Qualcuno spieghi cos’è la “detenzione differenziata” di Ornella Favero* L’Unità, 1 agosto 2025 Differenziata da cosa? Cosa farà la Commissione di valutazione a cui verrà sottoposto il programma terapeutico di ogni detenuto? E da chi è composta la task force? L’estate in carcere è il contrario che in libertà: è triste, è soffocante, è angosciante. Ed è funestata dai “piani carcere”, che tornano a prenderci in giro con regolarità disarmante. Ho preso in mano il piano del 2014, ed è praticamente una fotocopia di quello appena presentato dal governo. Che però ha in più alcune definizioni “creative”, il nulla raccontato come se potesse davvero accadere. Quanto alla liberazione anticipata, ci viene detto che si “irrobustisce” il profilo informativo, “soprattutto nella prospettiva del massimo aggiornamento delle relazioni del detenuto”. Cioè, spiegateci: “il massimo aggiornamento” significa che i giorni restano sempre gli stessi, ma qualcuno (i magistrati?) ti chiarisce, perdendo tempo ed energie, quello che tutti già sanno, cioè a quanti giorni hai diritto se non fai cazzate e non te li giochi malamente? Qualcuno poi (il Ministro) ci ha detto che sarebbe un cedimento dello Stato concedere ogni anno due mesi in più di liberazione anticipata per tutte le inutili sofferenze, ristrettezze, violazioni dei diritti subite dalle persone detenute. E se la chiamassimo invece “compensazione”? Quella che l’Europa ci ha chiesto, quando ci ha suggerito che se non sappiamo garantire ai detenuti il rispetto della legge, cerchiamo almeno di dargli qualcosa che “compensi” la dignità trascurata e offesa. Ma come possiamo noi volontari rispondere alla “macchina da guerra” mediatica e politica che racconta che anticipare l’uscita dal carcere, per persone, già vicine al fine pena, di una manciata di giorni significa mettere a rischio la sicurezza del Paese? Chiamasi “detenzione differenziata” il fatto che nel piano carcere sono citati 10.000 detenuti che sembrerebbero “inviabili” alla detenzione domiciliare. Dice il sottosegretario Alfredo Mantovano “Con questo disegno di legge introduciamo un’innovazione importante. Offriamo ai tossicodipendenti e agli alcoldipendenti che hanno commesso reati un’alternativa seria, concreta e verificabile: la detenzione domiciliare in una comunità di recupero”. Ma l’alternativa seria diventa ben presto la moltiplicazione dei “pani e dei pesci” fatta dal ministro Nordio che parla di far andare in comunità 10.000 tossicodipendenti! “Considerando che il 31% usa sostanze stupefacenti o alcoliche, se solo un terzo partecipasse a questo tipo di programma avremmo una diminuzione di diecimila tossicodipendenti nelle carceri. Questo ridurrebbe in maniera sensibile il sovraffollamento”. Ma se le carceri sono piene di detenuti tossicodipendenti con due, tre anni di residuo pena, se posti in comunità non è certo facile trovarli, se non si sa chi paghi, se il tanto promesso albo delle comunità non si capisce dove sia finito, a che cosa può servire rendere possibile l’accesso alle comunità non più sotto i sei anni, bensì sotto gli otto anni? Si chiama “detenzione differenziata”, ma differenziata da cosa? Dal fatto che qui la fantasia e l’approssimazione non hanno limiti? (E cosa farà la commissione di valutazione a cui verrà sottoposto il programma terapeutico di ogni detenuto?). Le “carceri in centro città o con vista mare”, dice il commissario all’edilizia Marco Doglio, non saranno vendute ma “valorizzate e trasformate”. “Valorizzazione immobiliare” è la nuova, fantasiosa creazione del governo, ti requisisco la cella vista mare e in cambio ti do un container, un prefabbricato modello Albania, l’ultima trovata in fatto di collocazione delle persone detenute in spazi ristretti per dormire, mangiare, forse respirare, non certo per scontare una pena che “tenda alla rieducazione” come chiede la Costituzione. Domanda: ma quando il commissario dice che “l’approccio è nuovi moduli, ampliamenti, ristrutturazioni e operazioni immobiliari su larga scala”, che cosa sono queste operazioni immobiliari e come dovrebbero fruttare nuovi posti branda? togliendo ai detenuti la vista mare e “vendendola” ai migliori offerenti? Se non ci fosse stato il Covid, una disgrazia per tutti, ma non per le persone detenute, ora non esisterebbero le videochiamate, introdotte durante la pandemia e che nessuno ha avuto più il coraggio di togliere. Pareva che finalmente si fosse capito che le telefonate devono essere liberalizzate come già succede in tanti paesi, perché sono una delle poche forme vere di prevenzione dei suicidi; rafforzare le relazioni, dilatare al massimo gli spazi per gli affetti è infatti forse l’unico modo per far sentire le persone meno sole e isolate. E invece no, troppo lusso, quello che il piano carceri “epocale” concede sono due miserevoli telefonate in più al mese, non c’è neppure il coraggio di fare una piccola riforma a costo zero come la liberalizzazione delle telefonate. Per finire, dovremmo forse sentirci rassicurati dalla creazione di una task force, espressione con cui si indica “un ristretto gruppo di persone, altamente competenti e/o specializzate, con funzioni e compiti specifici al compimento di un’operazione o di uno scopo”, task force che una volta a settimana dovrebbe riunirsi. Per fare cosa? Come cittadina coinvolta nella vita delle persone detenute a tal punto, che nel mese di luglio entro ancora ogni giorno, con tanti volontari, per garantire una boccata di ossigeno a chi deve vivere questa estate asfissiante in galera, vorrei sapere da chi è composta e cosa farà questa “task force”. Chiedo troppo? *Direttrice di Ristretti Orizzonti L’Alligator Alcatraz di Nordio di Franco Corleone L’Espresso, 1 agosto 2025 L’appello di Mattarella e la sollecitazione del Presidente del Senato per interrompere la spirale di tragedia che avvolge le carceri italiane sono caduti nel vuoto. Peggio. I provvedimenti usciti da un Consiglio dei ministri straordinario provocano un vero sconcerto e un sentimento di desolazione. Le promesse sono sempre le stesse, ripetute stancamente: limitare le presenze in custodia cautelare, rimpatrio dei detenuti stranieri, trasferimento dei “tossicodipendenti” in comunità chiuse. Sullo sfondo viene evocato il progetto taumaturgico del commissario per l’edilizia penitenziaria che segnerà un ennesimo fallimento. Infatti la Corte dei Conti è feroce nel giudizio sulle realizzazioni, sui costi e sulle modalità di gestione del Piano Carceri (deliberazione del 18 aprile 2025, n. 42/2025/6). L’indagine in maniera lapidaria rileva: “La costruzione di nuove carceri e la ristrutturazione e l’ampliamento di quelle esistenti assorbono ingenti risorse finanziarie, ma non riescono a migliorare, in modo tangibile le condizioni di vita dei detenuti, a causa del continuo aumento del loro numero”. Dall’analisi dei dati riportati si desume “l’eccessiva mutevolezza delle scelte programmate e la conseguente precarietà delle relative assegnazioni di fondi”. L’irrazionale gestione dei fondi ha provocato una spesa tre volte superiore all’importo originariamente previsto. La novità. Un capitolo a parte è quello dei moduli prefabbricati da inserire nei pochi spazi verdi degli Istituti esistenti. La descrizione ufficiale del modulo prefabbricato in calcestruzzo è davvero esilarante, una comicità non voluta ma smisurata. Ogni blocco di detenzione conterrà 24 posti. Una prima mandata di quattrocento moduli in via sperimentale per 384 posti, ciascuno dei quali costa 83.000 euro. Il costo totale è di 32 milioni di euro per 384 posti. L’obiettivo è 1.500 moduli da realizzare gradualmente. Avanguardia edilizia di un programma da cui si attende di poter realizzare 7.000 nuovi posti in tre anni a partire dal 2025. Un modulo potrà contenere 6 celle con 4 posti letto e un bagno dotato di un boiler (protetto da gabbia antivandalo); l’arredo è composto da un tavolo monoblocco in metallo assemblato per resistere ai tentativi di scardinamento e con quattro sgabelli incorporati fissati al pavimento. Un carcere dentro il carcere con una recinzione metallica di adeguata robustezza e di una altezza di almeno cinque metri. Altro che panottico, si creano container per l’ammassamento di corpi con un progetto necrofilo. Tutta la procedura è affidata a Invitalia. Il banchetto può iniziare, ricordo che negli anni Novanta del secolo scorso feci scoppiare lo scandalo delle carceri d’oro. Bisognerà bloccare questo scempio. Esiste un progetto alternativo con tante proposte per rendere il carcere una extrema ratio e realizzare i principi della Costituzione, eliminando la detenzione sociale e prevedendo il numero chiuso e le case di reinserimento sociale: incentivare le misure alternative al momento della cognizione con un piano di housing sociale, chiudere le case lavoro per internati, un esempio di archeologia criminale di stampo fascista, imporre l’applicazione della sentenza 99 della Corte costituzionale per una detenzione terapeutica per le persone con problemi di salute mentale e infine realizzare un piano per garantire il diritto alla affettività. Umanità contro barbarie. Tre suicidi normali di Alessandro Trocino Corriere della Sera, 1 agosto 2025 Nulla si muove, nei 190 penitenziari italiani. L’aria è ferma, stagnante, i “piani” carceri si accumulano, anno dopo anno, i suicidi continuano, giorno dopo giorno. Ogni tanto affiora una polemica sui giornali, magari perché un ex potente rinchiuso si è accorto che le prigioni sono scomode o perché si dà alla macchia una delle 100 mila persone che sono destinatarie di misure alternative. L’argomento non è allettante, figuriamoci d’estate, e si inabissa subito. Intanto nelle carceri si muore, più che d’inverno. La contabilità la fa l’associazione Ristretti Orizzonti. Gli ultimi: domenica a Pavia, “un uomo dell’est Europa” di 36 anni si è appeso alla porta della sua cella; martedì un italiano di 53 anni, in isolamento a Parma, si è impiccato usando l’elastico delle mutande. Di seguito tre storie, di due detenuti e di un agente. Tre suicidi normali, se questa è normalità. Salvatore, depresso e fluttuante: voleva 20 euro. 55 anni - detenuto nel carcere di Vigevano Un giorno, il 13 dicembre 2024, Salvatore, che è un dipendente dell’Atm ossessionato dal gioco e oppresso dai debiti e dall’alcol, avvicina un uomo in un cortile di Milano e gli punta un coltellino, chiedendogli 20 euro. Quando l’uomo gli dice che ha 55 euro, proprio come i suoi anni, lui risponde che va benissimo e li prende. Se ne va con i soldi ma non fa molta strada, perché viene rintracciato e arrestato. A processo, viene condannato a 3 anni, anche se i soldi li restituisce tutti e anzi dà mille euro all’uomo rapinato, come risarcimento. Finisce nel carcere di Vigevano, lui che era di Polistena, in provincia di Reggio Calabria. Viveva ancora in Calabria quando i medici del centro salute mentale di Taurianova gli diagnosticarono “un umore depresso e fluttuante”. E si capisce, visto che a causa della ludopatia si era fatto pignorare lo stipendio e sottrarre la casa. Se ne andava in giro a farfugliare cose incomprensibili, a dire che i suoi guai erano stati causati da un “massaggio al piede”. Quando entra nel carcere di Vigevano, il suo avvocato Rocco Domenico Ceravolo si preoccupa, perché sa che Salvatore è a rischio, con il suo umore fluttuante, e ha già provato a uccidersi. Per questo chiede che sia affidato ai servizi sociali ed esca, ma il giudice di sorveglianza dice di no, che non si può fare, che la permanenza in cella si deve protrarre perché l’uomo è pericoloso. Il magistrato dice che bisogna aspettare la “sintesi”, la relazione stesa dagli educatori, che decidono se sei pronto a uscire. Ma la sintesi tarda ad arrivare, perché gli educatori non ci sono o sono pochi. E non è una stranezza, è la regola. E così la permanenza in carcere si protrae, ma non troppo a lungo, solo qualche giorno, perché Salvatore decide che non vuole più aspettare e si impicca. Bastava un po’ di buon senso, dice l’avvocato, per salvarlo. Bastava farlo uscire e mandarlo ai servizi sociali, dice, invece di inventarsi pericoli immaginari per un poveraccio che aveva rubato l’equivalente di un pieno di benzina, di una cena, nella città dei milionari e aveva restituito tutto, con gli interessi. In cambio di quei 55 euro, ha dato la sua vita. Giovanni, l’antisociale che ha salvato cinque vite. 24 anni, detenuto nel carcere di Uta, Cagliari Quando Irene Testa, garante dei detenuti di Cagliari, è andata in visita nel carcere di Uta, ha notato che c’era un giovane che non la cercava, non le chiedeva niente, a differenza degli altri, ma se ne stava seduto a guardare lo spazio di cielo tra le sbarre. Aveva occhi azzurri, puliti e di fianco a lui c’era un libro sulla sua branda. Gli ho chiesto se stava bene, racconta, ma sembrava spaesato e il compagno di cella mi ha raccontato che qualche giorno prima, mentre loro erano andati nel cortile per l’ora d’aria, aveva cercato di uccidersi. L’avevano trovato con la corda stretta al collo ma gliel’avevano sfilata, ed erano riusciti a salvarlo. Me ne sono andata, dice, e due giorni dopo si è impiccato. Irene si è sentita in colpa, come quelli che sentono il peso della vita degli altri sulle spalle, e si è chiesta se avrebbe potuto fare qualcosa per questo ragazzo che aveva molte diagnosi, come succede spesso a chi sta in carcere. Ha pensato, Irene, ho fallito, abbiamo fallito tutti. Li definiscono bipolari o schizofrenici o psicotici - ci dice - ma i medici del carcere preferiscono bollarli come “antisociali”, perché gli antisociali sono considerati “compatibili” con il carcere. Anche se guardano la televisione e pensano che la loro madre li controlli attraverso lo schermo, anche se lanciano escrementi nel corridoio, anche se spaccano tutto. Sono compatibili, perché non li vediamo. Nel carcere di Sassari, su 536 detenuti, ce ne sono 400 in terapia psichiatrica. La madre di Giovanni, 24 anni, un giorno ha letto in una chat di un ragazzo che si era ucciso nel carcere di Uta e ha pensato che poteva essere suo figlio e ha chiesto e poi l’ha capito: era suo figlio. Suo figlio che mesi prima le aveva detto: se mi succede qualcosa voglio che siano donati i miei organi. Così quando ha deciso di farla finita, i suoi organi sono stati estratti e Irene si è chiesta se fosse giusto renderlo pubblico, se non fosse un tradimento, la rivelazione di una confidenza privata, di un ultimo desiderio. Il medico l’ha convinta. Ma certo che sì, è una cosa bellissima: ha salvato cinque vite questo ragazzo antisociale. Donato, che rideva e giocava a carte. 58 anni, agente nel carcere di Porto Azzurro (Isola d’Elba) La sera prima, racconta la figlia Marika, si rideva, si giocava a carte. Donato viveva con la famiglia nell’alloggio demaniale della cittadella penitenziaria di Porto Azzurro, sull’isola d’Elba, ed era un sovrintendente. Faceva l’agente di polizia penitenziaria dal 1989. “Può fare effetto, a chi viene da fuori, vivere in un carcere. Ma a noi sembra normale abitare lì, a pochi metri dalle celle di Porto Azzurro. Era un lavoro che piaceva molto a babbo. Gli dicevamo sempre, scherzando, che sembrava quasi che noi venissimo dopo, perché prima c’era sempre la prigione. Però il suo era un lavoro pesante, stressante, logorante. I turni erano faticosi e ogni tanto ci raccontava di quello che succedeva lì dentro. Di quei detenuti che aspettavano che loro, le guardie, facessero l’ultimo giro di controllo e poi si impiccavano”. Tra un anno e mezzo sarebbe andato in pensione, ma da qualche tempo non stava bene. Era caduto, lui dice per un calo di pressione. Si era fatto male alla schiena e aveva le caviglie gonfie, così lo avevano messo in malattia per 15 giorni. Due mesi fa, il 16 maggio, racconta Marika con una voce che cerca di non tremare, “cominciavano le belle giornate e con mia mamma siamo uscite a far la spesa, come facevamo sempre”. Era andata anche lei, perché il babbo stava male e la madre non aveva la patente. E no, non avevano paura che succedesse qualcosa, perché non si erano accorte di quello che girava nella testa di Donato. E invece qualcosa girava nella sua testa, anche se giocava a carte e rideva. E così, quando sono tornate, hanno aperto la porta di casa, hanno posato i sacchetti sul tavolo e lo hanno visto, appeso con una corda alla porta della cucina. Sul tavolo c’era una lettera, di cui non si può parlare, perché è sequestrata e c’è un’inchiesta in corso. Si sa però che dentro c’era tutta la disperazione di un sovrintendente della polizia penitenziaria, di un uomo che amava il suo lavoro ma non ce la faceva più, “Che andava avanti per inerzia”, in attesa di una pensione che non arrivava mai. Come non ce la facevano più i sette agenti che si sono uccisi nel 2024 e i due che lo hanno già fatto nel 2025. “Gli agenti - ci dice Gennarino De Fazio della Uilpa - hanno carichi di lavoro e di coscienza che non si possono immaginare”. La pena che cambia la vita: punizione, ma anche speranza di Giuseppe Spadaro* Il Dubbio, 1 agosto 2025 La Costituzione vuole una sanzione che rieduchi, soprattutto in casi difficili come la violenza familiare. Esiste un articolo nella nostra Costituzione che recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. I padri costituenti hanno espresso questa volontà, che è la sintesi di ideologie e di pensieri filosofici di elevato spessore, all’articolo 27. La pena, assolutamente necessaria per chi commette il delitto, non può e non deve avere esclusivamente una funzione punitiva. Essa non deve umiliare la persona o essere solo un complesso di privazioni per il condannato. La pena non deve solo privare, ma deve anche offrire: prima fra tutte l’opportunità di una redenzione. La pena, difatti, svolge adeguatamente la funzione che la Costituzione le ha conferito quando diventa percorso umano e spirituale che porta il condannato ad una svolta, ad un cambiamento radicale nella sua esistenza. La pena deve essere un punto di rottura tra il passato ed il presente; tra ciò che era e ciò che sarà; tra il buio e la luce. La privazione della libertà personale è assolutamente necessaria, ma la reclusione ha diverse funzioni, tra cui la prevenzione generale ossia la dissuasione dalla commissione di reati, la prevenzione speciale ossia la rieducazione del condannato e prevenzione di nuove condotte criminali, la retribuzione ossia la punizione per il reato commesso e l’emenda ossia la correzione del comportamento del reo. L’articolo 27 della Costituzione italiana sottolinea però la funzione rieducativa della pena, che deve tendere al reinserimento sociale del condannato. Non commento mai provvedimenti emanati, ma in questo