Suicidi in carcere, il cinismo di Nordio di Ilaria Baraldi* Il Manifesto, 20 agosto 2025 Da inizio anno si contano 53 suicidi dietro le sbarre. Tra le vittime anche un minorenne, deceduto alla vigilia di ferragosto dopo essersi impiccato all’Istituto penale minorile di Treviso. Si chiamava Danilo Rihai. A questo numero occorre aggiungere - a testimonianza dell’atrocità della situazione carceraria - trenta decessi per cause da accertare, che si sommano al numero dei morti per cause naturali che, come sottolineato dal rapporto del Garante nazionale per le persone private della libertà, sono l’effetto della drammatica carenza di una effettiva assistenza sanitaria in carcere. Eppure secondo il ministro Nordio non c’è “nessun allarme suicidi” nelle carceri italiane, perché nei primi sette mesi del 2025 si sarebbe tolto la vita un numero “sotto la media nazionale dell’ultimo triennio”. Ad un discutibile calcolo si aggiunge il cinismo con cui il ministro risponde ai dati diffusi dal Garante e la surreale retromarcia dello stesso sui dati appena presentati. Cose che succedono se a ruolo di garante si nomina chi fino al giorno prima faceva parte dell’amministrazione penitenziaria da oggi oggetto di controllo. Era già successo a Ferrara, dove garante fu nominato, dal sindaco leghista, l’ex direttore del carcere, con l’ovvia e immediata conseguenza di annacquare la garanzia di terzietà. Lo stesso cinismo fece dire a Nordio che il sovraffollamento serve per impedire i suicidi, affermazione tanto assurda da non essere commentabile. La situazione è così evidente nella sua gravità che l’Spp, Sindacato di polizia penitenziaria, accusa il ministro di “tentare goffamente di negare l’innegabile”, perché le manie securitarie e punitive di questo governo si ritorcono contro gli stessi agenti penitenziari - sottodimensionati per numero - costretti a lavorare in pessime condizioni, in un circolo vizioso di insoddisfazione e demotivazione e scarsa formazione, che solo una politica miope può non collegare agli episodi di violenza carceraria. Nel caldo agostano tutto è più difficile, in carcere: serve un ministro la cui azione sia volta a prevenire e ridurre i rischi per la vita e la salute dei detenuti, non un opportunista ragioniere che mistificando i numeri gioisce per una farlocca statistica. Come ricorda Stefano Anastasia, Garante del Lazio, “la contabilità mortuaria è la fine di ogni politica penitenziaria”. La mancanza della reale volontà di affrontare il problema con l’obiettivo di risolverlo sta in due dati, che viaggiano paralleli: da un lato, tutte le proposte, dalla liberazione anticipata, alle case territoriali, alle comunità e strutture per detenuti “tossicodipendenti” e con disagio mentale, sono finite in un cassetto o bocciate dalla maggioranza. Dall’altro, questo governo iper produce nuove fattispecie di reato e aumenta le pene edittali, prevedendo sempre più carcere nel decreto “sicurezza”, anche per quelle fattispecie che più efficacemente potrebbero essere trattate senza detenzione (i decreti “rave” e “Caivano”) e dimenticando dolosamente la prevenzione, sottovalutata e mai finanziata (legge sui femminicidi). Preferire la propaganda alla reale soluzione dei problemi non migliora la condizione carceraria per le persone detenute e per chi vi lavora, non ferma i suicidi. Ha come unico effetto la creazione di una opinione pubblica sempre meno consapevole di cosa sia uno stato di diritto e sempre più incline a un populismo violento fatto di “giustizia è fatta” e “buttate via la chiave”. Di questo clima intossicato da allarmi sociali e moralismo da quattro soldi pagano le conseguenze gli ultimi della fila, i miserabili e i reietti, i condannati e quelli in attesa di giudizio, gli immigrati e le donne rom, i minori non accompagnati, i poveri che non possono permettersi una buona difesa, le persone senza una casa dove poter finire la pena. Ma la pagheremo tutte e tutti, a lungo andare. *Segretaria della Società della Ragione Suicidi in carcere: l’emergenza continua (tra le polemiche estive) di Gian Luigi Gatta sistemapenale.it, 20 agosto 2025 C’è un contatore che fa male, come un pugno nello stomaco. È quello dei suicidi nelle carceri italiane. Sono già 55 quest’anno. Tra questi, pochi giorni fa, a Treviso, quello di un ragazzo di soli 17 anni. Nel 2019 i suicidi in carcere erano stati 54: uno in meno di quelli registrati quest’anno a Ferragosto. Il contatore dei suicidi, aggiornato in tempo reale, è disponibile sul sito di Ristretti Orizzonti. Una meritoria iniziativa di sensibilizzazione si deve anche all’Unione delle Camere Penali Italiane, che ha pubblicato il tragico elenco. I report statistici e gli studi non mancano. Tra i più recenti, quello di Antigone e quello del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. La pubblicazione di quest’ultimo report ha suscitato la reazione del Ministero della Giustizia, che con un comunicato dello scorso 11 agosto ha negato l’esistenza di un “allarme” legato ai suicidi, smentendo il Garante. Questi, a sua volta, a seguito del comunicato del Ministero ha ritenuto di pubblicare il giorno stesso una precisazione, smentendo l’esistenza di un “allarme” suicidi. La Giunta dell’Unione delle Camere Penali Italiane, con il suo Osservatorio carcere, ha pubblicato sulla vicenda un comunicato critico. Anche il Presidente di Antigone, Prof. Patrizio Gonnella, si è espresso in senso fortemente critico rispetto al tentativo di negare un’evidente emergenza, che prosegue dopo l’anno record dei suicidi in carcere, nel 2024. Un’emergenza ricordata nel messaggio di fine anno dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e da un documento congiunto dell’Associazione Italiana dei Professori di Diritto Penale e dell’Associazione tra gli Studiosi del Processo Penale “G. D. Pisapia”. Nel suo messaggio di fine anno il Presidente Mattarella ha richiamato al “rispetto della dignità di ogni persona, dei suoi diritti. Anche per chi si trova in carcere. L’alto numero di suicidi è indice di condizioni inammissibili”. La Corte costituzionale, nella recente sentenza n. 139/2025, depositata il 29 luglio (rel. Viganò), ha sottolineato quanto sia “essenziale che la pena detentiva sia eseguita in...condizioni rispettose della dignità della persona e del principio di umanità della pena. Condizioni, queste, che è preciso dovere del legislatore e dell’amministrazione penitenziaria assicurare, con riguardo a tutti coloro che si trovano, oggi, nelle carceri italiane”. Anche a coloro, aggiungiamo, che decidono di porre fine alla propria vita mentre sono ristretti in carcere. Non si tratta di attribuire responsabilità al Governo pro tempore: si tratta di affrontare e risolvere, responsabilmente, un’emergenza che non può essere negata o minimizzata. Come ha osservato il Presidente Mattarella, il numero dei suicidi è indice di condizioni inammissibili. Tra queste, quella del sovraffollamento delle carceri, che il Ministro Nordio ha tuttavia pubblicamente inquadrato come problema diverso e non correlato, dichiarando tra l’altro in una intervista al Corriere della Sera, lo scorso 17 luglio, che “paradossalmente il sovraffollamento è una forma di controllo: alcuni tentativi di suicidio sono stati sventati proprio dai compagni di cella”. Eppure proprio il Garante nazionale dei detenuti, nominato su proposta del Ministro Nordio, nel suo report sui suicidi di fine 2024 aveva sottolineato la correlazione statistica tra l’incidenza percentuale dei suicidi, nei diversi istituti, e il tasso di sovraffollamento. A pagina 20 di quel report - che allo stato non risulta smentito - si legge quanto segue: “Un’ultima, breve, nota riguarda l’impatto del sovraffollamento sull’andamento degli eventi critici. Secondo l’analisi comparativa riportata nella tabella - relativa agli eventi critici di maggiore rilievo, è ipotizzabile che all’aumentare del sovraffollamento si possa associare un incremento degli stessi, in particolare di quegli eventi critici che, più di altri, sono espressione del disagio detentivo, quali atti di aggressione, autolesionismo, suicidi, tentativi di suicidio, omicidio, manifestazione di protesta collettiva, aggressioni fisiche al personale di Polizia Penitenziaria e al personale amministrativo”. Dei 54 istituti in cui si sono verificati suicidi, nel 2024, 51 registravano infatti un indice di sovraffollamento superiore a 100. Pubblichiamo queste righe, in pieno agosto, non per alimentare polemiche, ma per riassumere i termini di un dibattito agostano che a molti può essere sfuggito e, soprattutto, per richiamare l’attenzione di tutti su un’emergenza intollerabile, scolpita nell’elenco dei 55 suicidi da gennaio a Ferragosto. Celle sovraffollate, sì a pene alternative di Edmondo Bruti Liberati La Stampa, 20 agosto 2025 L’inarrestabile sequenza dei suicidi non ci consente di chiudere gli occhi sul carcere. La linea securitaria: moltiplicazione dei reati e aumento delle pene, produce più detenuti e più sovraffollamento. Per i maitres à penser alla Delmastro la ricetta è: sempre più carceri per sempre più detenuti: una corsa senza fine. Nel frattempo nessun intervento sul sovraffollamento e, per i reati più gravi, condizioni di detenzione dure e inumane: “Una gioia non lasciare respirare chi sta nell’auto della penitenziaria”. Il Ministro della Giustizia Nordio ha spesso additato, come causa tra le più rilevanti del sovraffollamento, il numero dei detenuti in custodia cautelare in attesa di giudizio. E allora “diamo i numeri”, quelli forniti dal Dipartimento Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia, che evidentemente il Ministro non legge. Al 31 luglio 2025 detenuti presenti 62.569, di cui 9.021 in attesa di primo giudizio, 3.422 appellanti, 1.697 ricorrenti in cassazione e 758 “misti”. Il totale dei detenuti in attesa di sentenza definitiva (compresi appellanti e ricorrenti per cassazione) è il 23, 81%, dato in linea con la media europea, peraltro fortemente influenzato per l’Italia da possibilità di appello e di ricorso per Cassazione molto più ampi di quelle previste in altri paesi. Il dato più rilevante è quello dei detenuti in custodia cautelare in attesa di primo giudizio: 14,42%. È meno della metà di quel 30%, un terzo, che spesso viene diffuso. Tutti vorremmo giudizi più rapidi, ma questa percentuale, la più bassa degli ultimi decenni, è verosimilmente anche il risultato dei miglioramenti raggiunti con il sostegno del PNRR nel penale (nel civile i dati non sono invece confortanti). Di questo 14, 42% una percentuale significativa (non abbiamo un dato preciso) è costituita dagli arrestati in flagranza per i reati cosiddetti di strada, arresti convalidati, ma in attesa di giudizio. Solo il residuo è costituito dai detenuti per ordinanza del Gip su richiesta del Pm; inoltre tra questi detenuti in attesa di giudizio vi sono imputati per reati di grave allarme sociale (es. rapinatori seriali, trafficanti di droghe), che nessuno vorrebbe rimanessero in libertà. Il dato del 14,42% dei detenuti in attesa di primo giudizio, a dispetto di quanto dice il Ministro, è scarsissimamente influente sul sovraffollamento. Carceri italiani tra sovraffollamento e disagio - Dopo aver “dato i numeri”, pensiamo alle persone dei detenuti. Siano prudenti i Pm nel richiedere misure cautelari, siano prudentissimi i Gip nel concederle solo nei casi strettissimamente necessari. Sia vigile l’opinione pubblica e la stampa nella attenzione e nella critica. Ma non creiamo confusione con dati e false aspettative. Se si vuole davvero e subito incidere sul sovraffollamento, esclusi per impraticabilità politica amnistia e indulto, rimangono solo due vie. Una misura strutturale, l’ampliamento della detenzione domiciliare per i detenuti con un basso residuo di pena, magari con braccialetto elettronico (funzionante), è un “beneficio” che favorirebbe il reinserimento nella società. Una misura contingente è l’ampliamento straordinario della liberazione anticipata, che non è automatismo, ma riduzione di pena per buona condotta. Almeno su quest’ultima misura il “garantista” Ministro Nordio potrebbe cessare di adeguarsi alla inumana torsione repressiva del buttare le chiavi della cella fino all’ultimo goccio di sofferenza dell’ultimo giorno del fine pena. Se poi qualcuno non resiste e pone fine alla sua vita, se la è andata a cercare, taluno osa dire. Non si tratta di essere “buonisti”. Condizioni carcerarie incivili aumentano le pulsioni antisociali e sono controproducenti anche dal punto di vista della prevenzione della recidiva e dunque della “sicurezza” razionalmente intesa. “La custodia cautelare non incide sul sovraffollamento” di Angelo Picariello Avvenire, 20 agosto 2025 Intervista a Rocco Maruotti, segretario generale dell’Associazione Nazionale Magistrati. “Il sovraffollamento carcerario non è determinato, se non in una misura che è nella media europea, dalla custodia cautelare”. Rocco Maruotti, segretario generale dell’Associazione nazionale magistrati, contesta decisamente la lettura che il ministro Carlo Nordio dà in relazione al drammatico dato dei suicidi negli istituti di pena. Il Guardasigilli sostiene, però, che il sovraffollamento non c’entra… A dire il vero il ministro è andato oltre, arrivando quasi a sostenere che il sovraffollamento costituisca un fattore di deterrenza al suicidio, perché molti suicidi in carcere sarebbero sventati dai compagni di cella. In realtà basta leggere i dati dell’Istituto superiore di Sanità (gli ultimi disponibili sono del 2021) per rendersi conto che il tasso di suicidi in carcere è 18 volte superiore a quello che si registra tra le persone in libertà. Ed è difficile sostenere che su questo dato non abbiano incidenza le condizioni disumane in cui versano i detenuti in Italia. È stato anche detto che a incidere notevolmente sono le custodie cautelari di detenuti in attesa di giudizio…. Chi sostiene che il sovraffollamento carcerario dipende dall’abuso della custodia cautelare fornisce una falsa informazione, smentita dai dati contenuti nel rapporto del Consiglio d’Europa sulla situazione carceraria, aggiornati al 31 gennaio 2024, dai quali risulta che la percentuale dei detenuti italiani in attesa di sentenza definitiva è, come dicevo, nella media europea ed è comunque più bassa di quella di Francia, Germania e Regno Unito. Anzi, la costante riduzione, registratasi negli ultimi anni, del loro numero, grazie ad una applicazione della carcerazione preventiva come una extrema ratio come ci chiede anche la Corte Costituzionale, ha consentito di contenere l’aumento a dismisura della popolazione carceraria, che ha raggiunto un sovraffollamento del 133%, soprattutto a causa di scelte di politica criminale improntate ad una visione “carcerocentrica”. Questa continua opera di delegittimazione della magistratura, portata avanti anche mediante la falsificazione dei dati, per orientare in senso negativo l’opinione pubblica in vista del referendum costituzionale, è tanto più grave quando viene fatta speculando sulla grave situazione in cui versano i nostri istituti di pena e le persone in essi ristrette in condizioni disumane. Nordio sostiene che gli attacchi politici gli danno adrenalina. Bisogna rassegnarsi a questo clima? Direi di no. Soprattutto perché non dovrebbe essere questo il clima in cui mettere mano alla Costituzione, frutto della riconciliazione tra forze politiche che erano uscite da una guerra civile che aveva spaccato il Paese. Questo clima muscolare è un campanello d’allarme per coloro che hanno a cuore la nostra architettura costituzionale e l’equilibrio tra i poteri su cui si fonda la nostra democrazia. Forse i diari dal carcere di Gianni Alemanno possono aiutare a una riflessione meno prevenuta da parte di tutti. Sotto i riflettori sono in questo momento soprattutto inchieste contro giunte di sinistra. Che segnale è? È la dimostrazione di una magistratura non orientata politicamente, come una parte della politica la descrive falsamente e al solo fine di delegittimarla in vista della campagna referendaria. Solo una magistratura autonoma e indipendente come quella italiana può garantire il rispetto del principio di uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge. Proprio quella autonomia e indipendenza da ogni altro potere che, con la riforma costituzionale proposta dal ministro Nordio, si vorrebbero ridurre per controllare la magistratura e orientare la sua azione. Per i detenuti con disagi psichici mancano le strutture adeguate di Emanuele Lombardini Avvenire, 20 agosto 2025 Le Rems, residenze per autori di reati che hanno disturbi mentali, sono solo 30 e tre regioni ne sono sprovviste. Pochi operatori, si rischia un ritorno ai vecchi manicomi. Nate dieci anni fa per sostituire gli ospedali psichiatrici giudiziari, le Rems rischiano di trasformarsi in ciò che avrebbero dovuto cancellare, cioè in veri e propri “manicomi” dove chi entra non esce migliore. L’allarme è dell’associazione Antigone che denuncia le tante carenze strutturali e di organico delle “Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza”, dove oggi vengono accolti quei soggetti affetti disturbi mentali, autori di reati, a cui viene applicata dalla magistratura la misura di sicurezza detentiva del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario o l’assegnazione a casa di cura e custodia. Sarebbe meglio in realtà usare il condizionale: “dovrebbero essere accolti”, perché in realtà non sempre è possibile, anche a fronte di disposizioni della magistratura. Emblematico il caso che ha riacceso la questione, quello di una giovane di Terni per la quale il Tribunale di Sorveglianza di Spoleto aveva emesso un obbligo di Rems. In Umbria però queste strutture non ci sono e nelle regioni limitrofe i posti sono già pieni. Dunque la ragazza, con problemi psichiatrici e precedenti penali, dopo un breve periodo di detenzione, aveva accettato il trasferimento presso la Comunità Incontro di Amelia, dalla quale però è scappata. Tornata a casa e allontanatasi ancora, la giovane è affetta da bipolarismo borderline con perizia psichiatrica che ne ha dichiarato già nel 2021 l’assoluta incapacità di provvedere a sé stessa. “Mia figlia può fare del male a sé stessa gli altri, eppure per la legge italiana essendo maggiorenne è libera di fare ciò che vuole”, dice la mamma. Eppure in Umbria, le Rems non sono previste, e addirittura in tutta Italia, i posti per le donne sono appena 100. Un quadro desolante, che a più ampio spettro aveva sottolineato anche il garante dei detenuti umbro Giuseppe Caforio, visto che nelle carceri della Regione, il numero dei detenuti psichiatrici continua ad aumentare. Nelle quattro strutture (ma particolarmente a Terni, dove sono 170 sui 600 attuali) il provveditorato “scarica” infatti tutti i detenuti più pericolosi anche dalla Toscana. La Regione Umbria e le tre Procure della Repubblica sono pronte a fare la loro parte e il Comune di Perugia ha già dato la disponibilità ad ospitare una Rems ma la decisione su nuove strutture spetta solo al Dipartimento Amministrazione Penitenziaria e quindi al Ministero della Giustizia: “Le Rems sono ormai indifferibili, perché le carceri scoppiano e questo tipo di detenuti sono quelli che creano maggiori problemi, scatenando risse e rivolte”, sottolinea Caforio. In tutta Italia le Rems funzionanti sono appena 30, con una capienza complessiva di 606 posti, quasi tutti occupati. Di questi, 120 sono in una unica struttura, quella di Castiglione delle Stiviere, nel mantovano. E ben tre regioni ne sono sprovviste: oltre all’Umbria, anche il Molise e la Valle d’Aosta. Le liste d’attesa, come emerge dal rapporto di Antigone, sono elevatissime (attualmente 690 persone, con punte del 70 percento in alcune realtà) anche se, spiega l’associazione: “Non si tratta di pericolosi criminali in libertà”. Ma il vero problema, spiega Antigone, è che la carenza cronica di personale, che dal sistema carcerario - mancano anche gli operatori sanitari, non soltanto gli agenti - si riflette anche a queste strutture la cui gestione è di competenza della Sanità, sta facendo perdere alle Rems la vocazione originaria, ovvero il recupero alla società della persona che viene accolta. Parlando a TrendSanità, Michele Miravalle di Antigone spiega che “a volte arrivano nelle Rems persone senza disturbi psichiatrici ma sono antisociali o violenti, a volte con problemi legati all’uso di sostanze. Soggetti quindi con un profilo criminale, che dunque non dovrebbero stare nella Rems. Gli operatori lo segnalano, ma non sono poliziotti e non spetta a loro gestire questo. Così come a volte ci sono anche situazioni in cui una persona che è indirizzata in carcere avrebbe invece bisogno di essere accolta in Rems. Spesso le decisioni del giudice sono prese a ridosso del reato e senza un adeguato approfondimento sanitario e diagnostico”. Il rischio che si torni al vecchio concetto del “manicomio”, dunque secondo Miravalle è dietro l’angolo: “Se vuoi portare