In carcere è già un agosto terribile di Fulvio Fulvi Avvenire, 17 agosto 2025 Con il detenuto di 53 anni che si è tolto la vita a Ferragosto nella Casa circondariale di Benevento, sono 55 i suicidi negli istituti di pena italiani dall’inizio dell’anno. Che si aggiungono ai 102 morti in cella per cause ancora da accertare. L’ultimo decesso, la cui dinamica è ancora da chiarire, avvenuto sempre nel pomeriggio di venerdì, è quello di un 55enne che scontava l’ergastolo a Civitavecchia. E poche ore dopo, a Regina Coeli, un egiziano di 19 anni, arrestato il giorno prima, ha tentato di impiccarsi, è stato salvato in extremis: le sue condizioni sono assai critiche. Nel principale carcere della capitale da giorni si sono superate le 1.100 presenze con un sovraffollamento quasi del 200% e una grave carenza di personale. Il macabro - ma necessario - conteggio serve a dimostrare che la situazione nelle carceri, sovraffollate e spesso malmesse e con personale insufficiente, non è affatto migliorata. E non è certo qualche unità in meno nel numero dei decessi rispetto all’anno precedente ad attenuare una tragedia divenuta ormai quasi quotidiana. L’intero sistema detentivo va ripensato e riformato. Finora, però, tanti annunci e zero risultati. “E a morire e soffrire, oltre ai detenuti, 62.700 stipati in 46.755 posti disponibili, vi sono anche gli operatori, in primis quelli del Corpo di polizia penitenziaria mancanti di 18mila unità rispetto al fabbisogno organico complessivo, ma addirittura di 20mila agenti nelle carceri, attesi gli esuberi negli uffici ministeriali” commenta Gennarino De Fazio, segretario generale Uilpa. Tre, da gennaio, sono stati gli agenti che si sono tolti la vita per disperazione: non tolleravano più condizioni di lavoro disumane, con doppi turni, stress continuo, niente permessi e ferie “congelate”. Sul caso del recluso di Benevento, in carcere per la prima volta (era entrato da appena quattro giorni), che si sarebbe ucciso recidendosi la giugulare (come può essere accaduto e con quale arma?), la Procura ha aperto un’inchiesta. “Il ministero della Giustizia minimizza ma questa crisi carceraria rischia di essere una strage di Stato” osserva il Garante della Campania, Samuele Ciambriello, secondo il quale è necessario “un sussulto della società civile, degli operatori della comunità penitenziaria, fatta di detenuti e detenenti”. In questi ultimi tre giorni, anche a causa del caldo asfissiante che ha invaso gli edifici carcerari, si sono moltiplicate le aggressioni e le violenze. Nel carcere di Parma, reparto isolamento, un detenuto dell’alta sicurezza ha assalito un agente con calci e pugni mandandolo all’ospedale (7 i giorni di prognosi). Nella casa circondariale di Ivrea, un detenuto ventunenne di origine egiziana è andato in escandescenze e si è scagliato contro gli addetti alla sorveglianza ferendone otto, poi ha cercato di impiccarsi in cella ma è stato fermato dal personale in servizio. Alla data del 31 luglio nelle 192 carceri italiane, sono stati 3.279 gli atti di aggressione accertati dal Garante nazionale dei detenuti, 1.355 dei quali hanno avuto come vittime agenti penitenziari. Ma anche altri numeri servono a capire come un “allarme” sia giustificato: nei primi sette mesi dell’anno sono state 680 le manifestazioni di protesta collettiva, 6736 gli atti di protesta individuale e 1123 i tentativi di suicidio da parte dei reclusi. Anche in questo caso le differenze con il recente passato sono minime e sostanzialmente insignificanti. Intanto a Ferragosto il vicepresidente del Consiglio, Matteo Salvini, si è recato in visita al carcere romano di Rebibbia “per esprimere gratitudine e sostegno agli agenti della polizia penitenziaria”. Il leader della Lega ha incontrato anche diversi detenuti tra cui l’ex sindaco di Roma, Gianni Alemanno: “l’ho trovato tonico e determinato” ha detto. “Mentre Salvini sfila a Rebibbia fingendo stupore - ha commentato Filippo Blengino, segretario di Radicali Italiani - dimentica che le sue politiche populiste e panpenalistiche hanno trasformato le carceri in discariche sociali. Nordio resta immobile mentre i detenuti muoiono: per questo lo abbiamo denunciato per istigazione e aiuto al suicidio. Servono subito provvedimenti per decongestionare le carceri, a partire dalla proposta di Roberto Giachetti: senza depenalizzazioni e alternative alla detenzione, continueremo a contare morti”. Nelle carceri è stato un Ferragosto di morte e sofferenza, sottolinea il segretario di Demos, Paolo Ciani, vicecapogruppo del Pd-Idp alla Camera: “Non si può continuare a fare finta di niente! Pensiamo insieme a un provvedimento deflattivo. Mettiamo in pratica l’appello che Papa Francesco ha lanciato nella Bolla di indizione del Giubileo della Speranza che ha visivamente mostrato nell’apertura della Porta Santa di Rebibbia”. “Ogni giorno nelle carceri - ha concluso il segretario Demos - si viola l’articolo 27 della Costituzione”. Le persone detenute non restino “sole”. La vita di chi patisce l’estate dietro le sbarre di Giovanni Sgobba La Difesa del Popolo, 17 agosto 2025 Mentre il ministro Nordio annuncia un piano per risolvere il sovraffollamento, Ornella Favero denuncia l’ennesima promessa vuota: “Due telefonate in più al mese non compensano dignità e diritti negati”. “L’estate in carcere è il contrario che in libertà: è triste, è soffocante, è angosciante. Ed è funestata dai “piani carcere”, che tornano a prenderci in giro con regolarità disarmante”. È fermo e perentorio il tono utilizzato da Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti e presidente della Conferenza nazionale volontariato giustizia, che ha commentato l’annuncio, a fine luglio, da parte del ministro della Giustizia Carlo Nordio di un piano con l’obiettivo di risolvere l’annoso e critico problema del sovraffollamento negli istituti penitenziari italiani. Il tutto, in un periodo dell’anno, quello estivo, in cui all’aumentare della temperatura si acuiscono disagio, malcontento, e per quanto possa sembrare paradossale, anche la solitudine: “Se non ci fosse stato il Covid, una disgrazia per tutti, ma non per le persone detenute, ora non esisterebbero le videochiamate, introdotte durante la pandemia e che nessuno ha avuto più il coraggio di togliere - continua Ornella Favero nel suo appello - Pareva che finalmente si fosse capito che le telefonate devono essere liberalizzate come già succede in tanti Paesi, perché sono una delle poche forme vere di prevenzione dei suicidi; rafforzare le relazioni, dilatare al massimo gli spazi per gli affetti è infatti forse l’unico modo per far sentire le persone meno sole e isolate. E invece no, troppo lusso, quello che il piano carceri “epocale” concede sono due miserevoli telefonate in più al mese, non c’è neppure il coraggio di fare una piccola riforma a costo zero come la liberalizzazione delle telefonate”. Secondo i dati raccolti dal ministero della Giustizia, a fine luglio, nella Casa di reclusione di Padova c’è un tasso di sovraffollamento del 152 per cento, con 607 persone detenute al netto di 438 posti regolamentari; situazione analoga alla Casa circondariale con un tasso di occupazione del 125 per cento (235 persone detenute a fronte di 188 posti). Un sollievo, nei giorni scorsi, per le persone detenute del Due Palazzi di Padova è arrivato da Caritas Padova e dell’Ordine degli avvocati di Padova che hanno consegnato rispettivamente 30 e 130 ventilatori, uno per camera, indipendentemente dal numero degli occupanti, un “bene” che rientra tra le spese personali delle persone detenute e che non tutte possono permettersi. Secondo Favero il piano risulta inefficace, ripetitivo e privo di reali soluzioni ai problemi strutturali del sistema penitenziario italiano. Una delle proposte, per esempio, è quella di mandare diecimila persone detenute tossicodipendenti in comunità, ma mancano posti disponibili, fondi e un albo ufficiale delle stesse comunità. “Ho preso in mano il piano del 2014, ed è praticamente una fotocopia di quello appena presentato dal governo. Che però ha in più alcune definizioni “creative”, il nulla raccontato come se potesse davvero accadere. Qualcuno poi, lo stesso ministro, ci ha detto che sarebbe un cedimento dello Stato concedere ogni anno due mesi in più di liberazione anticipata per tutte le inutili sofferenze, ristrettezze, violazioni dei diritti subite dalle persone detenute. E se la chiamassimo invece “compensazione”? Quella che l’Europa ci ha chiesto, quando ci ha suggerito che se non sappiamo garantire ai detenuti il rispetto della legge, cerchiamo almeno di dargli qualcosa che “compensi” la dignità trascurata e offesa”. Conclude Ornella Favero: “Ma come possiamo noi volontari rispondere alla “macchina da guerra” mediatica e politica che racconta che anticipare l’uscita dal carcere per persone già vicine al fine pena, di una manciata di giorni significa mettere a rischio la sicurezza del Paese?”. Marco Doglio: “Nuovi posti entro il 2027” - Il commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria, Marco Doglio, ha illustrato il piano per creare 15 mila nuovi posti in carcere entro il 2027, più altri 5 mila nel quinquennio. Attualmente i detenuti in Italia sono quasi 63 mila, a fronte di una capienza di 47 mila posti. Il piano prevede il recupero di 5 mila posti esistenti, ma attualmente non disponibili e la costruzione di nuovi edifici o ampliamenti. In realtà, a fine 2025, saranno pronti solamente 1.472 posti, rimandando al 2026 l’allentamento più massiccio della pressione. Il costo complessivo è di 758 milioni di euro: (347 milioni di euro dal ministero delle Infrastrutture, 301 dal Commissario straordinario). Nordio: “Governo sotto attacco. Le carceri sovraffollate? Non sono la causa dei suicidi” di Paolo Calia Il Messaggero, 17 agosto 2025 Sul tema giustizia il Governo è sotto attacco: “Non tanto attacchi giudiziari, ma in Parlamento”. Ne è convinto il ministro trevigiano alla Giustizia Carlo Nordio, che in questi giorni deve fare fronte alla marea montante di critiche arrivate dopo il suicidio di un 17enne all’interno dell’istituto minorile di Treviso, episodio che per Nordio “non è collegato al problema del sovraffollamento”. E ancora: “Sovraffollamento e suicidi sono due problemi gravi ma non connessi tra loro”. Il caso del suicidio in carcere a Treviso del ragazzo di 17 anni ha nuovamente acceso i riflettori su questo fenomeno: nelle carceri italiane la situazione sta peggiorando? “La situazione delle carceri italiane è quella sedimentatasi nei decenni precedenti, alla quale stiamo ponendo rimedio con grande determinazione. Ma il doloroso episodio di Treviso non è connesso al sovraffollamento del carcere o alle sue condizioni. Il ragazzo era in Cpa, ed è stato fatto tutto quanto era necessario per salvarlo. Dobbiamo piuttosto domandarci come sia possibile che un minore sia arrivato a vivere in quel modo, tra fragilità, violenza e illegalità. Chi ha fatto arrivare in Italia questi ragazzi, e comunque chi non se ne prende cura, ha secondo me l’intera responsabilità morale di queste tragedie”. Nel caso trevigiano si possono riscontrare delle lacune in chi doveva vigilare sul ragazzo? “Ho letto che la magistratura se ne sta occupando, come del resto è doveroso. Ma dai miei accertamenti risulta che l’intervento è stato tempestivo e che ogni sforzo è stato fatto per salvargli la vita. Ma mi lasci dire, a costo di esser politicamente scorretto, che se una persona intende suicidarsi, in carcere o fuori, non c’è modo di impedirlo. A Norimberga, sotto strettissima sorveglianza militare, due imputati si uccisero: Ley impiccandosi al tubo del bagno, e Goering con il veleno”. Il verificarsi dei suicidi è conseguenza del sovraffollamento? “No, sono due problemi gravi, ma non connessi. Anzi, molti tentativi di suicidio sono stati sventati proprio dai compagni di cella, che comunque esercitano una sorta di controllo. Il sovraffollamento porta all’esasperazione più che alla disperazione, e quindi alla rivolta violenta piuttosto che all’autolesionismo. Questo ovviamente non significa che il sovraffollamento non costituisca un problema, che stiamo cercando di risolvere”. Tanti suicidi sono di persone giovani spesso in attesa di giudizio... “I suicidi in carcere sono oggetto di studio in tutto il mondo, e derivano da varie componenti. Certo, molti sono giovani, ma ci sono anche anziani. Ma quello che più sconcerta è che molti si uccidono quando stanno per essere liberati. Forse è la mancanza di prospettive, la paura del domani, il disorientamento nel rientrare in un mondo nuovo. Anche su questo stiamo operando con personale specializzato, soprattutto trovando lavoro per chi in carcere ne ha appreso uno”. A Treviso il carcere minorile vive una situazione di sovraffollamento da molto tempo: a che punto è l’annunciato trasferimento dei giovani detenuti nella nuova struttura di Rovigo, più grande e attrezzata? “Posso annunciare ufficialmente che entro la fine dell’anno, anche per l’incessante lavoro del sottosegretario Andrea Ostellari, tutti i minori saranno trasferiti nel nuovo carcere di Rovigo. Pochi giorni fa, alla presenza anche del sottosegretario Andrea Del Mastro, è stato inaugurato il nuovo istituto dell’Aquila. E per fine anno sarà pronto quello di Lecce. Un lavoro imponente, che creerà 100 posti in più”. I Radicali di Venezia, dopo il caso di Treviso, hanno presentato un esposto contro di lei: come lo giudica? “Varie denunce analoghe sono già state presentate nei mesi precedenti, e sempre archiviate. Del resto, poiché il reato di istigazione al suicido è procedibile d’ufficio, le procure avrebbero dovuto inquisire tutti i ministri della Giustizia di questi ultimi anni. E aggiungo che, non avendolo fatto, secondo questa logica i vari pm potrebbero essere incolpati di omissione di atti di ufficio. Purtroppo è l’ennesimo tentativo di perseguire per via giudiziaria quegli obiettivi politici che non si raggiungono nella cabina elettorale”. Da mesi il tema giustizia tiene banco con critiche pesanti a lei e al Governo: si sente sotto attacco? “Beh, in un certo senso sì. Non tanto di attacchi giudiziari, ho troppo rispetto per la magistratura - io mi sento ancora un magistrato - per pensare che strumentalizzi inchieste a fini politici. Piuttosto penso agli attacchi in parlamento e da parte di una certa stampa che mi ha riempito di contumelie: persino ubriacone e mafioso. Roba da ridere. Comunque è tutta adrenalina, che alla mia età fa anche bene. E penso che quando andremo al referendum le nostre energie saranno vigorose”. I suicidi nelle carceri non si minimizzano di David Alleganti La Nazione, 17 agosto 2025 La tragedia delle morti in carcere arriva anche negli Istituti Penali per Minorenni. Un ragazzo di 17 anni si è suicidato, poche ore dopo il suo arresto, nell’Istituto penale minorile di Treviso. “Era stato soccorso ancora vivo e portato in ospedale dove è deceduto poche ore dopo. Si tratta di un dramma che testimonia la crisi del sistema della giustizia minorile” dice Antigone. Era dal 2003 che un ragazzo non si toglieva la vita in carcere. Un fatto tragico che arriva all’indomani delle minimizzazioni del ministro della Giustizia Carlo Nordio, impegnato in una spiacevole pratica di “contabilità mortuaria”, come dice il Garante delle persone private della libertà del Lazio Stefano Anastasia, che è “la fine di ogni politica penitenziaria”. Tutto nasce da una mala interpretazione giornalistica, si specifica dal ministero, dell’ultimo rapporto del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. “I numeri mostrano una situazione preoccupante”, scrive il Garante, visto che “294 suicidi totali in quattro anni rappresentano una media annuale di 73,5 casi. La variazione tra il minimo del 2021 (59 casi) e il picco del 2022 (84 casi) indica un incremento del 42 per cento nel giro di un anno, seguito presumibilmente da una stabilizzazione o lieve riduzione negli anni successivi. Nel 2024 i suicidi accertati dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sono 83, i decessi per cause da accertare 18”. Dal primo gennaio del 2025 al 31 luglio del 2025 ci sono stati 46 suicidi in carcere, meno dello stesso periodo dell’anno scorso. È una situazione preoccupante? Per il ministero della Giustizia, no, non lo è: “Nessun allarme suicidi come paventato dal Garante. Il dato numerico, certamente sconfortante, registrato nei primi sette mesi di questo anno è sotto la media nazionale dell’ultimo triennio”. Eppure, ribatte Anastasia, “se proprio vogliamo discutere delle morti in carcere come indicatore del (mal) funzionamento del sistema penitenziario, i dati si dovrebbero dare tutti e in maniera omogenea e confrontabile: quanti morti al 31 luglio del 2022, 2023, 2024 e 2025 nelle carceri italiane? Quanti per suicidi e quanti per ‘cause da accertare’ in ciascun anno? E quelli morti in ospedale a seguito di tentativi di suicidio, sono morti per suicidio o per ‘cause naturali’?”