Tutti i numeri dell’estate nera delle carceri italiane di Ilaria Dioguardi vita.it, 19 agosto 2025 Tra sovraffollamento, caldo estremo, suicidi e disordini i mesi estivi negli istituti di pena italiani sono insopportabili. Sono presenti quasi 16mila detenuti in più rispetto ai posti disponibili. Dall’inizio dell’anno sono 55 i detenuti che hanno deciso di togliersi la vita e 103 le morti per “altre cause”. Tre i casi tragici solo il giorno di Ferragosto, tra cui un tentato suicidio a Regina Coeli, a cui è seguito una protesta. La garante di Roma Valentina Calderone: “Nel carcere romano, sovraffollato al 200%, celle senz’acque e temperatura proibitiva”. Sono 62.569 i detenuti nelle carceri italiane, al 31 luglio 2025 secondo il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria-Dap, a fronte di 46.706 posti disponibili (analisi dei dati del Dap da parte del Garante delle persone private della libertà personale). Sono, quindi, quasi 16mila i detenuti in più rispetto alla disponibilità degli istituti di pena. Nei primi sette mesi e mezzo di questo 2025 sono stati 55 i suicidi tra i detenuti e 103 le morti per “altre cause” (malattia, overdose, omicidio, cause “da accertare”, dati del dossier Morire di carcere di Ristretti Orizzonti). Tre i casi tragici nella sola giornata di Ferragosto: il quinto suicidio in Campania (un uomo di 53 anni), un decesso a Civitavecchia (in circostanze da accertare) e un tentato suicidio a Roma, a Regina Coeli, di un ragazzo di origini egiziane di 19 anni, appena entrato in carcere. Sono alcuni dei numeri di questa estate nera e rovente delle carceri italiane. Regina Coeli, sovraffollamento del 200% - “Come era prevedibile, questa estate si conferma veramente complicata all’interno degli istituti penitenziari. Le temperature, il sovraffollamento, la turnazione per le ferie di tutto il personale non fanno che aggravare una situazione già molto grave”, dice Valentina Calderone, garante delle persone private della libertà personale di Roma capitale. “In istituti come Regina Coeli in cui si sfiora il 200% di sovraffollamento, è tutto più difficile”. Il carcere romano, a fronte di una disponibilità di 572 posti, ospita 1.116 detenuti. “Stanze senz’acqua e temperatura proibitiva” - “Nell’istituto, neanche un mese fa, un giovane uomo è stato trovato morto nella sua cella, tre giorni fa un ragazzo appena entrato ha provato ad impiccarsi all’interno della settima sezione, che è quella in cui avvengono il maggior numero di suicidi e tentati suicidi”, prosegue. Il ragazzo che ha tentato di uccidersi ed è stato trasportato in ospedale in condizioni molto critiche, “sembra fuori pericolo di vita ma questo non diminuisce la gravità di quello che è successo. Tre notti fa ci sono stati disordini, una protesta molto violenta, e incendi. Il clima all’interno del carcere romano è di esasperazione. Penso che, ogni volta che succedono eventi del genere, sono tragedie sfiorate e che, con un governo più razionale del sistema penitenziario, potrebbero essere evitate. Nella mia ultima visita a Regina Coeli del 12 agosto”, continua Calderone, “c’erano stanze senz’acqua e una temperatura proibitiva”. Tra disperazione individuale e protesta collettiva - “Non c’è nulla di sorprendente in questa estate nera delle carceri. Ci sono i problemi che abbiamo sempre evidenziato, anche all’inizio dell’estate, per cui sarebbe stato necessario un intervento che riconducesse a condizioni di vivibilità le nostre carceri. Purtroppo questo intervento non c’è stato e quindi accade quello che temevamo che potesse accadere”, dice Stefano Anastasia, garante delle persone private della libertà personale per la regione Lazio. Ora d’aria tra le ore 13 e le 15 - “C’è, da una parte, la disperazione individuale di chi decide di farla finita per motivi diversi. Dall’altra, ci sono forme di protesta collettiva, che abbiamo visto a Regina Coeli. Una protesta che è nata dalla sesta sezione, che a me aveva indirizzato nel mese di giugno un reclamo collettivo firmato da tutti i detenuti, in cui si lamentavano del caldo, delle ore d’aria che non riescono a fare per quanto previsto dalla legge. Dovrebbero fare quattro ore d’aria e ne fanno solo una testa e in orari impossibili d’estate, dalle ore 13 alle 15. In tutte le regioni hanno disposto l’interruzione dei lavori in strada per il caldo eccessivo, dalle 12 alle 16, e in quegli orari vengono mandati i detenuti all’ora d’aria in cortile. È chiaramente un controsenso”, sottolinea Anastasia. “I detenuti di quella sezione avevano fatto tutte le loro rimostranze, che avevo girate alla divisione del carcere. Quando succede, per di più, un caso di tentativo di suicidio particolarmente impressionante, come quello de giovane senza fissa dimora a Ferragosto, è scoppiata la protesta. Non ci si può sorprendere di quello che accade, purtroppo è il risultato di una condizione di degrado e di sovraffollamento della nostra istituzione penitenziaria che non ha risposte da parte dell’autorità politica”. Chi non può comprare un ventilatore spera in una donazione - Per fortuna ogni estate c’è una gara di solidarietà per la fornitura agli istituti di pena di ventilatori, in qualche caso anche di frigoriferi o congelatori. “I detenuti di cui parlavo, della sesta sezione di Regina Coeli che hanno fatto la protesta l’altro giorno, tra le altre cose lamentavano il fatto di non avere ventilatori, frigoriferi e congelatori. La direttrice mi ha risposto, in una lettera di pochi giorni prima di Ferragosto, che i ventilatori che i detenuti avevano quando stavano in un’altra sezione sono andati bruciati nella protesta che hanno fatto a settembre l’anno scorso, che sono in acquisizione, in attesa di una nuova fornitura. Il fatto è che i detenuti sono autorizzati ad acquistare i ventilatori, ma spesso non se li possono permettere e devono aspettare una donazione”, prosegue Anastasia. Impianti elettrici a volte inadeguati per l’aria condizionata - Alcuni istituti penitenziari hanno impianti elettrici inadeguati, che non reggono l’area condizionata. “Ad esempio, nel carcere di Frosinone, c’è questo problema. Forse bisognava pensarci un po’ meglio, quando è stata fatta la programmazione del Pnrr sulla giustizia, piuttosto che finanziare otto padiglioni che erano già finanziati dalle risorse statuali, si poteva fare un intervento sull’innovazione di approvvigionamento elettrico di tutti gli istituti penitenziari. Che ci vuole a coprire le carceri di pannelli fotovoltaici, in modo da diventare indipendenti e avere tutte l’area condizionata? Altro che ventilatori! Però servono soldi, che non ci sono perché vengono usati per costruire i nuovi istituti, che chissà se e quando verranno aperti. Intanto in quelli che ci sono si vive come si vive”. Ora un “salva-carceri” per svelare il paradosso sulla sbandierata “resa dello Stato” di Francesco Petrelli* Il Dubbio, 19 agosto 2025 Mentre le condizioni dei detenuti nelle nostre carceri, come era purtroppo agevole prevedere, continuano ineluttabilmente a peggiorare con un ininterrotto aumento tanto del fenomeno del sovraffollamento giunto a quota 62.728 ( si tratta di 6 detenuti in più ogni giorno secondo l’attendibile calcolo operato da Mauro Palma), con un tasso medio del 134,3 %, quanto del numero dei suicidi ( 54), credo sia necessario svelare la profonda contraddizione che caratterizza la risposta del Governo di fronte a questo scempio disumano. Abbiamo infatti più volte sentito dire che ogni misura volta a ridurre il sovraffollamento costituirebbe una “resa dello Stato”, e che tutti i provvedimenti assunti dai governi precedenti si sono rivelati inutili, non essendo state poste in essere le misure strutturali necessarie al miglioramento del nostro sistema carcerario. Abbiamo, tuttavia, sentito più volte ripetere che, invece, diversamente da coloro che l’hanno preceduto, questo Governo ha finalmente posto in essere quelle misure efficaci che in breve tempo ci doteranno definitivamente di carceri moderne e civili. Di strutture nelle quali i tossicodipendenti saranno finalmente curati e di ampi spazi per attività lavorative e trattamentali. Ma se questo fosse vero, quale occasione migliore per un provvedimento emergenziale “salvacarceri” che, in attesa che tutte quelle misure messe in atto entrino a pieno regime, consenta una decompressione utile per dare un poco di respiro alle amministrazioni ridotte allo stremo, alla polizia penitenziaria in debito di ossigeno, ad una popolazione carceraria ridotta in condizioni degradanti e disumane. Se le cose stessero davvero così, per lo Stato e per il Governo, non di una prova di pusillanimità e di fragilità si tratterebbe, ma al contrario di un segno inequivocabile di forza e di lungimiranza. Si tratterebbe allora di un provvedimento “salva carceri” proprio perché inserito all’interno di un più ampio intervento. Un provvedimento “salvacarceri” dovrebbe costituire infatti proprio il naturale accompagnamento di un simile pacchetto riformatore. È proprio quel dichiarato impegno politico e l’importanza delle nuove assunzioni e degli stanziamenti a pretendere che l’emergenza venga affrontata anche per quello che è: una drammatica emergenza civile, umanitaria e costituzionale che il nostro Paese non aveva mai attraversato. Questo è quanto si può trarre da una razionale valutazione dello stato delle cose. Salvo che quella formula della “resa dello Stato” non sia altro che uno schermo dietro il quale si nasconde una pura e semplice volontà di attuare e perpetrare una idea di pena intesa non come possibile rieducazione ma come pura sofferenza che, come tale, più prostra il reo e più risulterà efficace nello schiacciare ogni identità ed ogni volontà dell’individuo autore del reato e per intimidire il cittadino comune. Perché francamente questa è l’unica alternativa possibile. Svelare quel paradosso, utilizzando i suoi stessi argomenti di propaganda significa porre il Governo di fronte alla piena responsabilità di una crisi che non consente più artifici retorici, e di fronte alla inequivoca necessità di attuare una politica della Costituzione “qui ed ora”, non più proiettata nelle promesse magnifiche sorti di un “carcere più umano”. Significa ricordare che chi governa ha l’obbligo di tutelare la dignità e la vita dei privati della libertà, sempre e comunque, “qui ed ora”, e di rispondere ai molteplici allarmi che da ogni parte si sollevano ad invocare un intervento reso sempre più urgente di fronte alla rendicontazione di dati inoppugnabili, al numero intollerabile dei morti e dei suicidi, ed allo scempio di legalità constatato e denunciato quotidianamente, con impegno civile anche nel mese di agosto, dagli avvocati delle camere penali all’interno dei reparti, dei bracci e delle celle, nelle quali l’abbandono delle istituzioni asfissia ogni possibile speranza di vita. *Presidente Ucpi Lavoro in carcere. Tutto (o quasi) da rifare di Giorgio Paolucci Avvenire, 19 agosto 2025 La maggior parte dei 62mila detenuti è alle prese con importanti fragilità. Molti non sanno l’italiano. Altri sono nei reparti di alta sicurezza. Così, l’accesso all’impiego si riduce molto. Il lavoro è una delle leve più potenti per favorire la ripartenza umana delle persone detenute. E tutti auspicano che le poche, pochissime occasioni per praticarlo che sono oggi disponibili si moltiplichino. Ma c’è anche chi mette in guardia da facili demagogie e invita e guardare la questione con il realismo necessario. Come Nicola Boscoletto, fondatore della cooperativa sociale Giotto di Padova, pioniere e profondo conoscitore del tema, e proprio per questo critico con chi vende sogni a buon mercato. “Guardiamo con la lente d’ingrandimento dentro i numeri. La maggioranza dei 62mila che vivono in carcere fa i conti con gravi problemi sanitari: dipendenze da droga, alcol, gioco, psicofarmaci, spesso associate a patologie psichiatriche. Aumentano i cosiddetti “plurisvantaggiati”, che assommano nella stessa persona più di una fragilità. Per loro il carcere è il posto sbagliato: dovrebbero essere trasferiti in comunità o in altri luoghi adeguati alla loro condizione per essere seguiti da professionisti di varie discipline, e comunque non sono in grado di lavorare. Gli stranieri sono circa un terzo del totale, molti hanno alle spalle viaggi in cui hanno visto la morte in faccia e violenze d’ogni genere, e anche a distanza di tempo ne patiscono le conseguenze a livello psicologico e comportamentale. Inoltre spesso non conoscono l’italiano: anche tra di loro la percentuale dei candidabili al lavoro è molto bassa. Se aggiungiamo i 9.400 ristretti nei reparti di alta sicurezza ai quali è praticamente precluso l’accesso al lavoro, le persone anziane, quelle con invalidità fisica - che aumentano con l’aumentare degli anni di detenzione -, gli ergastolani e i condannati al 41 bis (740), scopriamo che la quota di coloro che possono accedere al lavoro si riduce di molto. Eppure, qualcuno continua a illudere l’opinione pubblica e a vendere sogni parlando di decine di migliaia di detenuti candidabili a un’occupazione”. Ma l’analisi-denuncia di Boscoletto si spinge più in profondità: “Diciottomila sono occupati alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, poco meno di un terzo del totale, ma costoro non svolgono lavori “veri”: nella maggior parte dei casi si tratta di attività scarsamente qualificate, saltuarie, improduttive, poco remunerate e che non sono legate a professionalità spendibili “fuori”: portavitto (quelli che distribuiscono il cibo nelle sezioni), spesini (raccolgono le ordinazioni e distribuiscono la spesa), scopini (addetti alle pulizie). Non imparano nulla, e chi li assumerebbe una volta usciti? Questo non è lavoro, è una forma assistenzialistica e perciò diseducativa di mantenimento. Solo circa 3.000 persone, il 5 per cento del totale, lavorano alle dipendenze di soggetti esterni (cooperative e imprese private) con regolare contratto”. Che fare allora? “Bisogna andare alla radice del problema e prendere atto che questo sistema carcerario ha fallito: lo dimostrano gli alti tassi della recidiva, le condizioni di vita negli istituti penitenziari, l’elefantiasi della burocrazia che frena chi cerca di innovare. Investire nel recupero effettivo dei detenuti farebbe risparmiare una valanga di denaro e aumentare la sicurezza, ma se non si cambia la governance, il lavoro in carcere non può decollare. Tutti i soggetti in campo - direttori, educatori, magistrati, polizia penitenziaria, cooperative, volontari - dovrebbero concorrere a un’opera di riforma radicale e condivisa; invece, ognuno vive nel proprio silos con poca o nulla comunicazione con gli altri. Il metodo da seguire è quello della sussidiarietà circolare più volte auspicata dall’economista Stefano Zamagni: mettere in comune le competenze e valorizzare le esperienze già in atto. L’imprenditoria sociale presente da anni all’interno degli istituti penitenziari e che oggi dà lavoro a circa 900 persone detenute, ha molto da dire grazie alla competenza maturata sul campo, ma viene considerata dalle istituzioni una ruota di scorta. Nessuno si salva da solo: la frase di papa Francesco vale anche per il mondo carcerario, ma purtroppo non stiamo andando in quella direzione”. to, nata nel 1986 per iniziativa di un manipolo di giovani neolaureati che, ispirandosi al carisma di don Luigi Giussani, avviarono una serie di attività a scopo sociale, puntando sul lavoro come strumento per la realizzazione della persona. Al carcere Due Palazzi di Padova in questi anni la cooperativa ha dato lavoro a più di 1.500 detenuti, oggi gestisce un call center per le prenotazioni delle visite mediche per conto dell’Azienda sanitaria locale e varie attività di assemblaggio commissionate da imprese del territorio, dando occupazione complessivamente a circa 70 persone. Le attività legate al settore dolciario - tra cui il panettone, che ha raggiunto fama internazionale - sono invece gestite dalla cooperativa Work Crossing, che dopo essere stata avviata dalla Giotto ha acquisito una sua indipendenza. Nel call center, che fino a pochi anni fa occupava 100 persone, oggi lavorano solo in 30. A cosa si deve questo calo verticale? “Le commesse non mancherebbero - osserva Gianluca Chiodo, presidente della cooperativa - ma l’amministrazione penitenziaria non ha preso le misure conseguenti ai profondi mutamenti intervenuti nella popolazione detenuta: oggi molti non hanno le caratteristiche per accedere a un’occupazione qualificata e spesso i tempi di permanenza sono troppo brevi per investire sulla formazione. C’è chi propone di estendere i call center, senza però tenere presente che quelli esistenti sono sottoutilizzati con l’invio di pochissime persone detenute, e comunque gli istituti penitenziari che presentano caratteristiche logistiche adeguate per questa attività sono pochi. Per consentire a quelli esistenti di rispondere alle richieste del mercato del lavoro, bisognerebbe trasferirvi i detenuti che hanno le capacità necessarie. Anche in questo caso è una questione di realismo, ma nei luoghi decisionali ci sono il coraggio e la volontà di adeguare le risposte a una situazione radicalmente cambiata?”