avanti un progetto terapeutico e non hai operatori, non hai spazi nelle comunità, non hai risorse per immaginare percorsi alternativi alla Rems. L’assenza di alternative finisce per sfociare solo nella richiesta di un aumento dei posti: strutture grandi e tutti dentro. In questi “recinti” però vivono male tutti, pazienti e operatori”. Non possiamo perdere la speranza di Samuele Ciambriello* tuttieuropaventitrenta.eu, 20 agosto 2025 Sovraffollamento, suicidi, tossicodipendenti e malati di mente rivedo un copione, un canovaccio di una routine perversa fatta di numeri, pregiudizi ed indifferenza verso il mondo penitenziario. Da decenni i numeri dei suicidi, del sovraffollamento, delle pessime condizioni igieniche sanitarie, dei detenuti chiusi per 20 ore al giorno nelle celle, delle poche misure alternative al carcere, dell’eccessivo uso del carcere preventivo ci inducono a pensare che è difficile parlare di un “carcere nella Costituzione”, perché semplicemente non esiste nella realtà. Non esiste, oggi, un carcere che incarni i principi costituzionali. Il carcere della Costituzione è un luogo ideale, secondo alcuni una mera utopia irrealizzabile, sicuramente un obiettivo ancora lontano ma, almeno io credo, essenziale per affrontare seriamente e realisticamente questo problema. Forse allora, tutti, dobbiamo avere il coraggio di parlare di un carcere fuori dalla Costituzione. Le nostre carceri sono ancora sovraffollate, colme anche e soprattutto di poveri e vittime di ingiustizie sistemiche: immigrati (20mila in Italia, 908 in Campania), tossicodipendenti (17mila in Italia, 1.709 nelle carceri campane) e malati di mente (più di quattromila in Italia, circa 420 venti in Campania, solo a Poggioreale 200 di cui 82 psicotici). E la polizia penitenziaria dopo le ore 19 in tutte le carceri italiane è sottodimensionata: un agente per piano di reparto, per due piani, che deve vigilare su circa 150 detenuti! Occorre potenziare i medici ai presidi sanitari per ventiquattro ore, intervenire in tempi più rapidi, con personale specializzato. L’isolamento sociale, le condizioni di detenzione e la carenza di supporto psicologico contribuiscono a peggiorare lo stato emotivo dei reclusi, con conseguenze tragiche sui suicidi, i tentativi di suicidio sono già 457 i tentativi dall’inizio dell’anno, le forme di autolesionismo e gli scioperi della fame e della sanità. Tutto ciò compromette anche la sicurezza e la vita serena all’interno del carcere ed alimenta episodi di tensione, conflittualità e talvolta violenza. È più facile punire soprattutto i deboli, che affrontare i problemi strutturali. Siamo ancora lontani dal garantire condizioni umane e dignitose. Si continua a chiedere maggiore sicurezza, ma questa viene declinata come sola e semplice “sicurezza pubblica”, nel senso tradizionale e non come “sicurezza sociale”, senza un reale impegno per combattere esclusione e diseguaglianze. Ovviamente mi riferisco alla maggior parte della popolazione carceraria, fatta di soggetti emarginati e marginali, a prescindere da quelli che possiamo avvertire come autori di fatti particolarmente allarmanti, come la criminalità organizzata, su cui potremmo aprire altro ampio discorso, ma non è questa l’occasione. Coloro che si suicidano o provano a farlo, hanno una età media di 42 anni, sono al primo ingresso nel carcere o stanno per uscire, servono figure di ascolto. La politica e tutti i soggetti interessati abbiano il coraggio di mettere in campo riforme strutturali e risorse di uomini e professionisti: profonda depenalizzazione della fattispecie meno offensive, soprattutto in tema di stupefacenti e patrimonio; riforma della recidiva, e evitando gli attuali meccanismi; riforma della custodia cautelare, oggi un detenuto su quattro nelle nostre carceri è in attesa di giudizio; pensare a pene principali non carcerarie, con pene alternative al carcere non affidate alla sola discrezionalità del magistrato; assunzioni di educatori, pedagogisti, assistenti sociali, psicologi, psichiatrici e mediatori linguistici. Ad oggi constatiamo con amarezza che non sono valsi a nulla (almeno per ora) le manifestazioni della sofferenza dei detenuti, la fatica degli operatori penitenziari, le denunce dei garanti, il richiamo del Presidente della Repubblica e del Papa. Meno carcere significa più relazione tra esseri umani e, quasi sempre, meno delitti. Questo è il semplice messaggio che da oltre trent’anni, cerco di trasmettere dall’interno di questo mondo all’esterno. A volte mi sono sentito come un naufrago che da un’isola deserta assegna al mare il proprio messaggio in una bottiglia; altre volte invece tutto questo si traduce in una semplice invocazione ad associazioni, operatori, qualche magistrato. Quanta fatica uscire dal coro e lavorare affinché questa semplice verità non venga immediatamente seppellita sull’onda dell’ultimo fatto di cronaca o per la cinica speculazione di qualche politico pronto a strumentalizzare ogni cosa che accade, con allarmismi che rischiano di riportare la cultura giuridica del nostro paese indietro di cinquant’anni. Non possiamo limitarci a belle parole: abbiamo sprecato troppe occasioni senza portare veri cambiamenti. Dobbiamo trovare un equilibrio tra sicurezza, prevenzione e rieducazione per fare in modo che il carcere sia un luogo non solo e tanto di punizione, ma anche dove si coltiva il futuro, non un limbo dove si soffoca la vita. La sfida è enorme, ma non possiamo permetterci di perdere la speranza. *Garante campano delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale Roberto Giachetti: “Sulle carceri solo un proclama al giorno” di Barbara Roffi tuttieuropaventitrenta.eu, 20 agosto 2025 Le ultime proposte sulle carceri del Governo “sono una presa in giro che si ripete nel tempo” dice Roberto Giachetti, parlamentare di Italia Viva ed ex Vice Presidente della Camera dei deputati dal 2013 al 2015. Dopo una lunga militanza nel Partito Radicale, Roberto Giachetti, 64 anni, romano, è da sempre impegnato in battaglie per la difesa dei diritti civili e in particolare negli ultimi anni nel tentare di porre rimedio a quella che, in virtù del sovraffollamento e del numero crescente dei suicidi, è ormai comunemente riconosciuta come l’emergenza carceri. “Un anno fa il governo fece un decreto legge, con la volontà di fatto di affossare la mia proposta sulla liberazione anticipata speciale, istituendo un Commissario straordinario, che paghiamo da un anno, che si doveva occupare dell’edilizia penitenziaria” dice Giachetti secondo cui l’edilizia non ha evidentemente “nulla a che vedere con l’emergenza carcere”. Il giudizio di Giachetti sull’operato del Governo è severo “si era parlato anche di misure per facilitare la fuoriuscita dei detenuti tossicodipendenti dalle carceri, attraverso la costituzione di una rete di associazioni che potessero contenerli, ma in realtà non hanno fatto nulla per un anno”. “E quest’anno - prosegue Giachetti - nel momento in cui il Presidente del Senato ha ripreso in mano lui, non certo io, l’idea della mia proposta sulla liberazione anticipata, il Governo ha rifatto un disegno di legge che dice esattamente le stesse cose che diceva il decreto legge di un anno fa e che non hanno fatto”. “Loro pensano di potersela cavare facendo un proclama e un annuncio al giorno, e il dramma è che lo fanno sulla pelle di gente che vive in condizioni drammatiche, condizioni animali, nelle carceri”. Giachetti, cosa pensa della proposta di utilizzare le caserme? “Il Ministro Nordio dice che il problema si risolve con l’utilizzo delle caserme, ma tutti sanno perfettamente che è una cosa risibile, anche perché c’è il problema dell’organico della Polizia penitenziaria a cui manca il 40% del totale. Quindi chi ci va poi dentro le caserme?”. E il problema sembra essere simile secondo Giachetti per quella che lui chiama “quella buffonata dei prefabbricati”. “Da quello che si capisce dalla gara fatta da Invitalia - spiega - i prefabbricati costerebbero 85. 000 € a posto e pare che la gara abbia previsto 400 posti, ma loro hanno detto che questi prefabbricati sarebbero serviti per rimediare altri 10. 000 posti. Basta fare una semplice moltiplicazione per rendersi conto che è una presa in giro”. Secondo Giachetti il problema del sovraffollamento non lo si può risolvere così perché “se qualunque iniziativa prendi per alleggerire questa situazione dal punto di vista delle presenze, ideologicamente lo consideri uno svuoto a carceri, vuol dire che il problema non ti interessa e non riuscirai mai a risolverlo”. “Invece la mia proposta non è una proposta che si inventa qualcosa ma chiede l’estensione di una norma che già esiste e viene applicata da vent’anni, che è la legge Gozzini, che prevede che ogni 6 mesi chi si comporta bene in carcera ha uno sconto della pena di 45 giorni. Io ho chiesto semplicemente che in una situazione di emergenza anziché 45 i giorni diventino 75”. È incomprensibile secondo Giachetti che il ministro Nordio consideri questa proposta una resa dello Stato “perché anche 45 giorni allora sarebbero una resa”. D’altronde, ricorda Giachetti “il ministro Nordio ha detto che il sovraffollamento sarebbe addirittura utile per un maggior controllo sui detenuti e per limitare il numero dei suicidi”. “Qui passiamo da un problema politico a un problema psichiatrico perché una persona che dice una cosa del genere deve avere un problema serio”. Nel decreto c’è anche una parte che riguarda i tossicodipendenti e che riguarderebbe 10.000 detenuti, cosa ne pensa? “Non so come abbiano fatto questo calcolo perché alcuni detenuti sono in carico alle ASL mentre altri borderline non lo sono e non si capisce come si possa quantificarli e chi deve dire che un detenuto sia tossicodipendente. Inoltre ogni posizione deve essere vagliata dai magistrati di sorveglianza che già sono pochi e adesso dovrebbero trattare queste altre 10.000 richieste”. “Quando vado nelle carceri - racconta Giachetti - mi capita spesso di trovare persone che hanno fatto la domanda per la liberazione anticipata speciale e che sono uscite prima che gli arrivasse la risposta, quindi non hanno potuto godere di quello di cui avrebbero avuto diritto, perché il magistrato di sorveglianza non gli ha risposto”. “Temo che questa proposta assomigli a quella della chiusura dei manicomi, che una volta chiusi non sai dove mandare la gente perché non ci sono le strutture alternative e alla fine te li trovi per strada” In conclusione Giachetti ribadisce il suo giudizio negativo secondo cui si tratta solo di “riti annuali”. “L’anno scorso a luglio fecero il decreto. Nel decreto c’erano le stesse cose che hanno messo quest’anno nel disegno di legge, ma durante quest’anno non hanno fatto assolutamente nulla. Quindi tutto quello che dicono sono cose scritte nel vuoto, perché non prendono minimamente in considerazione gli atti concreti e necessari per intervenire sul sovraffollamento.” Misure penali sotto i 14 anni? “Rieducare in comunità è sempre la scelta più giusta” di Chiara Ludovisi vita.it, 20 agosto 2025 Luca Villa, procuratore del tribunale dei minori di Milano, commenta gli sviluppi della vicenda dei bambini rom che hanno investito e ucciso Cecilia De Astis: “Uno ha provato a fuggire dalla casa famiglia, i primi giorni è normale. All’inizio è difficile, ma tanti di questi ragazzi poi colgono l’opportunità e a 18 anni chiedono il prosieguo. Le strutture e gli educatori però vanno sostenuti”. “Un percorso rieducativo in casa famiglia è sempre possibile, bisogna sempre provare. Tanti ragazzi, collocati contro la loro volontà, hanno poi compreso, apprezzato e colto l’opportunità che veniva loro offerta. E a 18 anni hanno chiesto di poter rimanere in comunità, fino al raggiungimento dell’autonomia”: Luca Villa è procuratore del tribunale per i minorenni di Milano. Di storie, spesso drammatiche, ne ha viste tante, ma non ha perso la fiducia: nella giustizia da un lato, nell’intervento sociale e rieducativo dall’altro. Perché la pena non può mai essere l’unica possibilità: tanto meno quando si parla di un minore, o perfino di un bambino. Sta seguendo da vicino il caso dei quattro bambini rom che a Milano, hanno investito e ucciso Cecilia De Astis. E non ha dubbi: “Il percorso educativo e rieducativo deve essere sempre tentato, non si deve mai dire che è impossibile”. C’è chi sostiene che si dovessero intraprendere misure penali, nei confronti di questi bambini. Sarebbe stato possibile? Sì, è vero che si possono attivare misure di sicurezza anche sotto i 14 anni, ma i presupposti sono molto stringenti: deve riscontrarsi una pericolosità tramite atti di violenza contro le persone - i minori rom, al contrario, di solito commettono reati contro il patrimonio e non erano imputabili a loro altre vicende. Lo stesso omicidio, gravissimo, è tuttavia di natura colposa e non esprime un’indole violenta e pericolosa. In ogni caso l’intervento penale è utile e quando cogliamo un pericolo di recidiva o il sintomo di problematiche importanti, procediamo con l’interrogatorio anche nel caso del minore sotto i 14 anni, prima di chiederne il proscioglimento. Questo ci aiuta a conoscere meglio la situazione e ad accendere un faro sul minore stesso e a intervenire con le altre misure. Escluso quindi l’intervento penale, quali possibilità restavano? Le misure amministrative o rieducative, innanzitutto, di solito utilizzate e molto adatte a minori in cui si sospetti una deriva deviante e per cui riteniamo utile l’intervento dei servizi. Purtroppo, però, la riforma del 2024 ci ha letteralmente tagliato le gambe: questa riforma prevede che la Procura, per mettere in atto interventi importanti come il collocamento comunitario, prima deve chiedere al tribunale di predisporre un progetto educativo e solo al suo esito si può provvedere all’affidamento al Servizio o al collocamento in comunità. Ma si tratta di una riforma che aveva in mente soprattutto il bullismo scolastico. Lo si vede dagli esempi di attività contenute dalla norma (laboratori teatrali, corsi di scrittura creativa, di musica e altre attività artistiche), che nei casi più gravi che quotidianamente ci troviamo ad affrontare non solo sono inefficaci, ma non sono neppure praticabili. Pensiamo ai tanti casi in cui veniamo contattati direttamente dagli ospedali e dalle neuropsichiatrie, perché c’è un minore ricoverato - pensate alle fughe di casa, ai problemi di tossicodipendenza, alle crisi adottive, a maltrattamenti nei confronti di famigliari, a disturbi alimentari gravi, ai casi di ritiro sociale, a vere e proprie depressioni maggiori - che deve essere ricollocato e non può tornare in famiglia come ci chiesto dagli stessi genitori: prima potevamo chiedere un provvedimento urgente, ora dovremmo attendere l’esito del primo periodo di osservazione del progetto educativo, che ovviamente non può essere attivato in ospedale. Non resta pertanto che presentare un ricorso urgente per limitare la responsabilità genitoriale con il “rito Cartabia”: in altre parole dobbiamo ravvisare una inadeguatezza anche in genitori che magari in passato avranno sbagliato qualcosa con i figli, ma che sono assolutamente disponibili a collaborare con l’autorità giudiziaria e con i Servizi e che rischiamo di vittimizzare. È l’ennesimo caso in cui si chiede all’autorità giudiziaria un ruolo di supplenza e una torsione del quadro normativo, avendo approvato norme che non tenevano conto dei dati di realtà e, penso, ancora una volta senza aver ascoltato chi si confrontava sul campo con i problemi reali. Tornando al caso recente, se si confermerà che i bambini non sono mai andati a scuola, l’intervento civile si rivela corretto. In questi casi, il collocamento in comunità e il percorso educativo rappresentano la strada giusta, è intervento che deve essere tentato, nella consapevolezza che più i minori sono piccoli, più possibilità si hanno di raggiungere dei risultati efficaci. L’età del minore è cruciale per la riuscita dell’inserimento in comunità e quindi del reinserimento sociale. Secondo la mia esperienza, la linea di confine sulla tenuta del collocamento si pone intorno ai 12 anni: dopo quell’età, è più difficile che il ragazzo si adatti e colga l’opportunità che gli viene offerta. Infatti uno di loro è fuggito… Sì, ma è stato subito trovato e ricollocato in comunità. La fuga è frequente, soprattutto all’inizio: i primi giorni sono i più complicati, spesso i ragazzi non ne vogliono sapere di stare in comunità. Ma poi, se gli educatori sono bravi e la struttura funziona, spesso comprendono e apprezzano quell’opportunità. Tanti di questi ragazzi, collocati contro la loro volontà, chiedono il prosieguo dopo i 18 anni, per completare il loro percorso verso l’autonomia. Nessuno è irrecuperabile: ricordo un ragazzo di 13 anni, che ho seguito nel 2007 perché aveva collezionato una lunga serie di borseggi davanti alla stazione centrale tanto da vedersi dedicato una intera pagina del Corriere della Sera accompagnato dalle solite dichiarazioni sull’irrecuperabilità di questi minorenni. La prima volta che l’ho incontrato ha cercato di rubarmi un Ipod in ufficio! Nessuno avrebbe scommesso sul suo futuro. Lo abbiamo collocato in una comunità nel bresciano. Inizialmente non voleva, poi dopo qualche mese mi ha detto che non voleva tornare in famiglia. Dopo 5 anni, l’ho rincontrato con la sua famiglia affidataria: aveva fatto un buon percorso di studi, aveva conseguito un diploma, lavorava con un artigiano ed era sereno. È la prova che bisogna sempre tentare, anche nei casi apparentemente più disperati. Insomma, sempre meglio la comunità del carcere minorile? Molto meglio. Il carcere, oltre a essere sovraffollato, per questi ragazzi non serve ad altro che a fare “curriculum”. Alcuni ragazzi non aspettano altro che andare in carcere, per provare quella esperienza e dimostrare poi di essere un vero delinquente. Questo dà loro autorevolezza in un certo mondo. Alcuni finiscono ad avere successo, dopo il carcere, con la musica trap… Sono attratti dal carcere e fuggono dalle comunità? Sì, accade. Un minore che sente bisogno di protezione accetta volentieri il collocamento in comunità, ma uno convinto che il mondo gli sia ostile ci metterà del tempo per apprezzare il vantaggio di contesto educativo che lo riavvicini ai valori della convivenza civile. Molto dipende dalla qualità delle strutture e degli educatori, che però in molti casi sono allo stremo… Certo, molto dipende da quello. Per questo bisognerebbe destinare più risorse a questi contesti. Tante strutture rischiano di chiudere e gli educatori sono sempre più difficili da trovare, perché con il loro lavoro non riescono a mantenersi. Oggi tante strutture possono permettersi solo il minimo indispensabile, mentre servono percorsi educativi affascinanti per i ragazzi. Bisogna sostenere questi percorsi, nell’interesse di tutta la comunità. Senza dimenticare che, tra l’altro, un minore in comunità non solo sta meglio che in carcere, ma costa anche molto meno. E ha molte più possibilità di costruire il proprio futuro e di rappresentare in futuro una risorsa e non un costo perla società. Che ne sarà ora dei quattro bambini rom e delle loro famiglie? Tre sono in comunità, un altro deve ancora essere trovato. La fuga delle famiglie ha fatto dire a qualcuno che avremmo dovuto subito intervenire con l’articolo 403 del Codice Civile (allontanamento del minore dalla famiglia, ndr), ma io credo che si debba dare al giudice l’opportunità di valutare e scegliere e non c’erano i presupposti per un collocamento anticipato, tanto più in presenza di genitori che avevano contribuito alla ricostruzione dei fatti portando i figli agli interrogatori e convincendoli a rispondere. La fuga è un fatto certamente grave e certamente ha cambiato gli scenari imponendo l’applicazione dell’art 403 cc, ma l’assedio dei media al Campo nomadi ha certamente contribuito. Anche i mezzi d’informazione dovrebbero riflettere sul proprio ruolo. E spero lo facciano. Piantedosi impugna il taser: “Strumento imprescindibile” di Eleonora Martini Il Manifesto, 20 agosto 2025 Dopo i due morti, il ministro difende senza incertezze l’intervento dei militari indagati. Il testimone oculare: “Era disarmato, l’hanno colpito con quattro scariche”. “Il taser è uno strumento imprescindibile che viene fornito agli agenti proprio per evitare l’utilizzo di armi da sparo”. Il giorno dopo aver contato ben due morti nel giro di 48 ore - a Olbia e in provincia di Genova - di persone colpite con la pistola elettrica dalle forze dell’ordine, il ministro Matteo Piantedosi non mostra alcun tentennamento quando afferma che “la sicurezza dei cittadini è il primo obiettivo che deve essere perseguito, e dalle prime ricostruzioni è esattamente la situazione in cui si sono ritrovati i carabinieri intervenuti”. Eppure ieri il Secolo XIX ha pubblicato il racconto di un testimone oculare della morte del muratore 41enne Elton Bani avvenuta domenica sera a Manesseno (Ge). Una