Detenuti sì, ma non vuoti a perdere di Franco Corleone L’Espresso, 15 agosto 2025 La Corte costituzionale è ancora una volta intervenuta per ribadire umanità della pena e finalità. La crisi della politica è profonda e porta con sé la marginalizzazione del Parlamento ridotto a mettere il bollo ai decreti legge. Si comprende così perché si ricorra sempre più alle Corti, nazionali o internazionali, ma non ci si può illudere che facciano la parte del legislatore. La Corte costituzionale ha compreso la sollecitazione a essere un’àncora di salvezza della democrazia e, negli ultimi anni, ha prodotto sentenze coraggiose nei contenuti e nella costruzione delle disposizioni. Il 29 luglio scorso è stata depositata la sentenza n. 139, relatore Francesco Viganò, sull’esclusione dalle pene sostitutive dei condannati per reati ostativi. Il suo comunicato stampa riassume i termini della questione sollevata da una Gup del Tribunale e dalla Corte d’Appello di Firenze. Dopo avere affermato la legittimità della scelta del legislatore - in questo caso della riforma Cartabia - di escludere i reati del 4-bis dell’ordinamento penitenziario dall’applicazione di pene sostitutive, nel primo capoverso aggiunge una frase che rivela l’imbarazzo per una decisione difficile e controversa: “Ma il legislatore e l’amministrazione penitenziaria hanno il preciso dovere di assicurare a tutti i condannati a pene detentive condizioni rispettose della dignità della persona e del principio di umanità della pena”. Principio ribadito nella conclusione per cui “resta ferma in ogni caso la necessità che anche per i condannati per questi reati la pena detentiva sia eseguita in condizioni e con modalità tali da incentivare o rendere comunque praticabile il percorso rieducativo”. Condizioni non sempre assicurate, oggi, nelle carceri italiane, dove la situazione di sovraffollamento “rende particolarmente arduo il perseguimento della finalità rieducativa, oltre che lo stesso mantenimento di standard minimi di umanità della pena”. Un monito che si aggiunge ad altri autorevoli appelli e che, però, rischia di rimanere inascoltato dall’inquilino sordo e cinico di via Arenula. L’avvocato Passione, che ha il merito di avere sollevato la scottante questione, non è riuscito nell’obiettivo di aprire il vaso di Pandora, ma ha comunque avviato una discussione che di certo non si chiude qui. La preclusione assoluta riguarda circa 9.000 detenuti “in relazione all’intero novero (invero assai eterogeneo) dei reati di cui all’art. 4-bis”. È vero: la Corte non ritiene viziata da irragionevolezza la scelta del legislatore. Ribadisce però che la rieducazione, pur non rappresentando l’unica finalità legittima della pena, non può mai essere interamente sacrificata aprendo prudentemente a sperimentazioni progressive che coinvolgano i reati meno offensivi rispetto al sentimento della collettività. Osservo che appare sempre più necessario un ripensamento coerente tra pene sostitutive e misure alternative dopo avere “assaggiato” la galera e, soprattutto, che va riaffermato il principio del carcere come “extrema ratio”, eliminando alla radice la detenzione sociale di massa. La sfida dell’articolo 27 va letta come faceva Franco Battiato: “Qualsiasi criminale, soprattutto il più incallito, è recuperabile. In passato assassini sono diventati santi. È questo il processo più straordinario che possa accadere. Si può diventare buoni dopo essere stati cattivi. È più importante, e più interessante”. Il Garante dei detenuti è prigioniero del Governo di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 15 agosto 2025 In passato sulle pagine di questo giornale a più riprese avevamo sottolineato l’evidente mancanza di indipendenza di chi è stato nominato al vertice di tale struttura. Che pena, che tristezza, che vergogna e quante mistificazioni! È penosa ogni minimizzazione del numero dei suicidi e dei morti in carcere da parte del ministro della giustizia Carlo Nordio. È triste vedere che non c’è alcuna differenziazione nella maggioranza. E che vergogna leggere che il Garante delle persone private della libertà, con un comunicato di una delle componenti del collegio, si