Quanto è indipendente il Garante nazionale delle persone private della libertà personale? di Claudio Bottan vocididentro.it, 16 agosto 2025 Il Re è nudo. C’è tensione negli uffici del Garante nazionale dei detenuti. Una spaccatura che si protrae da mesi ed è passata, tra l’altro, anche attraverso le significative dimissioni di Michele Passione, storico avvocato del Foro di Firenze che ha lasciato dopo dieci anni l’incarico di legale dell’Ufficio del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. “Il Garante non riferisce in Parlamento, non fa visite nelle carceri come andrebbero fatte, non è andato nel Cpr in Albania, non mostra di essere sempre super partes. Lasciare era inevitabile”. Dopo l’avvocato Passione, si sono dimesse le colleghe Brucale e Calcaterra e lo psichiatra Rossi, ma altri esperti sono pronti a lasciare. “Mancanza di terzietà, niente più visite a sorpresa in carcere e neppure la relazione al Parlamento”. Fratture che a ridosso di Ferragosto hanno raggiunto vette notevoli. Ad adirarsi con l’istituzione retta da Riccardo Turrini Vita è stato direttamente il governo, lo stesso esecutivo che finora il Garante si era guardato bene dal criticare. E che ha indotto il collegio che dovrebbe tutelare i detenuti a cambiare versione su un tema molto delicato: quello dei suicidi in carcere. La scorsa settimana il Garante ha redatto un report sulle persone decedute in carcere e, in particolare, su coloro che si sono tolte la vita in cella. Niente di strano: la redazione dei report dovrebbe essere una delle attività di routine affidate a questa istituzione. Osservando i fatti, per la verità, questo Garante ne redige molti meno del precedente. I numeri contenuti in questo dossier sono molto sconfortanti. Eppure, per candida ammissione del Garante, provengono da una rielaborazione dei dati forniti dal ministero della Giustizia e non, come sarebbe auspicabile, da fonti indipendenti. Quando al ministero della Giustizia hanno letto tra i titoli dei media “allarme del Garante” sono balzati dalla sedia. Come se scrivere dei numeri, nero su bianco, con i toni seri che la situazione richiede, fosse lesa maestà. Dopo la girandola convulsa di telefonate e reprimende partita tra la località di vacanza del ministro Nordio e gli uffici di via Arenula, è stato vergato un comunicato dai toni piccati con l’intento di smentire il Garante e di affermare che la situazione non è poi così drammatica: “Nessun allarme suicidi come stamani paventato dal Garante. Il dato numerico, certamente sconfortante, registrato nei primi otto mesi di questo anno è sotto la media nazionale dell’ultimo triennio”, si legge in una nota del ministero. Che aggiunge: “È pur sempre doveroso segnalare, per consentire una lettura corretta dei dati, che per quanto sconfortante e per quanto nella sua drammaticità imponga la profusione di un diuturno e inesausto impegno il dato è al di sotto della media mensile ereditata dal Governo nel 2022”. Insomma, nessun allarme, è colpa di coloro che ci hanno preceduto. Nel giro di poche decine di minuti è arrivata la rettifica dall’Ufficio del Garante a firma dell’avvocato Irma Conti: “Precisazioni del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale: su suicidi trend in calo”. “In riferimento a quanto riportato oggi dall’Agenzia AGI, che riprendendo i dati pubblicati dal Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale (Gnpl), titola la notizia con un presunto “allarme” del Garante stesso in relazione al numero dei suicidi nelle carceri, si smentisce questa interpretazione, ed in linea con quanto rilevato dal Ministero della Giustizia, si precisa quanto segue. Al 31 luglio 2025 si registra una diminuzione significativa del numero di suicidi nelle carceri italiane rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. I dati, come riportati dallo stesso Report pubblicato, evidenziano: al 31 luglio del 2024 un totale di 58 suicidi, che scendono a 46 allo stesso periodo di quest’anno, con una riduzione quindi di 12 unità. “Questa riduzione, prosegue il comunicato, può rappresentare un possibile miglioramento delle condizioni detentive o dell’efficacia delle misure di prevenzione adottate. Il trend, illustrato nel grafico n. 2 del Report, evidenzia in modo chiaro il divario tra i due anni. Ogni altra interpretazione è, pertanto, fuorviante della realtà dei fatti” afferma l’avvocato Conti. La contabilità mortuaria, tuttavia, è smentita dai numeri che si basano su un’interpretazione di comodo delle ‘morti per cause da accertarè tra le quali vengono classificate dal DAP le vite di coloro che hanno provato ad uccidersi in carcere, come accaduto al 17enne Danilo Rahi, ma sono morti all’ospedale dopo un’agonia indicibile. A stretto giro arriva anche l’intervista del prof. Mario Serio, altro componente del collegio del Garante: “La rettifica al rapporto sui suicidi non è stata condivisa nel Collegio e forse nemmeno dal Presidente, dice. Per inciso, dice pure che il Rapporto non è stato nemmeno visionato dal Collegio che l’ha presentato”. Dice che quello che è successo, il Ministro che si ribella al Rapporto che qualifica come preoccupante il fenomeno dei suicidi in carcere e la sua indiscussa progressione e l’immediata rettifica mette in crisi l’autonomia del Garante, autorità indipendente di garanzia”. “Benvenuto, Prof. Serio” scrive sui social l’avvocata Emilia Rossi, già componente del Collegio del Garante presieduto dal Prof. Mauro Palma. “Qualche indizio di questa crisi si era raccolto, per la verità, in questo anno e mezzo di mandato: a cominciare dal rifiuto di incontrare il Collegio uscente per il passaggio sostanziale di consegne (e di esperienze) tanto più necessario per una Istituzione giovane come il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, a seguire, per quanto risulta dal sito, con l’assenza quasi totale dei rapporti sulle visite effettuate, che dovrebbero essere 121 stando al numero degli Istituti visitati secondo il report recentemente pubblicato, oltre che delle relative Raccomandazioni (sostanziali, non formali) che costituiscono il cuore della funzione preventiva del Garante, con il computo solo numerico e chilometrico delle visite (accessi) effettuate nel corso dell’anno e mezzo di mandato che ne attesta impietosamente l’estrema velocità, con la mancanza di visite (effettive) ad altri luoghi di privazione della libertà. Per finire, anche se non è l’ultimo degli indizi in ordine di importanza, con la mancata presentazione della Relazione annuale al Parlamento. Bene, Prof. Serio, il Re è nudo. “Però, a ben vedere”, prosegue Rossi, “il fatto che Lei sia definito (e si sia definito, in almeno un’altra intervista) membro “in quota Cinque Stelle” e “all’opposizione”, la dice molto lunga sui criteri di spartizione partitica seguiti nella composizione del Collegio: non esattamente una garanzia di autonomia e indipendenza dal potere politico e dai partiti che hanno partecipato alla composizione. È questo il Re nudo che ci viene rilevato adesso”. “Ho scritto una lettera al presidente, Riccardo Turrini Vita, per chiedere chiarimenti sulla rettifica - inviata, a mia insaputa, a nome dell’intero Collegio - che, oltre ad allinearsi prontamente alla posizione del Ministero di Giustizia, sostanzialmente smentisce il nostro stesso rapporto sui decessi di detenuti in carcere. Attendo una risposta”. Il professor Mario Serio - che in quota opposizione fa parte dell’ufficio del Garante nazionale dei diritti delle persone private di libertà insieme alla terza componente, l’avvocata Irma Conti, scelta dalla Lega - torna a sottolineare il suo dissenso con il modus operandi dell’autorità nata per essere terza e indipendente, e finalizzata a garantire il rispetto dei diritti fondamentali delle persone recluse. “Non si era mai sentito che il controllato si ribella al controllore che fa il proprio dovere. Contestando il fatto che il Collegio possa esporre analisi critiche, si sta davvero mettendo in crisi il modello di autonomia del Garante, che è tenuto ad esprimere pareri e dare raccomandazioni”. “La nota del Collegio sembra portare la firma dell’avvocata Irma Conti”, sottolinea Eleonora Martini nell’intervista a Mario Serio. “La quale evidentemente ha un rapporto privilegiato con il presidente Turrini Vita, rispetto a lei. È così?”