L’ipocrisia misurata in metri quadri di Giovanni Toti Il Giornale, 18 agosto 2025 Esiste un’unità di misura particolarmente efficace per valutare l’ipocrisia della politica italiana: la condizione delle nostre carceri. Ogni estate si ripete lo stesso rituale: parlamentari in visita agli istituti di pena, descrizioni drammatiche del sovraffollamento, appelli generici perché “qualcuno faccia qualcosa”, lacrime di coccodrillo versate per i suicidi nelle celle. Poi, come da calendario, la politica parte per le vacanze, i magistrati pure, talvolta dopo aver firmato gli ultimi ordini di custodia cautelare. Eppure chi immagina che quelle celle stipate siano popolate solo da colpevoli dovrebbe ricordare che oltre il 25% dei reclusi in Italia è in attesa di giudizio: uomini e donne che, secondo la legge, sono innocenti. Dal giustizialismo vendetta sociale - Il vero problema è culturale. Negli ultimi decenni la deriva giustizialista e moralista, sostenuta da ampie fette della politica di destra e di sinistra, da settori della magistratura e da una parte del giornalismo, ha assecondato un’opinione pubblica allevata a carne cruda, più assetata di vendetta che di giustizia. Così si è rovesciato il percorso avviato da Cesare Beccaria e consacrato dalla nostra Costituzione: quello di una classe dirigente chiamata a illuminare i sentimenti più oscuri della massa con la fiaccola di una giustizia equilibrata, mai vendicativa, capace di ascoltare le vittime senza dimenticare i diritti dei colpevoli o dei presunti tali. Una giustizia, insomma, che sappia compiere scelte impopolari in nome di principi superiori. Un problema semplice, irrisolto da decenni - Non si spiega altrimenti come uno degli Stati più evoluti del pianeta, l’ottava economia mondiale, erede di una raffinata civiltà giuridica, non riesca a risolvere un problema che altrove è stato affrontato con strumenti concreti e tutto sommato semplici. Senza essere né giurista né ingegnere, è facile pensare a una riforma che limiti la carcerazione preventiva ai soli casi di reale pericolosità sociale, sostituendola in modo automatico - non discrezionale - con strumenti alternativi come i domiciliari, l’obbligo di firma, il braccialetto elettronico. Un paradosso economico e urbanistico - Quando accade una calamità naturale, la Protezione Civile è in grado in poche settimane di costruire villaggi provvisori dotati di casette con aria condizionata e servizi igienici. Perché non si potrebbe fare altrettanto per i detenuti, ospitandoli in condizioni civili e dignitose, invece che in strutture fatiscenti, spesso ottocentesche? Per di più, molte carceri italiane si trovano al centro di città dove i valori immobiliari sono elevatissimi. Cederle ai privati per operazioni di edilizia commerciale e ottenere in cambio la costruzione di nuove strutture moderne in aree meno pregiate non sarebbe né impossibile né illogico. E non dimentichiamo l’aspetto economico: ogni detenuto costa allo Stato circa 150 euro al giorno, una cifra paragonabile al prezzo di una pensione completa in un albergo di media categoria. Possibile che con queste risorse non si riesca a garantire condizioni di vita più umane di una cella sovraffollata, con otto letti e un fornello da campo? Un confronto impietoso con l’Europa - Basta osservare le foto delle carceri in Svezia, Danimarca, Norvegia, Olanda o Germania per rendersi conto che un livello di civiltà superiore non solo è possibile, ma è già realtà. E non parliamo di Paesi con condizioni economiche o sociali incommensurabili con le nostre. Il coraggio che manca - Servirebbe una politica capace di abbandonare l’estetica del “buttiamo via le chiavi” e di spiegare all’opinione pubblica che un Paese si giudica da come tratta chi si trova nelle condizioni più difficili, anche quando quelle condizioni sono frutto di errori gravi. L’umanità è un patrimonio collettivo. Chi pensa che il carcere non lo riguardi, chi ritiene sprecato ogni euro speso per migliorare la vita di chi vi è recluso, non solo sbaglia: mina le fondamenta stesse della civiltà in cui vive. L’abuso della custodia cautelare, la vergogna che riempie le carceri di Claudio Cerasa Il Foglio, 18 agosto 2025 Tra i tentativi di arginare il sovraffollamento degli istituti di pena, ce n’è uno, tabù per la politica, che chiama in causa i magistrati e il ricorso alla carcerazione preventiva. Un primo passo avanti nella riforma Nordio. Ma entrerà in vigore tra un anno. Il problema purtroppo è sempre quello: ma qualcuno, gli errori, in quel mondo, li paga o no? Il sovraffollamento carcerario, per fortuna, è diventato un tema trasversale con cui misurare la qualità del nostro stato di diritto, e le vergogne modello Delmastro restano grazie al cielo confinate nel perimetro ristretto della cialtroneria di stato. Per la sinistra, il sovraffollamento torna di più quando si trova all’opposizione che quando si trova al governo, e di solito la questione viene utilizzata più per attaccare i politici che governano che per difendere i detenuti che arrancano. Il punto però che ci si dimentica sistematicamente di considerare - soprattutto a sinistra - quando si parla di sovraffollamento carcerario riguarda un fatto che meriterebbe di essere valorizzato con più continuità. Un fatto che, per essere capito e affrontato, dovrebbe essere raccontato senza ideologia, ma servendoci di alcuni numeri, che riguardano anche un fatto collegato alle recenti inchieste sull’urbanistica e alle recenti scarcerazioni volute dal Tribunale del riesame, che ha mostrato le molte fragilità dell’impianto accusatorio dei pm di Milano. Avete presente le carcerazioni preventive? Avete presente le migliaia di persone cacciate in galera ogni anno senza una sentenza definitiva? Avete presente le moltitudini di persone arrestate sulla base di sospetti, e non di prove, e che regolarmente dopo qualche settimana di fogna vengono accompagnate, senza scuse, fuori di prigione, dopo una valutazione del tribunale del riesame? Ecco, ci arriviamo. Il primo dato, probabilmente lo conoscete, ed è quello offerto qualche giorno fa dall’associazione Antigone: al 30 aprile 2025, i detenuti erano 62.445, con una capienza regolamentare di 51.280 posti, pari a un tasso di affollamento ufficiale del 121,8 per cento, ma considerando circa 4.500 posti non disponibili, il tasso reale arriva almeno al 133 per cento. Di fronte a questi numeri di solito le soluzioni suggerite dalla politica sono quattro. La prima, politicamente complicata, quasi impossibile, è un’amnistia. La seconda, meno complicata ma raramente adottata, è l’indulto. La terza, saggia, è la revisione di alcune pene per reati non gravi, aumentando per esempio l’utilizzo dei domiciliari. La quarta, più estrema, è la richiesta di aumentare gli spazi per i detenuti, costruendo nuove carceri, e di solito chi scommette su questa strada lo fa anche per giustificare le proprie politiche securitarie, e d’altronde l’unico modo per essere coerenti con il populismo penale di destra, aumentare le pene per ogni reato di grande impatto sociale, è cercare nuovi modi per sbattere in galera chi sconta, oltre che le proprie colpe, i frutti della demagogia securitaria. Ma c’è una quinta strada - in teoria la più veloce, la più sicura, la più corretta - che non viene quasi mai discussa perché costituisce un tabù sia per la sinistra sia per la destra, perché contribuirebbe a ridimensionare uno strumento necessario per chiunque utilizzi la giustizia come una leva per raggiungere obiettivi politici per via giudiziaria: la carcerazione preventiva, appunto, con la quale, anche in assenza di prove, il processo mediatico può ottenere uno scalpo, trasformando i malcapitati di turno in colpevoli fino a prova contraria. Ebbene, cosa ci dicono i numeri sulla carcerazione preventiva? Ci dicono che in Italia la custodia cautelare rappresenta il 28,9 per cento dei detenuti e ci dicono che questa misura è applicata in una percentuale nettamente superiore alla media dell’Unione europea di circa il 20 per cento. In Germania è circa il 15 per cento, in Francia il 22, in Spagna il 18 per cento (dati Eurostat). A questi dati ne va aggiunto poi un altro ed è quello offerto dal ministero della Giustizia: dei 15-20 mila detenuti che si trovano in carcere senza una sentenza definitiva (oggi sono poco più di 18 mila persone), la metà vedrà la propria posizione o archiviata o oggetto di assoluzione. Ci si potrebbe chiedere chi paga quando un magistrato manda agli arresti un cittadino innocente (tra il 2017 e il 2024 sono stati 89 i procedimenti disciplinari nei confronti di magistrati per ingiusta detenzione. Di questi, nove hanno prodotto sanzioni effettive: otto censure e un trasferimento; gli altri si sono risolti con 44 “non doversi procedere” e 28 assoluzioni). Ma la domanda è più generale e riguarda una battaglia che dovrebbe essere patrimonio di tutti, specie di chi si sente lontano dal perimetro della cialtroneria giudiziaria: ci vuole così tanto a capire che intervenire sugli abusi della carcerazione preventiva non è solo un modo per togliere cartucce al cannone del circo mediatico, non è solo un modo per far spendere meno lo stato per i risarcimenti per ingiusta custodia cautelare (dal 1992 a oggi, sono stati spesi 648 milioni di euro, di cui 42 milioni solo nell’ultimo anno considerato, per risarcimenti dovuti a ingiuste detenzioni), ma è anche un modo per ridurre il dramma del sovraffollamento carcerario? La maggioranza, con un primo pezzo della riforma Nordio, ha approvato un disegno di legge che introduce una novità, per innalzare le garanzie a tutela dell’indagato: l’ordinanza che applica la custodia cautelare in carcere durante le indagini preliminari deve essere adottata da un collegio di tre giudici, anziché da un giudice monocratico. L’entrata in vigore è prevista per agosto 2026, e se la collegialità fosse già stata introdotta probabilmente gli indagati di Milano, incarcerati e poi scarcerati dal Riesame, non sarebbero mai stati incarcerati. Si tratta di un piccolo sasso nello stagno. Si tratta però di una direzione che meriterebbe di essere condivisa da tutti coloro che hanno a cuore il tema del sovraffollamento carcerario, e dunque il rispetto dello stato di diritto. Una direzione che però per essere perseguita e imboccata avrebbe bisogno di un’iniezione di coraggio trasversale, per ricordare e denunciare che il problema numero uno legato alla presenza di carceri affollate