caso mi permetto di farlo perché troppo grave e sempre più frequente il fenomeno della violenza di genere e familiare e perché vorrei fornire una speranza anche a chi ha commesso gravi e sgradevoli reati; ma principalmente ribadire che tali fenomeni si affrontano, come prescritto dalle recenti novelle legislative, con la doverosa fermezza di una giusta celere condanna e principalmente con una vera e propria presa in carico dell’uomo- padre maltrattante in appositi centri di recupero cui va il plauso di tutti noi per ciò che quotidianamente fanno, così come per tutta la rete di supporto, in primis i servizi sociali territoriali e sanitari. Certo, se poi il reo non vuol cogliere l’opportunità offertagli devono prevalere le altre funzioni della pena, ma ciò non esime uno Stato civile a democrazia avanzata dal provarci: anche perché solo così possiamo evitare reiterazione di reati della stessa indole e restituire alla società una persona migliore e non peggiore dopo l’espiazione della pena. È esattamente questo ciò che è accaduto ad un uomo che è stato anni fa allontanato dalla famiglia e poi giustamente condannato per maltrattamenti: chi commette violenza intrafamiliare va assolutamente punito ma anche preso in carico, in maniera tale che possa non solo ravvedersi ma anche divenire lui stesso una persona diversa e così evitare, ribadisco solo dopo l’espiazione della pena, ricadute e recidive. Una persona violenta - se disposta a cambiare, se ben seguita da tutta le rete - come dimostra questa vicenda familiare, può in futuro recuperare e divenire un buon genitore. Certo non tutti, ma alcuni sì. Dopo aver eseguito la pena da maltrattante è divenuto presenza importante per i propri figli: quei figli da cui era stato allontanato a causa delle sue pulsioni negative nei confronti della compagna. Perché il reo è un uomo che ha ceduto alle sue pulsioni negative; che è caduto nel vortice dei suoi più cupi pensieri; che ha agito dando sfogo alla parte più oscura della sua anima. La pena deve rendere l’uomo libero e consapevole e deve donargli la capacità ed il desiderio di scegliere il bene. Sant’Agostino diceva che esiste un diritto naturale che Iddio ha impresso nel cuore di ogni uomo: la coscienza del bene e del male. La scelta del bene da parte del condannato è il fine a cui deve tendere la pena; è il dono che la pena deve fare al condannato; è la ricchezza che il condannato deve aver acquistato al termine del suo cammino. Non dimentichiamo che ciascun uomo ha dentro di sé il seme del bene: bisogna aiutarlo a coltivarlo se dimostra di meritarlo. Lo stesso delitto ed il rimorso che ne consegue è già una pena per alcuni condannati: su questo aspetto psicologico occorre lavorare da parte di personale altamente qualificato perché costituisce un germe su cui lavorare. In questo percorso di resipiscenza e di vita il giudice ha un ruolo fondamentale. Specie il giudice minorile e della famiglia il cui compito non è dirimere una controversia o decidere se una persona è innocente o colpevole bensì lavorare sulle dinamiche familiari in continua evoluzione e sostenerne i percorsi di cambiamento. La giustizia minorile è meravigliosa e molto complessa nel contempo: esattamente come la vita! Ma io credo che più in generale il giudice non debba essere un freddo operatore del diritto che applica le leggi con distacco e con anima sterile. La giurisdizione “accompagna” il condannato nel viaggio che egli compie dentro la sua anima; nel cammino che egli compie per espiare la sua colpa. Il Tribunale non è un luogo dove si confezionano condanne, ma un mondo molto simile alla vita: pieno sì di complicazioni, ma anche di meraviglie. Un luogo dove a volte è difficile compiere il proprio compito, ma anche dove questo compito può divenire salvezza per molti. Questo complesso di regole che è il diritto, in fondo, è un miracolo dell’uomo per l’uomo. E queste regole, apparentemente prive di anima, possono riempirsi e riempire le vite degli uomini di gioie, di speranze, di rinascite. *Presidente del Tribunale dei minori di Trento Sei in carcere? Niente cure, esami rinviati di Serenella Bettin L’Espresso, 1 agosto 2025 Dalla Sicilia al Veneto, esposti e denunce dei garanti dei detenuti sulle carenze dell’assistenza. A Messina, una Tac inutilizzata perché mancano i soldi per ristrutturare la sala Esami rinviati per mesi e anche per anni. Ma per queste persone perdere tempo significa vivere o morire, nel silenzio imbarazzante del governo che spicca per la sua inerzia, per la sua desolante assenza”. La denuncia a L’Espresso è di Lucia Risicato, garante dei diritti dei detenuti di Messina. Nel carcere di Gazzi la situazione è oltre il limite. I detenuti scontano i ritardi del servizio sanitario, quelli del reperimento dei farmaci e quelli delle uscite per esami e visite per effetto della carenza di agenti penitenziari. “I pazienti con gravi problemi ortopedici o oncologici sono quelli messi peggio - spiega Risicato - Nella casa circondariale c’era il centro clinico con il blocco operatorio, ma non ci sono medici che possano operare”. Nel frattempo si è ridotto a “un cantinato maleodorante” che però ospita “una Tac da 30 mila euro, nuova. Giace sepolta in una stanza perché dovrebbe essere collocata in una sala per ristrutturare la quale occorrono 200mila euro”. La direttrice del carcere, Angela Sciavicco, li aveva chiesti invano al ministero. “E pensare - nota Risicato - che l’anno scorso è stato nominato un commissario straordinario all’edilizia penitenziaria”. Non va a meglio a Siracusa. “Al carcere di Brucoli - dice Pino Apprendi, garante dei detenuti di Palermo - per 5 giorni, con 38 gradi, è mancata l’acqua ed è andata via la luce. E i gabinetti sono buche a terra. A Trapani, l’altra sera c’è stato un nuovo suicidio”. Come in Toscana, a Prato, dove nel 2024 in sei si sono tolti la vita. E il 17 luglio è morto un detenuto in isolamento ed è stata aperta un’inchiesta per omicidio. Alla Dogaia in 600, quasi la metà dei reclusi è sottoposta a terapie di tipo farmacologico o psichiatrico. A Gorizia, il primo maggio scorso, è stato stroncato, probabilmente da un malore improvviso, Denis Battistuti Maganuco. Le cronache non se ne sono occupate ma il sindacato di polizia penitenziaria aveva evidenziato l’assenza di cure adeguate per i detenuti, soprattutto per quelli con problemi di salute mentale e dipendenze. E la carenza di assistenza, con una interrogazione del Pd al presidente della Regione Friuli Venezia Giulia, Massimiliano Fedriga, è arrivata in Consiglio. In Veneto, a Montorio, nel carcere di Verona, Franca Berto, la moglie di Massimo Zen, guardia giurata condannata a nove anni e sei mesi per omicidio volontario, da mesi lotta per far cambiare la protesi dentaria al marito. Ma l’intervento “non si può fare perché il carcere non ha le strutture adeguate. Lì dentro ha cominciato anche ad avere problemi al cuore. L’holter per monitorarlo è arrivato dopo tre mesi”. In compenso funzionano le rigide restrizioni alimentari: un cartello affisso a marzo recita che nei pacchi per i detenuti non sono più ammessi “biscotti al cocco, con zucchero, patatine, pentole, sbrisolona, millefoglie, caffè, pasta, sugo, salami interi, barrette di affettato” Ammessi “pesce solo congelato, frutta secca solo sgusciata”. Alimentazione e salute vanno di pari passo. Lo sa bene Maria Angela Distefano, la moglie di Guido Gianni, gioielliere di 65 anni, detenuto a Palermo per una condanna a 12 anni e 4 mesi per duplice omicidio volontario e tentato omicidio dopo aver reagito a una rapina. “In carcere ha perso quasi 50 chili e aspetta da tempo un intervento per un lipoma benigno, ma che se non si sbrigano può solo peggiorare”. L’anno scorso, per potersi curare, Gianni è stato scarcerato. È uscito a febbraio 2024 ma a novembre lo hanno nuovamente portato in cella ma a Catania. A dicembre aveva anche fissato una visita specialistica per programmare l’intervento ma nell’infinito carteggio tra il suo legale, Mario Romeo e il magistrato di sorveglianza che pure aveva autorizzato il controllo preoperatorio è mancato un nulla osta determinante. Il carcere ha infatti eccepito che il detenuto era già stato visitato in precedenza e così non ha dato corso al controllo che serviva per stabilire le modalità dell’intervento. Storie che si ripetono, in cui l’assistenza è negata, tra carenze strutturali, impedimenti burocratici, storture che producono anche sprechi, in ambienti inadeguati e malsani. Con un sovraffollamento record che contrasta con i numeri e i tempi annunciati dal governo per la creazione di nuovi posti. Così accade che L.C., 70 anni, detenuto nel carcere Pagliarelli di Palermo, doveva essere operato alla cataratta, ma a forza di aspettare ha perso l’occhio. “Il 13 luglio 2024, più di un anno fa - spiega il garante Apprendi - il medico aveva detto che era necessario procedere con l’intervento il prima possibile. Adesso è stato convocato dall’ospedale Civico e gli hanno dato appuntamento tra cinque mesi”. Il 22 luglio scorso il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha annunciato le misure del governo sulle carceri, più posti con un piano che vedrà i suoi frutti nel 2027. Sette giorni dopo i garanti di tutta Italia erano in piazza per reclamare condizioni di vita più umane nelle carceri nel rispetto dei diritti. Primo fra tutti quello alle cure. “Il diritto alla salute vale anche per chi è detenuto al 41 bis” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 agosto 2025 È detenuto al 41 bis e ha una diagnosi di glomerulonefrite membranosa, malattia renale grave e progressiva che, senza terapia tempestiva, conduce a insufficienza renale irreversibile. L’unica opportunità per evitare il peggioramento - e per molti l’unica speranza di sopravvivenza - è il Rituximab, farmaco immunosoppressore da somministrare in ambiente sterile con personale qualificato e monitoraggio continuo. Si chiama Giuseppe Crea, 47 anni, e il 7 ottobre davanti al Tribunale di Sorveglianza di Torino non si discuterà solo di un trasferimento carcerario, ma di un principio di civiltà: chi è privato della libertà, anche in carcere “duro”, non perde il diritto alla salute. Non si chiede uno sconto di pena, ma cure adeguate e immediate. Eppure Crea è stato “rimbalzato” da un carcere all’altro: Spoleto, Parma, Novara e di nuovo Parma, senza che nessuna direzione penitenziaria abbia preso in carico la sua richiesta di assistenza medica. Dietro questo scarica barile si cela l’ossessione per il 41- bis, che trasforma un malato in un “caso” da evitare. Il risultato è un ritardo che può costargli la vita. Secondo la difesa - guidata dagli avvocati Guendalina Chiesi e Pasquale Loiacono con il sostegno dell’associazione “Quei Bravi Ragazzi Family Onlus” - le condizioni igienico- sanitarie del Centro Clinico di Parma sono inadeguate: locali non sterili, personale insufficiente, carenza di apparecchiature per il monitoraggio continuo. Per dimostrarlo è stata depositata un’istanza di verifica delle condizioni da parte di esperti esterni. Ma è notoria l’inadeguatezza del centro clinico di Parma. Problematica “antica” che ha già denunciato Il Dubbio nel corso degli anni. Serve chiarezza su un ambiente potenzialmente pericoloso, dove iniziare la terapia significherebbe un salto nel buio. Il trasferimento a Parma è avvenuto senza il consenso di Crea e in violazione dell’ordinanza del magistrato di Sorveglianza, che aveva subordinato lo spostamento all’accettazione esplicita del detenuto. Crea - cosciente del rischio - ha rifiutato di iniziare il trattamento in quell’ambiente. Oggi si trova al centro di un contenzioso che non riguarda solo la sua libertà, ma il diritto di ogni persona a ricevere cure salvavita, ovunque si trovi. La Costituzione italiana all’articolo32 stabilisce che “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”. Ma quando ad ammalarsi è un detenuto al 41bis, questo articolo sembra svanire. Da Spoleto a Parma, chi ricopre ruoli decisionali preferisce non assumersi responsabilità, mentre Crea è lasciato senza risposte concrete. Come denuncia l’avvocata Guendalina Chiesi, il rischio non è teorico. Senza il Rituximab, l’infiammazione renale peggiora, i reni si danneggiano irreversibilmente, e l’unica opzione diventa la dialisi permanente, con un’aspettativa di vita drammaticamente ridotta. Le complicanze infettive e cardiovascolari potrebbero rivelarsi fatali. Ogni rinvio è un passo verso un danno irreversibile, forse mortale. I legali hanno chiesto al Tribunale di imporre il trasferimento in un ospedale civile o in altro presidio adeguato, senza sotterfugi. L’obiettivo è garantire la somministrazione del farmaco in sicurezza, sotto stretto controllo medico. La partita si gioca su pochi dettagli tecnici, ma ha letteralmente in palio la vita di un uomo. Quel che emerge è uno specchio impietoso della tenuta umanitaria del nostro sistema penitenziario. Se il 41 bis può cancellare il diritto alle cure, allora lo Stato di diritto mostra crepe profonde. Un Paese civile non può accettare che un detenuto muoia per mancanza di assistenza sanitaria. L’udienza del 7 ottobre non sarà soltanto l’attesa per il verdetto su un detenuto: sarà un giudizio sulla responsabilità collettiva. Se la risposta sarà favorevole a Crea, si aprirà una breccia nella logica dell’esclusione; se verrà respinta, il messaggio che il carcere mette in quarantena il diritto alla salute sarà addirittura rafforzato. Giuseppe Crea, prima di tutto, è un malato che chiede di curarsi. Un uomo a cui è stato tolto il diritto di scegliere le proprie condizioni di cura. Il 7 ottobre il Tribunale di Sorveglianza di Torino avrà l’occasione di riaffermare un principio: la salute non è una concessione, ma un diritto inviolabile, anche dentro le mura di un carcere. Nessuna norma, nessuna gravità del reato contestato, potrà giustificare la negazione di una terapia che può salvare una vita. Rapporto Antigone: carceri al collasso di Marina Lomunno La Voce e il Tempo, 1 agosto 2025 È un documento che “va letto trattenendo il respiro”: così Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, l’associazione che si occupa della tutela e delle garanzie del sistema penale e penitenziario, avvisa i lettori nell’editoriale del XXI Rapporto sulle condizioni di detenzione in Italia “insostenibili” come più volte le ha definite il Presidente Mattarella. Il dossier, che si intitola appunto “Senza respiro”, è stato presentato giovedì scorso a Torino nella sede del Consiglio regionale del Piemonte. Coordinati da Bruno Mellano garante regionale delle persone detenute, sono intervenuti tra gli altri Claudio Sarzotti, presidente di Antigone Piemonte e Giovanni Torrente dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione dell’associazione entrambi docenti nell’Ateneo torinese, Roberto Capra, presidente Camera penale “Vittorio Chiusano”, Lucia Musti Procuratore generale del Piemonte e della Valle d’Aosta e il vicesindaco di Torino Michela Favaro, delegata ai rapporti con il sistema carcerario. L’ultimo Rapporto di Antigone raccoglie i dati (fino a giugno 2025) e fotografa la situazione sulla base delle cento visite effettuate nell’ultimo anno dagli osservatori dell’associazione (magistrati, operatori penitenziari, docenti universitari, parlamentari e cittadini che a vario titolo si occupano di giustizia penale) nei 189 penitenziari della Penisola (17 sono gli Istituti penali minorili). Ne emerge un quadro asfittico, dove l’aggravamento dei problemi cronici - primi fra tutti il sovraffollamento e i suicidi, già 38 nei primi 6 mesi del 2025 - fa sì che il sistema sia al collasso. “Corpi ammassati in celle chiuse, spazi inadeguati, tensione alle stelle, sofferenza generalizzata, condizioni igieniche-sanitarie inaccettabili, educatori stanchi, poliziotti in difficoltà, direttori provati, medici preoccupati, volontari a malapena tollerati” prosegue Patrizio Gonnella che, richiamando papa Francesco che ha aperto all’inizio del Giubileo la seconda Porta Santa nel carcere romano di Rebibbia dopo quella nella Basilica di San Pietro, scrive “le parole forti di Papa Francesco per una nonché il suo discorso contro i mercanti della paura, speriamo restino un monito per tutti. Non è stato ascoltato in vita. Speriamo lo sia dopo la sua morte”. Ecco alcuni dati (il testo è disponibile sul sito www. rapporto antigone.it). Al 30 aprile 2025 i ristretti nelle carceri della Penisola erano 62.445 (2.703 le donne, il 4,3% delle presenze, 19.660 gli stranieri, il 31,6%), 164 in più del mese precedente con un tasso di sovraffollamento medio che ha raggiunto il 133% dei posti disponibili. “Se si pensa che le nostre carceri hanno una capienza media di circa 300 posti, significa che la popolazione detenuta sta crescendo dell’equivalente di un nuovo carcere ogni due mesi, un dato esorbitante per poter pensare di rispondere con una qualunque strategia di edilizia penitenziaria” evidenzia il documento da cui emerge che le proposte del Governo con il recente decreto “Svuota carceri” - recuperare spazi nelle caserme e nei cortili e installare container prefabbricati - non sono la soluzione. Sono solo 36 gli istituti italiani con capienza regolare mentre quelli con un tasso di affollamento uguale o superiore al 150% sono 58 tra cui Milano San Vittore (220%), Foggia (212%), Lucca (205%), Brescia Canton Mombello (201%), Varese (196%), Potenza (193%), Lodi (191%), Taranto (190%), Milano San Vittore femminile (189%), Como (188%), Busto Arsizio (187%), Roma Regina Coeli (187%) e Treviso (187%). Non va meglio in Piemonte, come ha evidenziato Bruno Mellano, ringraziato da tutti gli intervenuti per il suo doppio mandato scaduto in questi giorni: nuovo garante sarà Monica Formaiano, nominata nell’ultimo Consiglio regionale. In Piemonte quattro istituti su 13 - Torino, Alessandria San Michele, Ivrea, Verbania e Vercelli - superano il sovraffollamento medio del resto dell’Italia. Tra le carceri con più criticità la Casa Circondariale di Torino “Lorusso e Cutugno” dove per mille posti disponibili sono presenti 1450 reclusi con un affollamento del 133,8%. Superiore alla media italiana anche la presenza dei detenuti stranieri che in Piemonte è al 40%: una condizione che raggiunge livelli estremi nell’unico Istituto penale minorile, il “Ferrante Aporti” di Torino, come ha richiamato il procuratore generale Musti, dove al momento i giovani ristretti stranieri sono 46 su 50 in un contesto in cui differenze culturali e difficoltà di integrazione rendono difficile l’applicazione del dettato costituzionale per cui “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato “ (art. 27). Del resto, come ha