage del 7 ottobre e con il ritorno di Trump al potere, è caduta la maschera e questo piano si manifesta in tutta la sua brutalità con l’accelerazione spropositata della costruzione degli insediamenti e, soprattutto, con l’esplosione di continue violenze da parte dei coloni israeliani, tollerate se non incoraggiate da parte delle forze di sicurezza e dall’attuale governo, contro i villaggi palestinesi sia musulmani che cristiani. “La Palestina non deve esistere né oggi, né mai”, afferma con veemenza l’ultra-destra al potere per voce del ministro delle Finanze, Bezalel Smotrich e di quello della Sicurezza Nazionale, Itmar Ben Gvir. E per farlo servono non solo nuovi insediamenti, ma occorre costruirli in modo strategico così da separare fisicamente le varie porzioni di Cisgiordania e porre la pietra tombale alle legittime rivendicazioni palestinesi della nascita di uno Stato indipendente. Il crescente sostegno occidentale al riconoscimento di uno Stato di Palestina ha, paradossalmente, ulteriormente infiammato la destra nazionalista messianica che ha imposto al primo ministro Netanyahu, il quale formalmente non segue le dichiarazioni roboanti dei suoi ministri, ma di fatto accetta ogni loro richiesta, di approvare un nuovo piano di allargamento delle colonie con la creazione dell’insediamento nella zona E1. Si tratta di un’area di territorio palestinese posta tra Gerusalemme Est e l’insediamento di Maale Adumim, dove sorgerebbero circa 3.500 nuove unità abitative per i coloni. Tale posizione è significativa poiché rappresenta uno degli ultimi collegamenti geografici tra le principali città palestinesi, Ramallah a Nord e Betlemme a Sud, la cui occupazione adesso sancirebbe la divisione di fatto in due della Cisgiordania in regioni settentrionali e meridionali. Stante l’assoluta supremazia militare di Israele, fa bene Smotrich ad affermare che l’ipotesi di uno Stato palestinese sta effettivamente tramontando. E tuttavia quali sono i costi politici di questa deriva massimalista e xenofoba che lo Stato ebraico si troverà a pagare? Oltre al possibile aumento delle già presenti violenze in Cisgiordania, rimane il problema di cosa fare dei milioni di palestinesi di fatto inglobati all’interno di un grande Israele nazional-religioso. Un mero calcolo demografico ci mostra i pericoli di questa politica miope e avventurista: la popolazione ebraica si ritroverebbe palesemente minoritaria (le stime parlano di non più del 43% della popolazione totale) rispetto a quella palestinese. E a questo punto, che strade rimarrebbero al futuro di Israele? Due opzioni egualmente scoraggianti, ossia tenere una maggioranza discriminata politicamente e civilmente o, ancor peggio, avventurarsi in sinistre politiche di espulsione forzata dei palestinesi, intollerabili per la comunità internazionale.