testimonianza che dovrebbe quantomeno ammutolire chiunque. E far riflettere. La vittima “faceva a zig zag con l’auto qui davanti prima che arrivassero le pattuglie - ricorda Thione Diongue, presente sulla scena -. Finché c’era solo la prima, la situazione era ancora tranquilla. Poi l’arrivo dei rinforzi: era seduto sui gradini, stava bevendo dell’acqua, gli agenti gliel’hanno scaraventata via. Questo ha innescato tutto: è stato come gettare della benzina sul fuoco. Ha dato in escandescenze. In mano aveva 20 euro, il bancomat e le chiavi. Sulle scale lo hanno preso per le gambe, tirandolo con forza, è caduto, poi lo hanno girato per ammanettarlo. Lo hanno colpito sulle gambe e sulla nuca, devo dire quello che ho visto, perché non riuscivano a mettergli le manette. Uno di loro poi ha tirato fuori il taser. La prima scossa lo ha colpito di striscio e ha colpito anche un carabiniere, con la seconda è caduto, si è rialzato e la terza volta si era già un po’ più calmato. E poi la quarta scarica, la più lunga. È caduto a terra. I sanitari hanno provato a rianimarlo per 40, 45 minuti. È poi morto in ambulanza”. Eppure il titolare del Viminale, pur manifestando “profondo cordoglio per il decesso di due persone”, tira dritto con la sua arringa: “Le regole di ingaggio prevedono che venga usato soltanto quando ci si trova di fronte a soggetti violenti e aggressivi che rappresentano un concreto pericolo per i presenti”. E però, anche davanti a due morti, criticare l’appropriatezza del taser come mezzo per fermare persone in stato di alterazione (di solito i criminali abituali sanno come tenere i nervi saldi) o le modalità con cui esso viene usato, secondo Piantedosi vuol dire “strumentalizzare” la vicenda “al solo fine di portare avanti l’ennesima campagna di antipatia verso i tutori dell’ordine”. Vuole invece vederci più chiaro, la pm Paola Calleri che indaga i due carabinieri genovesi per omicidio colposo, e per questo ha disposto il sequestro dei taser. In attesa dell’autopsia che verrà effettuata oggi sul corpo del giovane. Intanto le reazioni politiche si dividono in modo quasi manicheo: da un lato le destre di governo che difendono l’arma elettrica e comunque essa venga usata, e dall’altro le opposizioni che chiedono di fermarne subito l’uso e parlano di “strumento di tortura”. Emerge il parere di Mario Balzanelli, presidente nazionale del sistema di soccorso italiano SIS118, secondo il quale “l’utilizzo del taser va attentamente rivisto, in quanto il suo utilizzo si è dimostrato potenzialmente pericoloso, sia nell’immediato sia a distanza di alcuni minuti”. Il dirigente del 118 spiega all’Ansa che “come molto ben documentato negli Usa da Douglas Zipes, uno degli aritmologi più autorevoli a livello mondiale”, il soggetto colpito con il taser “può andare in arresto cardiaco improvviso. In questi casi - aggiunge l’esperto -, non pochi in assoluto quali già documentati negli Usa, e ad oggi più volte verificatisi nel nostro Paese, l’arresto cardiaco improvviso è insorto prevalentemente con ritmo di fibrillazione ventricolare”. Se il soggetto “non è cardiopatico”, potrebbe essere salvato intervenendo subito con un “defibrillatore semiautomatico” che, sostiene Balzanelli, dovrebbe perciò essere in “dotazione standard di tutti gli equipaggi delle forze di polizia dotati di taser, i cui componenti dovrebbero essere periodicamente addestrati e certificati nelle procedure di rianimazione cardiopolmonare di base e di defibrillazione precoce”. Ecco perché il presidente del SIS118 considera “assolutamente inappropriato correre il rischio, per quanto statisticamente molto ridotto, di uccidere un uomo solo per immobilizzarlo”, e auspica una “riflessione più ampia da effettuarsi quanto prima a livello interistituzionale circa le opportunità di utilizzo del taser”. Sempre che anche Balzanelli non venga accusato di “pretestuosità”. Il taser? Per Piantedosi è “strumento imprescindibile” di Valentina Stella Il Dubbio, 20 agosto 2025 Dopo le due morti nel giro di 48 ore si è riaccesa la polemica sull’utilizzo dello strumento da parte delle Forze dell’ordine. “Strumento imprescindibile”: è questa l’espressione utilizzata ieri dal Ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, per descrivere il taser, il cui utilizzo da parte delle Forze dell’ordine è finito al centro della polemica dopo le due morti avvenute negli ultimi giorni prima ad Olbia e poi a Genova. Com’è noto sabato 16 e domenica 17 agosto, due uomini sono deceduti dopo essere stati colpiti da una scarica della pistola a impulsi elettrici utilizzata dai carabinieri durante due interventi distinti. Le autopsie verranno effettuate nei prossimi giorni. Intanto, mentre le Procure di Tempio Pausania e di Genova hanno aperto fascicoli per omicidio colposo nei confronti dei quattro militari - due in servizio in Sardegna e due in Liguria - quale atto dovuto per consentire ai militari coinvolti di partecipare agli accertamenti tecnici con i propri consulenti, non si placa la diatriba politica. Ieri appunto il responsabile del Viminale in una nota ha scritto, tra l’altro, che “chi, in maniera ideologica, critica l’utilizzo del taser deve tener presente che si tratta di uno strumento imprescindibile che viene fornito agli agenti proprio per evitare l’utilizzo di armi da sparo”. Per Piantedosi “la sicurezza dei cittadini è il primo obiettivo che deve essere perseguito. E dalle prime ricostruzioni è esattamente la situazione in cui si sono ritrovati i carabinieri intervenuti”. Dunque, per il Ministro, “vanno respinte, perché del tutto pretestuose, pregiudiziali ed infondate, le polemiche contro le forze di polizia a cui va tutta la gratitudine e il completo sostegno del nostro Governo”. Tuttavia, ça va sans dire, le sue dichiarazioni volte ad escludere qualsiasi tipo di abuso da parte dei carabinieri hanno surriscaldato ancora di più questi giorni ferragostani. A criticare per primo Piantedosi e a chiedere chiarezza ci ha pensato il deputato di +Europa Riccardo Magi: “Appena riapre il Parlamento chiederemo al ministro una relazione dettagliata sull’uso e sull’abuso del taser in funzione alle forze dell’ordine, quante volte è stato usato e quanto è l’incidenza di queste morti rispetto alla frequenza di uso di questo strumento. Vedremo se è davvero imprescindibile oppure no”. “La verità - per il parlamentare radicale - è che davanti a questi decessi sospetti, un ministro dell’Interno che ha a cuore i diritti e lo stato di diritto sospenderebbe subito l’uso del taser e avvierebbe un’indagine. Invece preferisce la strada della propaganda securitaria che non assicura sicurezza ai cittadini ma al contrario porta l’Italia in una zona d’ombra dei diritti”. Di altro tenore le parole del presidente dei senatori di Forza Italia, Maurizio Gasparri: “Gli episodi che si sono verificati vanno certamente analizzati e devono essere investigati. Ma non possono essere pretesto per un’ulteriore aggressione alle forze dell’ordine alle quali rinnoviamo la nostra solidarietà, invitando la magistratura ad agire con cautela e senso di responsabilità”. Di “strumento indispensabile” ha parlato ieri anche l’onorevole Edmondo Cirielli, coordinatore della Direzione Nazionale di Fratelli d’Italia. Le polemiche si accendono anche al di fuori della cornice politica. “Il taser non è un capriccio o una dotazione abusiva” ha dichiarato Giuseppe Tiani, segretario generale del Siap (Sindacato Italiano Appartenenti Polizia). “I benefici dell’uso sono ampiamente documentati anche sul piano internazionale - ha spiegato il sindacalista - tanto da essere utilizzato negli Stati Uniti, Canada, Australia, Regno Unito, Francia, Germania, Grecia, Finlandia”. Di diverso avviso il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella, per il quale “il taser è pericoloso. Il taser è potenzialmente letale. Due morti in due giorni. Fu previsto per la prima volta nel 2014 dall’allora ministro degli Interni Alfano. A seguire le sperimentazioni volute dai ministri Minniti e Salvini. Dopo una campagna di Antigone alcune amministrazioni municipali decisero di non consentirne l’uso alla Polizia municipale. Dopodiché l’orgia securitaria ha travolto anche i più ragionevoli”. Secondo Mario Balzanelli, presidente nazionale della Società italiana del sistema 118, “l’utilizzo del Taser deve essere attentamente rivisto, in quanto il suo utilizzo si è dimostrato potenzialmente pericoloso, sia nell’immediato sia a distanza di alcuni minuti”. Per lo specialista, infatti, lo strumento sotto accusa “come molto ben documentato negli Usa da Douglas Zipes, uno degli aritmologi più autorevoli a livello mondiale, spara due freccette, unite da fili elettrici, le quali colpiscono il soggetto ricevente per immobilizzarlo temporaneamente”. C’è il rischio che “il soggetto possa andare in arresto cardiaco improvviso. In questi casi, non pochi in assoluto quali già documentati negli Usa, e ad oggi più volte verificatisi nel nostro Paese, l’arresto cardiaco improvviso è insorto prevalentemente con ritmo di fibrillazione ventricolare”. “Il servizio di polizia dovrebbe essere supportato anche da altre figure professionali” di Gigliola Alfaro agensir.it, 20 agosto 2025 Per il sociologo Maurizio Fiasco non si possono attribuire poteri magici a un’arma, ma è necessario un ripensamento soprattutto in un periodo difficile come quello dei mesi caldi. Taser sotto accusa dopo che nel giro di due giorni, sabato e domenica scorsi, due persone sono morte dopo aver ricevuto una scarica dalla pistola elettrica in uso alle forze dell’ordine. Ad agire in entrambe le circostanze sono stati gli uomini dell’Arma dei carabinieri, ora indagati dalle Procure di Tempio Pausania e Genova per omicidio colposo, un atto dovuto per consentire ai quattro militari - due di stanza a Olbia, il capo pattuglia e chi ha utilizzato materialmente il taser, gli altri nel capoluogo ligure - di partecipare agli accertamenti tecnici con i propri consulenti. Ne parliamo con il sociologo Maurizio Fiasco, specializzato, tra le altre cose, in ricerca e formazione in tema di sicurezza pubblica. Professore, è sorpreso che due persone siano morte dopo l’uso del taser? Sono indignato per il feticismo riposto nell’uso di un’arma passata per innocua, ma il problema va collocato sullo sfondo e sul tempo in cui sono verificati. Cominciamo a parlare della stagione, del tempo, perché anche per l’insofferenza e i comportamenti trasgressivi c’è una stagionalità. D’estate aumentano le liti domestiche, aumentano l’insofferenza, aumentano i comportamenti inappropriati, aumenta la movida disordinata e inaccettabile, gli episodi di escandescenza e di devianza si moltiplicano. L’estate è una stagione particolare, rispetto alla quale tutti i servizi, quelli dell’emergenza sanitaria, i servizi sociali, i servizi della salute mentale, i servizi di psichiatria delle Asl, predispongono una sorveglianza particolare, anche nelle località di villeggiatura, al mare o in montagna. L’estate, infatti, è una stagione meravigliosa ma anche critica. Non è solo una questione di clima torrido, ma anche lo svuotamento delle città è un ulteriore motivo di sofferenza per chi vive in condizioni di fragilità. Quindi, occorrono delle metodiche studiate e applicate alla bisogna per fronteggiare quello che è una normale missione di un lavoro, di un servizio. Ma questo tratto, per la complessità di elementi che presenta, ancora non viene preso in considerazione dal sistema di sicurezza pubblica. Questo è il punto: non si può ragionare soltanto in termini di dispositivi tecnici, quante pattuglie, quante sorveglianze, tutti aspetti ovviamente essenziali, ma si deve ragionare sulla complessità dei problemi che si presentano nella stagione estiva, come in maniera differenziata, con particolari varianti, nelle altre stagioni dell’anno. Il taser, diceva, non è un’arma innocua. Ci spieghi… Se una persona di sana e robusta costituzione fisica, senza lo stress dell’assunzione di stupefacenti, giovane, nel fiore degli anni riceve un colpo di taser, lo assorbe e non gli succede niente, ma se non sai se quello ha un quadro fisico compromesso, un sistema neurologico fragile, l’uso diventa un rischio. Certo, la pistola spara e provoca delle ferite evidenti, ma il taser, ribadisco, non è innocuo. Non dovrebbe avere degli esiti letali, ma non li sulle persone di sana e robusta costituzione fisica senza condizioni critiche particolari, ma queste persone di sana e robusta costituzione fisica senza condizioni critiche particolari non provocano episodi contro l’ordine pubblico che necessita dell’intervento delle forze di polizia. Poi bisognerebbe stabilire un codice molto severo nei confronti di homeless, tossicodipendenti, persone in evidente stato di alterazione: nei loro confronti non si dovrebbe usare. Infatti, può essere pericoloso usato su chi ha già una condizione cardiologica compromessa perché ha assunto degli stupefacenti. Il taser è una scorciatoia. Invece di rispondere con una strategia di servizio, con una cultura di servizio, si risponde con un dispositivo, con una norma simbolica, con un alibi. Vogliamo continuare così? Poi sarà anche colpa nostra. Cosa suggerisce, allora? Quando all’inizio parlavo di “feticismo”, intendevo dire che si attribuiscono poteri magici a uno strumento offrendo la strada a scorciatoie cognitive e di responsabilità che possono essere drammatiche e tragiche. Si tratta di un ulteriore fattore che fa risparmiare ogni sforzo di perfezionamento e di adeguamento dei servizi per le situazioni critiche che si verificano in questa stagione. Quindi se dovessi dare una direttiva direi di sospendere la dotazione del taser in questa stagione. Sappiamo che è difficile affrontare uno scalmanato, ma una situazione complessa richiede una professionalità enorme, perché, non ci dimentichiamo, il mestiere di polizia è un mestiere molto difficile, tra i più difficili. A mio avviso, il servizio di polizia dovrebbe avere alle spalle tutto il sostegno, tutto il supporto anche specialistico di altre figure professionali, psichiatri, psicologi, assistenti, cioè dovrebbe esserci anche una sottoscrizione di protocolli tra i servizi di polizia sul territorio e i servizi di salute mentale, di sostegno sociale. Se pensiamo, ad esempio, ad uno degli episodi nei quali dopo l’uso del taser un uomo è morto, è chiaro che ci si trovava di fronte a un uomo maturo alterato, con reazioni oggettivamente pericolose, ma che, secondo me, non potevano essere fronteggiate con l’uso esclusivo della forza. Ma di fronte a questi incidenti non possiamo cavarcela né con l’assoluzione né con il capro espiatorio degli agenti che li hanno causati. Questi incidenti chiamano in causa una filiera di responsabilità che parte dall’alto e arriva fino all’episodio. È necessaria, infatti, una visione moderna, civile, tecnicamente evoluta, come è disponibile nella letteratura, nell’esperienza e nella storia di questi 50/60 anni, che traduca in indirizzi politico-istituzionali il bisogno di sicurezza pubblica, come si pone nell’anno 2025. E poi gli indirizzi dovrebbero tradursi in modelli. Poi ci sono tutta una serie di altri aspetti tecnici che riguardano la formazione e anche il reclutamento del personale delle forze dell’ordine. In che senso? Forse è il caso, 25 anni dopo, di ripensare a una norma che fu introdotta quando si sospese l’obbligo del servizio di leva. Al suo posto è intervenuto il servizio di leva volontario. Con una appendice: chi avesse svolto il servizio di leva volontario avrebbe avuto una corsia preferenziale, una riserva di posti, per l’assunzione nei corpi di polizia. Questo conta, perché una cosa è entrare dentro un sistema di formazione che porterà a possedere una professionalità dedicata a un servizio civile, qual è la sicurezza pubblica, il servizio di polizia, a 20, 25, 27 anni; un’altra cosa è entrarci a 35, dopo 6 o anche 9 anni passati all’interno delle forze armate, nelle aree di crisi, in pattugliamento, in luoghi segnati dalla guerra, dove a ogni angolo c’è il rischio di essere bersagliati da micidiali armi da fuoco, senza rapporti con la popolazione civile, dove le uniche relazioni sono con i commilitoni. Non è semplice a 35, 36, 37 anni, ristrutturare la propria psicologia, la propria cultura, la propria motivazione in termini di servizio di soccorso, di sicurezza, in termini di servizio proattivo e non solo reattivo per la collettività che ha bisogno di essere tutelata da inciviltà, violenze, aggressività, crisi. Dal suo discorso, mi pare ci capire che non serve interrogarsi solo sull’uso del taser… Se ci mettiamo a discutere se hanno fatto bene o male a usare il taser, secondo me non andiamo da nessuna parte. Invece, possiamo sensibilizzare il nostro mondo, che è un mondo illuminato, aperto ai valori dell’umano, ai valori della solidarietà, ai valori della responsabilità. Possiamo dire: il mondo cattolico deve fare suo questo tema, ci deve investire, cosa che peraltro 50-60 anni fa si faceva. E quindi dire una sua parola, un suo punto di vista sul tema della sicurezza pubblica. Quel populismo penale dietro l’inchiesta di Milano di Francesco Petrelli* L’Altravoce, 20 agosto 2025 Sentire l’aggiunta della procura milanese affermare, con un sorriso accattivante, “ho una passione per la verità”, suona come un banale slogan populistico. Banale perché evoca un rapporto semplice e diretto fra verità e processo che, come ben sappiamo, non esiste affatto, essendo il processo a determinare la “sua” verità e non il contrario. Populistico perché ammicca ad un facile consenso popolare all’indagine: come non sostenere infatti una procura che scopre e accerta la verità in favore del popolo vessato, come non amare un pubblico ministero che svela impavida le magagne degli amministratori. Quello della “passione per la verità” sembra il prossimo slogan di una trasmissione televisiva. Bello ed efficace. Emblematico, purtroppo, della saldatura che nel tempo si è andata realizzando fra dispositivo mediatico, consenso popolare e indagini delle procure. La realtà e la verità appartengono a quel circuito oramai perfettamente interfacciato. L’indagine milanese è d’altronde solo una delle più recenti e delle più clamorose fra le tante indagini che hanno visto promuovere i teoremi in sistemi, ed i sistemi in verità, con il traino mediatico costituito dall’insopprimibile vocazione all’applicazione delle misure cautelari. Sempre e comunque. In quel contesto, materiali posti a base dell’indagine, chat private più o meno probatoriamente rilevanti, sono stati diffusi senza alcuno scrupolo, selezionati e propinati nei telegiornali della sera perché compissero il loro “imprinting” sul grande pubblico. Che poi un Tribunale del riesame smentisca la sussistenza dei più gravi reati contestati o la stessa necessità delle misure restrittive della libertà, poco importa. Oramai l’effetto catalizzatore è stato raggiunto. Il martello cautelare si è abbattuto sui fatti e li ha modellati a modo suo, forgiando una verità che difficilmente provvedimenti successivi riusciranno a eradicare dall’opinione pubblica. Non possiamo ridurre tutto questo ad un fisiologico meccanismo di controllo, perché qui due diversi giudici si sono confrontati con una medesima materia, con gli stessi indizi e con i medesimi elementi di prova. Possiamo mai immaginare che il giudice che, ascoltata la versione degli indagati nel corso dei loro interrogatori e studiate le memorie dei loro avvocati, ha deciso di cautelare un indagato non abbia capito? O che si tratti di un giudice privo della necessaria competenza tecnica? Che abbia per ignoranza applicato le misure restrittive? Che abbia per errore di fatto ritenuto la sussistenza delle esigenze cautelari? Non è così. Probabilmente quel giudice ha guardato ai fatti e al materiale indiziante con gli occhiali di chi accusa e non con il filtro delle garanzie di libertà, secondo il principio della extrema ratio. Quando anche un altro giudice avrà smentito l’esito di quella visione, sarà stato troppo tardi, sia in termini di sacrificio della libertà personale che di danni collaterali. E, quando l’indagine - come nel caso milanese - riguarda un’intera amministrazione cittadina, con un serio danno di immagine collettivo derivante dalla gogna internazionale alla quale il presunto “sistema Milano” è stato esposto. Questo, purtroppo, è divenuto l’ordinario esercizio dei poteri cautelari in un irresponsabile intreccio di culture politiche populistiche, mediatiche e giudiziarie. Un meccanismo incardinato su di un’errata equazione valoriale, al quale oramai abbiamo fatto abitudine: è l’indagine ad affermare quella “verità” di cui è appassionata la procuratrice aggiunta, ed ogni eventuale smentita solo un incidente di percorso, un errore trascurabile del giudice del controllo. Abbiamo costruito nell’immaginario collettivo una idea dello strumento penale parossistica, e l’abbiamo consegnata interamente alla figura del pubblico ministero al quale è