sottolineato Claudio Sarzotti, la tendenza a mettere in rilievo l’inasprimento delle punizioni evidenzia l’incapacità della nostra società ad intervenire sui fenomeni sociali con la prevenzione. Il carcere non è considerato “extrema ratio” come prevede la legge 354 del 26 luglio 1975 sull’”Ordinamento penitenziario” che, a 50 anni dalla sua promulgazione, vede in forte crisi la sua promessa riformatrice con particolare attenzione al reinserimento nella società dei detenuti. Basti pensare, come è stato rimarcato in tutti gli interventi, all’inasprimento delle condizioni di detenzione e al tasso di recidiva che nel nostro Paese è al 70%, secondo i dati di Antigone che confermano la preoccupazione del Presidente della Repubblica. Il 30 giugno scorso, incontrando il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ed una rappresentanza della Polizia penitenziaria, Mattarella ha detto che “i luoghi di detenzione non devono trasformarsi in palestra per nuovi reati, in luoghi di senza speranza ma devono essere rivolti al recupero di chi ha sbagliato. Ogni detenuto recuperato equivale a un vantaggio di sicurezza per la collettività oltre ad essere un obiettivo costituzionale”. Infatti, laddove vengono applicate le misure alternative alla detenzione, dove si investe su lavoro, studio e formazione professionale dietro le sbarre la percentuale di chi reitera il reato dopo aver scontato la pena cala drasticamente: dall’1% a chi si laurea nei Poli Universitari per detenuti e fino al 2% per i ristretti che hanno avuto la possibilità di un inserimento professionale. Occorre dunque “restituire un senso alla pena” ha concluso Mellano. Certamente non in carceri dove i detenuti sono reclusi in celle di 3 metri quadrati o dove opera un educatore ogni 57 ristretti e dove il disagio psichico viene tenuto a bada solo con i farmaci: al Lorusso e Cutugno, ad esempio, uno psicologo è disponibile 3,5 ore per 100 reclusi. Il tempo vuoto nel carcere minorile si può riempire: il caso del Ferrante Aporti di Torino di Alice Dominese Il Domani, 1 agosto 2025 Secondo l’ultimo rapporto sulle condizioni di detenzione pubblicato dall’associazione Antigone, solo il 35 per cento dei reclusi è in carcere con una sentenza definitiva e, nella grande maggioranza dei casi, si tratta di giovani adulti tra i 18 e i 25 anni che hanno compiuto il reato da minorenni. La fine della scuola e della sua routine quotidiana arriva ogni anno anche negli istituti di pena minorili. Ma ciò che questa fine porta con sé non è il tempo del riposo e dello svago. Nella maggior parte dei casi è solo altro carcere e altro tempo vuoto che si sommano alle condizioni già critiche negli Ipm. Quando ad agosto 2024 decine di giovani detenuti hanno devastato e incendiato alcuni locali del carcere Ferrante Aporti di Torino, minacciando anche alcuni agenti di polizia e provando a evadere, la loro quotidianità era fatta di sovraffollamento, caldo estremo e assenza di attività. Quasi un anno dopo, il Tribunale dei minori ha emesso nove condanne per i reati di devastazione e saccheggio a carico dei quindicenni e diciassettenni allora detenuti, per un totale di ulteriori 37 anni di carcere. Quasi un anno dopo la protesta, l’estate dei reclusi all’interno dell’Ipm torinese ha in parte un altro aspetto. Il perché della rivolta - “Ci siamo chiesti il perché della rivolta, ma le motivazioni sono sempre difficili da trovare, ci sono tante concause. Il sovraffollamento è uno: l’anno scorso c’erano più di 60 ragazzi detenuti a fronte di una capienza massima di 46 posti. E poi il tempo vuoto era troppo, nei mesi estivi non c’erano attività” dice don Silvano Oni, cappellano del carcere minorile torinese. Per riempire un periodo lasciato troppo spesso privo di stimoli, per l’estate in corso si è deciso di popolare il carcere con attività formative, sportive e culturali che normalmente si esaurivano con la fine della scuola. A differenza dell’anno passato, per favorire lo svolgimento delle attività che sono state introdotte, i detenuti vengono suddivisi a piccoli gruppi e il rapporto con educatori e mediatori culturali è considerato prioritario. In dieci anni di incarico Monica Cristina Gallo, garante comunale dei diritti delle persone private della libertà, non aveva mai assistito a una protesta simile a quella dell’agosto scorso: “All’origine della devastazione c’erano condizioni di disagio, stanchezza e rabbia legati a situazioni che erano diventate insostenibili. Il decreto Caivano ha portato a un aumento dei giovani detenuti in carcere e i ragazzi dormivano anche a terra per mancanza di letti disponibili. Con numeri così alti la gestione delle attività era compromessa e i ragazzi inevitabilmente vivevano una detenzione poco dignitosa”. Da fine luglio i detenuti avevano iniziato a protestare con azioni di battitura per poi passare a incendiare e distruggere alcune celle, l’ufficio del direttore, il refettorio, i laboratori e la biblioteca. Oggi l’Ipm Ferrante Aporti è un carcere che ha raggiunto la sua capienza massima. Il sovraffollamento per il momento non si verifica, ma il passaggio di chi entra e chi esce continua a essere elevato. Questo accade soprattutto perché, come nel resto dell’Italia, la maggior parte dei minori transita nell’Ipm per via di una misura cautelare, rimanendo in cella pochi mesi o addirittura qualche giorno. Secondo l’ultimo rapporto sulle condizioni di detenzione pubblicato dall’associazione Antigone, infatti, solo il 35 per cento dei reclusi è in carcere con una sentenza definitiva e, nella grande maggioranza dei casi, si tratta di giovani adulti tra i 18 e i 25 anni che hanno compiuto il reato da minorenni. A fine marzo 2025 erano 597 - di cui 26 ragazze - i detenuti nelle carceri minorili italiane. Nei 17 Ipm presenti in totale sul territorio nazionale, nove si trovavano in condizione di sovraffollamento, “un dato mai registrato nelle carceri minorili prima del decreto Caivano del settembre 2023 che ha ampliato la possibilità di applicazione della custodia cautelare per i minorenni e ridotto l’uso delle alternative al carcere” riportano gli autori del ventunesimo rapporto Antigone. Non esistono dati storici sulle cosiddette rivolte carcerarie avvenute negli istituti di pena minorili in Italia, ma nell’arco del primo anno trascorso dall’introduzione del decreto emanato in risposta ai reati commessi nel comune di Napoli, Antigone ha contato 28 proteste. La sommossa che si è verificata al Ferrante Aporti di Torino è tra queste. Prima e dopo quell’evento, le situazioni critiche all’interno dell’Ipm restano tuttavia una costante: “Le manifestazioni di protesta sono frequenti e variano dai materassi incendiati ai gesti autolesivi - dice Gallo - I ragazzi in carcere si tagliano spesso”. Se a livello nazionale giovani detenuti italiani e di origine straniera si equivalgono, la maggior parte dei giovani reclusi presenti nel carcere torinese sono minori stranieri non accompagnati o quelli che il cappellano chiama “Italiani di seconda generazione”. “Quando arrivano in carcere, il tempo per instaurare una relazione costruttiva è poco: bisogna superare la loro diffidenza nei confronti degli adulti, che li hanno quasi sempre imbrogliati - racconta don Silvano Oni - Le loro storie sono tremende: hanno affrontato lunghi viaggi rischiando la vita per la fame e per il freddo, sono stati picchiati e spesso non hanno ricevuto nessun aiuto. Non serve scusarli o fare del buonismo, ma bisogna ascoltarli e provare a capirli”. Giustizia-spettacolo contro il dolore reale: accendiamo i riflettori sulle carceri di Vito Daniele Cimiotta terzultimafermata.blog, 1 agosto 2025 Benvenuti nel grande teatro della giustizia italiana. In prima serata, il solito copione: un presunto colpevole, un procuratore che dirige l’orchestra mediatica, un esercito di opinionisti che improvvisano arringhe a colpi di tweet e talk show. L’imputato? Già condannato, ovviamente. Non dal giudice, ma dal pubblico - il vero sovrano di questa commedia grottesca. Il processo penale, anziché luogo di verità e garanzie, si è trasformato in uno spettacolo dove la presunzione d’innocenza è un fastidioso ingombro da eliminare. Tutti giudicano, tutti sentenziano, tutti pontificano. L’informazione si traveste da inchiesta, la cronaca diventa fiction. Puntate settimanali, colpi di scena, interviste esclusive, mentre la toga si sgualcisce sotto l’eco dei like. E intanto, il carcere resta lontano da questo clamore. Silenzioso. Invisibile. Opaco come una stanza senza finestre. È lì che si consumano le vere pene: non quelle decise dalla legge, ma quelle inflitte dall’indifferenza. Nel 2024, in Italia, sono stati registrati più di 100 suicidi tra i detenuti, un numero mai visto prima, un dramma che si rinnova incessantemente. E nei primi mesi del 2025, 48 persone hanno scelto di togliersi la vita dietro le sbarre, in una crisi che pare inarrestabile. Il tasso di suicidi in carcere tocca così 14,8 ogni 10.000 detenuti, ben al di sopra della media europea. Questi dati, drammatici e inequivocabili, passano quasi inosservati nei grandi media, schiacciati dal rumore di processi mediatici che privilegiano lo spettacolo alla sostanza. Nel frattempo, la Costituzione - all’articolo 27 - ci ricorda che le pene devono tendere alla rieducazione, non alla semplice reclusione. Parole che suonano come una beffa se si pensa che molti detenuti vivono in celle di appena sei metri quadri condivise con altri tre uomini, con un solo bagno e finestre spesso murate, senza alcuna concreta possibilità di recupero umano o sociale. A complicare il quadro, il sovraffollamento cronico: al 30 aprile 2025, le carceri italiane ospitavano 62.445 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 51.280 posti, con un tasso di affollamento del 133%. Una situazione che rende impossibile qualunque forma di rieducazione e che trasforma il carcere in una prigione della dignità. Non è solo una questione di numeri, ma di volti e storie che troppo spesso restano invisibili. Proprio ieri, una delegazione della Camera Penale di Marsala, insieme a rappresentanti di Nessuno Tocchi Caino, ha condotto un’ispezione al carcere di Trapani. Il quadro che ne è emerso è ancor più preoccupante: condizioni peggiori rispetto agli anni precedenti, strutture fatiscenti, personale insufficiente e assenza di interventi adeguati per il supporto psicologico dei detenuti. Non più un problema astratto, ma una realtà palpabile e urgente. Questa visita testimonia come l’emergenza carceraria sia un problema strutturale che richiede risposte concrete, non la semplice spettacolarizzazione mediatica di qualche caso isolato. Perché mentre i riflettori si accendono per processi televisivi e sentenze social, il vero carcere, quello della sofferenza quotidiana, rimane nell’ombra, ignorato e abbandonato. Eppure, è proprio lì che si misura la civiltà di uno Stato. La giustizia non può esaurirsi nel momento del verdetto, né può trasformarsi in un reality show dove a vincere è solo l’audience. La vera giustizia è quella che garantisce dignità e diritti anche a chi sbaglia, che trasforma la pena in occasione di recupero e reinserimento. Fino a quando non cambieremo questa prospettiva, continueremo a vivere in uno Stato che finge di fare giustizia per non guardare in faccia la propria coscienza. Nel frattempo, la vera emergenza resta inascoltata, silenziosa, drammatica: quella delle persone detenute che, strette tra sovraffollamento, mancanza di supporto e condizioni degradanti, spesso vedono nell’estremo gesto del suicidio l’unica via di fuga possibile. Spegniamo quindi i riflettori sui processi mediatici, accendiamoli finalmente sulla realtà delle carceri italiane. Non per pietà, né per buonismo, ma per giustizia autentica. Salvini vuole equiparare i reati dei minorenni a quelli dei maggiorenni: pessima idea di Claudio Cerasa Il Foglio, 1 agosto 2025 L’idea che inasprire le pene sia il modo per ridurre i reati è molto diffusa ma è sostanzialmente falsa. Inoltre secondo la Costituzione le pene dovrebbero essere rieducative, il che è particolarmente fondato quando il condannato è minorenne. Matteo Salvini ha presentato, per ora in una conferenza stampa e non ancora in Parlamento, una proposta di legge che equipara i reati commessi dai minorenni a quelli dei maggiorenni. Giustifica questa ipotesi con la dimensione dei reati commessi da minori (ha parlato di 44 mila in un anno) e fa riferimento soprattutto ai reati di sangue di cui ha parlato la cronaca di questi mesi. In primo luogo bisognerebbe capire qual è davvero la dinamica dei reati minorili e la loro incidenza sul totale, che sfiora i 2 milioni, il che riduce a circa il 2 per cento il peso di quella minorile, senza contare che un conto è guidare una bicicletta senza casco e un altro accoltellare una persona. In generale è sempre efficace dal punto di vista della propaganda politica denunciare la gravità di fatti che suscitano interesse e chiedere un aumento della repressione. Ma tutto ciò serve davvero a qualcosa? L’idea che inserire le pene sia il modo per ridurre i reati è molto diffusa ma è sostanzialmente falsa, e questo vale anche in questo caso. Inoltre c’è la questione della funzione delle pene, che secondo la Costituzione dovrebbero essere rieducative, il che è particolarmente fondato quando il condannato è minorenne. Purtroppo la situazione degli istituti di pena riservati ai minori, i cosiddetti riformatori, non è molto migliore di quella delle carceri riservate agli adulti. Descrivere una gioventù “bruciata”, dedita al crimine e alla violenza, è un errore di fatto e esprime un atteggiamento che ha un contenuto esattamente opposto a quello educativo che sarebbe necessario. La politica, cioè la democrazia, già fatica a dialogare con i giovani, come dimostra anche lai loro scarsissima partecipazione al voto, mostrare un volto feroce non può che peggiorare la situazione. Può darsi che l’attuale legislazione presenti lacune e tolleranze eccessive nei confronti di alcuni reati particolarmente violenti e forse su questo si può riflettere, ma in generale un atteggiamento punitivo finisce solo col sollecitare spiriti securitari, l’esatto contrario di quel che serve oggi. “La proposta di Salvini di alzare le pene per i minori è incostituzionale e dannosa” di Alfonso Raimo huffingtonpost.it, 1 agosto 2025 Intervista con il garante dei detenuti del Lazio Stefano Anastasia sull’ipotesi di equiparare le pene per i reati commessi dai minori a quelle previste per gli adulti: “L’idea di risolvere i problemi aggravando le pene non porta soluzioni. E la filosofia del pugno duro del governo crea un clima di tensione. Le carceri minorili sono in un sovraffollamento mai visto. Per fortuna non è realizzabile”. “Punire i minori di 15-16 anni come se fossero maggiorenni”. La proposta di Matteo Salvini è “incostituzionale e controproducente”, spiega all’Huffpost Stefano Anastasia, garante dei detenuti del Lazio e portavoce della conferenza dei Garanti. Anastasia è anche docente di filosofia e sociologia del diritto all’Università di Perugia. Garante, come vivono i detenuti minorenni negli istituti di pena italiani? Assistiamo a un sovraffollamento delle carceri minorili che prima non c’era. Le condizioni di vita e di trattamento sono molto critiche. Registriamo numerosi episodi di conflittualità, violenze e proteste. Le carceri minorili sono in una situazione critica. Io sono garante nel Lazio da 9 anni e registro un peggioramento netto. In particolare negli ultimi due anni, la filosofia del pugno duro adottata da questo governo contribuisce a creare un clima di tensione che non aiuta. Negli istituti sta venendo meno la capacità di costruire percorsi di reinserimento perché viene meno la relazione di fiducia che c’è tra l’istituzione e i detenuti. Coi ragazzi funziona così: quello che dai, ricevi. La proposta di Salvini può aggravare il quadro? È una classica espressione del populismo penale, la ricerca del consenso fondata sulla minaccia della pena. L’idea che un problema si risolve aggravando la pena, cosa che non ha mai dato soluzione da nessuna parte. I paesi con le pene più dure hanno i tassi di omicidi più alti. Nello specifico la proposta è il punto finale di una traiettoria che va avanti da tempo e che crea sfiducia nella relazione tra istituzioni e i ragazzi, che pure commettono reati e ne devono rispondere. Non è che Salvini parla e questa cosa non si vive dentro gli istituti. Diventa un motore di scelte e modalità di funzionamento dell’istituzione, che alla fine diventano solo luoghi di custodia e non fanno altro che generare rabbia, rancore, volontà di rivalsa e quindi future violazioni di regole e reati. È un indirizzo politico disastroso. Che non ha nessuna prospettiva anche in termini di sicurezza e prevenzione dei reati. Per fortuna non è realizzabile perché è in contrasto con la Costituzione. Perché dice che è incostituzionale? Il nostro ordinamento tutela in modo particolare la minore età. Nel sistema penale, per i minorenni la finalità rieducativa della pena ha un significato particolare. E lo si misura anche nella durata della pena: non è uguale per tutti, è commisurata all’età e all’esperienza di ciascuno, perché due anni di pena a 17 anni sono una parte considerevole della vita, mentre a sessanta sono una parte molto minore. La pena detentiva coi minori deve essere ridotta ad extrema ratio, bisogna favorire il reinserimento sociale. Immaginare che si possano equiparare ai maggiorenni è incostituzionale, perché viola l’articolo 3 che ci obbliga a una valutazione diversa a seconda delle condizioni soggettive diverse delle persone, e poi perché la Costituzione prevede espressamente la tutela della minore età. A meno che non si voglia abbassare il limite della maggiore età. Ma questa è un’altra cosa. In che modo le politiche del governo peggiorano il sistema penale minorile? C’è un problema sul tipo di atteggiamento che vogliamo avere nei confronti dei ragazzi. Il decreto Caivano, incentrato sulla repressione, non ha prodotto risultati in termini di prevenzione e rieducazione. Il decreto Cutro ha smantellato il sistema dell’accoglienza per i minori stranieri non accompagnati, privandoli della rete di supporto degli enti locali. I ragazzi sono più facilmente esposti all’inserimento nei circuiti di devianza, per potersi mantenere entrano dentro circuiti di microcriminalità organizzata, piccolo spaccio e altre cose di questo genere. Questo approccio sta portando alla crisi del sistema della giustizia penale minorile che è stata una delle esperienze più significative della giustizia penale italiana degli ultimi 30 anni. Era un modello imitato