accodi a quell’interpretazione, per evitare ogni conflitto con chi li ha nominati. In passato sulle pagine di questo giornale a più riprese avevamo sottolineato l’evidente mancanza di indipendenza di chi è stato nominato al vertice di tale struttura. Si può mai essere il controllore delle condizioni di vita in carcere se sino al giorno prima eri il controllato, ossia dirigente generale dell’amministrazione penitenziaria? Ciò ovviamente vale anche per tutte quelle realtà territoriali cadute nello stesso equivoco. Proprio sul manifesto il terzo componente dell’autorità del Garante ha manifestato la propria distanza da quel comunicato. Forse le sue dimissioni potrebbero sollevare il caso di un’Autorità non indipendente e portarlo davanti alle Camere e al Capo dello Stato. Sappiamo perfettamente che non si arriverà fino al punto da sottrarre al governo una nomina di garanzia ma quanto meno verrà posta pubblicamente la questione. Veniamo alle mistificazioni sui numeri, tenendo conto che la scienza statistica ha delle regole che devono essere rispettate. Non è vero, purtroppo, che i suicidi sono in calo. In primo luogo bisognerebbe accordarsi su come certificare un suicidio. Nei numeri ministeriali non si tiene conto delle persone che tentano di suicidarsi in carcere ma muoiono in ospedale, così come non si conteggiano tutti coloro che muoiono per cause da accertare. Un accertamento che in molti casi non avverrà mai. Ovviamente i numeri assoluti dei suicidi non sono da soli sufficienti a disegnare un quadro chiaro del trend. Bisogna tenere conto anche del numero complessivo dei detenuti. Prendendo come dato delle presenze quello al 31 gennaio dell’anno di riferimento (data scelta convenzionalmente dall’Università di Losanna che cura una pubblicazione sui dati statistici penitenziari in Europa), vediamo quale è il tasso di suicidi ogni 10mila detenuti. Nel 2024 è stato pari a 15 suicidi ogni 10mila persone ristrette, nel 2023 è stato pari a circa 12, nel 2025 è pari a 14,5. Considerando che ad agosto si assiste sempre a una tragica accelerazione nelle scelte autosoppressive, possiamo ben dire che il 2025 è in linea con l’anno precedente. Si tratta di un tasso circa doppio rispetto a quello della mediana europea. Ogni suicidio è una scelta tragica che non si può comprendere usando criteri interpretativi standardizzati. Due considerazioni statistiche però indicano una responsabilità di sistema. Nell’Italia libera, quella non carceraria, il tasso dei suicidi ogni 10 mila persone è pari circa a 0,6, ossia più o meno venticinque volte più basso. Una enormità che segna quanto il carcere sia patogeno. L’Italia è uno dei paesi d’Europa dove fuori dalle prigioni ci si suicida di meno e dentro le prigioni di più. In secondo luogo, quando nelle carceri i detenuti percepiscono una speranza e quando il sovraffollamento si attenua anche il tasso di suicidi si riduce significativamente. Il 2013 fu l’anno della sentenza Torreggiani che condannò l’Italia per le condizioni disumane di detenzione. Ad ottobre dello stesso anno il Capo dello Stato Giorgio Napolitano si rivolse con un proprio messaggio alle Camere riunite. Il governo e il parlamento di allora presero sul serio il tema. Furono votate delle riforme dirette a ridurre i numeri della popolazione reclusa. Il tasso di suicidi nel 2014 fu di circa 8 ogni 10mila detenuti, ossia poco più della metà dell’attuale. Fu in quella stagione che con una legge, sicuramente perfettibile ma decisamente importante, fu istituito il Garante delle persone private della libertà. Era il lontano 1997 quando Antigone a Padova per la prima volta propose di introdurre una simile figura nell’ordinamento giuridico italiano. Attendemmo oltre quindici anni per vederne la nascita. Ora stiamo assistendo alla sua prigionizzazione istituzionale. *Presidente dell’Associazione Antigone Se anche il Garante non vede l’emergenza di Maria Brucale L’Altravoce, 15 agosto 2025 L’indipendenza del Garante nazionale delle persone private della libertà è, ormai chiaramente, sotto attacco. Il rischio è la compromissione definitiva del senso stesso della Istituzione ossia porsi quale sentinella