attribuita la formulazione anticipata della verità, ed assegnato non solo il controllo e il sindacato delle scelte politiche, ma anche pretesi compiti di controllo della eticità e della funzionalità della democrazia. Tutta la politica e la coscienza civile stessa del Paese dovrebbe riflettere sulla disfunzionalità di un simile assetto e sulla effettiva necessità porre al centro del processo, non le procure, ma la figura di un giudice più forte, autorevole garante dei diritti di libertà dei cittadini, portatore di una sana e laica “cultura del limite” e dotato di autonomia e di una indispensabile indipendenza non solo esterna, ma soprattutto interna. È infatti volta proprio a questo fine quella grande e radicale riforma della separazione delle carriere che è una riforma della giustizia e per la giustizia, e che, al di là degli slogan e delle banalizzazioni propagandistiche di chi vuole mantenere il presente antistorico assetto di potere, ha una radice inequivocabilmente democratica e liberale e come tale volta a tutelare, non questa o quella parte politica, ma gli interessi di ogni cittadino. *Presidente Unione Camere Penali Italiane Abolito l’abuso d’ufficio, gli ex accusati abbiano diritto a una vera riabilitazione di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 20 agosto 2025 La Suprema Corte ha ritenuto che il venir meno della norma incriminatrice esclude la necessità - e l’obbligo - di pervenire a una formula assolutoria piena. La pronuncia della Corte di Cassazione n. 29184/ 2025, emessa in seguito all’abrogazione del reato di abuso d’ufficio, ha definito con chiarezza l’assetto processuale conseguente all’ipotesi di abolitio criminis: in simili casi il giudice deve pronunciarsi con immediato proscioglimento ai sensi dell’articolo 129 c. p. p., senza procedere ad alcuna verifica nel merito circa la sussistenza del fatto o la responsabilità dell’imputato. Come saggiamente illustrato in alcuni contributi, la Suprema Corte ha ritenuto che il venir meno della norma incriminatrice esclude la necessità - e l’obbligo - di pervenire a una formula assolutoria piena (“perché il fatto non sussiste” o “perché l’imputato non lo ha commesso”), bastando la declaratoria di estinzione del reato. La ratio risiede nel principio di legalità e nel divieto di prosecuzione dell’azione penale per fatti non più previsti dalla legge come reato. Tuttavia, questo assetto comporta una conseguenza rilevante: l’imputato, pur prosciolto, non ottiene un riconoscimento formale della propria innocenza. In assenza di accertamento liberatorio, rimane esposto a un rischio da danno reputazionale potenzialmente irreversibile, alimentato dall’eco mediatica del procedimento e dall’assenza di una smentita processuale piena. Il proscioglimento per abrogazione, infatti, non cancella l’ombra del sospetto, soprattutto nei contesti in cui l’inchiesta abbia assunto rilievo politico o amministrativo ovvero disciplinare. Il nodo giuridico si colloca all’intersezione tra diritto processuale penale e tutela dei diritti fondamentali. La Costituzione, agli articoli 2 e 3, tutela l’onore e la reputazione, mentre l’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo estende la presunzione di innocenza oltre la conclusione del processo, imponendo agli Stati di garantire all’ex imputato che non sia trattato come colpevole in assenza di condanna definitiva. La giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha affermato che ciò implica anche la possibilità di ottenere una “riabilitazione morale” mediante decisioni giudiziarie idonee a chiarire l’estraneità ai fatti. L’orientamento della Cassazione crea quindi un vuoto di tutela: l’imputato non ha strumenti per ottenere un giudizio liberatorio dopo l’abolizione della fattispecie incriminatrice, rimanendo in una condizione di proscioglimento “tecnico” ma non pienamente satisfattivo sotto il profilo sostanziale. Cosa fare? Sul piano normativo, la soluzione - ad avviso di chi scrive - potrebbe consistere in una modifica dell’articolo 129 c. p. p., prevedendo che, in presenza di elementi chiari e univoci negli atti, il giudice possa - o debba, su istanza dell’imputato - pronunciare assoluzione nel merito anche in caso di abolitio criminis. Una sorta di rinuncia alla declaratoria ex art. 129 c. p. p. “secca” come avviene per la rinuncia alla prescrizione. Che sia sempre il Legislatore a normare. Ciò permetterebbe di armonizzare l’esigenza di immediatezza del proscioglimento con il diritto alla piena riabilitazione. Si provi a osservare il quadro comparato, mirato al “punto dolente” italiano: cosa succede quando l’incriminazione viene abrogata e l’imputato chiede una tutela “riabilitante” oltre al mero proscioglimento tecnico. In Inghilterra, l’assoluzione o l’annullamento della condanna non comportano automaticamente un accertamento di “innocenza in fatto”. Lo si vede chiaramente nella disciplina dell’indennizzo per “miscarriage of justice” (s. 133 CJA 1988): per ottenere il compenso, l’innocenza deve risultare oltre ogni ragionevole dubbio, soglia molto alta. In Allen c. Regno Unito (Grande Camera, 2013) la Corte EDU ha chiarito che rifiutare il compenso non viola, di per sé, la presunzione d’innocenza se i giudici evitano formulazioni che insinuino colpevolezza post assoluzione. In Nealon & Hallam (Grande Camera, 11 giugno 2024), la Cedu ha confermato la compatibilità dello standard britannico con l’articolo 6 § 2 della Convenzione europea dei diritti umani: la presunzione d’innocenza tutela l’”innocenza legale”, non impone allo Stato un accertamento positivo della “innocenza in fatto” ai fini risarcitori. In sostanza: nessun obbligo di una pronuncia riabilitante piena dopo la chiusura del caso. In Francia, l’azione penale si estingue per abrogazione della legge penale (art. 6 Cpp). Dopo l’abrogazione, i fatti perdono il carattere delittuoso e non si può più condannare, anche per fatti anteriori (retroattività in mitius: art. 112 1 Cp). L’esito tipico è l’estinzione dell’azione; non è imposto al giudice un ulteriore giudizio “riabilitante” sul merito. In giurisprudenza si ribadisce che l’abrogazione fa venir meno la base punitiva: l’effetto è processuale sostanziale, non “dichiarativo d’innocenza”. In Germania, quando sussiste un impedimento processuale (tra cui la sopravvenuta impraticabilità della punizione), il procedimento può essere archiviato senza entrare nel merito (§ 206a StPo); si tratta di una “decisione di processo”, non di colpevolezza/ innocenza. Non esiste, in sede penale, un rito generale per ottenere una “sentenza di assoluzione nel merito” a fini reputazionali dopo l’archiviazione per ostacolo processuale. La dottrina e la prassi conoscono l’interesse alla riabilitazione (rehabilitationsinteresse) e, in ambito amministrativo, forme di azione dichiarativa post estinzione (es. fortsetzungsfeststellungsklage) per chiarire la legittimità di atti lesivi, ma ciò non equivale a un freispruch penale “riabilitante”. L’articolo 2 del Codice penale spagnolo prevede l’applicazione retroattiva della legge penale più favorevole: se il fatto cessa di essere reato, non si punisce. La LeCrim, art. 637, consente il sobreseimiento libre quando “il fatto non è costitutivo di reato”. È la via tipica se la fattispecie è abrogata: si archivia definitivamente. Anche qui, non c’è un obbligo strutturale di “pronuncia riabilitante” sul merito storico fattuale dell’accusa. La proposta di innesto nostrano sull’art. 129 c. p. p. (facoltà/obbligo, su istanza, di assoluzione nel merito quando dagli atti emerga l’evidenza liberatoria) colmerebbe una lacuna senza “spacchettare” il principio di legalità, allineandosi al meglio comparato (Spagna: decisione qualificatoria; Germania: istanze riabilitative extra penale) e alla lettura Cedu su Allen/ Nealon Hallam (nessun obbligo di certificare l’innocenza, ma divieto di insinuare colpevolezza post proscioglimento). Sul piano strategico, un simile intervento risponderebbe sia a esigenze di equità sostanziale, sia a istanze di prevenzione del danno reputazionale, oggi sempre più rilevante nell’ecosistema informativo e digitale. In mancanza di una formula piena, l’ex imputato rimane ostaggio delle narrazioni mediatiche pregresse, con effetti che possono incidere sulla sua vita professionale, politica e sociale ben oltre la vicenda giudiziaria. L’azione da intraprendere qui, dunque, non può limitarsi a una riflessione teorica: occorre predisporre una modifica legislativa, In tal modo, l’intervento non solo colmerebbe una lacuna normativa, ma restituirebbe equilibrio tra la giustizia formale e quella percepita, garantendo all’imputato prosciolto la possibilità di ottenere un riconoscimento pieno della propria innocenza. L’attuale disciplina realizza sì giustizia formale, ma sacrifica la giustizia sostanziale. L’intervento normativo da compiere colmerebbe la lacuna, garantendo un bilanciamento tra principio di legalità e tutela dell’onorabilità. La questione non è solo giuridica, ma di sistema: incidere sulla percezione sociale del proscioglimento significa restituire all’ex imputato non solo la libertà da un procedimento, ma anche la dignità piena. *Avvocato, direttore Ispeg Detenuti: acquisto di generi alimentari in sopravvitto ed esigenze di sicurezza di Anna Larussa altalex.com, 20 agosto 2025 Legittimo il divieto di acquisto di farina e lievito disposto per motivi di sicurezza interna, data la potenzialità esplosiva della farina (Cassazione n. 21834/2025). Un detenuto, sottoposto al regime penitenziario differenziato, aveva impugnato il provvedimento dell’amministrazione penitenziaria che vietava l’acquisto di farina e lievito nel sopravvitto, sostenendo la mancanza di motivazione e l’irragionevolezza del divieto anche alla luce del fatto che altri prodotti potenzialmente pericolosi (come l’olio) restavano acquistabili e che in altri istituti il divieto non era in vigore. Il Tribunale di sorveglianza di Sassari aveva disapplicato il divieto, ritenendo che non fossero state prospettate delle effettive ragioni di sicurezza, dovute alla asserita potenzialità esplosiva della farina. Contro tale ordinanza hanno proposto ricorso per cassazione la Casa circondariale di Sassari, il DAP e il Ministero della Giustizia, argomentando che il reclamo non doveva essere ammesso per assenza di un diritto soggettivo gravemente leso, che il divieto non era discriminatorio essendo applicato anche ai detenuti comuni ed era volto a garantire la sicurezza interna, considerata la pericolosità della farina, che è in grado di esplodere ove combinata con la normale acqua ossigenata, oltre a poter essere usata per formare una colla, e che può essere facilmente incendiata, atteso che ai detenuti è stato consentito l’acquisto di accendini. La sentenza affronta la questione del diritto dei detenuti all’acquisto di generi alimentari in sopravvitto, e rileva, anzitutto, che il reclamo giurisdizionale previsto dall’art. 35-bis dell’ordinamento penitenziario può essere presentato dal detenuto quando questi ritenga che un proprio diritto soggettivo sia stato leso in modo attuale e grave da un provvedimento dell’amministrazione penitenziaria. In particolare, la Corte di cassazione riconosce che la possibilità di acquistare generi alimentari in sopravvitto costituisce espressione del diritto alla salute e a una sana alimentazione, e pertanto può essere tutelata attraverso il reclamo giurisdizionale, potendo l’acquisto di particolari alimenti rispondere alle necessità di un’alimentazione calibrata sulle specifiche esigenze del detenuto. La Corte si sofferma, poi, sulle ragioni del divieto di acquisto di farina e lievito, giudicandolo ragionevole e proporzionato rispetto alle esigenze di sicurezza interna dell’Istituto penitenziario: ciò, in quanto la pericolosità della farina, la cui esplosività è stata scientificamente accertata seppur in particolari condizioni, giustifica l’adozione di precauzioni da parte dell’Amministrazione penitenziaria, anche laddove i pericoli siano soltanto potenziali. Vengono reputate legittime, altresì, le differenze tra Istituti penitenziari con riferimento alle regole sul sopravvitto, data la varietà delle esigenze di sicurezza e delle specifiche caratteristiche delle strutture. La Corte sottolinea, inoltre, che il divieto di acquisto di farina e lievito non ha carattere afflittivo, in quanto l’introduzione di cibi a base di farinacei, tipici della dieta italiana, è comunque garantita dal vitto fornito dall’amministrazione e previsto dalle tabelle nutrizionali ministeriali, in modo da assicurare una dieta completa ed equilibrata. Ne deriva che la corretta alimentazione e una dieta adeguata ai bisogni dei detenuti risultano comunque tutelate, senza che ciò comporti per l’amministrazione l’obbligo di consentire l’acquisto di ciascun alimento, soprattutto in presenza di esigenze di sicurezza anche solo potenzialmente rilevanti. La sentenza considera, infine, non irragionevole l’assenza di un divieto per l’acquisto di olio alimentare - sebbene anch’esso sia potenzialmente utilizzabile per produrre incendi - in considerazione del ruolo imprescindibile che tale alimento riveste nella preparazione dei cibi, diversamente dalla farina e dal lievito. In conclusione, poiché nel caso sottoposto al suo esame non è stato dimostrato un pregiudizio grave al diritto soggettivo del detenuto, la Corte di Cassazione ha annullato senza rinvio l’ordinanza impugnata riaffermando sostanzialmente l’ampia discrezionalità dell’Amministrazione penitenziaria nell’adottare misure di sicurezza, purché nel rispetto dei principi di ragionevolezza e proporzionalità e del nucleo essenziale dei diritti fondamentali dei detenuti. Piemonte. “Carceri, servono riforme e misure alternative alla detenzione” di Marco Turco unionemonregalese.it, 20 agosto 2025 “Servono riforme e misure alternative alla detenzione”. Lo dicono i referenti regionali di Azione, Giacomo Prandi e Cristina Peddis, dopo una visita al carcere torinese “Lorusso Cutugno” alle Vallette. “Come Azione siamo stati in visita insieme a Radicali Italiani al Carcere di Torino, - dichiara Prandi - dove solo pochi giorni fa, un detenuto si è tolto la vita all’interno della struttura torinese, segnando il 55° suicidio nelle carceri italiane nel 2025. Questa tragedia evidenzia le gravi carenze del sistema penitenziario, tra cui sovraffollamento, carenza di personale qualificato e condizioni igienico-sanitarie precarie”. Il tema dei rapporti in carcere fra detenuti e forze di Polizia è strettamente connesso al dibattito sulle condizioni dei reclusi. A fine luglio la Regione aveva nominato il nuovo garante dei detenuti piemontese: al posto di Bruno Mellano, che dopo 11 anni non sarebbe potuto essere rinnovato, è stata incaricata l’ex assessora Monica Formaiano, alessandrina, oggi in FDI. In base ai dati più recenti, il numero complessivo dei detenuti in Italia è pari a 62.476, distribuiti in 189 istituti penitenziari. Il tasso di affollamento, misurato dal rapporto fra detenuti e capienza regolamentare, è pari a 122,1% (valore percentuale dei detenuti sulla capienza regolamentare). Su base nazionale, i numeri dicono che ci sono 20,2 detenuti ogni 10 agenti. La serie storica, ricostruita a partire dal 2004, evidenzia in particolare una tendenziale crescita della popolazione carceraria: da 56.068 del 2004 a 61.861 del 2024. In generale, fra il 2023 e il 2024 l’aumento dei detenuti è stato del 2,8%, un dato in controtendenza se si prendono in esame le serie storiche a partire dal 2010 (-10,9% nel sotto periodo 2010-2019 e -1,0% nel sotto periodo 2019-2023). La quota di stranieri, sul totale dei detenuti presenti, nel 2024 è del 31,8%, stesso valore percentuale riportato per l’anno 2004. A partire dal 2018, nei fatti, si è riscontrata una tendenza alla riduzione della popolazione straniera presente nelle carceri italiane, sebbene dal 2023 si stia assistendo a un’inversione di tendenza. Poco più di 19 mila detenuti, pari al 31,3% dei detenuti presenti, frequenta di percorsi di istruzione di primo e secondo livello nelle carceri italiane. Il conseguimento dei titoli di studio presenta un tasso di successo pari al 56,9%, nell’anno scolastico 2023-2024, per chi ha frequentato i corsi di secondo livello, mentre per il primo livello la quota di promossi si è fermata al 34,6%. Quest’ultimo rappresenta la più bassa quota di successo degli anni scolastici a partire dal 2018. Si stima che in Italia il tasso di recidiva sia elevato, con alcune fonti che indicano cifre intorno al 70%, evidenziando la difficoltà di reinserimento nella società dopo la detenzione. Prandi: “È essenziale investire in misure alternative alla detenzione, supporto psicologico e programmi di reinserimento sociale. Lo Stato deve dimostrare la sua civiltà anche attraverso il trattamento dei più vulnerabili. Non possiamo più ignorare queste emergenze, continueremo a vigilare la precaria situazione delle carceri, visitando anche le altre carceri del Piemonte”. “Presidiare questi luoghi è fondamentale per vigilare sulle condizioni di vivibilità in cui queste strutture versano - aggiunge Cristina Peddis, Segretaria Provinciale di Azione Torino - perché uno stato libero e democratico si dimostra tale anche per le condizioni delle Sue carceri e di come tratta i detenuti. Oggi abbiamo visto con i nostri occhi le celle e gli spazi comuni che questa struttura offre, e purtroppo denunciamo con forza l’assenza strutturale di personale adeguatamente formato, in particolare psicologi e operatori sociali; il sovraffollamento cronico, che annienta ogni possibilità di percorsi individualizzati e umanizzanti; la carenza di misure alternative alla detenzione, soprattutto per le persone più fragili e la carenza assoluta di misure volte a reintrodurre il detenuto nel mondo del lavoro una volta terminata la pena. La questione delle carceri è troppo spesso dimenticata dai più. Azione si batterà sempre per garantire agli ultimi le condizioni minime di dignità umana garantite dalla Costituzione. Sicilia. Carceri in crisi: il Codacons lancia l’allarme newsicilia.it, 20 agosto 2025 Il Codacons lancia l’allarme carceri al Governo e al Parlamento, sollecitando l’apertura immediata di un confronto pubblico sullo stato drammatico delle carceri italiane. Un’iniziativa che nasce da un territorio segnato da sovraffollamento, violenze e disumanizzazione, e che diventa un appello nazionale indirizzato ai decisori istituzionali. “Siamo davanti a un quadro drammatico - dichiara il Codacons - che non può essere liquidato come una sequenza casuale di episodi. Il sovraffollamento, la carenza di risorse e di personale, la totale assenza di strategie di riforma stanno trasformando le carceri italiane in polveriere pronte a esplodere. Non è più possibile fingere che tutto vada bene: i numeri parlano di un’emergenza strutturale”. Lo scorso aprile, il Codacons ha presentato un esposto a 9 Procure della Repubblica siciliane, chiedendo di avviare indagini sui suicidi in carcere e sui possibili reati di omissione e di aiuto al suicidio. Una denuncia che nasce dalla Sicilia ma che riguarda l’intero Paese, perché la crisi penitenziaria è ormai una questione nazionale di legalità, civiltà e diritti umani. Il Codacons fa un bilancio fra suicidi e decessi in carcere - Il Codacons richiama i dati del Report sui suicidi e decessi in carcere 2024 del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Sono 83 i suicidi in un solo anno (603 negli ultimi dieci anni). 