non riguarda il populismo della politica ma riguarda ancora una volta l’irresponsabilità di una magistratura libera di giocare come crede, senza pagare dazio, su una vergogna chiamata abuso della carcerazione preventiva. Ricordarselo, prima del prossimo appello per i diritti nelle carceri. La precarietà dell’azione giudiziaria e il nulla a cui è condannato un carcerato di Goffredo Bettini Il Foglio, 18 agosto 2025 Nei giorni a cavallo di Ferragosto migliaia di detenuti sono rimasti nelle loro celle, mentre fuori le persone, chi più e chi meno, godevano i loro scampoli vacanzieri. Ultimamente, Gianni Alemanno ha denunciato la condizione penosa della vita dietro le sbarre. Non conta nulla per me cosa pensi di politica Alemanno. Non mi condiziona che sia stato un mio avversario (leale), né mi pesano le sue gesta giovanili di stampo fascista. Su tale argomento mi interessa solo la sua persona. E mi interessano tutte le altre persone che partecipano al suo attuale destino. Mi domando: cosa ci può essere di più terribile del “congelamento” del vivere? Noi, “liberi” ci muoviamo nel mondo costruito secondo le nostre esigenze. Abbiamo dato un nome alle cose, trasformato l’ambiente naturale in un luogo abitabile, sfruttabile, godibile. Viviamo dentro questa rappresentazione da noi stessi pensata e organizzata: sperando di realizzare ed esprimere nella misura più grande le facoltà che, misteriosamente, ci sono state donate. Quando varchi la soglia della prigione, tutto scompare all’improvviso. Spazi, tempi, comportamenti, la propria intimità, diventano “casacca” di una identità spogliata. Del prima e del dopo flebili tracce. Paghi la colpa diventando transitoriamente un “niente”. Non è già questo abbastanza? Lo stato, esercitando la forza che abbiamo ad esso concessa (per non sbranarci come animali selvatici), sentenzia l’espulsione dalla vita, per un tempo più o meno lungo, a seconda della gravità di ciò che si è commesso. Ma allora cos’è il di più di sofferenza che viene inflitta per le condizioni miserabili nel luogo in cui si è costretti ad abitare? Il sovraffollamento, il caldo insopportabile, le mura sporche e scorticate, i servizi igienici arrangiati, le prepotenze gratuite e invitabili. Sembra non bastare ridurre il condannato a una vita nuda. Occorre arrecare un surplus di sofferenza. Perché? E’ l’animo umano che sempre approfitta di un potere non frenato da un altro potere. Montesquieu ricordava quanto l’esercizio della giustizia sia sempre terribile. Dove c’è squilibrio e chi sta sotto non ha diritto di replica, quando c’è una debolezza necessariamente muta, la forza perde misura e chi la detiene placa l’ansia per la sua finitezza e per il suo essere votato alla morte, con il potere di “decidere” a suo piacimento su un altro essere umano. È l’euforia nel percepirsi anche per un solo momento quasi divino e dunque immortale. In verità, mai come ora l’insieme della società è segnata dalle diseguaglianze, dal malessere, dalla fatica fisica e psichica, dalla velocità che spezza le vite. Ma questa sofferenza diffusa, molecolare, attraversata individualmente, da molto tempo ha perso il suo peso specifico. È entrata nell’ombra dell’assuefazione e non è in grado di mettersi in scena. Lo sviluppo della nostra società valorizza la salute fisica, il benessere, il sogno dei consumi e le speranze di un guadagno tutto sommato facile, le buone notizie e il buon umore. Solo nei luoghi riparati all’occhio della maggioranza e dell’opinione pubblica, si può scaricare, accumulare, mostrare la sofferenza, fino all’orrore. Nei luoghi dimenticati, di scarto, separati, esclusi. Quelli dove vige il comando unilaterale, la solitudine e l’indifesa pazienza di chi subisce. Quelli del disagio mentale, dei ricoveri per anziani, dei bambini abbandonati e con vite in bilico, degli immigrati. O delle case dalle persiane chiuse, a nascondere le violenze subite dalle donne in tante famiglie. C’è una volenterosa umanità che si impegna per alleviare dovunque la pena di tali vite. Ma lavora controcorrente: per questo incapace di rompere lo scorrere del dolore. Il luogo che riassume tutti questi luoghi è proprio il carcere. Ecco perché: l’azione giudiziaria dovrebbe essere molto più consapevole della sua precarietà; del suo carattere relativo; diverso da paese a paese; dell’inevitabile approssimatività nella definizione del giudizio; dell’influenza che subisce per il cangiante animo di chi la gestisce; dell’impotenza nell’arrivare alla maggior parte dei crimini o dei delitti, che rimangono grandissimamente impuniti; della riflessione che, in fondo, coloro che stanno di fronte a un tribunale sono la minoranza degli sfortunati, rispetto a chi ha avuto buona sorte di non essere perseguito. La cattiva coscienza dei benpensanti si scarica sull’inevitabilità delle zone franche dove vive, secondo loro, “l’eccezione”. Così, il condannato diventa sempre un mostro. E la guerra si giustifica trasformando il nemico nel “male assoluto”. Indimenticabile la scena finale del film “Monsieur Verdoux” di Charlie Chaplin quando domanda, andando al patibolo, perché la sua colpa che lo condanna a morire fosse più grave di quelle commesse da quelli che avevano deciso la sua condanna a morte. Quelli che consideravano normale sganciare bombe, commettere stragi, dichiarare guerre di sterminio. Voltaire ebbe a dire che la civiltà di un paese si misura dalle condizioni delle sue carceri. Questi principi di civiltà paiono eclissarsi con la fine di ogni valore, se non quello del denaro e del consumo. Il nichilismo, annichilisce, appunto, ogni pietà. Invertire la rotta è un lavoro politico ma anche di attraversamento delle condizioni di sofferenza ritenute marginali, ma in realtà capaci di chiamare in causa la logica dell’intera società. Ripartire da questi luoghi, dal basso, può contribuire a rimettere insieme un mosaico universale di solidarietà, di uguaglianza e di fraternità. La strage silenziosa che interroga la coscienza civile di Irina Smirnova farodiroma.it, 18 agosto 2025 Il giorno di Ferragosto, per molti occasione di festa e di riposo, si è trasformato ancora una volta in un giorno di dolore e morte dietro le sbarre delle carceri italiane. Tre episodi drammatici - un suicidio a Benevento, un decesso “per cause da accertare” a Civitavecchia e un tentato suicidio a Roma, nel carcere di Regina Coeli, dove un detenuto è stato trovato impiccato ma ancora vivo e trasportato in condizioni critiche in ospedale - hanno riportato con forza l’attenzione su un’emergenza che non può più essere ignorata. “Purtroppo anche il giorno di festa appena trascorso è stato un giorno di morte nelle carceri italiane” denuncia Paolo Ciani, segretario di Demos eletto con il Pd alla Camera dei Deputati. “A Regina Coeli da giorni si sono superate le 1.100 presenze, con un sovraffollamento quasi del 200% e una grave carenza di personale di polizia penitenziaria. In carcere si soffre e si muore, non si può continuare a fare finta di niente! Pensiamo insieme a un provvedimento deflattivo. L’anno del Giubileo della Speranza avanza: mettiamo in pratica l’appello che Papa Francesco ha lanciato nella Bolla di indizione e ha visivamente mostrato nell’apertura della Porta Santa a Rebibbia”. Le parole di Ciani toccano un nodo centrale: la distanza abissale tra la Costituzione, che all’articolo 27 stabilisce che le pene devono tendere alla rieducazione e non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, e la realtà quotidiana delle carceri italiane. Sovraffollamento, suicidi, abbandono sanitario e psicologico trasformano le strutture penitenziarie in luoghi di sofferenza e morte, dove la dignità umana è calpestata ogni giorno. L’appello a un “provvedimento deflattivo” non è una fuga dalle responsabilità ma un atto di realismo: senza misure concrete per ridurre il numero dei detenuti - attraverso pene alternative, riforme delle misure cautelari e maggiore ricorso alla giustizia riparativa - nessuna politica di riforma potrà mai incidere. Il Giubileo della Speranza, evocato da Ciani, può diventare un’occasione storica per ridare senso e valore umano al sistema penitenziario, trasformando gli istituti in luoghi di riscatto e non di disperazione. Le morti di Ferragosto, come quelle che si susseguono con impressionante regolarità, non sono inevitabili: sono il frutto di una scelta politica e sociale, della rinuncia a vedere nei detenuti persone con diritti inviolabili e non solo numeri da contenere. Come ricorda lo stesso Ciani: “Ogni giorno negli istituti penitenziari italiani si viola l’articolo 27 della Costituzione. Non possiamo dare per scontato che sofferenza e morte siano normali in una parte del nostro Paese”. Se davvero l’Italia vuole essere all’altezza della sua Carta costituzionale e del messaggio universale della dignità umana, è tempo di ascoltare queste parole e agire. Prima che la prossima morte annunciata torni a sporcare di sangue le mura di un carcere. Il ministro Nordio e i suicidi in carcere, ovvero la colpa è sempre di qualcun altro di Lorenza Ghidini radiopopolare.it, 18 agosto 2025 “Non c’è correlazione tra sovraffollamento e suicidi”, dice Nordio. “La colpa del suicidio del minorenne a Treviso è di chi lo ha fatto arrivare in Italia”: l’intervista del Ministro Nordio al Messaggero grida letteralmente vendetta. Sono passati solo pochi giorni dal commento agghiacciante ai numeri dei suicidi in carcere (“nessun allarme, siamo sotto la media”), che di nuovo il Guardasigilli interviene, stavolta commentando la vicenda di Treviso. Un diciassettenne tunisino, arrivato in Italia da solo, si è impiccato in cella, ma la sua è solo una delle storie che si sono consumate nei penitenziari italiani attorno a Ferragosto. Un suicidio anche a Benevento, un tentativo a Torino e un altro a Regina Coeli, in poche ore. “Non c’è correlazione tra sovraffollamento e suicidi”, dice oggi Nordio. Ma non è così, e crediamo che lui da magistrato lo sappia benissimo. Se è vero, come ci spiegano da sempre gli amici di Antigone, che ogni dramma fa storia a sé, è altrettanto vero che sovraffollamento vuol dire condizioni più dure di vita, meno attenzione e meno cura del disagio, condizioni che possono portare alla convinzione di non farcela più. Insiste il Ministro, con discreto cinismo: “Se una persona intende suicidarsi, in carcere o fuori, non c’è modo di impedirlo”. Ok, ma perché in carcere il tasso di suicidi è 25 volte superiore a