sull’operato della pubblica amministrazione tutta e quale organo di denuncia delle situazioni di violazione dei diritti delle persone a qualunque titolo ristrette, riscontrate visitando, con pieni poteri ispettivi e con accessi a sorpresa. ognuno dei luoghi di detenzione o di limitazione della libertà personale. Il 10 agosto il Garante ha pubblicato un report sui suicidi e sulle morti in carcere manifestando seria preoccupazione e ha evidenziato come la marginalizzazione sociale, la assenza di prospettive future, di occasioni di lavoro, possano tradursi in perdita di speranza. Il Ministro della giustizia ha bacchettato prontamente l’Istituzione di garanzia. pallottoliere alla mano e con una macabra conta dei morti per suicidio nelle nostre martoriate carceri. Ben dodici in meno del 2022. anno di insediamento del governo Meloni. E allora, di che emergenza parliamo? Pronta la replica del Garante che si è affrettato a raddrizzare il tiro e, pur di non scontentare il Governo, ha smentito placidamente sé stesso: “In linea con quanto rilevato dal Ministero della Giustizia”, scrive il Presidente, Turrini Vita, “al 31 luglio 2025 si registra una diminuzione significativa del numero di suicidi rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, 12 in meno”. Mentre Irma Conti, membro del collegio, si spinge ad affermare che la riduzione dei suicidi lascia profilare un “possibile miglioramento delle condizioni detentive o dell’efficacia delle misure di prevenzione adottate”. A fronte di una situazione sempre più tragica in cui l’orrore delle morti tutte, dei suicidi, dei decessi per cause ancora da accertare. di quelli qualificati “per malattia” (su ognuno dei quali sarebbe doverosa un’indagine che competerebbe proprio al Garante stante la endemica incapacità degli istituti di pena di offrire ai ristretti cure tempestive e adeguate), dei tentativi di suicidio sventati, dei gesti autolesionistici, di un sistema tutto che produce una detenzione inumana e degradante: a fronte dello struggente grido di dolore dei reclusi nelle nostre carceri sempre più oppresse dal sovraffollamento e da condizioni di vita indecenti, in ambienti fatiscenti sempre più chiusi e isolati, del tutto inidonei a offrire un progetto di rieducazione. anche per la carenza di tutto il personale dell’area psicopedagogica: a fronte della situazione di disagio anche degli agenti di Polizia Penitenziaria numericamente insufficienti, costretti sempre più a ruoli assistenziali che non competono loro per gestire una popolazione detenuta sfinita nell’abbandono, il Ministro conta i morti e si compiace. E il Garante? Pure. Intanto arriva la notizia che un ragazzo, Danilo Rihai, di soli diciassette anni, un minore non accompagnato di origine tunisina, ha tentato il suicidio in carcere impiccandosi con un paio di jeans come cappio appena dopo il suo arresto ed è morto in ospedale dopo tre giorni di agonia. Manca il respiro. Ogni parola è un colpo al cuore. Come può allora proprio il Garante avallare una simile presa di posizione e prestarsi a rivedere perfino le proprie dichiarazioni per non scontentare un governo amico? Come fa ad accodarsi al Ministro nella gelida conta di numeri che toglie sostanza allo struggimento per ogni vita spenta. per ogni caduta nella disperazione? Alle tante domande e allo sconforto che procurano segue una intervista rilasciata dal Prof. Serio. componente del Collegio del Garante, al Manifesto e pubblicata il 13 agosto che rende chiara la fondatezza del convincimento che l’Istituzione di garanzia si sia spogliata delle sue funzioni e desta altre, pur serie, preoccupazioni: “Ho scritto una lettera al presidente, Riccardo Turrini Vita, per chiedere chiarimenti sulla rettifica inviata, a mia insaputa, a nome dell’intero Collegio che. oltre ad allinearsi prontamente alla posizione del Ministero di Giustizia, sostanzialmente smentisce il nostro stesso rapporto sui decessi di detenuti in carcere. Attendo una risposta”. E prosegue “C’è un unico obiettivo possibile. in materia di suicidi in carcere, un unico numero possibile. Il numero è zero. Tutto il resto, qualunque unità si aggiunga allo zero. è comunque una