. Il call center della Giotto è stato il trampolino grazie al quale Antonio ha fatto il salto verso una nuova vita. Vi ha lavorato da detenuto per sei anni, e da quando ha finito di scontare la pena continua a farlo da uomo libero: oggi come team leader insegna ad altri operatori il lavoro che era stato insegnato a lui. “Mi occupo di loro come qualcuno in passato ha fatto con me. È una forma di restituzione del bene ricevuto, per il quale non smetterò mai di essere grato. Vivere in cella è un’esperienza altamente logorante, il lavoro restituisce dignità, fa crescere la stima di sé, percepire uno stipendio secondo le regole del mercato permette di aiutare la famiglia. La sventura peggiore? Restare soli. Incontrando quelli della Giotto e i volontari ho conosciuto persone che hanno preso a cuore la mia persona e hanno accompagnato la mia ripartenza”. Gianluca Chiodo annuisce: “Al di là delle considerazioni economiche, la gratificazione più grande per noi è vedere il cambiamento delle persone. Un cambiamento che quasi sempre è il frutto di incontri, di amicizie. Come amava ricordare don Bosco, parlando dei suoi ragazzi pericolanti: se questi giovani avessero incontrato degli amici con cui consigliarsi, non avrebbero percorso strade sbagliate. Ma in fondo, non potremmo anche noi dire la stessa cosa, guardando alla nostra vita?”. Il potere del teatro negli istituti penitenziari di Martina Amante Il Sole 24 Ore, 19 agosto 2025 Lo schema di decreto Stanziati 500mila euro per ciascun anno dal 2025 al 2027. Ecco le esperienze. È stato predisposto lo schema di decreto del Ministro della Giustizia che prevede le modalità di ripartizione del fondo per la promozione delle attività teatrali negli istituti penitenziari. Il provvedimento prevede lo stanziamento di 5oomila euro per ciascun anno dal 2025 al 2027. Le risorse rese disponibili andranno a sostegno di uno dei settori, quello teatrale, considerati decisivi per il recupero sociale e il reinserimento lavorativo dei detenuti. Come ci viene raccontato anche da Salvatore Striano e da Mirella Cannata che, per ragioni diverse, sono riusciti a capire il potere di quest’arte. Quella del teatro per Salvatore Stiano non è stata solo terapeutica ma è stata la possibilità di decostruire tutto ciò che sapeva su di lui, dandogli un nuovo linguaggio, perché quello della criminalità mancava di profondità. “La recidiva, per le persone che si trovano in galera e hanno la fortuna di partecipare ai laboratori teatrali, si abbassa dell’80%. Quando sono uscito dal carcere una cosa l’ho sentita subito su di me: non volevo più commettere reati. A me, il teatro non solo ha fatto smettere di delinquere, ma con la sua disciplina ha dato un nuovo linguaggio, perché chi delinque ha un vocabolario molto povero dove si parla sempre delle stesse cose”. Mentre prima Salvatore Striano si sentiva prigioniero e in ostaggio della camorra, figlio di crimini del malaffare, in carcere si è finalmente sentito libero, perché sul palco ha capito che poteva perdonarsi: “Hai bisogno di parole nuove, storie nuove. Ho iniziato che stavo raschiando il suolo, perché ho perso mio padre e mia madre mentre ero in carcere e l’unica cosa che mi faceva distrarre erano l’alcol e gli psicofarmaci. Un giorno ho avuto in mano un copione e tutto è cambiato”. Ma la strada è lunga. “Non si può parlare di riabilitazione se non si offrono spazi veri, continui, strutturati”, affermano Mirella Cannata e Carlo Imparato, del Teatro Necessario. A Genova, nel carcere di Marassi, l’arte teatrale è diventato un progetto duraturo. Un punto di riferimento nazionale, con più di 500 detenuti coinvolti, 20 spettacoli prodotti e migliaia di spettatori ogni anno, l’iniziativa dimostra che la cultura in carcere può essere riabilitazione concreta. Nel 2015 è stato costruito all’interno del carcere un vero teatro il “Teatro dell’Arca”, intitolato al regista recentemente scomparso Sandro Baldacci, unico in Italia, completamente aperto alla cittadinanza. “Appena entrano in teatro, i detenuti smettono di sentirsi tali. È uno spazio dove si respira libertà, dignità, responsabilità”, racconta Mirella. Non tutti diventano attori, ma molti trovano nel teatro una strada nuova. Esperienze come questa sono oggi parte di una rete più ampia, “Per Aspera ad Astra”, promossa da Acri, che collega laboratori teatrali in 14 carceri italiane. Il progetto di Genova è uno dei più avanzati, e si affianca a realtà come la Compagnia della Fortezza di Volterra o il Teatro Libero di Rebibbia. Il messaggio che arriva da queste esperienze è chiaro: il carcere può essere altro. Non solo luogo di pena, ma anche di trasformazione. Sì, le riforme penali “salvano” il carcere: dagli interrogatori al “gip collegiale” di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 19 agosto 2025 Certo, è proprio come l’uovo di Colombo, basta schiacciarlo sul fondo e sta in piedi, la questione sovraffollamento delle carceri. Sarebbe sufficiente arrestare di meno. Non è utopia da vecchi liberali nostalgici, sono dati di fatto, e basta qualche piccola riforma. Prendiamo l’inchiesta giudiziaria che ha destato maggiore scalpore nelle ultime settimane, quella sull’urbanistica milanese. La Procura guidata da Marcello Viola aveva richiesto sei misure cautelari, quattro delle quali con detenzione in carcere e due ai domiciliari. La nuova legge di recente applicazione, votata dal Parlamento e fortemente voluta dal ministro Carlo Nordio, quella che impone l’interrogatorio preventivo da parte del gip, non ha prodotto la conseguenza paventata da Marco Travaglio, cioè che gli indagati si dessero alla fuga. Al contrario, sia i costruttori Andrea Bezziccheri e Manfredi Catella, così come l’ex assessore all’Urbanistica Giancarlo Tancredi, gli ex componenti della commissione Paesaggio Giuseppe Marinoni e Alessandro Scandurra insieme al manager Federico Pella, tutti quanti presenti, si sono sottoposti all’interrogatorio e poi hanno atteso il loro destino. Nessuno si è dileguato. Ma forse Travaglio, quando definiva quella di Nordio la “buffa riforma” che avrebbe fatto scappare i ladri, aveva in mente più i piccoli rom del quartiere Gratosoglio, che non la classe dirigente dell’urbanistica milanese. Così, dopo gli interrogatori degli indagati, quando il 31 luglio scorso è arrivata la decisione del giudice Mattia Fiorentini, che pure ha sposato quasi interamente la tesi dell’accusa, uno solo dei sei indagati, Bezzicheri, è finito a San Vittore: per gli altri cinque la misura cautelare è stata applicata al domicilio di ciascuno di loro. Il che significa, se vogliamo tradurla in numeri, che dei quattro destinati alla prigione secondo la Procura, tre sono rimasti a casa, non contribuendo in questo modo ad affollare le celle di San Vittore. Dodici giorni dopo, nel carcere milanese si è liberato un altro posto, con la decisione del Tribunale del Riesame di accogliere la richiesta di revoca della custodia cautelare del costruttore Bezziccheri. Tutto ciò sarebbe accaduto anche senza la riforma? Si potrebbe chiederlo al gip, ma sicuramente gli interrogatori preventivi, che hanno dato agli imputati la possibilità di spiegare da uomini liberi le proprie ragioni, se pur a quanto pare non hanno convinto il giudice della loro innocenza, sono serviti a ridimensionare le esigenze cautelari. Questo quadro è interessante anche sul piano delle percentuali, anche se parliamo di piccoli numeri, dal momento che il 75% delle richieste di custodia in carcere avanzato dalla Procura è andato disatteso. Ma a questo quadro confortante già oggi, dovremmo aggiungerne un altro di prospettiva. Perché tra un anno dovrebbe entrare in vigore un’altra riforma, che imporrà nuove garanzie per l’indagato. Il provvedimento che disporrà la decisione di sottoporre alla custodia cautelare in carcere l’indagato dovrà essere adottato da un collegio di tre giudici e non più da un organo monocratico. Non sarà il sol dell’avvenir, quello che splenderà quel giorno, ma il salto di qualità sarà evidente. E lo dimostrano le tante revisioni, non ultima quella di cui stiamo parlando, operate da organi collegiali rispetto alle richieste delle Procure. Inutile nasconderci rispetto alla fatica di dover continuamente, e ogni anno in modo particolare d’estate quando si moltiplicano i suicidi, sventolare i numeri della folla carceraria a quelli del “buttiamo la chiave”. Bisognerebbe rispondere che sarebbe meglio buttar giù i muri delle prigioni, invece. Ma cominciare dal carcere preventivo, che possiamo chiamare quanto il codice vuole come “custodia cautelare”, ma sempre carcere preventivo è. Perché significa essere un prigioniero senza processo. Prigioniero prima di tutto del pregiudizio di chi pensa che lo Stato debba poter disporre del corpo e della mente di chiunque, prima ancora di averlo portato in un’aula di tribunale. Stiamo parlando di circa il 25% dei detenuti, in Italia, una percentuale tra le più alte d’Europa. Ci sono Stati e culture che il problema paiono averlo risolto, e non perché in quei territori si commettano meno reati. Viene in mente la Svezia, dove non solo non si costruiscono più prigioni, ma negli anni scorsi alcune carceri sono state riconvertite in altre destinazioni sociali per mancanza di detenuti. O la vicina Norvegia, il Paese in cui l’80% delle pene non consiste nella privazione della libertà. Ma anche in Italia qualche anno fa, nei giorni dell’epidemia da covid, il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi aveva implorato “arrestate di meno”. Ed era accaduto, persino in presenza di un ministro guardasigilli come Alfonso Bonafede. Il che significa che si può fare. Con qualche piccola riforma, pur in attesa della separazione delle carriere, e un poco di illuminata buona volontà. Taser, 41enne muore a Genova colpito da tre scosse di Giulia Mietta e Alberto Pinna Corriere della Sera, 19 agosto 2025 È la seconda vittima in 48 ore: indagati 4 carabinieri. I decessi a Genova e Olbia. Salvini difende l’Arma, Salis attacca. Due episodi in due giorni. Dopo il caso di Olbia di sabato notte, un’altra persona è deceduta domenica pomeriggio a Genova colpita con il taser (sempre) dai carabinieri: si tratta di Elton Bani, 47 anni, di nazionalità albanese. La sequenza e la vicinanza temporale dei due fatti hanno scatenato mille polemiche. In difesa dei militari sono scesi in campo i sindacati di polizia e il fronte politico di centrodestra. Critici invece sull’uso dello strumento i settori della sinistra. Tutto questo mentre sul fronte delle indagini i quattro carabinieri coinvolti sono stati iscritti nel registro degli indagati: un atto dovuto delle Procure per avviare subito i primi accertamenti e disporre le autopsie. L’operaio edile - Elton Bani, 41 anni, è morto dopo essere stato colpito per tre volte con il taser dai carabinieri intervenuti nei pressi della sua abitazione a Sant’Olcese, comune dell’hinterland genovese. Il primo dardo lo ha sfiorato, il secondo è andato a segno ma non lo ha immobilizzato, il terzo dardo lo ha abbattuto. L’episodio è avvenuto domenica pomeriggio in via Mattei, in parte per strada e in parte nella palazzina. La procura di Genova ha aperto un fascicolo per omicidio colposo. Indagati i due carabinieri del nucleo radiomobile che hanno maneggiato l’arma. Elton Bani, operaio edile, di nazionalità albanese, era già noto alle forze dell’ordine: in passato aveva scontato un mese di pena in carcere per falso. Nel pomeriggio del 17 agosto inizia a dare in escandescenze nel cortile davanti a casa. Alcuni vicini, chiamano il 112 che manda sul posto un’ambulanza. I militi della Croce d’Oro provano a calmare il 41enne ma senza successo. Bani inizia a lanciare sedie e oggetti nell’androne del palazzo, poi torna all’esterno e sale in macchina, iniziando a guidare a zig zag. I carabinieri - Il nucleo radiomobile invia una pattuglia di quattro uomini. Questi provano a far scendere Elton Bani dall’auto per identificarlo. Accetta di andare a prendere i documenti a casa. Poi si scaglia contro i carabinieri. Che riescono ad ammanettarlo ma lui non si placa e continua a scalciare e dimenarsi. Uno dei carabinieri, quindi, prova a bloccarlo utilizzando il taser ma lo colpisce solo di striscio. Tenta un nuovo lancio e questa volta il dardo raggiunge l’uomo che, però, prosegue ad agitarsi. Viene sparato un terzo dardo e questa volta Bani cade a terra, prima in preda a convulsioni, poi esanime. I carabinieri chiamano i soccorsi sanitari ma i tentativi di rianimazione sono vani: muore poco dopo. Fa un primo sopralluogo il medico legale Isabella Caristo che rileva sul corpo i segni riconducibili a più scosse. Le cause effettive della morte, però, saranno accertate attraverso l’autopsia che sarà disposta domani. Gli esami dovranno chiarire se Bani fosse sotto l’effetto di sostanze stupefacenti o alcol, come hanno ipotizzato i carabinieri intervenuti, o se avesse patologie. “Le responsabilità devono essere accertate, quattro carabinieri contro uno, era davvero necessario usare il taser?”, si chiedono i familiari assistiti dal legale Cristiano Mancuso. Il caso Olbia - Anche Gianpaolo Demartis, 57 anni, originario di Bultei (Sassari) è morto dopo essere stato fermato col taser a Olbia. Sabato notte urlava, minacciava i passanti ed è anche entrato nei giardini di alcuni vicini. Quando la pattuglia è arrivata, nella strada c’erano alcune decine di persone. Uno dei presenti avrebbe riferito al fratello di aver visto che aveva una ferita in faccia. La magistratura potrà verificarlo giovedì con l’autopsia. Ancora non sono stati sentiti dalla procura di Tempio Pausania i due carabinieri indagati. Ma ai colleghi delle pattuglie intervenuti subito dopo hanno riferito di avere per tre volte avvertito Demartis: “Calmati! Se non ti fermi usiamo il taser”. Una ricostruzione che non ha convinto i familiari. “Giampaolo era cardiopatico, assumeva farmaci. Vogliamo la verità”. L’avvocato Marco Manca conferma: “Quel che è accaduto non è affatto chiaro. Nel suo passato non ci sono episodi di violenze né aggressioni”. Demartis aveva subìto un processo per stupefacenti. Si era poi trasferito a Olbia e faceva lavori di manutenzione e giardinaggio in Costa Smeralda. La polemica politica - Difende l’operato dei militari il segretario della Lega Matteo Salvini: “E adesso che nessuno se la prenda coi carabinieri che hanno difeso sé stessi e dei cittadini aggrediti, facendo solo il proprio dovere”. Sulla stessa linea Maurizio Gasparri di FI: “Sarà pure un atto dovuto ma il fatto che carabinieri vengano indagati a Genova solleva molti dubbi”. Di diverso avviso (sui social) l’europarlamentare di Avs Ilaria Salis: “Il taser è un’arma pericolosa, che può rivelarsi una condanna a morte anche per chi abbia un banale, piccolo problema di salute. Va dismessa”. Chiede invece verifiche immediate sul taser la senatrice di Italia Viva, Raffaella Paita: “A tutela di tutti”. Irene Testa: “Il Taser è uno strumento di tortura, che nuoce anche alle forze dell’ordine” di Eleonora Martini Il Manifesto, 19 agosto 2025 Parla la Garante regionale dei detenuti della Sardegna. “Dolori lancinanti, convulsioni, incontinenza fecale, a volte morte. È un’arma che non si può usare contro malati psichiatrici o persone alterate dalle sostanze”. Prima di Gianpaolo Demartis, morto ad Olbia sabato sera, e di Elton Bani, deceduto a Manesseno domenica sera, c’erano stati Riccardo Zappone (30 anni, Pescara) e Simone de Gregorio (35enne affetto da problemi psichiatrici, Chieti); e l’anno prima era accaduto a Barletta, a Vipiteno e a Roma. Tutti morti dopo essere stati colpiti con una pistola taser. Troppi, per non porsi almeno qualche domanda. Lo ha fatto, com’è sua abitudine, la radicale Irene Testa, Garante regionale dei detenuti della Sardegna: “Uso di scariche elettriche per contenere il disagio, provocando effetti fisici e psichici devastanti. A volte la morte. Si può ancora consentire l’uso di strumenti di tortura legalizzata?”, ha scritto sui suoi canali social. E tanto è bastato perché la Lega la accusasse di attaccare indiscriminatamente polizia e carabinieri... Non è nel mio stile puntare il dito contro le forze dell’ordine. Il problema è lo strumento in sé, di cui innanzitutto sappiamo ancora troppo poco e rispetto al quale stanno emergendo evidenti problematiche. Non sappiamo bene come i taser sono tarati, se e su chi sono stati testati, non si sa come l’organismo reagisce se le scosse inferte sono una, due o tre. E ancora: quanto dura il corso per preparare il personale all’uso dell’arma? Abbiamo visto che il rischio è alto per le persone con problemi cardiaci ma anche per i soggetti in grave stato di agitazione, che