fuori? Ricordiamo peraltro a Nordio che le persone detenute sono temporaneamente sotto la custodia e dunque la responsabilità dello Stato, ed è lo Stato che deve farsi carico delle loro condizioni di salute, fisica e psichica. Leggiamo anche nell’intervista: “La colpa del suicidio del minorenne a Treviso è di chi lo ha fatto arrivare in Italia”. Colpisce subito la disumanità di una simile affermazione, basta pensare a un ragazzino senza i genitori su un barcone in mezzo al mare, ma indigna soprattutto il fatto che sono le leggi volute dalla Destra, come la Bossi-Fini, che da decenni impediscono di regolare con saggezza l’inevitabile flusso di migranti da guerre e povertà verso i paesi europei. Per non parlare dei tagli al sistema di accoglienza che, per quanto precario, potrebbe comunque farsi carico di minori soli a rischio delinquenza. Infine il Guardasigilli ammette che il sovraffollamento delle carceri è un problema, ma dice che il Governo sta cercando di risolverlo. E qui viene il dubbio che ci prenda in giro, dato che il Governo Meloni ha introdotto parecchi nuovi reati e ha alzato le pene per altri già esistenti, ottenendo quindi di stipare nelle patrie galere un numero sempre più alto di detenuti. Una grottesca, drammatica e dolorosa presa in giro. Allarme detenuti fragili. Uno su tre ha dipendenze e problemi psichici di Irne Famà La Stampa, 18 agosto 2025 La droga inabissa nella disperazione e la malattia della mente rende ostaggio dei demoni. Ombre della dipendenza, dei problemi psichici che in carcere si moltiplicano. Sono circa 20mila i detenuti che soffrono di dipendenze da cocaina, eroina, medicinali usati per stordirsi e dimenticare. Sono 19.021 uomini e 734 donne, quasi il 32% del totale della popolazione carceraria. E poi ci sono i minori. Oltre 1.200 i ragazzi entrati negli istituti penitenziari per reati di spaccio o detenzione di droga. Hanno perlopiù tra i sedici e i diciassette anni. “Molti di loro - spiegano gli esperti - dalla droga sono anche assuefatti”. E la dipendenza spesso amplia problemi psichici che non vengono dichiarati. “Non c’è una ricerca scientifica che possa definire con precisione quante sono le persone in carcere con problemi psichiatrici”, dice chi lavora nei penitenziari. Il carcere non è posto per tossicodipendenti e malati psichici. Lo affermano in tanti. Compreso il Guardasigilli Carlo Nordio: “La parola chiave è recupero. Devono essere inseriti in strutture certificate e credibili, in comunità”. E ancora. “Sono detenuti che hanno commesso reati minori che hanno una relazione con la condizione di tossicodipendenza o alcol dipendenza: scippi, furti, piccole rapine, violazioni di domicilio”. Ma i centri sono pochi e con posti limitati. E sì, gli psicologi, psichiatri, educatori sono presenti, ma il numero non è sufficiente. E dal ministero della Giustizia spiegano di aver stanziato, attraverso la Cassa delle Ammende, “5 milioni e mezzo di euro per aumentare gli interventi degli esperti psicologi negli istituti penitenziari” e 800 mila euro per rafforzare la presenza di mediatori culturali. “Ci troviamo di fronte a problematiche che possiamo definire croniche e che da tempo affliggono il sistema carcerario italiano, come ad esempio quello della carenza di personale”, spiega l’avvocata Irma Conti, Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Che coordina un gruppo di lavoro di “massimi esperti”, istituito presso l’autorità, per “affrontare proprio le situazioni di disagio nelle carceri”. Adolescenti e adulti fragili che dietro le sbarre diventano ancora più deboli. E lo raccontano i dati sui suicidi e gli atti di autolesionismo. Cinquantatré le persone che si sono tolte la vita in cella da inizio anno: cinque nei primi cinque giorni di detenzione, otto dopo circa un mese. Dieci detenuti, poi, il suicidio l’avevano già tentato. Erano sotto sorveglianza. Detenuti “fragili”, senza una casa stabile, senza affetti, senza lavoro, senza istruzione. Tutti aspetti, si legge nel report del garante dei detenuti, che “accentuano sentimenti di solitudine, abbandono e disperazione”. La droga, la fragilità della mente, fanno il resto. Faro sui numerosi eventi di autolesionismo. “Sono espressione di un disagio e dimostrano come sia necessario incentivare l’offerta trattamentale e sanitaria, migliorare le condizioni generali, incrementare la capacità di intercettare le situazioni critiche. È. necessario inoltre ripensare la fase di accoglienza e potenziare le relazioni di ascolto”, sottolinea la garante nazionale dei detenuti. Al 31 luglio 2025 sono stati 7.486 i detenuti che si sono feriti con lamette realizzate con oggetti di fortuna. Di questi il 9,3% è avvenuto nel carcere San Vittore di Milano, tra i penitenziari più sovraffollati d’Italia. Problemi che si intrecciano. E la garante sottolinea il divario di assistenza sanitaria carceraria tra Regioni e l’importanza di “un audit sanitario negli istituti con maggiore mortalità, revisione dei protocolli per le persone detenute, prossime al fine pena, soprattutto se con problemi di salute, potenziamento dell’assistenza medica per le fasce d’età a rischio”. E ancora. “Ampliamento delle misure alternative per i detenuti con gravi patologie, maggiori investimenti nelle strutture sanitarie penitenziarie e nelle risorse dell’amministrazione peni, formazione specializzata per il personale”. Questioni di numeri. Di investimenti. Ma soprattutto di umanità. Colpito col taser a Olbia, muore in ambulanza: aperta un’inchiesta di Romina Marceca La Repubblica, 18 agosto 2025 Il fratello: “Voglio la verità”. I dardi del taser lo hanno colpito in pieno, lui si è accasciato a terra e pochi minuti dopo è morto. Il cuore di Giampaolo Demartis, 57 anni, ha smesso di battere dentro un’ambulanza a Olbia mentre i soccorritori cercavano di rianimarlo. Il taser è stato utilizzato dai carabinieri nella sera di sabato scorso. La ricostruzione fornita dai militari è quella che si basa sul fatto che Giampaolo Demartis fosse fuori di sé e stesse aggredendo i passanti seminando il panico in una via nella periferia della città. L’impiego della pistola a impulsi elettrici è stata decisa dopo che la vittima ha sferrato un pugno a un carabiniere provocando diverse ferite. La procura di Tempio Pausania, coordinata da Gregorio Capasso, ha aperto un fascicolo per omicidio colposo e ha disposto l’autopsia che sarà fissata nei prossimi giorni. Le indagini sono state affidate alla polizia. Mentre il fratello di Giampaolo Demartis chiede “tutta la verità su cosa è accaduto” e se era necessario sparare col taser. Una decisione che, secondo il sindacato indipendente dei carabinieri, è stata presa con “professionalità e attenendosi alle procedure operative previste in occasione di un intervento nei confronti di soggetti che versano in grave stato di alterazione psicofisica”. Secondo i carabinieri, infatti, Giampaolo Demartis avrebbe avuto un atteggiamento alterato o da alcol o da droghe. Il fratello, che abita poco distante da via Barcellona, dove è accaduto tutto, è stato chiamato da una vicina quando già Giampaolo Demartis era dentro l’ambulanza tra la vita e la morte. All’avvocato Mauro Manca, che ha assistito la vittima negli anni scorsi per un precedente per droga, il fratello ha riferito che “non mi hanno fatto vedere Giampaolo e qualcuno mi ha detto che aveva una ferita al volto. Voglio capire cosa è successo”. Demartis, che abitava a casa del fratello, assumeva dei farmaci legati a alcune insufficienze. Gli accertamenti medici chiariranno se quelle patologie siano state determinanti per l’arresto cardiaco. Titolare di un negozio di alimentari, Giampaolo Demartis mesi fa era stato scarcerato dai domiciliari per spaccio e aveva chiesto l’affidamento in prova. “Cercheremo i testimoni di quanto accaduto. Ci chiediamo se c’è stata una colluttazione prima dell’uso del taser - aggiunge l’avvocato Mauro Manca che adesso, con molta probabilità, verrà nominato legale in questa vicenda - e ascolteremo la vicina che ha chiamato il fratello di Giampaolo. Lui adesso è sotto shock”. Quella di Giampaolo Demartis non è la prima morte causata dopo l’impiego del taser, l’ultima risale al giugno scorso a Pescara. In quel caso, è stato accertato dall’autopsia, che Riccardo Zappone, 30 anni, è morto per l’emorragia causata da una rissa precedente all’intervento della polizia. Altri due casi si sono verificati nel 2024 e nel 2023 a Bolzano e a Chieti. E anche per questi episodi non c’è stato un collegamento diretto per la morte all’uso della pistola elettrica. L’arma - introdotta come dotazione per le forze dell’ordine nel 2022 dopo una travagliata sperimentazione - viene utilizzata rispettando precisi protocolli e al termine di un apposito periodo di addestramento per agenti e militari. La Garante dei detenuti: “Ancora una morte con i taser, sono strumenti di tortura” di Andrea Busia L’Unione Sarda, 18 agosto 2025 Scontro sui taser tra Irene Testa, garante sarda dei detenuti, e Dario Giagoni, parlamentare della Lega, dopo il caso del 57enne morto ieri a Olbia. Irene Testa non usa mezzi termini: “Ancora una morte con il taser. Non è la prima volta che accade. Prima di lui pochi mesi fa un ragazzo di 30 anni. Uso di scariche elettriche per contenere il disagio, provocando effetti fisici e psichici devastanti. A volte la morte. Si può ancora consentire l’uso di strumenti di tortura legalizzata?”, scrive la garante sul suo profilo Facebook. “Il taser - prosegue Testa rispondendo ai commenti di alcuni follower che difendono i carabinieri - è uno strumento pericoloso e andrebbe vietato”. Sono “le statistiche che confermano l’alto rischio di arresto cardiaco, convulsioni, perdita del controllo muscolare, dolori atroci. Non possiamo utilizzare le scariche elettriche per sedare chi ha un disagio psichiatrico”. “Affermazioni vergognose” quelle della garante, secondo Dario Giagoni, parlamentare sardo della Lega, per cui è “inaccettabile” definire il taser (voluto proprio da Salvini) come strumento di tortura. “Le forze dell’ordine - argomenta Giagoni che in attesa degli accertamenti degli investigatori fa comunque le sue condoglianze alla famiglia della vittima - lo impiegano solo quando necessario, per proteggere vite e prevenire reati. L’uso responsabile del taser è stato utile in molte situazioni per immobilizzare persone in stato di alterazione che rischiavano di essere pericolose per la comunità, non va demonizzato ma