. “Non credo che abbia un rapporto preferenziale. Forse il presidente non era neppure stato informato, come è già accaduto in altre occasioni”. Ecco, Il Re è nudo. Il giorno di Ferragosto un suicidio, un altro tentato e un morto per cause da accertare polpenuil.it, 16 agosto 2025 “Un detenuto 53enne, italiano, in carcere da pochi giorni, si è suicidato nel pomeriggio, sembra recidendosi la giugulare, presso la Casa Circondariale di Benevento. Un altro, 55enne, italiano, che scontava l’ergastolo, è deceduto sempre oggi pomeriggio presso la Casa Circondariale di Civitavecchia in circostanze da accertare. Ancora in serata, un terzo recluso, egiziano, di soli 19 anni, tratto in arresto ieri, ha tentato l’impiccamento nella settima sezione del carcere romano di Regina Coeli e, soccorso ancora in vita, è stato trasportato in ospedale in condizioni molto critiche. Questo il tragico bilancio del Ferragosto carcerario, al di là della propaganda e delle passerelle di qualche esponente governativo”. Lo dichiara Gennarino De Fazio, Segretario Generale della Uilpa Polizia Penitenziaria. “Mentre al Ministero della Giustizia autocelebrano il nulla, dall’Ufficio del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale (?) gli si fa da cassa di risonanza enumerando dati asettici che guai a interpretarli, soprattutto se in maniera negativa, ed esponenti del governo e deputati di maggioranza dispensano buoni consigli non potendo più dare cattivo esempio, in carcere si continua a morire e a soffrire. Sono 53 i detenuti che dall’inizio dell’anno si sono tolti la vita e ben tre gli operatori. E, purtroppo, il tragico colore della morte è sempre lo stesso, al di là delle cromie dei governi e delle sterili comparazioni campanilistiche cui si assiste”, prosegue il Segretario della Uilpa PP. “E a morire e soffrire, oltre ai detenuti, 62.700 stipati in 46.755 posti disponibili, vi sono anche gli operatori, in primis quelli del Corpo di polizia penitenziaria mancanti di 18mila unità rispetto al fabbisogno organico complessivo, ma addirittura di 20mila agenti nelle carceri, attesi gli esuberi negli uffici ministeriali. Sarà anche per questo che il Capo del DAP, Stefano Carmine De Michele, nel suo messaggio di Ferragosto ha parlato di un’Amministrazione Penitenziaria a fianco del personale, come se fosse un corpo estraneo e non, evidentemente, di un’Amministrazione Penitenziaria, tutta, composta dal personale”, conclude De Fazio. I ministri e le prigioni: l’umiliazione dei più deboli in mondovisione di Angelo Figorilli lavocedinewyork.com, 16 agosto 2025 Salvini in Italia, Noem negli Stati Uniti, fino a Ben-Gvir in Israele che va in carcere e minaccia il palestinese Barghouti. Ferragosto giro di boa dell’estate, giorno di vacanza per definizione, tassa da pagare per i politici a mostrarsi solidali con chi lavora e con chi vive situazioni difficili. Ferragosto e il carcere poi, almeno in Italia, è un capitolo a parte della storia, una tradizione della memoria che ci ricorda l’impegno testardo di uomini come Marco Pannella che sul tema della libertà negata e sul diritto a viverla nelle condizioni più umane possibili aveva costruito un dovere morale impossibile da dimenticare. Lontanissimi quei tempi, questo ferragosto in carcere invece ci consegna ministri come Salvini che organizzano visite per solidarizzare solo con il duro lavoro della polizia penitenziaria e spiegare che il suo governo è pronto a costruire sempre più galere per combattere il crimine e la violenza. Posizione legittima che rispecchia una proposta politica, una visione del mondo e delle soluzioni ai problemi che oramai si ispira a uno spirito del tempo che, di qua e di là dell’oceano, fa delle gabbie e dei muri, e quindi delle carceri per definizione, il principale metodo per governare non solo il crimine accertato, ma anche tutto quello che sembra assomigliargli. Poco importa che sia dissenso, povertà o solo la diversità che chiede di vivere e che invece va catturata, respinta e messa, appunto, dietro le sbarre, magari utili per farsi una foto di propaganda come fece la signora Kristi Noem, segretaria alla Sicurezza americana, davanti a un penitenziario salvadoregno pieno di immigranti cacciati dagli Stati Uniti. Se la segretaria Noem e il nostro ministro Salvini sono interpreti di una stagione che esalta la prigione come totem taumaturgico che separa i buoni dai cattivi, c’è qualcuno che in questi giorni di ferragosto ha usato la visita ai prigionieri come esempio di sfida tragica all’idea stessa di umanità, inarrivabile persino a pensarla nei periodi più bui della nostra storia recente. Insomma sì, siamo in Israele, in quel Paese che ormai sta camminando da solo verso un abisso che nessuno al mondo avrebbe voluto vedere; e c’è un ministro del governo, Ben-Gvir, uno di quei nomi che avete imparato a ricordare perché sempre definito - come a mettere le mani avanti all’abisso - della destra estremista, che va nella prigione di Ganot a visitare un prigioniero. Anche il prigioniero ha uno di quei nomi che mescolano odio e leggenda. Si chiama Barghouti, leader del gruppo di Fatah rinchiuso da più di vent’anni: ha combattuto contro Israele per la liberazione della Palestina e per questo considerato criminale o eroe a seconda del punto di vista. La visita è breve, ma indimenticabile. C’è un video che la riprende e si vede il ministro di spalle che parla. Di fronte ha un uomo anziano in maglietta, silenzioso, capelli rasati, sguardo incredulo o rassegnato che ascolta queste parole: “Non ci sconfiggerai. Chiunque si metta contro Israele, chi fa male ai nostri bambini, alle nostre donne lo annienteremo. Tu non lo sai ma lo imparerai nel corso della storia”. Dunque un ministro va in carcere a cercare un prigioniero che è nelle sue mani, sottomesso, fragile, impotente e lo minaccia, lo umilia e lo fa davanti alle telecamere. Senza vergogna, senza pietà. C’è una poesia di Primo Levi che mi torna in mente per commentare questo ennesimo limite superato: Se questo è un uomo. Cercatela e leggetela togliendo l’audio a quel video e guardando gli occhi del prigioniero che ascolta. Perché l’abisso di cui parlavamo sta lì, nelle parole di Levi applicate all’odio di oggi. Non rispondete citando i capi di imputazione contestati a Barghouti, per quelli risponderà nei processi e alla storia. Pensate a quel potere che chiede solo vendetta e lo fa sapendo che nessuno oggi è in grado di fermarlo. Il ferragosto di Ben Gvir è il vero punto di non ritorno. Tutto il resto, compresi Salvini e Noem, sono solo tentativi di imitazione. Pannella, perdonaci. Separazione delle carriere e caso Almasri, la giustizia fronte caldo dell’autunno di Serenella Ronda agi.it, 16 agosto 2025 Da sempre è terreno di scontro tra centrodestra e centrosinistra. Molti i dossier che potrebbero rendere rovente la ripresa dei lavori dopo la pausa estiva. Da sempre terreno di scontro tra centrodestra e centrosinistra, la giustizia sarà il ‘frontè caldo anche del prossimo autunno. Dalla riforma costituzionale sulla separazione delle carriere dei magistrati fino al caso Almasri, passando per la possibile riforma del sistema della custodia cautelare fino alle vicende giudiziarie che riguardano esponenti politici di primo piano, come la ministra del Turismo Daniela Santanché, sono infatti molti i dossier in campo che potrebbero rendere rovente la ripresa dei lavori dopo la pausa estiva. Dopo l’archiviazione della posizione relativa alla presidente del Consiglio e la richiesta di autorizzazione nei confronti dei ministri Nordio e Piantedosi e del sottosegretario Mantovano, per il caso della scarcerazione e del rimpatrio con volo di Stato del torturatore libico Almasri, il dossier sarà al centro dei lavori della Giunta di Montecitorio. Ma sarà l’Aula a pronunciare l’ultima parola. Già alla ripresa dell’attività a settembre la Giunta per le autorizzazioni della Camera dovrà riunirsi per valutare le carte giunte dal Tribunale dei ministri. Il presidente Devis Dori, di Avs, ha riunito i primi di agosto l’ufficio di presidenza che, all’unanimità, ha stilato il calendario: entro la fine di settembre sarà pronta la relazione della Giunta per l’Aula. Si svolgeranno almeno cinque sedute, con l’invito ai due ministri e al sottosegretario a fornire i loro chiarimenti. Sia la Giunta che l’Aula esprimeranno tre voti distinti, con voto palese in Giunta e voto segreto in Aula. L’Assemblea di Montecitorio voterà definitivamente entro ottobre. Visti i numeri della maggioranza, l’esito a favore del non concedere l’autorizzazione a procedere nei confronti del Guardasigilli, del ministro dell’Interno e del sottosegretario con delega ai servizi è dato quasi per scontato. La ‘battaglia’ delle opposizioni, già da mesi schierate contro l’esecutivo per la gestione della vicenda Almasri, sarà dura e non risparmierà colpi. E si potrebbe intersecare con i lavori dell’altra Giunta, quella di palazzo Madama, che sarà invece impegnata con il ‘dossier’ Santanchè. La ministra, coinvolta dalle inchieste milanesi per la sua attività imprenditoriale e legate alle società Visibilia e Ki Group (è indagata per falso in bilancio e per truffa ai danni dell’Inps), ha sollevato la richiesta di conflitto di attribuzione nei confronti della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano. La Giunta per le immunità del Senato prima della pausa estiva dei lavori ha preso atto della documentazione depositata ed ha rinviato la materia alla settimana di lavori che inizia il 15 settembre, data entro la quale la ministra potrebbe presentare ulteriori memorie e chiedere di essere audita. Da mesi le opposizioni chiedono le dimissioni della titolare del Turismo. Altro fonte caldo la riforma costituzionale sulla separazione delle carriere dei magistrati, su cui il governo e la maggioranza sono intenzionati ad andare avanti a tambur battente, con l’obiettivo di far svolgere il referendum confermativo tra la primavera e l’autunno del prossimo anno. La riforma, tra le potreste degli stessi magistrati