all’estero. Ma è inutile fare la faccia truce: il problema è quale alternativa dai a questi ragazzi. Il ministro Carlo Nordio ha annunciato un piano per affrontare il sovraffollamento nelle carceri. Che giudizio dà? Non c’è consapevolezza della gravità della situazione. Abbiamo 15mila detenuti in più della capienza regolamentare. Mancano migliaia di agenti di polizia penitenziaria, c’è carenza del personale sanitario. E in aggiunta all’emergenza c’è l’assenza di prospettiva: il governo vuole costruire più carceri, ma non lo si fa mica in un giorno. Lo stesso vale per i cosiddetti moduli detentivi, i container. Per poterli gestire serve una struttura e personale ad hoc. Nella proposta di Nordio c’è anche l’ipotesi di snellire le procedure della liberazione anticipata facendola gravare sugli istituti di pena e in misura minore sui magistrati di sorveglianza... Ma sono compiti a cui i direttori già assolvono oggi. Il giudice non può decidere senza la relazione dell’istituto penitenziario. Alla fine c’è sempre il problema della decisione del giudice su migliaia di posizioni, e ovviamente con metri e culture diverse, visto che ogni giudice è autonomo nella valutazione. Nonostante le migliori intenzioni del ministro, i giudici di sorveglianza devono essere messi in condizioni di decidere. Sulla pena non può decidere l’autorità amministrativa. Altra misura, annunciata da Nordio è il potenziamento delle misure alternative per i detenuti con problemi di tossicodipendenza... Anche questa è una proposta che torna ciclicamente. C’era già nella Fini-Giovanardi del 2006, e c’era nel decreto ‘carcere sicuro’ dello scorso anno. Erano finanziati 280 posti in comunità di recupero: ebbene in carcere abbiamo 20 mila detenuti con questi problemi, di cui il 90 per cento con pene inferiori ai sei anni. Il problema non è la legge, ma le risorse. Che cosa facciamo a fronte di 20mila detenuti? A proposito di risorse. Il piano carceri ha assorbito tutte le risorse, finanche quelle della manutenzione ordinaria degli istituti. Oggi le direzioni hanno difficoltà anche a fare la manutenzione ordinaria, a riparare le docce, perché le risorse sono tutte assorbite dal commissario straordinario all’edilizia. Lei cosa propone per affrontare il problema del sovraffollamento? Oggi abbiamo una giustizia penale di censo. Va in carcere chi non riesce ad accedere alle misure alternative. Bisogna invece allargare le maglie perché quanti più detenuti possano accedere alle misure non detentive. Mi spiego: buona parte della popolazione carceraria è accusata per reati minori, tra i 6 mesi e i due anni di pena. La maggioranza ha pene inferiori ai tre anni. Per avere le misure alternative ed evitare il carcere ci vuole il domicilio, l’inserimento sociale, la tutela legale, un’attività lavorativa… tutte cose che le persone meno abbienti non hanno. Chi non ha queste cose va in carcere anche per scontare una pena anche solo di sei mesi. Dobbiamo trovare alternative al carcere lavorando sul reinserimento sociale. Alessandro Margara, che fu magistrato di sorveglianza a Firenze e Bologna, immaginava case di reintegrazione sociale, luoghi di dimora esterni al carcere. Nell’emergenza una soluzione può essere la liberazione anticipata speciale, anche se è complicata e deve essere decisa dal giudice. La via maestra sarebbe l’indulto: ma è un provvedimento di cui la politica si deve assumere la responsabilità. Non mi pare che ci siano le condizioni politiche. Intanto stiamo trasformando il carcere in un ospizio dei poveri. E il Senato urlò in coro: “Sì all’ergastolo!” di Michele Prospero L’Unità, 1 agosto 2025 È scivolato via come un mero atto dovuto il voto unanime espresso dal Senato a favore dell’ergastolo per i casi di femminicidio. Eppure, anche questo reato nuovo colpito con una pena vecchia, chiarisce quanto abissale sia diventata la distanza tra le culture dell’Italia repubblicana e le visioni che prevalgono nel momento populista da alcuni decenni trionfante. Nel 1981, nel mezzo della violenza politica, mafiosa e criminale, il Pci e il Psi si schierarono con il “Sì” al referendum promosso dai Radicali volto all’abrogazione dell’ergastolo. Anche allora i fascisti cavalcavano le passioni più forcaiole del pubblico e concepivano la prigione come appagamento dell’istinto di vendetta. Al suo repertorio tradizionale, la morte quale unica certezza dell’eliminazione del nemico dalla società, il maestro della Meloni Almirante aggiungeva la spinta per la proclamazione dello “stato di guerra”, con annesso ripristino della pena di morte. Pur consapevoli della sconfitta, i partiti della sinistra diedero comunque battaglia contro la sopravvivenza dei cascami del ventennio che nel supplizio estremo scorgevano un incancellabile attributo di uno Stato forte. Nella prova referendaria, per il Pci, in gioco era una fondamentale questione di principio che non tollerava calcoli congiunturali. Fu infatti già Togliatti in Assemblea Costituente, nella seduta del 10 dicembre 1946 (Prima Sottocommissione della Commissione per la Costituzione), a gettare una sfida ideale. Poiché nell’articolo 9 della nuova Carta - egli argomentò - non viene più ammessa la pena capitale, pacifica è la inferenza per cui la “pena dell’ergastolo, essendo altrettanto inumana, dovrebbe essere parimenti soppressa”. In nome dell’equivalenza tra l’immediato trapasso fisico e la lenta agonia civile, Umberto Terracini recepì l’indirizzo e rilanciò con una ulteriore suggestione la proposta del Migliore. Nell’Adunanza Plenaria della Commissione per la Costituzione (25 gennaio 1947) un suo emendamento stabiliva che, messa al bando la detenzione a vita, andava previsto anche il tetto di 15 anni come massimo edittale. Oltre questo lasso di tempo, la restrizione della libertà del soggetto avrebbe smarrito qualsiasi funzione rieducativa della pena per tramutarsi in un trattamento coercitivo lesivo della dignità personale. Ai comunisti, che parlavano il linguaggio dei diritti umani, ovvero della dignità dell’individuo da tutelare contro l’ergastolo come surrogato della morte, si affiancò il socialista Mancini. Per una volta, in Aula si accodò ai rossi persino il monarchico reazionario Lucifero, che si professò sensibile ai loro richiami reiterati al supremo valore di umanità. Alle nobili considerazioni degli esponenti del movimento operaio, invece, si opposero strenuamente i democristiani, con un lessico che descriveva la massima punizione come un deterrente efficace, nell’ottica dello scopo della difesa sociale, proprio in virtù della sua perpetuità. Attraverso immagini alquanto rudi, Tupini, il presidente Dc della Prima Sottocommissione, stigmatizzò il proposito dei comunisti di tracciare un diritto penale minimo, raffigurando un simile obiettivo come “un incentivo a commettere delitti efferati, essendosi soppressa l’unica pena, quella di morte, capace di incutere paura ai grandi criminali”. Il democristiano veneto Umberto Merlin rinunciò al fioretto della dottrina per inginocchiarsi, agitando la spada, alla coscienza popolare secondo lui ancora turbata da un episodio di cronaca accaduto a Milano, dove “una donna ha barbaramente ucciso la moglie del suo amante e i suoi tre figlioletti”. Aderendo ad un approccio di maggiore spessore tecnico-procedurale, Aldo Moro suggerì ai colleghi costituenti di riconoscere la competenza sulla specifica problematica al legislatore penale, autorizzato a risolverla in una sede più vasta nel quadro di una riforma generale del sistema delle pene. Non mancò, tuttavia, di preservare il nucleo della teoria classica della pena intesa come prezzo inevitabile che segue l’accertamento giudiziario. La carcerazione, disse Moro, serve anzitutto a soddisfare “l’esigenza della difesa della società umana che è compromessa dal moltiplicarsi di atti nefandi. L’ergastolo è rimasto l’unico motivo di inibizione al delitto”. Le ragioni ideali della sinistra furono archiviate in ossequio alla natura disciplinatrice della sanzione, al cui tratto di esemplarità venivano collegate le superiori istanze di deterrenza e sicurezza. Nel nuovo ordinamento repubblicano restò in piedi, però, una contraddizione palese tra il criterio costituzionale del recupero del reo (dignità della persona) e la possibilità di una condanna irreversibile a terminare la propria esistenza dietro le sbarre (curvatura disciplinatrice del castigo). Il mondo giuridico, da Francesco Carnelutti a Luigi Ferrajoli, rimarcò precisamente l’incombenza di questa aporia da rimuovere. La Corte costituzionale, quando è stata investita dello spinoso quesito, non ha mai sciolto il nodo valoriale in coerente punto di diritto, rifugiandosi al contrario in estrinseci rinvii alle condizioni effettuali. Che a strappare ogni riferimento ad alti principi etico-giuridici sia la destra, non stupisce affatto: sforna di continuo novelli reati come manifesti ideologici da spacciare nel mercato politico e costruisce propagandisticamente penitenziari vicini e gulag lontani per accontentare i bassi appetiti che consigliano di inveire contro i galeotti, meglio ancora se stranieri. Indifferente, per sincera vocazione, all’appello antico rivolto da Filangieri alle classi dirigenti europee a rispettare la dignità dei reclusi (“Approssimatevi a queste mura spaventevoli, dove la libertà umana è circondata da’ ferri, e dove l’innocenza si trova confusa col delitto… Fate che una fiaccola permetta a’ vostri occhi di vedere il pallore di morte”), la premier si aggrappa allo spauracchio della galera per negare valide alternative alla cella anche per le piccole trasgressioni. Dinanzi al sovraffollamento il solo imperativo cui obbedire, assicura la statista di Colle Oppio, è “adeguare la capienza delle carceri alla necessità”, cioè “ampliare le strutture”. A fare rumore, piuttosto, è che l’eco remota di un umanesimo positivo di matrice social-comunista sia finita del tutto inascoltata a Palazzo Madama. Economia e giustizia Nordio: “La riforma porterà benefici” di Alessandro Caruso Il Riformista, 1 agosto 2025 Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, spiega la ratio della sua riforma costituzionale, al centro del dibattito politico ed economico. Dalla separazione delle carriere tra magistrati giudicanti e pubblici ministeri alla digitalizzazione del sistema giudiziario, passando per la riduzione dei tempi processuali e la lotta al sovraffollamento carcerario, il Guardasigilli va a fondo nel chiarire come questi interventi puntino a rafforzare la terzietà del giudice e la certezza del diritto. L’obiettivo è duplice: migliorare l’efficienza della giustizia per garantire legalità e, al tempo stesso, sostenere la competitività e l’attrattività dell’Italia nel contesto economico internazionale. Ministro, la separazione delle carriere tra magistratura inquirente e giudicante è uno dei punti qualificanti della sua riforma. Può spiegare in che modo questa misura rafforzerebbe l’imparzialità del giudice? “La rafforzerà perché dalla riforma uscirà veramente un giudice terzo e imparziale, come è previsto dall’art. 111 della Costituzione. Oggi un cittadino sottoposto a processo non sa che i suoi giudici vengono a loro volta valutati, nella carriera e nell’eventuale procedimento disciplinare, anche dai suoi accusatori. Che i pm diano i voti ai giudicanti è un’anomalia tutta italiana, e quando ne parlo in sedi internazionali i colleghi stranieri manifestano incredulità”. I critici sostengono che la separazione delle carriere possa indebolire l’unità della giurisdizione. Come risponde a questa obiezione? “Che l’espressione unità della giurisdizione è una vuota astrazione enfatica, che non significa nulla. La giurisdizione può infatti essere intesa nel suo significato restrittivo, dello “ius dicere”, e allora riguarda soltanto il giudice. Oppure come dialettica del contraddittorio processuale, e allora è un tavolo a tre gambe che comprende giudice, accusa e difesa. Limitarla ai primi due significa introdurre un concetto ingannevole, buono solo per le anime semplici”. Oltre alla separazione delle carriere, quali altri strumenti introdotti dalla riforma ritiene essenziali per migliorare la qualità e i tempi del processo penale? “La riforma costituzionale affronta i problemi cruciali della terzietà del giudice, della vera autonomia del Csm e di una Corte disciplinare non eletta, come è oggi, dai potenziali incolpati. Ridurrà i poteri delle correnti e libererà la magistratura dai suoi condizionamenti interni. Per gli altri nodi fondamentali come la lentezza dei processi e il sovraffollamento carcerario molto abbiamo fatto e ancor di più stiamo facendo”. Secondo stime di Bankitalia e Confindustria, la lentezza dei procedimenti civili e penali ha un impatto diretto sugli investimenti esteri. In che modo questa riforma può diventare un volano per la competitività del Paese? “Come ho detto, questa riforma, in quanto tale, non ha una incidenza diretta sull’economia, a differenza di altre che abbiamo fatto e stiamo facendo. Ma farà acquistare ai cittadini più fiducia nella giustizia, e quindi di riflesso sarà benefica per la certezza dei rapporti giuridici, anche economici”. Il sistema giustizia incide anche sulla spesa pubblica e sull’efficienza della PA. Sono previste semplificazioni o misure in grado di produrre risparmi strutturali? “Certamente. In linea generale attraverso l’attuazione del Pnrr, sul quale il ministero è in perfetto orario. L’efficienza sarà garantita dalla digitalizzazione del sistema giudiziario, compresa l’inclusione della banca dati delle decisioni civili, gratuita e accessibile. Più che sui risparmi puntiamo sul potenziamento delle risorse. Ad esempio, per la prima volta da 80 anni colmeremo, entro il 2026, gli organici dei magistrati. Oltre all’assunzione di 11.500 amministrativi”. In ambito civile, molte imprese lamentano tempi lunghi per il recupero crediti e l’esecuzione forzata. Il nuovo assetto potrà produrre effetti concreti su questi aspetti? “Li sta già ottenendo. La durata media dei processi civili si è già ridotta del 20%, quella dei penali del 28%. Di questo dobbiamo ringraziare anche i magistrati, che hanno lavorato molto e molto bene. Ci tengo a dire che, al di là delle divergenze di vedute sulla riforma costituzionale, il rapporto con Anm e Csm è costante e cordiale, abbiamo avuto vari incontri sulle questioni organizzative e siamo sempre pronti ad accogliere i loro contributi”. A che punto è l’Italia sulla digitalizzazione applicata anche all’amministrazione della giustizia? Quali sono gli obiettivi che il suo Ministero si è dato? “Qui entriamo nella tecnologia complessa. Nel civile siamo andati spediti, perché la struttura del procedimento è abbastanza lineare. Nel penale abbiamo trovato più difficoltà, perché le variabili, soprattutto nella fase investigativa, sono tali e tante per cui non è stato facile elaborare un programma. Ma ci stiamo arrivando. Abbiamo riorganizzato il Dipartimento per l’innovazione tecnologica, potenziando le strutture ICT, cloud e sistemi telematici, avviando anche l’uso sperimentale dell’Intelligenza artificiale nel pieno rispetto del regolamento europeo. E per monitorare lo stato di avanzamento abbiamo istituito un Osservatorio della giustizia digitale”. Cambiando argomento, il sovraffollamento delle carceri italiane è una piaga strutturale, segnalata anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Quali misure urgenti intende adottare il governo? “Prima di tutto diciamo quello che non si farà: né indulto né liberazione anticipata. Quando questi provvedimenti sono motivati dall’esigenza di ridurre il sovraffollamento carcerario, non solo costituiscono una manifestazione di debolezza dello Stato o addirittura di resa, ma sono anche inutili. Parlano le cifre. Nel luglio 2006, con il governo Prodi, la popolazione detentiva era di 60.710 detenuti. Con l’indulto ne furono liberati il 36%. Ebbene, tre anni dopo erano arrivati a 63.472, con una crescita costante, e con una recidiva del 48%. Noi ora ci stiamo occupando di 10.105 detenuti definitivi, con pena residua sotto i 24 mesi, che possono fruire di misure alternative alla detenzione in carcere. Spetta alla magistratura di sorveglianza decidere, caso per caso, se ne abbiano il diritto, e ora stiamo anche aumentando la pianta organica di questi magistrati, che ringraziamo per l’enorme lavoro che fanno. Nel frattempo interverremo sugli altri tre settori: la carcerazione preventiva, per la quale oltre 15.000 persone sono in carcere in attesa di una condanna definitiva. Poi il trasferimento di stranieri nelle carceri dei paesi d’origine: si tratta di oltre 20.000 detenuti: anche qui basterebbe mandarne via la metà. Infine i tossicodipendenti. Abbiamo stanziato 5 milioni di euro annui per il loro trattamento in custodia attenuata, cioè in comunità, o altre strutture, accreditate diverse dal carcere. Anche qui siamo prossimi alla soluzione. Ma non sono cose che si possono improvvisare”. Ritiene che sia giunto il momento di una riforma complessiva dell’esecuzione penale, anche in chiave deflattiva e riabilitativa? “Credo che sia necessario intervenire sull’intero codice di procedura penale, riportandolo all’idea originaria di Giuliano Vassalli, garantista e liberale. In questo ambito anche la procedura esecutiva sarà rivista nella prospettiva che lei propone”. Così il sorteggio disgrega il Csm con la scusa del correntismo di Paola Cervo* Il Dubbio, 1 agosto 2025 La componente della Giunta esecutiva centrale dell’Anm: dietro la promessa di neutralità, si annullano rappresentanza, competenza e responsabilità. È difficile parlare razionalmente di riforma del Csm e introduzione dell’Alta Corte disciplinare per i magistrati ordinari. Questa riforma, infatti, non muove da alcun principio di efficienza o di necessità giuridica - non vi è spazio in questa sede per confutare il ragionamento che la correla all’art. 111 della Costituzione quasi ne fosse un prodotto obbligato - bensì da talune indimostrate petizioni di principio, contro le quali non può esservi razionalità che tenga, poiché esse, per definizione, non accettano ragioni. Lo dimostrano le stesse modalità con cui la prima lettura della riforma è stata portata a compimento: tuttavia la razionalità è l’impegno che l’Anm ha assunto di fronte a questa riforma, per esprimere ai cittadini gli argomenti che inducono preoccupazione per l’indipendenza della giurisdizione. Curiosamente, nessuno dei sostenitori della riforma ne coglie mai a pieno la portata: alcuni parlano solo della separazione delle carriere; altri enfatizzano l’Alta Corte; altri, purtroppo, plaudono al sorteggio dei componenti togati dei Consigli superiori della