contestualizzato. Sarebbe vergognoso privare le forze dell’ordine di uno strumento che non ha lo scopo di uccidere ma solo di immobilizzare chi delinque”. Quanto all’episodio di Olbia, va ricordato che “un carabiniere è stato ferito e civili sono stati aggrediti”. E che “dinnanzi a delle aggressioni purtroppo non si possono usare le belle parole radical chic”. Il parlamentare si dice “assolutamente certo che i carabinieri abbiano agito nel pieno rispetto della legge per tutelare sicurezza e legalità”. Morto a Pescara, l’autopsia: “Il taser non c’entra, ucciso da emorragia interna. È stato picchiato” di Giuliano Foschini La Repubblica, 18 agosto 2025 Non è stato il taser. Ma un’emorragia interna dovuta a un trauma toracico a uccidere Riccardo Zappone, il 30enne di Pescara morto il 3 giugno scorso in commissariato dopo essere stato arrestato dalla Polizia. Dunque il ragazzo - “una vittima in condizione di particolare vulnerabilità” dice la procura di Pescara, perché invalido psichico - è morto a causa delle botte ricevute. Al momento ci sono tre indagati: sono uomini con cui avrebbe Riccardo avrebbe fatto una rissa, tanto poi che è stato lui stesso a chiamare la Polizia. Ma la procura verificherà anche le modalità di intervento degli agenti che hanno utilizzato il taser per immobilizzarlo. I fascicoli sono due. Uno, contro ignoti, per omicidio colposo come conseguenza di altro reato. E un altro lesioni aggravate. In questo sono indagate i tre uomini che hanno partecipato alla rissa. “Zappone” si legge nell’avviso di garanzia, “poco prima del malore che ne ha causato il decesso, è stato percosso con violenza anche tramite un bastone di legno, sino a subire ferite”. “Io dormo tranquillo, non ho colpito nessuno” ha detto però Angelo de Luca, uno degli indagati, al Centro. De Luca ha una carrozzeria dove si è presentato Zappone. E ha partecipata alla rissa. “È entrato nell’officina, era agitato. Gli ho detto di andarsene, lui urlava, l’ho cacciato. Poi ha fatto come per aggredire delle signore che erano con il carrello del supermercato. E l’ho spinto. E lui è caduto”. Dai racconti, Riccardo non era un ragazzo violento. Era seguito dai servizi sociali e dalla famiglia. Che, oggi, difesa dall’avvocato Emiliano Palucci, chiede giustizia. “Io ho rispetto per chi farà le indagini. Ma dobbiamo avere rispetto anche per i ragazzi e le ragazze come Riccardo”, dice sua madre, Tiziana, a Repubblica. “Dobbiamo conoscere e rispettare le neo diversità, come quella di Riccardo. Dobbiamo sapere che non tutti siamo uguali, che ci sono fragilità, emozioni, sensibilità diverse. Tutti però abbiamo diritto a vivere. Ed essere il più felici possibili. Riccardo non doveva morire. Non così”. Lino Aldrovandi: “Chi uccise Federico è tornato in divisa. Vent’anni dopo la rabbia non passa” di Franco Giubilei La Stampa, 18 agosto 2025 Il padre del giovane massacrato dalla polizia a Bologna: “All’inizio avevo fiducia nelle istituzioni”. “Federico quel pomeriggio ha portato fuori il suo cagnolino, ricordo che aveva le cuffiette per la musica: è uscito fischiettando, poi è tornato a casa e dopo è uscito di nuovo per andare a giocare a calcio. La sera gli amici sono venuti a prenderlo in macchina per andare a un concerto a Bologna: è stata l’ultima volta che l’ho visto”. Il 24 settembre di vent’anni fa era un sabato e Lino Aldrovandi non poteva immaginare che di lì a poche ore la vita di suo figlio Federico sarebbe stata spezzata dalla violenza di quattro poliziotti, condannati in via definitiva nel 2012 a tre anni e sei mesi per omicidio colposo con eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi. Tradotto: due manganelli rotti a furia di botte e soffocamento del ragazzo, appena diciottenne, dopo che gli agenti gli erano montati sulla schiena, schiacciandolo ammanettato contro l’asfalto. La sentenza definitiva però è arrivata dopo che, nei mesi successivi alla tragedia, questura e procura di Ferrara avevano opposto silenzi sempre più imbarazzati e versioni sempre meno credibili ai genitori che cercavano disperatamente di vederci chiaro. Signor Aldrovandi, lei all’epoca era ispettore di polizia municipale, come ha saputo della morte di suo figlio? “Alle cinque e mezza di domenica mattina ho visto il suo letto intatto e ho cominciato a preoccuparmi: quando faceva così tardi avvertiva sempre mia moglie, così l’ho svegliata, ma lei non aveva avuto nessun messaggio. Ho cominciato a chiamare il suo cellulare e non rispondeva, così ho telefonato agli ospedali, ma senza risultato. Allora ho chiamato polizia e carabinieri qui a Ferrara e mi sono sentito rispondere “vi faremo sapere”. La disperazione intanto aumentava”. E poi? “Alle undici ho visto arrivare a casa un’auto della polizia, scende Nicola, un mio caro amico della Digos, con una faccia… mi ha guardato scuotendo la testa, faticava a trattenere l’emozione. Gli ho detto “è morto?” e lui ha annuito. Sono entrato in un mondo quasi da impazzire, come se mi fosse venuto addosso un treno. Ho chiesto che cosa fosse successo, mi hanno detto che aveva dato di matto, che urlava, che aveva avuto una colluttazione con degli agenti. Per il riconoscimento mi dissero che ci voleva una persona forte, andò mio fratello, che poi mi disse che Federico era in condizioni orribili. L’ho visto ricomposto, sulla fronte aveva stampato un cilindro, come di manganello”. La versione ufficiale qual era? “Che si era sentito male, ma addosso aveva 54 lesioni, la distruzione dello scroto, e la procura sosteneva che aveva fatto tutto da solo, che era un drogato. Poi la perizia stabilì che invece per le sue condizioni avrebbe potuto guidare una macchina”. Come avete reagito lei e sua moglie, Patrizia Moretti? “All’inizio avevamo fiducia nelle istituzioni, anche se tante cose non tornavano, ma a gennaio 2006 ancora non succedeva niente. Oltre al dolore immenso avevamo la sensazione di essere stati lasciati soli. Allora abbiamo aperto un blog su internet, uno dei primi, con la foto di Federico, raccontando la sua storia. Hanno cominciato a interessarsi i giornalisti, Chi l’ha visto, anche per chiamare a raccolta i testimoni. Alla fine è emerso che quello che ci avevano raccontato era tutto falso”. Pensa sia stata fatta giustizia con le condanne ai quattro agenti? “Quanto meno non sono state sentenze miti, ma grazie all’indulto hanno fatto solo sei mesi: Pollastri e Forlani in carcere a Ferrara, Segatto e Pantani ai domiciliari. Poi tutti e quattro sono stati reintegrati in servizio, con incarichi amministrativi, ma io credo che siano di nuovo in giro, in altre città. Quando il procuratore generale della Cassazione li definì “quattro schegge impazzite in preda al delirio” ho pensato che fosse giustissimo e un genitore si dice “benissimo, gli daranno l’ergastolo”, contando che il portare una divisa, secondo me, è un’aggravante. E invece la divisa gliel’hanno ridata…”. Li ha mai incontrati? “Luca Pollastri, che un testimone ha detto di aver visto mentre tempestava di calci Federico, mi è capitato di vederlo andando a fare la spesa. Come mi sento? Si metta nei miei panni: ho fatto anche quel lavoro. Ho giurato fedeltà, nonostante siano passati vent’anni la rabbia è sempre grande”. Questa vicenda ha avuto conseguenze sulla sua vita familiare? “Ha creato una voragine fra me e mia moglie, ora siamo divorziati. Forse è stato il dolore, dolore contro dolore ha finito per acuirlo. Avrei continuato, ma le persone vanno rispettate, ora vivo nella mia solitudine. L’altro nostro figlio, Stefano, a 14 anni (ne ha 4 meno di Federico, ndr) è dovuto diventare uomo: ha studiato, si è laureato e oggi lavora”. La morte di suo figlio è servita a qualcosa? “Temo di no, anzi, ho la vaga sensazione che la situazione sia peggiorata e che, anche con la nuova legge sulle manifestazioni, sia data mano libera alla polizia. Se ricapitasse oggi non so come andrebbe, vedendo come funziona noto che è sempre più difficile, anche perché la giustizia ha costi legali pesanti che un poveraccio non potrebbe permettersi”. Liberazione anticipata negata per cellulare in cella di Carmine Paul Alexander Tedesco lexced.com, 18 agosto 2025 La Corte di Cassazione ha confermato il diniego della liberazione anticipata a un detenuto nella cui cella è stato trovato un cellulare. La Corte ha ritenuto che la connivenza in una grave violazione delle regole carcerarie dimostri la mancata partecipazione all’opera di rieducazione, requisito fondamentale per il beneficio. La concessione della liberazione anticipata rappresenta un traguardo fondamentale nel percorso di reinserimento sociale di un detenuto. Tuttavia, non è un diritto automatico, ma un beneficio subordinato a una condizione precisa: la prova di un’effettiva partecipazione all’opera di rieducazione. Una recente sentenza della Corte di Cassazione (Sentenza n. 12669/2019) ha chiarito come anche una semplice connivenza in una violazione delle regole interne, come la presenza di un cellulare in cella, possa compromettere tale valutazione. Un detenuto si è visto respingere la richiesta di liberazione anticipata dal Magistrato di Sorveglianza, decisione poi confermata dal Tribunale di Sorveglianza. La causa del diniego era il ritrovamento di un telefono cellulare all’interno della cella che condivideva con altri reclusi, avvenuto proprio durante il semestre di osservazione. L’interessato ha presentato ricorso in Cassazione, sostenendo di essere stato trasferito da poco in quella cella, di non conoscere bene i suoi compagni e di aver avuto timore a denunciare il fatto. Inoltre, ha evidenziato una presunta disparità di trattamento, affermando che gli altri detenuti della stessa cella, pur sanzionati, avrebbero poi ottenuto il beneficio per lo stesso periodo. Il nodo centrale della questione non è la mera buona condotta, che rappresenta la normalità della vita carceraria, ma qualcosa di più profondo. Per ottenere la liberazione anticipata, la legge richiede una “prova di partecipazione all’opera di rieducazione”. Questo concetto, come ribadito dalla Corte, implica un’adesione pronta, attiva e consapevole alle regole che disciplinano la vita detentiva e ai percorsi trattamentali offerti. Si tratta di un percorso attivo di cambiamento, non di una passiva assenza di infrazioni. Secondo i giudici, il ritrovamento del cellulare in un ambiente condiviso come la cella comporta una “connivenza rispetto ad un grave comportamento di violazione”. Questo atteggiamento