sia dovuto ad alterazioni psichiatriche o all’effetto di sostanze. Ma proprio a causa di questo alto rischio di arresto cardiaco, in alcuni Paesi europei le stazioni di polizia sono dotate di defibrillatori. E in Italia? Ne possiamo almeno discutere? Lei ha detto che i taser sono uno strumento di tortura... Non lo dico io, lo dice il Comitato Onu contro la tortura che parla di arma potenzialmente mortale. Inoltre, le persone che hanno subito un fermo con il taser riferiscono di dolori lancinanti, incontinenza fecale, convulsioni. E allora bisogna chiedersi prima di tutto se questo è lo strumento appropriato. E poi magari capire anche se è possibile porre un limite al numero e alla potenza delle scosse, in modo da azzerare i rischi di morte e attenuare le sofferenze. A parte le motivazioni della Lega, è uno strumento voluto per sopperire alla mancanza di personale adeguato? Non lo so. Perché ricordiamo casi come quello di Federico Aldrovandi, giusto vent’anni fa, Giuseppe Uva e altri morti in seguito ad interventi effettuati da vari agenti e senza taser. Ed è vero che ci sono casi delicati in cui bisogna fermare persone, in stato di alterazione, che possono essere pericolose per sé e per gli altri. La questione è complessa e non va strumentalizzata. Ma cosa facciamo, il far West? È lecito chiedersi se non vi sia un altro modo per neutralizzare una persona che in quel momento è pericolosa perché ha un disagio psichiatrico o è in preda a una crisi dovuta all’uso di sostanze. Poi magari il soggetto che si sente braccato e che prova forti dolori può reagire in modo ancora più scomposto. Sono situazioni in cui sarebbe utile, invece, che le forze dell’ordine fossero accompagnati da uno psichiatra, uno psicologo, un familiare, una equipe che in qualche modo valuti la situazione. Tra l’altro l’uso di un’arma i cui effetti sono ancora ignoti mette in difficoltà anche le stesse forze dell’ordine che devono poi risponderne - giustamente - davanti alla magistratura. C’è chi vorrebbe introdurlo anche nelle carceri, in dotazione alla polizia penitenziaria. Lei cosa ne pensa? Non oso neanche pensarci, perché sarebbe una tragedia inaccettabile. Per fortuna, mi pare che da questo punto di vista certi istinti siano stati frenati. Come ogni anno, lei e il Partito Radicale avete passato Ferragosto in carcere... Sono appena uscita dal carcere di Lanusei, un istituto tutto sommato piccolo e non tra quelli più problematici. Ma la situazione nelle carceri, lo sappiamo, è drammatica. E non da oggi. Nei giorni scorsi, quando c’era un caldo atroce, sentivo dalle celle gridare “Aiuto, aiuto, stiamo morendo”. Gente che urlava, persone che sbattevano… La politica non può continuare a girarsi dall’altra parte. Occorre riformare le carceri e tutto il sistema giudiziario. Nel frattempo, da subito, bisogna applicare almeno quelle misure alternative che già esistono. Non è un grosso sforzo: non c’è niente di nuovo da inventare. Carcere duro, no a colloqui visivi tra familiari detenuti se prevalgono esigenze di sicurezza di Simone Marani altalex.com, 19 agosto 2025 Debbono essere vietati i colloqui tra familiari appartenenti alla medesima associazione mafiosa e sottoposti a regime penitenziario differenziato, qualora emergano particolari situazioni di criticità, posto che la finalità di detto regime è quella di impedire interazioni con altri detenuti appartenenti alla medesima organizzazione. Questo è quanto emerge dalla sentenza 9 giugno 2025, n. 21558 della Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione. Il caso vedeva il Tribunale di sorveglianza respingere un reclamo proposto dal DAP, ai sensi dell’art. 35 ord. penit., avverso l’ordinanza con la quale il magistrato di sorveglianza consentiva ad un detenuto sottoposto a regime penitenziario differenziato di effettuare videochiamate con il fratello, anch’egli sottoposto a regime penitenziario differenziato. Il Tribunale rilevava come il detenuto avesse già effettuato, in passato, numerosi colloqui, tutti svolti senza rilevare criticità e che la giurisprudenza da tempo si è orientata nel ritenere in astratto ammissibili i colloqui da parte di un detenuto sottoposto a regime penitenziario differenziato con un familiare sottoposto al medesimo regime penitenziario, pur facendo salve le esigenze di sicurezza. In tema di regime penitenziario differenziato di cui all’art. 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, il diritto di coltivare, mediante colloqui visivi, l’affettività familiare, inerisce al nucleo essenziale dei diritto del detenuto, sicché può essere riconosciuto pur quando il familiare che si vuole incontrare sia anch’egli sottoposto a regime speciale, dovendosi tuttavia operare un giudizio di bilanciamento in concreto, tra le esigenze di affettività del soggetto ristretto e quelle di sicurezza pubblica, le quali, laddove ritenute prevalenti, non consentono di soddisfare tale diritto, nemmeno con l’impiego di strumenti audiovisivi (Cass. Pen., Sez. I, 21 novembre 2024, n. 46809). La caratura criminale del detenuto sottoposto al regime penitenziario differenziato impone, infatti, una particolare attenzione alle esigenze di sicurezza, che sono più elevate quando il colloquio debba svolgersi con un familiare sottoposto anch’egli al regime differenziato, essendo nota la capacità di detti soggetti di scambiarsi messaggi in forme criptiche che risultano particolarmente facili in un colloqui visivo, in cui anche la mera espressione del volto o un qualsiasi gesto possono avere un significato particolare e veicolare un messaggio pericoloso che non può più essere eliminato una volta inviato. Nella fattispecie, l’ordinanza non aveva colto tale situazione di pericolo, resa attuale dalle vicende esterne della cosca mafiosa, che facevano apparire particolarmente elevata l’esigenza di sicurezza; il provvedimento era errato anche laddove affermava insussistenti le esigenze di sicurezza perché nei colloqui non erano emerse criticità, intese come scambio di segnali potenzialmente criptici: infatti, le esigenze di sicurezza non derivano solo dal comportamento apparentemente corretto o meno del detenuto durante il colloquio, ma dalla pericolosità sua e dell’altro detenuto e dalla situazione esterna della cosca che può rendere necessario impedire con maggiore attenzione ogni possibilità di contatto con l’esterno. La giurisprudenza di legittimità ha affermato che in tema di regime penitenziario differenziato speciale, ai fini dell’ammissione del detenuto ai colloqui telefonici sostitutivi con altri familiari, anch’essi ristretti, deve tenersi conto, in applicazione delle disposizioni di cui alla Circolare DAP del 2 ottobre 2017, degli elementi ostativi emergenti dal parere non vincolante della Direzione distrettuale antimafia (Cass. Pen., Sez. I, 11 ottobre 2023, n. 49279). L’ordinanza non si è conformata a tale principio, dal momento che ha del tutto trascurato di valutare autonomamente il contenuto del parere ed ha motivato l’insussistenza delle esigenze di sicurezza richiamando la valutazione espressa da parte del magistrato di sorveglianza che risulta illogica e contraddittoria avendo il giudice ritenuto che non emergevano elementi attuali ed idonei a ritenere sconsigliabile l’esecuzione della videochiamata; inoltre, l’ordinanza impugnata non ha effettuato un corretto bilanciamento tra le esigenze di sicurezza e il diritto del detenuto al mantenimento dei rapporti familiari. Subisci confische senza condanna? Non puoi proporre ricorso straordinario in Cassazione di Antonio Alizzi Il Dubbio, 19 agosto 2025 La Suprema corte di Cassazione chiude la porta ai ricorsi straordinari ex articolo 625- bis del codice di procedura penale, proposti da imputati e terzi interessati in un complesso procedimento per associazione mafiosa, estorsioni e reati connessi, ribadendo che lo strumento per ottenere giustizia è riservato solo ai condannati. Il caso nasce dal giudizio abbreviato celebrato a Catanzaro, primo e secondo grado, nei confronti di un’articolata rete criminale legata a una cosca di ‘ ndrangheta. Dopo condanne e confische confermate in appello, vari imputati e alcuni terzi proprietari di beni sottoposti a confisca avevano impugnato in Cassazione, denunciando presunti “errori di fatto” commessi dalla stessa Corte di legittimità in una precedente pronuncia. Secondo le difese, la Cassazione sarebbe incorsa in sviste percettive, come l’omesso esame di motivi d’appello, l’errata valutazione di atti difensivi, la mancata considerazione di consulenze tecniche e il fraintendimento della portata di procure speciali. Gli imputati hanno invocato l’art. 625- bis del codice di rito, appunto, che consente il ricorso straordinario contro errori materiali o di fatto imputabili alla Cassazione, sostenendo che tali sviste avessero inciso in modo decisivo sull’esito del giudizio. I terzi interessati hanno chiesto l’annullamento delle confische, ritenendo che la Cassazione avesse ingiustamente dichiarato inammissibili i loro ricorsi per difetto di procura speciale. La Suprema Corte ha rigettato tutte le istanze, chiarendo che l’errore di fatto, per essere rilevante, deve consistere in una percezione errata di atti interni al giudizio di legittimità, tale da condurre a una decisione diversa se correttamente percepiti. Non rientrano nel caso di specie le valutazioni giuridiche, i giudizi di merito o le interpretazioni delle prove. Inoltre, il ricorso straordinario spetta esclusivamente al condannato, anche ai soli effetti civili, e non ai terzi interessati dalla confisca. Per questi ultimi, l’eventuale tutela va cercata attraverso l’incidente di esecuzione. La ratio decidendi, si legge nel provvedimento pubblicato dalla Cassazione, si fonda su due capisaldi: il perimetro stretto dell’art. 625- bis del codice di procedura penale che non può trasformarsi in un nuovo grado di giudizio di merito, e la necessità di preservare la stabilità del giudicato, limitando il ricorso in esame solo a chi sia stato formalmente condannato. La Suprema Corte ha ritenuto, caso per caso, che le censure fossero infondate, irrilevanti o estranee al concetto di errore percettivo, riconducendole piuttosto a doglianze di merito già vagliate o a questioni di diritto. In sostanza, la decisione evidenzia che il ricorso straordinario per errore di fatto non è uno strumento per riesaminare prove o rivalutare il merito, ma un rimedio eccezionale per correggere sviste percettive decisive e interne al giudizio di Cassazione. Sul piano pratico, il verdetto ribadisce un limite importante per la difesa: chi non è formalmente “condannato” non può accedere al rimedio ex art. 625- bis, neppure se colpito da una misura patrimoniale come la confisca. Nel passaggio finale, gli ermellini scrivono: “Nel caso appena evocato, in cui l’errore coinvolga la posizione di un terzo interessato, deve in termini astratti ritenersi che, ove l’errore si traduca nella pretermissione della valutazione delle censure, il rimedio sia già in atto configurabile nella forma dell’incidente di esecuzione, in generale operante in tutti casi in cui la posizione del terzo sia stata di fatto pretermessa, il che può discendere dalle più diverse cause, ad esempio dalla mancata citazione nel giudizio di merito”, si legge. “Peraltro, in assenza di una specifica disciplina che regoli la materia, ben può ritenersi che, a fronte della mancata citazione di un soggetto o della mancata valutazione delle sue difese, ove dipendente da errore di fatto, non possa parlarsi di preclusione discendente da giudicato opponibile, fermo restando che all’esaurimento degli ordinari mezzi di gravame si sostituisce la contestazione “ab extrinseco”, specificamente garantita dalla possibilità di attivare un incidente di esecuzione nelle forme previste, in relazione ai temi pretermessi, con la possibilità di giungere se del caso ad un nuovo giudizio di legittimità”, conclude la Cassazione. Veneto. Carceri, tre delibere per progetti di inclusione e riabilitazione Il Mattino di Padova, 19 agosto 2025 La Regione Veneto apre nuovi progetti in accordo con il Ministero della Giustizia, con fondi propri ed europei. La Giunta regionale del Veneto ha approvato due delibere il 29 luglio e il 12 agosto scorsi su salute e giustizia riparativa. Il primo intervento prevede l’attivazione in Veneto di 12 posti letto presso Comunità socio-sanitarie ad alta integrazione sanitaria, destinati a minori e giovani adulti autori di reato con disagio psichico o dipendenze. Il progetto è frutto dell’accordo di programma tra la Regione e il Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità del Ministero della Giustizia, con una retta giornaliera di 320 euro pro-capite, ripartita tra Regione (60%) e Ministero (40%). Il secondo provvedimento riguarda invece lo schema di convenzione con il Ministero della Giustizia per l’attuazione del progetto “Ama Es Veneto”, finanziato con oltre 2 milioni di euro di fondi europei (Fse+ e Fesr) per accompagnare persone in uscita da istituti penitenziari o in esecuzione penale esterna verso il reinserimento sociale, abitativo e lavorativo. “Il Veneto - commenta l’assessore al Sociale, Manuela Lanzarin - compie un nuovo e importante passo verso un sistema sempre più integrato di tutela della salute, inclusione sociale e giustizia riparativa, confermando la propria capacità di coniugare sicurezza e solidarietà. L’intento è di assicurare l’accompagnamento a percorsi di responsabilizzazione e reinserimento sociale, soprattutto nelle situazioni in cui la multi problematicità e le scarse risorse della rete familiare e sociale costituiscono ostacoli al superamento di una condizione di svantaggio e marginalità che rischia di perpetuare schemi comportamentali devianti”. Nei giorni di Ferragosto un terzo provvedimento della Giunta regionale dà il via libera allo schema di convenzione con la Direzione Generale per il Coordinamento delle Politiche di Coesione del Dipartimento per l’Innovazione Tecnologica della Giustizia, per l’attuazione del progetto “Ama De”, presentato dalla Direzione Servizi Sociali della Regione in collaborazione con la Direzione Lavoro, in qualità di capofila di partenariato, anche con le articolazioni della giustizia regionale e Anci Veneto in risposta all’avviso pubblico “Una Giustizia più Inclusiva” finanziato dal Programma Nazionale Inclusione e Lotta alla Povertà 2021-2027. “Con questo progetto, che ci è stato finanziato con 3 milioni di euro - dice Lanzarin - si potranno attuare modelli di intervento per l’inclusione attiva dei detenuti, altro elemento rilevante di questo nuovo approccio a tali problematiche”. Sicilia. 