e la netta contrarietà delle opposizioni, ha già incassato i primi due via libera di Camera e Senato e si appresta a compiere il giro di boa. Tornata all’esame di Montecitorio per la terza lettura, è stata già incardinata in commissione Affari costituzionali e figura all’ordine del giorno della prima seduta alla ripresa dei lavori, mercoledì 10 settembre. La maggioranza a Montecitorio punta a licenziare la riforma entro ottobre, per consentire al Senato di svolgere la quarta ed ultima lettura in tempi rapidi. Ma palazzo Madama non potrà occuparsene prima di fine ottobre (bisogna infatti attendere i tre mesi previsti dalla Costituzione). Il nodo sul timing riguarda il possibile accavallarsi della sessione di bilancio: la manovra partirà proprio dal Senato e, quindi, c’è il rischio che l’ultima lettura possa slittare a gennaio per dar spazio alla legge di bilancio. La maggioranza, però, assicura che si farà in modo di chiudere la ‘pratica’ per novembre. Scontata la battaglia delle opposizioni, sia fuori che dentro i palazzi, ma non è affatto escluso che i livelli di tensione possano tornare a elevarsi anche tra governo e magistratura. Benevento. Detenuto di 53 anni si toglie la vita nel carcere La Repubblica, 16 agosto 2025 Il Garante regionale: “La politica abbia un sussulto”. Un detenuto di 53 anni, in carcere da quattro giorni nell’istituto penitenziario di Benevento, si è suicidato. Sulla modalità del gesto c’è il massimo riserbo: indaga la magistratura. “Ogni suicidio in carcere - commenta Samuele Ciambriello, garante dei detenuti in Campania - è una sconfitta della giustizia e della politica”. “Quello di oggi - continua Ciambriello - è il quinto suicidio in Campania dall’inizio dell’anno, più un ristretto nella Rems di San Nicola Baronia (Avellino). La macabra contabilità dei morti in carcere e di carcere minimizzata dal Governo, rischia di essere una strage di Stato. Nell’indifferenza generale ogni morte in carcere è una sconfitta della giustizia e della politica populista e giustizialista. Invochiamo un sussulto della società civile, degli operatori della comunità penitenziaria, fatta di detenuti e detenenti”. “Una politica penitenziaria - conclude il garante regionale dei detenuti - che non sta funzionando, ci sono gravi carenze del sistema e non si fa nulla, solo retorica”. Il suicidio è avvenuto nel pomeriggio di Feragosto. L’uomo, un detenuto beneventano, era stato arrestato da pochi giorni per maltrattamenti in famiglia. Si è tolto la vita recidendosi la giugulare approfittando dell’assenza momentanea di altri reclusi e del personale di Polizia Penitenziaria. Per il vicepresidente nazionale del CON.SI.PE. Luigi Castaldo e per il dirigente nazionale Vincenzo Santoriello “la morte di un detenuto è sempre un fallimento”. Dall’inizio dell’anno si contano circa 50 suicidi e oltre un migliaio di tentativi, un bilancio che impone una seria riflessione e un cambio di rotta urgente. Il senso di abbandono, denunciano, è percepito non solo dai detenuti, ma anche dagli agenti della Polizia Penitenziaria: “Ogni giorno - sottolineano - le donne e gli uomini della Polizia affrontano molteplici criticità senza alcun riconoscimento che valorizzi l’immane sacrificio richiesto loro”. A tutto questo si aggiunge il sovraffollamento cronico, che non fa che complicare ulteriormente il già delicato e precario compito del Corpo di Polizia Penitenziaria. Per il segretario regionale Tommaso De Lia e la vice segretaria Pina Razzano, il suicidio di oggi è il simbolo di un sistema incapace di offrire sostegno a soggetti fragili, spesso alla prima esperienza detentiva o responsabili di reati minori. La carenza di figure specializzate - psicologi, psichiatri, assistenti sociali - e la ridotta presenza di personale di Polizia Penitenziaria, ulteriormente penalizzato dal piano ferie estivo, generano un contesto isolato e surreale, dove convivono detenuti psichiatrici, stranieri, poveri arrestati per necessità e criminali di alto profilo. Il CON.SI.PE. sollecita il Governo a ripensare l’organizzazione del lavoro della Polizia Penitenziaria e ad investire risorse in un sistema penitenziario realmente rieducativo, basato sulla presenza costante di figure professionali adeguate. “Finché non si comprenderà davvero la complessità del carcere - conclude Castaldo - continueremo ad assistere a una sequenza ininterrotta di suicidi. E oggi, in pieno Ferragosto, la Polizia Penitenziaria ha ben poco da festeggiare, schiacciata da criticità organizzative che non possono più essere ignorate”. Prato. Detenuto stroncato da malore alla Dogaia. Aveva chiesto la pena alternativa di Laura Natoli La Nazione, 16 agosto 2025 Antonio Vannini, 58 anni, era affetto da epilessia e tumore. Si è sentito male anche per il caldo nella cella. Non trova pace il carcere della Dogaia. L’ennesima tragedia si è consumata nella notte fra mercoledì e giovedì quando un detenuto, Antonio Vannini, 58 anni, malato da tempo, è stato stroncato da un malore. Vannini era recluso per reati contro il patrimonio e la persona. Da tempo le sue condizioni di salute erano diventate critiche tanto che il suo legale, Costanza Malerba, aveva fatto di recente istanza di deferimento pena, in quanto la detenzione in carcere non era più compatibile con il suo stato. L’altra notte le condizioni di salute di Vannini sono precipitate all’improvviso e ha avuto un arresto cardiaco. È stato subito soccorso dagli agenti della polizia penitenziaria e dagli infermieri della Dogaia. È stato chiamato anche il 118 ma purtroppo il medico non ha potuto fare altro che constatarne il decesso. Secondo quanto riferito, Vannini soffriva di epilessia ed era affetto da tumore. Fra l’altro, nell’ultima rivolta in carcere, il 5 luglio scorso, Vannini, chiuso in cella, ebbe una crisi epilettica e non fu portato in infermeria in quanto gli agenti erano occupati a sedare la rivolta. Nel capo di imputazione contro i detenuti che hanno promosso la rivolta, Vannini compare come persona offesa. L’istanza di differimento pena presentata dall’avvocato Malerba non è mai stata accolta, forse per mancanza di tempo e visto il periodo estivo, fino al triste epilogo dell’altra notte. Le celle roventi di questi giorni, 40 gradi, e le carenze sanitarie hanno fatto il resto. Il direttore sanitario stava valutando in questi giorni l’incompatibilità della detenzione con le sue condizioni di salute precarie. “L’ennesimo episodio drammatico - interviene Ivan Bindo, sindacalista della Uil della polizia penitenziaria - che segna ancora una volta la casa circondariale di Prato. Siamo in pieno periodo estivo con il personale che continua a lavorare a ritmi stressanti e impossibili”. Recentemente un altro detenuto è morto per cause naturali mentre si trovava in una cella di isolamento per aver partecipato ai disordini di inizio luglio. “Le attenzioni e le promesse date alla casa Circondariale da parte della politica e dei vertici dell’amministrazione penitenziaria - prosegue Bindo - sono di fatto rimaste solo chiacchiere, solo passerelle senza concretizzare nulla. C’è stato l’ennesimo avvicendamento ai vertici dell’istituto, comandante e direttore, senza una chiara e precisa posizione da parte del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Sappiamo che il personale, nonostante tutto, anche ieri notte si è adoperato per riuscire in qualsiasi modo a salvare la vita del detenuto”. Genova. L’inchiesta sul 18enne torturato in cella: “Lo credevamo un pedofilo, volevamo punirlo” di Tommaso Fregatti La Stampa, 16 agosto 2025 Quello subito dal detenuto di 18 anni, seviziato e torturato da quattro compagni di cella a Marassi, è stato un accanimento del tutto ingiustificato, indicativo di uno spirito di crudeltà e di totale incapacità di autocontrollo. Per questo la procura di Genova la scorsa settimana ha chiesto e ottenuto l’arresto per il gruppo: si tratta di tre egiziani di 21, 23 e 26 anni, e di un italiano di 41 anni. Sono accusati di tortura e violenza sessuale di gruppo. L’ordinanza è stata emessa dal giudice per le indagini preliminari Camilla Repetto ed eseguita giorni fa. I quattro, dopo le violenze che avevano anche provocato una dura rivolta nella casa circondariale, erano stati trasferiti in altre città. L’aggressione sarebbe iniziata l’1 giugno ed è andata avanti almeno fino al 2. Il 3 le condizioni del ragazzo sarebbero peggiorate così tanto che gli stessi aggressori avrebbero avvisato gli agenti dicendo che aveva fatto tutto da solo. “Lo abbiamo marchiato sulla pelle perché questa è la legge del carcere. Non ha mai voluto spiegare le ragioni per cui si trovasse in cella e tra noi si è diffusa la convinzione che fosse un pedofilo. Volevamo vendicare le sue vittime”. Hanno raccontato gli aguzzini del giovane. “Non c’è stata alcuna violenza ma rapporti consenzienti, non con me, ma con altri due compagni di cella. E anche per questo avevo chiesto il trasferimento”. Ibrahim ha 25 anni, è di origine egiziana e ha precedenti per droga. È uno dei quattro detenuti (ri)arrestati venerdì scorso. Assistito dall’avvocato Piero Casciaro, Ibrahim parla per due ore e mezza davanti al presidente dell’Ufficio giudici