. La risposta in questo caso sarebbe diversa e forse di più difficile minimizzazione da parte del ministero: i morti in carcere sono 140 nei primi sette mesi dell’anno. Adesso però si aggiunge anche un morto negli istituti minorili. “Abbiamo denunciato come, a partire dal decreto legge Caivano, si sia iniziato a registrare un sovraffollamento mai esistito prima, nonché la chiusura delle carceri minorili con un approccio sempre più punitivo, al posto di quello educativo che aveva portato tutta Europa a guardare con interesse al modello della giustizia minorile italiana” dice Susanna Marietti, responsabile dell’osservatorio di Antigone: “Abbiamo raccontato di crescenti tensioni, forme di protesta che hanno interessato tutti gli istituti minorili. Abbiamo denunciato l’abuso di psicofarmaci… Non possiamo perdere ragazzi così giovani”. Il governo vada a leggersi, via Facebook, i diari dal carcere di Gianni Alemanno. Detenuti senza diritti e dignità di Stefano Vaccari huffingtonpost.it, 17 agosto 2025 Danilo Rihai, 17 anni di origini tunisine, aveva tentato il suicidio nella sua cella del carcere minorile di Treviso subito dopo l’arresto per una serie di reati, anche di grave entità, commessi in più occasioni. Avrebbe dovuto scontare le pene inflitte dai Tribunali. Chi sbaglia deve giustamente pagare ma c’è un però che quasi mai assume quel valore che è ben definito nella Costituzione italiana, all’articolo 27, allorché si stabilisce che la pena non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e deve tendere alla rieducazione del condannato. Questo principio, noto come principio rieducativo della pena, implica che il carcere non debba essere solo un luogo di afflizione, ma anche di recupero e reinserimento sociale per la persona detenuta. L’ordinamento penitenziario, nel rispetto della Costituzione, deve quindi prevedere misure e attività volte a favorire il reinserimento sociale del detenuto, garantendo al contempo la sicurezza e l’ordine all’interno degli istituti penitenziari. In questi giorni si fa un gran parlare delle lettere pubbliche che Gianni Alemanno, ex parlamentare e già ministro e sindaco di Roma, scrive dal carcere dove è detenuto per una condanna definitiva per traffico d’influenze, mettendo in rilievo le condizioni critiche di vita all’interno degli istituti penitenziari. Report dettagliati che segnalano come ai detenuti, contrariamente a quanto prevede la Costituzione, vengono calpestati quotidianamente diritti e dignità come se appartenesse allo Stato avere sentimenti vendicativi verso chi ha commesso reati anche di grave portata. Naturalmente questo vale anche per Gianni Alemanno sul quale non sta a noi esprimere giudizi sulle ragioni della sua detenzione. Sono già intervenuti i tribunali e quelle decisioni vanno rispettate. Semmai può apparire un paradosso che una denuncia così importante venga fatta anche da un uomo politico di destra, che continua ad essere di destra nel mentre quella stessa destra, al governo del Paese, non solo chiude gli occhi su una problematica così importante ma aggrava la situazione con provvedimenti che vanno in tutt’altra direzione come i decreti antirave, Caivano e Sicurezza. Logiche “manettare” e repressive fine a se stesse che producono nuovi reati e basso giustizialismo senza però affrontare i conflitti sociali nei quali l’illegalità trova linfa vitale e proseliti. Sia ben chiaro non stiamo difendendo chi commette crimini ma segnaliamo come e perché quei crimini trovano protagonisti e manovalanza. Dal degrado delle periferie al traffico delle droghe, dal gioco d’azzardo alla prostituzione, dalla povertà all’assenza di certezze lavorative. E poi l’assenza di politiche di integrazione e di reinserimento nella società dopo aver scontato una pena. E le notizie che arrivano dalle carceri aggravano la situazione con il ministro Nordio intento più a punire i giudici che a prevenire i reati. Il report semestrale dell’associazione Antigone è spietato. Al 30 giugno 2025 le persone detenute erano 62.728, in aumento di 1.248 unità rispetto all’anno precedente. A fronte di una capienza regolamentare di 51.276 posti, e con oltre 4.500 letti indisponibili, il tasso di affollamento reale si attesta al 134,3%. In ben 62 istituti il sovraffollamento supera il 150%, e in 8 casi addirittura il 190% - come a San Vittore, Foggia, Lodi e Roma Regina Coeli. Nel 35,3% degli istituti visitati da esponenti di Antigone c’erano celle in cui non erano garantiti 3mq a testa di spazio calpestabile. Il tanto decantato piano di edilizia penitenziaria prevede 7.000 nuovi posti entro fine anno, ma nell’ultimo anno ne sono stati realizzati appena 42. Di contro, i posti effettivi disponibili sono diminuiti di 394. Il nostro modello di giustizia minorile, un tempo un esempio in Europa, ha perso la sua vocazione educativa per diventare sempre più punitivo. I problemi principali sollevati sempre secondo l’associazione Antigone sono: un sovraffollamento senza precedenti; l’apertura di sezioni minorili all’interno di carceri per adulti; l’utilizzo di psicofarmaci e la permanenza dei giovani in cella per troppe ore al giorno. Nel frattempo si tagliano i fondi per fare fronte alle numerose emergenze riguardanti 190 strutture carcerarie in tutto il Paese. Il governo per il 2025 ha stanziato appena 300 milioni. E poi scorrendo l’elenco si scoprono che alcune case circondariali sono rimaste fuori dai possibili interventi. Tra queste anche il Sant’Anna di Modena. Una scelta sbagliata e pericolosa che contraddice la stessa premessa del Piano che, redatto dal Commissario straordinario sulla base dei documenti che, a fine 2024, sanciscono un sovraffollamento pari a 10.500 persone detenute, sottolinea con grande chiarezza come il sovraffollamento degli istituti di detenzione costituisce un fenomeno che contraddistingue il sistema carcerario con carattere di endemicità e non e’ stato bilanciato da un corrispondente adeguamento delle strutture, con conseguente impatto sulle condizioni di vita dei detenuti in termini di scostamento dagli standard sanciti dalla Costituzione, da alcuni trattati internazionali e dalle norme di rango primario. Il Piano dimentica Modena, nonostante i numeri di sovraffollamento denunciati più volte anche dalla Polizia Penitenziaria, che secondo le ultime rilevazioni segnalavano 586 persone detenute, mentre la capienza massima prevista è di 372. Pertanto l’amara conclusione è che nel breve-medio periodo la condizione sarà la stessa, se non peggiore, sia per le persone recluse che per il personale impiegato a vario titolo, con conseguenze che non possono che incrementare gli eventi critici legati all’espressione del disagio detentivo con tutto ciò che di negativo questo porta con sé. E poi i morti in carcere. A pubblicare i dati è il Garante nazionale che lancia un motivato allarme: 148 tra suicidi (48), morti per “cause naturali” (69), per cause da accertare (30) e per cause accidentali (1). A fronte di tutto questo il ministero della Giustizia si affretta a minimizzare, parla solo di dato sconfortante anziché affrontare con adeguate riforme la crisi cronica del sistema penitenziario. Solo così si potrà uscire dalla cronaca nera e costruire un Paese più civile. All’Onu il rapporto sul degrado negli istituti penitenziari minorili di Ilaria Beretta Avvenire, 17 agosto 2025 Le associazioni Antigone, Defence for Children e Libera raccolgono i dati sul sovraffollamento e li consegnano al Comitato sui diritti dell’infanzia. Caldo, sovraffollamento, sporcizia, pochi o inesistenti servizi educativi: la fotografia degli Istituti penitenziari minorili italiani (Ipm), un tempo invidiati al nostro Paese a livello mondiale e ora in inesorabile crisi, è uscita dai confini nostrani ed è stata inviata al Comitato delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in vista dell’esame periodico che l’organismo ha in agenda per l’Italia. A scattarla ci ha pensato una lista di associazioni di settore, tra cui Antigone, Defence for Children International e Libera che ha messo insieme un dettagliato rapporto con una situazione chiara agli addetti ai lavori e che pure stenta a risolversi. Si parte dai numeri. Secondo gli ultimi dati forniti dal ministero della Giustizia a giugno, dentro ai penitenziari minorili vivono 586 ragazzi: le presenze sono cresciute del 54% in due anni; nel 2022 infatti i minorenni e giovani adulti ristretti erano 392, un numero che rappresentava meno del 3% del totale dei giovani affidati al sistema di giustizia minorile. Su 17 Ipm nove sono oltre la capienza massima: il caso peggiore è Treviso dove i ragazzi sono il doppio del previsto ma la situazione è appena poco migliore a Milano e Cagliari dove il tasso di sovraffollamento tocca quota 150% e a Firenze dove si ferma invece al 147%. Le condizioni critiche del sovraffollamento, cui si risponde con brandine di fortuna e materassi a terra, - riporta ancora il documento inviato all’Onu - è inasprito dal fatto che il tempo trascorso in cella dai ragazzi spesso è superiore alle venti ore giornaliere perché nei penitenziari mancano attività scolastiche, formative e ricreative. Il rapporto sottolinea che il dramma riguarda soprattutto i minori stranieri non accompagnati che oggi rappresentano la metà della popolazione giovanile detenuta, molti dei quali hanno vissuto esperienze traumatiche che si traducono in difficoltà comportamentali, qui risolte esclusivamente con l’uso eccessivo di psicofarmaci. Il rapporto accende nuovamente i riflettori anche sul caso dell’anno per quanto riguarda gli Ipm: il trasferimento di una cinquantina di giovani adulti (i ragazzi tra i 18 e i 25 anni che hanno commesso il reato da minorenni e che secondo la legge dovrebbero scontare la pena in Ipm fino al compimento dei 26 anni) da vari Ipm italiani al carcere per adulti della Dozza di Bologna dove è stata predisposta un’apposita sezione minorile. Una violazione, secondo le associazioni, dei principi internazionali che impongono una netta separazione tra giustizia minorile e ordinaria e che “dimostra un totale disprezzo per il percorso riabilitativo del giovane”. Si registra infine nel testo un aumento delle proteste negli Ipm, dopo l’introduzione del reato di rivolta carceraria previsto dal recente decreto sicurezza e che prevede otto anni di pena anche per chi oppone resistenza passiva nei penitenziari minorili con il rischio - scrivono gli autori del report - “di seppellire i giovani detenuti sotto cumuli di anni di carcere aggiuntivi”. Le oltre cento organizzazioni e personalità che sostengono il documento chiedono dunque l’abolizione del Decreto Caivano, che nel 2023 ha inasprito le pene per la criminalità minorile e che è considerato da molti la causa del fallimento dei percorsi di giustizia under 25, la chiusura della sezione minorile della Dozza e un ritorno a un sistema educativo con la possibilità per i minori detenuti di frequentare scuole esterne, percorsi individualizzati e l’assunzione di mediatori culturali, educatori e assistenti sociali adeguatamente formati sulle specifiche vulnerabilità degli adolescenti. Carcere: in Italia ci rimane solo la cura psicofarmacologica? di Luca Granata e Mauro Toffetti* altrapsicologia.it, 17 agosto 2025 “Il grado di civiltà di una società si misura dalle sue prigioni”, scriveva Dostoevskij ne “L’idiota”, riprendendo un tema centrale anche in “Memorie da una casa di morti”, opera maturata durante la sua esperienza personale nel carcere siberiano. Un’idea condivisa anche da pensatori come Voltaire e Cesare Beccaria, che nel celebre “Dei delitti e delle pene” ponevano l’accento sul trattamento dei detenuti come misura della moralità e della giustizia di uno Stato. È con questo sguardo storico, politico e umano, che a fine luglio abbiamo avuto l’opportunità di partecipare a una visita ispettiva presso la Casa Circondariale di San Vittore, a Milano. Un’iniziativa promossa dall’Associazione Enzo Tortora - Radicali Milano, in collaborazione con l’Associazione Luca Coscioni, AltraPsicologia e Patto Civico. È stata un’esperienza intensa, toccante e profondamente formativa, sia sul piano umano che professionale. San Vittore è un luogo emblematico. Una struttura nata nel 1889 che oggi accoglie più del doppio della sua capienza ottimale. I numeri parlano chiaro: 1.048 persone detenute a fronte di una capienza regolamentare di 700, con una soglia di efficienza reale stimata intorno ai 450 posti. Una fotografia drammatica del sovraffollamento carcerario italiano, che qui si attesta al 233 %. Le sezioni II e IV, chiuse da anni per ristrutturazione, potrebbero restituire spazi più dignitosi e persino alleggerire il sovraffollamento. Ma il rischio è che diventino, paradossalmente, nuovi contenitori di ulteriore affollamento, senza una visione politica e sanitaria che riformi davvero la funzione del carcere. Ma dietro le cifre si muovono storie, fragilità, cronicità non trattate, sofferenze psichiche: un tessuto umano che spesso chiede ascolto, cura e possibilità di reinserimento. Il carcere va guardato non solo con competenze tecniche, ma anche con la capacità di riconoscere nell’altro - detenuto o operatore -, una comune umanità fatta di bisogni, limiti, emozioni. Un approccio compassionevole, che non significa indulgente, ma profondamente attento e capace di accogliere la sofferenza altrui senza giudizio. Percorrendo i “raggi di San Vittore”, dalla sezione femminile a quella maschile, abbiamo incontrato sguardi pieni di storia, sorrisi accennati e sigarette accese. Alle 11.00 si pranza e la razione di cibo offre fusilli al sugo, pollo e patate al forno. Luigi (nome inventato) attende il suo compagno di cella, impegnato a distribuire le razioni ai compagni di piano, per mangiare insieme: “non mi piace mangiare da solo, aspetto il mio amico”. Il personale della polizia penitenziaria presso San Vittore è composto da 556 unità totali, con