omissivo e tollerante viene letto come un chiaro segnale di mancata adesione al percorso rieducativo. Essere a conoscenza di una grave infrazione e non fare nulla per dissociarsene o segnalarla dimostra un’assenza di quella partecipazione attiva che la norma intende premiare. La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, confermando la decisione dei giudici di merito. Le argomentazioni della Corte si fondano su principi giuridici consolidati. Innanzitutto, la valutazione sulla meritevolezza del beneficio è rimessa al giudice del merito, il quale ha correttamente interpretato la connivenza come un elemento sintomatico dell’assenza di un’effettiva partecipazione rieducativa. Il ricorso in Cassazione non può trasformarsi in un terzo grado di giudizio sui fatti, ma deve limitarsi a verificare la presenza di vizi logici o giuridici, che in questo caso sono stati esclusi. In secondo luogo, la Corte ha sottolineato come le argomentazioni difensive fossero generiche e non autosufficienti. La presunta disparità di trattamento rispetto ai compagni di cella non era supportata da alcuna documentazione, violando il principio di autosufficienza del ricorso, secondo cui l’atto di impugnazione deve contenere tutti gli elementi necessari per essere valutato, senza che il giudice debba ricercarli altrove. La sentenza ribadisce un principio fondamentale: la liberazione anticipata non è una ricompensa per la sola assenza di note di demerito. È l’incentivo per un percorso attivo di cambiamento e di adesione alle regole. La tolleranza verso gravi infrazioni, come il possesso di un cellulare in carcere, è considerata incompatibile con questo percorso. Anche senza una prova diretta del possesso o dell’utilizzo del dispositivo, la semplice connivenza è sufficiente a dimostrare una mancata partecipazione all’opera di rieducazione, precludendo così l’accesso al beneficio. Condannato per tentato omicidio resta in carcere nonostante la grave malattia di Umberto Maiorca perugiatoday.it, 18 agosto 2025 L’uomo, dopo la condanna per aver tentato di uccidere due giudici del Tribunale di Perugia, si era visto revocare le misure alternative dopo aver saltato delle sedute con lo psichiatra. La Corte di Cassazione ha confermato il rigetto delle richieste di misure alternative alla detenzione per un 58enne spoletino, condannato per duplice tentato omicidio nel 2017 allorquando aveva aggredito due giudici del Tribunale penale di Perugia, nonostante l’aggravarsi delle sue condizioni di salute. I giudici della Prima Sezione Penale hanno stabilito che le cure carcerarie sono adeguate e che permangono profili di pericolosità sociale, dopo la revoca nel 2023 di una precedente detenzione domiciliare per minacce a un operatore sanitario. L’uomo, già beneficiario di detenzione domiciliare nel 2022 per motivi di salute, aveva visto revocare la misura dopo episodi violenti. Nel febbraio 2025, il Tribunale di Sorveglianza di Perugia aveva respinto le nuove richieste di affidamento in prova terapeutico per disturbi psichici, come quelle di affidamento in prova ordinario oppure della detenzione domiciliare “in deroga” per gravi motivi di salute. Il ricorso presentato dalla difesa era basato su 5 motivi, ma è stato giudicato infondato. La Suprema Corte ha evidenziato che l’affidamento in prova terapeutico non è applicabile a patologie psichiche non legate a droghe (serve invece la domiciliare “in deroga”), mentre l’affidamento ordinario era inammissibile per la revoca precedente della misura alternativa. In questo quadro, inoltre, le cure in carcere sono sufficienti, non sussistendo l’incompatibilità assoluta con la detenzione richiesta per la sospensione della pena. Per i giudici, invece, permane la pericolosità sociale, come dimostrato dalla revoca del 2023 e dalla gravità del reato. Irrilevante, invece, appare l’offerta di controllo elettronico, poiché il problema è la sicurezza collettiva. Per la Cassazione se le patologie sono incompatibili con la detenzione, allora la misura alternativa è obbligatoria, ma se invece sono gravi, per quanto non invalidanti, il giudice può valutare discrezionalmente, considerando anche il rischio di recidiva. Nel caso in questione mancano i requisiti per l’obbligatorietà e il Tribunale di Sorveglianza, secondo la Cassazione, ha correttamente considerato l’assistenza carceraria (farmaci, terapie, caregiver interno), il precedente fallimento delle misure alternative e la natura violenta del reato. Umbria. Il Garante: “Carceri al collasso, celle con 6 detenuti ed emergenza psichiatrica” perugiatoday.it, 18 agosto 2025 Il Garante regionale dei detenuti chiede la nomina del provveditore regionale e l’istituzione della Rems. Una residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), il sostegno per i detenuti psichiatrici, il sovraffollamento, le difficoltà operative della Polizia penitenziaria. Il garante per i detenuti Giuseppe Caforio ha diffuso una nota, dopo aver trascorso il giorno di Ferragosto in carcere, a Orvieto e Terni. “Il giorno di Ferragosto come tradizione lo passo in un carcere e quest’anno sono stato al carcere di Orvieto e il giorno dopo cioè ieri sono stato al carcere di Terni, entrambi le carceri oltre anche a (Spoleto e Perugia sono in una fase di implosione per il numero dei carcerati e questa è storia vecchia, ma nell’ultimo mese vi è stata una recrudescenza di trasferimenti in prevalenza dalla Toscana di detenuti psichiatrici. Solo a Terni ne sono arrivati 170 - scrive Caforio - La polizia penitenziaria con la quale mi sono intrattenuto sta facendo i salti mortali, proprio ieri a lungo mi sono confrontato con la comandante del carcere di Terni, la quale mi ha rappresentato il lungo elenco di problemi quotidiani che si stanno affrontando con l’aggravio della richiesta del provveditorato di Firenze di aumentare fino a cinque in alcuni casi anche sei, i posti letto all’interno delle celle che sono state pensate per ospitare due detenuti e attualmente sono di media in quattro”. La questione dei trasferimenti di detenuti da altre regioni in Umbria è un tema che è già stato affrontato dai sindacati della Polizia penitenziaria. “Si vogliono ancora di più aumentare la presenza di detenuti per ogni cella perché appunto continua questo flusso incessante di detenuti - scrive Caforio - Purtroppo il provveditorato in Umbria, che è stato deliberato a dicembre 2024 dal Consiglio dei Ministri, doveva partire prima a marzo, poi aprile, poi luglio, a tutt’oggi non è decollato e manca ancora la nomina del provveditore per l’Umbria che darebbe poi attuazione concreta all’avvio e che potrebbe in qualche modo contenere questi profili di problematicità delle carceri umbri. In questi ultimi giorni in Italia abbiamo assistito a molti suicidi a molti morte tra Ferragosto e il giorno dopo siamo arrivati a cinque, questo dato deve far riflettere e va fortunatamente coniugato con il dato positivo dell’Umbria, dove malgrado la tensione sia altissima non ci sono stati fatti violenti degni di nota”. Nel comunicato inviato il garante racconta del “giro effettuato nelle celle dei detenuti sono stato avvicinato da molti di loro che mi hanno rappresentato la gravità della propria situazione, evidenziando l’indifferibilità di misure urgenti sia sotto il profilo logistico, ma anche sotto il profilo sanitario - si legge - Proprio la vigilia di Ferragosto ho avuto uno scambio con la presidente Stefania Proietti con la quale stiamo immaginando interventi urgenti per rafforzare l’apparato medico sanitario delle carceri, dove, come noto, non solo vi è carenza, ma vi è proprio difficoltà nel reperire medici che diano continuità assistenziale”. Vicinanza e solidarietà “alla polizia penitenziaria, la quale merita un pubblico elogio per il lavoro che stanno svolgendo, al di sopra delle proprie forze e competenze, essendo il front office del sistema carcerario e cercando di sostituirsi a tutte quelle funzioni che oggi sono carenti, non solo quella sanitaria, ma anche quella socio assistenziale, psicologica e cercando di stabilire con i detenuti un rapporto costruttivo, non sempre facile perché non tutti i detenuti sono uguali. La Polizia penitenziaria finora sta riuscendo a contenere la grave situazione che in cui versa il sistema carcerario regionale, tappando vari buchi e sacrificando ferie e permessi, stante anche la carenza di personale” scrive Caforio. In conclusione un accenno a un tema caldo, quello delle Rems: “L’auspicio è che si nomini entro questo mese il Provveditore per l’Umbria e si intervenga con azioni concrete per lo meno per i temi più urgenti tra i quali anche la istituzione delle famose Rems che come è noto in Umbria mancano - conclude Caforio - La sindaca di Perugia Vittoria Ferdinandi in più occasioni mi ha manifestato la volontà di contribuire a risolvere il problema anche con la realizzazione di una Rems nel territorio comunale, laddove possibile. È un buon inizio ma adesso occorre correre per dare concretezza a questa esigenza indifferibile”. Puglia. “Dal Governo azione intempestiva e intanto nelle carceri si continua a morire” di Maria Teresa Caputo altalex.com, 18 agosto 2025 Intervista al dott. Piero Rossi, Garante per la Puglia delle persone private della libertà personale: “Ancora una volta il Governo ha dimostrato di dar vita a delle azioni intempestive nel senso che questa è una politica di annuncismo. Si sposta l’orizzonte sempre in avanti senza trovare una soluzione ma semplicemente prevedendo una pianificazione per un risultato che potrà arrivare tra due o tre anni. C’è una Commissione di costruzione carceraria che continua a non dare risultati. Per risolvere il problema del sovraffollamento, si pensò prima alle caserme poi ai container, che non sono mai arrivati. Si continuano a fare riunioni ma non si comprende quale sia il dies a quo, quando cioè avranno avvio le prospettate misure e il dies a quem, quando cioè arriveranno i risultati. Non si sa niente e, nel frattempo, la gente continua a morire in carcere”. Dott. Rossi, cosa ne pensa delle misure approvate in questi giorni dal Governo? “Siamo consapevoli che non c’è un rapporto diretto tra detenzione e suicidi ma, in tutti i casi, c’è una stretta correlazione. Il Governo parla di un carcere che va bene così e al quale occorre apportare solo dei correttivi ma, in realtà, il carcere non va bene così e la migliore delle soluzioni sarebbe quella di evitare l’ulteriore ingresso in