magistratura. Non molto tempo fa, ad esempio, il sottosegretario Delmastro “confessava” in un fuori onda di apprezzare solo il sorteggio, di temere la separazione delle carriere e di avere scrupoli garantisti rispetto all’Alta Corte. Un simile approccio è frequente, ed è eloquente. Nessuno dei sostenitori della riforma, infatti, è disposto a farsi carico della responsabilità, sia essa morale o politica, di ciò che la lettura del testo evidenzia: le tre riforme, nella loro sinergia, stravolgono l’assetto costituzionale dei poteri, spingono inesorabilmente il pm sotto l’imperio del potere esecutivo e producono una irrazionale (toh) modificazione della vita lavorativa del magistrato. Questi, infatti, per un trasferimento su domanda o il conseguimento della valutazione di professionalità o di un incarico (semi)direttivo, è affidato al giudizio di un Csm composto per due terzi da suoi pari e per un terzo da laici; invece, qualora affrontasse un procedimento disciplinare, fermo restando il quorum deliberativo di due terzi, non potrà essere prosciolto senza il voto di almeno un laico. Nei fatti, l’esito del procedimento disciplinare non dipenderà dai togati ma dai laici, che potranno quindi potenzialmente rivalersi in quella sede sul magistrato che, in qualsiasi modo, abbia arrecato “fastidio” alla loro parte politica. Magari semplicemente per aver espresso un’opinione o ancora peggio per un’inchiesta o una sentenza sgradita. Questo meccanismo condiziona in maniera evidente l’autonomia e l’indipendenza del magistrato. Non solo, spicca poi la irrazionalità del giudice disciplinare, che torna ad essere unico per giudici e pm, nonostante essi siano affidati ciascuno al proprio Csm. Quanto al sorteggio, la (in)validità di una simile scelta traspare dalle preoccupazioni postume espresse da taluni convinti sostenitori della separazione: il prof. Spangher ha di recente auspicato che il sorteggio “secco” approvato in Parlamento venga trasformato in sorteggio temperato dai decreti attuativi. Costante nel tempo, invece, l’allarme lanciato dall’Associazione italiana dei costituzionalisti. In realtà, il sorteggio è un metodo irrazionale (toh) di composizione di un organo collegiale. Esso non garantisce in alcun modo la competenza dei sorteggiati ed anzi li espelle da qualsiasi meccanismo di rappresentanza e di responsabilità politica. Pochi giorni fa questo giornale ha ospitato l’opinione del solo - allo stato - componente sorteggiato del Csm. Anch’egli, nell’esprimere la propria convinzione circa la bontà del sorteggio, è sembrato affidare al fato, più che a meccanismi razionali di rappresentanza, la qualità del collegio che ne risulterebbe. Sfugge però perché dovrebbe riscuotere fiducia, o risultare autorevole, un Csm composto da sorteggiati che, in ipotesi, ben potrebbero astenersi dalle votazioni più importanti ritenendo che la chiamata della sorte li sollevi da ogni forma di responsabilità. Esaminando la questione in termini razionali, viceversa, deve convenirsi sulla debolezza di un collegio creato dal caso, nel quale la formazione di maggioranze e minoranze in seno alla componente togata potrebbe impiegare moltissimo tempo, lasciando intanto i laici a controllare l’organo di autogoverno della magistratura. Riaffiora qui lo stravolgimento del bilanciamento costituzionale dei poteri. Illusorio, poi, dire che il sorteggio sia una panacea contro il correntismo. Anche i sorteggiati si aggregheranno intorno ad interessi o visioni comuni, con la differenza che lo faranno solo dopo essersi insediati. Inoltre tali elementi di aggregazione non saranno preventivamente conoscibili, a differenza di quanto accomuna coloro che fino ad oggi si candidavano nella medesima lista elettorale, sicché il collante dei voti dei togati sorteggiati può essere di varia natura e nessuno potrà controllare la coerenza dell’operato dei sorteggiati con i principi cui essi hanno dichiarato di ispirarsi. L’efficienza della giustizia, poi, non interessa all’attuale legislatore costituente: tale constatazione, già imposta dalla mera lettura del testo, è stata confermata dal Guardasigilli in più occasioni, così come dalla senatrice Bongiorno proprio in questi mesi. Non resta perciò che ribadire ciò che l’Anm afferma dal primo profilarsi di questa riforma: il suo unico scopo è la sottomissione della giurisdizione, in danno dei cittadini, cui viene sottratto un preziosissimo bene collettivo. *Giudice del Tribunale sorveglianza a Napoli, componente della Giunta esecutiva centrale dell’Anm Giustizia, l’Ia aiuta l’efficienza ma al centro resta il giudizio umano di Valentina Maglione Il Sole 24 Ore, 1 agosto 2025 Dall’organizzazione del lavoro alle ricerche di giurisprudenza, gli impieghi dei nuovi strumenti negli uffici giudiziari e negli studi legali. Negli uffici giudiziari come negli studi legali, la rivoluzione dell’intelligenza artificiale (Ia) è in corso. Dall’organizzazione dei ruoli all’analisi di fascicoli, dalle ricerche giurisprudenziali alla redazione di pareri e atti, sono già numerose le applicazioni concrete dei nuovi modelli nel settore della giustizia. Soluzioni, certo, in grado di velocizzare le attività e aumentare l’efficienza. Ma c’è un limite chiaro per il loro utilizzo, indicato dal regolamento europeo AI Act (Ue 2024/1689, che sarà pienamente applicabile dal 1° agosto 2026) e prescritto con forza dal disegno di legge italiano che sta per essere approvato dal Parlamento: deve restare “sempre riservata al magistrato ogni decisione sull’interpretazione e sull’applicazione della legge, sulla valutazione dei fatti e delle prove e sull’adozione dei provvedimenti”. Come dire, la suggestione del giudice-robot, della tecnologia che si sostituisce al magistrato, è esclusa: al centro rimane il giudizio umano. D’altra parte, quello della giustizia è un ambito delicato, che incide direttamente sulla vita delle persone, sia che si tratti di giudizi penali, che di controversie civili. Tanto che lo stesso AI Act - che adotta un approccio della regolazione basato sul rischio - ha classificato le soluzioni di intelligenza artificiale per l’amministrazione della giustizia tra i casi d’uso ad alto rischio, che richiedono elevati livelli di trasparenza, informazione e controllo. Necessità ribadite dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio, che ha sottolineato come l’Ia debba essere controllata e integrata dall’ingegno umano, per evitare i pericoli come “la captazione delle notizie e la manipolazione della realtà”, che possono essere letali quando si parla di giustizia. Tuttavia, lo stesso AI Act precisa che ci sono attività accessorie all’amministrazione della giustizia che non sono ad alto rischio. A dettagliarle è il disegno di legge in Parlamento, che permette il ricorso a sistemi di intelligenza artificiale per ciò che riguarda l’organizzazione dei servizi relativi alla giustizia, la semplificazione del lavoro giudiziario e le attività amministrative accessorie. L’utilizzo in questi ambiti deve essere disciplinato dal ministero, che già un anno fa ha istituito un Osservatorio permanente per l’uso dell’intelligenza artificiale nell’attività giurisdizionale. Inoltre, il disegno di legge incarica il ministero di promuovere la formazione di magistrati e personale amministrativo sull’intelligenza artificiale e sui suoi impieghi nell’attività giudiziaria. “Non è una normale formazione professionale - ha osservato il capo dell’ufficio legislativo del ministero, Antonio Mura - perché si tratta di acquisire effettivo controllo di uno strumento di grande portata ma anche rischioso”. Secondo Mura “dobbiamo attrezzarci per massimizzare i benefici dell’Ia”. Al netto delle norme, l’intelligenza artificiale è già usata per alcuni progetti al ministero, che ne ha dato conto nell’ultima relazione sull’amministrazione della giustizia, relativa al 2024. Tra questi ci sono il programma “Nemesis”, attivo presso l’Ispettorato generale del ministero per razionalizzare l’attività interna amministrativa e le banche dati, e la Piattaforma per le indagini, una soluzione web supportata da Ia che facilita il lavoro della polizia giudiziaria e del Pm durante le indagini preliminari. Inoltre, l’utilizzo dell’Ia è stato introdotto nel progetto “Data Lake”, realizzato nell’ambito del Pnrr; si tratta di un sistema centralizzato che consente di archiviare qualsiasi dato, con l’obiettivo di usare il patrimonio informativo del ministero per guidare decisioni strategiche basate sui dati. L’IA, in particolare, è impiegata per migliorare la gestione e l’analisi dei dati giudiziari, oltre che per l’anonimizzazione e la pseudonimizzazione dei documenti. Un focus è dedicato alla violenza di genere, con l’adozione di tecnologie basate sull’IA per migliorare l’efficienza operativa e la protezione dei dati sensibili. I sistemi di Ia sono stati anche attivati per facilitare la consultazione dei provvedimenti giudiziari nella Banca dati di merito, progettata dal ministero. Inoltre, l’Ia, si legge nella relazione, è usata sul piano organizzativo per “ottimizzare i carichi di lavoro e prevedere criticità”, per le ricerche tra le sentenze di merito, con la possibilità di generare sintesi dei testi, e per monitorare il disposition time (vale a dire la durata prevedibile) dei procedimenti, ai fini degli obiettivi Pnrr. A sperimentare l’uso dell’intelligenza artificiale sono anche gli uffici giudiziari, autorizzati dal ministero. Così, alla Procura generale di Perugia è stato sviluppato un progetto per redigere con l’Ia i provvedimenti di mandato di arresto europeo. Si tratta di un’applicazione che, a partire dai documenti, è in grado di elaborare una bozza di provvedimento, in formato modificabile. “Il sistema è a regime - osserva il Procuratore generale di Perugia, Sergio Sottani -. Noi lo stiamo usando e siamo soddisfatti. I documenti vengono redatti in pochi minuti. Certo, vanno controllati ma il risparmio di tempo è evidente. È una buona prassi disponibile anche per altri uffici giudiziari del distretto”. In parallelo, cresce l’interesse degli avvocati per le potenzialità dei modelli di intelligenza artificiale. A dare uno spaccato delle dimensioni del fenomeno è l’indagine su Ia e avvocatura condotta dall’Ordine degli avvocati di Milano e dal Sole 24 Ore: la seconda edizione, arrivata a un anno di distanza dalla prima, è stata presentata a maggio scorso nell’ambito di “Talk to the future”, la settimana di incontri ed eventi organizzata dallo stesso Ordine degli avvocati di Milano. Ebbene, l’indagine rivela che tra gli avvocati milanesi più di uno su due utilizza sistemi di intelligenza artificiale, con una crescita del 20% in un anno: dal 32,4% del 2024 al 54,5% del 2025. Sono evidenziati picchi di utilizzo tra i giovani avvocati fino a 35 anni (il 74,4% impiega l’Ia nel 2025, contro il 41% dell’anno scorso) e negli studi con più di dieci professionisti (la usa il 69,8% dei legali, a fronte del 43,9% del 2024). Quanto alle attività, gli avvocati impiegano le soluzioni di Ia soprattutto per sintetizzare i testi, effettuare ricerche giurisprudenziali ed elaborare bozze di pareri. “L’Ia sta trasformando l’approccio degli avvocati all’uso della tecnologia per l’attività professionale”, ragiona il presidente degli avvocati milanesi, Antonino La Lumia. “I nuovi strumenti - prosegue - consentono ricerche giurisprudenziali più mirate, non solo per parole-chiave ma discorsive, permettono di confrontare rapidamente le varie versione dei contratti e di svolgere la due diligence, sgravando i legali dalle attività seriali e liberando tempo per ragionare sulle strategie e sul lavoro di qualità”. Certo, si tratta di usi non esenti da rischi, anche per via delle “allucinazioni” dell’Ia, come ha messo in luce una pronuncia del Tribunale di Firenze dello scorso 14 marzo. I giudici hanno dovuto valutare la condotta di un avvocato che aveva inserito nella comparsa di costituzione sentenze inventate dall’Ia (frutto di una ricerca fatta da una collaboratrice di studio, si legge nella pronuncia, e non verificate dai professionisti). Il Tribunale ha escluso la responsabilità aggravata per lite temeraria a carico dell’avvocato, ma ha censurato “il disvalore relativo all’omessa verifica dell’effettiva esistenza delle sentenze risultanti dall’interrogazione dell’Ia”. Anche in questo ambito, il disegno di legge sull’Ia fissa un argine, affermando che nelle professioni i nuovi modelli possono essere usati solo per “attività strumentali e di supporto”, mentre deve restare prevalente il lavoro intellettuale e comunque occorre informare i clienti sui sistemi utilizzati. Indicazioni più dettagliate sono contenute nella “Carta dei principi” per l’uso dell’Ia in ambito forense, elaborata sempre dall’Ordine degli avvocati di Milano: vengono ribadite la centralità della decisione umana e la necessità di trasparenza; e si parla anche di dovere di competenza e formazione per un uso consapevole degli strumenti e di attenzione alla sicurezza e alla privacy. “Vogliamo evitare il rischio di appiattimento sui risultati - osserva La Lumia -. L’avvocato deve tenere il timone, anche perché la responsabilità resta in capo a lui”. Abruzzo. Santangelo: “Puntiamo su recidiva zero e su reinserimento lavorativo dei detenuti” regione.abruzzo.it, 1 agosto 2025 Oltre 40 detenuti formati in carcere grazie a corsi professionali finanziati dal FSE per favorire reinserimento e ridurre recidiva. L’assessore con delega al sociale, Roberto Santangelo, questa mattina, a Pescara, in Regione, affiancato dal direttore dell’Istituto carcerario di Pescara, Franco Pettinelli, dal presidente di Formedil Chieti-Pescara, Carlo Cericola, ed dal Garante regionale dei detenuti, avv. Monia Scalera, ha illustrato alla stampa l’iniziativa che ha consentito ad oltre 40 detenuti di frequentare alcuni corsi di formazione, erogati da Formedil Chieti Pescara, all’interno dell’Istituto carcerario San Donato di Pescara. L’iniziativa, finanziata nell’ambito del Fondo Sociale Europeo (FSE), ha riguardato, nello specifico, un corso di manutentore del verde, un corso di posatore di pavimenti e rivestimenti e un corso di operatore edile. “Noi crediamo nella recidiva zero - ha detto l’assessore Roberto Santangelo - quindi, abbiamo messo in campo diversi strumenti per raggiungere questo obiettivo, in particolare quello della formazione professionale. In questo caso, - ha aggiunto - attraverso Formedil, abbiamo erogato corsi a più di 40 detenuti per formarli sui mestieri che poi sono richiesti dal mercato del lavoro. Quindi, una volta finita la detenzione, queste persone avranno un titolo professionale e avranno anche un lavoro che le aiuterà a non replicare modelli sbagliati che potrebbero riportarle all’interno del sistema carcerario”. Ma l’assessore Santangelo ha aggiunto anche che “la Regione ha fatto di più. Infatti, sulla nuova programmazione, - ha spiegato- ha inserito 7 milioni di euro, risorse che riguardano anche la formazione professionale. A tal proposito, va detto che saranno destinati fondi specifici alle 8 case circondariali abruzzesi perché - ha proseguito l’assessore- crediamo nella recidiva zero e quindi investiamo nella formazione professionale e nell’istruzione puntando sulle persone che - ha concluso - oggi sono detenute ma alle quali dobbiamo dare una possibilità di riscatto sociale”. Parma. Indagine per omicidio volontario sulla morte di un detenuto parmatoday.it, 1 agosto 2025 È stata aperta un’indagine per omicidio volontario sulla morte del detenuto 34enne Adama Campaore, originario del Burkina Faso. Era stato arrestato il 2 giugno per resistenza a pubblico ufficiale dopo essere stato fermato mentre vagava seminudo in città, è deceduto il 12 giugno all’Ospedale Maggiore di Parma dopo essere arrivato dal carcere cittadino in condizioni gravissime. Inizialmente si ipotizzava che l’uomo fosse caduto accidentalmente in cella, provocandosi un grave trauma cranico. Tuttavia, questa ricostruzione appare ora meno probabile in seguito ai dubbi emersi dall’autopsia, come riportato dalla Gazzetta di Parma. Il compagno di cella del detenuto è attualmente indagato. Secondo quanto trapelato dagli esami autoptici, sarebbero state rilevate lesioni non compatibili con una semplice caduta. In particolare, sono stati riscontrati ematomi anche sul lato opposto della testa rispetto al presunto punto di impatto. Il RIS di Parma sta analizzando uno sgabello in legno trovato rotto nella cella, per cercare eventuali tracce biologiche riconducibili sia alla vittima sia al possibile aggressore. Cagliari. Detenuti al 41 bis a Uta, i vertici delle carceri sarde disertano il Consiglio regionale L’Unione Sarda, 1 agosto 2025 Nell’agenda delle commissioni Cultura e Salute c’erano le audizioni sull’arrivo dei mafiosi, le presidenti Soru e Fundoni: “Lo Stato si sottrae al dialogo”. Due commissioni del Consiglio regionale riunite (Cultura e Sanità) per affrontare un tema spinoso: l’arrivo a Uta di 92 detenuti al 41 Bis. Ma i principali “invitati” in audizione, i direttori delle carceri sarde e il provveditore regionale del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, non si sono presentati. Un’assenza in blocco che fa emergere un sospetto: hanno ricevuto ordini dall’alto, quindi direttamente dal ministero della Giustizia? Quesito che si pongono le presidente delle commissioni, Camilla Soru e Carla Fundoni, che non hanno potuto rivolgere le domande che avevano in programma. L’apertura del braccio del penitenziario Ettore Scalas, per le esponenti del Pd, è una “decisione grave e delicatissima, calata dall’alto, assunta senza alcun confronto preventivo con le istituzioni sarde, e destinata ad avere ripercussioni rilevanti su un sistema penitenziario regionale già segnato da gravi criticità: sovraffollamento, carenza di personale, condizioni ambientali estreme e gravi difficoltà nella gestione della sanità penitenziaria, la cui competenza, dal 1999, ricade sulle Regioni”. Oggi l’intenzione era quella di avviare “finalmente” un confronto pubblico, trasparente e responsabile su un tema di evidente interesse generale. “Tuttavia”, sottolineano Soru e Fundoni, “registriamo con forte rammarico che il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria e i direttori delle carceri hanno ritenuto di non rispondere alla convocazione. Si tratta di una decisione grave, che riteniamo non possa essere personale”, è lo spillo, “ma che in ogni caso deve essere riferita all’amministrazione della quale fanno parte, e che in ogni caso determina l’impossibilità, per un Consiglio regionale democraticamente eletto, di poter svolgere in piena autonomia le proprie funzioni di vigilanza, analisi e