sconfitta”. Parole da Garante, quelle che ci si aspetta di sentire. Ogni persona che rinuncia a vivere in custodia dello Stato è una bruciante sconfitta. È forte la denuncia di Serio riguardo alla intromissione governativa sul lavoro del Garante: “Contestando il fatto che il Collegio possa esporre analisi critiche, si sta davvero mettendo in crisi il modello di autonomia del Garante, che è tenuto ad esprimere pareri e dare raccomandazioni”. Il Collegio del Garante, dunque, sembra avere un corpo e più anime e il risultato è un disallineamento dai suoi scopi e il fondatissimo timore che abbia perso di vista la sua funzione: essere una voce di garanzia libera e non condizionatile dal potere e che ha la forza e l’indipendenza di contrapporsi ad esso ove appaia compromessa. quando non mutilata, la tenuta costituzionale e convenzionale delle pene. La necessità di un intervento istituzionale per l’ufficio del Garante dei detenuti di Giunta e Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane camerepenali.it, 15 agosto 2025 Quando la “pezza” del Garante Nazionale dei diritti dei detenuti è peggio del “buco” del Governo sulle condizioni delle carceri italiane, è forse giunto il momento di ricorrere ai rimedi istituzionali. Dell’attività svolte dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, nella sua ultima ricomposizione, avevamo apprezzato la pubblicazione periodica di analisi e dati statistici, a cura dell’Osservatorio penitenziario Gnpl, guidato dal dott. Giovanni Suriano, denominati “Focus suicidi e decessi in carcere” e “Report analitico rispetto della dignità della persona privata della libertà personale”, che comunque ci hanno consentito, in un’epoca di scarsa trasparenza, di analizzare alcune specifiche criticità del nostro sistema penitenziario. Ma non per quanto riguarda i dati dei suicidi, delle morti naturali o di quelle da accertare, sempre rilevati al ribasso dal Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria, per i quali abbiamo sempre ritenuto unica fonte attendibile quella di “Ristretti Orizzonti”, che rileva i suicidi e i decessi violenti, per cause naturali o per cause da accertare, che colpiscono la popolazione detentiva nel suo complesso, anche nel caso in cui l’evento morte si sia verificato al di fuori delle mura del carcere, seppur in regime di detenzione. D’altronde, proprio lo stesso Ministro della Giustizia, rispondendo nel mese di marzo 2025 ad una interrogazione specifica dell’on. Giachetti, confessava come nel computo dei suicidi o dei decessi fornito a livello ministeriale “non vengono inseriti i decessi avvenuti al di fuori degli Istituti di pena ossia riferiti a quei soggetti che, al momento del decesso, si trovavano a vario titolo all’esterno della struttura penitenziaria”. Tra i soggetti conteggiati tra i suicidi o tra i decessi in carcere, quindi, non vengono considerati, ad esempio, quei detenuti - e sono tanti, purtroppo - che sono stati rinvenuti in una cella in fin di vita dopo un impiccamento, ma sono deceduti all’interno dell’ospedale dove erano stati trasportati. Dopo l’ultimo report del Garante dell’8 agosto 2025, intitolato “Per un’analisi dei decessi in carcere - Attività di studio e ricerca: gennaio-luglio 2025”, è immediatamente intervenuta una “tirata d’orecchie” da parte del Ministero della Giustizia che, attraverso un comunicato stampa, ha inteso disinnescare “l’allarme suicidi” operando una manipolazione dei dati e neutralizzare così l’appello contenuto nel report della discordia per una “esecuzione della pena compatibile con il suo volto costituzionale, improntato ai principi di umanità, finalismo rieducativo ed extrema ratio della detenzione”. All’esito di tale richiamo lo stesso Garante ha ritenuto di diramare immediatamente un comunicato - non firmato - ma attribuibile, in ragione dei DM in materia, dei regolamenti e del codice di autoregolamentazione, all’unico legittimato a rappresentare istituzionalmente il Garante, ovvero il Presidente Riccardo Turrini Vita. Si è trattato di una precisazione, che per i tempi, i modi e i contenuti, appare contraria ai doveri istituzionali di garanzia, indipendenza e imparzialità