indagini preliminari, Nicoletta Guerrero. È l’unico dei quattro che accetta di raccontare la sua verità - gli altri tre detenuti si avvalgono della facoltà di non rispondere - e al tempo stesso lancia anche accuse all’altro compagno di cella rimasto fuori dall’indagine e collaboratore della polizia in questa vicenda. “Ha partecipato anche lui alle sevizie, non è vero quello che ha dichiarato negli interrogatori”, giura l’egiziano. Le sue dichiarazioni sono al vaglio del pubblico ministero Luca Scorza Azzarà che coordina l’inchiesta. Il giovane, insieme al suo legale, ha voluto anche aggiungere di “aver visto più volte di notte la giovane vittima appartarsi in bagno con i due detenuti. Era qualcosa che faceva volontariamente senza costrizione”. La vittima delle sevizie è ancora in ospedale (si trova ricoverato nel reparto grandi ustionati del pronto soccorso dell’ospedale Villa Scassi di Sampierdarena) da più di due mesi e dovrà essere sottoposto ad un delicato intervento di chirurgia plastica per la rimozione dei gravi segni che i quattro gli hanno lasciato sulla pelle. La stessa vittima, assistita dall’avvocato Celeste Pallini, alla presenza del pubblico ministero aveva descritto le torture subite. “Bruciato e torturato con le sigarette accese e marchiato sulla pelle con timbro di metallo rudimentale realizzato nella cella”. E ancora “seviziato con il manico di una scopa e appeso per il collo e massacrato di botte con una saponetta nascosta dentro l’asciugamano”. Sulla rivolta avvenuta nella casa circondariale di via del Piano emerge intanto che la Procura ha iscritto nel registro degli indagati un’ottantina di detenuti che nel frattempo sono stati tutti trasferiti dal carcere di Marassi. Genova. Protesta o rivolta. Sevizie, negligenze, tumulti. Il caso del carcere di Marassi farà scuola di Chiara Cacciani huffingtonpost.it, 16 agosto 2025 Diversi detenuti del penitenziario di Genova andranno a processo per un reato nuovo di zecca: rivolta in un carcere. Ma la protesta è nata per le sevizie a un loro compagno di cella, trascurate dagli agenti e poi gestite in modo inusuale. L’unica certezza è che la moltiplicazione dei reati non sembra avere alcun effetto deterrente. Il reato di rivolta all’interno di un istituto penitenziario è di quelli nuovi di zecca: approvato ad aprile, fortemente criticato da chi di carcere si occupa abitualmente, è applicabile da giugno. Destino vuole che sarà contestato per la prima volta in quella che è una vicenda complicatissima, capace di svelarne già limiti e debolezze: la protesta violenta che ha coinvolto 80 detenuti a Genova Marassi il 5 giugno scorso. Senza timore per una volta a utilizzare i superlativi assoluti, il caso è complicatissimo perché anche particolarissimo, a partire dalle motivazioni della protesta: “Non contro una disposizione dell’amministrazione penitenziaria - conferma infatti il procuratore capo di Genova Nicola Piacente - ma come atto di solidarietà verso un detenuto violentato, torturato e seviziato in cella”. Un 18enne appena arrestato per un furto su un autobus e rimasto vittima per tre giorni di violenze brutali da parte di quattro compagni di cella: bruciature con plastica fusa per tatuarlo in modo indelebile sul volto e un altro orrido campionario di torture. Tutto senza che i controlli quotidiani degli agenti di polizia penitenziaria capissero ciò che stava accadendo (un altro aspetto sotto indagine), fino a quando le condizioni di salute del ragazzo non sono precipitate e gli stessi torturatori hanno chiesto l’intervento dei medici. Il 4 giugno il giovane è stato portato prima in infermeria e poi in ospedale e ha raccontato cos’era accaduto. A quel punto i quattro detenuti coinvolti non sono stati trasferiti (altra anomalia) ma divisi tra due sezioni differenti, sottovalutando l’efficienza del tam tam all’interno del carcere. La notizia si è sparsa velocemente il giorno successivo e è si è trasformata in ribellione a un episodio ritenuto intollerabile e rimasto fino a quel momento chiuso tra le mura del penitenziario. Ed ecco l’altro punto complicato: sono state ritenute coinvolte nella protesta 80 persone. C’è chi era riuscito a salire sui tetti per richiamare l’attenzione del quartiere e chi aveva provato a sfondare e ad arrivare alle sezioni in cui erano stati trasferiti i quattro. Chi aveva devastato gli arredi delle aule didattiche e chi si era trovato lì per caso. O ancora chi si era “passivamente” rifiutato di rientrare in cella. Valutare le posizioni personali sarà una delle cose più lunghe e difficili: la norma è piuttosto fumosa ma intanto alla parola “rivolta” si associa anche chi fa resistenza passiva. “Le pene previste (dai 2 agli 8 anni di reclusione) sono draconiane anche per chi si è trovato nel mezzo di questa fiumana - dice l’avvocato Cristiano Mancuso, che difende due degli 80 coinvolti - La notifica degli atti non è ancora arrivata ma la contestazione di rivolta in carcere ce l’aspettiamo. Io credo che qui si parli di rivolta in carcere in modo improprio, oltre al rischio di sparare sul mucchio”. È quel che sottolinea il Garante regionale delle persone detenute Doriano Saracino: “Una protesta diventa rivolta quando? Anche rifiutarsi di rientrare in sezione è rivolta? A differenza del reato di devastazione, che permette di distinguere le posizioni tra chi danneggia e chi no, stabilire il reato di rivolta in carcere è decisamente più arduo. Alcuni, tra l’altro, si sono ritrovati lì in mezzo mentre rientravano ai piani, dopo l’ora d’aria: come facevi a dissociarti? Insomma, ciò che troviamo nel codice non qualifica la rivolta e qualcuno dovrà dimostrare perché la si ritiene tale”. Secondo il Garante, un’altra particolarità del caso Marassi è che “tutto si è interrotto spontaneamente quando i detenuti hanno avuto notizia del trasferimento dei quattro e hanno ricevuto prova che il 18enne era vivo. Sarà un processo molto difficile, con 80 difese; e, se saranno appurate responsabilità da parte dell’amministrazione penitenziaria, potrebbe allargarsi a altri soggetti”. Nel frattempo c’è chi dice che, senza la protesta dei detenuti, chissà quando la vicenda sarebbe emersa. Tutto questo non significa giustificare gli atti compiuti, a partire dalla devastazione degli arredi scolastici. Ma si potrebbe anche riflettere su un fatto generale: la moltiplicazione dei reati o l’aumento delle pene per alcuni di quelli già esistenti, funziona davvero come deterrente? E soprattutto: lo Stato italiano è stato più volte condannato dall’Europa per violazione dei diritti dei detenuti e non sembra voler rimediare. Come può punire un detenuto che protesta contro una violazione della legge. Roma. Salvini vede Alemanno a Rebibbia: “È tonico e determinato” di Erica Dellapasqua Corriere della Sera, 16 agosto 2025 La sua ultima lettera dal carcere: “La politica in ferie, noi lasciati come cani in autostrada”. Visita di Ferragosto a Rebibbia. Alemanno: “Politica in ferie, noi lasciati come cani in autostrada”. Salvini: “In carcere servono più divise”. Salvini al carcere di Rebibbia a Roma, vede anche Alemanno: “É tonico e determinato”. “Alemanno? L’ho visto tonico e determinato. È chiaro che chi sbaglia paga, però nel pagare ci vuole dignità e rispetto”. Matteo Salvini, nel giorno di Ferragosto in visita al carcere di Rebibbia a Roma assieme alle associazioni “Nessuno tocchi Caino” e “O anche no”, ha incontrato anche Gianni Alemanno, 66 anni, ex sindaco della Capitale fino al 2013, nel 2022 condannato per finanziamento illecito e traffico di influenze nell’inchiesta “Mondo di mezzo” sul sistema criminale in città. Alemanno, in particolare, è detenuto nel carcere capitolino per non aver rispettato le prescrizioni, lo scorso 31 dicembre, che gli consentivano di scontare la condanna (1 anno e 10 mesi) ai domiciliari. E così, durante la visita, Salvini ha incontrato anche lui, che ha continuato a far politica col movimento “Indipendenza” avvicinandosi a Marco Rizzo. Salvini: “Bisogna fare di più” - Salvini, durante il suo sopralluogo, si è confrontato con gli agenti della Polizia penitenziaria e altri detenuti. “Bisogna fare di più - ha detto il vicepremier uscendo -: oggi è una giornata di riposo per molti ma in decine di istituti come questo ci sono detenuti e poliziotti: bisogna migliorare la qualità del lavoro e la quantità di poliziotti, che significa anche migliorare la qualità della permanenza dei detenuti”. “Ci sono tante proposte per superare il sovraffollamento e investire i soldi che servono nelle attuali carceri e farne di nuove, quindi ci ragioniamo”, ha detto ancora Salvini: “Chi sbaglia paga, ma nel pagare ci vuole dignità e rispetto, tutti hanno diritto a una seconda occasione”. Sull’organico Salvini ha aggiunto che “occorre una grande operazione di investimento in uomini e donne”, perché le divise nei penitenziari sono “troppo poche”. Le lettere di Alemanno: “Come cani sull’autostrada” - Di sovraffollamento e di condizioni “disumane” ha più volte parlato anche Alemanno nelle sue lettere dal carcere, pubblicate via Fb. L’ultimo “diario di cella”, come lo chiama lui, riguarda proprio questi giorni di metà agosto e nel titolo