20 sono i morti in attesa di accertamenti, 62.410 detenuti a fronte di una capienza effettiva di 46.771 posti. Il tasso di sovraffollamento pari al 133,44%. “La tutela della dignità dei detenuti - prosegue Codacons - rappresenta una priorità assoluta per un sistema di giustizia credibile e imparziale. L’inerzia politica produce conseguenze devastanti: morti, sofferenze e violenza che ricadono sia su chi lavora negli istituti sia su chi vi è ristretto”. Proprio ieri è stata lanciata la candidatura di Francesco Tanasi, giurista e Segretario Nazionale del Codacons, a Garante dei detenuti in Sicilia, sostenuta da un ampio fronte di associazioni. Una proposta che rafforza l’impegno per trasformare le carceri da luoghi di sofferenza a spazi di rieducazione e reinserimento sociale. Rappresenta un passo concreto verso un cambio di rotta nelle politiche penitenziarie. Il Codacons lancia l’allarme carceri: “Non servono più annunci di facciata ma misure concrete per ridurre il sovraffollamento, potenziare organici e strutture, attuare politiche di reinserimento reali. Ogni ritardo equivale a nuove tragedie, non più tollerabili”. Torino. Ha 73 anni, si è murato vivo nella sua cella ed esce solo per i Tso. Che ci fa in carcere? di Franco Insardà Il Dubbio, 20 agosto 2025 Le visite in carcere delle delegazioni dei partiti e delle associazioni continuano a rivelare situazioni che vanno ben oltre l’immaginabile. Storie di degrado, di abbandono e di dolore che ledono fortemente i diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione. È accaduto di nuovo a Regina Coeli, a Roma, durante la visita di “Nessuno tocchi Caino” con la presidente Rita Bernardini e il deputato di Italia Viva Roberto Giachetti. Dopo aver constatato le condizioni di detenzione, i due hanno inviato una diffida al capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, alla presidente del Tribunale di Sorveglianza di Roma e al procuratore della Repubblica, chiedendo un intervento urgente. Nella loro denuncia parlano di “stato di degrado” e di “condizioni inumane e degradanti”, con particolare riferimento alla VII sezione del carcere romano, dove “in celle di appena otto metri quadrati tre persone sono costrette a convivere per 23 ore al giorno - in alcuni casi addirittura 24 - su letti a castello a tre piani”. Una fotografia di vita quotidiana che restituisce un’immagine durissima: corpi compressi in cubicoli angusti, senza spazi di respiro, in violazione del principio stesso di dignità che dovrebbe sorreggere la pena. Dalla capitale a Torino, purtroppo, la situazione non cambia. Lunedì 18 agosto, una delegazione dei Radicali Italiani, con esponenti di Azione e + Europa, ha varcato i cancelli del carcere “Lorusso e Cutugno” e si è trovata di fronte a un caso che definire eccezionale non basta. “Abbiamo incontrato un uomo di 73 anni che si è letteralmente murato vivo” ha raccontato Filippo Blengino, segretario nazionale dei Radicali Italiani. La sua cella, ricoperta in ogni centimetro di carta stagnola e sigillata con colla, è diventata un bunker. Dalle finestrelle non filtra la luce, l’aria entra appena da una piccola fessura, e un odore nauseabondo invade il corridoio. Secondo le testimonianze raccolte, quest’uomo non esce da anni se non in occasione di trattamenti sanitari obbligatori (Tso), non ha accesso regolare alla doccia e versa in condizioni psichiatriche evidentemente incompatibili con la detenzione. “La sua condizione è indegna, disumana e degradante - ha proseguito Blengino - così come è disumano e degradante che lo Stato lo abbia abbandonato a questa sorte. È bene che i cittadini sappiano e che le istituzioni smettano di fingere di non sapere”. Parole che non raccontano soltanto la sofferenza di un singolo detenuto, ma che puntano il dito contro un sistema incapace di distinguere tra custodia e annientamento. L’immagine del “murato vivo” ha scosso non solo chi era presente quel giorno, ma anche l’opinione pubblica. Le fotografie diffuse e la descrizione della cella trasformata in bunker hanno riportato al centro il nodo irrisolto delle carceri italiane: sovraffollamento, mancanza di personale, carenze igieniche, gestione emergenziale della salute mentale. In Piemonte, l’associazione Antigone ha registrato un tasso di sovraffollamento del 113%, con un ricorso crescente ai sedativi come strumento di contenimento. A Torino, nello stesso istituto, si erano già verificati un suicidio e un tentato suicidio nei giorni immediatamente precedenti alla visita dei Radicali Italiani. Il sindacato di polizia penitenziaria Osapp parla apertamente di istituti “fuori controllo”. In altre strutture piemontesi, come ad Alessandria, i sindacati hanno denunciato settimane di guasti nelle docce, con conseguenti proteste dei detenuti. È un mosaico di criticità che restituisce l’immagine di un sistema al collasso, dove le condizioni di vita dietro le sbarre diventano specchio delle difficoltà stesse delle istituzioni. Il caso del 73enne di Torino ha però avuto un seguito immediato sul piano politico. Il segretario di +Europa, Riccardo Magi, ha annunciato la presentazione di un’interrogazione parlamentare rivolta al ministro della Giustizia Carlo Nordio. “Un uomo murato vivo non è un problema del carcere: è uno scandalo per la Repubblica” hanno dichiarato Magi e Blengino. L’interrogazione chiede al Guardasigilli di riferire con urgenza in Parlamento e di intervenire per garantire dignità e salute non solo a questo detenuto, ma a tutte le persone con gravi patologie psichiatriche abbandonate negli istituti di pena italiani. Un atto che segna il passaggio della denuncia dalle mura delle carceri ai banchi parlamentari, costringendo la politica a confrontarsi con una realtà troppo spesso relegata in fondo all’agenda. Roma. Pochi medici e agenti, detenuti pronti alle rivolte di Lorenzo Nicolini romatoday.it, 20 agosto 2025 Il clima teso si registra ogni giorno. Tra Regina Coeli e Rebibbia gli episodi che riempiono le pagine delle cronache di Roma sono all’ordine del giorno. Celle strapiene, agenti di polizia penitenziaria a numero ridotto, medici e psichiatri che si contano sulle dita di una mano. In più il caldo estremo che in questi giorni ha reso le sbarre roventi. Le carceri in tutta Italia sono una polveriera e Roma, con Regina Coeli e Rebibbia, non fa eccezione. Sono sempre di più, infatti, le testimonianze e le rivolte che vanno in scena nei due più importanti penitenziari della Capitale. La rivolta - L’ultimo episodio eclatante è stato quello avvenuto la scorsa settimana a Regina Coeli quando nella notte tra sabato 16 e domenica 17 agosto, alcuni detenuti hanno lanciato contro i pochissimi operatori di polizia penitenziaria in servizio bombolette da campeggio e appiccato incendi. Una rivolta vera e propria che è scoppiata a causa della mancanza di personale medico. Già, a denunciarlo è stata la mamma di un detenuto. La donna, che resterà anonima, a RomaToday ha raccontato l’antefatto che poi ha portato alla sommossa, poi sedata. Un giovane di 20 anni ha avuto un grave episodio epilettico e, per circa 40 minuti, nessun medico è intervenuto in suo soccorso, nonostante le grida disperate dei sei compagni di cella. In segno di protesta e solidarietà estrema, gli altri detenuti hanno dato vita a una violenta rivolta, facendo esplodere bombolette di gas e incendiando materassi. Si è trattato di un gesto di ribellione contro la mancata assistenza sanitaria a un detenuto in difficoltà. Sul posto è intervenuto il comandante facente funzioni del nucleo investigativo della polizia penitenziaria che, insieme a personale richiamato appositamente in servizio per gestire l’emergenza, è riuscito a ripristinare l’ordine e la sicurezza. Condizioni estreme a Regina Coeli - Secondo Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa polizia penitenziaria, a Regina Coeli “sono ammassati 1.116 detenuti a fronte di soli 572 posti disponibili con un sovraffollamento che sfiora il 200%, mentre gli agenti assegnati sono solo 350, quando ne sarebbero necessari almeno il doppio. Basti pensare che stanotte vi era in servizio complessivamente una decina di agenti, i quali sono sottoposti a vero e proprio caporalato di stato con trattenimenti al lavoro anche per 26 ore ininterrotte”. E c’è di più, nel carcere di Regina Coeli, secondo quando sottolineano i sindacalisti della Fns Cisl Lazio, “deve farsi carico di 5 piantonamenti ospedalieri e di circa 10 sorveglianza a vista, dove la popolazione detenuta è di 1.116 rispetto ai previsti 628, dato del ministero della Giustizia al 17 agosto 2025. Va rivisto il servizio sanitario penitenziario negli istituti perché la sorveglianza a vista per un detenuto qualsiasi e con problemi psichiatrici non compete al personale della sicurezza ma a organi sanitari, manca una vigilanza medica psichiatrica h24 negli istituti, di notte non è presente”. Le promesse politiche - Numeri impietosi. Un’emergenza certificata dal monitoraggio effettuato, nel corso del 2024, dalla Garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Roma Capitale, Valentina Calderone. La relazione presentata lo scorso luglio ha denunciato una serie di criticità e proprio a Regina Coeli c’è la situazione più critica. Di recente la Regione Lazio, invece, ha approvato un documento relativo alla riorganizzazione dei servizi sanitari in ambito penitenziario, con l’obiettivo di potenziare il supporto alle singole Asl, sul cui territorio sia presente uno o più istituti di detenzione. L’obiettivo della Pisana sarà quello di istituire una casa della salute nell’area penale di Rebibbia, avviare dell’Atsm femminile (Articolazione per la Tutela della Salute Mentale), potenziare le figure specialistiche (cardiologi, oculisti, ginecologi, neurologi, dermatologi, infettivologi, psicologi e psichiatri) e incrementare il personale infermieristico e di supporto. Eppure, nonostante gli annunci, la situazione resta al limite. Complice soprattutto il sovraffollamento nelle carceri che nel Lazio sfiora il 145%, ben oltre la media nazionale del 132%, con punte impressionanti a?Regina Coeli al 185%, Civitavecchia al 178%, Rieti al 174% e Latina al 171%. “Il Governo resti coerente e sia promotore di misure deflattive immediate come i percorsi alternativi alla detenzione e l’uso pieno dell’amnistia e dell’indulto. Le carceri non sono solo infrastrutture: sono lo specchio della nostra civiltà. E finché rimarranno luoghi di sofferenza anziché di recupero, la nostra democrazia resterà non pienamente compiuta”, ha ammonito Emanuela Droghei, consigliera regionale del Partito Democratico. La situazione a Rebibbia - Situazioni a limite che, come detto, a Roma non si vivono solamente nel carcere di Regina Coeli, ma anche a Rebibbia. Nella mattinata di oggi, nel reparto G11, un assistente capo coordinatore dell’istituto di pena è stato aggredito, colpito al volto e portato al pronto soccorso. Attualmente nel nuovo complesso Rebibbia mancano 129 di unità di polizia penitenziaria e il sovraffollamento del carcere è di più 399 detenuti (previsti 1171 presenti 1570). Una situazione che “riflette i problemi sistemici più ampi all’interno del sistema penitenziario italiano, tra cui sovraffollamento, mancanza di personale e infrastrutture inadeguate”, sottolinea la Fns Cisl Lazio. Le memorie di Gianni Alemanno - Di recente a denunciare le condizioni di quel carcere sono arrivate anche le parole scritte da Gianni Alemanno e Fabio Falbo, lo “scrivano” del braccio G8. L’ex sindaco di Roma si trova in carcere dallo scorso 31 dicembre per aver trasgredito alla pena alternativa che gli era stata accordata. La carcerazione è diventata così l’occasione per raccontare, come si fa nei capitoli di un diario, le condizioni in cui viene vissuta la prigionia da parte dei vari detenuti. Parole dure in cui vengono elencate le condizioni di detenuti malati e anziani. Sfoghi a cui poi sono seguite le visite del ministro dei trasporti, Matteo Salvini, e del presidente della Regione, Francesco Rocca. Napoli. Gratteri: “Nelle carceri comandano i boss, ecco dove nasce il caos” di Conchita Sannino La Repubblica, 20 agosto 2025 Intervista al procuratore di Napoli: “Il malessere di reclusi e agenti è dovuto non solo alle case di pena stracolme ma anche al potere di personaggi che ormai lì dettano legge”. “Preoccupato? Certo che lo sono”. In particolare, per cosa? “E come si fa a non esserlo, di fronte alla situazione delle carceri? Basta entrarci e capisci”. Nicola Gratteri non rinuncia ai toni franchi. Il pm nato nella Locride e diventato nel mondo simbolo della lotta alla ‘ndrangheta, una vita sotto scorta, da due anni è procuratore a Napoli. I fatti dell’altra notte, l’evasione choc da Poggioreale, sono sulla sua scrivania: il carcere dista peraltro pochi metri dagli uffici dei pm. Procuratore Gratteri, basta una corda fatta di lenzuola per fregare lo Stato? “Naturalmente non parlo dell’inchiesta in corso. Ma i due evasi sono stati catturati e com’è ovvio le indagini non tralasceranno nulla”. Da mesi, in Italia, situazione più esplosiva: un 17enne tra i troppi suicidi, detenuti come animali, aggressioni agli operatori, condizioni indegne per tutti... “Vede, quello che più mi allarma è l’assenza di soluzioni a medio e a lungo periodo”. Ma il Ministero ha reagito persino con il Garante: “Nessun allarme, siamo nella media”... “Mi faccio una domanda. Ma ci si è chiesto davvero il perché del malessere che serpeggia tra i detenuti e gli agenti della polizia penitenziaria? Non è mica solo per il sovraffollamento”. Cosa intende? “È colpa anche di un sistema organizzativo, che affonda le radici negli anni, e che di fatto ha portato al progressivo controllo delle carceri da parte dei detenuti di alto spessore: i quali ordinano ai più deboli una serie di ‘favori’. Può essere l’ambasciata all’esterno, il trasporto di un cellulare, la custodia di un’arma. E i più fragili restano schiacciati, perché rischiano sempre: le infrazioni disciplinari, se vengono scoperti; oppure gravi ripercussioni sulla loro incolumità, se si rifiutano. Il risultato è paradossale: le relazioni comportamentali sui boss descrivono questi capi come soggetti che in carcere sono irreprensibili, così possono fruire di tutti i benefici di legge; e i detenuti deboli, costretti ai desiderata dei primi, non possono aspirarvi. Questa, che tanti ignorano, è una delle condizioni che può portare ai suicidi”. Sui provvedimenti svuotacarceri è divisa anche la destra. E lei? “Purtroppo l’esperienza insegna che dopo provvedimenti di indulto, tempo un anno, si torna al punto di partenza. Ciò posto, si deve intervenire su tre direttrici: associare i detenuti tossicodipendenti alle comunità di recupero; ampliare le carceri esistenti; ripianare con urgenza gli organici di polizia penitenziaria”. Lotta antimafia, lei è in trincea da quasi 40 anni. Questo governo ostacola o dà una mano a contrastare le economie criminali? “Vede: nessuno chiede che i governi diano una mano ai magistrati. Devono solo provvedere a riforme che diano certezza del diritto, tutelando, innanzitutto, le vittime dei reati, senza forzature che nuocciano agli indagati. Quindi, sono obiettivo. Ho visto con favore le riforme sulle intercettazioni per reati contro la criminalità organizzata e quelle sulla cybersicurezza”. E poi? “Poi: tra abolizione dell’abuso di ufficio, interrogatorio preventivo prima della misura cautelare, e stretta sulle proroghe delle intercettazioni, mi sono purtroppo ricreduto. Si ha la percezione che il controllore non voglia essere controllato. Questo va solo a danno della collettività”. Tra poco, per l’ultima lettura alla Camera, torna la separazione delle carriere, riforma contro la quale ha scioperato anche lei... “Non serve. Non incide in alcun modo sui veri problemi della giustizia, in particolare sui tempi e la qualità delle decisioni. Quindi, lo ripeto fino alla noia: i magistrati devono essere messi nelle condizioni di decidere presto e soprattutto bene, senza perdere tempo appresso a meri orpelli procedurali”. Si riferisce anche alle ultime strette sul sequestro dei cellulari e delle memorie dei pc? “Certo. Se pensa che la riforma sul sequestro dei cellulari, in discussione in parlamento, introduce ben tre provvedimenti di sequestro, due dei quali del giudice, a fronte della legge attuale che ne prevede uno solo, capisce bene che la situazione non potrà che peggiorare. Dice: ma nelle memorie c’è la vita delle persone. E per catturare i delinquenti lì dobbiamo scavare noi, di quello abbiamo bisogno”. In 4 righe, per lei, la giustizia di cosa ha bisogno per funzionare meglio? “Di una seria riforma delle circoscrizioni giudiziarie, che elimini uffici piccoli e inefficienti, in favore di uffici di medie e grandi dimensioni dove si garantisca la specializzazione che permette decisioni più rapide e giuste. Di una semplificazione dei processi: che elimini quelle pastoie procedurali inutili e defatiganti. Insomma: il magistrato deve impiegare tutto il suo tempo a disposizione a esaminare le carte e a scrivere motivazioni congrue ed esaustive, non a sequestrare tre volte la memoria dello stesso cellulare”. Però per completezza: lei, della riforma, dice invece sì al sorteggio dei membri togati e laici nei Csm... “Lo condivido, infatti”. Non è un’ammissione di colpa immaginare che solo la sorte è in grado di combattere eventuali distorsioni? “No, perché un magistrato, ovviamente immune da procedimenti disciplinari, così come è in grado di decidere una causa, dando ragione a una parte e torto all’altra, allo stesso tempo, è in grado di stabilire, in un Csm, chi è il miglior procuratore, valutando tutti i candidati”. Ha spesso invitato i colleghi: “alzate la testa e parlate facile”. In vista del referendum, anche lei andrà in piazza a raccontare perché va detto no alla separazione? “Ribadisco, bisogna informare i cittadini, con tutti i mezzi consentiti dalla legge, sulle storture, sui pericoli di questa riforma e sulla sua inutilità rispetto alle reali esigenze”. Procuratore, si appresta a diventare un anchorman: da settembre su La 7 sarà il primo procuratore in carica ad avere un programma suo... “Un momento. Non è un programma tutto mio”. Sono però cominciati gli attacchi dalla destra. Pentito già? “No. Perché io sono invitato a rispondere a domande su tematiche generali e astratte, riguardanti il fenomeno delle mafie. E sostanzialmente lo si fa sulla scia del contenuto dei miei saggi, rispetto ai quali nessuno si è mai doluto”. Benevento. Libera: “Non si spengano riflettori su emergenza carceri” cronachedelsannio.it, 20 agosto 2025 “I tragici accadimenti degli ultimi giorni, anche nella nostra città, accendono i riflettori su un’emergenza complessa e delicata come quella carceraria e come spesso succede gli stessi riflettori si spengono dopo qualche giorno lasciando le situazioni immutate. La consapevolezza della complessità e delicatezza del tema impone un approccio serio, realistico, lungimirante e propositivo. Che il detenuto sconti la sua pena per i reati commessi, estinguendo il debito con la giustizia è un principio imprescindibile. Punto focale, considerando sempre (e per noi questo non è secondario), che dietro ad ogni reato c’è una vittima e la sofferenza di una o più famiglie. In un paese democratico come il nostro, la Carta Costituzionale della Repubblica Italiana è la via maestra da seguire per evitare retoriche ideologiche”. Lo afferma il coordinamento sannita di Libera guidato da Michele Martino. “Come Libera rimarchiamo con forza quanto richiamato nel punto 9 della nostra campagna nazionale denominata “Fame di verità e giustizia” con tappa Beneventana nel mese di maggio. Un contributo in termini di analisi e proposte concrete. Sono 83 - si legge - i suicidi registrati nel 2024, ed un numero preoccupante da inizio 2025. Numeri che raccontano di Istituti penitenziari sempre più isolati ed in difficoltà. Luoghi che da spazi destinati alla sicurezza, si trasformano in contesti insicuri sia per chi sconta la pena, sia per chi vi presta servizio. Lo Stato dovrebbe amministrare la pena rispettando la legge ed i principi di giustizia sociale, tutelando in primis la dignità della persona. “Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizioni delle sue carceri” scriveva Voltaire. Il carcere in questi mesi, sempre più spesso, ci sta raccontando, soprattutto nelle forme estreme dei suicidi, i drammi umani vissute dalle persone che vi sono detenute, ma anche di quelle che vi lavorano. Anche il corpo di Polizia Penitenziaria paga un conto salatissimo con il più alto indice di suicidi in Italia tra le forze dell’ordine: dal 2011 al 2022 si sono tolti la vita 78 agenti. Solo nel 2024 i suicidi sono stati 7. Dato che impressionano e che relegano sempre di più gli Istituti penitenziari nell’isolamento, distanti e separati dal corpo sociale. Oggi si assiste sempre di più ad una politica securitaria, con un conseguente aumento delle persone ristette nei penitenziari e l’incremento delle complessità che ne derivano e che rendono il carcere sempre più “difficile da gestire” e sempre più impermeabile verso l’esterno. La Corte Europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia in passato per le condizioni di sovraffollamento chiedendo azioni concrete per migliorare la situazione. Il carcere rappresenta un luogo in cui legge e giustizia devono camminare insieme. Per queste ragioni proponiamo di: adottare ed applicare misure alternative per ottenere un impatto deflativo sulle pene detentive di breve durata e pertanto incidere sulla densità della popolazione carceraria; incrementare gli organici sotto tutti i profili: educativi, amministrativi e della polizia; favorire la capillarità dei servizi sociali e la corresponsabilità fattiva degli Enti Locali, dell’associazionismo del terzo settore e di tutte le parti sociali di un territorio; migliorare le condizioni carcerarie ripensando questi spazi come luoghi di sicurezza per i detenuti e per quanti vi lavorano (personale penitenziario, sanitario ed educativo) con un importante investimento in edilizia carceraria volto a sviluppare strutture specialistiche per piccoli gruppi; riutilizzo dei beni confiscati per realizzare unità residenziali specializzate per “fragilità”; rafforzare e dare attuazione a politiche e programmi rieducativi e di inserimento, necessari per contrastare effetti desocializzanti. Aumentare le occasioni di lavoro e di percorsi professionalizzanti