circa 80 agenti presenti ogni giorno, tra turni diurni e 25 in servizio notturno. L’età media è molto bassa, intorno ai 30 anni, il che riflette una realtà gravata da estrema responsabilità nonostante l’esperienza professionale ridotta. Numerose ricerche indicano che gli agenti penitenziari in Italia affrontano livelli elevatissimi di stress e rischio di burnout per via del frequente contatto con detenuti emotivamente sofferenti e aggressivi. La chiamano “tensione” e il termine restituisce chiaramente la complessità. A questo si aggiungono carichi emotivi e dinamiche organizzative che generano senso di esaurimento emotivo, distacco e ridotta auto-efficacia professionale. La questione identitaria, spesso si intreccia con questi fattori: nella cultura interna degli operatori permane una diffusa mentalità che incoraggia una forma di forza emotiva e resistenza, ma al contempo alimenta la paura di apparire vulnerabili. Questo ostacola l’accesso ai servizi psicologici, rendendo difficile chiedere supporto anche nei momenti di crisi emotiva o burnout. Eppure qualcosa si muove. L’attivazione del progetto ponte di supporto psicologico peer-to-peer per il personale della polizia penitenziaria, mutuato dalla polizia locale, è un segnale di attenzione verso il benessere di chi lavora in prima linea. Ma resta un gran bisogno di cultura psicologica strutturata, di presenza clinica costante e di mediazione linguistico e culturale: oggi presente in numero ancora troppo esiguo (due mediatori per tutta l’area sanitaria). Per quanto riguarda il personale sanitario, cinque psicologi ex art. 80 e due psichiatri gestiscono più di mille persone, con una media mensile di oltre 580 colloqui psicologici e 650 visite psichiatriche. Gli atti di autolesionismo si attestano intorno ai 50 a settimana. Sono presenti circa 525 tossicodipendenti (30 donne), e almeno 250 detenuti con diagnosi psichiatrica conclamata. Questi numeri definiscono il carcere come un enorme contenitore di sofferenza psichica e marginalità sociale, più che come contenitore di “agenti di reato”. Lo psichiatra vede 325 detenuti al mese con 160 ore mensili. Immaginando che almeno il 30% di queste ore sono impegnate al confronto in equipe e alla relazione delle attività, probabilmente dedica a ciascun soggetto non più di 20 minuti: il tempo di dare la terapia (e forse neanche controllore che sia regolarmente assunta). Gli psicologi hanno qualche ora in più ma la domanda è talmente alta che in queste condizioni si agisce solo su emergenze. La mancanza di tempo e risorse rischia di spingere i professionisti verso una visione “tecnica” della sofferenza, svuotata di significato umano. Durante la visita al carcere di San Vittore, i referenti istituzionali hanno segnalato una prassi ormai diffusa: oltre ai detenuti con una diagnosi psichiatrica formale, una parte significativa - probabilmente la maggioranza - utilizza psicofarmaci, in particolare ansiolitici e antidepressivi. Ciò è confermato anche da osservazioni nelle aree di primo ingresso e nelle celle di sorveglianza, dove spesso giungono persone in forte crisi psico-comportamentale. In questi contesti, il farmaco sembra essere il primo e principale strumento adottato per contenere e stabilizzare rapidamente. Questa modalità solleva profondi interrogativi di natura etica, politica e sociale. Secondo l’articolo 27 della Costituzione, il carcere ha finalità rieducative e riabilitative; tuttavia, il ricorso massiccio alla sedazione farmacologica rischia di tradursi in una gestione contenitiva anziché terapeutica, contrapponendosi all’idea di cura attiva. La realtà solleva dubbi sia sulla reale necessità clinica degli psicofarmaci sia sulla carenza strutturale di risorse psicologiche e psichiatriche. Ciò suggerisce che, più che interventi personalizzati e tempestivi, prevalga una risposta emergenziale e uniforme alla sofferenza mentale. Il rischio concreto è di cronicizzare il disagio psichico, anziché accompagnarlo attraverso percorsi di comprensione, ascolto e trasformazione personale. Questo scenario richiede una riflessione urgente: è necessario verificare in che misura l’uso estensivo di farmaci risponda effettivamente a bisogni di cura o sia invece conseguenza delle gravi lacune nei servizi sanitari e psicologici disponibili in carcere. Solo così si potrà valutare se il carcere agisca come luogo di cura o come contenimento meccanico della sofferenza. Il carcere di San Vittore - come tante altre realtà detentive italiane - è lo specchio di una società che fatica a prendersi cura delle sue fragilità. È il luogo dove convergono povertà educativa, dipendenza, salute mentale trascurata, isolamento sociale: “dove il fuori fallisce arriva San Vittore” ci dice la Vice Direttrice. Ed è proprio da qui che occorre ripartire con uno sguardo nuovo: non più il carcere come smaltimento sociale, ma come punto di ripartenza per i diritti, la dignità e la salute delle persone. Occorre rimettere al centro la soggettività dell’essere umano, anche - e soprattutto - quando è detenuto. Restituirgli accesso alla cura, al percorso di reinserimento, alla possibilità di ricostruire. Fare in modo che la struttura del carcere non diventi la struttura di personalità del detenuto e viceversa. E per fare questo, serve una visione che tenga insieme sicurezza e salute, contenzione e dignità, legalità e presa in carico. Una visione che includa, finalmente, la psicologia non come accessorio, ma come elemento strutturale nella costruzione di un carcere che educa, cura, accompagna. Un carcere capace di farsi luogo di umanizzazione passa anche dalla capacità di portare uno sguardo compassionevole dentro le istituzioni: uno sguardo che non cede alla pietà sterile, ma che si fonda sulla responsabilità condivisa di costruire contesti che promuovano salute, rispetto, trasformazione. Alle 12 abbiamo dovuto terminare la nostra visita, lasciando spazio ad un gruppo di giovani magistrati in formazione. Quando li abbiamo visti li, nella “rotonda” da dove partono i 6 raggi di San Vittore, in fila davanti al primo cancello, abbiamo pensato “che bello sarebbe se anche i nostri colleghi in formazione potessero godere di questa esperienza come elemento strutturale del loro percorso identitario e professionale”. Magari è un sogno. Magari no. *Psicologi volontari dell’Associazione Luca Coscioni Calabria. La trincea delle carceri: situazione “insostenibile” per agenti e detenuti Corriere della Calabria, 17 agosto 2025 L’estate, con le alte temperature e le poche risorse, è uno dei periodi peggiori. E crescono aggressioni e proteste. “Sono invivibili”. È la sintesi del durissimo j’accuse lanciato sulle carceri italiane da Sergio Mattarella. Un monito ancora più rilevante se arriva dal Presidente della Repubblica, che poche settimane fa, in occasione dell’incontro con il capo della polizia penitenziaria, aveva ribadito nuovamente le difficili condizioni in cui detenuti e agenti sono costretti a convivere nelle carceri italiane: sovraffollamento, carenza di personale, emergenza suicidi. Una vera e propria “trincea” dentro i confini del paese dove quotidianamente si combatte contro le criticità di cui da anni, ormai, si discute. Eppure, nonostante proposte e promesse, chi vive gli istituti penitenziari parla ancora di “situazione insostenibile” sia per agenti e detenuti. Aggressioni e incendi - Ne ha parlato così il sindacato Sappe, dopo l’ultimo caso - avvenuto pochi giorni fa - di aggressione ai danni di un agente della Polizia penitenziaria di Vibo Valentia, raggiunto da calci e pugni sferrati da detenuti. In otto, nello stesso carcere, sono finiti intossicati alcune settimane fa dopo che era stato appiccato un incendio all’interno della casa circondariale. Anche a Rossano un agente è stato aggredito a metà luglio da cinque detenuti, dopo poche settimane prima un drone era stato bloccato mentre cercava di introdursi con diversi telefoni all’interno della casa circondariale. Disordini che si erano registrati anche nel carcere di Arghillà lo scorso giugno, con il segretario del sindacato Uilpa PP Gennarino De Fazio che aveva evidenziato, in quell’occasione, come le carceri fossero “una polveriera pronta ad esplodere”. Sempre nel carcere reggino, dove si denuncia anche una carenza d’organico del personale, a marzo altre tensioni tra detenuti avevano portato a tre di questi a ricorrere alle cure sanitarie. Carenza d’organico e suicidi - A preoccupare negli istituti penitenziari calabresi non è tanto il sovraffollamento, minore rispetto a quello delle altre regioni ma comunque presente (circa 270 detenuti in più rispetto alla capienza), ma la carenza di personale nella Polizia penitenziaria. Gli agenti sono spesso costretti a lavorare in condizioni difficili e con un organico ridotto che non consente di applicare a pieno il vero programma rieducativo previsto dal carcere. Gli educatori, figura fondamentale nel percorso detentivo, sono ancora in un numero insufficiente rispetto alla pianta organica prevista, seppur la Calabria registri dati migliori rispetto alla media nazionale del paese: 59,1 detenuti per educatore rispetto al 64 dell’intero paese. Criticità che, purtroppo, diventano ancora più evidenti con i suicidi e i tentativi di suicidi, problema diffuso nelle carceri italiane. Non a caso, in Italia, il 2024 è stato l’anno con più suicidi di sempre, ben 91 decessi, mentre nei primi 5 mesi del 2025 siamo già a 33, secondo i dati di Antigone. In Calabria si sono registrati tra il 2024 e i primi mesi del 2025 5 suicidi. La condizione delle donne detenute - Nelle ultime settimane Uil ha rilasciato anche un approfondimento sulle donne detenute in Calabria, denunciando come continuino a vivere “tra sezioni marginali, cure sanitarie assenti e percorsi di reinserimento pressoché inesistenti”. Il rapporto disegna un quadro disomogeneo, con istituti come quello di Reggio Calabria dove “mancano acqua calda, spazi adeguati, attività trattamentali, supporto medico 24 su 24 e servizi educativi efficaci”. “A Castrovillari, pur in condizioni migliori, si registrano sovraffollamento, carenze di mediatori culturali, psichiatri e ostetriche, e solo una minima parte delle donne ha accesso a lavoro o percorsi professionalizzanti”. Benevento. Non era mai stato in carcere: si toglie la vita dopo quattro giorni di detenzione di Anna Santini Corriere del Mezzogiorno, 17 agosto 2025 L’uomo aveva 53 anni. Denuncia dei Radicali Italiani che incalzano il ministro Nordio e la premier Meloni: “Misure alternative per i casi meno gravi”. Era entrato nell’istituto di pena l’11 agosto, alla sua prima esperienza detentiva. Nel carcere di Benevento, nel pomeriggio del giorno di Ferragosto, un detenuto di 53 anni si è tolto la vita. A renderlo noto sono stati oggi i Radicali Italiani che hanno lanciato un nuovo appello al governo sulla individuazione di “pene alternative” e, dove possibile, “riservando la detenzione solo ai casi più gravi”. “Come ha ricordato il garante campano Samuele Ciambriello, ogni suicidio è una sconfitta della giustizia e della politica: una politica che abbandona operatori penitenziari e detenuti, ignora le fragilità e rinuncia a ogni reale prospettiva di reinserimento”, hanno sottolineato in una nota Filippo Blengino, segretario nazionale di Radicali Italiani, e Bruno Gambardella, presidente, con Stefano Orlacchio e Paolo Cavallo del Comitato di Radicali Italiani. “Mentre il ministro Nordio, che Radicali Italiani ha recentemente denunciato, e il governo continuano a negare la drammaticità della situazione e a rinviare interventi concreti su strutture e personale, noi ribadiamo: il carcere non è la soluzione”, hanno proseguito. Per i radicali “la sicurezza dei cittadini non si costruisce trasformando le carceri in discariche sociali, ma applicando pene alternative e riservando la detenzione solo ai casi più gravi. Quanti morti ancora, ministro Nordio e presidente Meloni, serviranno per garantire giustizia invece che celebrare vendetta?”, è la loro conclusione. Milano. Radicali Italiani in visita al carcere di San Vittore: “Una discarica sociale” ildenaro.it, 17 agosto 2025 “Nel carcere di San Vittore, a Ferragosto, abbiamo trovato celle minuscole con tre o quattro persone, sovraffollamento al 200%, allarme psichiatrico e personale ridotto all’osso. La maggior parte dei detenuti è tossicodipendente, quasi la metà ha gravi disturbi psichiatrici, l’autolesionismo e i tentativi di suicidio sono quotidiani”. Così in una nota Filippo Blengino, segretario di Radicali Italiani. “Mentre Salvini sfila a Rebibbia fingendo stupore - prosegue - dimentica che le sue politiche populiste e panpenalistiche hanno trasformato le carceri in discariche sociali. Nordio resta immobile mentre i detenuti muoiono: per questo lo abbiamo denunciato per istigazione e aiuto al suicidio. Servono subito provvedimenti per decongestionare le carceri, a partire dalla proposta di Roberto Giachetti. Senza depenalizzazioni e alternative alla detenzione, continueremo a contare morti. Questo governo non combatte la criminalità: la moltiplica, trasformando la pena in tortura”, conclude. Oltre a Blengino, hanno partecipato alla visita la Tesoriera Patrizia De Grazia, Ennio Ferlito e Bianca Piscolla (Direzione nazionale). In mattinata il ministro Salvini è stato a Rebibbia dove è detenuto anche Gianni Alemanno che qualche giorno fa aveva scritto una dura lettera per segnalare l’assenza delle istituzioni. “Sì, certo. Ho incontrato Gianni Alemanno insieme ad altri detenuti arzilli tra i 18 e gli 88 anni. L’ho trovato tonico e determinato” ha detto il leader della Lega e vicepremier, Matteo Salvini, al termine della visita. “Bisogna fare di più”, per i detenuti ma anche per i poliziotti. Bisogna “migliorare la qualità del lavoro e la quantità di presenza della polizia” nelle carceri. E questo “significa anche migliorare la qualità della permanenza dei detenuti” ha aggiunto. “Ci sono tante proposte per superare il sovraffollamento”. Bisogna “investire i soldi che servono in qualità delle carceri e farne di nuove” pensando anche al personale addetto: “I lavoratori sono troppo pochi: occorre una grande operazione di investimento in uomini e donne in divisa”. Bologna. “La Dozza è sovraffollata al 174%”, visita di una delegazione del Partito Radicale Corriere di Bologna, 17 agosto 2025 Un sovraffollamento del 174%, superiore alla media nazionale ferma al 144% circa, dato dalla presenza di 784 detenuti a fronte di una capienza massima di nemmeno 500 persone. Anzi, 400 circa, poiché da marzo un centinaio di posti sono stati sottratti e dedicati alla tanto criticata sezione dei giovani adulti, teoricamente in chiusura verso fine settembre. A fornire dati aggiornati al 15 agosto, in seguito alla tradizionale visita al carcere della Dozza, è il Partito Radicale di Bologna, che è entrato con una delegazione - accolta dalla direttrice Rosa Alba Casella - composta da Monica Mischiatti, Fausto Forti e Silvia De Pasquale. Dei presenti, 463 sono risultati stranieri e 92 donne, mai così tante. A destare preoccupazione, poi, le 98 persone che si trovano in custodia cautelare in attesa di primo giudizio, come anche le 120 con una detenzione da scontare inferiore all’anno: “Potrebbero accedere a misure alternative - sottolinea la delegazione - ma spesso non lo fanno a causa di difficoltà nell’accesso a servizi e per mancanza di supporto”. Poche le occasioni di