riassume: “La politica è andata in ferie, lasciandoci come cani abbandonati sull’autostrada”. E poi il racconto-denuncia: “10 agosto 2025 - 222esimo giorno di carcere. Dovremmo fare una campagna di comunicazione sociale simile a quella per i cani abbandonati. Invece di volpini, bassotti e bastardini vari, che ci guardano con occhi struggenti e la lingua di fuori, potremmo metterci le foto delle tante persone detenute che sono state lasciate a morire nelle loro celle, mentre parlamentari e uomini di governo raggiungevano le loro mete estive. Molto meno accattivanti dei cagnetti, queste persone, sarebbero però degli esseri umani”. “Potremmo mettere - ha scritto Alemanno - la fotografia di Antonio R., 88 anni, il più anziano del nostro Reparto, mentre si affaccia dalla sua celletta singola, sempre più magro e consumato. Il Tribunale di sorveglianza ha detto ancora una volta di no alla sua detenzione domiciliare. E lui langue aspettando l’esito del ricorso in Cassazione, previsto in autunno. Passando vicino alla cabina telefonica, qualche giorno fa, l’ho sentito piangere mentre parlava con qualche familiare. Gli è venuta anche una bronchite che nessuno gli cura. Quando ci dice “Io mi ammazzo” noi gli rispondiamo, “calma Antonio, adesso arriva la Cassazione…”. E se Cassazione gli dirà no, cosa ci inventeremo?” Questa e tante altre storie, di cui Alemanno si fa portavoce. Conclude rilanciando la proposta di un disegno di legge: “La politica però un segno di vita l’ha lasciato, prima di questa pausa estiva - scrive infine Alemanno -. Mercoledì scorso, durante uno dei laboratori di “Nessuno Tocchi Caino”, a cui ha partecipato con un ottimo intervento il vicepresidente del Csm, avvocato Pinelli, è comparso, tra gli applausi delle persone detenute, il presidente del Senato Ignazio La Russa. Pur con tutte le cautele del caso, ci ha lasciato la speranza che in autunno possa essere approvato un disegno di legge, elaborato dalla vice-presidente Pd Anna Rossomando, per rendere automatica, per molte fattispecie, la concessione della detenzione domiciliare nell’ultimo anno e mezzo di pena. Posso dire che, io Gianni Alemanno, mi sono un po’ commosso nel vedere nel mio vecchio amico La Russa (78 anni) l’unico esponente di centrodestra pronto a battersi per una causa così giusta ed evidente? Riuscirà a convincere gli altri?” Milano. Ilaria Salis al Beccaria: “Col Governo Meloni detenuti minorenni raddoppiati” monzatoday.it, 16 agosto 2025 Nel pomeriggio di Ferragosto l’europarlamentare monzese ha effettuato una visita a sorpresa al carcere minorile di Milano: ecco che cosa ha detto al termine della visita. Al termine della visita ha denunciato sui social le carenze che ha trovato all’interno dell’istituto penitenziario minorile milanese dove attualmente ci sono 66 ragazzi, per la maggior parte in custodia cautelare. Un carcere che è finito alla ribalta delle cronache nazionali per presunte violenze ai danni dei giovani detenuti. Tra i problemi maggiori c’è, come in molte altre carceri italiane, quello del sovraffollamento. “La struttura è tra le più grandi d’Italia - ha scritto Salis sui social -. In celle già anguste, alcuni dormono su materassi stesi a terra. In estate le attività sono ridotte al minimo: le giornate scorrono vuote, nel caldo asfissiante e nello sporco delle sezioni, nei passeggi sotto il sole rovente, senza praticamente nulla da fare”. Perché i detenuti minorenni sono raddoppiati - L’europarlamentare monzese accusa il Governo Meloni dell’attuale stato delle carceri minorili (ma non solo) in Italia spiegando che negli ultimi anni “il numero dei detenuti negli istituti penitenziari minorali è passato da 392 detenuti a 611, con un incremento del 55%. Una crescita senza precedenti, voluta politicamente e non giustificata da un aumento della criminalità. Viene da chiedersi se l’obiettivo sia davvero risolvere i problemi o piuttosto gonfiarli, per poi speculare politicamente su propaganda e paura”. “Regressione grave” - “È una regressione grave - incalza Ilaria Salis - che cancella progressivamente ciò che di buono il nostro Paese era stato capace di sperimentare: percorsi di studio, formazione, inclusione, vita comunitaria e legami con il territorio, strumenti di prevenzione e riabilitazione che non fanno notizia, ma che sono gli unici a dare risultati, come dimostrano ricerche ed esperienze”. “Il carcere minorile non educa, ma peggiora le situazioni” - Ilaria Salis denuncia lo stato del carcere Beccaria che a tutti gli effetti è come un carcere per gli adulti. “Un carcere per minori, praticamente identico in tutto e per tutto a uno per adulti, non dovrebbe esistere - prosegue nel suo post -. Non educa, non riabilita. Al contrario, aggrava fragilità e disagi, rischiando di trasformarli in qualcosa di ben più pericoloso. Ciò che accade a Milano è parte di un problema nazionale: il sistema penale minorile italiano, un tempo all’avanguardia in Europa, sta scivolando da un approccio educativo, che considerava la detenzione un’extrema ratio, verso una logica sempre più punitiva e carcero-centrica. Il Decreto Caivano ha ampliato la reazione penale e il ricorso al carcere anche per reati non gravi. Nonostante il calo dei reati minorili, le misure restrittive sono aumentate e sempre più giovani finiscono dietro le sbarre”. Vigevano (Pv). In carcere apre la sezione “41 bis” per la criminalità organizzata di Selvaggia Bovani La Provincia Pavese, 16 agosto 2025 Uno dei padiglioni è in fase di adeguamento, verrà chiusa l’area femminile. I dubbi del Pd. Il carcere di Vigevano avrà il 41 bis: ora è ufficiale. Come anticipato due mesi fa, la casa di reclusione dei Piccolini sarà riconvertita al regime 41 bis, una struttura riservata a detenuti che sono stati condannati o imputati per reati di criminalità organizzata o terrorismo. Sono soggette al 41 bis persone ritenute in grado di mantenere contatti con la criminalità organizzata o gruppi eversivi anche dall’interno del carcere, una pericolosità che giustifica l’adozione di misure carcerarie più rigide. Uno dei padiglioni del carcere dei Piccolini è in fase di adeguamento e la gara per i lavori è stata chiusa il 21 luglio. Sull’argomento avevano depositato un’interrogazione parlamentare la deputata del Partito Democratico e segretaria regionale del Pd, Silvia Roggiani, insieme ai deputati Gianni Cuperlo, Antonella Forattini, Gian Antonio Girelli, Lorenzo Guerini, Lia Quartapelle e Vinicio Peluffo, che chiedevano al ministro Carlo Nordio di fare chiarezza sia sui progetti di riconversione dell’istituto, con il trasferimento della sezione femminile e l’introduzione del 41 bis, sia sulla tutela dei posti di lavoro. Ora, sul caso, scende in campo anche il Pd vigevanese. “Quanti detenuti in regime di 41 bis arriveranno? - chiede Arianna Spissu, consigliera comunale - le voci parlano di 130 in prima battuta, e poi? Considerato che in Italia sono circa 700, la percentuale sarebbe allarmante. Siamo una città di 63mila abitanti, non Milano o Roma: con il 41 bis arriveranno anche le famiglie dei detenuti, con ricadute sociali e logistiche che non possono essere ignorate. Qualcuno le sta valutando? Perché proprio a Vigevano? Per l’adeguamento del padiglione si spenderà un milione di euro. Soldi che, fino a ieri, “non c’erano” per progetti lavorativi, riduzione del sovraffollamento. Ricordo che oggi ci sono due detenuti in ogni cella singola, o miglioramento delle condizioni interne e assunzione di personale. Ora invece sbucano con tutta la naturalezza possibile”. Il 41 bis richiede una riorganizzazione totale del personale. Ad oggi, nella casa di reclusione dei Piccolini, sono reclusi 355 uomini e 81 donne. Queste sono sottoposte a un regime di alta sicurezza, uno dei pochi in Lombardia e, con l’arrivo del 41 bis, verranno con molta probabilità trasferite. Stando ai dati forniti dal Ministero della giustizia, all’interno dell’istituto di via Gravellona 240 operano 201 agenti di polizia penitenziaria, contro i 221 previsti, di cui 16 amministrativi, contro i 22 previsti. Gli educatori sono 7, come previsto. “Per fare spazio ai nuovi detenuti - prosegue Spissu - circa 50 agenti donne in regime ordinario che vivono qui da anni, lavorano in carcere o sono inserite in progetti di articolo 21, ovvero che si possono eseguire all’esterno, sono state trasferite. Dato che i detenuti al 41 bis sono gestiti dal Gruppo operativo mobile, se i detenuti comuni vengono trasferiti, ci saranno tagli al personale ordinario? Sul fronte sicurezza, ogni trasferimento esterno di detenuti al 41 bis (all’ospedale, per esempio) richiede, oltre agli agenzi specializzati, anche la presenza di pattuglie delle forze dell’ordine locali: le nostre, già sotto organico e con tutto quello che succede a Vigevano ogni giorno, sono pronte a reggere questo peso? Il sindaco è stato informato? Se sì, si sta muovendo in qualche modo? È inaccettabile che la città venga a conoscenza di un fatto così rilevante solo a lavori quasi conclusi. Vigevano ha diritto a trasparenza, chiarezza e risposte concrete. Non vogliamo scoprire le conseguenze di questa scelta quando sarà ormai troppo tardi”. Ieri non è stato possibile