per dare corpo all’art.27 della Costituzione che vede nella pena uno strumento volto alla rieducazione di chi è oggetto di condanna. Tutti hanno diritto ad una seconda possibilità se scelgono di rialzarsi e lo Stato nella sua pienezza deve creare le giuste condizioni. In quest’ottica, il progetto “Amunì” vuol essere un’opportunità rivolta alle strutture penitenziare per minori offrendo l’occasione di riprendere in mano la propria vita. Un’esortazione siciliana a muoversi, non restare fermi, riprendere in mano vita e speranza. Così come avviene in altre realtà carcerarie per adulti, dove si vivono percorsi educativi partecipativi ed in alcuni casi riconciliatori. Amunì lo diciamo anche ai politici affinché diano uno slancio alle iniziative parlamentari, mettendo al centro la dignità delle persone”. Torino. Il giudice scarcera un detenuto per sovraffollamento. “In carcere si soffre troppo” di Andrea Bucci La Stampa, 20 agosto 2025 La decisione del tribunale di sorveglianza di Torino: sì ai domiciliari per un detenuto con patologie. “Nelle carceri piene aumenta la sofferenza”. Mentre fanno ancora discutere le dichiarazioni del ministro della Giustizia Carlo Nordio, secondo cui “non c’è alcuna correlazione tra sovraffollamento e suicidi nelle carceri”, il tribunale di sorveglianza di Torino si muove in direzione opposta con un’ordinanza “pilota” che, interpretando in modo estensivo la legge sull’ordinamento penitenziario, considera lo stesso sovraffollamento una ragione sufficiente per concedere la detenzione domiciliare a un condannato con malattie non gravi e curabili in carcere. Una decisione che tutela indirettamente anche il lavoro della polizia penitenziaria, oggi gravata da condizioni insostenibili. Il caso riguarda un uomo di 47 anni, affetto da obesità e cardiopatia ischemica cronica, detenuto nel carcere Lorusso e Cutugno di Torino dove sta scontando 4 anni e 10 mesi per rapine aggravate, resistenza a pubblico ufficiale e ricettazione. L’avvocato Francesco Romeo ha chiesto la detenzione domiciliare, prevista dalla legge per condizioni cliniche di particolare gravità. La relazione sanitaria, però, attestava condizioni “discrete”, non tali da imporre ricoveri esterni. In prima battuta il giudice di sorveglianza ha quindi respinto l’istanza, “non ravvisando patologie incompatibili con lo stato detentivo”. Diversa la valutazione del procuratore generale Lucia Musti, che il 5 agosto ha dato parere favorevole alla richiesta della difesa, richiamando i principi costituzionali di tutela della salute e umanità della pena. Musti, con un accenno non banale visto il dibattito in corso sul sovraffollamento degli istituti penitenziari, ha sottolineato che “il magistrato, sia giudice sia pubblico ministero, deve contemperare esigenze di sicurezza e realtà territoriale e del momento storico”. E i numeri parlano chiaro. Al 16 agosto i detenuti in Italia erano 62.750; al Lorusso e Cutugno il sovraffollamento tocca il 134,24%. Proprio il giorno della pubblicazione dell’ordinanza si è registrato in carcere un altro suicidio, in tutto 55 dall’inizio dell’anno in Italia. Il tribunale di sorveglianza ha quindi accolto l’istanza difensiva, ribaltando la decisione iniziale e disponendo che il condannato sconti la pena nella sua abitazione in Veneto. Nelle motivazioni si precisa che “non sussiste incompatibilità in senso stretto con il regime carcerario”, ma che “il quadro di sovraffollamento impone una riflessione sulla necessità di mantenere in carcere soggetti con serie patologie, ancorché monitorate e non in fase di immediato peggioramento”. Pur riconoscendo “professionalità e disponibilità del personale sanitario”, i giudici evidenziano come la detenzione possa causare a questi detenuti “un surplus di sofferenza e disagio evitabile con misure alternative”. Inoltre l’assistenza sanitaria interna richiede impegni straordinari di risorse, che costringono la polizia penitenziaria a frequenti accompagnamenti negli ospedali esterni, sottraendo tempo e uomini ad altri servizi. Il tribunale pone infine i criteri della “valutazione caso per caso”: condizioni di salute, comportamento in carcere, pericolosità, tipologia dei reati, distanza temporale dei fatti e pena residua. Nel caso specifico, pur a fronte di reati gravi, il detenuto ha mantenuto una condotta corretta durante la detenzione. Per questo potrà finire di scontare la pena a casa, anziché dietro le sbarre. Torino. In attesa del nuovo Garante dei detenuti. Lo Russo: “A settembre la decisione” torinoggi.it, 20 agosto 2025 Un’altra estate bollente per il carcere torinese, in tutti i sensi. In una settimana un detenuto si è tolto la vita e altri due sono stati salvati in extremis da due guardie carcerarie. Intanto, a livello regionale si infiamma il dibattito sulla figura del Garante delle persone private della libertà personale. Prima, la critica delle opposizioni sulla nomina della nuova Garante regionale Monica Formaiano, secondo loro troppo politica. Poi, l’attacco della destra al Garante Regionale uscente, Bruno Mellano, che non avrebbe dedicato attenzione alla figura degli agenti penitenziari. Il centrosinistra ha risposto che, per statuto, il Garante si deve occupare dei diritti dei detenuti e non degli altri soggetti che popolano il sistema carcerario, che ha comunque sempre tenuto in considerazione nei suoi rapporti. “Il Garante - ha dichiarato il sindaco Stefano Lo Russo - è il Garante delle persone private della libertà, non ci sono ambiguità su questo. Comprese le persone che sono nei CPR. Che non vuol dire non andare a interloquire col personale di custodia, ma il mestiere del Garante è per le persone private della libertà personale”. Nel frattempo, è in scadenza il secondo mandato della Garante di Torino, Monica Gallo, che non potrà essere riconfermata. E spetta proprio al sindaco di Torino nominare chi le succederà, interloquendo con la conferenza dei capigruppo del consiglio comunale ma, come decisione finale, in totale autonomia. “Abbiamo individuato tramite procedura pubblica candidate e candidati che avessero i requisiti di idoneità per questo ruolo - ha spiegato Lo Russo - la procedura si è conclusa e la commissione di valutazione ha ristretto la rosa che ho trasmesso alla conferenza dei capigruppo. A settembre mi confronterò e prenderò una decisione, i profili arrivati sono tutti assolutamente adeguati. Occorrerà trovare la persona che più di altre possa sviluppare il lavoro decennale di grandissima qualità svolto dalla Garante Gallo”. Bari. Tre milioni di euro per il carcere: via a progetti per l’inclusione lavorativa dei detenuti L’Edicola del Sud, 20 agosto 2025 Dodici milioni di euro. È il budget a disposizione delle carceri pugliesi per l’avviamento di progetti di inclusione socio-lavorativa in favore dei detenuti. Tre milioni andranno al carcere di Bari. Lo ha annunciato, in occasione di una visita istituzionale nella casa circondariale del capoluogo pugliese, il senatore di Fratelli d’Italia e componente della commissione parlamentare Antimafia, Filippo Melchiorre. La somma è stata assegnata qualche giorno fa con decreto, ha spiegato Melchiorre, e “servirà per ristrutturare un’ampia ala della struttura nella quale saranno avviati corsi per diventare panettiere e pasticciere. A breve partiranno tutte le gare”. Un altro milione e mezzo di euro è stato assegnato per sbloccare il braccio del carcere che in passato ospitava la sezione femminile. “Questi soldi - ha aggiunto Melchiorre - serviranno per rispondere al problema del sovraffollamento. Questa ala è stata utilizzata in parte durante il Covid, adesso occorre metterla a norma”. Melchiorre ha annunciato anche una stretta sull’uso dei cellulari privati in carcere. “Dall’inizio del 2025 - ha detto - a Bari ne sono stati sequestrati 80. Facendo seguito alle parole del procuratore Roberto Rossi, e l’aggiunto Francesco Giannella, sono allo studio soluzioni per rispondere a questo problema”. Quanto alla situazione all’interno della casa circondariale, Melchiorre spiega che “si tratta di una struttura costruita oltre cento anni fa, quindi necessita di interventi di ristrutturazione. Il sovraffollamento è un problema di tutte le carceri italiane, ho parlato con diversi detenuti e ho comunque trovato una situazione serena”. Il viceministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto, ha sottolineato che le risorse destinate alle carceri pugliesi arrivano dai Fondi europei di sviluppo regionale per i progetti di rieducazione all’interno degli istituti di pena. “I progetti, presentati dai Provveditorati dell’Amministrazione Penitenziaria a livello regionale, finalizzati all’inclusione socio-lavorativa dei detenuti anche tramite la riqualificazione delle aree trattamentali - ha spiegato -, potranno ora essere realizzati, a beneficio dei percorsi lavorativi volti alla specifica rieducazione dei condannati. In particolare, alla Puglia sono stati destinati oltre 12 milioni di euro, di cui 3 milioni solo all’istituto di Bari. Un segnale concreto di attenzione del Ministero della Giustizia per la situazione carceraria pugliese e un modo per dare piena attuazione al dettato dell’articolo 27 della Costituzione”, ha concluso. Reggio Calabria. “Cinema dentro e fuori le Mura”, il Festival che attraversa le barriere avveniredicalabria.it, 20 agosto 2025 Da Reggio Calabria a Palermo, passando per il Parlamento, il cinema entra negli istituti penitenziari per accendere riflessioni profonde e generare un confronto autentico tra istituzioni, autori e persone detenute. “Cinema dentro e fuori le Mura” è la storica e originale sessione del Reggio Calabria Film Fest che, attraverso il linguaggio dell’arte, cerca di dare voce a chi vive privato della libertà, con l’obiettivo di favorire rieducazione e reinserimento sociale. “Cinema dentro e fuori le Mura” rappresenta una delle sessioni più peculiari del Reggio Calabria Film Fest, evento che unisce cinema, cultura, diritti e impegno sociale in una sinergia concreta con le istituzioni. L’obiettivo è portare la settima arte all’interno del carcere di Reggio Calabria, luogo dove da anni si svolgono proiezioni e dibattiti con la popolazione detenuta. L’iniziativa è nata dalla visione del direttore generale Michele Geria, che sin dalla prima edizione ha voluto rafforzarla con il sostegno dell’Ufficio del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Reggio Calabria. A supportare il progetto, nel corso degli anni, si sono succeduti il giudice Giuseppe Tuccio, l’avvocato Agostino Siviglia e oggi l’avvocato Giovanna Russo. Nel corso delle varie edizioni, il Festival ha coinvolto anche le carceri di Palmi, Locri, Vibo Valentia e Cosenza, mantenendo il cuore dell’attività presso la Casa circondariale di Reggio Calabria, in un percorso costante che ha sempre cercato di mettere in dialogo il mondo “dentro” con quello “fuori”. Secondo il direttore Michele Geria, l’esperienza del cinema in carcere è sempre stata profondamente significativa. La presenza di attori, scrittori e registi - tra cui Sasà Striano, Mimmo Calopresti, Mimmo Gangemi, Massimo Spano, Fabio Mollo - ha arricchito le proiezioni con momenti di dibattito, coinvolgendo autorità carcerarie, magistrati, avvocati, docenti universitari e rappresentanti delle istituzioni. “Abbiamo vissuto momenti ricchi di emozioni - afferma Geria - le emozioni di chi ha commesso errori e ora si trova a scontarli. E il cinema, che cos’è se non un potentissimo mezzo che libera le emozioni? Le emozioni aiutano a comprendere gli sbagli commessi e a desiderare una vita nuova, a cui ogni detenuto ha diritto. Tutto ciò è possibile solo grazie alla sinergia tra le istituzioni e chi, all’esterno, opera per rendere questo dialogo vivo e costruttivo”. Le edizioni passate hanno visto un coinvolgimento diretto delle persone detenute, che in alcune occasioni hanno anche scritto poesie ispirate ai film proiettati, trasformando la visione cinematografica in un percorso di crescita personale e collettiva. L’edizione di quest’anno ha in programma la proiezione del film “Siamo a’mmare” di Alessio Genovese, una pellicola unica nel suo genere, scritta e interpretata da detenuti della Casa di reclusione “Calogero di Bona - Ucciardone” di Palermo. Il film è il frutto di un laboratorio di scrittura cinematografica partecipativa, durato due anni, coordinato dal sociologo Daniele Saguto e realizzato dall’associazione Zabbara ETS. Sono venticinque i detenuti coinvolti nel progetto, che si sono trasformati in autori e interpreti di un’opera corale, capace di affrontare temi centrali come il rapporto tra carcere e società, la possibilità di riscatto, la memoria generazionale della pena e la necessità di spezzare il ciclo della recidiva. Il film è stato presentato ufficialmente il 3 aprile scorso presso il Parlamento italiano, a testimonianza dell’alto valore simbolico e sociale del progetto. Il regista Alessio Genovese ha già confermato la sua presenza alla proiezione in carcere. Cinema e diritti umani: una visione che guarda lontano - Per l’avvocato Giovanna Suriano, esperta di formazione e referente dell’evento per il Festival, la sessione rappresenta “un momento di autentico e positivo contributo civile e sociale”. Il Festival, spiega, “diventa veicolo di cultura per tutti gli appassionati di cinema, ma soprattutto occasione per promuovere la cultura del rispetto dei diritti umani, anche e soprattutto in carcere. Il fine principale della proiezione è favorire la rieducazione, il reinserimento e l’integrazione sociale delle persone detenute attraverso la bellezza e la leggerezza dell’arte cinematografica, che trasmette speranza”. L’iniziativa si inserisce in un contesto più ampio in cui il cinema non è solo intrattenimento, ma educazione emotiva, strumento di relazione e mezzo di giustizia sociale. L’esperienza di “Cinema dentro e fuori le Mura” dimostra che la cultura può entrare anche negli spazi più chiusi, e da lì generare apertura, ascolto, consapevolezza. Sorveglianza di massa, in pace e in guerra di Teresa Numerico Il Manifesto, 20 agosto 2025 La tecnologia costituisce una nuova regolazione dei rapporti sociali e ambientali, ed è perciò il campo principale della lotta politica. Il volume di Asma Mhalla Tecnopolitica (Add editore, pp. 272, euro 22) ha il pregio di portare nel dibattito mainstream la profonda interconnessione tra Big Tech e il cosiddetto Big State, descrivendola come un Leviatano a due teste, mutualmente dipendenti. L’autrice, che lavora al think tank liberale dell’Institut Montaigne, concentra il focus sul carattere militare della tecnologia che si manifesta attraverso gli strumenti per una sorveglianza di massa in pace e in guerra e la costruzione di una metastruttura economica, capace di datificare i fenomeni sociali per sottometterli a sistemi algoritmici predittivi del futuro collettivo e individuale. Inoltre, la sfida militare tra tecnologia e politica si concentra sulla comunicazione: un bombardamento permanente, il cui target è la conquista delle capacità cognitive umane, con lo scopo di oscurare la linea di separazione tra la realtà e un suo specchio deliberatamente distorto, immaginario e complottista. Tecnopolitica vuole identificare una serie di pratiche politiche liberatorie, dopo avere individuato il campo di battaglia: un trittico di nozioni che consentono di passare direttamente dalla teoria alla prassi. La metastruttura permette di trasformare i fenomeni in dati, contribuendo a una valorizzazione economica della rappresentazione in chiave algoritmica e predittiva. L’infrasistema è l’infrastruttura tecnologica che regola i rapporti di potere ed esternalizza la possibilità di sovranità diluendola tra Big State e Big Tech. La tecnologia totale è l’ultimo tassello e descrive il carattere ideologico, promosso dalla Silicon Valley, con la sua tradizione di altruismo e accelerazionismo efficaci, secondo cui solo le tecnologie, senza vincoli o regole, possono prevedere il futuro e produrre il bene per l’umanità a lungo termine. Il retroterra filosofico del volume è offerto dalla categoria dell’ipervelocità di Paul Virilio, che minaccia la stabilità del patto sociale delle democrazie dell’occidente sia funzionalmente sia dal punto di vista territoriale, visto che le infrastrutture da cui dipende la sovranità sono di proprietà privata e i loro padroni sono lontani da dove esercitano le loro conseguenze. La tesi della studiosa è che possiamo rileggere Marx nella sua logica struttura/sovrastruttura riterritorializzandola come infrasistema/metastruttura, cioè l’esercizio di una potenza, sebbene priva di potere concreto, che organizza i fenomeni sociali, rendendoli prevedibili algoritmicamente. Mentre Marx viene poi totalmente abbandonato, dimenticando di riconoscere che le tecnologie dell’intelligenza artificiale sono intessute di persone, il cui lavoro è sfruttato e oscurato. La visione secondo cui la lotta di classe sarebbe sostituita dalla dicotomia tra sorveglianti-sorvegliati, senza ulteriori precisazioni è tra i punti più controversi e meno argomentati del libro. I problemi epistemologici si amplificano nell’ultimo capitolo, l’unico in cui vengono introdotti i rimedi alla descrizione determinista delle conseguenze del potere tecnocratico sulla politica. La proposta si configura come una difesa dell’occidente inteso come Europa/Stati Uniti dall’aggressione degli altri intesi come Russia, Cina e resto del mondo e suggerisce di stabilizzare l’alleanza a due teste tra Big State e Big Tech, inevitabile nell’orizzonte dell’iperguerra, sebbene nel volume siano ampiamente documentate le distorsioni antidemocratiche dell’uso politico delle tecnologie digitali. La condizione di conflitto e belligeranza di tutti contro tutti, simile alla visione hobbesiana dello stato di natura - molto controversa anche alla luce delle ultime ricerche archeologiche e antropologiche post-coloniali - riguarderebbe sia le lotte geopolitiche per la supremazia mondiale, sia la gestione dei conflitti interni e giustificherebbe la necessità di un’alleanza pragmatica tra stato e tecnologie. Il terzo polo necessario per l’equilibrio del nuovo Leviatano bicefalo dovrebbe essere il cittadino soldato: una militarizzazione della società civile per combattere una guerra cognitiva nel contesto di una sovranità liquida, condivisa tra Unione Europea regolatrice e Stati Uniti portatori delle logiche e delle strutture di potere tecno-militare. Le tecnologie, secondo questa ricetta, sarebbero inglobate in una simbiosi con una democrazia da ripensare, mentre la società civile si troverebbe a combattere contro i tentativi di destabilizzare la realtà, perpetrati da potenze straniere e da gruppi di contropotere interni. La lotta della società civile non avrebbe speranza di ripristinare uno sguardo più consapevole sulla società, ma solo di ricostruirne una rappresentazione funzionale al nuovo assetto democratico liquido, un nuovo regime di verità, una narrazione che consenta a quel che resta dei governi dell’occidente di traghettare nel nuovo mondo metastrutturale e infrasistemico che si prepara. Se immaginiamo uno scenario in cui non ci sia altro che propaganda, come scegliere da che parte stare? Se queste previsioni si dovessero avverare, la catastrofe sarebbe già compiuta. Nel nome del padre: carcere e speranze di Marwan Barghouti raccontate dal figlio di Roberto Bongiorni Il Sole 24 Ore, 20 agosto 2025 Ritratto intimo del “Mandela palestinese” attraverso gli occhi del figlio, tra sacrifici, resistenza e prospettive future. L’”ultima volta” per Arab Barghouti è un dolore freddo, un vetro spesso che divide. È un contatto mancato. Sono gli sguardi sospettosi dei secondini, le manette che segnano i polsi del padre Marwan, il leader più popolare tra i palestinesi. “Era la fine del 2020. Papà si trovava nel carcere israeliano di Hadareem, dove ha scontato 18 dei suoi 23 anni di detenzione. Come sempre ha chiesto di me, dei miei fratelli, degli amici. Di sé non ha parlato. Non si è lamentato. Poi mi ha salutato nel suo modo. Ha poggiato il palmo della mano sul vetro ed io ho poggiato la mia. Da allora non mi hanno più permesso di rivederlo”. Arab Barghouti è un uomo di 34 anni, dai modi affabili, quasi timido. È l’ultimo dei quattro figli avuti della coppia Marwan, definito dai suoi sostenitori “il Mandela palestinese”, e Fadwa, la famosa attivista. Arab sa bene che, se mai avverrà, il prossimo scambio di prigionieri, in cambio della liberazione degli ostaggi israeliani in mano ad Hamas, potrebbe essere l’ultima occasione per riabbracciare quel padre da cui è stato diviso per 23 anni. Sa bene quanto il Governo israeliano lo consideri un terrorista con le mani sporche di sangue, l’ultimo detenuto da liberare, perché ridarebbe speranze ai palestinesi. Eppure si attacca alla speranza. “Mio padre diceva sempre che noi palestinesi non abbiamo il privilegio di essere senza speranza. Se perdiamo la speranza perdiamo tutto. Perdiamo le nostre