di quell’Ufficio, in quanto volta ad assecondare, pubblicamente, i desiderata ministeriali, incurante della clamorosa auto-delegittimazione di quella stessa istituzione, nata con l’esclusivo compito di tutelare i diritti dei detenuti e delle persone private comunque della libertà. In tale nota si è giunti ad ipotizzare che il numero dei suicidi ad oggi rilevato, di poche unità inferiore rispetto allo stesso periodo del 2024, sia frutto del “possibile miglioramento delle condizioni detentive o dell’efficacia delle misure di prevenzione adottate”. Poiché ben conosciamo le drammatiche condizioni nelle quali permangono le nostre carceri, ci domandiamo come il Garante nazionale abbia sino ad oggi svolto le visite negli istituti penitenziari, i cui numeri, come si trattasse di una “tournée”, sono esibiti in tabella sul sito istituzionale, senza che tuttavia si abbia contezza alcuna degli eventuali rilievi che avrebbero dovuto essere contenuti in rapporti mai pubblicati, nonostante i precisi obblighi di legge. Ci domandiamo - mentre il numero dei suicidi si accresce di giorno in giorno - se siano state programmate ed eseguite visite orientate ed accurate alle sezioni, alle celle, agli spazi comuni. Se si sia posta la doverosa attenzione alle condizioni effettivamente disumane in cui sono costretti a trascorrere, in uno stato di istituzionale abbandono, le giornate assolate di questa stagione, i detenuti e tutto il personale penitenziario. Anche perché dai report e dalle notizie stampa pubblicate dopo ogni visita in carcere effettuata, nell’ambito della iniziativa “Ristretti in Agosto”, dalle diverse Camere Penali territoriali, a dire il vero, non si riscontra nessun “possibile miglioramento delle condizioni detentive”, men che meno l’efficacia delle proclamate “misure di prevenzione” sbandierate dal Garante nazionale. È accaduto, addirittura, che il giorno dopo la precisazione del Garante, il prof. Mario Serio, componente dell’ufficio, ha ritenuto necessario rilasciare una intervista nella quale lo stesso ha di fatto dato conferma della grave crisi che ha investito, al di là dei contrasti e delle diverse sensibilità personali, l’autorità di garanzia. In gioco, tuttavia, non ci sono gli interessi di “parte” di questa o di quella componente politica e le relative logiche spartitorie, in gioco vi sono la salvaguardia della vita e la tutela dei diritti fondamentali dei detenuti. In gioco c’è la difesa dello Stato di diritto e della sua Costituzione, il cui rispetto proprio quell’Autorità è chiamata a garantire in tutti i luoghi di privazione della libertà. Ci impegneremo pertanto con ogni iniziativa ed in ogni sede istituzionale, perché l’indipendenza, l’autonomia e l’efficacia concreta della azione del Garante siano effettivamente integrate, tutelate ed esercitate. Ferragosto in carcere, tempo di esposti in Procura di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 15 agosto 2025 I Radicali italiani chiedono di verificare eventuali responsabilità penali in capo a Nordio, per istigazione o aiuto al suicidio. L’anno scorso ci provò Nessuno Tocchi Caino. Agosto, tempo di vacanze, di riflessioni sulla condizione dei detenuti nelle carceri e anche di esposti alla Procura della Repubblica. Come un anno fa, al centro dell’iniziativa, questa volta dei Radicali Italiani, troviamo il ministro della Giustizia Carlo Nordio. Il segretario dei Radicali Italiani, Filippo Blengino, ha presentato un esposto alla Procura della Repubblica “per chiedere di verificare se il ministro della Giustizia Carlo Nordio possa essere penalmente responsabile, anche a titolo di concorso omissivo, dei reati di istigazione o aiuto al suicidio in relazione all’emergenza suicidi nelle carceri italiane”. Una tesi molto audace, che con tutta probabilità è destinata a naufragare, in cui si intendono far combaciare responsabilità politica e responsabilità penale e tenere sempre accesi i riflettori su una vera e propria emergenza nazionale. Il guardasigilli, evidenzia Blengino, ha l’obbligo di prevenire e ridurre i rischi riguardanti la vita e la salute detenuti. L’esponente radicale sostiene che in riferimento alle emergenze