contattare l’ex direttrice Rosalia Marino, che ha da poco lasciato Vigevano per essere assegnata al carcere di Opera. Celle singole e vigilanza rafforzata per impedire ogni contatto - Impedire i collegamenti interni ed esterni con la criminalità organizzata è uno dei principali obiettivi del 41 bis, ovvero del “carcere duro”. L’articolo 41 bis, da qui il nome, è una disposizione dell’ordinamento penitenziario italiano, che prevede un particolare regime carcerario volto ad ostacolare le comunicazioni dei detenuti con le organizzazioni criminali operanti all’esterno, i contatti tra appartenenti a una stessa organizzazione all’interno di un carcere e i contatti tra gli appartenenti a diverse organizzazioni criminali. Al detenuto in 41 bis viene assegnata una cella singola, nella quale trascorre circa 21 o 22 ore al giorno. Le sezioni 41 bis sono gestite dal Gruppo operativo mobile, che si occupa di controllo e vigilanza sul numero dei detenuti, sulla verifica delle inferriate, sul controllo delle camere di pernottamento. Per quanto riguarda Vigevano, il 41 bis - che dovrà essere staccato dagli altri corpi del penitenziario dei Piccolini - verrà collocato o nel padiglione in via di costruzione, oppure all’interno dell’attuale padiglione maschile, con il trasferimento dei detenuti “comuni” nel nuovo padiglione e nell’ex carcere femminile. I lavori per la costruzione del nuovo padiglione detentivo erano infatti stati sospesi a giugno, forse proprio perché c’era in corso la conversione della casa di reclusione dei Piccolini. Milano. Ispezione di Salis al Beccaria: “Ferragosto qui significa caldo opprimente e abbandono” Il Giorno, 16 agosto 2025 L’europarlamentare brianzola denuncia sovraffollamento e degrado nell’istituto: detenuti minorili aumentati del 55% sotto l’attuale governo. “Ferragosto in carcere significa caldo opprimente, sovraffollamento e la disperata sensazione di essere abbandonati”. Con queste parole l’europarlamentare Ilaria Salis ha descritto su Instagram la situazione trovata durante un’ispezione a sorpresa al carcere minorile Cesare Beccaria di Milano, dove attualmente sono detenuti 66 ragazzi. La struttura milanese, come ricorda Salis, “è tra le più grandi - e sovraffollate - d’Italia”. Le condizioni di detenzione appaiono particolarmente critiche: “In celle già anguste, alcuni dormono su materassi a terra”. L’europarlamentare non nasconde la sua preoccupazione per un sistema che considera fallimentare: “Concentrare tanti minori fragili nello stesso luogo, invece di inserirli in contesti educativi e di supporto, è un errore annunciato”. Le conseguenze di questa gestione sono evidenti secondo Salis: “Il risultato è scontato: incuria, tensioni quotidiane, uso diffuso di psicofarmaci e sedativi, frequenti episodi di autolesionismo”. Una realtà che porta l’europarlamentare a una conclusione netta: “Un carcere per minori - praticamente identico a uno per adulti - non dovrebbe esistere”. Ma il problema, secondo Salis, va ben oltre Milano: “Ciò che accade a Milano è parte di un problema nazionale” I dati forniti dall’europarlamentare sono allarmanti: “Nonostante il calo dei reati minorili, le misure restrittive sono aumentate e sempre più giovani finiscono dietro le sbarre. Quando questo governo si è insediato, negli Istituti penitenziari minorili c’erano 392 detenuti; oggi sono 611, con un incremento del 55%. Una crescita senza precedenti”. L’europarlamentare conclude con una provocazione politica: “La destra al potere sta imponendo un modello di giustizia minorile disumano e fallimentare, fondato sulla logica punitiva simboleggiata dal carcere. È una regressione grave, che cancella progressivamente ciò che di buono il nostro paese era stato capace di sperimentare: percorsi di studio, formazione, inclusione, vita comunitaria e legami con il territorio. Viene da chiedersi se l’obiettivo sia davvero risolvere i problemi o piuttosto gonfiarli, per poi speculare politicamente su propaganda e paura”. Udine. Ferragosto solidale in carcere e donazioni: iniziativa promossa dal Garante dei detenuti spaziospadoni.org, 16 agosto 2025 Anche quest’anno, in occasione del Ferragosto, è stata lanciata a Udine una raccolta fondi dal titolo emblematico: “Non siete soli”. Promossa dall’Ufficio del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Udine, insieme all’Associazione La Società della Ragione e Icaro Volontariato Giustizia ODV, l’iniziativa si propone di portare un segnale tangibile di vicinanza a chi vive la detenzione, in un contesto segnato da sovraffollamento, caldo, solitudine e difficoltà. Descritta come un messaggio alla società, questa iniziativa vuole trasformare l’isolamento in un’occasione per promuovere valori solidali e di riscatto. Anche se le persone detenute spesso restano invisibili - sospese tra un giorno lontano dall’altro - desiderano essere ricordate come parte della comunità. Il gesto della raccolta diventa dunque un modo concreto per dire: “Non siete soli”, con rispetto, umanità e responsabilità civile. Dietro il gesto: una sfida culturale - Il progetto non è solo un’azione di beneficenza, ma anche un invito a riflettere sulla condizione carceraria. Il caldo torrido estivo, il sovraffollamento, la convivenza forzata e, spesso, condizioni igienico?sanitarie precarie, sottolineano l’intensità della crisi umanitaria che si consuma quotidianamente dietro le sbarre. In passato, iniziative simili hanno già contribuito al miglioramento delle condizioni: grazie alla solidarietà, lo scorso anno, sono stati acquistati frigoriferi per le celle, ma anche attrezzi da palestra, giochi per le aree comuni, ed è stato assicurato il supporto psicologico stabile. Un Ferragosto “diverso”, un messaggio di comunità -L’estate e il Ferragosto sono momenti familiari per molti, carichi di gioia e condivisione. Invece, per le persone detenute, possono rappresentare giorni di isolamento profondo. Un pacco dono - con generi di prima necessità o piccoli conforto - diventa allora più di un regalo: è una dimostrazione di solidarietà, una parola di conforto da parte di chi, al di là dei muri, non dimentica. L’iniziativa “Non siete soli” non si limita a offrire un sollievo materiale ma vuole ridefinire la percezione della detenzione. È un invito a riconoscere l’umanità e i diritti di ogni individuo, anche chi vive la privazione più estrema. In un Paese che teme di guardare dentro le prigioni, ricordare che la società civile c’è - e che “nessuno deve essere lasciato solo” - è un gesto che va ben oltre il dono. Tolmezzo (Ud). Il carcere fuori dal carcere di Lorenzo Durandetto* lavitacattolica.it, 16 agosto 2025 Portare “il carcere fuori dal carcere” è parte del ministero di noi padri vincenziani della Congregazione della Missione cui l’Arcivescovo ha affidato questo importante e delicato ministero. Oltre al servizio che svolgo normalmente in Istituto, come ho già avuto modo di raccontare in questa rubrica cerco di fare “cultura” sul carcere e durante l’estate nella Parrocchia di Tricesimo in cui collaboro mi è stata data una bella opportunità. Insieme al parroco don Dino e agli animatori dell’Oratorio estivo ho proposto di ascoltare la storia di un giovane. Protagonista dell’iniziativa, che rientra nella formazione dei ragazzi, è B. ex detenuto che sta scontando il fine pena con una misura alternativa. È la storia di come un uomo possa davvero cambiare. B. arriva in Italia approfittando di una manifestazione sportiva e vi rimane: con il padre, da irregolare, vive e lavora qua e là, mandando soldi a casa per mantenere la famiglia di origine. Entrambi si trasferiscono in Friuli: il padre fa poi ritorno nel suo paese e lascia a B. il compito di pensare al mantenimento della famiglia lontana. Per un po’ le cose vanno avanti, fino a che B. non compie un errore. Finisce una prima volta in carcere, poche settimane. Ne esce però determinato a mettersi in regola, a farsi una famiglia in Italia e a lavorare alla luce del sole. Il passato lo rincorre: rimproverato dal padre lontano per i pochi soldi inviati a casa, compie un altro grave errore, accecato dal miraggio di un guadagno facile. Implicato in una vicenda non bella, è subito arrestato, ma stavolta la pena è maggiore, si parla di anni. In carcere avviene la trasformazione: B. capisce. Il carcere, la pena detentiva, agisce come dovrebbe essere di norma: aiuta il ragazzo, che prima di essere arrestato la seconda volta era riuscito a formarsi una sua famiglia, gli fa comprendere gli errori e smettere con le dipendenze. Dopo un certo periodo B. accede così alle misure alternative e si ricongiunge a moglie e figlio. Nell’incontro i ragazzi, in silenzio, erano molto attenti ad ascoltare il suo racconto: quello di un giovane che ha sbagliato, padre di famiglia che sa quello che vuole insegnare ai figli; molto consapevole dell’errore per il quale prova vergogna, ma che sa affrontare con umiltà e forza ogni giorno. È la storia di un uomo che ha toccato l’abisso e ne è uscito, in nome di un amore più grande e gli animatori presenti lo hanno compreso. “Mi ha colpito il passaggio in cui ha detto di non aver mai chiesto a Dio di aiutarlo” ricorda Gaia “di non aver