case, la terra, il nostro onore, le nostre famiglie”. Oggi a 34 anni, una laurea all’Università di Birzeit (a Nord di Ramallah) in Finanza, un master negli Stati Uniti, Arab sembra proiettato a una potenziale carriera politica. Il leader più popolare in Palestina - I palestinesi non hanno mai dimenticato Marwan Barghouti. È ancora il leader più popolare, per molti una figura quasi leggendaria. Fu arrestato nel 2002 durante la Seconda Intifada e condannato due anni dopo a cinque ergastoli. Le accuse riguardavano la responsabilità diretta o indiretta di cinque omicidi e diversi attentati attribuiti alle Brigate dei Martiri di al-Aqsa, il braccio armato di Fatah a lui collegato. Barghouti, oggi 66 anni, rifiutò la difesa legale, dichiarandosi prigioniero politico. Contestò la legittimità del tribunale israeliano. “Mio padre affronta la detenzione con la stessa filosofia di sempre: convinzione e pazienza. Legge molto, scrive, pensa a come servire il suo popolo. Non si arrende”. L’immagine più iconica di questo leader è la fotografia che lo ritrae durante un’udienza del 2002. Marwan alza le mani ammanettate verso il cielo, indossa la veste marrone dei prigionieri palestinesi, sul viso un sorriso accennato. Di chi promette di non arrendersi. “Mio padre è da oltre 50 anni un leader di Fatah. È un fervido sostenitore della democrazia. Ha sempre promosso l’unità palestinese. Il suo maggiore successo politico fu il documento dei prigionieri del 2006, firmato da tutte le fazioni palestinesi, anche Hamas e Jihad Islamica. Stabiliva lo Stato palestinese sui confini del 1967. Fu un grande compromesso”. L’impegno per l’istruzione - Eppure Barghouti non è quel leader carismatico, inscalfibile. Dietro ogni leader c’è sempre un uomo. E la figura che emerge dalle parole del figlio è quasi una sorpresa. “Mio padre amava rifugiarsi nella nostra casa di campagna. Per stare insieme alla famiglia, prendersi cura dei suoi ulivi e della terra. È sempre stato interessato alle nostre vite e crede con fermezza nell’istruzione. La prigione di Hadareem, dove è stato per molti anni, era soprannominata “Hadareem University”. Mio padre ha un dottorato in scienze politiche e l’esperienza da docente all’Università di Gerusalemme. Ha introdotto corsi di alfabetizzazione, diplomi di scuola superiore, lauree triennali e master. Ha formato più di 450 prigionieri a livello triennale e quasi 200 a livello di master, seguendo il loro percorso, dando voto e facendo pervenire i diplomi tramite l’avvocato”. Poi è arrivato il 7 ottobre 2023. La strage compiuta da Hamas contro civili e militari israeliani ha stravolto l’intero Medio Oriente, lacerando la vita di palestinesi ed ebrei, ma soprattutto dei palestinesi detenuti in Israele. “Dopo quell’evento, Israele ha deciso di punire collettivamente tutti i prigionieri palestinesi. La detenzione di mio padre è diventata una vendetta politica”. Dopo il 7 ottobre - Arab racconta come poco dopo il direttore della prigione di Ofer, dove si trovava, radunò tutti i prigionieri, chiese a suo padre di inginocchiarsi mettendo le mani dietro la schiena. “Voleva dimostrare che, se potevano umiliare il leader, umiliavano tutti. Papà rifiutò. Gli hanno slogato la spalla. Il 6 marzo 2024 tre o quattro guardie lo portarono in un’area senza telecamere e lo picchiarono fino a svenire per ore. Sei mesi dopo fu picchiato in modo ancor più brutale. Fu trasferito da una prigione. Senza contatti con il mondo esterno”. Arab confida ancora nella forza di suo padre, nonostante le ultime immagini abbiano fatto vedere una persona invecchiata, molto provata. Ricorda lo sciopero della fame “Libertà e Dignità”, guidato da lui. Era il 2017. Barghouti riuscì a coinvolgere oltre mille prigionieri palestinesi. Dopo 40 giorni Israele cedette su alcune richieste, ma non senza rivalersi sull’organizzatore. “Mio padre è forte, ma queste condizioni mirano a spezzare la volontà di qualsiasi persona. Anche per noi è molto difficile. Oggi le uniche notizie che abbiamo di nostro padre vengono dalle persone che hanno condiviso la prigione o che sono state liberate”. Alcuni prigionieri rimessi in libertà che hanno condiviso la prigionia con Barghouti hanno confermato al Sole 24 Ore le violenze fisiche e psicologiche a cui fu sottoposto. Dalle parole del figlio emerge un uomo del tutto diverso rispetto all’immaginario collettivo. “Chi non lo conosce pensa che possa essere una persona che intimidisce, ma non è così. È una persona semplice, ascolta molto, fa domande piuttosto che dare ordini. È un progressista, sostiene il femminismo. Anziché scoraggiarlo, la detenzione ha rafforzato il suo impegno per la causa palestinese”. Nel nome del padre, di quel suo padre amato ma non vissuto, Arab sembra intenzionato ora a rilanciare l’idea di un cambiamento sociale e politico. “Il futuro dipende dalla resistenza pacifica e dalla solidarietà internazionale. È fondamentale mantenere viva l’identità palestinese. Solo così si può sperare in un cambiamento reale e duraturo”. Quando si chiede della liberazione Arab riflette. “Come figlio, tutto quello che mi interessa è che venga liberato. Non mi interessa se diventerà il prossimo presidente o leader. Ma come palestinese, non sono orgoglioso delle nostre istituzioni. Il partito Fatah deve essere riformato. Se hai meno di 35 anni in Palestina, non hai mai votato”. Una figura unificante - “Mio padre è una figura unificante. È disposto a fare di tutto per unire i palestinesi sotto un unico ombrello. Ha una visione politica in linea con la comunità internazionale: parla di soluzione a due Stati, coesistenza, non di distruggere Israele”. Se diversi politici israeliani hanno valutato o chiesto la sua liberazione, per l’estrema destra al potere Barghouti è il fumo negli occhi. “Vogliono o un burattino da controllare o un oppositore estremista da usare come scusa per non dialogare. Ma se lo liberassero, esiliandolo, per lui sarebbe una tragedia”. Prima di congedarci, Arab torna sul lato privato del padre. “È difficilissimo vederlo perdere la calma, scurirsi in volto. L’unica cosa che lo turba è se sente che fumo o che non mi alleno. Lui si allena ogni giorno da oltre 20 anni in prigione. Spero di poterlo stringere un giorno”. L’ultimo, vero abbraccio, prima di quel vetro spesso, risale al 2002. Quanti sono davvero i Tso in Italia? Il doppio di quelli censiti di Chiara Daina Corriere della Sera, 20 agosto 2025 “Servono strumenti nuovi”. I Trattamenti sanitari obbligatori in Italia sono molti di più rispetto a quelli registrati al Ministero spesso a causa di una falla nei sistemi di comunicazione. Il professore Miravalle: “I comuni dovrebbero dotarsi di un Osservatorio”. C’è un paradosso che riguarda il trattamento sanitario obbligatorio (Tso) e rischia di essere un boomerang per la comunità: “Sui ricoveri forzati delle persone con alterazioni psichiche che rifiutano le cure, benché incidano sulla privazione della libertà individuale che è tra i diritti inviolabili dell’uomo, oggi sappiamo pochissimo: quanti sono, quanto durano, perché si fanno e quali categorie sociali coinvolgono”. La denuncia è di Michele Miravalle, professore di Sociologia del diritto all’Università di Torino e coordinatore del primo Osservatorio sui Tso in Italia, quello del capoluogo piemontese, nato nel 2024 da una convenzione tra Comune, ateneo, Asl e garante dei detenuti, per assicurare un monitoraggio del fenomeno, studiarne l’impatto e migliorare le risposte ai bisogni. Ci sarebbe infatti un ampio sommerso che non sprona i manager pubblici ad aumentare gli sforzi per offrire alternative efficaci e ridurre il ricorso ai Tso, come invece raccomandato dalla legge Basaglia. La Società italiana di epidemiologia psichiatrica (Siep) anticipa i risultati di un’indagine condotta nel 2023 in 18 Dipartimenti di salute mentale italiani: “Il tasso medio di ricoveri per Tso - dichiara il presidente, lo psichiatra Fabrizio Starace - è 2,2 ogni 10 mila abitanti nel 2022 e 2,3 nel 2023. È il doppio di quello ufficiale, pari a uno su 10mila, rilevato dal sistema informativo del ministero della Salute”. Anche i dati raccolti dall’Osservatorio della città di Torino contraddicono le stime istituzionali: 1.666 Tso effettuati tra il 2017 e il 2024 sul territorio comunale, in media circa 200 l’anno, contro i 371 riportati per tutto il Piemonte nel 2023 nell’ultimo Rapporto sulla salute mentale del ministero. Perché questo scarto? “La fonte di Istat e ministero sono le schede di dimissione ospedaliera, in cui però non si tiene conto dei tanti casi di chi viene ricoverato tramite Tso e, dopo alcuni giorni, accetta le cure trasformando il trattamento da obbligatorio a volontario. Di questo passaggio - spiega Miravalle - nelle schede non resta traccia. Secondo i fascicoli dei Tso prodotti dal Comune 8 pazienti su 10 sottoposti inizialmente a trattamento obbligatorio hanno poi aderito volontariamente alle terapie”. Starace, che dirige il dipartimento di salute mentale dell’Asl To5, segnala altre due condizioni che sfuggono ai controlli: “Quando la persona è ricoverata d’urgenza in stato di necessità, ma l’ordinanza di Tso del sindaco arriva dopo e la scheda ospedaliera, già compilata, non viene aggiornata con l’informazione. E poi quando il paziente, entrato volontariamente in ospedale, successivamente si oppone agli interventi sanitari e l’unico modo che il personale ha di praticare le cure è il Tso”. La mancanza di resoconti puntuali preoccupa gli esperti. “Il Tso non è solo una procedura medico-sanitaria ma anche di politica pubblica - sottolinea Miravalle - che limita l’autodeterminazione del singolo. Per questo i Comuni più grandi dovrebbero dotarsi di un osservatorio. Avere la giusta contezza di numero e durata dei trattamenti e profilo anagrafico dell’utenza permette di individuare i quartieri più fragili, capire quanto il disagio mentale sia legato a quello economico, potenziare le reti di sostegno e correggere gli approcci verso la persona che ripete più Tso”. La Siep ha riscontrato un altro aspetto su cui interrogarsi: “In un Tso su 5 si verifica almeno un episodio di contenzione meccanica, misura eccezionale che rischia di normalizzarsi”, avverte Starace. Un problema culturale, osserva lo psichiatra: “Secondo un sondaggio tra 1.018 operatori sanitari la scelta di tale pratica sembra influenzata non dal contesto ma dall’atteggiamento del personale: se ritiene la contenzione uno strumento terapeutico, non offensivo dei diritti della persona, allora è più probabile che la utilizzi”. La sentenza - Con una recente sentenza, la 76 del 2025, la Corte costituzionale ha stabilito che d’ora in poi il provvedimento di Tso emesso dal sindaco sarà notificato al diretto interessato e lo stesso sarà sentito dal giudice tutelare prima della convalida, per verificare lo stato in cui versa e garantire il rispetto del divieto di violenza fisica e morale. “Un giudice, lì per tutelare i suoi diritti, è figura diversa dal medico, visto come colui che costringe alla puntura. Ciò può infondere sicurezza alla persona e restituirle la dignità che sente di aver perso”, commenta Starace. Ma sia lui sia Miravalle sono critici rispetto a quanto sta accadendo dopo il verdetto della Corte: “I tribunali fanno le audizioni da remoto, in videocall, e spesso dall’altra parte del cellulare, prestato dall’infermiere, c’è un paziente che dorme sedato. Che senso ha?”. Il professore di Torino teme che non cambi nulla “se l’audizione viene interpretata dal giudice come l’ennesima incombenza e non un elemento di garanzia per il malato”. Migranti. Quelle bare lasciate al sole di Valeria Ferraro Il Domani, 20 agosto 2025 A Lampedusa non esiste una camera mortuaria per accogliere i corpi dei naufraghi. Ammassati a terra, in attesa di una sepoltura dignitosa. Sono rimasti così, per giorni, i feretri di alcune delle vittime della tragedia di Ferragosto di Lampedusa. Simbolo di una carenza strutturale che dura da anni e per la quale sono stati proposti progetti, stanziati fondi, ma senza riuscire a trovare una soluzione Tredici bare, protette dal sole con un sottile telo bianco, fermato con dei mattoncini rossi, erano sistemate per terra, vicino ai nuovi loculi del cimitero di Cala Pisana, a Lampedusa vicino al telone della Croce Rossa e a un deposito usato come camera mortuaria. In quelle casse di legno, segnate con lettere, ci sono tutt’oggi i corpi di tredici dei 23 migranti che hanno perso la vita nel naufragio del 13 agosto 2025, a meno di venti miglia dall’isola. Dopo il trasferimento a Porto Empedocle delle prime dieci bare, la sera di Ferragosto su un traghetto di linea, le altre son rimaste lì per tre giorni, in attesa di una destinazione o di un riconoscimento, per poi esser imbarcate a loro volta per la costa agrigentina, dove sono arrivate la mattina del 19 agosto. Sul molo, ad accogliere le salme, erano presenti autorità locali, rappresentanti delle comunità religiose e membri di organizzazioni non governative. Prima della cerimonia interreligiosa, alcuni dei 58 superstiti e diversi familiari hanno reso omaggio ai defunti. In silenzio, accompagnati dallo staff di Medici Senza Frontiere, si sono avvicinati alle casse. Un giovane è scoppiato in un pianto a dirotto appena ha Dopo la breve cerimonia inter-religiosa, le bare sono state trasferite nei comuni dell’agrigentino che hanno offerto disponibilità: due a Santo Stefano Quisquina, due a Campobello di Licata, due a Villafranca Sicula, una a Ribera, due a Santa Margherita del Belice e una a Cala Monaci. Il trasferimento dei corpi da Lampedusa a Porto Empedocle rientra in una prassi consolidata in Sicilia: il piccolo cimitero di Lampedusa non dispone infatti di strutture adeguate, come una cella frigorifera e una vera e propria camera mortuaria. Nei giorni successivi al naufragio, le bare erano state temporaneamente collocate in una sorta di deposito, ammassate in attesa delle ispezioni cadaveriche, prima, e della preparazione per i trasferimenti, poi. Il tema della gestione delle salme dei migranti è collegato al tema più ampio delle morti in mare. Come ricorda la professoressa Cristina Cattaneo del Laboratorio di Antropologia e Odontoiatria Forense di Milano (Labanof), che ha lavorato sui “grandi naufragi” del 2013 e 2015, circa 40mila persone hanno perso la vita nel Mediterraneo (dal 2014) e, almeno il 70 per cento resta senza nome. L’assenza di spazi idonei e di procedure sistematiche per il riconoscimento rende la gestione delle salme ancora più complessa. Lo scorso 26 giugno 2025, il Partito Democratico aveva avanzato una richiesta al ministero dell’Interno sul tema delle “condizioni indecorose” del cimitero di Cala Pisana a Lampedusa. A provocare l’indignazione del Pd era stata la presenza, per circa dieci giorni, delle salme di due bambini nel deposito adibito a camera mortuaria. Quattro anni prima, l’allora sindaco Totò Martello già si pronunciava in favore dell’allestimento di uno spazio adeguato alla conservazione dei corpi e per il riconoscimento, un passaggio necessario per dare la possibilità ai parenti di elaborare il lutto, ma anche di poter affrontare le pratiche amministrative legate a eredità e successioni. Le richieste di riconoscimento arrivavano all’ex sindaco già da Tunisia e Algeria, con messaggi di familiari che chiedevano il prelievo del Dna, per effettuare i successivi test. Durante il suo mandato, Martello aveva annunciato un piano di ristrutturazione da 1,5 milioni di euro per realizzare - così diceva all’Agi nel 2021 - “una cella frigorifera, spazi per i parenti e un ufficio per la registrazione dei defunti”. Ma i lavori, iniziati nel dicembre dello stesso anno e proseguiti fino all’estate 2022, si sono fermati a un primo lotto da 613mila euro, senza realizzare le strutture previste. Quest’anno, a maggio 2025, il comune di Lampedusa ha approvato un “Progetto esecutivo per il completamento dell’ampliamento del cimitero comunale di Cala Pisana”, con ulteriori 350mila euro stanziati. In questi giorni, il Sindaco Filippo Mannino ha dato la disponibilità alle sepolture dei migrati, sostenendo di avere circa 300 nuovi loculi. Della tanto discussa cella frigorifera e di una camera mortuaria, però, ancora nessuna traccia. In questi anni, l’iniziativa di privati e associazioni ha contribuito all’allestimento di alcune aree dedicate ai migranti. Nella parte del cimitero vecchio, dove si trovano alcune lapidi con le raffigurazioni dei volti e i nomi, con i racconti della storia di chi ha perso la vita in mare. Nella parte nuova, invece, c’è un’area dedicata, soprattutto, bambini, con croci preparate con i resti delle barche. Per alcune tombe si conoscono le storie, come quella di Joseph, partito dalla Guinea. Alle spalle delle tombe, un muro con raffigurato un sole e tante foglie di ceramica, con le date dei naufragi e senza nomi. A oggi resterebbero da identificare cinque delle vittime del naufragio del 13 agosto, almeno di quelle recuperate, mentre tra i dispersi si contano ancora 15-20 persone. Nelle concitate ore dopo il naufragio, mentre si iniziava a delineare il quadro della condizione dei superstiti, del possibile numero di morti e dispersi e della dinamica dell’incidente, la rappresentante della Croce Rossa Italiana, Cristina Palma, ha rassicurato sullo stato di salute dei superstiti e sull’avviamento delle ispezioni necessari per riconoscimento, basato soprattutto su foto mostrate ai superstiti e ai parenti in arrivo. Un ruolo di supporto alle familiari delle vittime dei naufragi è dato dall’associazione Memoria Mediterranea (Mem. Med), impegnata ad assistere i parenti nelle procedure di identificazione e, quando possibile, nel rimpatrio delle salme. “Stiamo seguendo famiglie anche a distanza, tramite videochiamata - spiega la presidente Silvia Di Meo - per aiutarle a ritrovare i propri cari”. In altri contesti, come il naufragio di Steccato di Cutro, del 26 febbraio 2023, l’equipe di Mem.Med è stata in prima linea per richiedere la raccolta di campioni di Dna, per identificare le vittime, e aiutare nelle procedure di rimpatrio delle salme. A oggi, in Italia, non esiste un obbligo a rintracciare l’identità dei migranti morti in mare, a meno che non vi sia un’indagine giudiziaria. Nel caso del naufragio del 13 agosto, la procura di Agrigento ha recentemente aperto un fascicolo per chiarirne le cause. Dal 14 agosto la prefettura ha autorizzato la sepoltura delle vittime, disponendo i trasferimenti nei cimiteri dell’agrigentino. I primi trasferimenti sono avvenuti il 15 agosto, dopo verifica della disponibilità da parte dei comuni della provincia. Come affermato dal prefetto di Agrigento, Salvatore Caccamo, sul molo di Lampedusa: “Abbiamo lavorato in prefettura per sistemare le salme, per accoglierle per dare loro una sepoltura dignitosa”. Un lavoro portato avanti nonostante Ferragosto che, per gli uffici pubblici non è esattamente il periodo più semplice. Richieste di accoglienza delle salme sono arrivate anche da lontano, ha ricordato il prefetto, come dal Comune di Soave, in provincia di Verona. La decisione dei luoghi di sepoltura, però, è un tema cruciale per i familiari che vorrebbero poter essere vicini alle tombe. Solo qualche giorno fa, la donna somala che ha perso la figlia di undici mesi e il marito, ha avanzato un accorato appello al sindaco Vincenzo Corbo di Canicattì, chiedendo di bloccare la sepoltura dei propri cari fino a quando non fosse sicura di dove sarebbe andata lei. Alla fine, però, la donna ha acconsentito chiedendo, almeno, il rispetto della sepoltura a terra. Come da tradizione islamica, la sepoltura prevede l’inumazione a terra e i nuovi loculi di cemento del cimitero di Lampedusa non sembrano corrispondere alle esigenze rituali. Per quanto riguarda le richieste di rimpatrio, al momento - spiega Di Meo - non sono state avanzate, non per volontà dei familiari, perché “rimpatriare il corpo nei paesi di origine significa aspettare più tempo e anche sostenere dei costi che molti loro non possono affrontare”. La vicenda delle bare di Lampedusa non riguarda solo l’ultima tragedia. È il simbolo di una carenza strutturale che dura da anni e per la quale sono stati proposti progetti, stanziati fondi, ma in modo non ancora efficace. Così, insieme alle domande sul perché quelle persone non siano state salvate quando ancora si era in tempo, si aggiungono quelle sul destino dei corpi senza nome e delle ultime tre bare che, ancora, restano sul suolo del cimitero di Lampedusa. Ancora una volta, probabilmente, i corpi dei migranti saranno spostati altrove, mentre Lampedusa, epicentro delle rotte migratorie nel Mediterraneo e, appena, candidata all’Unesco per l’accoglienza sulle sue coste, ha ancora bisogno di un edificio decoroso per espletare le procedure funerarie. Migranti. Pantelleria, ispezione a sorpresa nell’hotspot di Giansandro Merli Il Manifesto, 20 agosto 2025 “Pochi migranti, ma trattenuti”. Criticità rispetto all’informativa sull’asilo, ai diritti di difesa