lavoro e studio. “Sottodimensionato di almeno cento unità anche il personale di polizia penitenziaria”. Un sopralluogo, dunque, che è arrivato a pochi giorni di distanza da quello della Camera penale, che ha evidenziato problematiche croniche: “Ha più di vent’anni il regolamento sulle norme dell’ordinamento penitenziario - conclude il partito Radicale -: 25 anni in cui tutto è cambiato, tranne che nei luoghi in cui lo Stato si ripromette di rieducare”. Risposte certe sulla chiusura della sezione dei giovani adulti non ne sono arrivate e anche per questo Mischiatti ha anticipato un’ulteriore visita a settembre. Rimini. La visita del Partito Radicale nel carcere: “Situazione molto grave di sovraffollamento” riminitoday.it, 17 agosto 2025 A Ferragosto una delegazione del Partito Radicale guidata Ivan Innocenti, membro del Consiglio generale, accompagnato dal consigliere del Comune di Rimini Andrea Pari e da Giorgio Galavotti, garante comunale delle persone private della libertà, ha visitato la casa circondariale riminese nell’ambito della iniziativa nazionale Ferragosto in carcere. “La situazione della Casa Circondariale di Rimini presente una situazione molto grave di sovraffollamento - denuncia la delegazione - nonostante la capienza regolamentare dell’istituto sia di 118 detenuti, il Ministero indica una capienza tollerabile di 165 persone. Oltre a questa capienza l’istituto non può garantire una condizione di detenzione sostenibile e si trova in una situazione di “trattamenti inumani e degradanti” come indicato dalla sentenza pilota Torreggiani emessa nel 2012 della Corte Europea Diritti Umani”. “Il giorno di ferragosto nell’istituto erano ristrette 168 persone (145%). Il record di sovraffollamento va alla sezione seconda con 28 detenuti per una capienza di 14, il 200% di sovraffollamento. Questa situazione “intollerabile” di sovraffollamento si protrae da tempo come anche denunciato la settimana scorsa da un comunicato congiunto dei Sindacati della Polizia Penitenziaria - proseguono i radicali - Va pertanto rilevato che tutta la casa circondariale è da considerarsi luogo di trattamenti inumani e degradanti in base alla Carta dei Diritti Umani e all’Articolo 3 in tema di Tortura. “Dei detenuti presenti 76 (45% del totale) sono tossicodipendenti, 77 (46%) sono stranieri, in attesa di giudizio definitivo sono 65 (39%) di cui 48 non hanno alcun grado di giudizio. Per quanto riguarda il personale penitenziario va segnalata oltre alla carenza generale la mancanza di un vice direttore e la presenza di una unica figura che può fungere da comandante invece delle 3 previste dalla pianta organica - aggiungono i radicali - La visita delle sezioni conferma le criticità già rilevate. La sostanziale inagibilità della prima sezione di cui la chiusura è sempre più una urgenza disattesa. Dovremmo chiederci “perché deteniamo persone in una situazione tale di degrado”. Struttura ammalorata, bagni nelle celle senza porte, dispensa e cucine a fianco alla tazza del water e assenza di acqua calda, docce comuni non funzionanti. Dovremmo chiederci anche perché costringiamo il personale penitenziario a lavorare in quelle condizioni e a custodire persone in luoghi che non sono degni alla vita umana e civile come riconosciuto dal magistrato di sorveglianza e dalla Ausl Romagna”. La visita conferma la qualità del Personale Penitenziario che con la collaborazione dei detenuti permette una sostenibilità dei rapporti umani nonostante le avversità della struttura e del sovraffollamento. Sovraffollamento che ormai i governi considerano strutturale e strategia di gestione degli istituti penitenziari.” “Durante la visita abbiamo incontrato un detenuto ristretto da solo in una cella di cui aveva distrutto tutte le suppellettili e servizi igienici nelle numerose occasioni di escandescenza. La cella si presentava priva di tutto, solo una branda con materasso. Durante la visita ha dato in escandescenza sbattendo rumorosamente e ripetutamente il cancello della cella e il personale sanitario dell’istituto è dovuto intervenire. Della situazione si interesserà il Garante dei detenuti. Non ci sono state lamentele sulla presenza del Magistrato di sorveglianza e sul costo del sopravvitto, mentre la qualità del vitto è stata contestata. Diverse celle si presentano areate e con ventilatori per alleviare il torrido estivo di questa stagione. Nonostante le difficoltà e le carenze di prodotti per igiene personale e per la pulizia le sezioni si presentano con i detenuti organizzati per tenere pulite le aree comuni e gestire al meglio il frigorifero di comunità Solo in una sezione hanno rilevato difficoltà di convivenza e gestione degli spazi comuni - conclude la delegazione del Partito Radicale - La nostra comunità cittadina dovrebbe prendere maggiore consapevolezza delle condizioni di degrado in cui detenuti e personale penitenziario sono costretti a viveri e i rappresentanti istituzionali dovrebbero esprimere sgomento nell’avere sul proprio territorio una tale situazione di degrado e sofferenza e prendere le distanze da una siffatta situazione di illegalità chiedendone l’immediato rientro nel rispetto dei dettati costituzionali”. Catanzaro. Visita della Camera penale: “Il carcere Ugo Caridi è vecchio e inadeguato” esperia.tv, 17 agosto 2025 “Nonostante la dedizione del personale penitenziario, la struttura vecchia e inadeguata nella quale sono ristretti priva i detenuti non solo della libertà, ma anche della dignità”. È il quadro della Casa circondariale Ugo Caridi di Catanzaro tracciato dopo la visita nell’istituto compiuta da una delegazione composta dal presidente del Consiglio regionale Filippo Mancuso, dal presidente del Consiglio comunale Gianmichele Bosco, dal garante per i diritti dei detenuti Luciano Giacobbe e da una delegazione della Camera penale di Catanzaro guidata dal presidente Francesco Iacopino. “Non si può e non si deve essere costretti a fare una sola doccia al giorno - è scritto in una nota - quando fuori la temperatura supera i trenta gradi e in quelle celle, in tre persone, dove, e questo accade nell’alta sicurezza, la porta resta chiusa per quasi l’intera giornata, la temperatura percepita è ben più alta e non c’è possibilità di ripararsi dal sole battente né consolazione nel bere qualcosa di fresco perché semplicemente non ci sono i frigoriferi. “Abbiamo fatto accesso al carcere - affermano gli avvocati penalisti - e crediamo che i principi e le garanzie costituzionali debbano valere per tutti e non possano trovare ostacoli nella loro applicazione neppure nei confronti di chi ha violato norme penali, macchiandosi talvolta di crimini gravissimi. Anche se la direttrice ci ha rappresentato che a breve dovrebbero iniziare i lavori di adeguamento dell’ala dell’alta sicurezza per ristrutturare i bagni e inserire le docce”. L’Aquila. Meno università, più carcere: il Governo Meloni investe in repressione di Francesca Di Egidio napolimonitor.it, 17 agosto 2025 C’è qualcosa di stonato e grottesco nei toni trionfalistici con cui è stata celebrata la riapertura dell’Istituto penale per i minorenni dell’Aquila. Bisogna avere una concezione distorta di cosa possa costituire una “giornata di gioia”, per usare le parole del sottosegretario Delmastro, presente all’inaugurazione, per festeggiare la riapertura di un carcere in questi termini, tanto più se destinato a minori. Non si trattava di locali abbandonati o inutilizzati, come si è voluto far credere, ma di un presidio pubblico pienamente attivo. Infatti, fino a poco tempo fa, i locali di Acquasanta ospitavano i corsi di economia dell’Università dell’Aquila, con una mensa utilizzata anche dagli studenti del vicino conservatorio. Nel suo intervento, Delmastro ha parlato della chiusura di una “pagina nefasta”, riferendosi alla decisione dell’allora ministro Orlando di chiudere l’Ipm. Una decisione definita “sciagurata, improvvida”, ma che in realtà permise alla struttura di diventare una sede universitaria in un momento in cui la città tentava ancora di rialzarsi dalle proprie macerie, restituendo così alla collettività uno spazio pubblico e formativo. Fu proprio quella scelta a consentire, nel 2014, l’assegnazione definitiva della struttura all’ateneo, che nel frattempo aveva investito per adeguarla alle esigenze didattiche. Nel maggio 2023, però, Delmastro ha rivendicato la proprietà dell’edificio per restituirla a quella che ha definito la sua “funzione originaria” di istituto penale. A gennaio 2025 i docenti sono stati costretti a sgomberare e da marzo i lavori di riconversione sono proseguiti a ritmo serrato. Una rapidità di esecuzione che raramente vediamo sui nostri territori e quasi mai trova riscontro nel potenziamento dei servizi pubblici essenziali. Sempre durante l’inaugurazione si è definita “impropria” la destinazione universitaria, per poi celebrare come vittoria la riconversione alla detenzione degli spazi, presentando l’Ipm addirittura come un’opportunità per il territorio, nonché come il riscatto di “uno scippo subito dalla città” (parole del sindaco dell’Aquila Pierluigi Biondi). Un pericoloso rovesciamento ideologico che occulta il fatto che proprio il carcere dovrebbe essere il massimo fallimento di una società e delle sue istituzioni. Questo rovesciamento di senso si inserisce nel solco tracciato dalla cosiddetta “rinascita” dell’Aquila, immaginata dalla giunta Biondi e non solo. Una rinascita che passa per una società ossessionata dal controllo, convinta che la repressione, e non la presa in cura della popolazione che vive sul territorio, possa colmare i vuoti lasciati dallo smantellamento delle politiche sociali. Nel frattempo, dissenso e malcontento vengono neutralizzati, anche qui in linea con le politiche promosse dal governo nazionale. L’impianto ideologico che ha generato la riapertura dell’Ipm, d’altronde, è in piena continuità con le tendenze nazionali. Quelle imposte, per esempio, con il Decreto Caivano (non a caso più volte evocato durante l’inaugurazione), oggi assunto a modello per il trattamento del “disagio giovanile”, riducendo il tema a mera questione di ordine pubblico. Un decreto che ignora le cause sociali, economiche, culturali dei problemi e che non ha mai voluto affrontarne la complessità, alimentando piuttosto una narrazione emergenziale permanente, utile a giustificare misure eccezionali, ridurre l’uso di misure alternative, estendere la detenzione amministrativa, arrivando a colpire pesantemente minori in età scolare. Tra le giustificazioni offerte per la riapertura del carcere minorile si è parlato, com’era prevedibile, anche di sovraffollamento. Basta leggere i dati dell’associazione Antigone per scoprire che l’applicazione del Decreto Caivano è tra le principali cause dell’aumento della popolazione carceraria minorile. Tutto questo, ovviamente, viene sottaciuto e avvolto nella ripetizione ossessiva di slogan del tipo “lo Stato torna presente sul territorio”, le stesse parole pronunciate da Giorgia Meloni a Caivano e rilanciate da Delmastro davanti al nastro tricolore del nuovo istituto penale. È curioso come lo Stato torni a essere presente con prontezza solo quando deve mostrare i muscoli e dispiegare i propri dispositivi di violenza. Molto meno solerte quando si tratta di ricostruire le scuole della città, ancora in attesa della piena riconsegna; o di affrontare il debito strutturale che strangola la sanità abruzzese (era presente anche il presidente della Regione, il romano Marco Marsilio) ridotta a sopravvivere a tentoni, tra continui tagli; o di garantire consultori, sportelli territoriali, spazi pubblici essenziali che invece continuano a chiudere, in particolare quelli rivolti alle donne e ai soggetti più fragili. Questa impalcatura repressiva ha bisogno di una legittimazione simbolica, e l’ha trovata in un concetto tanto potente quanto di recente strumentalizzato: il diritto all’affettività. Durante l’inaugurazione si è molto insistito sulla possibilità, per i minori che sono detenuti nel “nuovo istituto” (potrà accoglierne fino a ventotto), di scontare la pena senza essere allontanati dal proprio contesto territoriale. Un diritto fondamentale che dovrebbe essere sempre garantito, ma che, nella realtà concreta del carcere e considerando le condizioni materiali che la detenzione impone (dall’abuso sistematico di psicofarmaci ai numerosi atti di autolesionismo, fino al progressivo annientamento emotivo e relazionale), finisce per ridursi a un’etichetta di comodo, appiccicata per coprire un’operazione afflittiva continuativa che poco ha a che vedere con la fruizione occasionale dell’”affettività”. La retorica della “prossimità” è un inganno più o meno consapevole, e l’ipocrisia diventa lampante anche nelle parole della garante Monia Scalera, che recita il mantra del carcere come “estrema ratio”, mentre il ministro Nordio annuncia con una lettera l’apertura di altri due istituti minorili entro dicembre, entrambi all’Aquila. Vale la pena ricordare che la stessa Scalera, pochi mesi fa, ha pubblicamente negato l’esistenza del sovraffollamento a Castrogno, Teramo, uno degli istituti più in affanno d’Italia da questo punto di vista; un luogo attraversato da numerosi suicidi e atti di autolesionismo, tanto che è lecito domandarsi quale tipo di garanzia possa offrire una figura istituzionale che normalizza pubblicamente simili realtà. Tutto questo rientra in un disegno preciso. Il carcere minorile è il tassello più inquietante di un’architettura repressiva fondata sull’idea che lo Stato non solo possa, ma debba esercitare violenza: una violenza preventiva che ora vorrebbe essere anche pedagogica, che si erge a strumento ordinario per tappare le falle che esso stesso ha prodotto e continua a produrre. Forlì. Nuovo carcere, la proposta di Metropolis: “Una Casa delle Associazioni alla Rocca” forlitoday.it, 17 agosto 2025 L’associazione lancia l’idea in vista del futuro carcere di Forlì: “Crediamo sia opportuno ragionare in tempo utile sul futuro riutilizzo dell’attuale Casa circondariale”. “Nel nostro territorio manca una vera e propria Casa delle Associazioni, un luogo stabile in cui realtà culturali, artistiche, civiche ed anche sociali possano elaborare progetti, incontrarsi ed anche lavorare insieme ogni giorno dell’anno, promuovendo iniziative aperte al pubblico, continuativamente. In passato, abbiamo proposto lo spazio dell’ex Eridania come possibile sede, e in attesa che si sblocchi la situazione del rilancio dell’area, crediamo si possano valutare, già oggi, altre opportunità. Per esempio, immaginare il futuro riutilizzo della casa circondariale di Forlì, attigua alla Rocca di Ravaldino, come spazio aperto alla cittadinanza, al turismo e alla produzione culturale e sperimentale da parte delle associazioni”. Questa la proposta di Marco Colonna e Umberto Pasqui, rispettivamente presidente e vicepresidente dell’associazione culturale Metropolis. “Entro il 2028 dovrebbe nascere nella zona del Quattro il nuovo carcere di Forlì. Crediamo sia opportuno ragionare in tempo utile sul futuro riutilizzo dell’attuale casa circondariale, un complesso risalente alla fine dell’800 con 4 edifici posizionati parallelamente ed attraversati da un unico corridoio che li collega da parte a parte. Dovremmo poter ragionare sulle spese di riqualificazione della struttura, immaginando un collegamento funzionale con la Cittadella della Rocca di Ravaldino e il rinfoltimento dell’area