indirizzo su una questione che investe la sicurezza pubblica, la salute collettiva e l’equilibrio sociale di un’intera comunità”. Una decisione, quella di non presentarsi, “che pone ulteriori, e pesanti, interrogativi sullo stato del dialogo istituzionale tra lo Stato e la Regione, o meglio sulla scelta dello Stato di sottrarsi a tale dialogo”. “La decisione del Provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria e dei direttori degli istituti penitenziari sardi di non rispondere alla convocazione delle Commissioni del Consiglio regionale della Sardegna è un fatto gravissimo e senza precedenti”, l’attacco del senatore del Pd Marco Meloni. “Poiché non è credibile che funzionari dello Stato decidano, simultaneamente, di disertare un’audizione istituzionale su un tema così delicato, presenterò un’interrogazione urgente al Ministro della Giustizia per sapere se questa assenza sia il frutto di una scelta del Ministero da lui diretto. Se così fosse, ci troveremmo di fronte a un gravissimo sgarbo istituzionale, che mina il rapporto di collaborazione tra lo Stato e la Regione Sardegna”. “Chi rappresenta le istituzioni ha il dovere di confrontarsi, di rispondere, di rendere conto”, prosegue Meloni. “Negarsi al dialogo istituzionale significa indebolire la trasparenza, umiliare il principio di leale collaborazione e ignorare le legittime prerogative di un’assemblea democraticamente eletta. Sulle carceri in Sardegna è in corso una pressione insostenibile, che riguarda la sicurezza, la sanità e l’equilibrio sociale dell’intera comunità regionale. Lo Stato non può voltarsi dall’altra parte. Noi continueremo a incalzare il governo perché si faccia carico della gravità della situazione”. Alessandria. “Docce guaste da un mese”: protesta dei detenuti che non rientrano in cella radiogold.it, 1 agosto 2025 Ieri sera, 31 luglio 2025, la Casa Circondariale “Canttiello e Gaeta” di Alessandria è stata teatro dell’ennesimo episodio di tensione all’interno del sistema penitenziario italiano. I detenuti della terza sezione hanno dato vita a una protesta e hanno rifiutato il rientro nelle celle al termine del consueto momento destinato alla socialità. Questa azione sarebbe maturata per contestare il malfunzionamento delle docce, guaste, come sembrerebbe, da oltre un mese. Nonostante la gravissima e cronica carenza di personale, la protesta è stata prontamente arginata e circoscritta esclusivamente alla terza sezione interessata, “grazie alla professionalità, pazienza e senso del dovere del personale di Polizia Penitenziaria in servizio. Un comportamento encomiabile, che ha evitato il degenerare della situazione”. “Quello che accade ad Alessandria non è un caso isolato - dichiara Pino Cataldo, Vice Segretario Regionale dell’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria) - ma l’ennesima dimostrazione di un sistema penitenziario ormai totalmente fuori controllo. Da troppo tempo assistiamo a un’inerzia e a un immobilismo dell’amministrazione centrale e della politica come mai si erano visti nella storia della Repubblica italiana”. “L’Osapp ha più volte denunciato lo stato di abbandono e degrado strutturale in cui versa la sezione circondariale dell’istituto di Alessandria, senza ottenere alcuna risposta concreta. Il personale è costretto a lavorare in condizioni al limite della sicurezza e della dignità, tra aree infestate da piccioni e rischi igienico-sanitari evidenti”. Il sindacato dunque è tornato a chiedere con urgenza interventi immediati e strutturali: “Non si può più tollerare che il personale di Polizia Penitenziaria venga lasciato solo ad affrontare situazioni esplosive in contesti ormai al collasso”. Aosta. Per dieci detenuti di Brissogne un corso per pizzaioli promosso dalla Confcommercio ansa.it, 1 agosto 2025 Si è da poco concluso il corso di formazione per pizzaioli di primo livello cui hanno partecipato dieci detenuti della casa circondariale di Brissogne. Al progetto, promosso dalla Confcommercio Valle d’Aosta, hanno partecipazione docenti della Scuola italiana pizzaioli con lezioni teoriche e pratiche sulla preparazione degli impasti, gestione dei tempi di lievitazione, tecniche di stesura e cottura della pizza. L’azienda Ristorfoods ha messo a disposizione forni, attrezzature e materie prime. “Questo progetto si colloca all’interno di un programma molto ambizioso che spero di realizzare in tempi brevi ed ha lo scopo di potenziare le opportunità lavorative per le persone detenute, valorizzando le competenze acquisite attraverso regolari corsi di formazione professionale, che saranno organizzati all’interno di questa casa circondariale”, spiega Velia Nobile Mattei, direttrice dell’istituto. “Siamo orgogliosi di aver contribuito a creare opportunità concrete, - aggiunge Adriano Valieri, direttore generale Confcommercio Valle d’Aosta - offrendo competenze spendibili nel mercato del lavoro nel settore della ristorazione che sta vivendo un momento difficile legato alla ricerca del personale, ed in particolare l’arte della pizza, può rappresentare una vera opportunità di riscatto professionale e sociale”. Pesaro. Avviati 12 nuovi progetti per il reinserimento di detenuti e minori primocomunicazione.it, 1 agosto 2025 Pesaro apre un nuovo capitolo nel percorso di reinserimento sociale di detenuti e minori sottoposti a procedimento penale. Sono partiti in questi giorni 12 progetti che coinvolgeranno oltre 500 persone tra chi si trova in carcere, chi sta scontando la pena fuori dagli istituti e ragazzi seguiti dall’autorità giudiziaria minorile. Un’iniziativa promossa da Ats1 in collaborazione con le istituzioni legate al sistema penitenziario (Uepe, Usm, Prap), il Terzo settore e la Casa Circondariale di Pesaro. “Questi interventi - spiega Luca Pandolfi, presidente del Comitato dei sindaci dell’Ats1 e assessore alle Politiche sociali - spaziano dal reinserimento alla rieducazione, nel rispetto di quanto sancito dall’articolo 27 della Costituzione. Stiamo lavorando anche all’introduzione della figura del Garante per le persone private della libertà personale”. Un obiettivo condiviso con la direttrice del carcere Annalisa Gasparro, con la quale è in corso la progettazione di nuove attività, anche legate al settore agricolo. Il coordinatore Andrea Mancini sottolinea la scelta della co-progettazione con associazioni e cooperative del territorio: “Un metodo che ha generato grande collaborazione e che intendiamo replicare”. L’iniziativa è sostenuta da 159.675 euro di fondi regionali (legge 28/2008), integrati da una quota del Fondo Povertà per ampliare le azioni previste. Le attività spaziano dai corsi di formazione - come quelli per riparatori di elettrodomestici e operatori di canile - ai laboratori artistici di xilografia, scrittura creativa e cinema. Previsti anche sportelli di mediazione interculturale, orientamento e sostegno psicologico. Per i minori, percorsi di orientamento al lavoro, tirocini di inclusione sociale e progetti di comunicazione positiva. È in partenza anche un intervento residenziale per uomini adulti in misura alternativa e il progetto regionale “Il teatro in carcere”, che porterà laboratori teatrali in sei istituti penitenziari marchigiani. Brescia. In carcere si formano artigiani. Terminato il corso per calzolai elivebrescia.tv, 1 agosto 2025 Nel carcere di Canton Mombello si forma una nuova generazione di artigiani. Si è conclusa la terza edizione del corso per calzolai rivolto ai detenuti della casa circondariale “Nerio Fischione”: 80 ore di laboratorio dedicate a “Pelletteria e calzature” che hanno insegnato tecniche di montaggio, assemblaggio e creazione di accessori in pelle. Il progetto, frutto di una rete che coinvolge Gruppo Foppa, Associazione Artigiani di Brescia, Provincia di Brescia e aziende come Ciac, Montech e Vibram, punta a offrire competenze certificate e un’opportunità di riscatto a chi sconta una pena. Negli ultimi mesi i partecipanti hanno realizzato scarpe, portachiavi, portafogli, borse e marsupi, usando anche materiali di scarto messi a disposizione dalle imprese, trasformandoli in oggetti di qualità. Alla guida del laboratorio c’era Valter Panada, premiato dall’Associazione Artigiani per il suo impegno sociale: “Non è solo un corso - spiega - ma un’occasione di incontro e socializzazione in un contesto in cui l’isolamento è profondo”. L’iniziativa, che fa parte del Programma GOL finanziato dall’Unione Europea tramite il PNRR, prevede per ogni edizione un esame finale per ottenere l’attestato regionale di competenza. Visto il successo, l’esperienza continuerà: a settembre il progetto ripartirà con nuove attività e obiettivi più ambiziosi, dimostrando come il lavoro artigiano possa diventare un ponte verso il reinserimento sociale e lavorativo. Belluno. Detenuti in semilibertà volontari per manutenzione e decoro degli spazi pubblici di Sandy Fiabane Il Dolomiti, 1 agosto 2025 “Compito del carcere è ridare alle persone autonomia e responsabilità”. Un servizio per la città, ma soprattutto un’opportunità di riscatto e reinserimento sociale per persone in semilibertà: Comune di Belluno e Istituto penitenziario hanno stipulato un protocollo di intesa per offrire ad alcuni detenuti la possibilità di svolgere volontariamente lavori di pubblica utilità. Si occupano di manutenzione e decoro urbano tutti i sabati mattina, mentre il resto della settimana lavorano in fabbrica con la cooperativa Sviluppo e lavoro. Un servizio per la città, ma soprattutto un’opportunità di riscatto e reinserimento sociale per persone in semilibertà: Comune di Belluno e Istituto penitenziario hanno stipulato un protocollo di intesa per offrire ad alcuni detenuti la possibilità di svolgere volontariamente lavori di pubblica utilità. “C’è qualcosa che codice e leggi non prevedono ed è la crescita personale. Una struttura chiusa come il carcere ha l’obiettivo di mettere in sicurezza la persona dal rischio di regressione: è un compito privilegiato, che nessun’altra amministrazione ha. Osserviamo le persone anche nel loro riflettere sulle scelte fatte, perciò dobbiamo fornire loro un patrimonio di competenze sotto forma di autonomia e responsabilità” commenta Alberto Quagliotto, direttore della Casa circondariale di Belluno. L’iniziativa è partita il 10 maggio e ha coinvolto finora due persone, di cui una da poco tornata in libertà. Ad oggi sono 4 i detenuti in semilibertà (su 108 totali): si tratta di detenuti cui il tribunale di sorveglianza riconosce la semilibertà dopo un lungo percorso di buon comportamento e lavoro all’interno dell’istituto. Possono uscire la mattina e rientrare la sera: non solo per recarsi al lavoro, ma per svolgere ogni attività utile al reinserimento. “Al di là dell’aspetto concreto - prosegue Quagliotto - è un’iniziativa importante sotto il profilo valoriale perché è un’opportunità per la persona di tornare, o di entrare, su un percorso che non aveva mai fatto. Il detenuto che offre la sua prestazione alla comunità a titolo gratuito si rende infatti conto di quello che per ognuno dovrebbe essere un percorso virtuoso. Parliamo sempre della necessità di dialogo tra un’istituzione chiusa quale quella carceraria e la società esterna: il terreno su cui si può farlo è il senso civico. Il carcere fa parte della città, è un’articolazione dello Stato e un servizio per i cittadini: perciò questa iniziativa fa parte di un quadro più ampio che non va mai perso di vista”. I detenuti svolgono il volontariato il sabato mattina, dalle 8.30 alle 12.30, e sono seguiti da Paolo Zaltron, funzionario del Comune. “Il primo bilancio è positivo - dichiara - in quanto i partecipanti hanno aderito con impegno e costanza. Si occupano principalmente di manutenzione e decoro del verde pubblico e di pulizia di strade e marciapiedi e ricevono da noi sia l’attrezzatura e i dispositivi di protezione individuale sia un’iniziale formazione di base”. Si sono infatti già occupati di diverse aree della città, da Piazza dei Martiri alla manutenzione della panoramica e di diverse frazioni periferiche. “Riportare i detenuti semiliberi nell’area cittadina - aggiunge l’assessore al sociale Marco Dal Pont - dove possono dare il loro contributo lavorativo ma anche instaurare un legame con la società è un processo virtuoso. Così il sociale, visto a volte come un’entità astratta, dimostra la sua concretezza. La nostra volontà e quella dell’istituto penitenziario è sicuramente di ampliare il progetto con nuove attività e nuovi partecipanti che vogliono aderire”. Lina Battipaglia, capo area educativa della Casa circondariale, fa sapere infatti che saranno prossimamente inserite nel progetto altre due persone (una dopo ferragosto e una a settembre). Oltre al volontariato, però, svolgono anche un’attività lavorativa con la cooperativa Sviluppo e lavoro, presente in carcere da oltre 10 anni. “Abbiamo dato il nostro contributo - spiega il presidente Gianfranco Borgato - a un percorso che la sensibilità del Comune e dell’istituto ha permesso di realizzare, nonostante le difficoltà: vuol dire che si può fare. Questi detenuti lavorano anche presso la nostra unità produttiva in Alpago, dove fanno soprattutto assemblaggio. Inoltre, abbiamo una fabbrica nella Casa circondariale con commesse da diverse aziende locali: impieghiamo stabilmente circa una trentina di detenuti e i risultati sono positivi, anche in termini di riduzione della recidiva”. La prossima idea in ballo, per la quale ci sono già state delle interlocuzioni tra gli enti, è un corso di scacchi tenuto in carcere da un volontario bellunese. “Sarebbe un ulteriore passo importante - conclude Dal Pont - perché si tratta di un gioco che presuppone azioni meditate e tanta riflessione: questa potrebbe essere la fase successiva del nostro progetto insieme”. Milano. “La Nave” nel carcere di San Vittore, un modello terapeutico per la tossicodipendenza di Silvia Pogliaghi trendsanita.it, 1 agosto 2025 Nel carcere di San Vittore, il reparto “La Nave” accoglie detenuti tossicodipendenti in un percorso terapeutico innovativo e strutturato. Un modello unico in Italia, raccontato a TrendSanità da Giuliana Negri, tra indicatori di efficacia, relazioni umane e prospettive di reinserimento. Nel cuore del carcere di San Vittore a Milano esiste un reparto che sfugge agli stereotipi penitenziari. Si chiama “La Nave” e, sin dal 2002, rappresenta un modello virtuoso, ancor oggi unico in Italia, di trattamento avanzato per detenuti tossicodipendenti. Più che una struttura detentiva, La Nave si configura come una comunità terapeutica intramuraria, un luogo di transizione, che ‘naviga’ e che prova ad avviare un percorso di cura dentro un contesto, quello carcerario, dove la marginalità rischia di essere solo acuita. Abbiamo intervistato Giuliana Negri, responsabile clinica del reparto, medico psichiatra, titolare dell’Unità Semplice di Trattamento Avanzato “La Nave”, parte del Dipartimento di Salute Mentale dell’ASST Santi Paolo e Carlo di Milano. Quali sono gli indicatori clinici e psicologici principali che monitorate per valutare l’efficacia del percorso terapeutico nel reparto La Nave? Esistono metriche oggettive? “I principali elementi oggettivi sono la partecipazione alle attività di gruppo, che costituiscono il fulcro del nostro intervento terapeutico. Valutiamo sia la presenza quantitativa sia la qualità dell’intervento, cioè il coinvolgimento attivo ed emotivo della persona. Osserviamo anche i comportamenti nel reparto, le interazioni con operatori e compagni e il benessere psicofisico complessivo durante la permanenza. Gli esami tossicologici vengono effettuati saltuariamente, senza preavviso e a scopo clinico, non con funzione di controllo costante come avviene nei Ser.D territoriali. Inoltre, nel contesto carcerario, questi strumenti hanno una valenza diversa e sono applicati con discrezione”. Come si accede al reparto? Quali sono i criteri di selezione? ““La Nave” è un trattamento avanzato, attivato in seguito alla diagnosi di tossicodipendenza da parte del Ser.D penitenziario di primo livello. Gli utenti devono avere una certificazione formale e alcune caratteristiche cliniche: stabilità psichica (non accogliamo pazienti con gravi scompensi psichiatrici), una motivazione, anche minima, al trattamento, la capacità di mettere in discussione la propria tossicodipendenza. È fondamentale una conoscenza sufficiente della lingua italiana per partecipare ai gruppi. Inoltre, non devono essere detenuti definitivi, perché questi vengono di norma destinati alle case di reclusione”. Quanti pazienti accoglie oggi il reparto? “La capienza ufficiale è di 60 posti, anche se siamo accreditati per 37. In realtà, vista la pressione del sovraffollamento, si arriva spesso a 70 pazienti. Attualmente siamo a 60, ma il numero varia molto a causa dell’elevato turnover, legato a trasferimenti, misure alternative o problemi disciplinari”. Quanto dura, mediamente, la permanenza di un paziente alla Nave? “La permanenza minima per redigere una relazione clinica utile al percorso è di sei mesi, un tempo che ricalca quello delle comunità terapeutiche. Dopo due anni, il percorso viene considerato concluso. Alcuni restano per tempi più brevi (in attesa di domiciliari o trasferimenti), ma in generale tutti rimangono almeno sei mesi”. E dopo? Cosa succede a chi lascia la Nave? “Se ottengono misure alternative, vengono presi in carico dal Ser.D territoriale, che può avviare programmi in comunità, in centri diurni o con percorsi individuali. In caso di trasferimenti in altre carceri, si cerca di proseguire il trattamento, preferibilmente a Bollate o a Opera, dove esiste anche il progetto di rinserimento sociale lavorativo “La Vela”, ispirato dal progetto riabilitativo “La Nave”“. Che tipo di relazioni si instaurano tra i pazienti all’interno del reparto? “Alla Nave si crea un contesto relazionale unico. Le celle sono aperte dalle 8:30 alle 19, il che consente una continua interazione. Gli operatori sono presenti in modo costante, e nel weekend sono presente io, quando sono di guardia per il Ser.D. C’è un patto di adesione che definisce gli obiettivi comuni del reparto, e ciò favorisce collaborazione e sostegno tra i pazienti-ristretti. Abbiamo anche un giornale interno e altre attività che incentivano un senso di comunità. Naturalmente emergono conflitti, ma li affrontiamo e li elaboriamo insieme, evitando l’indifferenza e la rimozione”. Qual è la percentuale di stranieri nel reparto? E le fasce d’età prevalenti? “Gli stranieri sono circa il 30%, ma la percentuale è in crescita. Provengono per lo più dal Nord Africa, ma ci sono anche persone dell’America Latina, del Centro Africa e dell’Asia. L’età media è di 37 anni, ma abbiamo un numero sempre più elevato di giovanissimi: circa il 40% ha tra i 18 e i 26 anni”. Avete mai registrato episodi di suicidio o autolesionismo? “In oltre vent’anni, un suicidio, avvenuto prima della mia gestione. Da quando sono responsabile non abbiamo avuto eventi gravi. L’autolesionismo esiste, ma in misura molto inferiore rispetto ad altri reparti. Questo grazie alla presenza costante degli operatori, che permette di intercettare e contenere le crisi tempestivamente”. Quali attività svolgete, anche grazie al supporto di volontari? “Abbiamo una stretta collaborazione con l’associazione “Amici della Nave”, composta da volontari con competenze professionali specifiche. C’è chi insegna yoga, chi gestisce il giornale del reparto, chi fa teatro o lingua inglese. Le attività terapeutiche sono condotte dai professionisti interni, mentre quelle riabilitative vengono co-gestite con i volontari. Questo modello integrato rende “La Nave” un unicum, non solo nel panorama carcerario milanese. Esistono esperienze simili in Italia o all’estero? “In Italia no, “La Nave” è l’unica unità operativa semplice con queste caratteristiche all’interno di una casa circondariale. Esistono progetti simili, come “La Vela” a Opera, ma sono molto più piccoli e non strutturati con la stessa precisione. All’estero non conosco esempi identici”. È un modello replicabile in altre strutture italiane? “Per queste attività servono investimenti: in personale, in formazione e soprattutto in visione. Creare un contesto come “La Nave” significa credere in un percorso di cura precoce dentro il carcere, che non ha l’obiettivo di “guarire”, ma di avviare un cambiamento. “La Nave” è, metaforicamente, un ponte tra la devianza e la riabilitazione e sarebbe auspicabile che ne esistessero molte altre. I ragazzi ce lo chiedono spesso: “Perché non ci sono più Navi?”