23 carceri senza Garante, la proposta unanime: “Il giurista Tanasi candidato ideale” libertasicilia.it, 19 agosto 2025 Il segretario nazionale del Codacons, Francesco Tanasi, giurista siciliano, è la proposta delle associazioni per il ruolo di ‘Garante dei detenuti’ regionale. L’appello a Schifani: “Nomini garante, basta ‘difensori’ di facciata”. I garanti dei detenuti delle città di Palermo, Messina e Siracusa hanno inviato una missiva al presidente della Regione Siciliana, Renato Schifani, sollecitandolo a procedere quanto prima con la nomina del nuovo garante regionale. Il ruolo è vacante dallo scorso 1° aprile, data in cui Santi Consolo ha rassegnato le dimissioni. La Sicilia ospita ben 23 carceri, un numero superiore a qualsiasi altra regione italiana. A titolo di confronto, la Lombardia ne conta 18, il Lazio e la Campania 15 ciascuna, mentre la Toscana ne ha 16. Attualmente sono in carica soltanto tre garanti locali: Pino Apprendi per il Comune di Palermo, Giovanni Villari per Siracusa e Lucia Risicato per Messina. “Tuttavia, solo tre figure territoriali non sono sufficienti a far fronte alle necessità e ai disagi di migliaia di persone detenute che oggi si trovano prive di un riferimento istituzionale regionale - si legge in un comunicato - Il problema del sovraffollamento carcerario e l’allarmante aumento dei suicidi dietro le sbarre delineano una situazione critica, che è già stata portata all’attenzione pubblica durante la mobilitazione nazionale dei garanti locali lo scorso 30 luglio”. I garanti, auspicando un dialogo diretto con il presidente Schifani, sottolineano la necessità che il prossimo garante regionale sia scelto sulla base di competenze specifiche e comprovata esperienza nel settore, maturate sul campo. Ribadiscono inoltre che la nomina non dovrebbe rispondere a criteri politici o partitici, ma rispettare il principio di indipendenza che deve caratterizzare ogni organo di garanzia. Il Codacons, l’Associazione Utenti della Giustizia, l’Associazione Utenti Servizi Radiotelevisivi (Assourt) e Avvocati in Europa rivolgono un appello al Presidente della Regione Siciliana, Renato Schifani, chiedendo di procedere senza ulteriori ritardi alla nomina del nuovo Garante regionale dei detenuti e indicando come candidato ideale Francesco Tanasi, giurista siciliano e Segretario Nazionale Codacons. “Da troppi anni - dichiarano le organizzazioni - la Regione ha nominato garanti che, in molti casi, non hanno saputo o potuto dare risposte concrete. Oggi serve una figura indipendente, autorevole e con una lunga storia di battaglie civili, capace di affrontare con decisione le gravi criticità del sistema penitenziario”. Nel corso di oltre quarant’anni di attività, Francesco Tanasi ha denunciato sovraffollamento, condizioni disumane, violazioni della dignità umana e gravi carenze igienico-sanitarie nelle carceri italiane, con particolare attenzione alla Sicilia. Ha presentato esposti a decine di Procure per fare luce su suicidi e morti in carcere, segnalato emergenze strutturali e sollecitato interventi immediati da parte delle istituzioni. Un impegno costante, fatto di azioni legali, campagne pubbliche e pressione sulle autorità, che lo ha reso un punto di riferimento nella tutela dei diritti. I promotori dell’appello ribadiscono che i detenuti, pur privati della libertà, devono scontare la pena nel pieno rispetto delle leggi e della dignità, in strutture conformi agli standard nazionali e internazionali. “Non servono nomine di facciata - proseguono - ma persone capaci di vigilare, intervenire e denunciare le criticità senza piegarsi a pressioni. Per questo chiediamo a Schifani di nominare Francesco Tanasi: sarebbe un segnale chiaro di cambiamento e di rispetto dei diritti, anche per chi vive dietro le sbarre” - concludono le organizzazioni. Roma. Oltre ogni limite: nell’inferno della VII sezione di Regina Coeli di Rita Bernardini* Il Dubbio, 19 agosto 2025 Pubblichiamo il testo della diffida che Rita Bernardini ha inviato al Capo dell’Amministrazione Penitenziaria, dottor Stefano Carmine De Michele, Al Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Roma, dottoressa Marina Finiti, Al Procuratore della Repubblica di Roma, dottor Francesco Lo Voi dopo la visita a Regina Coeli. Con l’on. Roberto Giachetti il 12 agosto scorso ho visitato la VII sezione della Casa Circondariale di Regina Coeli. Ci ha accompagnati il personale dell’Amministrazione penitenziaria e il comandante. Lo stato di degrado che abbiamo trovato è indicibile, le condizioni inumane e degradanti. È una questione che si protrae da anni. L’associazione di cui sono Presidente ha più volte segnalato nei report che facciamo dopo ogni visita al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria la totale illegalità dell’esecuzione penale dell’istituto romano e, in particolare, della VII sezione. Il giorno della visita erano presenti 1.102 persone detenute in 513 posti regolamentari disponibili con un sovraffollamento del 215%. Nella VII Sezione, in ogni cella, tre detenuti sono costretti a convivere per 23 ore al giorno (alcuni anche per 24) in cubicoli di 8 metri quadrati complessivi, sistemati in un letto a castello a tre piani. Persino la saletta ricreativa (piccolissima) è occupata da ben sei persone detenute. Il degrado igienico-sanitario è indescrivibile per sporcizia e aria maleodorante. In uno dei cubicoli abbiamo trovato tre extracomunitari uno dei quali dormiva sotto la finestra per poter respirare; aveva portato l’immondo materasso di gommapiuma per terra, prossimo al gabinetto. La tazza del wc non c’era più e i tre erano costretti a defecare e urinare in un buco per terra dove lo scarico dell’acqua non riusciva a eliminare le deiezioni umane che emanavano una puzza nauseabonda. Alcuni detenuti erano a piedi nudi perché non possedevano nemmeno un paio di ciabatte. Le docce sono esterne alle celle: tre docce su quattro sono senza cipolla e senza maniglie. Molti detenuti avevano sicuramente problemi psichiatrici e/o comportamenti dovuti anche alle stesse condizioni di detenzione. Ci è stato riferito che spesso, per mancanza di personale, un solo agente deve far fronte alle disperate richieste di questa umanità dolente: giovanissimi, casi psichiatrici, sex offenders e altri protetti, persone malate, tossicodipendenti, “primi giunti” in attesa di essere smistati in sezione. Ritengo di dover menzionare il resoconto della visita oggetto di questa mia segnalazioni fatto da Roberto Giachetti a Concita Sannino su La Repubblica del 13 agosto 2025. Non a caso la VII sezione viene definita “la Sezione dei suicidi” per le tante morti che si sono verificate negli anni. Il giorno 16 agosto, un cittadino egiziano di 19 anni, arrestato il giorno prima, dopo poche ore dal suo arrivo nella settima sezione, ha provato a impiccarsi nella sua cella: “Soccorso ancora in vita - fa sapere il segretario generale Uilpa polizia penitenziaria, Gennarino De Fazio - è stato trasportato in ospedale in condizioni molto critiche”. Già il 9 gennaio di quest’anno si era registrato un suicidio e altre due morti da accertare il 28 maggio 2 il 3 agosto. Nel 2024 ben tre suicidi si sono verificati proprio nella famigerata VII sezione. La presente comunicazione vale come diffida a intervenire con estrema urgenza per far cessare la situazione descritta che mette in estremo pericolo la salute, la vita e la dignità delle persone ristrette e appare all’evidenza come una grave e insopportabile violazione dei loro diritti umani fondamentali. *Presidente di Nessuno tocchi Caino Roma. “Sacco de paja e l’acqua drent’al secchio” di Rita Bernardini L’Unità, 19 agosto 2025 La diffida di Nessuno Tocchi Caino e dell’on. Giachetti a Procura e DAP per denunciare le violazioni di diritti umani nella VII sezione, dove i detenuti vivono nel degrado e spesso trovano la morte. Con l’on. Roberto Giachetti il 12 agosto scorso ho visitato la VII sezione della Casa Circondariale di Regina Coeli. Lo stato di degrado che abbiamo trovato è indicibile, le condizioni inumane e degradanti. È una questione che si protrae da anni. Il giorno della visita erano presenti 1.102 persone detenute in 513 posti regolamentari disponibili con un sovraffollamento del 215%. Nella VII Sezione, in ogni cella, tre detenuti sono costretti a convivere per 23 ore al giorno (alcuni anche per 24) in cubicoli di 8 metri quadrati complessivi, sistemati in un letto a castello a tre piani. Persino la saletta ricreativa (piccolissima) è occupata da ben sei persone detenute. In uno dei cubicoli abbiamo trovato tre extracomunitari uno dei quali dormiva sotto la finestra per poter respirare; aveva portato l’immondo materasso di gommapiuma per terra, prossimo al gabinetto. La tazza del wc non c’era più e i tre erano costretti a defecare e urinare in un buco per terra dove lo scarico dell’acqua non riusciva a eliminare le deiezioni umane che emanavano una puzza nauseabonda. Alcuni detenuti erano a piedi nudi perché non possedevano un paio di ciabatte. Le docce sono esterne alle celle: tre docce su quattro sono senza cipolla e senza maniglie. (Il titolo è un verso di una canzone dedicata da Giorgio Strehler a Regina Coeli: “Le Mantellate”) *** Al Capo dell’Amministrazione Penitenziaria, Dott. Stefano Carmine De Michele Al Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Roma, Dott.ssa Marina Finiti Al Procuratore della Repubblica di Roma, Dott. Francesco Lo Voi Egregi Signori, Con l’on. Roberto Giachetti il 12 agosto scorso ho visitato la VII sezione della Casa Circondariale di Regina Coeli. Ci ha accompagnati il personale dell’Amministrazione penitenziaria e il comandante. Lo stato di degrado che abbiamo trovato è indicibile, le condizioni inumane e degradanti. È una questione che si protrae da anni. L’associazione di cui sono Presidente ha più volte segnalato nei report che facciamo dopo ogni visita al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria la totale illegalità dell’esecuzione penale dell’istituto romano e, in particolare, della VII sezione. Il giorno della visita erano presenti 1.102 persone detenute in 513 posti regolamentari disponibili con un sovraffollamento del 215%. Nella VII Sezione, in ogni cella, tre detenuti sono costretti a convivere per 23 ore al giorno (alcuni anche per 24) in cubicoli di 8 metri quadrati complessivi, sistemati in un letto a castello a tre piani. Persino la saletta ricreativa (piccolissima) è occupata da ben sei persone detenute. Il degrado igienico-sanitario è indescrivibile per sporcizia e aria maleodorante. In uno dei cubicoli abbiamo trovato tre extracomunitari uno dei quali dormiva sotto la finestra per poter respirare; aveva portato l’immondo materasso di gommapiuma per terra, prossimo al gabinetto. La tazza del wc non c’era più e i tre erano costretti a defecare e urinare in un buco per terra dove lo scarico dell’acqua non riusciva a eliminare le deiezioni umane che emanavano una puzza nauseabonda. Alcuni detenuti erano a piedi nudi perché non possedevano nemmeno un paio di ciabatte. Le docce sono esterne alle celle: tre docce su quattro sono senza cipolla e senza maniglie. Molti detenuti avevano sicuramente problemi psichiatrici e/o comportamenti dovuti anche alle stesse condizioni di detenzione. Ci è stato riferito che spesso, per mancanza di personale, un solo agente deve far fronte alle disperate richieste di questa umanità dolente: giovanissimi, casi psichiatrici, sex offenders e altri protetti, persone malate, tossicodipendenti, “primi giunti” in attesa di essere smistati in sezione. Ritengo di dover menzionare il resoconto della visita oggetto di questa mia segnalazione fatto da Roberto Giachetti a Concita Sannino su La Repubblica del 13 agosto 2025. Non a caso la VII sezione viene definita “la Sezione dei suicidi” per le tante morti che si sono verificate negli anni. Il giorno 16 agosto, un cittadino egiziano di 19 anni, arrestato il giorno prima, dopo poche ore dal suo arrivo nella settima sezione, ha provato a impiccarsi nella sua cella: “Soccorso ancora in vita - fa sapere il segretario generale Uilpa polizia penitenziaria, Gennarino De Fazio - è stato trasportato in ospedale in condizioni molto critiche”. Già il 9 gennaio di quest’anno si era registrato un suicidio e altre due morti da accertare il 28 maggio 2 il 3 agosto. Nel 2024 ben tre suicidi si sono verificati proprio nella famigerata VII sezione. La presente comunicazione vale come diffida a intervenire con estrema urgenza per far cessare la situazione descritta che mette in estremo pericolo la salute, la vita e la dignità delle persone ristrette e appare all’evidenza come una grave e insopportabile violazione dei loro diritti umani fondamentali. Parma. Celle roventi e fine pena mai, vivere in gabbia a Ferragosto di Roberto Cavalieri e Christian Donelli parmatoday.it, 19 agosto 2025 Caldo asfissiante con temperature che sfiorano i 40 gradi, celle strette e sovraffollate. Proteste, tentativi di autolesionismo. Ma anche storie mai raccontate, tracce di vite ‘complicatè che si possono rintracciare solo qui. Vivere all’interno di un carcere, nel mese di agosto 2025, a pochi passi da noi. In via Burla a Parma e nelle altre città dell’Emilia-Romagna. In dieci puntate la nostra nuova rubrica affronterà le tematiche dei reclusi grazie alla collaborazione tra le testate del gruppo Citynews della regione e Roberto Cavalieri, Garante dei Diritti dei detenuti della Regione Emilia-Romagna. Cavalieri racconterà, in dieci reportage esclusivi, quello che vedrà all’interno delle strutture penitenziarie, le storie con le quali verrà in contatto. Inizia questo viaggio estivo nelle carceri della regione Emilia-Romagna. Il mio ruolo di Garante regionale delle persone sottoposte a misure limitative e privative della libertà personale mi permette di muovermi con grande facilità in questi luoghi altrimenti invalicabili se non dopo lunghe procedure e forti motivi di collaborazione con l’amministrazione penitenziaria. Ma il risultato non è scontato. Invece, nel mio ruolo, un articolo dell’ordinamento penitenziario, precisamente il n. 67, mi permette di visitare senza alcuna autorizzazione tutti i luoghi dove sono presenti o possono essere recluse persone che di trovano in condizioni di limitazione della loro libertà in forza di un provvedimento dell’autorità giudiziaria. Il ruolo di garante me lo ha assegnato l’Assemblea Legislativa nel febbraio del 2022 dopo una votazione dei consiglieri regionali della scorsa legislatura. Questo viaggio estivo non è il primo. L’ho in verità fatto tutti gli anni da quando sono stato eletto. Ma questa è la prima volta che darò una restituzione in forma di articoli o reportage di quello che vedo, ascolto, provo in questi luoghi, le carceri, presenti nell’immaginario di tutti ma respinto dalla cultura anche dei paesi più progrediti come il mio. La ragione di questa iniziativa la trovo nel meccanismo volgare e ripugnante che scatta ogniqualvolta una testa giornalistica pubblica nei social notizie di eventi relativi al carcere e ai detenuti. Questo meccanismo porta alla pubblicazione di interventi e commenti che nulla hanno a che fare con il senso delle nostre leggi, il significato che ha la pena, l’esistenza degli inviolabili diritti umani. Tra i tanti commenti quello che ho più vivo, anche perché si ripete spesso, è quello che leggo dopo una notizia relativa ad un suicidio… “uno di meno” scrivono i contabili dell’ignoranza nella rete. Dentro il carcere di Parma: “La prima volta sono entrato 32 anni fa” Il carcere di Parma. Qui inizia questo viaggio. È l’istituto che conosco meglio. La prima volta ci sono entrato il 24 marzo 1993 per coordinare dei corsi di formazione professionale per detenuti. Oggi, 32 anni dopo, varco il primo controllo come Garante regionale. Il “buongiorno” che scambio con i poliziotti ha lo stesso tono tecnico ed educato di sempre. Molti di loro sono a me volti noti da tanti anni. Tanti altri cambiano nel tempo ma conosco il significato del loro ruolo e i loro compiti. Avverto la direzione che accedo all’istituto. È un atto dovuto e che fa parte delle regole del contesto perché la prima “legge” in un carcere è il mantenimento dell’ordine e della sicurezza. Quindi è bene che ogni spostamento sia comunicato, conosciuto, atteso. La sicurezza è quella di tutti gli operatori ma anche dei detenuti stessi. In questa visita ferragostana mi concentro su un contesto che configura la difficoltà di vivere in cattività, in gabbia, ovvero vivere come un detenuto senza alcuna certezza per il futuro. Il contesto è quello dei detenuti del circuito dell’alta sicurezza 1. Si tratta di persone che sono passate dal regime più duro di detenzione, quello del 41 bis, per poi, con il passare del tempo e il mutare delle circostanze, sono decaduti dai ruoli apicali dei cartelli mafiosi perdendo la capacità offensiva verso lo Stato. Sono disposti su due piani differenti. Per accedervi mi presento al capoposto, un uomo della Polizia penitenziaria che coadiuva l’Ispettore coordinatore del reparto. Si tratta quasi sempre di uomini giovani ma sempre con grande propensione alla gestione delle criticità e con una particolare attenzione alla prevenzione dei problemi. Per potere fare questo gli uomini in divisa conoscono ogni singolo detenuto, lo loro storia criminale, il loro comportamento e la “qualità” delle relazioni con gli altri reclusi. Io la chiamo “ingegneria dell’osservazione” perché per mantenere l’ordine e la sicurezza è necessario conoscere ogni possibile variabile in un sistema chiuso, come una sezione di un carcere, dove si possono trovare dalle 30 alle 50 persone alla volta a vivere tutti i giorni di tutto l’anno per tanti anni. Nelle celle roventi con i detenuti con ergastolo ostativo: in pochi usciranno vivi di qui Cammino lungo la sezione che è un lungo corridoio con 25 celle su un solo lato. Ci sono detenuti che mi ignorano, altri chiedo chi sono, altri li conosco e ci si ferma per un “come va?”