verde circostante. Indirizzarne il recupero verso uno scopo ben preciso: culturale sì, ed anche turistico e persino museale, o in parte anche didattico. Sarebbe suggestivo anche lasciare un padiglione inalterato (c’è una sezione con le celle piccole e anguste e schermature alle finestre) come richiamo alle carceri ottocentesche”, aggiungono ancora Colonna e Pasqui. “In generale, molti dei beni pubblici disponibili sono sottoposti a vincoli; per questo motivo, la loro eventuale cessione ad usi diversi da quelli pubblici rischia di precludere definitivamente opportunità di utilizzo collettivo. È fondamentale che tali spazi restino a disposizione della comunità, per favorire la partecipazione e la vita culturale della città”, insistono il presidente e vicepresidente dell’associazione culturale Metropolis. “Per una città che vuol fare della cultura un vessillo per il proprio futuro, chiediamo, dunque, all’amministrazione e a tutti gli enti coinvolti per competenza giuridica e territoriale di aprire un confronto serio e trasparente con associazioni e cittadinanza su come valorizzare al meglio, quando sarà pienamente fruibile, la Casa circondariale, garantendo che resti patrimonio comune, salvaguardando l’identità e le potenzialità di un luogo strategico, inclusa la Rocca, viste le ricadute positive che potrebbe offrire all’intero centro storico di Forlì”, concludono Colonna e Pasqui. Pavia. All’Horti Bistrot, dove in cucina e ai tavoli ci sono detenuti e soggetti fragili di Manuela Marziani Il Giorno, 17 agosto 2025 Aperto da tre mesi, non è solo un locale dove trascorrere qualche ora in compagnia a pranzo e cena ma soprattutto un luogo d’accoglienza per chi cerca una chance per ricominciare. Grigliate di carne e di pesce a pochi passi dal Ticino. Niente di straordinario, è tradizione grigliare il 15 agosto. Quello che è eccezionale è il luogo, il parco degli Horti borromaici dove si intrecciano habitat naturali, arte contemporanea, riflessione culturale, impegno etico, equità e inclusione sociale. Tra opere di diversi artisti, testimonianze del passato e natura, infatti, in un cascinale seicentesco si trova Horti Bistrot, non un locale come tanti bensì un luogo di accoglienza e cura. Una scuola per addetti sala e addetti bar che possano avere una seconda opportunità. L’idea è venuta al rettore del Collegio Borromeo, Alberto Lolli, che ha pensato di riaprire il locale immerso nel parco offrendo la possibilità di ricominciare senza pregiudizi a detenuti in regime di semilibertà e persone fragili che possano imparare l’arte del servizio. Per mettere in pratica l’idea, il rettore ha pensato a una professionista del settore attenta al sociale come Samanta Alloni e a un giovane laureato in Archeologia con il massimo dei voti come Luca Visconti, che ha sempre lavorato nei bar per pagarsi gli studi scegliendo i locali vicino ai luoghi di scavo e ora si occupa di riportare alla luce la chiesa romanica di San Marco in Monte Bertone. “Il rettore ci ha chiamati - spiega Samanta Alloni - e ci ha raccontato il progetto al quale stava pensando, chiedendoci se fossimo disposti a lavorarci. Abbiamo accettato la sfida, dando vita a un’impresa sociale”. Una possibilità per ripartire - A fine maggio Horti Bistrot ha aperto e in questi primi mesi molti clienti si sono avvicendati per consumare colazione, pranzo, aperitivo al tramonto o la cena. “Crediamo che anche la cucina e il servizio possano essere gesti quotidiani di rispetto per l’ambiente, per il territorio e per le persone - sottolinea il gestore, Luca Visconti - Abbiamo tre detenuti del carcere di Pavia, tre di Voghera, due di Bollate e quattro persone fragili che seguiamo in percorsi di formazione e di crescita, offrendo a tutti l’opportunità di ricominciare”. Seguiti da un educatore, Sergio Chillè, tutti imparano un mestiere per poi intraprendere la loro strada. “Mi sento come rinato - ammette uno dei detenuti impegnati - Servire per me è, e sarà sempre, un segno di libertà. La sera, appena finisco il turno, rientro in carcere. Quando ho il permesso premio vado a casa di mamma e l’anno prossimo avrò pagato il mio debito. Nella vita si può sbagliare, ma ci si rimbocca le maniche e si ricomincia”. Il progetto, illustrato sinteticamente nella prima pagina del menu portato ai tavoli, è stato condiviso e apprezzato dalla clientela, che in alcuni casi ha deciso di sostenerlo con una borsa lavoro. “Lavoravo in un supermercato - aggiunge Aurora - prima di venire agli Horti Bistrot, dove sono costretta a stare sempre in piedi. Devi avere il fisico e la testa per servire ai tavoli. Da grande vorrei fare la cantante, ho scritto un testo anche per gli Horti ma non l’ho mai cantato. Mi piacerebbe tanto poterlo presentare”. “Per me questa è vita - sottolinea Eros, detenuto in regime di semilibertà che ha già lavorato in un ristorante - Siamo un gruppo affiatato e lavoriamo bene. Ci farei la firma, se potessi lavorare qui sempre”. Sassari. Gatti nel carcere di Bancali, verso una soluzione: l’intervento del provveditore di Emanuele Floris L’Unione Sarda, 17 agosto 2025 Sterilizzazione, chiusura in spazi recintati e poi affidamento ad associazioni locali. È il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Domenico Arena ad aprire una via per la situazione dei gatti nel carcere di Bancali a Sassari. In un ordine di servizio dello scorso mese, la direttrice della struttura aveva ordinato di non dare più da mangiare ai felini vista anche la precaria condizione igienica che si era venuta a creare. Da poco Arena ha reso noto in un documento di un incontro tra la stessa direttrice, la garante comunale dei detenuti, il vicesindaco di Sassari e il direttore responsabile dell’Asl 1. Quest’ultimo ha dato piena disponibilità per la sterilizzazione dei gatti mentre Pierluigi Salis, in rappresentanza del Comune, ha riferito che si farà carico di interessare le associazioni locali per la successiva collocazione dei felini. Seguendo le indicazioni medico-veterinarie, sono stati creati all’interno del carcere degli spazi recintati dove tenere gli animali dopo la sterilizzazione. Alla fine il provveditore regionale chiarisce il senso delle disposizioni della direttrice che avevano causato proteste sindacali e un sit-in davanti a Bancali. “L’avviso di servizio in questione - conclude nella una nota - era finalizzato unicamente a preservarne la salute, evitando la somministrazione di cibo non adeguato e, al contempo, a garantire la salubrità dei luoghi di lavoro”. Il tempo fermo e dilatato delle colonie penali di Simona Ciaramitaro collettiva.it, 17 agosto 2025 A Locarno il film documentario italiano sulle ultime case di lavoro, un modello ereditato dall’imperialismo europeo. Ha avuto la sua prima internazionale al 78° Locarno Film Festival il film documentario “Nella colonia penale” dei registi Gaetano Crivaro, Silvia Perra, Ferruccio Goia e Alberto Diana. Un racconto per immagini di alcune delle ultime colonie penali tuttora attive in Europa proiettato nell’ambito della Semaine de la Critique in una sezione che vuole promuovere film innovatori per tematiche e stile e che possono dare vita a costruttivi dibattiti. Nel comunicato stampa che ne dà l’annuncio, si legge che tre località sarde, Isili, Mamone, Is Arenas e fino a poco tempo fa l’Asinara, sono infatti sede di case di lavoro all’aperto, “fondate su un modello ereditato dall’imperialismo europeo, dove i detenuti scontano la pena coltivando la terra, allevando animali da pascolo o svolgendo compiti legati alla manutenzione della stessa struttura in cui sono costretti”. I protagonisti sono principalmente persone migranti e il film documentario, girato in Sardegna, ci mostra come vivano in un tempo fermo e dilatato, scandito da mansioni quotidiane (la cura del territorio, l’allevamento di animali, compiti di manutenzione) in cambio della possibilità di scontare la pena in spazi aperti, ma isolati e inaccessibili. “Il dispositivo di sorveglianza e repressione sembra ripetersi immutato di fronte alla macchina da presa, di colonia in colonia - affermano i registi - cambiano i volti, le guardie e i condannati, ma il sistema di controllo rimane il medesimo. ‘Nella colonia penale’ si immerge in uno spazio di eccezione: un regime carcerario retaggio del passato, sul punto di scomparire, lontano dalla nostra società, ma di cui è al contempo una diretta emanazione”. Il film nasce da un’idea originale di Nicola Contini, che ne è anche il produttore insieme con Laura Biagini, Matteo Incollu e Federica Ortu per Mommotty. La realizzazione è avvenuta con il contributo di più forme di sostegno pubblico, il ministero della Cultura, la Regione Autonoma della Sardegna e Fondazione Sardegna Film Commission. Ha ottenuto inoltre il premio di post-produzione video a Cinecittà, grazie al programma BFF New Wave (In)Emergenza 2023 del Bellaria Film Festival ed è stato proiettato in anteprima mondiale alla 43esima edizione del Bellaria Film Festival. ‘Nella colonia penale’ ha percorso inoltre un iter di restituzione voluto dai registi e che lo ha visto proiettato nelle colonie penali sardi, per coloro che sono i protagonisti del film. Dopo le proiezioni a Locarno e ad altri festival, sarà poi disponibile nelle sale cinematografiche entro la fine di quest’anno. “Ci sembra importante e fondamentale far arrivare il film all’interno delle case di reclusione in cui è nato - sostengono Crivaro, Perra, Goia e Diana -. Innanzitutto perché portare il cinema in luoghi dove forse non è mai transitato è un modo per restituire qualcosa a detenuti, operatori, insegnanti e agenti, che invitiamo sempre a partecipare al dibattito. Allo stesso tempo perché girare questo documentario ha rappresentato per noi un momento di crescita sia umana che professionale. È raro e prezioso poter sentire, anche in una struttura solitamente non attrezzata ad ospitare un cinema, al buio e nell’intimità della proiezione se i protagonisti si rivedono e si risentono nel nostro sguardo”. Il docufilm “Nella colonia penale” vince il Marco Zucchi Award 2025 cinecittanews.it, 17 agosto 2025 Il documentario supportato da Cinecittà tramite il programma (In)Emergenza è stato presentato nel programma della Semaine de la Critique di Locarno 78. È stato premiato al 70° Locarno Film Festival con il Marco Zucchi Award il film Nella colonia penale, diretto da Gaetano Crivaro, Silvia Perra, Ferruccio Goia e Alberto Diana, programmato nei giorni scorsi insieme ad altri sei lungometraggi nella sezione Semaine de la Critique. Si tratta di un premio che la giuria designata dalla Semaine assegna in memoria del suo delegato generale scomparso nel 2020 ed è offerto dalla famiglia del giornalista che intende in questo modo ricordarlo “osservando i film in concorso con quel suo stesso sguardo curioso e rivolto al futuro”. Questa la motivazione della giuria formata da Stéphane Gobbo, Mala Reinhardt e Simonetta Sommaruga: “Il Premio Marco Zucchi al documentario più innovativo in termini di immagine e linguaggio cinematografico va a Nella colonia penale, di Gaetano Crivaro, Silvia Perra, Ferruccio Goia e Alberto Diana. Ambientato in Sardegna, il film documenta, in quattro capitoli distinti, la vita quotidiana delle ultime colonie penali d’Europa, una delle quali trasformata in riserva naturale. Riprendendo prigionieri, guardiani e animali attraverso un’estetica che intreccia queste diverse prospettive, i cineasti offrono una riflessione poetica e talvolta spiazzante sulla detenzione, sull’esperienza della reclusione e, più in generale, sul nostro rapporto con il mondo”. Il film racconta infatti la vita quotidiana di detenuti e agenti nelle case di lavoro all’aperto (carceri) di Isili, Mamone e Is Arenas, e si chiude con L’Asinara, dove si può dire sia passata la Storia degli ultimi settant’anni del nostro paese. Queste forme di gestione del carcere sono fondate su un modello ereditato dall’imperialismo europeo. Oggi i detenuti scontano la pena coltivando la terra, allevando animali da pascolo o svolgendo compiti legati alla manutenzione della stessa struttura in cui sono costretti. Sono per lo più migranti extra-europei e il loro tempo - nel film, così come nella vita reale - è fermo e dilatato dalla condizione di detenzione, scandito da compiti previsti in cambio della possibilità lavorare in spazi aperti, a contatto con gli animali, ma isolati e inaccessibili ai più. Questi luoghi si differenziano dunque per diverse ragioni dalla maggior parte delle carceri, ma non sono di fatto meno vincolati dalle regole che da sempre caratterizzano il sistema penale. Sono un lascito dell’imperialismo di epoca coloniale, in passato luoghi di costrizione e repressione per criminali e mafiosi, oltre a dissidenti politici, e (specialmente durante la dittatura di Benito Mussolini) antifascisti, omosessuali e renitenti alla leva militare. In Italia le colonie penali vennero introdotte nel sistema penale dal Codice Rocco, entrato in vigore nel 1930 e tuttora una delle fonti del diritto penale italiano. Misura che a livello globale va scomparendo, distingue i detenuti in condannati e internati: i primi stanno scontando una pena certa, mentre i secondi sono sottoposti a una misura di sicurezza per la loro presunta pericolosità sociale. Questi ultimi, pur non avendo una pena certa da scontare, subiscono ciò che viene chiamato in gergo carcerario “ergastolo bianco”, ovvero una forma di detenzione che potrebbe prolungarsi a tempo indeterminato. Informati del riconoscimento ottenuto, i quattro registi dichiarano: “È stato emozionante poter incontrare un pubblico così numeroso e partecipe a Locarno. Ringraziamo la giuria della Semaine de la Critique per il riconoscimento: un premio legato all’innovazione cinematografica in un contesto così importante per la cinefilia mondiale ci rende estremamente orgogliosi, ed è uno stimolo per rivendicare una pratica cinematografica che parte dal reale e dall’ascolto. Ci auguriamo di incontrare ancora tanto pubblico, sia a livello internazionale che in Italia, dove prevediamo di farlo a partire dall’inizio di ottobre”. Da un’idea originale di Nicola Contini, Nella colonia penale è scritto e diretto da Gaetano Crivaro, Silvia Perra, Ferruccio Goia e Alberto Diana. Prodotto da Nicola Contini, Laura Biagini, Matteo Incollu e Federica Ortu per Mommotty, è stato realizzato con il contributo di più forme di sostegno pubblico: MIC - Ministero della cultura (grazie all’utilizzo del credito d’imposta previsto dalla legge del 24 dicembre 2007, n. 244), RAS - Regione Autonoma della Sardegna (contributo ai sensi della L.R. n. 15 del 2006, art. 15. Norme per lo sviluppo del cinema in Sardegna. Assessorato della Pubblica istruzione, beni culturali, informazione, spettacolo e sport) e Fsfc - Fondazione Sardegna Film Commission (Fondo location scouting). Ha ottenuto inoltre il premio di post-produzione video a Cinecittà, grazie al programma BFF New Wave (In)Emergenza 2023 del Bellaria Film Festival ed è stato proiettato in anteprima mondiale alla 43esima edizione del Bellaria Film Festival. Il film, della durata di 85 minuti, gode inoltre del patrocinio dell’associazione Antigone, che include tra le proprie attività la redazione di un report annuale sulle condizioni di detenzione in Italia, basato sulle informazioni raccolte da oltre novanta osservatori e osservatrici attraverso visite agli istituti di pena. Asinara, l’isola delle punizioni di Andrea