carcere ove evitabile. Si consideri che stanno proliferando nuovi reati per i quali la risposta è il carcere. Inoltre, occorre far uscire immediatamente tutti quei detenuti la cui rimessione in libertà non rappresenta un pericolo sociale perché hanno scontato gran parte della pena e perché magari hanno commesso reati minori. Sono questi i casi in cui dovrebbero intraprendersi percorsi differenti come ad esempio interpellare il Servizio Sanitario nazionale, in presenza di riscontrati problemi psicologici che possono poi sfociare in problemi psichiatrici”. Ritiene pertanto che il Governo abbia una visione carcerocentrica? “Sembra che il Governo giri intorno ad un tema fortemente ideologizzato restando il carcere centrale nella sua prospettiva e che tutto il resto debba essere piegato funzionalmente a sostenere tale idea inscalfibile. Eppure, i suicidi in carcere sono un fatto eclatante, mostruoso, che deve indurre ad intervenire tempestivamente. Non possiamo permetterci il lusso di aspettare grandi manovre; occorre intervenire subito, anche correndo dei rischi. Rinchiudere in carcere i detenuti con l’idea di buttare la chiave non va bene perché non si può pensare di essere giustizialisti a tutti i costi ritenendo che la priorità debba essere quella di salvare l’onore, mantenendo la promessa di assicurare il carcere, nell’ottica di una maggiore sicurezza anche perché il sovraffollamento delle carceri significa invece minore sicurezza. Non si tratta solo di una questione di comfort abitativo ma anche di minore sicurezza sia per prevenire rivolte, sia per la salute perché se un detenuto sta male il personale penitenziario che risulta essere insufficiente non fa in tempo neanche ad aprire la cella per prestare il primo soccorso. Il sovraffollamento, inoltre, comporta anche la difficoltà per l’equipe di osservare tutti i detenuti per poi consegnare alla magistratura di sorveglianza le osservazioni e questa a sua volta non fa in tempo a gestire le pratiche perché magari nel frattempo i detenuti sono usciti scontando interamente la pena”. Ritiene che sia corretto considerare i detenuti tossicodipendenti come persone da curare piuttosto che come criminali da punire? “Siamo tutti d’accordo sul dover considerare i detenuti tossicodipendenti persone da curare. Il problema è la realizzabilità in concreto della misura prospettata dal Governo perché, come più volte chiarito dalla Corte dei Conti, occorrerebbe, prima di dar vita ad iniziative di tale natura, disporre delle risorse finanziarie e stringere accordi con le strutture che dovranno accogliere i predetti detenuti. Il problema della fuoriuscita dei tossicodipendenti dal sistema penitenziario è cosa ben diversa dal prevenire l’ingresso nel circuito penale in quanto non tutte le comunità terapeutiche sono pronte ed attrezzate a dar vita ad alleanze terapeutiche con persone che, in realtà, non vi aderiscono spontaneamente ma per motivi utilitaristici. Ne consegue che non tutte le comunità aderiranno. A tanto si aggiunga che occorrerà verificare che vi siano posti disponibili e non dimentichiamo che sarà necessario stabilire un rapporto contrattuale con i gestori di tali strutture. Un ulteriore problema, legato alla annunciata detenzione differenziata, concerne la condizione imprescindibile per potervi accedere e cioè la correlazione tra la tossicodipendenza e il reato commesso. Sorgeranno inevitabilmente contrasti interpretativi in merito a quali reati potranno dirsi correlati e questo potrebbe indurre a sollevare eccezioni di incostituzionalità”. In merito alla liberazione anticipata, come si pone questa in relazione alla comminata condanna? “Liberazione anticipata non significa delegittimare i giudici che li hanno condannati. Il processo ha un inizio, prosegue con i tre gradi di giudizio e, nel giudizio di esecuzione, quando la clessidra si rovescia, si inizia a verificare, dopo che si è fatto di tutto per metterli dentro, quali sono le questioni possibili e attivabili in termini di benefici per farli uscire. Liberazione anticipata non significa tradire il pensiero costituzionale per il quale chi commette un reato deve scontare la pena ma significa che tutto quello che ha a che fare con il processo d’esecuzione è strutturale rispetto alla certezza della pena e che alla comminazione di quest’ultima deve seguire un lento e progressivo reinserimento in società del detenuto attraverso anche sistemi premiali”. Qual è la situazione negli Istituti penitenziari della Puglia? “In Puglia si riscontra la percentuale più elevata d’Italia e d’Europa in termine di sovraffollamento. Servono più agenti. Anche se negli anni ci sono stati ingressi di nuovi agenti grazie a concorsi, il numero di questi continua ad essere insufficiente e non soltanto per fronteggiare eventi critici ma anche per assicurare i diritti dei detenuti quali il diritto allo studio o alla salute. Non dimentichiamo infatti che l’agente di polizia penitenziaria da solo è già un presidio trattamentale in grado di prevenire i sucidi e contenere eventi critici di varia natura”. Brescia. “Cimici nei letti, fino a 12 persone in una stanza, il carcere Nerio Fischione va chiuso” di Manuel Colosio Corriere della Sera, 18 agosto 2025 L’europarlamentare Ilaria Salis il 17 agosto ha effettuato una visita a sorpresa nella casa di reclusione del centro cittadino constatandone la situazione drammatica: 370 detenuti a fronte di una capienza massima di 170. Verso le 12 Salis è entrata nella struttura di Canton Mombello, dove all’interno ad oggi ci sono oltre 370 detenuti rispetto ad una capienza regolamentare di 170, con un tasso di sovraffollamento di questo carcere che quindi va ben oltre il 200%, ponendo in cima alle classifiche nazionali. Con questa visita ha potuto testimoniare le condizioni impossibili nei quali sono costretti i detenuti: “Problemi sanitari con cimici nei letti, letti a castello di tre piani con stanze dove risiedono anche 9-12 persone, bagni con docce improvvisate e l’impossibilità di svolgere attività lavorativa con continuità” spiega Salis, sostenendo che “questo carcere non può essere ristrutturato, ma andrebbe chiuso”. Durante gli incontri realizzati con i detenuti visitando tre delle otto sezioni detentive, tra le quali quello dove lo scorso 5 agosto un uomo ha tentato il suicidio ed è poi deceduto in ospedale, Salis ha potuto raccogliere testimonianze della difficile situazione e amplificare la richiesta disperata di chi vive all’interno di denunciare la situazione drammatica alla quale è costretto. Come soluzioni alternative l’eurodeputata di Avs chiede, oltre ad un provvedimento di amnistia o indulto da parte del governo “che invece continua ad incrementare reati e pene e ipotizzare di costruire nuove carceri aggiuntive”, anche quella di pensare ad “un provvedimento che promuova una liberazione anticipata per i detenuti che si ritrovano a fine pena o per quelli condannati per reati minori”. Salis sarà anche ospite questa sera ad un dibattito sul tema della “deriva autoritaria dello Stato tra repressione del dissenso e attacco alle lotte sociali” alla Festa di Radio Onda d’Urto in via Serenissima. Vigevano (Pv). Il carcere avrà la sezione 41 bis, sette educatori rimangono senza lavoro di Selvaggia Bovani La Provincia Pavese, 18 agosto 2025 Con l’apertura della sezione 41bis in carcere, a pagare il prezzo più alto in termini di posti di lavoro saranno gli educatori. La sezione femminile di massima sicurezza, che ha 88 detenute, con la prossima settimana scomparirà del tutto. La conferma arriva dagli addetti ai lavori: “Una sezione del femminile è già vuota - riferiscono - mentre le detenute dell’altra verranno trasferite tutte la settimana prossima”. All’interno della sezione di Alta sicurezza venivano svolte attività utili per il reinserimento sociale tramite una cooperativa sociale, cosa che tra una settimana non si farà più. E che non sarà mai più prevista per la sezione del 41bis, o “carcere duro”, dove i detenuti passano circa 21 o 22 ore al giorno nella loro cella singola. Un altro importante tassello è stato il teatro partecipato, che ora, non avendo più la sezione femminile, verrà drasticamente ridotto. La scelta del carcere di Vigevano pare sia scaturita dopo una visita del Gruppo operativo mobile (Gom), ovvero la polizia penitenziaria addetta solo alla sezione 41bis. L’esito di quella visita è stato che la casa di reclusione dei Piccolini aveva tutte le caratteristiche per essere riconvertita in un carcere di massima sicurezza, alias 41bis. Passando alle guardie carcerarie, alle e agli agenti di polizia penitenziaria già trasferiti o in via di trasferimento - riferiscono sempre gli addetti ai lavori - è stato chiesto il luogo in cui preferivano essere trasferiti. Altra questione è l’impiego delle forze dell’ordine in caso di trasferte di un detenuto sottoposto al regime del 41bis, come le visite presso l’ospedale: in questo caso “non sarà previsto il coinvolgimento di polizia di Stato, carabinieri o vigili urbani - precisano gli addetti ai lavori -, saranno sempre gli agenti penitenziari a occuparsene”. Ricadute sul territorio? Anche in questo caso gli addetti ai lavori si dicono molto scettici. “Con le moderne tecnologie - proseguono gli esperti - i detenuti del 41bis contattano la famiglia attraverso le videochiamate. L’unica ricaduta, forse, riguarda gli avvocati, che sono diversi sia per provenienza sia per tipologia di procedimento”. Sarà più ridotto il numero dei detenuti. “I detenuti “comuni” - concludono gli addetti - sono due per cella, nel 41bis invece ogni detenuto ha una cella singola, perché anche il bagno è all’interno della cella. Quindi stiamo parlando della metà dei detenuti rispetto ad ora”. Tolte le 88 detenute e con l’arrivo di reclusi in regime di 41bis, verrà a mancare una fetta di lavoro importante per i 7 educatori attualmente in servizio. Verona. L’opera dei volontari al Servizio Guardaroba del carcere non si arresta nel periodo estivo di Rosaria Giovannone* Ristretti Orizzonti, 18 agosto 2025 È una mattina d’agosto. L’aria è ferma, il sole picchia sulle strade semideserte. In molti sono in vacanza, ma dietro le mura della Casa Circondariale di Montorio c’è un’attività che non conosce pausa: il servizio del Guardaroba. I volontari del Consiglio Centrale di Verona della Società di San Vincenzo De Paoli si muovono tra scatoloni di vestiti: piegano magliette, controllano taglie, scelgono scarpe. Ogni