e comunicazione. La deputata Pd Rachele Scarpa e la ricercatrice dell’Associazione per gli studi giuridici sull’Immigrazione Greta Albertari hanno realizzato ieri un’ispezione a sorpresa nell’hotspot di Pantelleria. Una struttura di cui si parla poco, lontana dalle luci mediatiche, dove negli anni scorsi si è registrato un flusso consistente di migranti, quasi tutti tunisini partiti dalle coste del nord. Dall’anno record del 2023, quando c’erano stati migliaia di sbarchi, si è registrato un calo verticale degli arrivi dal paese di Kais Saied. Nel 2025, fino a luglio, sono stati circa 400. Ieri nel centro c’erano due migranti. “Anche in una fase di sbarchi ridotti a pochissime persone gli hotpost fanno registrare criticità che rischiano di moltiplicarsi con i nuovi investimenti su questo modello in vista del Patto Ue immigrazione e asilo che entrerà in vigore a giugno 2026”, afferma Scarpa. Quelle rilevate ieri riguardano soprattutto le informazioni sul diritto d’asilo somministrate ai cittadini stranieri, che su quella base compilano i moduli da cui dipende il loro trasferimento in detenzione, in un Centro di permanenza per i rimpatri, o in accoglienza. Il “soggiorno” sull’isola è in genere di un paio di giorni ma può prolungarsi fino a quattro o cinque, in caso di maltempo. “Abbiamo rilevato come ancora una volta negli hostpost, e in quello di Pantelleria in particolare, le persone si trovano in situazioni di trattenimento di fatto - afferma Albertari - Senza garanzie giurisdizionali, con i diritti di comunicazione e difesa fortemente limitati”. Quei leader in gioco e l’arte dell’inganno di Domenico Quirico La Stampa, 20 agosto 2025 Come quei pesci degli abissi abituati alla pressione costante di molte atmosfere che quando salgono in superficie non riescono ad adattarsi alla sconosciuta levità e muoiono per insufficienza di pressione, i protagonisti dello stento negoziato per la guerra in Ucraina, rintanati comodamente da più di tre anni nei furori di reciproci vituperi sempre oltre misura, adesso che emergono alla superficie, affastellati in tavoli e tavolini negoziali, non riescono a fidarsi l’uno dell’altro. E rischiano di lasciar passare invano il breve momento buono, l’occasione per farla finita. Purtroppo questi sinedri di figure, gravi arcigne e sonnolente, mancano del nutrimento essenziale per qualsiasi accordo di pace, la fiducia e il rispetto reciproco. Allora è tutto un tira e molla, una altalena, un dà che forse do, un va e vieni. La finta diplomazia di questi giorni non è l’arte della assicurazione e della contro assicurazione, ma semmai dell’inganno e del para inganno, dello scavare tante buche per l’avversario da non saper poi come camminare trovandosele intorno ai piedi. Democratici chiacchieroni, reazionari infrolliti, tirannelli arroganti: incapaci di volere il bene e il male fino in fondo, invischiati nei mezzi termini e nei pregiudizi. Berteggiano i creduloni che parlan dei loro post e dei summit come “storiche occasioni”. Prendete Macron, l’europeista volenteroso che per “fidarsi” pretende di presidiare con i suoi soldati l’Ucraina per toglier la voglia alla “revanche” putiniana. Che cosa Macron non sa, lui zeppo di esperienze, che ha conosciuto tutto, catalogato tutto, sviscerato tutto, fatto i conti di tutto? Ha precisato, a scanso di equivoci che noi europei conviviamo con un orco alle porte… ovvero Putin. Un pensierino destinato a lasciare i suoi solchi. Avete mai letto una fiaba in cui si fa la pace con l’orco? Non sorprende che ci sia qualcosa che ci condanna nel Decrepito Continente a restare soli con lui, la trattativa con simili personaggi al tavolo è destinata a procedere a strattoni, a urtare con mille ostacoli, a capovolgersi. Come volete che venga fuori qualcosa di buono? Ci vorrebbe semmai un farmacista politico che, non potendo guarire il mondo dal disordine, sappia almeno addormentarlo. Il sonnifero si chiama equilibrio. Che può esser bevanda composta da un equilibrato dosaggio di egoismi. È un problema di uomini dunque. Ma soprattutto è un problema di regole, annaspa un Grande Gioco in cui non c’è accordo su come giocare. Il congresso di Vienna fu un esempio perfetto di trattativa ben condotta, che metteva alla pari perfino lo sconfitto. Perché tutti i protagonisti, anche Talleyrand condividevano un sistema di pensiero e un orizzonte politico, l’Antico regime, che avevano il compito di restaurare dopo la bufera napoleonica. Oggi non c’è nessun ordinamento, dritto o storto, a cui si possa far riferimento per verificare che ognuno dei contraenti poi applichi quanto promesso e che, in caso di violazione possa ragionevolmente mettere in conto una punizione collettiva efficace. Allora: la fiducia. Prendiamo il più importante dei protagonisti, quello che si illustra come l’onesto sensale indaffarato a spegnere una “guerra stupida”, sì lui il melmoso Trump. È la dimostrazione antropologica del principio, condiviso anche da Napoleone, che ci sono due cose che muovono gli uomini, l’interesse e la paura. Tutto il resto è una stupida infatuazione su cui è pericoloso fare assegnamento. Trump non è amico di nessuno, neppure di quelli che potrebbero essere i suoi alleati. Agisce e si ritira, dice e poi dice il contrario secondo il proprio interesse. È intensamente egoista, è perfido, bara sulle carte, è un prodigioso pettegolo, si vanta di sapere tutto, ha maniere grossolane ma esige gli evviva e le adulazioni della strada e dei vassalli. Rifiuta di fare il garante, al massimo aderisce a qualche lucroso affare. Si sbaglia a sospettare dietro il pacifista il ciurmatore? Vi fidereste di uno così in cui il metodo diplomatico consiste nel sottoporre i suoi “ospiti” alternativamente a blandizie o a maniere da brigante, dar ragione sempre all’ultimo che ha incontrato salvo poi rovesciare il copione nell’incontro successivo. Zelensky è sopravvissuto a questo metodo, il getto di sassi che si mette in getto di fiori. Così è tornato a casa contento, soprattutto di far marcire nel vago queste dismissioni di terre sacre. Che sarebbe tra l’altro una delle chiavi da introdurre preventivamente per schiudere il negoziato. E Putin? Che cosa ci vorrebbe per aver fiducia in uno che, come Gulliver a Lilliput, è convinto della inferiorità di tutti quelli che gli stanno intorno? Per tenere a bada un personaggio che legge la Storia come un immenso testo liturgico in cui i versetti sono gli immancabili destini della Santa Russia e crede nelle sue cinquemila bombe atomiche e non fargli venire tentazioni, forse non bisognerebbe ripetergli che non vediamo l’ora di poterlo processare in base a un diritto che solo noi riconosciamo. Putin e Trump: quale scintilla può mai nascere da queste due centrali elettriche? L’Ue balla al ritmo di Re Donald e a Giorgia Meloni va bene così di Paolo Delgado Il Dubbio, 20 agosto 2025 La musica della Casa Bianca le piace per molte ragioni. Premia il suo ruolo con la sostanziale accettazione della strategia ideata dall’Italia sul fronte delle garanzie di sicurezza per l’Ucraina, l’unico argomento di cui si sia parlato in modo più approfondito a Washington. La genuflessione dei leader europei, inoltre, allontana lo spettro di una rottura del capo occidentale, il più temuto in assoluto dalla premier italiana che intende sfruttare quanto più possibile il ruolo di ponte sull’Atlantico. Se lo è attribuito in realtà da sola, ma con il tacito e non sempre tacito assenso di Ursula von der Leyen. Ma Trump sta al gioco: nella conferenza stampa alla Casa Bianca ha voluto l’italiana vicina, le ha dato la parola per seconda, tra i leader europei, dopo Merz ma prima di Macron e Starmer, annuiva vigorosamente alle sue parole. In realtà qualche punto di dissenso, pur se tenuto volutamente in understatement, a Washington e di nuovo ieri nell’intervista del presidente americano a Fox News è emerso. Il presidente degli Usa, con una di quelle giravolte repentine che lo distinguono, ritiene ora possibile trattare anche senza il cessate il fuoco. Merz e Macron hanno invece citato chiaramente la necessità prioritaria del far tacere le armi. Giorgia non si è unita al coro. Ha glissato in omaggio al vincolo con il tycoon. Ma anche l’uscita del cancelliere tedesco e del presidente francese era più spettacolo che sostanza. Zelensky, consapevole di non poter irritare l’uomo della Casa Bianca, ha glissato sul punto e se è disposto a incontrarsi con Putin lui nonostante continuino a vadere le bombe, le proteste dei due leader di Germania e Francia sono destinate a restare lettera morta. Ieri, poi, Trump ha assicurato che gli Usa non interverranno mai ‘ Boots on the Ground’ in Ucraina, neppure come forza di pace. Ma ha aggiunto che invece proprio quella è l’intenzione di Francia, Germania e Uk. Lo scoglio è però meno difficilmente superabile di quanto sembri. Una missione europea senza il semaforo verde della Russia è letteralmente inimmaginabile nel contesto di un percorso verso la pace. Ma se quel semafor verde ci sarà, e dunque se la missione di pace sarà decisa dall’Onu, l’Italia non avrà difficoltà nell’aderire a una spedizione alla quale per ora resta contraria. Infine Meloni, come tutti in Europa, torna da Washington soddisfatta perché spera che uno ‘ spiraglio di dialogo’ si sia aperto davvero. Nulla di più di uno spiraglio, sia chiaro. Il capitolo affrontato a Washington, la sicurezza, non è affatto semplice. La Russia ha già messo sul tavolo la sua richiesta di garanzie contro la Nato. Ma è pur sempre una trattativa più facile di quella sulla cessione di territori. A Roma sanno perfettamente che immaginare un ritiro di Putin dalle terre che ha occupato sarebbe del tutto irrealistico. Sperano però che lo zar, in cambio di una serie di contropartite tra cui il corridoio per la Crimea, accetti di spartire le terre che hanno davvero valore, quelle con il sottosuolo prezioso. Su questo capitolo, ancora tutto da aprirsi, in Europa convivono tendenze opposte. Soprattutto il muscolare Macron mira a puntare i piedi. Ma l’Europa, in questa partita, è condannata a restare comprimaria. Se Zelensky accetterà la cessione di territori, nessuno in Europa azzarderà una critica. E la posizione di Zelensky dipende non dal negoziato con gli europei ma solo da quello con Donald Trump. Su quel fronte l’Italia si trova in una posizione effettivamente delicata. Se l’Ucraina si irrigidirà Roma sarà al fianco di Kiev e di tutta l’Europa. Se Zelensky si dimostrerà ‘ flessibile’, come auspica e come gli chiede l’americano ma anche come si augura senza poterlo ammettere la premier italiana, non ci saranno problemi di sorta. Dunque la premier è tornata dalla girandola di vertici di due giorni fa convinta di aver portato a casa una mano vincente, ma anche consapevole che la partita è ancora tutta da giocare. I giudici e quello scudo (utile all’accusa) per Meloni su Almasri di Errico Novi Il Dubbio, 20 agosto 2025 La politica d’estate è spiazzante. Divora tutto con compulsiva indifferenza. Persino il caso Almasri è fagocitato dalla necessità di colmare l’inevitabile vuoto agostano con nuovi continui surrogati. Eppure i tornanti senz’altro decisivi attraversati dal mondo nelle ultime ore suggeriscono, molto indirettamente, un ritorno all’ordalia provocata dal militare-torturatore libico, dal suo rimpatrio e dalla conseguente richiesta, avanzata dal Tribunale dei ministri, di processare quattro componenti del governo per la gestione di quella vicenda. Lo spunto viene in realtà dal preludio ai vertici promossi da Donald Trump prima con Putin e poi, due giorni fa, con Zelensky e i leader europei. Com’è noto, il presidente americano aveva accarezzato l’idea di incontrare lo zar russo nella nostra Penisola, più precisamente in Vaticano, ma con un protocollo che non è mai stato definito, ovviamente, e che magari avrebbe richiesto l’atterraggio in suolo italiano di un aereo con Putin a bordo. È un ipoteso dell’irrealtà: ma è impossibile trattenersi dal fantasticare sull’eventualità che Giorgia Meloni potesse sentirsi intimare la consegna del boss di Mosca alla Corte dell’Aia. Pretesa irragionevole, certo: ma la corsa alla cattura del criminale Putin avrebbe certamente entusiasmato larga parte dell’opinione pubblica. Ci sono, sempre per restare all’astratta e immaginaria calata putiniana su Roma, ragioni di Stato che prevedono e sovrastano persino i procedimenti per crimini di guerra aperti dinanzi alla Corte penale internazionale. Ora, è noto anche, per tornare finalmente ad Almasri, come l’Esecutivo Meloni si sia ben guardato dal gestire la comunicazione sul rimpatrio del militare e torturatore libico come sarebbe dovuto avvenire con un problema di sicurezza nazionale. Tanto per essere chiari, il governo ha accuratamente evitato di riparare tutte le operazioni dello scorso mese di gennaio sotto l’ombrello del segreto di Stato. Un errore. Ma è difficile tacere che nell’atto con cui la magistratura (il Tribunale dei ministri per il tramite della Procura di Rima) ha chiesto al Parlamento, il 5 agosto scorso, l’autorizzazione a procedere contro Mantovano, Piantedosi e Nordio, l’intera impalcatura dell’accusa escluda proprio l’esigenza della sicurezza nazionale. Ma soprattutto: l’esclusione di Giorgia Meloni dal quadro delle imputazioni, la richiesta di archiviazione che le tre giudici del Tribunale dei ministri hanno formulato per la premier, è funzionale, o per meglio dire coerente con l’idea che gli altri tre accusati, il sottosegretario e i due ministri, non abbiano agito per la tutela della sicurezza nazionale - idea che avrebbe implicato irrinunciabilmente un preciso ordine della presidente del Consiglio - ma per motivi diversi. Solo se si accantonava l’ombrello della sicurezza da preservare - cioè l’ombrello del segreto di Stato - la magistratura poteva accusare Mantovano e Piantedosi di aver, semplicemente, commesso favoreggiamento e peculato e Nordio di essersi macchiato pure di omissione d’atti di ufficio. Se la richiesta di autorizzazione a procedere avesse colpito anche Meloni, sarebbe stato inevitabile confermare, anche solo indirettamente, che il caso Almasri aveva riguardato davvero esigenze di sicurezza, anziché torbide e non meglio decifrate connivenze transnazionali. Solo con Meloni archiviata, si può parlare di reati “ministeriali”, cioè commessi da un guardasigilli, un sottosegretario alla Presidenza e dal Capo del Viminale nell’autonomo esercizio delle loro funzioni. Non siamo davanti a un abuso interpretativo, intendiamoci. Il Tribunale dei ministri propone una logica possibile. Che magari, da settembre in poi, la Giunta per le Autorizzazioni di Montecitorio smonterà. Ma che certamente terrà l’Esecutivo di Meloni, e di Nordio - il separatore delle carriere di giudici e pm - esposti alla tempesta ancora per un bel po’. Non appena agosto si sarà portato via con sé le abituali amnesie. Stati Uniti. Gli avvocati del diavolo di Davide Longo Il Manifesto, 20 agosto 2025 A Houston, in Texas, decine di legali promettono l’impossibile ai migranti senza documenti, si fanno pagare migliaia di dollari e poi spariscono, lasciando i propri assistiti in balia dell’Ice. “Ti hanno detto che il tuo caso è impossibile da risolvere? Scopri come noi trasformiamo l’impossibile in un miracolo”. Inizia così un video di Alexandra Lozano, avvocata di Houston, Texas, che promette a chiunque faccia domanda l’ottenimento di un visto regolare di permanenza negli Stati uniti. Onnipresente sui social, Lozano si fa chiamare l’Avvocata dei Miracoli e si fa pagare fino a 15mila dollari a prestazione dai propri assistiti - di solito famiglie delle quali almeno un membro risiede negli Stati uniti senza un visto regolare - ai quali viene promessa una regolarizzazione del proprio status legale e addirittura l’ottenimento della cittadinanza statunitense. In realtà dietro a questi casi si nasconderebbe una vera e propria truffa, come denunciato alcuni giorni fa dall’associazione Familias Imigrantes y Estudiantes en la Lucha (Fiel), fondata nel lontano 2007 da un gruppo di migranti senza documenti e diventata oggi una delle principali organizzazioni che si occupano dei diritti delle persone senza documenti nell’area di Houston. Ne ha parlato al manifesto Cesar Espinosa, direttore esecutivo dell’associazione. “Lo schema è sempre lo stesso - racconta Espinosa - Questi avvocati senza scrupoli promettono ai loro assistiti l’ottenimento del permesso di lavoro e assicurano loro che con quel documento non potranno essere deportati. Poi promettono la residenza permanente, la cosiddetta green card, in tempi brevi, e dopo tre anni l’ottenimento della cittadinanza”. Le cose vanno molto diversamente. Lo dimostra il caso di José Fernando Yax Yax, uno dei tanti immigrati latinoamericani che da anni vivono, lavorano e pagano le tasse nella città di Houston. Alcune settimane fa, dopo essersi recato all’ufficio immigrazione della città nella speranza di poter regolare la propria posizione legale, José è stato arrestato dagli agenti della Immigration and Customs Enforcement (Ice) e deportato senza processo in Guatemala. José e la sua famiglia erano stati affiancati dall’avvocata Christine Meneses nella richiesta del permesso di lavoro. Meneses, che ha ricevuto circa 14mila dollari per la propria consulenza, avrebbe spinto l’uomo a dichiarare il falso alle autorità dell’immigrazione, consigliandogli di dire di essere vittima di abusi e violenze domestiche. In questo caso, il migrante può accedere a una corsia preferenziale per l’ottenimento della residenza permanente, secondo la cosiddetta legge Vawa (Violence Against Women Act). Come ha dichiarato l’avvocato Raed Gonzalez però, “questa legge si utilizza di solito in caso di violenza domestica o seri abusi di natura fisica o mentale, come la privazione del sonno, le percosse, ripetuti abusi psicologici. In questo caso viene dunque citata perlomeno in maniera impropria”. Intascato il denaro e riempiti i moduli per la richiesta, l’avvocata si sarebbe dileguata: presentatosi all’ufficio immigrazione per riempire la propria richiesta, José è stato identificato come irregolare, arrestato e deportato. Oggi la sua famiglia chiede giustizia, anche perché gli abusi dichiarati da José dietro consiglio dell’avvocata Meneses non ci sarebbero mai stati. Secondo la moglie di José, la cittadina statunitense Sabina Victoria Caxaj, il procedimento è avvenuto “per una violenza domestica che non è mai avvenuta nella mia casa. Hanno semplicemente montato un caso fraudolento e ci hanno detto di mentire alla legge per ottenere i documenti più velocemente”. Come ha spiegato al manifesto l’avvocato Raed Gonzalez, “la presentazione di domande Vawa fraudolente è un reato federale e può comportare l’espulsione, la perdita dei benefici in materia di immigrazione e altre conseguenze legali”. Quello di José non è un caso isolato, ma rappresenta la punta dell’iceberg di un modus operandi di una rete di avvocati - decine nella sola Houston - che promettono l’impossibile, si fanno pagare migliaia di dollari e poi spariscono, lasciando i propri assistiti in balia degli arresti e delle deportazioni compiute da Ice. “Questi sono avvocati, ma si comportano più che altro come curanderos miracolosi - continua Cesar Espinosa - Il risultato sono migliaia di dollari sottratti dalle tasche di persone disperate, che farebbero di tutto per regolarizzare la propria posizione”. Secondo l’associazione non saremmo in presenza di un caso isolato, ma di un vero e proprio racket: sarebbero finora centinaia i casi di persone deportate a seguito di questo tipo di procedura legale, e si tratta perfino di un numero sottostimato. Solo nell’area metropolitana di Houston, su quasi otto milioni di abitanti, circa un milione e mezzo sono nati fuori dagli Stati uniti e almeno mezzo milione sono senza documenti. “Vista la corsa alla regolamentazione del proprio status in atto in questi giorni, una risposta fisiologica alle nuove misure in materia di immigrazione messe in campo dall’esecutivo Trump, potrebbero essere migliaia le persone incappate in questo vero e proprio raggiro legale - ci spiega Alain Cisneros, coordinatore delle attività dell’associazione Fiel - Molto spesso le persone cadono in questi tranelli perché pensano che l’avvocato al quale si sono rivolti ne sappia più di loro, e come biasimarli?”. Ora Fiel - insieme al gruppo di avvocati che affiancano l’associazione - ha deciso di dare battaglia su questo fronte, lavorando innanzitutto alla sensibilizzazione dei migranti sul tema. “La nostra scommessa, oggi, è educare le persone su quali siano i loro diritti e lavorare per organizzarle e contrattaccare ogni volta che questi vengono violati - dice Cesar Espinosa - L’alternativa sarebbe alzare le mani e arrenderci agli eventi, ma non vogliamo farlo. Se rimarremo in silenzio non solo continueremo a subire le prepotenze di questi avvocati senza scrupoli, ma lasceremo loro anche mano libera per truffare e approfittarsi di altre persone”.