. La sezione è caldissima. L’aria è veramente ferma e umida. I reclusi sono chiusi nelle celle. C’è chi dorme, chi guarda la televisione, chi si fa un caffè, chi legge. Normalmente nelle sezioni dell’alta sicurezza regna l’ordine e la pulizia per tante ragioni. La cultura detentiva dei ristretti, qui ci sono persone, tante, con l’ergastolo ostativo e quindi l’alta probabilità di arrivare alla fine della vita terrena in carcere, l’età media avanzata, la presenza di tanti con malattie anche serie. Il mio percorrere il lungo corridoio della sezione va alla velocità che impone passare davanti a 25 celle, dare una occhiata dentro, incrociare lo sguardo con il detenuto e comprendere se devo passare avanti oppure ricevo un cenno del volto del detenuto che apre a un saluto e a uno scambio. Uno di questi è molto anziano. Ha un forte accento siciliano e non riesco ad agganciare tutte le parole che dice. Si lamenta del caldo. La sua cella è veramente calda, una tenda fa ombra nella stanza ma toglie la luce rendendo lo spazio ancora più piccolo. L’unica cosa che porta sollievo è mantenere in ordine uno spazio povero di cose ma dove si deve fare tutto: dormire, mangiare, fare la doccia, andare in bagno, guardare la tv, leggere… L’uomo mi racconta delle sue patologie: il cuore che non è più quello di una volta, le gambe che si gonfiano, la pressione che va dove vuole. Mentre parla agita le mani e le porta al viso. Forse c’è una agitazione che può sembrare commedia ma in quella cella rovente bisogna starci praticamente tutto il giorno e l’unica alternativa è “andare all’aria” ovvero in un cassone di cemento senza tetto dove, in estate, la temperatura rende la vita una cosa da odiare. Quello che dice questo detenuto è umanamente vero. Il suo passato e i suoi crimini non li conosco ma quella cella calda non sono un rimedio alle sue colpe. Lungo la sezione rivedo detenuti che conosco da ormai dieci anni. Il loro ergastolo li inchioda nelle loro celle come se fosse una croce. Uno di loro mi parla del diniego ricevuto dal magistrato di sorveglianza alla richiesta di un permesso. Leggo il decreto che mi porge con rispetto anche verso il contenuto, seppur drammatico per lui, ma è comunque la decisione di un giudice il quale ritiene che nonostante la lunga carcerazione non si sia ravveduto rielaborando i crimini commessi. Mi chiedo quali siano state le occasioni offerte per “ravvedersi” in un luogo dove non esiste praticamente il lavoro e la cultura entra con il contagocce. Ma tant’è la decisione va rispettata. L’età avanza per lui come per tutti. Entrato nei primi anni ‘90 in carcere, ergastolano, gli anni sono arrivati a 70. Io non ho alcun margine per intervenire perché non entro nel merito delle decisioni di magistrati. Rimaniamo d’accordo di rivederci presto e lui ritenterà con una nuova istanza tra qualche mese magari con la mia disponibilità ad accompagnarlo per qualche ora fuori dal carcere. Esco dalla sezione e nel piano che porta alle scale passo rapidamente anche per cercare aria. Un detenuto di un altro reparto mi chiede un colloquio riservato. Significa che mi vuole parlare a quattr’occhi. Io e lui soli in una stanza senza che nessuno ascolti, neppure la polizia. Il capoposto è un uomo sveglio e attento e in un lampo trova una stanza dove io e il detenuto ci sediamo uno di fronte all’altro. Capisco subito che è un uomo di un altro tempo. Il suo modo di parlare e la sua educata modalità di rivolgersi a me, mi riporta agli anni ‘90 quando tutti i detenuti erano come lui. A quei tempi la cultura criminale imponeva ai suoi discenti uno stile e un rispetto verso gli altri e regole precise da rispettare, anche se spesso non erano regole legali. In carcere da oltre 50 anni Anche lui è siciliano, ma è solo un caso. Quando ho questo tipo di colloqui chiedo un kit di informazioni minime a tutti. Lo stato giuridico, la data di inizio della detenzione, il fine pena, da quanto tempo si trovano nel carcere in cui si tiene il colloquio. Mai nulla del delitto e del reato questo perché come garante mi occupo dei diritti dei detenuti nel corso della detenzione e non della regione della loro reclusione. Mentre l’uomo parla l’aritmetica del tempo che scandisce la sua storia è asfissiante come il caldo nelle celle. Ha 81 anni, dal 1964 al 2014 è stato senza alcuna tregua in carcere. Entrato per un reato ne accumula altri nel corso della detenzione. Arriva è compiere sette omicidi tra le sbarre per eliminare gli avversari perché ai tempi “ti volevano sottomettere” e lui non voleva. Ha fatto sette anni a Pianosa e altri sette all’Asinara, anni durissimi per le carceri, per i detenuti e anche per l’Italia. Sul suo corpo ha mappato oltre mezzo secolo di “galera” con 50 tatuaggi. Il più ricorrente riporta il nome della moglie che è “la donna più bella del mondo”, unica ragione per accettare una vita in galera. Oggi è di nuovo in carcere accusato per di crimine ancora grave. Mi racconta come riempie il tempo facendo rose di carta crespa e che ha voluto questo colloquio con me per dirmi la massima che ritiene un pilastro della sua filosofia di ergastolano: “Io non sono amico delle guardie. Io non sono avversario delle guardie” e lamenta il fatto che questa regola oggi non è più rispettata e le carceri sono peggiorate e i detenuti si lamentano per nulla e non accettano più i “no” che avevano fatto “crescere” e resistere la sua generazione. Oggi è cambiato tutto e anche la mentalità di questi detenuti di “razza”, gli alta sicurezza. L’uomo non sostiene con altre parole il suo teorema e prendo la richiesta del suo colloquio con me come un modo per volermi spiegare che ormai è tutto un lamento, non c’è rispetto e che lui ha smesso di credere a tutto. È felice solo quando rivede al colloquio la “donna più bella del mondo”. Il detenuto che si è suicidato? Ho visto il corpo e i suoi compagni Abbandono il reparto e scendo i tre piani che mi riportano al punto di partenza. Prima di andarmene giro lo sguardo verso la sezione Iride lasciandomela alle spalle. Si tratta della sezione di isolamento, dove ero stato la settimana prima quando si era suicidato un detenuto di 53 anni, sempre dell’alta sicurezza. Impiccato in modo deciso, perché quando i detenuti lo vogliono fare sul serio lo fanno agganciando il collo alle sbarre della finestra con un qualunque pezzo di tela, anche l’elastico delle mutande come questa volta. Si mettono in piedi sul letto che è dannatamente vicino alle sbarre e fanno un salto per spezzarsi l’osso del collo. Tutto finisce in un lampo. Il suo corpo riverso a terra nella cella, con l’espressione di chi perisce per una conseguenza violenta ma voluta, l’ho visto. Non è stata la prima volta. Lo scorso anno nella cella accanto era stata la volta di un uomo di origine tunisina che si era tolto la vita con le stesse identiche modalità. Ho visto anche i compagni, della piccola sezione Iride, ancora vivi che si trovavano nelle celle vicine a quella in cui si trovava quel cadavere, quell’”uno di meno” slogan sociale del mondo della rete e della pubblica opinione. Totem di un mondo che ha perso il senso del rispetto. Avellino. Paolo Piccolo e la silenziosa condanna a morte dello Stato di Vinicio Marchetti avellinotoday.it, 19 agosto 2025 Intervista all’avvocato Costantino Cardiello sulla drammatica vicenda di Paolo Piccolo, 26 anni, 24 chili, detenuto intrappolato tra l’ospedale e l’indifferenza delle istituzioni. È tornato al punto di partenza. Ancora. Un cerchio di ferro, di silenzi, di rimpalli, che stringe un corpo più fragile della dignità che gli viene negata. Paolo Piccolo. Ventisei anni. Ventiquattro chili. Ricoverato di nuovo al Moscati di Avellino. Non per scelta, non per progresso clinico, ma perché non c’era posto altrove. La struttura che doveva accoglierlo, che doveva essere salvezza, si è rivelata un’illusione. Tre giorni. Tre giorni sono bastati al Don Gnocchi di Sant’Angelo dei Lombardi per trasformare la speranza in frustrazione. La degenza promessa si è interrotta bruscamente. Il quadro clinico di Paolo è peggiorato. Necessario un nuovo ricovero in terapia intensiva. Il suo avvocato, Costantino Cardiello, parla con lucidità feroce: “Non ci sono novità. O meglio, le uniche novità sono l’assenza di novità. Siamo in stallo. Le strutture? Tutte dicono: non c’è posto. Se fosse davvero così, la coscienza di chi deve intervenire potrebbe stare tranquilla. Ma non abbiamo strumenti. Siamo disarmati. Temo che tutti stiano aspettando la soluzione definitiva… che Paolo muoia”. Un limbo senza fine - “E adesso? Paolo? Sempre la stessa situazione. Leggermente peggiorata. Ancora bloccato al Moscati. L’ultima speranza, Telese Terme… nulla. Tutto fermo. La fragilità di Paolo è estrema. Non posso credere che in Italia non esista un posto adatto. Non so perché non ci siano soluzioni”. La realtà è crudele ed evidente: un detenuto può essere lasciato morire - “No. Non voglio nemmeno pensarci. In teoria i diritti dovrebbero essere uguali. Nella realtà, un cittadino non detenuto sarebbe già altrove. La soluzione dovrebbe esistere. Ma non esiste. Due mesi di tempo e si poteva ancora recuperare la situazione. Note inviate a Milano, a Roma. Coordinamento assente. Nulla. Restare in attesa significa attendere l’impossibile. Nessun margine, nessuna via d’uscita concreta”. E allora? Restiamo a guardare. Con il cuore che sanguina e le mani legate. Paolo Piccolo non è intrappolato solo a Contrada Amoretta: è intrappolato in un Paese che promette cure e tutele ma sa solo erigere muri di burocrazia e indifferenza. Ventiquattro chili. Ventisei anni. Una vita compressa, soffocata, ridotta a numeri, protocolli, carte timbrate. E noi? Continuiamo a girare lo sguardo altrove, come se il dramma di un uomo fosse meno urgente perché in un letto d’ospedale o dietro sbarre invisibili. Ma la verità è questa: è una vergogna nazionale. E chi ha il potere di cambiare le cose tace, o peggio, aspetta. Aspetta che tutto si risolva da solo, che Paolo diventi un nome in più, un peso che non sopportiamo, una storia da dimenticare. La coscienza di un Paese si misura da come tratta i suoi figli più fragili, non dai proclami vuoti o dai comunicati ufficiali. Paolo Piccolo ci grida davanti la nostra inettitudine. Dobbiamo rispondere. Ora. Prima che sia troppo tardi. Civitavecchia (Rm). Dramma nel carcere: detenuto trovato morto in cella terzobinario.it, 19 agosto 2025 Detenuto trovato morto in cella nel carcere di Aurelia a Civitavecchia nel pomeriggio di Ferragosto. Si tratta di un uomo che proprio oggi avrebbe compiuto 57 anni e che soffriva di patologie legate alla tossicodipendenza. Nel penitenziario sembrava un normale pomeriggio d’estate, con i detenuti a passeggio che all’ora stabilita devono far rientro nelle stanze di detenzione. Proprio durante quei momenti, è stato il compagno di cella ad accorgersi del dramma: lo ha trovato esanime sul letto e contestualmente ha dato l’allarme. Chiamati i soccorsi e la Polizia Penitenziaria, si è tentato il possibile per rianimarlo ma non si è potuto far altro che constatare il decesso. Del 57enne si sa che viveva nei dintorni di Roma con alcuni legami personali che portano a Ladispoli. Su di lui una sorveglianza particolare, di quelle che si riservano a coloro che presentano problemi legati all’assunzione di stupefacenti. Ora, come da prassi, dalla Procura di Civitavecchia si è deciso di procedere con l’autopsia al fine di avere la certezza sulla causa della morte. Ma da quello che emerge, la situazione è chiara: nessun elemento che faccia pensare al suicidio e nessun elemento che induca a credere all’omicidio. Questi i fatti che si sono consumati fra le mura del carcere civitavecchiese. Poi ci sono alcuni interrogativi che emergono quando si consumano eventi così drammatici. Due su tutti: il primo, è un problema conclamato, e riguarda il sovraffollamento di penitenziari in generale che a Civitavecchia, stando ai dati che pubblica costantemente la Fns Cisl i quali fanno riferimento al sito del Ministero della Giustizia aggiornati al 31 maggio 2025, si attesta intorno al 177,5% risultando fra i primi 20 istituti più sovraffollati d’Italia. E infatti il detenuto morto a Ferragosto condivideva la cella con altri due compagni. Questo con tutto ciò che comporta fra tensioni fra etnie diverse, fra caratteri diversi, fra esigenze diverse come in questo caso dove c’era chi doveva sottoporsi a cure costanti. L’altro aspetto su cui bisogna soffermarsi è il posto dove vengono destinate queste persone. Che avesse pene da scontare per reati commessi è fuori discussione ma forse per lui il carcere non era il luogo ideale per seguire le cure di cui aveva bisogno. Dove sarebbe dovuto andare? Difficile dirlo, è per questo che forse è il sistema della pena e della detenzione va ripensato insieme all’aspetto legato alla salute. Tuttavia, è altrettanto verosimile che quanto accaduto sarebbe potuto succedere in carcere, in ospedale, o in qualsiasi altro posto si fosse trovata una persona in quelle condizioni. Treviso. Carcere minorile verso la chiusura: c’è la svolta dopo il caso Rihai di Stefano Gabbiano lapiazzaweb.it, 19 agosto 2025 Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha annunciato ufficialmente la chiusura del carcere minorile di Treviso, al centro dell’attenzione mediatica dopo il tragico suicidio del 17enne Danilo Rihai. Il giovane, di origini tunisine, era arrivato in Italia come minore non accompagnato. Dopo un arresto a Vicenza per una serie di tentativi di rapina, si era tolto la vita in cella. Ricoverato in condizioni gravissime al Ca’ Foncello, è morto il 13 agosto. Secondo Nordio, dalle verifiche interne al ministero non sarebbero emerse negligenze da parte del personale penitenziario: “Tutto il possibile è stato fatto per salvarlo”, ha dichiarato. La procura, tuttavia, ha aperto un’indagine per chiarire le eventuali responsabilità. Il giovane, arrestato pochi giorni fa e detenuto nel centro di prima accoglienza di Treviso, si era impiccato con i jeans. Salvato inizialmente dagli agenti, è morto dopo due giorni di agonia. Nel frattempo, il ministro ha annunciato che entro la fine del 2025 il carcere minorile trevigiano sarà sostituito da una nuova struttura a Rovigo, “più adeguata e moderna”. Altre aperture sono previste a breve anche a Lecce e all’Aquila, con un ampliamento complessivo della capienza nazionale di circa cento posti. Nordio ha inoltre confermato un piano di rafforzamento dei servizi psicologici negli istituti di pena: “Non ci limitiamo alla repressione - ha precisato - stiamo stanziando fondi per aumentare il numero degli psicologi e incentivare percorsi di reinserimento”. Tra le misure allo studio, figurano la revisione della liberazione anticipata e una maggiore apertura verso l’affidamento dei detenuti tossicodipendenti a comunità terapeutiche, per favorire un approccio più riabilitativo e meno carcerocentrico. Messina. Il dossier sul carcere di Gazzi dopo il suicidio di Stefano Argentino di Alessandra Serio tempostretto.it, 19 agosto 2025 Ispezione della Camera Penale e dei Radicali, che lanciano un appello al Comune: “Apra al lavoro esterno per i detenuti”. Anche nel 2025 una delegazione dei Radicali ha ispezionato il carcere messinese di Gazzi nel periodo più difficile per i penitenziari, ovvero l’estate. Il risultato della visita, effettuata stamane da alcuni componenti dell’associazione Adelaide Aglietta di Torino, conferma quanto emerso negli ultimi anni sulla struttura diretta da Angela Sciavicco: Gazzi è un istituto dove i detenuti stanno meglio rispetto alla gran parte dei penitenziari italiani, siciliani in particolare. Ma anche qui le criticità non mancano. Nel carcere messinese lo scorso 6 agosto è stato trovato morto in cella Stefano Argentino, il giovane femminicida di Sara Campanella. Un caso su cui indaga la magistratura, che ha riacceso i riflettori sui principali nodi del sistema carcerario italiano. Ecco il report consegnato dopo la visita, che ha riguardato tutti blocchi, condotta insieme al presidente della Camera Penale Pisani-Amendolia, Alberto Gullino, e i componenti del direttivo Gianfranco Briguglio e Antonio Lo Presti. Le criticità - La visita, durata oltre tre ore, è stata preceduta da un dettagliato colloquio con la direttrice dell’istituto di pena Angela Sciavicco, in cui si sono discusse le finalità dell’incontro e le principali criticità dell’istituto. Tra queste, emerge la mancanza di circa 20 agenti di polizia penitenziaria, fondamentale per garantire la sicurezza e la gestione quotidiana del carcere, e la presenza di un solo educatore, il capoarea, insufficiente per rispondere alle esigenze dei detenuti. È stata individuata un’area per gli incontri affettivi, che occorre tuttavia ancora ristrutturare. Purtroppo non vi è una tradizione di lavoro esterno per i detenuti di Messina, sicuramente difficile da trovare per evidenti problemi sociali, ma invitiamo il Comune della città a trovare maggiori forme di collaborazione con la società civile e l’istituto di pena per non lasciare nulla di intentato, affinché anche questo aspetto della riabilitazione e dell’inclusione sia perseguito. Le luci del carcere di Gazzi - Il carcere non è sovraffollato, con circa 200 detenuti per 302 posti disponibili, anche se una parte delle celle è inagibile. Nelle celle sono presenti ventilatori e frigoriferi ed è rispettato il minimo di agibilità di 3 mq per detenuto. C’è una presenza del medico e di personale infermieristico nelle 24 ore. Nel carcere sono presenti diverse associazioni di volontariato, che apportano un contributo concreto. Un aspetto di eccellenza è rappresentato dal laboratorio teatrale, strumento importante per la riabilitazione e l’inclusione. Non sono mancate critiche e richieste da parte dei detenuti: scarsa presenza del giudice di sorveglianza, tempi lunghi per visite mediche specialistiche, poca flessibilità nella comunicazione con i familiari. Torino. Murato nella cella con colla e alluminio: così vive un detenuto di 73 anni di Francesco Capuano torinoggi.it, 19 agosto 2025 Caldo, cattivi odori e problemi di sicurezza nella stanza di Nicola, che soffre di problemi