Giuseppini Il Manifesto, 17 agosto 2025 L’ultima Il 19 febbraio 1937, subito dopo l’attentato al viceré di Etiopia Rodolfo Graziani, viene dato il via alla rappresaglia contro gli “indigeni”. Yewinshet Beshawured aveva 6 anni quando fu confinata all’Asinara con sua madre e suo fratello. A 93, è tornata nei luoghi della deportazione degli etiopi: è probabilmente l’ultima testimone di questa storia. Sono arrivati da Stati Uniti, Francia, Inghilterra, Svizzera, Germania e altri paesi ancora per conoscere i luoghi della deportazione dei loro padri, nonni e bisnonni. Sono oltre 60 gli etiopi della diaspora sbarcati il 6 agosto sull’isola dell’Asinara. Assieme a loro c’è Yewinshet Beshawured, che oggi ha 93 anni e che quando ne aveva 6 venne confinata all’Asinara assieme alla madre e a Mamo, il fratello, che di anni ne aveva 4. Probabilmente l’ultima testimone ancora in vita di questa storia. Il 19 febbraio 1937, subito dopo l’attentato al viceré di Etiopia Rodolfo Graziani, viene dato il via alla rappresaglia contro gli “indigeni”. La carneficina ad opera di militari e coloni italiani dura tre giorni, al termine dei quali le vittime etiopi si contano a migliaia. Sono punizioni per la stessa colpa la strage dei sacerdoti e diaconi del monastero di Debre Libanòs, la deportazione nei campi di concentramento di Danane e Nocra e anche, appunto, l’invio al confino in Italia di oltre 300 persone: uomini, donne, bambini, spesso famiglie intere, appartenenti alla classe dirigente etiope (amhara) del deposto imperatore Haile Selassiè. Tra marzo e aprile 1937, in due trasporti partiti dal porto di Massaua, arrivano alla Stazione marittima sanitaria dell’isola-carcere dell’Asinara circa 290 persone. Rodolfo Graziani e Alessandro Lessona, ministro dell’Africa italiana, li hanno suddivisi in tre gruppi, a seconda del loro grado (presunto, diciamo noi) di “pericolosità”. Dopo alcuni mesi passati all’Asinara, i più “pericolosi”, una trentina, vengono spostati, per isolarli dagli altri, a Longobucco, un piccolo comune della provincia di Cosenza; il gruppo dei “poco pericolosi” è trasferito a Mercogliano in provincia di Avellino, la stessa località in cui saranno confinate quasi tutte le donne e i bambini, ospitate in un convento; infine il gruppo dei non pericolosi o “recuperabili” (una decina di persone) è destinato a Tivoli, vicino a Roma. Dopo questi trasferimenti, resteranno sull’isola dell’Asinara circa 150 etiopi, tutti maschi. Tornando sull’isola per la prima volta dopo tanto tempo, a Yewinshet Beshawured sembra di ricordare tutto, persino alcune frasi in italiano imparate qui. Yewinshet Beshawured è figlia di un alto funzionario della corte nonché intimo amico dell’imperatore Haile Selassiè. Il padre viene ucciso dagli italiani subito dopo l’attentato a Graziani. Yewinshet, suo fratello Momo e la madre, Sarah Gebreyesus, sono arrestati, imbarcati su un aereo per Massaua e caricati assieme ad altri 194 etiopi sul piroscafo Toscana. Sbarcheranno sull’isola dell’Asinara il 17 marzo 1937. La madre di Yewinshet è incinta, ha già avuto più aborti spontanei e la gravidanza è a rischio. A giugno viene trasferita con i figli a Roma, ma non in un reparto di maternità, bensì presso la Clinica delle malattie tropicali. Fondata nel 1931, la Clinica, affidata alla direzione del tropicalista Aldo Castellani, dopo la guerra in Etiopia viene ridisegnata anche in funzione della costruzione dell’impero fascista. Asinara,1937. A sinistra Yewinshet Beshawured e a destra suo fratello Mamo. Al centro la 22enne Senedu Gebru - attiva nella resistenza contro l’occupazione italiana, letterata, che dopo la liberazione, nel 1957, sarà la prima donna eletta al parlamento etiope Del lungo periodo trascorso nella Clinica, Yewinshet ricorda come lei e il fratello passassero le giornate girando tra i corridoi della struttura e visitando ogni mattina il vicino obitorio del Policlinico Umberto I per vedere quanti cadaveri vi fossero stati portati. Racconta Yewinshet: “E ogni giorno andavamo là. A interessarci di più erano i bambini piccoli. Li vestivano come angeli. Tutti di bianco. Stupendi. E le famiglie arrivavano e quei pianti. E noi li guardavamo incuriositi. È così. Non avevamo altro da fare”. Dalla clinica non era possibile uscire. Solo nel febbraio del 1938 viene concesso a Sarah e ai suoi figli di fare una passeggiata alla settimana per la città accompagnata dal personale della Clinica, a condizione però che non avessero contatti con estranei. Dopo il lungo periodo di reclusione alla Clinica delle malattie tropicali, Sarah e i tre figli - nel frattempo è nato il terzo bambino cui viene dato il nome Roberto - saranno trasferiti in una villa di Tivoli, dove è confinato un piccolo gruppo di notabili etiopi, alcuni di loro provenienti dall’Asinara. Nel corso del 1939, tutti gli etiopi - ad eccezione di quelli “pericolosi” confinati a Longobucco che lo saranno solo nel 1943 con l’arrivo degli Alleati - vengono a piccoli gruppi rimpatriati, in ossequio alla nuova politica coloniale voluta da Amedeo di Savoia succeduto a Rodolfo Graziani come governatore dell’Etiopia. Il duca d’Aosta è infatti convinto che per governare l’impero sia necessaria, almeno a livello locale, una collaborazione con l’aristocrazia etiope. Il gruppo di discendenti etiopi in visita all’Asinara questo agosto - DECINE DI ALTRE STORIE abbiamo ascoltato in questi giorni dalle voci dei discendenti. Quella raccontata da Yadwa Yawand-Wossen, arrivata all’Asinara da New York per cercare tracce della nonna Tewabetch Zeamanuel, deceduta forse all’Asinara forse altrove. O ancora quella riferita da Garbe Korajian, nipote dell’avvocato armeno Abrahm Koraijan, prima dell’invasione italiana direttore dei monopoli dell’Etiopia, deportato assieme ad altri due armeni all’Asinara e poi a Longobucco, il quale Garbe Korajian ha sia raccontato la storia della comunità armena in Etiopia, sia ricordato, a proposito del nonno, che, andando ad arrestarlo, i militari italiani gli avevano chiesto cosa ci facesse lui bianco in mezzo ai neri, e che non sarebbe stato arrestato se non fosse stato lui stesso a dichiararsi nemico degli italiani e amico degli etiopi. E c’era poi all’Asinara Elfy Getachew, i cui figli erano già stati sull’isola due anni fa alla ricerca del luogo di sepoltura del loro trisnonno Haile Wolde Meskel, deceduto all’Ospedale di Sassari il 30 settembre 1937. All’Asinara Haile Wolde Meskel era stato deportato assieme a un fratello e al padre, che in Etiopia era Ministro della penna, una delle più alte cariche imperiali. A proprio a Elfy va gran parte del merito per il coinvolgimento e la partecipazione di così tanti discendenti dei confinati etiopi. Al termine di una cerimonia con canti, preghiere e la lettura dei nomi dei deportati etiopi, Yewinshet Beshawured, affiancata da Vittorio Gazale, direttore dell’Ente parco nazionale dell’Asinara e Paola Fontecchio della cooperativa Sealand, organizzatori di questa iniziativa, ha inaugurato una targa che ricorderà ai visitatori dell’isola questa storia successa ormai molti anni fa ma ancora storicamente e politicamente importante. Somaia Ramish: “Il mondo chiude gli occhi su noi afghane. La poesia è la mia arma” di Francesca Angeleri Corriere della Sera, 17 agosto 2025 “La caduta dell’Afghanistan è stata per me come la perdita del passato e del futuro. Sotto il regime dei talebani, la vita non è mai sicura, né umana. Rimanere lì è come vivere in una prigione, una prigione in cui ora sono confinati milioni di afghani. Non ho avuto altra scelta che accettare di nuovo l’esilio”. La poetessa, scrittrice e attivista Somaia Ramish, che ora vive nei Paesi Bassi, è stata una delle principali ospiti della V edizione del “Ju Buk” Festival la rassegna letteraria al femminile ideata e diretta da Eleonora De Nardis che si è tenuta quest’anno tra Peschici (il 29 e il 30 luglio) e Scanno (1, 2 e 3 agosto). Ju Buk è, in dialetto scannese, la bisaccia del pastore, oggi è metafora di cibo per la mente e per l’anima. Alla poesia di Somaia Ramish e al suo libro “Parole dall’esilio” è stata dedicata l’anteprima della rassegna. Somaia Ramish, ci racconti il suo esilio. “Sono arrivata nei Paesi Bassi e vivo qui come rifugiata da quasi quattro anni. Tragicamente, la guerra, l’estremismo, la discriminazione e la violenza mi sono costati due volte la mia patria”. Perché due volte? “La mia vita è stata intimamente intrecciata con l’esilio e la migrazione. Una volta, da bambina, sono stata costretta a lasciare l’Afghanistan con i miei genitori. La mia infanzia è trascorsa all’insegna dello sfollamento e, fin dall’inizio, l’idea di “patria” mi è sembrata lontana e irraggiungibile. Anni dopo, dopo aver vissuto in Afghanistan per due decenni, sono stata nuovamente costretta ad andarmene, ma questa volta come madre con due figli, quando il Paese è caduto nelle mani dei talebani nel 2021. La storia, a quanto pareva, si stava ripetendo”. Intrattiene delle relazioni con persone, in particolare donne, che sono rimaste lì? Come stanno? “Parlare dell’Afghanistan di oggi, soprattutto delle sue donne, è straziante e profondamente doloroso. Faccio ancora fatica ad accettare la caduta del mio Paese, e trovo incomprensibile che il mondo sia rimasto in silenzio per quasi quattro anni, dopo aver consegnato l’Afghanistan a un regime terroristico. Nonostante la distanza, il mio legame con l’Afghanistan rimane intatto. Sono in contatto quotidiano con molte donne e ragazze in tutto il Paese che si battono, alzano la voce e tengono corsi online per le ragazze. Per me, sono simboli di coraggio e resilienza. Anche se il mondo chiude gli occhi sui loro diritti umani, sui loro sogni e sul loro futuro, continuano a resistere all’estremismo, alla discriminazione e all’ingiustizia. Non si sono arrese. Oggi, le ragazze afghane sono abbandonate nelle oscure segrete del tempo, dove persino i loro diritti umani più elementari sono stati violati. Lasciare le loro case è diventato un atto pericoloso e le loro vite sono segnate dalla paura e dalla reclusione. In verità, la loro condizione è peggiore di quella delle prigioniere. Stanno vivendo una forma di sepoltura vivente”. Lei vive in quell’Occidente che ha abbandonato e dimenticato la sua gente. “A dire il vero, c’è poca differenza per me tra vivere in Occidente e vivere in Afghanistan. Fisicamente sono in Occidente, ma la mia anima, la mia mente, il mio cuore rimangono nelle strade dell’Afghanistan. Ogni giorno piango insieme alle ragazze afghane. Affronto la paura, la disperazione, la discriminazione e l’ingiustizia attraverso i loro occhi e le loro voci”. Vivendoci, ma con uno sguardo in qualche modo traslato, che cosa pensa del mondo occidentale? “La libertà in Occidente, e tutti i valori che afferma di sostenere, mi sembrano privi di significato quando, in Afghanistan, alle ragazze è persino proibito andare a scuola. Quando a Gaza i bambini muoiono di fame. Quando il razzismo continua a incidere profondamente sul tessuto dell’umanità. Quando il costo di una singola cena o di una bottiglia di profumo equivale al reddito annuo di una persona in qualsiasi altra parte del mondo. Per me, quando parliamo di Europa, non parliamo di uno spazio geografico, ma di valori. Valori come democrazia, giustizia, diritti umani e libertà. Ma nessuna di queste parole ha un vero significato se non le esigiamo per tutti”. Si sente “tradita” dall’Europa? “Come scrisse Jean-Paul Sartre: “La mia libertà è la libertà degli altri”. L’Europa di oggi, con le sue frontiere chiuse e gli occhi chiusi, è in netto contrasto con i suoi ideali. Di fronte alla guerra, all’ingiustizia, al bullismo politico e alle palesi violazioni dei diritti umani, questo silenzio è quasi incredibile. Credo che il mondo sia in stato di emergenza. La situazione in Afghanistan e a Gaza rivela chiaramente un’indifferenza globale verso la profonda sofferenza umana e l’ingiustizia sistemica…”. E cosa pensa delle donne europee? “Amo tutte le donne del mondo. Credo profondamente in una sorellanza globale e nel potere che ne deriva. Le donne hanno spesso cuori luminosi e menti brillanti, e se la politica e il potere le lasciassero guidare, credo davvero che potrebbero rendere il mondo un posto migliore. E in particolare, per quanto riguarda le donne europee, direi: la maggior parte di loro è nata e cresciuta in libertà, tanto che a volte dimenticano quanto rara e preziosa possa essere quella libertà”. Quali sono le parole dell’esilio? “Parole dell’esilio è la voce della resistenza e della resilienza delle donne afghane. È una voce che chiama il mondo a non accettare l’oppressione politica imposta al popolo afghano e a non permettere alla politica di calpestare i diritti umani. La poesia della sofferenza umana è un grido di libertà e giustizia”. Lei più volte ha nominato la parola “Resistenza”. La poesia è un’arma? “Sì, esattamente. In una delle mie poesie ho scritto: “Caricate le vostre poesie di polvere da sparo”. Per me, questo significa che la poesia non riguarda solo l’estetica o la bellezza, può anche essere intima, potente e di profondo impatto. La poesia si plasma nel tessuto della società e non può rimanere indifferente alla condizione umana. La mia poesia è un frammento del mio essere, della mia esperienza vissuta, della mia memoria, della mia resistenza e del mio desiderio”. Ve n’è una, tra le sue, in cui si identifica maggiormente? “Tutte le mie poesie, in un modo o nell’altro, riflettono parti della mia identità. Ma qui voglio parlare di “Jabr”. Jabr significa coercizione, o una sorta di realtà forzata… qualcosa che ci viene imposto, soprattutto alle ragazze afghane. La loro lotta non è separata da me, vive dentro di me”. Qual è il suo dolore più grande e quale invece la speranza? “Il dolore più profondo per me è l’ingiustizia e la disuguaglianza, che siano su larga scala o nelle forme più piccole e sottili, sono sempre inquietanti e inaccettabili. Ciò che mi ferisce di più è la distribuzione ineguale della libertà e il modo in cui si manifestano doppi standard quando si tratta di diritti umani. In questi giorni, il mio cuore è pieno di un senso di disperazione più profondo. Eppure, mi aggrappo alla speranza che possiamo lavorare per un mondo in cui almeno le future generazioni di bambini cresceranno con giustizia e libertà”. Poveri e stranieri: scoprire i rom solo per odiarli di Luigi Manconi e Marica Fantauzzi Il Manifesto, 17 agosto 2025 Qualche giorno fa, a Roma, una casa-famiglia che ospita madri con bambini sopravvissuti a violenza domestica ha rischiato di essere coinvolta in un incendio scoppiato a poca distanza. Le fiamme si sono estese lungo l’argine del Tevere, lambendo la casa che confina con l’area boschiva da cui è scaturito il fuoco. Sul posto c’erano le mamme con i bambini, le operatrici, i volontari e una ventina di persone, tra cui dei ragazzini, provenienti dal campo rom vicino alla struttura. Il loro insediamento non era stato sfiorato dal fuoco ma, non appena intuita la direzione del vento e del fumo, quelle persone si sono precipitate a dare una mano. Sono rimaste lì, come cordone di sicurezza inamovibile, in attesa che arrivassero i pompieri. Le mamme e i bambini oggi sono al sicuro, hanno passato due notti in albergo per il troppo fumo nell’aria e sono poi rientrate nella struttura. Questa storia, per così dire, a lieto fine è avvenuta nelle stesse ore in cui in un’altra città si consumava una