“. Nel 2002 fu fatto un investimento per creare questo reparto. Esiste una valutazione del “ritorno” in termini economici o sociali? “Non esiste un dato ufficiale. Ma ci fu allora un gruppo di persone illuminate, direttori, operatori e dirigenti sanitari, che decisero di credere in un modello nuovo, innovativo e coraggioso. Non so se oggi ci sia la stessa disponibilità mentale a investire su esperienze simili. In termini economici non saprei dire quanto sia costato, ma certamente l’impatto sociale è stato enorme. “La Nave” è diventata un modello, un presidio di umanità dentro il carcere. E questo, forse, è il miglior ritorno che si possa immaginare”. Udine. L’ex sezione femminile del carcere trova nuova vita e funzione friulisera.it, 1 agosto 2025 Inaugurato Polo Educativo Culturale e Formativo all’interno del carcere di Udine. Si è svolta ieri mattina la presentazione dei lavori di realizzazione della nuova sala polifunzionale della Casa circondariale di Udine. Un taglio del nastro per il nuovo Polo Educativo Culturale e Formativo e della nuova Biblioteca realizzati all’interno del carcere di Udine. Nuovi spazi ricavati all’interno dell’ex sezione femminile rimasta inutilizzata e abbandonata da oltre vent’anni che ha trovato così nuova vita e funzione. Va detto che la nuova struttura ristrutturata ha colpito stampa e visitatori presenti al tagli del nastro, per la realizzazione ordinata e funzionale degli spazi pur considerando i limiti imposti dalla preesistente struttura. A fare gli onori di casa la direttrice Tiziana Paolini accompagnata da graduati ed agenti della polizia penitenziaria. Presenti fra le altre autorità i vertici del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), il Prefetto di Udine, Domenico Lione, Il sindaco di Udine Alberto Felice De Toni accompagnato da assessori e consiglieri. Presenti anche i consiglieri regionali Furio Honsell, Manuela Celotti e Massimo Morettuzzo. Troppo lunga la lista per nominare autorità e tutte le associazioni presenti, ma corre l’obbligo citare il Garante dei detenuti di Udine, Andrea Sandra e il precedente Garante Franco Corleone che dal 2021 ha promosso e dato vita all’idea della ristrutturazione, assieme all’associazione Icaro, con la Presidente Roberta Casco che ha accompagnato tutto il percorso di ristrutturazione. Percorso che vede una nuova visione di carcere che intreccia detenzione, cultura e inclusione, trasformando la casa circondariale in presidio civile e luogo di relazioni con il territorio ma si spera anche occasione concreta di reinserimento per i detenuti. Costruita nel 1925, la Casa circondariale di Udine è composta da più corpi edilizi, tra cui l’ex sezione femminile, dismessa dagli anni ‘90: dal 2020 il DAP ha avviato una serie di lavori di ristrutturazione mirati al recupero funzionale degli spazi per attività trattamentali, formative e culturali. Nel 2023 l’Università di Udine, lo ricordiamo, ha avviato un workshop per ripensare il carcere di via Spalato come risorsa urbana, grazie a una convenzione con il Dap. L’analisi ha rivelato complessivamente oltre 8.000 metri quadri inutilizzati, aprendo la strada a una strategia di interventi progressivi e coordinati di cui l’odierna inaugurazione è solo un pezzo. Basti pensare al previsto teatro da 100 posti, accessibile anche dall’esterno, e alla nuova area verde. Il progetto in sostanza propone un carcere “palinsesto”, ricco di spazi collettivi e aperto alla città, superando l’idea della cella come centro della detenzione. Vale la pena ricordare come il primo progetto realizzato ha trasformato l’ex caserma in una nuova residenza per semiliberi, simbolicamente collocata sul fronte strada, fuori dal recinto murario. Il secondo, quella inaugurata oggi, ha riguardato l’ex sezione femminile, che ospita il polo didattico, lavorativo e una biblioteca. Ovviamente l’inaugurazione odierna è certamente un fattore positivo ma non si può nascondere che molta strada deve essere fatta, non solo perchè il carcere di via Spalato, al pari di altre strutture detentive italiane, soffre di un intollerabile sovraffollamento con 183 detenuti per 95 posti, ma soprattutto perchè, dal punto di vista strutturale, la zona dedicata alla detenzione è in molte parti fatiscente ed insalubre non certo all’altezza di poter definire già oggi l’intera struttura carceraria udinese un modello. Celotti (Pd), nuovi spazi utili per inclusione detenuti - “Con nuovi spazi culturali, formativi e lavorativi il carcere di Udine fa un altro positivo passo avanti. Oggi si festeggia il coronamento di un percorso avviato nel 2021 e che nel giro di pochi anni ha visto concretizzarsi un importante obiettivo che sembrava utopia”. Lo afferma la consigliera regionale Manuela Celotti (Pd) oggi presente all’inaugurazione del nuovo Polo educativo culturale e formativo nella Casa circondariale di Udine in Via Spalato. “La riconversione dell’ex sezione femminile, dove sono stati ricavati degli spazi dedicati allo studio, ai laboratori, oltre alle stanze per i colloqui e a una bellissima biblioteca, saranno fondamentali per garantire una miglior qualità della vita all’interno del carcere e per aiutare i detenuti a costruire una prospettiva per l’uscita” commenta ancora Celotti. “Il progetto è frutto di una sinergia interistituzionale importante che ha inaugurato uno stile di lavoro che valorizza il ruolo delle associazioni all’interno del carcere e il raccordo tra la casa circondariale e il territorio”. L’auspicio, per l’esponente dem, “è che la stessa modalità sia ora utilizzata per risolvere le criticità che ancora permangono, come il potenziamento dell’assistenza sanitaria all’interno del carcere, di competenza della Regione”. E ancora, “tutto il tema dell’uscita anche attraverso le pene alternative, che non può essere affrontato se non investendo su percorsi virtuosi di inserimento lavorativo dei detenuti e su un approccio innovativo al tema della casa e dell’abitare, di cui si dovrebbero far carico le istituzioni”, tema che Celotti ha portato in Consiglio con un emendamento all’assestamento di bilancio, chiedendo di istituire una linea di finanziamento dedicata ai Comuni che ospitano strutture di detenzione, per attivare progetti di inclusione abitativa destinati ai detenuti in uscita dalle carceri. “Un emendamento non approvato, ma sul quale l’assessore ha garantito che ci sarà una riflessione”. Furio Honsell: fondamentale ridurre la recidività e favorire il recupero sociale dei detenuti - “Oggi ho partecipato all’importante cerimonia di inaugurazione degli spazi per il lavoro e la formazione dei detenuti presso la casa circondariale di Udine. La formazione e l’attività lavorativa dei detenuti è indispensabile per il loro reinserimento nella società e per ridurre il rischio di recidività. Ancora molto c’è da fare però per raggiungere quelli che dovrebbero essere gli obiettivi costituzionali della pena: non la vendetta ma il recupero sociale di chi ha commesso delitti. La casa circondariale di Udine è sovraffollata: il numero dei detenuti è quasi il doppio della capienza. Ciò impedisce di ristrutturare aree che sono ancora degradate, perché non ci sono spazi per trasferire i detenuti durante il tempo necessario per lo svolgimento dei lavori. Un altro problema è la mancanza di strutture di alloggio esterno per assegnare misure alternative esterne. Ciò è particolarmente grave per i detenuti stranieri, che sono costretti così a rimanere in carcere sino all’ultimo giorno, diversamente da quelli italiani. Oggi comunque è stata una giornata positiva e vanno fatti i complimenti alla direttrice e ai suoi collaboratori e ai garanti dei detenuti Sandra e Corleone. Non dobbiamo mai dimenticare le parole di Papa Francesco, che uscendo dal carcere di Rebibbia disse: “quando entro in questi luoghi mi chiedo sempre perché loro e non io”.” Così si è espresso Furio Honsell, Consigliere regionale di Open Sinistra FVG. Roberti: investire nelle carceri è vera prevenzione - L’assessore è intervenuto alla cerimonia di inaugurazione della ex palazzina femminile della casa circondariale di Udine. “Chi entra in carcere ha commesso un errore, ma lo Stato ha il dovere di accompagnarlo verso una prospettiva di riscatto. Investire sul benessere, la formazione e la dignità delle persone detenute significa fare vera sicurezza: una sicurezza che riguarda tutti, dentro e fuori da queste mura”. Lo ha detto l’assessore regionale alla Sicurezza Pierpaolo Roberti intervenendo questa mattina alla cerimonia di inaugurazione dei rinnovati spazi della palazzina ex femminile della casa circondariale di Udine, trasformata in un moderno polo scolastico, lavorativo e formativo. Alla cerimonia hanno preso parte numerose autorità civili e militari. Nel portare i saluti del governatore del Friuli Venezia Giulia, Massimiliano Fedriga, Roberti ha sottolineato il valore degli investimenti effettuati e programmati per migliorare le strutture penitenziarie, nonostante le oggettive difficoltà operative: “Fare lavori pubblici è già complesso, farli in una casa circondariale attiva lo è ancora di più, tra sovraffollamento e carenza di personale. Eppure qui si è fatto molto e ancora molto si farà. Vedere i cantieri aperti, le sezioni riqualificate, i nuovi spazi restituiti alla funzione educativa è un segnale forte. Merito della direzione, del personale, delle istituzioni coinvolte, ma anche della Regione, che c’è e continuerà a esserci”. L’assessore Roberti ha ricordato il sostegno della Regione anche ad attività collaterali in ambito culturale e sociale: “Vogliamo portare avanti un progetto sulla lettura nelle carceri del Friuli Venezia Giulia, perché crediamo che cultura, formazione e lavoro siano strumenti di prevenzione e reinserimento fondamentali”. La palazzina ex femminile, oggi inaugurata, è stata interamente ristrutturata e riconvertita in polo scolastico-lavorativo: su due piani, ospita ora spazi per attività formative, laboratori lavorativi, un’ampia biblioteca, nuovi locali per la sorveglianza e il trattamento. Già operativa anche una sezione di semilibertà. Sono in fase di completamento altri importanti interventi: la realizzazione di un teatro da 100 posti, l’adeguamento della sala colloqui (con area affettività dedicata ai bambini), la ristrutturazione del campo sportivo, il riordino degli spazi interni e sanitari, lo spostamento dell’infermeria al piano terra, nuovi locali per l’archivio e stanze di socialità. “È un lavoro collettivo - ha concluso Roberti - reso possibile da una squadra coesa. E ogni passo compiuto qui dentro è un passo avanti anche per la società esterna”. Agrigento. Agosto in carcere, solidarietà dagli avvocati: donati condizionatori per la sala colloqui agrigentonotizie.it, 1 agosto 2025 L’iniziativa del consiglio dell’Ordine per consentire “dignità e decoro nelle visite dei detenuti”. “Dignità e attenzione concreta verso chi vive il carcere, anche nei suoi momenti più delicati”: con questo spirito, il consiglio dell’Ordine degli avvocati di Agrigento ha donato nella mattinata di oggi due condizionatori d’aria alla casa circondariale “Pasquale Di Lorenzo” di Agrigento, destinati alla sala colloqui tra detenuti e familiari. “Una scelta simbolica ma soprattutto pratica - si legge in una nota del Consiglio -, pensata per offrire un sollievo reale durante i mesi estivi, in uno spazio fondamentale dove si tengono gli incontri tra chi sconta una pena e i propri affetti più stretti. Un piccolo gesto che, però, assume un grande significato in un contesto spesso dimenticato dall’opinione pubblica”. “Il carcere non può e non deve essere un luogo di abbandono. L’avvocatura ha una funzione sociale fondamentale e deve essere ponte tra le istituzioni e la società civile, anche dentro il carcere”, sottolinea il presidente dell’Ordine degli avvocati di Agrigento, Vincenza Gaziano. “La dignità dell’uomo - aggiunge - deve essere sempre garantita anche in cella. Con questa donazione vogliamo ribadire il nostro impegno per una giustizia che sappia coniugare legalità e umanità”. La sala colloqui, spesso utilizzata anche da bambini e persone fragili in visita ai loro congiunti, è ora dotata di un sistema di climatizzazione che renderà più vivibile uno spazio emotivamente e fisicamente impegnativo. Il consiglio forense aggiunge: “L’iniziativa si inserisce in una visione più ampia di attenzione al sistema penitenziario e al rispetto dei diritti fondamentali di tutti i cittadini, inclusi quelli reclusi”. Foggia. “Fili invisibili” tra carcere e casa di riposo: parole che uniscono, lettere che “liberano” Ristretti Orizzonti, 1 agosto 2025 Donne detenute, anziani ospiti di “Maria Grazia Barone” e volontari protagonisti di un dialogo epistolare profondo. Annalisa Graziano: “Anche nei luoghi più difficili si possono tessere legami rigeneranti, capaci di trasformare la solitudine in condivisione”. Un foglio, una penna, una storia da raccontare. Così è nato un dialogo delicato e profondo tra donne detenute nella Casa Circondariale di Foggia e alcuni anziani ospiti della Casa di Cura “Maria Grazia Barone”. Un progetto semplice, ma potente, fatto di parole scritte e lette a voce alta, che ha unito due mondi lontani, eppure vicini nella comune esperienza della fragilità. L’iniziativa si inserisce in un percorso più ampio di attività promosse, durante l’estate, dalla volontaria ex art. 78 dell’Istituto Penitenziario, Annalisa Graziano, con la collaborazione di don Fernando Escobar e della Comunità di Sant’Egidio di Foggia e con il sostegno del CSV Foggia. Il progetto ha visto la partecipazione attiva dei Giovani per la Pace di Sant’Egidio Foggia Daniele, Giorgia, Francesca, Teresa e di Federica che si sono fatti messaggeri di emozioni, racconti e speranze. Le donne detenute hanno scritto le prime lettere, affidando alle parole le proprie storie, il dolore della lontananza dai propri cari, il desiderio di riscatto, la ricerca di senso e di futuro. I volontari le hanno lette agli anziani, che hanno ascoltato commossi, per poi dettare le risposte, piene di affetto, ricordi di gioventù, esperienze di guerra e consigli da trasmettere a chi oggi vive una forma di solitudine dolorosa. In ogni riga, un abbraccio invisibile. Lo scambio - intenso, autentico e commovente - ha generato un’inaspettata forma di cura reciproca: per le donne detenute, la possibilità di sentirsi accolte e ascoltate; per gli anziani, l’opportunità di offrire conforto e saggezza, riscoprendo nuove forme di amicizia e calore. “Questa attività meravigliosa - sottolinea Annalisa Graziano - ha mostrato come la parola scritta possa diventare un ponte, una carezza, un gesto di prossimità profonda. È la dimostrazione tangibile che anche nei luoghi più difficili si possono tessere legami profondi e rigeneranti, capaci di trasformare la solitudine in condivisione e la distanza in vicinanza. Desidero ringraziare il direttore della Casa Circondariale di Foggia, Michele De Nichilo e la Fondazione Maria Grazia Barone, diretta da Daniela Tartaglia, per aver accolto con entusiasmo questa proposta. Un ringraziamento speciale va all’area educativa del carcere, un punto di riferimento imprescindibile per le attività di volontariato e non solo. Ringrazio inoltre il Comandante di Reparto e la polizia penitenziaria per la disponibilità e i giovani volontari di Sant’Egidio che hanno contribuito con sensibilità ed entusiasmo alla realizzazione del progetto. Ma soprattutto, grazie alle donne detenute e agli anziani, che con parole semplici hanno tessuto fili invisibili e commoventi, capaci di attraversare i muri, cancelli e di arrivare al cuore”. L’iniziativa è parte di una proposta più ampia di attività educative e relazionali rivolte alla sezione femminile del carcere di Foggia, che ha visto - a partire da giugno 2025 - momenti settimanali di lettura condivisa, scrittura creativa e incontri culturali. Tra questi, appunto, il laboratorio “Fili invisibili” che si propone di rendere stabile il legame epistolare tra le donne detenute e gli anziani ospiti della struttura, costruendo un ponte intergenerazionale fatto di ascolto, empatia e umanità. La Fondazione Giulia Cecchettin e CampBus per portare l’educazione sentimentale nelle scuole di Federico Cella e Michela Rovelli Corriere della Sera, 1 agosto 2025 I seminari di Gino Cecchettin con gli studenti delle scuole di Catania, Roma, Milano e Verona sull’educazione ai sentimenti. Quando Gino Cecchettin si è presentato davanti alla Camera per raccontare cosa intendeva fare con la neonata Fondazione dedicata alla figlia Giulia, uccisa dall’ex fidanzato Filippo Turetta nel novembre del 2023, ha parlato di un “sogno che ha un valore immenso perché è nato da una tragedia immane”. Il sogno è provare a fare qualcosa, a impegnarsi, per proporre - e dunque costruire - “modelli di