pacco porta un nome, un volto, una richiesta precisa. Da vent’anni, ogni mercoledì, i volontari consegnano capi di abbigliamento ai detenuti più bisognosi di Montorio. Nei mesi estivi, quando molte realtà sospendono le proprie attività, loro continuano con la stessa determinazione garantendo il servizio ogni due settimane. I detenuti segnalano agli agenti i capi di cui hanno bisogno, i volontari li preparano con cura. È un filo invisibile che attraversa le sbarre, fatto di attenzione, rispetto e ascolto. “Relazionarsi con un detenuto non è semplice - afferma Franca Erlo, Presidente del Consiglio Centrale di Verona -. I nostri volontari riescono a vedere la persona andando oltre il suo reato. È una forma di servizio e di carità che richiede rispetto, pazienza e la capacità di entrare in contatto con fragilità profonde, spesso segnate dall’isolamento e dalla lontananza dagli affetti. Non ci si improvvisa: serve ascolto vero e un cuore disposto a restare vicino anche nelle situazioni più difficili”. Settimanalmente un gruppo di volontari mette a disposizione tempo ed energie per restituire dignità attraverso un gesto semplice ma prezioso. “Sono stata tra le prime volontarie del servizio del Guardaroba del Consiglio Centrale di Verona della Società di San Vincenzo De Paoli nella casa circondariale di Montorio - racconta Francesca -. Negli anni abbiamo raccolto abiti usati, li abbiamo sistemati e, quando necessario, abbiamo acquistato capi nuovi. Ci siamo potuti così accostare alla vita dei più fragili e mostrare la nostra attenzione attraverso piccoli gesti”. Fiorenza, oggi 82 anni, ha abbracciato il volontariato tanti anni fa e guarda con gratitudine al cammino percorso: “Il nostro servizio nel Guardaroba è stato ed è un piccolo ingranaggio di una macchina molto più grande e complessa che richiede impegno attraverso un’opera che è piena di vita. Una vita spesa per contribuire a dare all’altro ciò che serve” e aggiunge: “Nella semplicità di questo gesto c’è un valore che va oltre l’abito: c’è l’incontro con l’altro e il desiderio che nessuno si senta dimenticato”. È proprio questa attenzione che spinge i volontari a non fermarsi nemmeno d’estate, mantenendo vivo dentro le mura di Montorio un flusso silenzioso di solidarietà. Un filo di umanità che accompagna chi ha bisogno di sostegno, cura e dignità. La Società di San Vincenzo De Paoli è da sempre impegnata nell’assistenza ai bisognosi, ai malati, agli anziani e anche ai carcerati. Fondando la propria azione sul principio della vicinanza concreta a chi vive in difficoltà, offre un esempio tangibile di come la carità possa trasformarsi in attenzione quotidiana e in un gesto concreto di umanità. Il lavoro dei volontari a Montorio ne è una dimostrazione viva e costante. Nel 2024, la Casa Circondariale di Montorio è stata anche sede della XVII Edizione del Premio Carlo Castelli, concorso letterario nazionale organizzato e promosso dal Settore Carcere e Devianza della Federazione Nazionale Italiana Società di San Vincenzo De Paoli ODV, che ogni anno dà voce ai detenuti di tutta Italia, offrendo loro la possibilità di esprimersi e raccontarsi attraverso la scrittura. * Ufficio Stampa Federazione Nazionale Società di San Vincenzo De Paoli ODV I bambini e le vite rubate dalla guerra di Concita De Gregorio La Repubblica, 18 agosto 2025 Dall’Ucraina a Gaza giovani da uccidere, affamare o riassegnare ai vincitori. Il Novecento trascorso invano. Non dovevo avere molto più di tre anni quando ho imparato che a tre anni i bambini sfortunati vengono portati via dalle loro mamme perché ormai sono grandi, e che dunque io ero molto fortunata, ero grande e non dovevo piangere per delle sciocchezze. Non dovevo fare capricci tipo non mangiare quella certa pietanza molle e scura perché gli altri, i bambini sfortunati, mangiavano qualsiasi cosa, vivevano in un posto dove non conoscevano nessuno ma proprio nessuno, le persone si rivolgevano a loro in una lingua che non capivano e la loro mamma non l’avrebbero rivista più. Quindi io, fortunatissima, dovevo mangiare la cosa molle e basta. Faceva paura, ma non tanto, il racconto della nonna. Più paura facevano certe fiabe, certe filastrocche da cortile ma soprattutto le ninne nanne, quelle dove la mamma ti lascia alla fontana della piazza perché non la fai dormire la notte, perché con te non può andare dall’uomo che ama, quelle dove viene la vecchia del villaggio a portarti via o, ho imparato più tardi in una meno definitiva versione italiana, passa l’uomo nero che ti tiene un anno intero. Un anno, in fondo, che sarà mai. La storia dei bambini che a tre anni diventano grandi e le guardie li portano via era una storia vera e si capiva, si sentiva nel modo in cui i bimbi capiscono e sentono la differenza tra una favola e la vita. Da qualche parte nella pancia, si sa che è diverso. È un fatto della vita, funziona così. Difatti la signora Rosa del quinto piano ogni tanto veniva la sera e la raccontava uguale, quella storia, che era successa a lei. A volte le scendevano le lacrime sulle guance ma non piangeva davvero, cioè non faceva rumore: solo, mentre parlava - normalmente, sottovoce per non disturbare - le si bagnava il viso. Sono cose che possono succedere. Le avevano portato via la bimba quando era in prigione (ma perché la signora Rosa era in prigione? Cosa aveva fatto? Niente, niente. Lei niente, suo fratello semmai) e forse la bimba era in Francia o in Russia, diceva. Io dove fosse la Russia, il senso che aveva in quel tempo “essere in Russia”, non lo sapevo. La signora Rosa voleva andare a cercarla, sua figlia, ma non sapeva dove andare e più che altro non aveva i soldi. Come la cerchi, una figlia in Russia. Ci ripensavo l’altro giorno, alla signora Rosa che di certo è morta da molti anni ma sua figlia, forse sua figlia è viva ed è nonna di nipoti russi. Ci ripensavo perché qui, dalla finestra, si vede il balconcino della casa dove viveva (ci sono tre maglie da calcio stese, oggi) e perché nella canicola di un tardo Ferragosto la sola notizia di un certo rilievo, nella farsa di quel vertice, mi è sembrata la lettera di Melania Trump a Putin. Che non è andata, ma l’ha data al marito che almeno come portalettere magari serve, speriamo gliel’abbia consegnata, dicono di sì: c’è scritto presidente, liberi i bambini ucraini detenuti in Russia. Forse Unione Sovietica, avrà scritto, comunque: la Russia di nuovo. Non l’ho letta, ovviamente, ma le sintesi dei giornali dicono che parlava di questo, dei bambini “portati al sicuro” dalle milizie di Putin. Rubati, come la figlia della signora Rosa. (Durante la dittatura di Franco, in Spagna, si stima che trentamila bambini siano stati sottratti alle famiglie e alle madri: detenute, condannate a morte. Per reati di dissidenza politica commessi in proprio o dai loro parenti. I bambini potevano stare in carcere con le madri fino al compimento del terzo anno di età, poi venivano assegnati. Dai militari, dalle associazioni franchiste). Ho pensato vedi però, Melania. Sarà per via dell’origine baltica, tu te ne puoi andare dalla Slovenia ma la Slovenia non se ne va mai da te. Le origini, le storie familiari, i dolori, le ninne nanne che anche lei avrà sentito, chissà se ci sono streghe o uomini neri anche lì. Comunque. I bambini bottino di guerra. I bambini da riassegnare ai vincitori, da far crescere nelle “famiglie giuste”. I bambini offerti su un catalogo: tre anni, biondo, occhi azzurri, docile. Il cardinale Matteo Zuppi era stato mandato da papa Francesco proprio a discutere di questo in Russia: la riconsegna dei bambini. E poi: l’altro giorno ha letto i nomi, dodicimila, di tutti i bambini morti fra Gaza e Israele. Tutti e tutti insieme. La prevalenza a Gaza, bisogna dire: l’immensa prevalenza. Nomi, cognomi, età. Ciascuno di loro era un figlio, un fratello. Provate a immaginare solo per un momento che il vostro/nostro adorato bambino sia colpito da un proiettile, da una bomba che ci vede benissimo, mentre va a fare una commissione tipo scendi a prendere l’acqua, vai ma torna subito a casa. Mentre vi cerca, per strada, o vi aspetta. Non c’è una parola, nelle lingue occidentali, per indicare chi è orfano di figli. Non c’è. Esiste in sanscrito, in ebraico, in arabo. Ma nelle lingue occidentali moderne l’abbiamo cancellata dal vocabolario. È troppo. È troppo per dirlo ma succede: alla signora Rosa allora, oggi alle famiglie ucraine, alle famiglie della Striscia proprio ora. Bambini da uccidere, affamare, o da riassegnare a famiglie che li crescano nel disprezzo di chi li ha generati. Il Novecento trascorso invano. Molti anni dopo aver visto piangere senza rumore la signora Rosa, da adulta, ho vissuto in Argentina e ho partecipato, con le Madri e le Nonne di Plaza de Mayo, alla ricerca dei loro figli e nipoti. Allora stesso modo, di nuovo. Sottratti alle madri incarcerate - si attendeva la nascita, per ucciderle - e riassegnati. In qualche caso i nipoti ritrovati non hanno voluto tornare. Ricordo la storia di due gemelli, ormai adulti: hanno detto no, restiamo dove siamo. Avevano timore, credo anche tra i molti, di deludere chi li aveva cresciuti. “Siamo stati felici”, hanno detto. Il mondo cambia a partire da questo. Si ridisegna. Cosa succede dopo, nei decenni, ai bambini rubati. A migliaia, nelle guerre di occupazione e di sterminio. Restano le madri che muoiono sole, come Rosa. Restano i figli adulti, che sono chi vogliono essere. A volte cercano la loro storia, a volte no. A volte vogliono sapere chi sono veramente, a volte si ribellano e vivono nella lotta, respirano rancore. A volte, trenta o quaranta anni dopo, coltivano i fiori del giardino degli aguzzini di chi li ha generati. Altre volte tornano e combattono perché non accada più. Ma torna ad accadere, invece: accade sempre. E poi guarda che inganno, nella canzone della sera. L’uomo nero che ti tiene un anno intero è sempre un uomo bianco, in verità. Israele. Un milione di persone scendono in piazza per chiedere la fine della guerra di Fabio Tonacci La Repubblica, 18 agosto 2025 Sciopero generale contro il governo Netanyahu: “Fate tornare gli ostaggi a casa”. Cortei in altre città, 39 arresti. Bibi e i ministri estremisti: “Così rafforzate Hamas”. Se lo si conta, il numero è quello della rivolta di popolo. Un milione di israeliani su un totale di dieci è sceso per strada contro il governo e contro l’intenzione dichiarata di proseguire la guerra occupando l’intera Striscia