tragedia, di cui in questi giorni abbiamo conosciuto i dettagli. Una macchina a tutta velocità ha travolto Cecilia De Astis, 71 anni, causandone la morte. A guidare l’auto dei minori, il più piccolo di appena undici anni. I bambini, nati in Italia da famiglie di origine bosniaca, vivevano in un campo all’interno di un terreno privato, nella periferia di Milano. Nelle ore successive all’incidente, tra i primi a prendere la parola è stato Matteo Salvini, allargando, come da copione, la responsabilità per un fatto circoscritto ed evidentemente eccezionale a un’intera comunità. Non sorprende: parte della decretazione d’urgenza del nostro paese ha riguardato emergenze inesistenti, spesso in relazione a gruppi di popolazione percepiti ciclicamente come estranei, stranieri e quindi pericolosi. Tra questi, le comunità romanés hanno subito sin dagli albori della loro presenza in Italia (tra il 1400 e il 1500) e per tutti i successivi secoli forme specifiche di criminalizzazione. L’antropologo Leonardo Piasere, a proposito delle prime presenze dei rom in Europa, ha scritto: “Più il potere diventa sanguinario verso la disobbedienza dei rom, più essi diventano disubbidienti, e più il potere diventa impotente quando non raggiunge fino in fondo il suo scopo. I rom reagiscono come una sorta di ‘lotta di resistenza’. Una resistenza anomala rispetto agli altri popoli senza storia”. Essi, continua Piasere, pur con costi umani grandissimi, hanno continuato a vivere in Europa occidentale, finendo per mettere in discussione i principi stessi su cui si erano andati formando gli Stati-nazionali. (I Rom d’Europa, Laterza, 2004). Nel 2008 fu l’allora Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, a decretare “l’emergenza nomadi” a livello nazionale, imponendo misure straordinarie che furono poi annullate, poiché considerate ingiustificate, dal Consiglio di Stato tre anni dopo. Tra queste, ricordiamo quelle che imponevano la schedatura di tutti gli abitanti dei campi, compresi i minori, tramite la raccolta delle impronte digitali. Non troppo diversamente da quanto avveniva in Francia tra il 1912 e il 1969, in cui vigeva la legge che obbligava i rom a munirsi di “libretto antropometrico”, con una serie di limiti alla libertà personale. L’allora prefetto di Roma, Carlo Mosca, si sottrasse, finendo per essere destituito dal suo incarico. Oggi come all’epoca l’arroganza del potere politico nell’individuare il nemico da stigmatizzare non prevede deroghe, neanche nei confronti dei più piccoli. La voluttà di punire può diventare accecante: nessuno è più veramente uomo se detenuto, nessuno è più veramente bambino se compie un reato. La spersonalizzazione si spinge fino a negare la corporeità dell’uomo e la vulnerabilità del bambino. Ecco allora ritornare l’eco di una vecchia proposta, pretestuosa quanto inutile, che vorrebbe abbassare l’età imputabile per consegnare all’opinione pubblica un ologramma di sicurezza. Dai contorni indefiniti e dal contenuto impalpabile, essa è stata prosciugata fino all’osso: di lei resta uno spazio vuoto nel quale issare la propria bandiera, sempre più logora. Se è vero che, quando si parla di persone appartenenti alla galassia delle comunità rom in Italia l’astio politico e mediatico assume contorni difficilmente replicabili, è anche vero che il nemico per eccellenza non sembra essere la persona rom in sé, ma la persona rom che vive all’interno del campo o in contesti abitativi fragili. Nonostante sia una esigua minoranza quella costretta a vivere in alloggi fatiscenti (rispetto alla totalità di persone rom presenti in Italia), chi vive nei campi suscita panico morale, riprovazione e sospetto. È, come ha scritto Alessandro Simoni, “il Rom visibile” (che ricalca l’immagine stereotipata) a indurre una reazione repressiva. Quasi fosse una scelta personale quella di essere privati delle risorse materiali e immateriali per sopravvivere, il gruppo che si trova ai margini non solo è escluso dal tessuto sociale, ma è anche visto con sospetto perché osa proseguire la sua vita in quelle condizioni. È la povertà, unita a un’identità culturale diversa da quella percepita come italiana, a destare fastidio, e quindi ignorata, se non quando emerge nei suoi epiloghi più tragici. E poiché, per una qualche ragione non ancora abbastanza approfondita, sulla questione rom c’è stata storicamente una qualche convergenza tra governi di destra e di sinistra, è forse il caso di dire che quanto fatto finora è stato oltre che insufficiente profondamente ingiusto e scandaloso. Quando qualche giorno fa quelle venti persone sono corse verso la casa-famiglia per mettere al sicuro le mamme con i bambini, sapevano di vivere all’interno di una comunità territoriale. E la costruzione di comunità, nelle nostre metropoli, prevede la presenza del conflitto ma anche di forme di convivenza prodotte da politiche sociali adeguate che diano spazio a modalità di riparazione e di mutuo-aiuto. Solo così, forse, la sicurezza tornerà ad avere un qualche significato. Migranti. Lampedusa, il lutto negato alla strage senza risposte di Michele Gambirasi Il Manifesto, 17 agosto 2025 È avvenuto in silenzio e in fretta, davanti a pochissime persone, il rito funebre delle prime undici salme dei migranti morti mercoledì scorso a poche miglia dalle coste di Lampedusa. I feretri sono giunti ieri mattina a Porto Empedocle a bordo del traghetto di linea Las Palmas da Lampedusa, dove erano approdati insieme alle sessanta persone sopravvissute al naufragio. Alle prime ore del mattino, in una zona del porto inaccessibile e riservata, sotto gli occhi di pochi giornalisti e di qualche autorità, sono state tratte fuori dai furgoni 4 delle 11 bare trasportate fuori dall’isola. Tra queste anche quella di Sihoom, la bambina somala di un anno e mezzo annegata insieme al padre quando l’isola era oramai in vista. Un breve rito interreligioso, lontano dai familiari, prima della tumulazione dispersa nella provincia siciliana. La prefettura di Agrigento ha gestito la suddivisione: tre a Canicattì, altri tre a Palma di Montichiaro, due a Grotte, due a Castrofilippo e uno a Joppolo Giancaxio. La bara della bimba somala è stata trasportata insieme a quella del padre a Canicattì, ma la sua tumulazione è al momento in sospeso: ieri la madre, ancora nell’hotspot di Lampedusa, ha chiesto di poter stare vicino alle tombe dei suoi cari. La disponibilità l’aveva data anche il sindaco di Lampedusa, Filippo Mannino: sono terminati i lavori di ampliamento del cimitero dell’isola, i posti liberi sono 500. Sullo stesso traghetto che ha ospitato i feretri, altri 259 migranti sono arrivati a Porto Empedocle da Lampedusa per essere trasferiti all’hub di Catania e nei centri per minori non accompagnati dell’isola. Non sono superstiti del naufragio, sono stati individuati come vulnerabili in base al vademecum del Viminale. Nel gruppo, con diverse donne incinte, anche al sesto mese, provenienti da Guinea ed Egitto, ci sono coloro che portano i segni delle gravi violenze subite prima della partenza dalla Libia. I medici hanno riscontrato mutilazioni genitali, un uomo che ha perso l’udito, alcuni hanno paresi al volto, in un caso un deficit visivo e un altro di epilessia. Il risultato della cerimonia funebre al livello massimo di discrezione è quello più gradito all’esecutivo: nessuna immagine di bare in fila, nessun momento corale che possa sollevare ulteriori domande o destare una sgradita indignazione, la strage di Ferragosto dopo una mezza giornata di dichiarazioni contro “l’inumano cinismo dei trafficanti” è già inghiottita nel silenzio. Una dispersione dell’attenzione che riuscì nel caso del naufragio di Roccella Jonica nel giugno del 2024, avvenuto a 120 miglia dalle coste calabresi, quando le salme recuperate delle 56 vittime vennero distribuite su più porti nel corso dei giorni. Qualcosa di simile rischiò di avvenire anche a Cutro, dove a febbraio 2023 94 persone persero la vita a pochi metri dalla costa. Allora il Viminale cercò di trasferire le bare a Bologna senza l’ok delle famiglie, che arrivate fuori dal PalaMilone di Crotone bloccarono la strada in protesta fermando l’operazione. Il giorno dopo si sarebbe tenuta la disastrosa conferenza stampa del governo. “L’impressione è che anche questi momenti di ricomposizione debbano essere sottratti alla vista, alla riflessione, ai dubbi. Già 11 bare, neanche tutte quelle delle vittime del naufragio, sarebbe stata una scena che sbigottisce. E non credo ci sia stata risparmiata per la nostra serenità, quanto per la serenità di chi conduce le danze” racconta l’ammiraglio della Guardia costiera in congedo, Vittorio Alessandro, che ha assistito al rito funebre. Assieme al lutto negato, rimangono ancora gli interrogativi sulla dinamica del naufragio: “Senza ricomposizione a terra, quelle morti rimangono sospese. La magistratura vedrà, ma tutto lascia supporre che ci sia stata ancora una errata considerazione del rischio” dice. Il nodo da sciogliere è se l’imbarcazione fosse stata avvistata prima che si rovesciasse: “Se qualcuno non dice con nettezza il contrario sono autorizzato ad avere il dubbio. È negli atti dei processi questa idea, e tutto sommato sta anche nelle direttive, che se una barca procede è un problema di polizia. Mentre noi sappiamo che queste persone muoiono già prima di partire, è la visione del soccorso che ha cambiato asse di indirizzo. È una linea interpretativa che può portare a molti altri danni” spiega l’ammiraglio in concedo. Migranti. Mediterranea è di nuovo in mare: con un ospedale a bordo di Giorgio Brizio Il Domani, 17 agosto 2025 Nonostante l’attacco del governo e il rinvio a giudizio per favoreggiamento dell’immigrazione irregolare una nuova barca è in servizio. È arrivata il 16 agosto al largo della Sicilia. Nonostante l’attacco del governo, lo spionaggio dei servizi segreti e il rinvio a giudizio per favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, Mediterranea Saving Humans torna in mare. Lo fa in un momento significativo, visti i naufragi degli scorsi giorni e il contemporaneo blocco amministrativo agli assetti della “flotta civile” che potrebbero evitarli - nell’ultimo mese prima Sea Watch 5, poi Aurora, per ultimo Seabird 1. La nuova nave, Mediterranea Ship, è salpata quattro giorni fa dal porto spagnolo di Burriana, base logistica di molte organizzazioni attive nel soccorso in mare. Quando è arrivata sabato 16 agosto al largo della Sicilia, l’altra nave di Mediterranea Saving Humans, Mare Jonio, è uscita dal porto di Trapani per andarle incontro. Mare Jonio era arrivata in mare nell’ottobre del 2018, a cinque anni esatti di distanza dalla prima strage di Lampedusa, come “azione di disobbedienza civile ma di obbedienza morale”, in un momento in cui non c’era alcuna altra nave delle Ong in zona di ricerca e soccorso. Poco più di cinque anni dopo, la flotta civile è più numerosa ma il tentativo del governo di bloccarla ancora più forte. In questi anni Mediterranea ha creato una partecipata rete di decine di gruppi locali, gli equipaggi di terra, e lanciato operazioni in altri luoghi di violazione dei diritti umani, come la Palestina e l’Ucraina. Il mare, però, è sempre rimasto il centro delle sue operazioni. Per il simbolico passaggio di testimone tra Mediterranea Ship e Mare Jonio, quest’ultima è partita da Trapani con a bordo materiale tecnico, disegni fatti dai bambini di due classi elementari di Brancaccio per loro coetanei che verranno soccorsi, e una foto del cooperante Mario Paciolla, trovato ucciso in Colombia. Sono in effetti la cooperazione e il sostegno reciproco che rendono possibile la partenza della nuova nave, che prima apparteneva all’organizzazione Sea-Eye, ora in mare con un assetto più piccolo e veloce. “Mediterranea Ship per Mare Jonio”, dice in radio il capitano di quest’ultima al momento dell’incontro, che avviene a suon di sirene in acque internazionali, a 25 miglia dalle coste siciliane. “Salutiamo l’incontro con una sorella che ci affiancherà in mare per soccorrere sempre più persone”. Uno dei rhib - i gommoni veloci con cui si effettuano i soccorsi - viene calato dalla gru di Mediterranea Ship e trasborda attivisti, giornaliste e ospiti di Sea-Eye venuti a dare il proprio sostegno all’equipaggio già a bordo di Mediterranea Ship, che da settimane faceva training a Burriana e che da domani arriverà in zona Sar. Il salto di qualità è evidente: Mare Jonio è lunga 37 metri, Mediterranea Ship 54. La prima può avere un equipaggio massimo di 12 persone, la seconda di 33. Questo significa che molte più persone potranno assistere i naufraghi soccorsi. A bordo i membri dell’equipaggio provengono da sette nazionalità, tra marittimi, soccorritori, tecnici, team sanitario numeroso. La grande novità per Mediterranea è la presenza a bordo di un ospedale, che può garantire assistenza medica alle persone soccorse - la cui mancanza è uno dei tanti motivi che le spinge a mettersi in viaggio - ma che vuole essere un servizio per tutti coloro che si trovano in difficoltà nelle acque del Mediterraneo centrale, con un’idea di soccorso diffusa e di cura a tutto tondo. Soccorso che grazie ai nuovi rhib avrà la capacità di dare risposta rapida alle situazioni di pericolo, con una tempestività che in mare può essere decisiva. In 20 missioni, la nave che d’ora in poi sarà Mediterranea ha già salvato 3700 persone, e continuerà a salvarne. La strategia dei governi europei è quella di impedire la collaborazione in mare delle organizzazioni dei reciproci Paesi, ma l’arrivo di una nuova nave, che fa ora parte della famiglia di Mediterranea - con Mare Jonio e Saphira, che resteranno di base a Trapani - e di quella più ampia e variegata della società civile, rilancia l’urgenza di essere dove è necessario. “Le navi del soccorso non esistono. È una definizione che questo Paese ha creato per concentrare la criminalizzazione della solidarietà, poiché tutte le navi sono obbligate al soccorso”, dice la presidente di Mediterranea Laura Marmorale. Le navi sono tutte, come si legge nel celebre libro di Baricco, occhi del mare. Da oggi ce n’è una grande in più. La fame degli altri: sconfiggerla si può, manca la volontà? di Ennio Vivaldi Il Domani, 17 agosto 2025 L’obiettivo era quello di sradicarla a livello globale nel 2030: possiamo dire già che non verrà raggiunto. Un abitante del pianeta ogni 11 non ha abbastanza da mangiare. Abbiamo esempi di come si può sconfiggere il fenomeno, il Cile è uno di questi. Invece abbiamo lasciato indietro il popolo haitiano. C’è chi non soffre la fame e chi sì. Un abitante del pianeta su undici appartiene a questo secondo gruppo. Il 29 per cento della popolazione mondiale si trova in una situazione di moderata insicurezza alimentare. Se ci siamo mai posti (noi, paesi che facciamo parte di organizzazioni multilaterali come l’Onu e la Fao) l’obiettivo di sradicare la fame entro il 2030, possiamo già anticipare che questo bel proposito non si realizzerà. Le grandi proposte in materia di salute pubblica hanno due ambiti motivazionali: uno etico e l’altro pragmatico. Il primo si riferisce a chi soffre la fame, a chi vede un altro soffrire la fame, a chi vede i propri figli soffrire la fame. Il secondo ambito si riferisce ai meccanismi attraverso i quali la salute della popolazione determina il futuro della società nel suo complesso: l’efficienza della forza lavoro, le migrazioni, le tensioni politiche, la criminalità, lo