psichiatrici. Un detenuto nel carcere di Torino si è praticamente murato dentro la sua cella con colla e carta di alluminio. Nicola, 73enne del braccio C, il più critico di tutta la casa circondariale Lorusso Cutugno, da mesi o forse anni vive in questa condizione degradante. Per sua scelta, certo, ma Nicola è probabilmente affetto da qualche disturbo psichiatrico e dovrebbe essere aiutato, non isolato. A riportare la situazione è stata una delegazione composta da Filippo Blengino e Bianca Piscolla, rispettivamente segretario nazionale ed esponente dei Radicali, Matteo Maino, della direzione nazionale di +Europa, Cristina Peddis e Giacomo Prandi di Azione e Samuele Moccia e Enea Lombardozzi, coordinatori dell’associazione Radicale Adelaide Aglietta. La direzione del carcere ha ammesso di non poter risolvere la situazione per mancanza di spazi e di risorse. Già in passato il detenuto è stato sottoposto a TSO, ma senza risultati. Nicola ha acquistato centinaia di euro di colla e di carta stagnola, con cui ha tappezzato le pareti interne e chiuso la porta della cella, pagando altri detenuti per sigillarla da fuori. Niente di definitivo, ma comunque Nicola sta vivendo da solo in una stanza chiusa, maleodorante, con caldo estremo e con problemi di sicurezza: in passato le guardie per aprirla hanno dovuto usare un piede di porco. Intanto, la situazione nel resto del carcere non è migliore. La delegazione non ha potuto visitare il terzo piano del padiglione C perché un detenuto si è ferito spostando un letto. Nella sezione femminile, invece, il problema principale è lo spazio. Le loro celle risultano infatti più pulite e curate ma più piccole, da dividere in due detenute con troppo poco spazio a disposizione. Frosinone. Troppi detenuti, il carcere si amplia con i moduli detentivi prefabbricati frosinonetoday.it, 19 agosto 2025 È stata pubblicata una nuova gara, del valore complessivo di oltre 45,6 milioni di euro, destinata all’ampliamento di nove strutture carcerarie, fra cui quella ciociara. C’è anche il carcere di Frosinone tra le strutture carcerarie che verranno ampliate con dei moduli prefabbricati grazie al programma messo in campo del Commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria. Un carcere dove la situazione dei detenuti è sempre più difficile e dove il sovraffollamento supera il 160%. È di questi giorni la notizia di una nuova gara, del valore complessivo di oltre 45,6 milioni di euro, destinata all’ampliamento di nove strutture carcerarie. Lo rende noto il ministero della Giustizia. La procedura - pubblicata da Invitalia, in qualità di Centrale di committenza per il commissario straordinario - riguarda la progettazione, fornitura e installazione di moduli detentivi prefabbricati negli istituti di Alba, Milano, Biella, L’Aquila, Reggio Emilia, Voghera, Frosinone, Palmi e Agrigento, distribuiti in Piemonte, Lombardia, Emilia-Romagna, Lazio, Abruzzo, Calabria e Sicilia. Nominato per fronteggiare il sovraffollamento carcerario, il commissario straordinario, in collaborazione con il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia, “sta attuando un ampio piano di interventi che prevede ampliamenti, riqualificazioni e ristrutturazioni delle strutture esistenti. Gli interventi previsti consentiranno di incrementare i posti detentivi disponibili e di migliorare la funzionalità complessiva degli istituti coinvolti”. In risposta ai bandi pubblicati, le imprese potranno presentare le loro offerte fino al 25 settembre 2025. Tutte le informazioni sono disponibili sulla Piattaforma Invitalia Gare Telematiche. Vigevano (Pv). Carcere duro al Piccolini, la politica locale in ansia: “Conseguenze pericolose” di Umberto Zanichelli Il Giorno, 19 agosto 2025 Vigevano, preoccupazioni del Pd sulla creazione di un’ala per detenuti al 41-bis. Il sindaco: finora nessuna comunicazione ufficiale, ma faremo la nostra parte. Per ora certezze non ce ne sono. C’è invece la preoccupazione che le voci siano sono l’anticipazione di quello che avverrà. Esisterebbe infatti la concreta possibilità che la casa di reclusione di Vigevano possa ospitare un numero considerevole di detenuti sottoposti al 41-bis, il regime di detenzione conosciuto come “carcere duro”, che prevede celle singole, limitazione dei contatti e dei colloqui, applicato soprattutto per soggetti condannati per reati legati alla criminalità organizzata e al terrorismo. Il tema era già emerso a giugno quando si era dibattuto della possibilità di chiudere la sezione femminile per lasciarla, dopo gli opportuni interventi di ristrutturazione, ai detenuti soggetti al 41-bis tanto che sul tema Silvia Roggia, deputata e segretaria regionale lombarda del Pd, aveva presentato un’interrogazione per dare voce alle preoccupazioni che un simile cambiamento potrebbe procurare sulla gestione della struttura, sull’impiego del personale e più in generale sul territorio. “Quanti saranno i detenuti sottoposti al 41-bis che arriveranno a Vigevano? - è l’interrogativo che si pone Arianna Spissu, capogruppo del Pd in Consiglio comunale -. In Italia sono circa 700, per Vigevano si parla di almeno 130 persone in prima battuta. Siamo una piccola città. È pensabile che con i detenuti arrivino le famiglie con ricadute sia sul piano logistico che sociale che non si possono non considerare”. “Per fare posto ai nuovi detenuti - aggiunge - saranno trasferite le circa 50 detenute della sezione femminile che in questi anni hanno lavorato in carcere o sono state inserire in progetti di recupero. Ci sono poi i problemi legati al personale: i detenuti al 41-bis sono gestiti da un Gruppo Operativo Mobile dedicato. Questo significherà tagli e trasferimenti dell’attuale personale in forza alla casa di reclusione?” Interrogativi che, almeno per il momento, non avranno risposta. “Sull’argomento non ho ricevuto nessuna comunicazione ufficiale - fa sapere il sindaco Andrea Ceffa - anche se non sono dovute perché sono decisioni assunte direttamente dal Ministero e a livello nazionale. Posso dire che se le cose dovessero andare così come si dice siamo pronti a prenderci carico delle questioni che dovessero emergere. Del resto come amministrazione abbiamo sempre collaborato con le iniziative promosse dal carcere”. Verona. Il sindaco Damiano Tommasi in visita al carcere di Montorio veronasociale.com, 19 agosto 2025 Il sindaco Damiano Tommasi e la vicesindaca Barbara Bissoli si sono recati stamane in visita al carcere di Montorio nell’ambito dell’iniziativa “Ristretti di Agosto”, promossa dall’Unione Camere Penali Italiane per tenere accesi i riflettori sulla condizione delle carceri durante il periodo estivo, quando il rischio di isolamento e le criticità aumentano. “Questi sono giorni particolari, quelli in cui si dovrebbe stare con la propria famiglia. E quindi in carcere l’assenza di tutto ciò si avverte in maniera ancora più forte. La tensione si percepisce, acuita dal fatto che durante questo periodo di festività e vacanze, la carenza di personale di sorveglianza impedisce ai detenuti di usufruire pienamente degli spazi comuni e delle attività di formazione e intrattenimento che normalmente si svolgono” - ha commentato il primo cittadino all’uscita dopo la visita ispettiva. Damiano Tommasi che già altre volte si era recato i carcere promuovendo attività di carattere sportivo, ha oggi colto l’occasione per ribadire quanto è importante il lavoro che rappresenta una leva per il benessere psicologico dei detenuti e delle detenute e un aspetto motivazionale importante: “Siamo più che consapevoli che il tema dell’inserimento nel mondo del lavoro è cruciale per dare non solo una possibilità di rinascita a chi ha intrapreso un percorso di vita sbagliato, ma anche dignità alla persona. E il Comune sta investendo molto in questa direzione. Il nostro assessorato ai Servizi Sociali in collaborazione con l’assessorato alla Sicurezza e alla Legalità, anche tramite il Tavolo interistituzionale per il carcere promosso dal Comune di Verona e alcune realtà del terzo settore si è attivato per creare quel link tra percorsi di vita che hanno preso strade diverse e la possibilità di rigenerazione anche grazie al lavoro. Il tutto finalizzato a un progressivo rientro nella società”. In merito al sovraffollamento, il primo Cittadino, si è soffermato sul fenomeno dei suicidi, invitando a riflettere sul ruolo della detenzione così com’è concepita oggi: “Gli spazi sono minimi… Inoltre mi sento di ribadire come siano importanti gli affetti famigliari che motivano le persone a riprendere un percorso di vita nella legalità, accanto ad un’attività lavorativa di qualità che tolga effettivamente lo stigma dello sbaglio. Sono questi i due aspetti su cui anche le amministrazioni locali possono fare molto”. Il Tavolo tecnico sul carcere, convocato su iniziativa degli assessorati al Sociale e alla Sicurezza e Legalità, rispettivamente guidati da Luisa Ceni e Stefania Zivelonghi, raccoglie di volta in volta le istanze e le sollecitazioni di chi opera con e per il carcere: costituisce un concreto momento di confronto tra i componenti fissi, quali la Camera Penale, la Direzione dell’istituto, la magistratura di Sorveglianza e il Garante dei diritti delle persone private della libertà, e gli altri enti di volta in volta convocati secondo i temi trattati. Un contesto in cui l’amministrazione si adopera affinché le richieste pervenute possano trovare una risposta condivisa. In questo primo anno ha trovato ampio spazio il tema del lavoro e dei progetti di studio in carcere. Udine. “Ciao, sono il papà e scrivo dal carcere” udinetoday.it, 19 agosto 2025 Comincia così una lettera dai papà reclusi nella casa circondariale di Udine: ognuno ha scritto la sua versione, poi un unico testo che comprende frasi e trafiletti da ognuna è stato reso pubblico alla stampa. Una storia di mura, di errori, di tempo che non passa ma anche di redenzione. Tanti stili diversi in un collage di emozioni. Se doveste scrivere una lettera dal carcere, di cosa parlereste? Della distanza che vi separa da chi sta fuori, della colpa che provate? Di quanto stiate cambiando, giorno dopo giorno, di cosa potrete fare insieme una volta fuori? Del tempo che non passa? La lettera. Hanno provato a farlo i venti partecipanti al progetto di sostegno alla genitorialità del carcere di Udine. Il progetto è partito a ottobre 2024 e ha visto il gruppo cambiare, tra chi entrava e chi usciva: il risultato finale è la somma di tante lettere individuali, ognuna riunita alle altre in uno o più trafiletti, in due pagine di stilettate al cuore ma anche grande gioia. Grande sostegno è arrivato dallo psicologo professionista Francesco Milanese, occupato a tirare fuori dai detenuti padri la loro maniera personale di affrontare la genitorialità in un contesto tra i più ostici che si possano immaginare, così come l’associazione Icaro, che nel 2024 ha assistito in 743 colloqui, 50 incontri di scrittura creativa, 40 appuntamenti con gli autori, 50 incontri per la libera circolazione di volumi, per finire con 12 domeniche in famiglia e decine di corsi e laboratori. L’attività è stata promossa e finanziata dall’assessorato all’Equità sociale del Comune, delegato a Stefano Gasparin, che ha definito il progetto di Icaro “di valore”. “L’amministrazione intende trasformare dal 2026 il proprio contributo economico in una vera e propria convenzione con l’associazione - ha preannunciato Gasparin - così da rendere più stabile e istituzionale questa collaborazione. Vogliamo mettere nero su bianco l’impegno del Comune di Udine nel promuovere e tutelare la genitorialità in carcere, contribuendo a un carcere più umano e a un reinserimento che parta da relazioni familiari sane e consapevoli”. Di seguito riportiamo in maniera integrale la lettera, scritta dai detenuti padri alla figlia nel giorno del suo compleanno. Ciao sono il papà e scrivo dal Carcere. Ci sono tante cose che vorrei farti sapere e che vorrei sapere di te e dei tuoi fratelli e sorelle. Mi mancate da morire, come l’acqua, come l’aria. Siete il primo pensiero al mattino e l’ultimo alla sera. Voglio che tu sappia che mi dispiace da morire il fatto di non poter esserci al tuo compleanno, vorrei poterti stringere, abbracciare, baciare te e i tuoi fratelli, mi piange il cuore sapere di non poterci essere. Ho provato a farti arrivare un bel regalo e spero ti possa arrivare in tempo. Potessi tornare indietro tutti i guai che ho combinato non li rifarei. Non è per me facile dire questa parola; la dico perché purtroppo adesso so che allora ero un’altra persona e mi piacerebbe poterti dimostrare che è vero che sto facendo di tutto per cambiare. Mi sento in colpa verso di te, porto tantissima rabbia e rancore perché anche io sono cresciuto senza un padre e adesso faccio lo stesso verso di te e verso i tuoi fratelli. Diventare padre è facile, ma essere padre è più difficile e io non ho avuto grandi esempi. Il mio c’era certo; mi dava le cose materiali, ma alla fine pur con tante cose non mi ha dato nulla. Io vorrei essere un padre presente; certo voglio anche fare in modo che non ti manchi niente, ma voglio essere presente nella tua vita. Mi tengo stretto qui dei ricordi di felicità che mi aiutano a superare le cose brutte che vivo ogni giorno; tra questi ricordi che porto ti racconto di quando ero bambino e andavo al paese con la mamma e i suoi parenti e potevo io bambino giocare libero per strada e per i campi: è una emozione di libertà che oggi mi manca, ma che penso possa farti piacere che io condivida con te. C’è un altro ricordo che mi tiene tanto vivo qui ed è il tuo piccolo dolce volto, quando ti ho potuta stringere tra le braccia. Ed ora per me ogni giorno è l’attesa di quando vieni ai colloqui e poi il ricordo di te e dei tuoi disegni tra una visita e l’altra. Ho tanto bisogno di sapere cosa fai, come va a scuola, come cresci, come ti innamori, vedere il tuo visino e quello dei tuoi fratelli, mentre crescete; voglio esserci quando vi succede qualche cosa sia di bello che di brutto e diventare anche un po’ amico dei miei figli. Penso sempre al tempo che sto perdendo qui in carcere: il tempo della vostra vita. Sai il tempo qui in carcere è sempre uguale, è come fermo, è un purgatorio. Intanto immagino che fuori per te e i tuoi fratelli il tempo corra. Quando esco proveremo a recuperarlo, magari riuscirò ad essere più presente, ma sai ci sono tante difficoltà. C’è anche il fatto che per i tuoi fratellini più piccoli io sono solo una figura dentro al telefonino per quelle poche volte che riusciamo a sentirci e vederci e a me pare una tortura non poterli davvero abbracciare. Mi rendo conto che potrei perdervi perché magari ci sono persone nuove accanto a voi e alla mamma e io ho paura di non contare più. Ecco vedi, la mia mente si logora nei sensi di colpa e nel desiderio di poter essere migliore di come sono stato. Si non sono stato un modello di virtù, ma potrei forse essere da oggi un esempio di come ci si può riscattare dai propri errori e dalle peggiori situazioni; qui in carcere si sta male perché non si può fare molto e perché mi mancate, ma anche perché si è troppo tempo in compagnia dei propri errori. Forse non mi merito che tu mi creda, perché ho fatto tante volte delle promesse che non ho mantenuto; nella mia vita ci sono state cose brutte: brutte compagnie, la droga e i reati che ho commesso, ma adesso mi rendo conto che per te e per i tuoi fratelli potrei desiderare di cambiare. Qui in carcere si imparano tante cose, cose sulla vita, che potranno servire a te e a me per crescere. Ad esempio ho imparato il peso che hanno le parole che si dicono e le cose che si fanno. Ho imparato che hanno delle conseguenze e che per questo è meglio sempre riflettere. Riflettere prima di fare, prima di dire, prima di farsi trascinare dal momento o dalle compagnie, prima di perdere il proprio equilibrio con le sostanze, o con l’alcool. Ho capito, perché lo ho provato sulla mia pelle che, per quanto possa sembrare bello sballare, per quanto ti possa sembrare figo, poi le conseguenze sono dolorose e, soprattutto, ritrovare il proprio equilibrio, la propria stabilità, è tanto lungo e faticoso. Io non posso dimenticare da dove vengo, ma devo in qualche modo fare pace con me stesso per poter cambiare, perché non mi aiuta vivere sempre nel senso di colpa. Ho imparato a cercare il cambiamento per me stesso. Vedi una delle cose che ho capito è che cambiare la direzione della vita dipende dalla responsabilità delle scelte mie e non dagli altri o da altre condizioni. Sto imparando invece a non piangermi addosso ma ad assumermi delle responsabilità, quelle che posso cambiare io di me. Ad esempio ad imparare a dialogare, cercando di ascoltare, a tollerare gli altri anche quando sono fastidiosi, a capire i sentimenti degli altri. Sai qui in carcere si è a contatto continuo con persone estranee e si deve imparare a convivere. Se penso a quanto potrei essere