mai pregato chiedendo la forza di sopportare il carcere perché si sentiva in colpa per quello che aveva commesso e riteneva di non meritare un dialogo con Dio, tantomeno il suo perdono”. Francesca sottolinea che B., ancora oggi che lavora da uomo libero come muratore, “più si sforza di fare il proprio dovere più si sente di stare scontando concretamente la sua pena per gli errori commessi nel passato. Ha ammesso davanti noi di aver fatto quello per cui è stato condannato e ha accettato gli errori. Ha parlato del carcere in modo positivo e lo ha definito come una opportunità per fermarsi, pensare e riconciliarsi con se stessi e con Dio”. Un altro piccolo mattone nel cercare di costruire una società più bella. *Cappellano Casa Circondariale di Udine Nessun accordo tra Trump e Putin. La pace in Ucraina resta lontana di Elena Molinari Avvenire, 16 agosto 2025 Non c’è cessate il fuoco a Kiev. Il Cremlino rilancia: prima si eliminino le cause del conflitto. Il presidente Usa: non c’è un accordo finché non c’è un accordo. L’ipotesi Mosca per un altro incontro. Dopo giorni di anticipazioni e tre ore di colloqui, Donald Trump e Vladimir Putin non si sono intesi su alcun passo avanti concreto verso la fine della guerra in Ucraina. Alla fine del vertice in Alaska - il primo faccia a faccia fra i due dal 2018 - i presidenti americano e russo hanno menzionato vagamente “molti punti concordati”, ma non hanno annunciato nessun accordo, tanto meno il cessate il fuoco che il capo della Casa Bianca insegue da mesi e Putin rifiuta. Parlando a fianco dell’omologo russo dalla base Usa Elmendorf-Richardson di Anchorage, Trump ha assicurato che progressi sono stati fatti: “Molti elementi sono stati concordati, e ne restano solo pochissimi”, ha detto, ma non ha spiegato quali. Poi ha concluso: “Non c’è accordo finché non c’è un accordo”. Poco prima, Putin aveva riaffermato le sue richieste per mettere fine alle ostilità. “Siamo convinti che per rendere un accordo duraturo, dobbiamo eliminare tutte le cause principali del conflitto”, ha detto: una frase che dall’inizio dell’invasione usa per riassumere le sue pretese sull’Ucraina. Vale a dire, che Kiev ceda a Mosca il territorio che la Russia controlla, anche in parte, si disarmi, rinunci all’adesione alla Nato e alla Ue e cambi il suo governo. “Ci aspettiamo che Kiev e le capitali europee non ostacolino i lavori” ha concluso il capo del Cremlino. Il leader russo ha poi concesso a Trump un punto che ripete dal 2022: “Il presidente ha affermato che se fosse stato presidente allora non ci sarebbe stata la guerra, e sono abbastanza sicuro che sarebbe effettivamente così - ha detto Putin. Posso confermarlo”. Nessuno dei due ha risposto alle domande delle centinaia di giornalisti presenti, ma si sono salutati calorosamente, promettendosi di rivedersi molto presto. “A Mosca”, ha detto Putin in inglese. “Questo è interessante - ha risposto Trump -. Mi farò criticare, ma può succedere”. Più tardi, in un’intervista a Fox News, Trump è sembrato volersi defilare dal suo ruolo di mediatore, dicendo che sta a Volodymyr Zelensky e Putin organizzare un incontro per raggiungere un cessate il fuoco. “Ora spetta davvero al presidente Zelenskiy farlo”, ha detto. Trump-Putin, tappeto rosso e strette di mano: ma l’accordo sull’Ucraina non c’è di Francesco Semprini La Stampa, 16 agosto 2025 Summit di tre ore in Alaska: il risultato è in chiaroscuro. Lo Zar invita a Mosca il presidente americano e parla di faccia a faccia costruttivo. “Therès no deal until deal”. Non c’è accordo sino a quando non lo si fa: la categoria lessicale non lascia spazio a dubbi, almeno per quanto riguarda il cessate il fuoco (totale o aereo che dir si voglia), l’obiettivo che Donald Trump si era preposto alla vigilia del vertice di Anchorage con Vladimir Putin. A dispetto del cerimoniale di benvenuto, che sembrava incanalare il summit su un binario costruttivo - tappeto rosso, mini applauso di circostanza del presidente degli Stati Uniti al collega russo che si avvicinava (frammento successivamente cancellato dai video ufficiali), strette di mano e sorrisi all’interno dell’auto - l’epilogo è stato quanto meno sibillino. Se non deludente. Non solo perché non è arrivato l’annuncio di un cessate il fuoco (in realtà era presuntuoso aspettarselo) non sono giunte neppure indicazioni sull’avvio di un percorso di convergenze verso una tregua. Altri due elementi da evidenziare sono il fatto che al bilaterale a tre (Trump + 2 vs Putin + 2), non ha fatto seguito la colazione ufficiale, ovvero il momento in cui il confronto si sarebbe allargato anche agli altri membri delle rispettive delegazioni. “Non per mancanza di appetito”, commentano sarcastici alcuni osservatori al “Dena’ina Civic and Convention Center”, il quartier generale dove sono assiepati i giornalisti qui ad Anchorage. “La mancanza - proseguono - potrebbe essere stata di argomenti validi”. Il fatto poi che il confronto fiume di quasi tre ore sia stato consegnato ai media con una conferenza di 12 minuti fa sorgere qualche dubbio, aggravato dal fatto che a parte le rispettive dichiarazioni, l’inquilino della Casa Bianca e il leader del Cremlino non hanno dato spazio alle domande dei giornalisti. “È stato un incontro molto produttivo. Abbiamo discusso diversi punti, alcuni molto importanti. Ci sono stati grandi progressi”, dice Trump mentre Putin parla di faccia a faccia “costruttivo”. Quali siano i passi in avanti e i progressi non è chiaro, forse la fragilità della trattativa impone un momentaneo riserbo. “Abbiamo avuto un incontro estremamente produttivo e molti punti sono stati concordati. Ne mancano solo pochi. Alcuni non sono così significativi, uno è probabilmente il più significativo, non ci siamo arrivati, ma abbiamo ottime possibilità di arrivarci”, si limita a dire il presidente Usa. Nello scambio diretto sugli scranni della base militare di Elmendorf-Richardson, ci sono anche attestati di stima reciproca tra i due leader. “Ho sempre avuto un fantastico rapporto con Putin”, chiosa Trump. A cui il presidente russo dà ragione quando dice che se fosse stato presidente degli Stati Uniti lui al posto di Joe Biden la guerra in Ucraina non sarebbe mai iniziata. Poi però la doccia fredda quando l’inquilino della Casa Bianca afferma che incontrerà di nuovo “Vladimir”. “Next time in Moscow”: la prossima volta a Mosca, replica in inglese Putin, bruciandolo sul tempo. Quasi a escludere al momento formati più ampi di trattative, come quello trilaterale su cui puntava Trump includendo anche il presidente ucraino Volodimyr Zelensky. “A breve chiamerò Nato e Zelensky”, dice il comandante in capo in segno di rassicurazione. “Kiev e l’Europa non ostacolino i progressi che stanno emergendo negli sforzi per risolvere il conflitto in Ucraina”, replica lapidario Putin. Sul fatto che vi siano stati dei progressi, tuttavia, le parti sono d’accordo. “Ci sono ottime chance per un accordo” in Ucraina, afferma l’inquilino della Casa Bianca, mentre lo “zar” auspica che “gli accordi raggiunti oggi aprano la strada alla pace in Ucraina”. “Io e il presidente Trump abbiamo instaurato un contatto molto buono, pragmatico e di fiducia reciproca - dice Putin -. Ho ragioni di credere che continuando su questa strada potremo mettere fine al conflitto in Ucraina. Tanto prima tanto meglio”. “Il nostro Paese è sinceramente interessato a mettere fine a questo”, aggiunge il leader del Cremlino. In questo senso una convergenza sembra essere stata raggiunta sulle “garanzie a Kiev”, invocate a più riprese dall’Europa. “Il presidente Trump oggi ha parlato di questo - afferma Putin -, ovvero che sia garantita la sicurezza dell’Ucraina, e siamo pronti a lavorare su tale aspetto”. Per il tycoon ci sono “pochissimi” problemi irrisolti con la Russia, che saranno discussi nel prossimo incontro tra i due. Il Ferragosto più caldo della storia dell’Alaska finisce così, senza appendici da parte delle delegazioni - spiegano a La Stampa fonti informate -, al contrario di quanto si credesse. Solitamente quando i vertici individuano le intese quadro i delegati lavorano al loro interno per perfezionarne gli aspetti più tecnici. Un passaggio che per ora è rinviato, come rimane in sospeso la data della presunta missione moscovita di Trump. Lui vorrebbe avvenisse il prima possibile per inviare un segnale di continuità all’indomani di un summit in chiaroscuro. Per Putin fretta non c’è, la Russia è tornata al centro delle relazioni internazionali, lui è stato accolto col tappeto rosso negli Usa dopo lustri di assenza e di fatto riabilitato dopo la discesa agli inferi post invasione, e sul terreno l’Armata di Mosca avanza inesorabile. Al momento allo “zar” va bene così. Trump-Putin: tanti annunci e pochi risultati. Ma Zelensky tira un sospiro di sollievo di Anna Zafesova La Stampa, 16 agosto 2025 Donald mette al suo incontro un voto “10 su 10”, ma ad ascoltare le dichiarazioni dei due presidenti dopo le tre ore di colloquio, si direbbe che il risultato pratico è più prossimo allo zero. Donald Trump mette al suo incontro con Vladimir Putin un voto “10 su 10”, ma ad ascoltare le dichiarazioni dei due presidenti dopo