sviluppo del potenziale intellettuale dei suoi abitanti. Nel 1952 in Cile venne creato un Servizio Sanitario Nazionale, promosso da due medici con visione politica differente, Salvador Allende ed Eduardo Cruz-Coke. L’uno enfatizzava il concetto per cui ogni persona ha diritto di accedere a un’assistenza sanitaria dignitosa; l’altro sosteneva che, affinché il paese si sviluppi, è necessario disporre di una forza lavoro efficiente e produttiva. Queste due linee convergenti permisero la creazione di un sistema sanitario pubblico molto ben strutturato. Le stesse motivazioni etiche e pragmatiche hanno spinto il Cile a sradicare praticamente la malnutrizione infantile. Nel 1954 fu creato il Programma Nazionale per l’Alimentazione Complementare, per monitorare le donne incinte e i bambini che, quando Allende assunse la presidenza della Repubblica nel 1970, iniziarono a ricevere mezzo litro di latte al giorno. Il processo culminò quando il dott. Fernando Mönckeberg creò un istituto transdisciplinare presso l’Università del Cile e un programma che avrebbe praticamente sradicato la malnutrizione infantile. Mönckeberg avanzò una tesi innovativa: poiché la malnutrizione infantile precoce interferisce con lo sviluppo del sistema nervoso centrale in un modo difficilmente reversibile, coloro che ne hanno sofferto non sarebbero in grado di integrarsi pienamente in nuove modalità produttive. Questo chiude il cerchio povertà-fame-sottosviluppo-povertà e si evince che senza l’eliminazione della fame non esiste progresso sociale. E quanto detto, forse, intacca anche l’idea di democrazia liberale: a cosa servono il diritto di voto e l’autodeterminazione se non si consente all’individuo di sviluppare fin dall’inizio il proprio potenziale? Altra domanda, ancora più scomoda: vogliamo davvero avere una cittadinanza intelligente, nel nostro paese e nei paesi lontani? La persistenza per decenni di questa politica pubblica in Cile ha praticamente eliminato la malnutrizione infantile, che raggiungeva il 34 per cento negli anni Sessanta, e ridotto la mortalità infantile da 128 su mille nati vivi nel 1960 a 6 nel 2023. Si tratta di un parallelismo causale, poiché la malnutrizione è un fattore di rischio per le malattie infettive, la principale causa di mortalità in questa fascia d’età e, infatti, si stima che a livello mondiale il 45 per cento della mortalità infantile sia associata alla malnutrizione. L’Onu si propone di fare del principio di “non lasciare nessuno indietro” la motivazione universale dell’Agenda 2030, il cui Obiettivo di Sviluppo Sostenibile numero 2 è “Fame Zero”. Un intero popolo che ci siamo lasciati alle spalle è Haiti. La prevalenza dell’insicurezza alimentare nel paese è aumentata dal 35 per cento del 2019 al 48 per cento del 2024. Due milioni di persone soffrono la fame a livelli di emergenza e 6.000 sfollati interni la patiscono in modo catastrofico. La Missione di Stabilizzazione delle Nazioni Unite ad Haiti, in cui il Cile ha svolto un ruolo di primo piano dalla sua istituzione nel 2004 fino alla sua conclusione nel 2017, ha sostenuto il rafforzamento delle istituzioni locali, la formazione tecnica e operativa della polizia nazionale e lo sviluppo di infrastrutture importanti come strade, sistemi di acqua potabile e organizzazioni comunitarie. La missione ha riguardato anche gli aiuti umanitari forniti durante le emergenze del 2010 e del 2016. Se dopo tutti questi sforzi, vediamo oggi che un haitiano su due non ha abbastanza cibo, il mito di Sisifo sembra rappresentare l’analogia perfetta per ciò che sta accadendo ad Haiti. Ogni tanto, con ingenti sforzi da parte di molti organismi e paesi, si riesce a superare una situazione d’inedia e di instabilità istituzionale, per poi assistere a un nuovo crollo. È quindi fondamentale ridefinire la cooperazione con Haiti, cercando soluzioni stabili e durature sia per quanto riguarda la sua capacità di produrre cibo, che per la solidità delle sue istituzioni e dell’ordine pubblico. È necessario diagnosticare e curare le basi strutturali della fame, andando oltre il mero soccorso che perpetua il precario equilibrio che ha portato a questa situazione, che deploriamo e cerchiamo di cambiare. È fondamentale accettare che non dobbiamo lasciare indietro nessuno, una decisione che, come abbiamo detto, può essere basata su ragioni etiche, pragmatiche o entrambe. In alternativa, possiamo rassegnarci (e non necessariamente con la tristezza che solitamente accompagna la rassegnazione) al fatto che alcuni o molti rimarranno indietro, soffriranno la fame o moriranno per mancanza di cibo. Dal momento che risulta scomodo esprimerlo in questi termini, chi sceglie questa linea deve evidentemente considerare la fame come qualcosa di inevitabile e ingestibile, ma tollerabile. Qualcosa di simile si può dire del cambiamento climatico e, perché no, degli obiettivi di sviluppo sostenibile nel loro complesso, aggiungendo che il fatto che questi obiettivi non vengano raggiunti non significa che non ci sia progresso; anzi, questo potrebbe addirittura essere facilitato. Per giustificare la persistenza della fame si può addirittura invocare Darwin, probabilmente uno degli scienziati più brillanti della storia e certamente il più travisato, e sostenere che in questa lotta per la sopravvivenza, che tuttavia si traduce nel progresso dei sopravvissuti, molti dovranno necessariamente restare indietro. Due considerazioni finali. Primo, Haiti non ha armi nucleari da temere né petrolio da cercare. Secondo, il titolo di questo articolo è incontestabile, perché la fame appartiene sempre agli altri, non a noi che sappiamo leggere i giornali e scrivere su di essi. Stati Uniti. Alligator Alcatraz non gli basta, DeSantis raddoppia di Davide Longo Il Manifesto, 17 agosto 2025 Il governatore trumpiano annuncia un nuovo centro di detenzione. “Rimuovere gli immigrati”. Attivisti per i diritti civili e ambientalisti in rivolta. “Stiamo compiendo un passo importante per portare a termine la missione del presidente Trump: chiudere i confini, rafforzare le leggi sull’immigrazione, rimuovere gli immigrati illegali dalla nostra società e rimandarli nei loro Paesi d’origine”. Con queste parole Ron DeSantis, governatore repubblicano della Florida, ha annunciato giovedì scorso l’apertura di un secondo centro di detenzione per migranti dopo l’inaugurazione del famigerato Alligator Alcatraz. La nuova struttura troverà posto nei locali abbandonati della Baker Correctional Institution, una prigione statale di media sicurezza attiva fino al 2021, che sorge a poca distanza da Sanderson, nel nord della Florida, a poco più di quaranta chilometri dalla città di Jacksonville. Il nuovo centro di detenzione dovrebbe costare sei milioni di dollari, avrà una capacità di 2000 posti entro fine anno e sarà gestito dallo Stato della Florida: a guardia dei detenuti sarà impiegata direttamente la Guardia Nazionale. La decisione di costruire un nuovo centro di detenzione ha scatenato l’opposizione dei Democratici e di numerose associazioni ambientaliste e per i diritti civili. Nikki Fried, leader locale dei Dem, ha dichiarato che “esiste già un centro di detenzione per immigrati nella contea di Baker, noto per il trattamento riprovevole riservato ai detenuti, e una seconda struttura promette di essere più o meno la stessa cosa”. Il centro di detenzione menzionato da Fried - il Baker County Detention Center - sorge a Macclenny, meno di mezz’ora di auto dal sito della nuova struttura, e da anni è al centro di polemiche per i maltrattamenti e gli stupri subiti dai detenuti e denunciati dalla American Civil Liberties Union (ACLU), che ha promosso petizioni e cause legali per far chiudere il centro. Fried ha poi dichiarato che “i cittadini della Florida vogliono che i soldi delle loro tasse vengano utilizzati per espandere Medicaid, finanziare le scuole pubbliche e costruire alloggi a prezzi accessibili, non per riempire le tasche di chi si arricchisce grazie ai campi di detenzione”. Anche secondo i locali dirigenti di ACLU “è completamente inaccettabile che i dollari dei contribuenti vengano utilizzati per finanziare le politiche di deportazione di massa promosse da Trump”. Tuttavia, la costruzione di un nuovo centro di detenzione è vitale per soddisfare i ritmi di deportazione pretesi da Washington, soprattutto ora che la capienza di Alligator Alcatraz non può essere aumentata. Il 7 agosto, infatti, la giudice federale Kathleen Williams ne ha ordinato la sospensione dei lavori di ampliamento, e per diversi motivi. Oltre a sorgere su un territorio di proprietà della tribù nativa dei Miccosukee, che hanno fatto causa insieme agli ambientalisti, la struttura può reggere soltanto il passaggio di un uragano di categoria 2, mentre nell’area ci si aspetta l’arrivo di uragani di forza ben superiore, che metterebbero a rischio la vita dei detenuti e l’esistenza stessa del centro di detenzione. Inoltre, nella struttura è stato distribuito cibo avariato ai detenuti, i quali sono costretti a stare per 23 ore al giorno in gabbie a gruppi di dodici o quindici, con un solo water a disposizione. Ancora, secondo gli Amici delle Everglades e il Centro per la Diversità Biologica, due organizzazioni ambientaliste, i lavori di ampliamento di Alligator Alcatraz rischiano seriamente di inquinare la falda acquifera che scorre vicino al centro e rifornisce di acqua pulita tutto il sud della Florida. Un disastro ambientale che ora si teme potrebbe replicarsi anche nel caso della Baker Correctional Intitution, che a sua volta sorgerà nel territorio protetto della Osceola National Forest. Ucraina. Trump sceglie la Russia, l’Europa scelga il realismo di Francesco Strazzari Il Manifesto, 17 agosto 2025 Invece che impartire lezioni sui principi, rinfocolando politiche belliciste che scardinano il patto sociale, gli europei potrebbero impegnarsi in opzioni più realistiche. Il Donald Trump della pace come risultato della forza, quello che minaccia sanzioni e lancia ultimatum, non si è presentato in Alaska. A scendere la scaletta dell’aereo, zigzagando incerto sul tappeto rosso, si è affacciato l’altro Trump, quello che chiama Putin “boss” e “uomo d’acciaio”. Poco prima, Lavrov aveva indossato una felpa con la scritta CCCP: per quasi tre ore, in una sala tutta al maschile, i russi si sono impegnati a vincere l’ultima guerra, la Guerra Fredda, ragionando dell’Ucraina e del mondo a partire da come furono umiliati, quando i repubblicani Usa gettarono le nuove fondamenta della sicurezza europea e dell’ordine globale. Evidentemente, per passare da paria a pari, e arrivare all’applauso di benvenuto di Trump, Putin ha ritenuto giustificate le cataste di cadaveri e l’esaltazione della passionarietà patriottica della nazione russa. Trump era tornato alla Casa Bianca sostenendo che per la pace fosse necessario esercitare pressioni sull’Ucraina e Zelensky, coltivando le relazioni con la Russia e Putin. Nel giro di poco, però, si era reso conto che bisognava rovesciare la strategia, lanciando ultimatum a Mosca, minacciando sanzioni e persino muovendo sommergibili nucleari, mentre si coltivano le relazioni con Nato ed europei. Si dirà che per i contenuti del summit di Anchorage sarebbe bastata una e-mail. Ciò che resta, però, è la teatralità strumentale dell’evento, che ci ha regalato un Putin gongolante e un rublo rivalutato, mentre il leader Maga, cultore dell’arte del deal, è tornato a Washington con in mano nient’altro che l’invito a un nuovo incontro. Prigionieri delle riedizioni autoritarie delle proprie guerre al crimine e alla droga, in casa come in America latina, gli Usa di Trump guardano alla Cina e hanno fretta di disimpegnarsi dalle guerre in Europa. La fascinazione per il Cremlino non è certo una novità: risale all’edizione russa di Miss Universo 1987, quando nacque persino il desiderio di una Trump Tower a Mosca. Si dice che dopo l’assalto a Capitol Hill ci siano state diverse telefonate tra Putin e Trump. Ad Anchorage, Putin ha piazzato la propria narrazione sul palcoscenico globale: la Russia è superpotenza e l’unico modo per uscire da una guerra rispetto alla quale non si concede nulla è ridisegnare il quadro complessivo: ucraini ed europei vanno subordinati alla normalizzazione delle relazioni Usa-Russia. Parlando di dazi con il ministro di Oslo Jens Stoltenberg, che Trump aveva conosciuto alla guida della Nato, il presidente Usa ha nuovamente esternato il proprio interesse per il Nobel per la Pace. Per blandirlo ulteriormente, in Alaska Putin ha dichiarato che, se Trump fosse stato presidente nel 2022, la guerra in Ucraina non sarebbe iniziata. Un trionfo di gratuita retorica: quando Putin lanciò l’invasione su larga scala, Trump lo definì “un genio”. Insomma, non c’è stato nemmeno bisogno di mettere al centro gli affari economici, per iniettare un po’ della sintonia politica che solitamente anima i grandi businessmen. L’adesione al copione è stata tale che Trump ha persino esaltato la telefonata con il dittatore bielorusso Lukashenko, al potere dal 1994 e pronto ad accogliere i nuovi missili russi puntati sulle capitali europee. Il primo summit di Anchorage era stato con i cinesi: correva il 2021 e governava Biden, che definiva Trump “killer”. Nel giro di un quarto d’ora, Pechino fece capire agli Usa che il mondo correva verso il multipolarismo e che loro non erano venuti a prendere lezioni. In questa “seconda Anchorage”, Trump ha dovuto scegliere fra Europa e Russia. Ha deciso di continuare a trattare gli europei come vassalli: viene chiesto loro un tributo (spesa militare), non certo un contributo a definire le questioni strategiche. Peccato che, per quanto sia importante per gli equilibri globali, la guerra in Ucraina si consumi sulla frontiera europea. Gli europei, inclusi i britannici, non hanno alternative se non quella di cercare di rispondere congiuntamente. Per Putin lo scambio, magari all’ombra della ripresa del dialogo strategico e nucleare, deve riguardare territori come l’intero Donbas che oggi non sono nemmeno conquistati dalla Russia: la contropartita sarebbe la cessazione delle ostilità. Ma davanti a una Russia che non vuole nemmeno parlare di cessate il fuoco, che (con la Casa bianca) scommette sulla vittoria delle destre nazionaliste in Europa, e ha già usato territori occupati come base per lanciare nuove offensive, cosa potrà fungere da deterrente domani? Nel 1996, Mosca firmò la pace con i separatisti di Grozny, ponendo fine alla sanguinosa guerra di Cecenia. Nel 1999, Vladimir Putin cavalcò il deterioramento di quella pace per accendere la seconda guerra in Cecenia. Il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele, così come del Sahara occidentale quale parte del Marocco, sono già oggi tributi all’uso della forza da parte della presidenza Trump. Forse, invece che impartire lezioni sui principi, illudendosi che gli Usa forniscano garanzie dove non vedono un loro interesse vitale e rinfocolando politiche belliciste che scardinano il proprio patto sociale, gli europei potrebbero impegnarsi in opzioni più realistiche: fra queste, oltre a quelle che riguardano gli aspetti umanitari, la democrazia e la società civile, il diritto di Kiev a un esercito sufficientemente grande da potersi difendere, l’accettazione russa di una presenza militare europea regolamentata sul suolo ucraino, l’impegno a mantenere scorte di armi da consegnare in caso di nuova invasione.