felice di potertele dimostrare queste cose che stanno cambiando di me! So che le mie scelte hanno tolto a te ed ai tuoi fratelli un padre, ma adesso grazie al lavoro che sto facendo in carcere, anche confrontandomi con altri papà e con le loro storie, capisco meglio e di più come potrei essere un padre presente. Certo sto provando anche a cambiare alcune cose pratiche, ad esempio il modo in cui facciamo le telefonate, e spero che i tuoi fratelli se ne siano accorti. Io non posso chiamarti sempre, ci sono regole qui, sai che spesso ci devono essere gli educatori ad assistere, e che le cose semplici della vita come chiederti come stai, qui sono molto complicate. Per questo mi piacerebbe vederti più spesso poterti abbracciare te con i tuoi fratelli. Si lo so che la scusa per non portarvi da me è che il carcere è brutto: è vero. Ma nessun posto è bello o brutto se non per come lo si vive, per come stanno le persone che lo abitano e io vorrei poterti far vedere che sono ancora presente per te, che posso meritarmi la tua fiducia, che sono ancora il padre per te e per i tuoi fratelli, nonostante tutte le difficoltà. Io non voglio abbandonare questo filo sottile di rapporto che ho ancora ci tiene uniti. Sei il mio sole, il mio pensiero e nella mancanza di te e della mia vita voglio che tu sappia che mai smetto di amarti e di pensarti e spero un giorno di poterti spiegare tante cose e ascoltare anche le tue, le tue rabbie, le tue paure verso di me e la mia vita, ma in uno spirito nuovo di ascolto e di rispetto. Ti amo tanto, tuo papà. Roma. L’arte non ha sbarre: un ponte tra “il dentro e il fuori” della realtà penitenziaria minorile art-vibes.com, 19 agosto 2025 L’Istituto Penitenziario Minorile di Casal Del Marmo a Roma ha dato il via a percorsi di sostegno e formazione attraverso l’arte contemporanea per i ragazzi e le ragazze in condizioni di detenzione. Creare un ponte tra “il dentro e il fuori” della realtà penitenziaria minorile attraverso l’arte contemporanea, per accompagnare la formazione dei giovani detenuti e sensibilizzare sulle difficoltà della condizione carceraria. È il progetto “L’arte non ha sbarre”, promosso dall’omonima Associazione giovanile L’arte non ha sbarre APS, in collaborazione con il Garante per i detenuti del Lazio e l’Istituto Penitenziario Minorile di Casal Del Marmo e la curatela di Oriana Rizzuto, con l’obiettivo di creare percorsi di sostegno e formazione per i ragazzi e le ragazze in condizioni di detenzione. “Dentro” all’istituto, si svolgono i laboratori d’arte che in questa edizione coinvolgono Diamond, Solo e Moby Dick, street artists italiani tra i più noti anche internazionalmente, provenienti da diversi ambiti della scena dell’arte di strada capitolina e scelti per avere fatto dell’impegno civile il centro della propria attività, con la collaborazione anche di Moreno Giaconi, professionista della stampa e della serigrafia, con il quale i ragazzi, dai disegni realizzati insieme agli artisti, da telai e matrici di stampa hanno realizzato delle maglie personalizzate con le immagini a loro care. A loro si fanno conoscere anche le opere degli artisti e i quartieri della città che le ospitano, in modo di far conoscere anche a loro angoli diversi della città che spesso non conoscono e stimolare in loro creatività e curiosità. “Fuori”, sono in programma una serie di tour di quartieri periferici della città che negli ultimi anni hanno visto la nascita di veri e propri distretti creativi, diventando vere e proprie mete della street art, come Tor Marancia e Corviale, Settecamini e Quadraro, Pigneto e San Basilio, il prossimo il 29 agosto, gratuito su prenotazione mandando una mail a info@lartenonhasbarre.it, per valorizzare quartieri marginali e proporre itinerari turistici al di fuori dei percorsi mainstream. I tour saranno arricchiti dall’uso di un’app multilingua accessibile tramite un QR code, che dà accesso a contenuti di approfondimento realizzati dai ragazzi durante i workshop, con notizie sui quartieri, sulla loro storia e sugli artisti, e un podcast multilingua per rendere il percorso fruibile a cittadini, turisti, pellegrini, anche e soprattutto in occasione dell’Anno Giubilare allo scopo di proporre un’offerta culturale in più rispetto a quella consueta. Questa iniziativa per noi è sia un traguardo che una sfida: dopo diverse edizioni nelle case circondariali di Roma, finalmente facciamo dei corsi di arte per i ragazzi dell’Istituto Minorile romano, sperando che i laboratori ludico-didattici riescano a coniugare conoscenza e leggerezza in luoghi che in estate sono ancor più difficili da vivere. Inoltre, portare all’esterno, durante le visite guidate, i contenuti creati con loro al fine di fare conoscere meglio alcuni luoghi inconsueti della città, ci offre la possibilità di portare avanti questo dialogo tra il dentro e il fuori, per aprire uno sguardo sul territorio da vari punti di vista e valorizzarne le specificità” - ha affermato Oriana Rizzuto. “L’arte non ha sbarre” continua sul tracciato dell’impegno sociale e culturale di MArteSocial, da un’idea di Giuseppe Casa, allo scopo di dimostrare come l’arte possa essere uno strumento di libertà, speranza e rinascita anche nei contesti più difficili, confermando quanto la dimensione culturale e quella sociale siano complementari nell’esercitare un impatto positivo sulla città. Il progetto, promosso da Roma Capitale - Assessorato alla Cultura, è vincitore dell’Avviso Pubblico Artes et Iubilaeum - 2025, è finanziato dall’Unione Europea Next Generation EU per grandi eventi turistici nell’ambito del PNRR sulla misura M1C3 - Investimento 4.3 - Caput Mundi. Ma gli adulti che esempi sono per i bambini di oggi? di Dacia Maraini Corriere della Sera, 19 agosto 2025 I ragazzini agiscono seguendo un’istintiva mimesi cinetica che li porta a plagiare il comportamento degli adulti anche quando li contestano. Quattro bambini prendono possesso di una macchina, ma essendo inesperti, mettono sotto una passante. La donna muore, i bambini scappano. Ma vengono presi dopo poco. Quando si scopre che sono figli di Rom, si scatena la tempesta. C’è chi vuole mandarli in prigione. Ma la legge lo vieta. Allora, portiamoli via dalle famiglie e chiudiamoli in qualche istituto, gridano. C’è chi addirittura vorrebbe radere al suolo l’accampamento dove vivono i colpevoli coi genitori. Premetto che ho avuto una esperienza simile. Una banda di bambini, il più piccolo 9 anni e il più grande 14, sono entrati in casa mia dalla finestra. Non hanno rubato niente, ma hanno spaccato tutto quello che potevano, spargendo il vino e l’olio sul pavimento, gettando i piatti dalla finestra, rompendo a bastonate il televisore. E non è successo solo a me, ma alle case vicine e alla farmacia che si è trovata tutti i medicinali aperti e sparsi sul suolo. Sono stati trovati subito naturalmente perché non erano ladri organizzati ma ragazzini che volevano fare gli eroi. Nessuno di loro era Rom, ma figli di bravi cittadini italiani. Ci si domanda: come dovremmo interpretare questi atti compiuti da ragazzi sempre più piccoli e spesso non spinti da bisogno, né da scopi di furto, ma solo per divertirsi e “fare casino”?. Casino che finisce spesso in maniera crudele e funesta. Naturalmente si possono proporre tante interpretazioni. Io parto dall’idea che i piccoli amano emulare i grandi. I bambini agiscono seguendo un’istintiva mimesi cinetica che li porta a plagiare il comportamento degli adulti anche quando li contestano. E qui viene da chiedersi: ma come si stanno comportando le persone mature in questo triste momento storico? Cosa fanno molti capi di Stati che si dicono democratici e civili ma usano il linguaggio dell’odio e della vendetta? Persone mature che mentono, inneggiano alla violenza e dimostrano una assoluta incapacità di giudizio e di responsabilità. Insomma cosa stanno insegnando gli adulti ai bambini del mondo? Che le regole sono buone per gli scemi? Che il rispetto dell’altro è un sentimento da perdenti? Che chi le spara più grosse è applaudito? Che bisogna colpire vilmente l’avversario per ottenere qualcosa.? I piccoli i sono bravissimi a capire il linguaggio dei grandi. E se questo è il mondo, sembrano dirci dimostreremo che sappiamo essere più crudeli e più spregiudicati di chi pretende di governarci. L’Italia razzista e securitaria che mette i rom alla gogna di Vincenzo Scalia L’Unità, 19 agosto 2025 In seguito al tragico incidente che ha visto dei minori investire Cecilia De Astis i media si sono scatenati, incoraggiati da un governo intollerante. Il recente tragico evento di Milano, in cui ha trovato la morte la 71enne Cecilia De Astis, investita da una macchina con 4 minorenni a bordo, ha sconvolto l’opinione pubblica. È assurdo morire mentre si attraversa la strada. Lo è ancora di più se la tragedia avviene per mano di un gruppo di ragazzini che non dispongono di alcuna certificazione che li autorizza a guidare, visto che sono minori di 18 anni. La reazione dell’opinione pubblica, tuttavia, eccede la portata dell’evento tragico. Lungi dal restituire giustizia alla vittima e alla sua famiglia, si concentra sulla criminalizzazione dei rom, gruppo etnico a cui appartengono i ragazzini alla guida della macchina. Spaziando dalle televisioni che provano a fare incursione nei campi rom all’indignazione per il fatto che i ragazzi non saranno arrestati ma affidati alle famiglie, in quanto minori di 14 anni. Con in mezzo la mappatura dei presunti campi rom clandestini da parte di quotidiani autorevoli. E il culmine nell’affermazione del vice-premier, che parla di radere al suolo i campi rom, una dichiarazione che, in bocca ad un autorevole esponente della compagine governativa suona inopportuna, ancorché sinistra. Se, come abbiamo premesso, nessuno sminuisce la gravità dell’accaduto, non sarà certo l’ennesima caccia alle streghe a risolvere la questione. Non esiste alcuna correlazione diretta tra le tipologie di reato e l’etnia. Malgrado il governo attuale, ad esempio con la parte del decreto sicurezza che abolisce la custodia attenuata per le madri, si sforzi in ogni modo di smentire la realtà. In particolare, gli incidenti stradali, molto raramente coinvolgono minori, ancora meno quelli di etnia rom. Pensiamo al recente incidente avvenuto l’11 luglio in Costa Smeralda, quando una manager tedesca ha investito mortalmente una giovane di 24 anni. In quel caso non è scattata la caccia alle streghe ai turisti tedeschi in Italia. Oppure si prenda il caso di Cinzia del Pino, che l’anno scorso, a Viareggio, a bordo del suo SUV, investì mortalmente, intenzionalmente, il migrante Nourdine Mezgoui. In quel caso, dalla stampa mainstream, dalla coalizione governativa, si invitò addirittura a comprendere il gesto della donna, in quanto esasperata dalla criminalità, ovviamente straniera. Così come non abbiamo mai sentito parole di biasimo verso quei militanti che gravitano attorno alla coalizione governativa che lanciano molotov nei campi rom, organizzano spedizioni punitive nei quartieri abitati da migranti, spruzzano lo spray sulle prostitute, spargono letame sui terreni individuati come sedi possibili di moschee. Eppure sono comportamenti esecrabili, ancorché perseguibili penalmente. Ma quasi mai occupano le ribalte della cronaca e del dibattito politico. Malgrado, a differenza dei ragazzi milanesi, queste condotte siano molto spesso intenzionali. Soprattutto, colpisce l’indignazione per il fatto che i minori siano stati riaffidati alle famiglie. Certo, il governo ha ricevuto, un mese fa, uno stop significativo dalla Consulta, che ha sottolineato l’incostituzionalità del decreto Caivano. Ne consegue che i fatti di Milano rappresentino un’occasione per rialzare la testa. Al contrario, noi crediamo che il securitarismo abbia fallito, e che debba essere messo in soffitta, se non in posti peggiori. Il pregiudizio endemico della società italiana verso i rom, la loro marginalizzazione e criminalizzazione, hanno prodotto un circolo vizioso, di mancata integrazione e ostilità reciproca. È all’interno di questo circolo che si è prodotto un fatto tragico come quello milanese. Così come la crescente esclusione sociale, portato diretto del neoliberismo, accompagnata alla tolleranza zero, ha realizzato, come dice il sociologo francese Loic Wacquant, una simbiosi mortale. Che comporta crescente esclusione sociale e alimenta il clima di intolleranza, restringendo in una misura sempre più preoccupante gli spazi della convivenza civile. La penalità, lungi dal risolvere i conflitti che attraversano la società contemporanea, li aggrava. Sarebbe ora che se ne rendessero conto in molti. In particolare, certi settori dell’apparato mediatico. Riposi in pace Cecilia De Astis. Condoglianze alla sua famiglia. Migranti. Vite a perdere di Antonella Moretti ilnuovoterraglio.it, 19 agosto 2025 Molto scalpore ha fatto l’arresto, poi divenuto tragicamente un suicido in carcere, di un minore non accompagnato, il tunisino Danilo Rihai. Questo perché, dopo un pomeriggio di scorribande a Vicenza, non è restato che fermarlo con il taser ed arrestarlo. Il giovane, nonostante la giovane età, aveva a carico una serie di denunce per rapina, tentata rapina aggravata, danneggiamento, resistenza e violenza a pubblico ufficiale, lesioni personali, oltraggio e atti osceni. Il minorenne, lo scorso aprile, era fuggito dal centro di accoglienza in provincia di Vicenza che lo ospitava e la sua scomparsa era stata segnalata alle autorità. Fino a sabato il giovane aveva commesso solo reati minori, poi l’istinto criminale è scattato. Sabato all’ora di pranzo, Danilo Rihai aveva tentato di scippare un anziano a Ponte San Michele, nel cuore di Vicenza, facendolo cadere e procurandogli delle ferite. Poco dopo aveva afferrato il polso di un cliente di una pizzeria, cercando di strappargli l’orologio, minacciandolo con un coltello. Allontanato dai presenti, Rihai aveva aggredito altre persone, spostandosi fino a piazza dei Signori, prima di tuffarsi nel Retrone per sfuggire alla polizia. Poi si era introdotto in un appartamento sfondando l’ingresso e barricandosi all’interno. Qui aveva seminato il panico: nudo alla finestra, aveva spruzzato un estintore, rotto vetri e lanciato oggetti contro gli agenti. Sul posto erano intervenuti, oltre alle volanti, anche la polizia locale, i vigili del fuoco e il Suem. Il minore avrebbe tentato di colpirli, ma era stato immobilizzato con il taser ed arrestato. Gli erano contestate quattro tentate rapine e una rapina. Dopo l’arresto non ha opposto resistenza ed è stato trasferito al carcere minorile di Treviso. La posizione del minore, già scappato più volte da strutture protette, è stata al vaglio dell’autorità giudiziaria. Tra le misure, avrebbe potuto esserci anche l’espulsione dall’Italia. Quindi, su disposizione della Procura, è stato collocato temporaneamente nel Centro di prima accoglienza (Cpa) annesso all’istituto penitenziario e non in una cella. Ma nessun psicologo era in servizio in quel momento per ascoltarlo e quindi lui, vedendosi in una situazione senza via d’uscita, secondo la ricostruzione, poco prima della mezzanotte il ragazzo avrebbe utilizzato i propri jeans per realizzare un cappio ed impiccarsi. A dare l’allarme sono stati gli agenti della polizia penitenziaria, che hanno immediatamente aperto la cella e lo hanno liberato, praticando le prime manovre di rianimazione. Pochi minuti dopo è arrivato anche il medico della Casa circondariale, che ha proseguito i tentativi di rianimazione. Trasportato d’urgenza al pronto soccorso dell’ospedale di Treviso, il 17enne era stato ricoverato in condizioni disperate, con gravissime lesioni dovute al tentato suicidio. Nonostante due giorni di cure, è sopraggiunto il decesso all’ospedale Ca’ Foncello. Oltre l’amaro in bocca che ci lascia questa storia, a quali riflessioni, possiamo giungere? Innanzi tutto questo status dei minori non accompagnati è una situazione molto delicata, alla quale i genitori che mandano i figli nei corridoi di immigrazione clandestina non pensano. Loro hanno in mente solo la vita migliore che potrebbero avere i loro figli, e quindi si infliggono dei sacrifici pur di pagare a loro i viaggi nei barconi, non capendo che la realtà è un’altra. Oltre ai rischi del viaggio, che il film “Io capitano” ci ha illustrato, è dopo l’arrivo che la situazione si complica. Intanto vediamo le statistiche. I minori stranieri non accompagnati (MSNA) censiti in Italia al 30 giugno 2025 sono 16.497, sono in maggioranza maschi (87,5%) e hanno per la maggior parte 17 (54,6%), 16 (21,7%) e dai 7 ai 14 anni (15,1%). Arrivano soprattutto da Egitto (24,6%), Ucraina (19,5%), Gambia (9,5%), Tunisia (7,9%) e Guinea (6,2%), mentre le Regioni che ne accolgono di più sono la Sicilia (22%), la Lombardia (14%), la Campania (9,4%) e l’Emilia-Romagna (8,2%). Questo ci dice la complessità di accogliere un numero così alto di ragazzi, che