di Gaza. Solo a Tel Aviv, secondo gli organizzatori, si sono radunati in 500 mila nella cosiddetta “piazza degli ostaggi” davanti al Museo d’Arte. Qualcuno addirittura, con stima assai generosa, parla di 2,5 milioni di adesioni. Se lo si pesa, però, si fa fatica a credere che questo secondo sciopero generale a conflitto in corso - il primo è stato nel settembre 2024 dopo il rinvenimento a Gaza dei cadaveri di sei ostaggi - sovvertirà davvero il corso dei piani di Netanyahu. La protesta generale che doveva bloccare Israele, e che un po’ lo ha bloccato senza però arrivare a paralizzarlo come speravano gli animatori del Consiglio di Ottobre (famiglie degli ostaggi e delle vittime del terrorismo), è cominciata alle 6.29 di domenica mattina, allo stesso orario dell’avvio del pogrom del 7 Ottobre. I manifestanti chiedono a Netanyahu il ritorno a casa dei 50 rapiti (20 dei quali ancora vivi), quindi un accordo con Hamas e la fine del conflitto che sta spaccando la società israeliana, perché sempre più riservisti non vogliono tornare in servizio, sempre più soldati si rifiutano di combattere a Gaza dove tutto è già stato annientato da 22 mesi di bombe, sempre più israeliani vedono allungarsi lo spettro della crisi economica causata dall’onerosa macchina bellica. In mattinata copertoni dati alle fiamme e sit-in hanno interrotto l’autostrada uno, l’arteria principale che collega Tel Aviv a Gerusalemme. Nelle stesse ore, i cortei fermavano il traffico ad Ayalon e Petah Tikva, a Haifa la municipalità sfilava in solidarietà con gli ostaggi, degli attivisti seduti sull’asfalto venivano presi a cannonate d’acqua dalla polizia in un tunnel lungo la Route 16 fuori da Gerusalemme e un camionista, sempre a Tel Aviv, si faceva largo tra la folla ferendo gente arrivata dal kibbutz di Nir Oz. Trentanove gli arresti. “La libertà di protesta e di espressione non significa essere liberi di appiccare incendi o impedire i movimenti”, si legge nel comunicato della polizia. Lo sciopero è continuato per tutta la giornata, dimostrazioni anche davanti alle residenze di alcuni ministri. “Non vinceremo la guerra sul corpo degli ostaggi”, gridavano i manifestanti. “Non può essere solo un giorno di sciopero, dobbiamo farne altri”, invitava l’ex rapita Arbel Yehoud. La principale federazione sindacale israeliana, l’Histadrut, non ha aderito ma ha lasciato libertà di scelta. A Tel Aviv si sono visti serrande abbassate e negozi chiusi (non molti). Il presidente Isaac Herzog è comparso nella piazza degli ostaggi, gremita fin dalle prime ore, rivolgendosi alle famiglie di chi, dopo 681 giorni, è ancora nelle mani di Hamas. “L’intero popolo vuole la loro liberazione, voglio dire agli ostaggi ancora nei tunnel che non li dimentichiamo. Mi rivolgo ai media internazionali e ai decisori politici: smettetela di essere un branco di ipocriti. Dite a Hamas: niente accordo, niente di niente, finché non li libererete”. Netanyahu in visita all’insediamento di Ofra in Cisgiordania, ha condannato lo sciopero. “Chi oggi chiede una fine della guerra senza la sconfitta di Hamas, rinforza Hamas e rallenta il rilascio degli ostaggi”, ha detto, posizionandosi sulla linea dei suoi ministri più estremisti, Ben-Gvir e Smotrich. Bastava pronunciare i loro nomi nella stracolma piazza di Tel Aviv per generare un’ondata di fischi. “Bring them home”, lo slogan più letto sui cartelli, ma anche “End this fucking war” e “Seal the big deal”: finitela con la guerra e siglate l’accordo. Perché - è l’opinione diffusa - “combattere a Gaza non ha più senso, occupare la Striscia è follia”. Sventolavano le bandiere gialle simbolo degli ostaggi (molte), le bandiere di Israele (moltissime) e anche quelle della pace (poche). Le strade attorno alla piazza erano intasate di gente. “Siamo più numerosi delle altre volte”, osservava entusiasta il 42 enne Daniel Iasri, uno dei tanti nella folla. In tarda serata, un gruppo di manifestanti si è spostato verso la vicina sede del Likud, il partito di Netanyahu, dove ha acceso un falò e si è scontrato violentemente con la polizia. Israele. “Ho pagato con il carcere l’aver rifiutato la leva. Ora non sono più solo” di Gabriella Colarusso La Repubblica, 18 agosto 2025 “È in atto un genocidio e la gente inizia a pensare che non dovrebbe far parte dell’Idf: fa l’opposto di ciò in cui crede”, spiega Itamar Greenberg subito dopo essere stato rilasciato dalla polizia. Itamar Greenberg risponde al telefono che è appena stato rilasciato dalla polizia ad Haifa. Sarà la quarta o quinta volta che lo fermano, questa è perché partecipava a un sit-in di solidarietà con Yona Roseman, 18 anni, che ha presentato formalmente il suo rifiuto di arruolarsi nell’esercito israeliano. Yona andrà in prigione, come chiunque diserti in Israele, e come è successo a Itamar, il pioniere dei refusenik israeliani. Un anno fa, 18 enne anche lui, ha deciso di ribellarsi alla leva: è stato condannato cinque volte e in totale ha passato 197 giorni nella prigione militare di Neve Tzedek. Cos’è successo ad Haifa? “Mi hanno fermato insieme a un’altra decina di ragazzi. Era una manifestazione in solidarietà con Yona Roseman che ha rifiutato l’ordine di leva e ora è in prigione. Questa è la nostra lotta”. Perché ha scelto di rifiutare l’obbligo di leva? “Non voglio far parte di un sistema responsabile di genocidio a Gaza, di apartheid in Cisgiordania. E l’unica alternativa era andare in prigione”. Pensa che Israele stia commettendo un genocidio? “La terminologia non è la cosa più importante, ma credo di sì. Israele sta commettendo un genocidio contro il popolo palestinese non solo a Gaza ma anche con i coloni e il loro tentativo di pulizia etnica in Cisgiordania”. Come sono stati i suoi 197 giorni in prigione? “È stata un’esperienza forte e molto difficile, vivere nella stessa cella con persone che non ti piacciono a causa delle loro idee politiche. Dopo un po’ però ho sviluppato legami con alcuni di loro”. La consideravano un “traditore”? “Certo, e per qualche giorno sono stato anche in cella di isolamento a causa dei rischi per la mia vita”. Migliaia di persone protestano contro le decisioni del governo Netanyahu. È un no alla guerra o la priorità sono gli ostaggi? “La gente comincia a pensare che forse non dovrebbe far parte di un esercito che sta facendo l’opposto di ciò in cui crede. E per un Paese come Israele, in cui le persone ascoltano sempre e tutto ciò che dice l’esercito, è un fatto straordinario. Ora iniziano a pensare ai bambini uccisi. Anche se la maggioranza non manifesta in difesa dei palestinesi, ma perché considera la guerra un male per gli israeliani, per me è comunque un bene che lo facciano. Sono felice che stiano protestando. Anche noi vogliamo riportare indietro gli ostaggi”. Perché ci è voluto così tanto tempo perché le persone scendessero in piazza? “È molto difficile se sei israeliano vedere la fame dei palestinesi, e farci i conti. Viviamo nella propaganda. A volte è più facile che qualcuno diventi un attivista per i diritti degli animali prima che lo diventi per i diritti dei palestinesi”. La sua famiglia cosa dice? “Vengo da una famiglia haredi, ultraortodossa, conservatrice. Non gli piace quello che faccio, mi arrestano di continuo. E mio padre è un ufficiale dell’esercito. È complicato. Ma io vado avanti”. State pianificando nuove proteste nei prossimi giorni? “Sì, faremo altre marce verso Gaza. Ci abbiamo già provato, partendo da Sderot, ma la polizia ci aspettava e ci ha fermato. Ci riproveremo, non pubblicamente, così ci vorrà più tempo prima che ci prendano”. Arabia Saudita. Difensore dei diritti umani ancora in carcere due anni dopo la fine della pena di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 18 agosto 2025 Al-Bejadi continua a marcire nella prigione di Buraydah, spesso in cella d’isolamento, senza alcun altro contatto col mondo esterno. Un gruppo di organizzazioni per i diritti umani ha sollecitato le autorità saudite a rimettere in libertà Mohammed al-Bejadi, un difensore dei diritti umani ancora in carcere nonostante la sua condanna sia terminata oltre due anni fa. Al-Bejadi, membro fondatore nel 2009 della principale organizzazione per i diritti umani - l’Associazione saudita per i diritti civili e politici (Acpra), messa al bando oltre 10 anni fa - è stato tre volte in carcere per il suo attivismo in favore dei diritti umani. La prima volta dal settembre 2007 al gennaio 2008, la seconda dal marzo 2011 all’aprile 2016. L’ultimo arresto è avvenuto il 24 maggio 2018. Condanna a 10 anni, di cui cinque con la sospensione. Quindi, fine pena nell’aprile 2023. Ma al-Bejadi continua a marcire nella prigione di Buraydah, spesso in cella d’isolamento, senza poter incontrare un avvocato e senza alcun altro contatto col mondo esterno. Non si tratta di un caso isolato, come hanno fatto notare Amnesty International e Mary Lawlor, relatrice speciale delle Nazioni Unite sulle persone che difendono i diritti umani: altre due di loro, Mohammed al-Qahtani - a sua volta membro dell’Acpra - ed Essa al-Nukheifi, sono rimaste in prigione per due anni dopo la fine della condanna ma almeno, nel gennaio di quest’anno, sono state scarcerate. È persino successo che, come accade anche in Egitto, con l’approssimarsi della scadenza della condanna, alcuni prigionieri siano stati sottoposti a un nuovo processo con conseguenti ulteriori di carcere da scontare. L’elenco dei difensori e delle difensore dei diritti umani in carcere è lungo e le condanne da scontare, indicate tra parentesi, sono pesanti: Issa al-Hamid (altro esponente dell’Acpra, nove anni), Mohammed al-Otaibi (17 anni), Waleed Abu al-Khair (15 anni), Khaled al-Omair (nove anni), Israaa al-Ghomgham (13 anni), Abdulrahman al-Sadhan (20 anni), Manahel al-Otaibi (11 anni), Nourah al-Qahtani (35 anni), Osama Khalid (32 anni), Mohammed al-Hazzaa al-Ghamdi (23 anni) e Mohammed al-Habib (12 anni). Altri due difensori dei diritti umani, Salman al-Odah e Hassan Fahran al-Maliki, sono sotto processo e le udienze continuano a essere rinviate. “Non ho un parente in carcere ma qui non si tratta di difendere solo le nostre famiglie, ma l’intero nostro paese e tutte le persone che sono oppresse. La mia famiglia sono tutti i prigionieri di coscienza”. Questa frase, pronunciata da al-Bejadi durante la protesta del 2011 che gli costò la seconda condanna, spiega cosa vuol dire essere un difensore dei diritti umani. *Portavoce di Amnesty International Italia