le tre ore di colloquio, si direbbe che il risultato pratico è più prossimo allo zero. Nulla di fatto, nessun “deal” sulla tregua in Ucraina, nemmeno un accordo minore, parziale o laterale, nessuna road map da annunciare, e nemmeno una cena comune delle delegazioni dopo i colloqui allargati, anch’essi cancellati dall’agenda del summit. Ma zero potrebbe essere un numero che comunque fa tirare un sospiro di sollievo a Volodymyr Zelensky: in questo summit in Alaska, definito “storico” dalla Casa Bianca ancora prima che iniziasse, l’Ucraina rischiava un risultato negativo, con un accordo su qualche “scambio di territori” che, per quanto impossibile da realizzare senza il consenso di Kyiv, avrebbe potuto portare a una crisi senza precedenti. Invece, l’impressione è che il dittatore russo si fosse presentato all’appuntamento con il presidente americano senza nessun piano B, senza nessuna aspettativa di un qualche progresso verso l’accordo per finire la guerra. Il summit in Alaska è stato paragonato dal politologo russo Aleksandr Morozov a una “messa nera”, un rituale che ribalta le regole della diplomazia: invece di lunghi preparativi e intense negoziazioni che precedono l’incontro tra i leader, si scommette sul fatto stesso del faccia a faccia, sperando che produca qualche risultato. Anzi, l’incontro stesso diventa un risultato, e lo si è visto con la cura che Trump e Putin hanno dedicato alla scenografia, e ai rispettivi piccoli dispetti, come la felpa che inneggia all’Urss del ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov e i caccia americani che hanno volato sopra la testa dei presidenti proprio nel momento dello sbarco dell’ospite russo. In assenza di altri contenuti, i commentatori internazionali si sono dedicati al linguaggio del corpo, misurando l’inclinazione con la quale Trump ha tirato verso di sé la mano di Putin, e la prepotenza con la quale lo ha caricato nella sua limousine, nonostante sotto la scaletta dell’aereo stesse aspettando l’Aurus portata appositamente da Mosca. Per alcune ore, il presidente russo - che ha costruito la sua politica degli ultimi 15 anni su un antiamericanismo quasi ossessivo - è stato ospite di una base militare americana, con la sua sicurezza totalmente affidata in mano al nemico. Un rischio (anche a livello di immagine) che probabilmente ha ritenuto opportuno correre, pur di mostrarsi a fianco di Trump, e poter ripetere in sua presenza che è necessario “risolvere le cause alla radice del conflitto”, cioè l’esistenza stessa dell’Ucraina indipendente da Mosca. Putin non contava su un risultato pratico, il suo obiettivo era quello di instaurare un dialogo con Trump, e di proporsi come suo interlocutore. Per questo ha abbracciato la tesi del presidente repubblicano che con lui l’Ucraina non sarebbe mai stata invasa, e ha insistito sulla scelta dell’Alaska come simbolo del “buon vicinato” tra russi e americani, contrapposto subito alle “interferenze” ostili dell’Europa e dell’Ucraina. Da questo punto di vista, la missione di Putin si potrebbe dire compiuta: ha rotto l’isolamento diplomatico in cui era stato confinato, e negli occhi di tutto il mondo rimane l’immagine del tappeto rosso che il presidente americano srotola sotto i piedi di un ricercato internazionale accusato di crimini di guerra. Una guerra che intanto continua senza pause. Afghanistan. L’incubo taleban compie 4 anni. Le donne? Cancellate di Lucia Capuzzi Avvenire, 16 agosto 2025 L’addio tumultuoso degli Usa il 15 agosto 2021 ha segnato uno spartiacque: nel Paese c’è un vero e proprio apartheid di genere, mentre l’assistenza umanitaria si è ridotta. “Come sto? Come in una prigione”. Soraya, il nome è di fantasia per ragioni di sicurezza, 30 anni, era una docente di inglese in un liceo fino a undici mesi fa. Prima, ai tempi della Repubblica, lavorava in una scuola della sua comunità - che è preferibile non indicare -, a due ore a nord di Kabul. Ha continuato a farlo anche dopo il 15 agosto 2021, quando i taleban sono tornati al potere in seguito al ritiro precipitoso delle forze Usa e Nato. Poco dopo che l’ultimo aereo statunitense è partito lasciando dietro di sé migliaia di collaboratori locali e le loro famiglie, gli ex studenti coranici hanno vietato l’istruzione femminile dalla fine delle elementari. Soraya impartiva ugualmente lezioni alle studentesse delle superiori in una “scuola clandestina”, una delle tante cresciute nell’esteso “cono d’ombra” dell’Emirato islamico dell’Afghanistan. Un’area che il regime estende o restringe a propria discrezione. “Sapevano della nostra esistenza. Solo per un po’ ci hanno lasciato fare per non irritare il consiglio degli anziani che ci proteggeva. Poi, un anno fa sono cambiate le autorità locali. E un mese dopo hanno fatto irruzione ei hanno arrestati tutti”. Soraya e le altre quattro colleghe sono state rilasciate nel giro di poche ore. I due colleghi maschi sono in cella da dieci mesi. “In fondo neanche noi siamo mai uscite. Nel quartiere tutti ci evitano. Pensano che siamo state violentate in carcere... Ora sopravvivo facendo piccoli oggetti di artigianato. Ma ho paura che tornino a prendermi”. Una società senza donne - La cancellazione della componente femminile dalla vita civile, come l’ha definita nel nuovo rapporto la missione Onu in Afghanistan (Unama), è senza dubbio il tratto più vistoso di quattro anni di potere taleban. Attraverso una sfilza di oltre un centinaio di editti - sempre temporanei e senza, di fatto, cambiare la Costituzione - il regime ha realizzato una vera e propria apartheid di genere: le donne sono escluse dalla pubblica amministrazione, da quasi tutte le professioni, dal sistema educativo. Non possono viaggiare se non accompagnate da un “mahram”, parente maschio, devono coprire corpo e volto, non possono entrare nei parchi e nemmeno parlare ad alta voce. Misure applicate con crescente intensità fino all’attuale giro di vite attuale, denunciato da Unama. Il ritorno di Mosca - A quest’ultimo ha contribuito lo spazio conquistato dal regime in ambito internazionale. Al principio isolati e con 7 miliardi di dollari di fondi congelati nelle banche statunitensi, i taleban sono riusciti progressivamente a insinuarsi nelle sempre più evidenti fratture della comunità internazionale. In particolare, quella tra Occidente - o Occidenti - e asse russo-cinese. Cruciale la rottura dei legami con al-Qaeda e l’impegno contro il terrorismo internazionale, in particolare i rivali estremisti di Isis-K. E il “bottino” offerto: le terre rare che fanno gola al mondo, da Donald Trump a Xi Jinping. Lo scorso febbraio, il portavoce dei taleban Zabihullah Mujahid, ha dichiarato di avere avviato “contatti” diplomatici con 40 Paesi. Il ministero degli Esteri di Kabul, in realtà, nel sito ufficiale, restringe la lista a 29. Di fatto, poi, di questi, con una mossa inedita, solo la Russia di Vladimir Putin ha riconosciuto l’Emirato il mese scorso. A 46 anni dal ritiro dell’Armata Rossa dalla nazione, Mosca si è ritagliata un ruolo da protagonista nel “Grande gioco” afghano battendo sul tempo la Cina che - insieme Emirati, Uzbekistan e Pakistan - non ha mai chiuso l’ambasciata a Kabul. La scelta del Cremlino non sembra comunque destinata a restare isolata. India, Qatar, Arabia Saudita, Turchia, Azerbaigian, Kazakistan e Turkmenistan hanno aperto alla collaborazione diplomatica e consolare con i taleban. L’imminente missione del presidente di Teheran, Masoud Pezeshkian, sarebbe la seconda di alto dopo quella del premier uzbeko Abdulla Aripov di un anno fa. Ad accelerare la svolta iraniana, la determinazione a ridurre la pressione dei rifugiati afghani: oltre 1,5 milioni sono stati rispediti indietro nell’ultimo anno, 250mila solo a giugno. Proprio il nodo migratorio sta causando mutamenti anche nell’orientamento europeo. Ufficialmente la linea non cambia. Retorica e condanne verbali a parte, però, la Germania ha appena siglato un accordo con cui accetta due inviati dell’Emirato per gestire i rimpatri mentre la Norvegia ha accettato una delegazione taleban all’ambasciata di Oslo. Pur senza una presenza fissa, Paesi Bassi, Repubblica Ceca e Bulgaria hanno già concordato protocolli di liberazione. Perfino l’Onu ha ospitato un gruppo di osservatori alla Conferenza sul clima di Baku e, nel giugno 2024, complice lo smantellamento dei campi di papaveri da oppio, ha avuto a Doha il primo incontro formale con i rappresentanti del governo di fatto. Le macerie della guerra - Il processo è, però, lento e i taleban - a differenza del vecchio detto afghano - non hanno più il tempo. Senza l’aiuto del mondo, da cui dipendeva per tre quarti il bilancio nazionale, l’economia è al collasso e 23 milioni di persone hanno necessità di assistenza umanitaria per sopravvivere. Tre afghani su cinque non possono pagare sono costretti a indebitarsi per avere accesso alle cure di base, come denuncia Emergency. “L’Afghanistan attuale è la cartina tornasole di cosa resta dopo decenni di conflitto”, dice il direttore locale Dejan Panic. Dopo oltre mezzo secolo di scontro civile, i combattimenti sono finiti. La pace asfissiante dei taleban, però, è l’altra faccia della guerra.