relazione basati sulla stima reciproca, sull’ascolto e sul rispetto” partendo dalle nuove generazioni, protagoniste del futuro e che dunque hanno in mano la possibilità di cambiare e migliorarsi più di ogni altro. Che possono rendere realtà quel sogno, insomma. La Fondazione Giulia Cecchettin ha deciso di salire a bordo di CampBus nella sua sesta edizione proprio per iniziare questo percorso. Il progetto del Corriere della Sera che porta spunti di cultura digitale nelle scuole si arricchisce dunque di un appuntamento durante il tour 2025, che toccherà istituti di Catania, Roma, Milano e Verona: quattro seminari tenuti dallo stesso Gino Cecchettin sull’educazione ai sentimenti. Come si sposano i due temi, relazioni interpersonali e tecnologia? Lo spiega lui stesso, nel discorso tenuto alla Camera: “Viviamo in un’epoca contraddistinta dalla fretta e dalla superficialità: tutto scorre e si consuma troppo in fretta. Non è mai accaduto, nella storia dell’umanità, che ci si trovasse ad essere così “connessi”, sempre e ovunque; eppure, paradossalmente, avvertiamo di essere tra noi distanti, chiusi in noi stessi, e sempre più “scollegati” da ciò che conta davvero”, diceva. Le piattaforme digitali, i social network, gli smartphone sono ormai i canali attraverso cui passano anche i rapporti con l’altro. E dunque è bene tener presente anche di questa sfera quando si tratta di proporre un nuovo modo di vivere l’amore e gli altri sentimenti, che sia basato sul rispetto, la parità e l’ascolto. Con l’obiettivo di combattere ogni forma di discriminazione e violenza. Partendo dalla sua esperienza personale, Gino Cecchettin e la Fondazione che ha deciso di creare proverà a trasmettere agli studenti che partecipano a CampBus il suo messaggio. Per “trasformare la tragedia in speranza, l’indifferenza in azione e la paura in un nuovo inizio”. Gino Cecchettin incontrerà gli studenti del liceo Cutelli di Catania il 23 settembre, quelli dell’Itis Galilei di Roma il 2 ottobre. Sarà poi insieme a ragazzi e ragazze del liceo Carducci di Milano il 13 ottobre e infine al liceo Maffei di Verona il 24 ottobre. Cecchettin sarà anche l’ospite dell’evento di lancio di CampBus, “A scuola di sentimenti”, il 14 settembre alle 16.00 nel Salone d’Onore della Trienale di Milano. Insieme agli studenti del liceo Parini e dell’Istituto Natta di Milano affronterà il tema dell’educazione sentimentale a scuola con un debate, per provare a capire - con tesi a favore e tesi contrarie - se è giusto portare questi temi in classe e se i sentimenti dovrebbero entrare a pieno diritto nell’educazione in quanto fenomeni culturali, storici e sociali. Fine vita. “Fate una legge che abbia senso” Il Domani, 1 agosto 2025 Martina Oppelli è morta in Svizzera, l’Italia le aveva negato il suicidio assistito. La 51enne triestina, affetta da sclerosi multipla, ha scelto l’eutanasia all’estero dopo tre dinieghi della sanità italiana. L’ultimo video: “Non ce la facevo più, il mio corpo si è disgregato”. “Il fine vita tocca a tutti, prima o poi. Ogni scelta va rispettata”. Così Martina Oppelli, affetta da sclerosi multipla da oltre 25 anni, ha rivolto un appello alle istituzioni italiane prima di morire oggi in Svizzera, mediante il suicidio medicalmente assistito. Aveva 51 anni, era architetta, e da decenni conviveva con la malattia. Negli ultimi tempi era completamente paralizzata. “Non ce la facevo più ad aspettare”, ha detto nel suo ultimo video. In Italia, dove questo tipo di procedura è possibile in presenza delle condizioni dettate dalla Corte costituzionale, le sue richieste erano state respinte tre volte. A rendere pubblica la notizia è stata l’associazione Luca Coscioni, che ha seguito il caso. Oppelli è stata accompagnata in Svizzera da Claudio Stellari e Matteo D’Angelo, due volontari di Soccorso Civile, il gruppo che affianca le persone nelle disobbedienze civili sul fine vita all’estero, di cui è rappresentante legale Marco Cappato. Il vuoto della legge, tra sentenze e dinieghi sanitari - Nel 2019 la Corte costituzionale, con la sentenza Cappato/Antoniani, ha aperto alla possibilità del suicidio medicalmente assistito per chi si trova in condizioni di sofferenza irreversibile ed è tenuto in vita da trattamenti di sostegno. Ma in assenza di una legge nazionale, l’applicazione concreta resta affidata alla valutazione delle singole aziende sanitarie locali. Oppelli si era rivolta all’Asugi (Azienda sanitaria universitaria Giuliano Isontina), che ha ritenuto che le sue condizioni non rientrassero nei criteri previsti, sostenendo che non fosse in corso alcun trattamento di sostegno vitale. Una tesi contestata dall’associazione Coscioni, che sottolinea la completa dipendenza della donna da caregiver e da presidi medici, e ricorda che in Umbria, in condizioni analoghe, la richiesta di Laura Santi era stata accolta. Il nodo resta sempre lo stesso: in assenza di una legge, il diritto non è garantito in modo uniforme. Dal video del 2024 all’ultimo messaggio - Martina Oppelli aveva scelto di rendere pubblica la sua storia già dopo i primi dinieghi. In un video del 2024, diffuso con l’associazione Coscioni, aveva detto: “Non chiamatelo suicidio, io non sono una suicida. È una scelta d’amore verso la vita che ho avuto. Si parla di eutanasia, di buona morte. Vorrei morire col sorriso, nel mio paese, dove ho scelto di vivere e di pagare le tasse”. Aveva anche diffidato formalmente l’azienda sanitaria della sua regione. Il 4 giugno 2025 era arrivato il terzo diniego. A quel punto ha deciso di partire. Il viaggio, spiega la nota dell’associazione, è stato “particolarmente doloroso”, anche perché non lasciava Trieste da undici anni. “In questi ultimi due anni il mio corpo si è disgregato, io non ho più forza, nemmeno di parlare - ha raccontato poco prima di morire - Venire in Svizzera è stato uno sforzo titanico ma l’ho fatto per avere una fine dignitosa alla mia sofferenza”. Nel discorso pubblicato oggi, giovedì 31 luglio, Martina Oppelli ha voluto lanciare un monito all’attuale legislazione in Italia: “Perché dobbiamo andare all’estero, pagare, affrontare viaggi assurdi? Per piacere, io non voglio che questo iter si ripeta per altre persone. Anche noi abbiamo fatto di tutto per vivere, credetemi”. “Fate una legge che abbia senso”, ha ribadito nel videomessaggio. “Che tenga conto di ogni dolore possibile. Che non discrimini nessuna situazione plausibile. Non potete farci aspettare due, tre anni per una risposta”. Cittadinanza iure sanguinis, non spetta alla Consulta intervenire Il Sole 24 Ore, 1 agosto 2025 Per la Corte costituzionale, sentenza numero 142 depositata oggi, le censure sono inammissibili considerata l’ampia discrezionalità del Legislatore. Non è ammissibile un intervento della Corte costituzionale che limiti l’acquisizione della cittadinanza per discendenza, attraverso una sentenza manipolativa che operi scelte, fra molteplici possibili opzioni, connotate da un ampio margine di discrezionalità e che hanno incisive ricadute a livello di sistema. È quanto si legge nella sentenza numero 142 depositata oggi, con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibili e non fondate varie questioni di legittimità costituzionale, sollevate dai Tribunali di Bologna, di Roma, di Milano e di Firenze, sull’articolo 1 della legge numero 91 del 1992, nella parte in cui, stabilendo che “[è] cittadino per nascita: a) il figlio di padre o di madre cittadini”, non prevede alcun limite all’acquisizione della cittadinanza iure sanguinis. Le questioni sono giunte alla Corte a partire da giudizi di accertamento della cittadinanza avviati da ricorrenti che sono discendenti di cittadini o cittadine italiani, ma sono nati all’estero, sono ivi residenti e hanno la cittadinanza di un altro Stato. I Tribunali rimettenti hanno censurato tale normativa nella parte in cui non stabilisce alcun criterio idoneo a garantire l’effettività del legame con l’ordinamento giuridico italiano che, secondo i rimettenti, non sussisterebbe nei casi richiamati. I giudici delle leggi hanno precisato che il legislatore vanta “un margine di discrezionalità particolarmente ampio” nell’individuare i presupposti dell’acquisizione della cittadinanza, mentre alla Corte compete accertare che le norme che regolano l’acquisizione dello status civitatis non facciano ricorso a criteri del tutto estranei ai principi costituzionali o che contrastino con essi. Nello specifico, la Corte ha rilevato che i giudici rimettenti non hanno contestato, in generale, l’idoneità del vincolo di filiazione a giustificare, alla luce dei principi costituzionali, l’acquisizione della cittadinanza. Viceversa, essi hanno posto in dubbio che, in presenza di richiedenti variamente collegati con ordinamenti giuridici stranieri, sia sufficiente la sola discendenza da un cittadino o da una cittadina italiani a supportare l’acquisizione dello status di cittadino, in mancanza di ulteriori elementi di collegamento con l’ordinamento giuridico italiano. La molteplicità e genericità delle variabili su cui si fondano i dubbi di legittimità costituzionale sollevati e, correlativamente, la varietà di scelte discrezionali che dovrebbe effettuare la Corte, nell’ambito di una molteplicità di opzioni che hanno significativi riflessi di sistema, hanno comportato l’inammissibilità della maggior parte delle questioni di legittimità costituzionale sollevate. In particolare, sono state reputate inammissibili le censure concernenti gli articoli 1, 3 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione ai vincoli imposti dal diritto dell’Unione europea. Parimenti, è stata ritenuta inammissibile la questione sollevata sull’articolo 117, primo comma, della Costituzione, in relazione agli obblighi internazionali, non avendo i rimettenti individuato quale fosse la norma internazionale violata dalla quale discenderebbe il mancato rispetto dei richiamati obblighi. Inoltre, la Corte ha dichiarato non fondate le questioni con cui veniva lamentata una irragionevole disparità di trattamento fra la citata disciplina e altri meccanismi di acquisizione della cittadinanza. Per tali censure, la Corte ha ritenuto che difettasse la “sostanziale identità di situazioni” che deve, invece, sussistere per poter accertare tale vizio di incostituzionalità. Da ultimo, la Corte ha respinto le richieste delle parti costituite in giudizio di pronunciarsi in merito alla nuova disciplina - introdotta, nella pendenza del giudizio, con il decreto-legge numero 36 del 2025, convertito nella legge numero 74 del 2025 - che ha posto limiti all’acquisizione della cittadinanza iure sanguinis. La Corte, infatti, ha chiarito che tale disciplina non trova applicazione ai giudizi dai quali si sono originate le questioni di legittimità costituzionale sottoposte al suo esame. Migranti. “Paesi sicuri”, oggi la sentenza della Corte Ue. In gioco il protocollo con Tirana di Giansandro Merli Il Manifesto, 1 agosto 2025 La prima fase dell’intesa Meloni-Rama, riservata ai richiedenti asilo mai entrati in Italia, è appesa a questa decisione. Il grande giorno è arrivato: oggi alle dieci la Corte di giustizia Ue legge la sentenza che segna il futuro del protocollo Roma-Tirana. La causa - ribattezzata con i cognomi di fantasia Alace-Canpelli, secondo la prassi del tribunale di Lussemburgo a tutela della privacy - riguarda la definizione dei “paesi di origine sicuri” ed è stata discussa lo stesso 25 febbraio dalla Grande chambre (una sorta di Sezioni unite). In quell’occasione dodici paesi membri e la stessa Commissione Ue, con un’incredibile testacoda rispetto alla memoria depositata solo un mese prima, sono intervenuti per sostenere la linea del governo Meloni. Questo, fondamentalmente, pretende meno controlli dei giudici sulle designazioni dei paesi sicuri decise dal potere esecutivo. Non si tratta di tecnicismi, perché quella classificazione incide sul tipo di procedura d’asilo che per i richiedenti originari di Stati inseriti nella lista governativa diventa accelerata. Ogni passaggio è più rapido, il diritto di difesa compresso e, soprattutto, l’iter può svolgersi dietro le sbarre. Come quelle di Gjader, costruite proprio per rinchiudere le persone in cerca di protezione internazionale mai entrate in Italia. Un esperimento senza precedenti di trattenimento extraterritoriale, che Meloni propone come modello all’Europa. Il rinvio pregiudiziale partito lo scorso novembre dal tribunale di Roma è composto da quattro quesiti: se la lista dei “paesi sicuri” può essere un atto legislativo; se il giudice ha il potere di controllare la stessa designazione, oltre il caso del singolo richiedente; se le fonti su cui poggia la classificazione devono essere pubbliche o meno; soprattutto: se un paese che presenta eccezioni per categorie di persone può comunque essere ritenuto sicuro e nel caso entro quali margini. Il 10 aprile scorso è stato pubblicato il parere dell’avvocato generale Richard de la Tour, che non è vincolante ma offre uno schema interpretativo. A destra le reazioni si sono concentrate sul fatto che ammette le eccezioni per categorie di persone. Qualcuno ha perfino esultato. In realtà il parere dà ragione al governo italiano solo sul primo quesito e lo sconfessa su tutti gli altri, compreso il quarto. È vero che non esclude del tutto la possibilità di eccezioni socialo, ma fissa criteri stringenti per ammetterle e fa degli esempi concreti che, se approvati dalla Corte, eliminerebbero un buon numero di paesi che l’Italia considera sicuri. A partire da quelli coinvolti nel protocollo. Le sentenze della Corte Ue sono spesso dense e complesse, piene di sfumature che escludono letture da tutto bianco o tutto nero. È verosimile lo sia anche quella di oggi. Perciò il governo potrebbe provare a cantare vittoria comunque. Magari per ritentare un nuovo round di trasferimenti dalle acque internazionali, mentre a Gjader restano 27 persone deportate dall’Italia nella seconda fase del protocollo. Quella sui migranti “irregolari” che non è toccata dalla causa in Lussemburgo. Gli appelli della Chiesa contro “l’inutile strage” di Andrea Riccardi Corriere della Sera, 1 agosto 2025 La lettera del 1917 di Benedetto XV ai potenti della terra, l’intervento di Paolo VI all’Onu e il sogno di Papa Francesco: aboliamo la guerra. Più di cent’anni fa, il 1° agosto 1917, Benedetto XV inviava una lettera ai Capi di Stato belligeranti, chiedendo a governi e popoli in guerra di “tornare fratelli”. È un documento ancora attuale e di riferimento. C’è in esso un’espressione, non invecchiata nonostante il tempo passato: “questa lotta tremenda, la quale apparisce ogni giorno di più inutile strage”. La locuzione, “inutile strage”, è transitata nel lessico corrente, come definizione tra le più appropriate della guerra. Il papa volle che fosse mantenuta, mentre la Segreteria di Stato del diplomatico card. Gasparri, ne voleva la soppressione. La locuzione divenne subito popolare, alternativa alle propagande belliche, tanto che il papa fu accusato di disfattismo, incolpato - così dal generale Cadorna - della sconfitta di Caporetto. Gelida l’accoglienza dei cattolici francesi. Si passò all’insulto: Benedetto fu chiamato “crucco” (tedesco) o “Maledetto XV”. Oggi, guardando al dramma di Gaza, bombardata e affamata, vediamo ancora un’”inutile strage”. Non c’è ragione, se non quella della forza. E non è “inutile strage” il tributo di vite pagato ogni giorno dagli ucraini da tre anni e mezzo? Quel 1917 fonda il “ministero” di pace dei papi, un filo rosso negli ultimi due secoli, delegittimando la guerra (“non c’è guerra giusta”, diceva Francesco) non solo religiosamente, ma per i mali provocati. Ancora Bergoglio: “Ogni guerra lascia il mondo peggiore di come lo ha trovato”. L’autorità della Chiesa viene dalla memoria: parla di pace, perché ricorda le tante tragedie della guerra. All’ONU Paolo VI si presentò così: “Noi quali esperti di umanità”. Poi lanciò la sfida: “Jamais plus la guerre!”. L’autorità della Chiesa viene pure dal farsi voce della povera gente travolta dalla guerra: “voce dei morti e dei vivi”, dice Paolo VI. La Chiesa cattolica, un’internazionale di popoli, vive ogni conflitto, specie la guerra mondiale, come una lacerazione interna. Il papa si vuole “imparziale” tra i combattenti, impegnato per la pace e l’aiuto umanitario (così dal 1914). L’ideale è vivere insieme - scrive Benedetto - “con spirito conciliante, tenendo conto… delle aspirazioni dei popoli, e coordinando, ove occorra, i propri interessi a quelli comuni del grande consorzio umano”. In questa visione s’inserisce oggi l’insistenza vaticana sui due Stati, israeliano e palestinese. Nel testo due punti sono decisivi per finire la guerra: l’arbitrato e il disarmo. Sul riarmo, il papato è stato sempre critico con un pensiero non lontano da un militare, il presidente Eisenhower: “Dobbiamo guardarci dalla conquista di un’influenza senza limiti… del complesso militare-industriale”. L’arbitrato si sviluppa, nel tempo, nella fiducia nel dialogo e nelle istituzioni internazionali alla luce del necessario rispetto del diritto. La lettera del 1917 non si ferma ai principi, avanza problemi da risolvere: la liberazione del Belgio dai tedeschi, la restituzione delle colonie alla Germania, il contenzioso tra Roma e Vienna, l’Armenia (il papa aveva difeso gli armeni, vittime del genocidio ottomano), la rinascita della Polonia e altro. Si evoca il diritto, ma non si esclude il compromesso “di fronte ai vantaggi immensi di una pace duratura con disarmo”. Il valore degli interventi papali è presentare sempre, pure quando l’opinione generale è rigidamente divisa, l’alternativa della pace attraverso il negoziato. Posizioni simili oggi poco ispirano gli attori internazionali. Siamo nell’età della forza, fuori dalla legalità internazionale, con il discredito della diplomazia e delle sedi internazionali. La politica della Santa Sede è invece per passare dall’età della forza a un’”età negoziale”: un “un moto negoziale della storia, che esige, a tutti i livelli, l’abbattimento dei muri e la sostituzione dei muri con i ponti”, diceva La Pira. Così si è espresso Leone XIV: “incontriamoci, dialoghiamo, negoziamo! La guerra non è mai inevitabile, le armi possono e devono tacere, perché non risolvono i problemi ma li aumentano”. La storia conferma per la Chiesa (e non solo) che la guerra è un’inutile strage. Bisogna voltare pagina e inaugurare “un’età negoziale”. La proposta nasce da un sogno, espresso da Francesco: “Di fronte al pericolo di autodistruggersi, l’umanità comprenda che è giunto il momento di abolire la guerra, di cancellarla dalla storia dell’uomo prima che sia lei a cancellare l’uomo dalla storia”.