secondo il Testo Unico in materia di Immigrazione riguardante e le norme relative all’accoglienza dei richiedenti di protezione internazionale del 2015 e la legge Zampa del 2017 di cui l’Italia si è dotata proprio per i minori non accompagnati. L’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati (MSNA) in Italia quindi è regolata da specifiche normative e procedure, volte a garantire la loro protezione e il rispetto dei loro diritti. Questi minori, ovvero i cittadini di Paesi non appartenenti all’Unione Europea e gli apolidi di età inferiore ai 18 anni che si trovano in Italia senza adulti di riferimento, hanno diritto a essere accolti e protetti. Ma come? Innanzi tutto è necessario individuare un collocamento sicuro. La responsabilità è riferita al Comune dove il minore si trova è responsabile della sua presa in carico, anche se può essere previsto un trasferimento. E qui già possiamo notare la prima criticità. Perché i fondi necessari al mantenimento e alla cura di questi minori sono locali e non nazionali, ma fortunatamente è stato istituito un Fondo per l’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati, con risorse destinate ai Comuni per coprire le spese di accoglienza. Il sistema prevede poi due fasi: la prima che prevede l’identificazione del minore e il collocamento in strutture dedicate, con personale specializzato. E qui un’altra criticità? Quanto personale è stato formato per fare questo compito così delicato? La seconda accoglienza si articola invece in diverse forme, come comunità o abitazioni autonome, spesso condivise con altri ragazzi. Ma ci sono queste strutture? E bastano per i numeri di cui abbiamo preso visione? Inoltre, in base al principio di inespellibilità, i MSNA (Minori Stranieri Non Accompagnati) non possono essere espulsi dal territorio italiano, a meno che non rappresentino una minaccia per la sicurezza e l’ordine pubblico ed hanno diritto a ottenere un permesso di soggiorno. Ecco a che punto era arrivato Danilo, nella sua disperazione, perché ha rischiato addirittura l’espulsione in conseguenza alla sua condotta scellerata, prima del tragico evento. Questo ci fa capire che alla base di queste tragedie, fondamentalmente ci sia l’abbandono che questo ragazzo ha vissuto prima da parte dei suoi genitori, che pensavano di farlo per il suo bene; e poi dallo spaesamento che ha vissuto al suo arrivo qui. La libertà e il benessere che pensava di aver raggiunto, si sono dissolti come in una bolla di sapone, quando si è reso conto di essere solo in una struttura di accoglienza, che non avrebbe saputo dargli ciò che una famiglia può dare ad un figlio, nonostante le migliori intenzioni degli operatori. E che il mondo in cui era arrivato era diversissimo dal suo e non ne conosceva le coordinate. Fortunatamente questi progetti di accoglienza dei minori non accompagnati, prevedono anche il ricongiungimento dei genitori nel paese d’origine o parenti residenti in Italia, anche perché è importante che loro abbiano degli adulti di riferimento, visto che a 18 anni scade questo protocollo di accoglienza. Anni fa sono venuta a conoscenza che una suora missionaria in Africa andava di villaggio in villaggio ad avvertire i futuri migranti a che pericoli andavano incontro affrontando un viaggio del genere. Forse, oltre agli accordi con i paesi di provenienza degli immigrati per bloccare l’immigrazione clandestina, si dovrebbe fare anche questo: informarli su ciò a cui vanno incontro e come la loro vita da un sogno possa diventare una tragedia. Migranti. Ong Mediterranea: “Accerchiati dai libici in acque internazionali” di Michele Gambirasi Il Manifesto, 19 agosto 2025 È stata accerchiata alle prime ore del mattino di ieri mentre si trovava in pattugliamento in zona Sar libica la Mediterranea Ship, la nuova nave di ricerca e soccorso dell’omonima ong, partita per la propria prima missione domenica. Intorno alle cinque del mattino, dopo essere entrata in zona Sar libica introno alle tre di notte mentre era in navigazione tra Zuara e Al Zawiyah a circa 30 miglia dalla costa, quindi in acque internazionali, cinque gommoni veloci hanno circondato l’imbarcazione. Ognuno dei essi, hanno raccontato gli attivisti dell’ong, aveva a bordo almeno sei persone, la maggior parte delle quali a volto coperto, armate con pistole e fucili mitragliatori. Alle richieste di identificarsi, le imbarcazioni militari non hanno risposto. Poche ore dopo, verso le 7.30, i gommoni attorno alla Mediterranea sono diventati otto. Questi hanno dato il via a manovre pericolose, mentre gli uomini armati rivolgevano da bordo gesti di minaccia all’equipaggio della nave umanitaria. Poco dopo hanno iniziato a inviare messaggi via radio, ripetendo insistentemente “Go out off Lybia, go out off Lybia”. Solo alle 8.30 i gommoni si sono radunati e poi allontanati, facendo rotta verso il porto di Al Zawiyah, noto per essere una delle basi della sedicente “guardia costiera libica” e di diverse milizie. L’equipaggio della Mediterranea ha scattato diverse foto alle imbarcazioni, riconoscendone alcuni segni identificativi. Tra questi i colori blu e rosso, caratteristici della General administration coastal security (Gacs), appunto la cosiddetta “guardia costiera”. Alcuni membri dell’equipaggio avrebbero riconosciuto su una toppa indossata da uno degli uomini armati un simbolo riconducibile alla Stability Support Authority (Ssa). “L’intimidazione nei confronti di navi di soccorso che sono in acque internazionali, è una cosa odiosa, ma soprattutto illegale e penalmente rilevante. Che l’intimidazione avvenga ad opera di assetti militari, con personale armato a bordo e travisato da passamontagna in modo da non poter essere riconosciuto, dà l’idea su che tipo di intimidazione sia: mafiosa” ha detto Mediterranea, che ha definito quanto accaduto “un atto di pirateria in acque internazionali finalizzato alla violazione della convenzione di Ginevra sui profughi e rifugiati e alla violazione della convenzione di Amburgo sul soccorso in mare”. La nave è stata raggiunta in seguito da un secondo incontro ravvicinato. L’equipaggio, sentito telefonicamente dal manifesto, ha raccontato che intorno alle 17.30 di ieri un’imbarcazione ha nuovamente puntato verso la nave a velocità elevata, intorno ai 26 nodi. In quel momento la Mediterranea si trovava ad oltre 30 miglia dalle coste libiche. Era la motovedetta libica 656 Zawya, donata dall’Italia nel 2017 nell’ambito del memorandum con il paese nordafricano quando a capo del governo si trovava Paolo Gentiloni. Dopo aver tagliato la scia di poppa della Mediterranea la motovedetta si è rivolta all’ong intimandole di fare rotta verso l’Italia. Ha poi proseguito la navigazione verso la costa. “A bordo non c’erano naufraghi, quindi presumibilmente tornava da attività di pattugliamento a caccia di migranti in mare, ma gli era andata male” ha raccontato l’equipaggio. Mediterranea resta in zona Sar libica e continua con la prima missione in mare della nuova imbarcazione, in precedenza appartenuta alla ong tedesca Sea-Eye: è la seconda nave dell’organizzazione, che affianca la Mare Jonio attiva dal 2018. “Vogliono avere campo libero per catturare e deportare uomini, donne e bambini che tentano di salvarsi da lager torture e violenze di ogni tipo, e soprattutto non vogliono testimoni dei naufragi che noi chiamiamo “fantasma”, che proprio in quel tratto di mare avvengono spesso - ha scritto in un comunicato l’ong - Siamo qui anche per questo: documentare e raccontare che cosa è diventato il Mediterraneo e il diritto internazionale a furia di fare la guerra alle persone migranti”. Medio Oriente. Due milioni di israeliani in piazza sono un sussulto di coscienza per Gaza di Marina Corradi Avvenire, 19 agosto 2025 Dalla gente in piazza per il ritorno degli ultimi 50 ostaggi, di cui forse solo 20 vivi, e perché finisca la guerra un invito a non abbassare lo sguardo di fronte alle vittime della Striscia. Ora arrivano migliaia di tende. L’ordine è di evacuare Gaza City, dice il parroco della Sacra Famiglia, Gabriel Romanelli. Ma come faranno, dove metteranno due milioni e 300 mila persone, si chiede angosciato. Intanto, domenica 57 palestinesi morti, e già 17 stamattina all’alba. Più cinque morti per fame. Certo, lo dice il Ministero della Salute palestinese, ci sarà da crederci? E quelle foto della folla con le pentole in mano, in attesa di cibo, non potrebbero essere fake di propaganda? Si ascoltano in Occidente raffinati dibattiti sull’argomento. Ma, ammesso anche che un fotografo abbia cercato uno scatto confezionato, temiamo che la gente con le scodelle vuote, le donne con la disperazione in faccia, siano assolutamente reali. Sui tg di tutto il mondo compare e ricompare il premier Netanyahu, e assicura che a Gaza non c’è fame. Pochi secondi, e una sequenza di immagini insostenibili lo smentisce. Tutte fake? Il Patriarca Latino di Gerusalemme, cardinale Pierbattista Pizzaballa, è stato a Gaza, testimone: fame, ha denunciato, e una situazione insostenibile. Lo ha detto anche il Papa. Lo ha detto ieri Amnesty International. Una domanda ingenua: chi mente? La fame a Gaza c’è, o se la inventano i nemici di Israele? Anche quelli che ne sono da lunga data amici? Una notizia buona però, a cercarla, c’è in questo Ferragosto drammatico tra i rimpalli vani di Anchorage, e Kiev e il Medio Oriente. Lo sciopero generale in Israele, domenica: la gente in piazza per il ritorno degli ultimi 50 ostaggi, di cui forse solo 20 vivi, e perché finisca la guerra. Lo sciopero è iniziato alle 6.29, l’ora del massacro, l’ora dell’incubo. Eppure proprio in quell’ora centinaia di migliaia di israeliani sono usciti di casa con le bandiere e gli altoparlanti, e hanno bloccato le autostrade e invaso la Piazza degli Ostaggi a Tel Aviv. Il fumo acre degli pneumatici bruciati ha riempito l’aria, un odore acre di ribellione. Nelle immagini sul web si percepisce l’angoscia per quei figli che continuano a essere chiamati al fronte, lo sfinimento per l’avversione che questa guerra ha creato nel mondo attorno a Israele, l’incredulità per ciò che è stato fatto dal Governo a Gaza. In risposta al 7 ottobre, al fondo del male. Ma si può rispondere al male con il male, per sempre? Andare avanti per sempre, ciecamente, credendo di sterminare l’ultimo dei nemici - quando già i figli nel grembo delle donne di Gaza venendo al mondo respireranno odio, e ricorderanno. Si può uccidere, vendicare - elencando tutte le proprie solide ragioni - senza finire mai? Guardando a questi due anni fra Israele e Gaza, parrebbe di sì. Come, del resto, smettere di odiare chi ha massacrato i tuoi figli, le tue donne, nel modo che sappiamo, nella notte dei kibbutz? Eppure ci deve essere una fine. Ci deve essere un momento in cui riconosci, nella faccia di una giovane palestinese china su un fagotto bianco immoto, gli occhi di tua figlia. Un momento in cui nei bambini randagi nelle macerie di Gaza - saranno fake anche quelli, ma quanto ricordano le rovine di Dresda quegli scheletri di case incenerite - vedi tuoi bambini. Lo stesso sguardo, la stessa domanda. Ci deve pur essere infine quel momento, in cui come svegliandosi da un dormiveglia maligno si è stanchi, e si vuole dire basta. Nessuna vendetta può essere eterna. Le donne che gridavano a Tel Aviv “gli ostaggi a casa”, “che finisca la guerra”, sono forse le madri di diciottenni chiamati al fronte, nell’ora in cui il governo prepara la deportazione di oltre due milioni di palestinesi da Gaza. Quelle donne, quei padri cercano di fermare altra morte. Nessuna morte li consolerà, di quella dei loro figli. Una parte di Israele apre gli occhi, domanda ad alta voce nelle piazze: “Che possiamo vivere insieme in questa terra, per altre centinaia di anni”. Utopia? Non più che immaginare che la deportazione di un popolo intero possa portare a Israele pace e sicurezza. In che sperare, se non nella coscienza di Israele. Che non può essere quella di Netanyahu, ma di gente che vuole restare in quella terra, e avere figli, e continuare la sua storia. E forse oramai capisce, sa nella pelle che, se si vuole vivere, non si può odiare per sempre. Medio Oriente. La catastrofe invisibile della fame. Amnesty: “È una politica deliberata di Israele” di Chiara Cruciati Il Manifesto, 19 agosto 2025 Il nuovo rapporto dell’organizzazione sul blocco del cibo e la distruzione del sistema sanitario, nel giorno in cui un anziano viene ucciso da un pacco paracadutato dagli elicotteri e cinque palestinesi per la denutrizione. Un anziano palestinese è stato ucciso ieri da un pacco alimentare lanciato con un paracadute. Il pallet ha centrato la tenda in cui viveva da sfollato a Khan Younis, profondo sud di Gaza. All’ospedale Nasser dove è stato portato nell’inutile tentativo di salvarlo non lo hanno ancora identificato. Ucciso da un presidio salvavita, un po’ di cibo sganciato dagli elicotteri di una coalizione di “volenterosi”, paesi che da qualche settimana hanno preso a lanciare pacchi alimentari dal cielo perché Israele lo permette. Sarebbe molto più semplice e capillare e meno pericoloso se venissero consegnati con i camion dai valichi di terra: ne entrerebbero di più, verrebbero distribuiti nei centri Onu disseminati su tutto il territorio, raggiungerebbero anche i più vulnerabili, anziani, bambini, disabili, persone che non riescono fisicamente a ingaggiare una battaglia con centinaia di migliaia di altri affamati per accaparrarsi un pacco di farina, che sia lanciato da un elicottero o “distribuito” in quelle trappole di morte che sono i centri della fondazione israeliano-statunitense Ghf. Di camion però ne appaiono pochissimi per le strade distrutte della Striscia e i pochi che riescono nell’impresa sono assaltati da folle di disperati. Nel fine settimana Israele ha autorizzato l’ingresso di 266 camion in tre giorni (ne servirebbero almeno 600 al giorno). Da inizio agosto hanno attraversato i valichi appena 1.937 tir sui 13.200 indispensabili, meno del 15%. Con i camion si eviterebbero anche le vittime: non è la prima volta che un pallet schiaccia e uccide. Ieri di cibo sono morte altre persone, cinque palestinesi ammazzati dalla denutrizione. Tra loro due bambini. Dal 7 ottobre 2023 sono 263 le morti per inedia, 112 minori, con un balzo nel bilancio totale registrato nelle ultime settimane perché, dopo mesi di aiuti bloccati o fatti filtrare col contagocce (succede dal 2 marzo scorso, la tregua era ancora in vigore), i corpi dei palestinesi non ce la fanno più. Il sistema israeliano di “distribuzione umanitaria” in realtà funziona benissimo, se l’obiettivo che si pone è quello sotto gli occhi di tutti: affamare Gaza, fare a pezzi la sua società e i corpi di chi la abita, per spingerli ad abbandonare la propria terra per mero istinto di sopravvivenza. Che si tratti di una politica ragionata lo ha scritto ieri Amnesty International in un nuovo rapporto: “Israele sta portando avanti una deliberata campagna di riduzione alla fame nella Striscia occupata attraverso la sistematica distruzione della salute, del benessere e del tessuto sociale della vita palestinese”, scrive l’organizzazione sulla base di testimonianze raccolte sul campo e degli ordini emessi da governo ed esercito israeliani. Tutti elementi che, insieme, permettono di parlare di “risultato atteso di piani e politiche” e non di “uno sfortunato effetto secondario”. Distruzione del sistema sanitario, blocco degli aiuti alimentari e sanitari, sfollamenti di massa, limitazioni gravi al lavoro delle ong sono i tasselli di un’operazione ingegneristica che si inserisce nel più ampio contesto del genocidio. Perché se non si mangia abbastanza e correttamente, il corpo smette di funzionare e il sistema immunitario crolla: i malati cronici muoiono, le infezioni si diffondono. “Una catastrofe invisibile”, dice un medico dell’ospedale al-Shifa. Tra i soggetti più vulnerabili ci sono le madri in gravidanza e in allattamento. Il latte, ha raccontato S., infermiera e madre di una piccola di sette mesi, “non esce”: “Sento di aver fallito come madre”. S. vive con il marito e altre due bambine in una tenda infestata da topi e insetti. Lui prova a procurarsi qualcosa ai centri della Ghf, spesso torna a mani vuote. “In passato ci davamo una mano gli uni agli altri. Adesso la gente è guidata solo dall’istinto individuale della sopravvivenza”, racconta Abu Alaa, 62 anni, sfollato. “Ho visto coi miei occhi persone portare pacchi di farina sporchi del sangue di chi era stato appena ucciso”, aggiunge Nahed, 66 anni. Aziza ha 75 anni e vuole morire: “Sento di essere diventata un peso per la mia famiglia. Quando ci hanno sfollati, hanno dovuto spingermi su una sedia a rotelle. Ho bisogno dei pannoloni, sono estremamente costosi. Mi servono le medicine per il diabete, la pressione alta e il cuore e ho solo confezioni scadute. Mi accorgo di essere come un neonato ma sono loro, i miei nipotini, che meritano di vivere”.