connesse al pianeta carcere ci siano solo proclami e pochi interventi concreti. “Le carceri italiane - commenta - sono diventate fabbriche di disperazione e morte. Nordio, pur conoscendo perfettamente la situazione, non ha adottato alcuna misura strutturale per ridurre il sovraffollamento e per garantire condizioni dignitose di detenzione. La sua inerzia, di fronte a un bollettino di guerra di suicidi, è inaccettabile. Nel solo 2025 si contano cinquantatré suicidi dietro le sbarre. Tra le vittime anche un minorenne, deceduto proprio oggi dopo essersi impiccato all’Istituto Penale Minorile di Treviso”. Di qui la richiesta di intervento dell’autorità giudiziaria. “L’omessa adozione di misure idonee - conclude Blengino - riteniamo possa configurare una responsabilità penale per concorso nei suicidi, qualora venga provato il nesso causale. Non possiamo parlare di fatalità. È responsabilità politica e, riteniamo, penale”. Un anno fa, con un esposto di una decina di pagine, il direttivo di “Nessuno Tocchi Caino” - composto da Sergio D’Elia, Rita Bernardini, Elisabetta Zamparutti - e il deputato di Italia Viva, Roberto Giachetti, chiesero di verificare eventuali profili di responsabilità penale, anche concorsuale, sempre a carico del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, con l’aggiunta dei sottosegretari con delega alla giustizia e alle carceri, Andrea Delmastro Delle Vedove e Andrea Ostellari. I firmatari della segnalazione all’AG evidenziarono in modo approfondito la situazione delle carceri italiane, denunciando non solo le responsabilità politiche e istituzionali dietro il sovraffollamento carcerario e le violazioni sistematiche dei diritti umani che ne derivano. Chiesero inoltre di valutare eventuali responsabilità penali a carico tanto del guardasigilli quanto dei sottosegretari. In quella occasione si fece riferimento all’articolo 40 del Codice penale, secondo il quale “non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”. In particolare, si chiese di indagare su eventuali omissioni che hanno portato a violazioni dei diritti umani, suicidi e morti evitabili. Un’iniziativa finita su un binario morto e senza nessun riscontro. Un destino analogo potrebbe riguardare l’esposto dei Radicali Italiani, che hanno perlomeno cercato di attirare l’attenzione dell’opinione pubblica sui gravi problemi che affliggono il sistema penitenziario del nostro Paese in un periodo molto particolare dell’anno. “Stop ai suicidi in cella”: Calderone ci prova. No di Delmastro allo “svuota-carceri” di Franco Insardà Il Dubbio, 15 agosto 2025 Il deputato di Forza Italia chiede più interventi su custodia cautelare e liberazione anticipata, ma il sottosegretario respinge ogni misura deflattiva. Giachetti: “Spettacolo indegno”. “È ora di fare meno chiacchiere”. Non ha usato mezzi termini il deputato di Forza Italia Tommaso Calderone, membro della commissione Giustizia della Camera, davanti alla drammatica emergenza suicidi nelle carceri italiane. “È passato un altro anno - ha dichiarato - e continuiamo ad assistere a decine di detenuti che si suicidano. Non abbiamo risolto il problema e sono i freddi numeri a dirlo. Occorre riflettere sul tema della custodia cautelare, delle misure alternative e sulla liberazione anticipata. La certezza della pena deve essere indiscutibile ma è necessario mettere mano a tali riforme”. Un intervento che, nel clima già teso sul tema, non poteva restare senza risposta. A replicare è il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, che ribadisce la linea dura: “Non è all’ordine del giorno per FdI qualsivoglia misura che eroda la certezza della pena e, in una maniera o nell’altra, che non risponda alle esigenze di giustizia per le vittime dei reati e di sicurezza per i cittadini”. E rincara la dose: “Tutte le ricette finora proposte, come gli svuota-carceri, si sono rivelate fallimentari. La soluzione è un piano carceri, come quello del governo, che preveda spazi più confacenti”. Il botta e risposta fra gli alleati di governo diventa subito terreno fertile per l’opposizione. Roberto Giachetti (Italia Viva) definisce “spettacolo indegno e una manfrina” quanto accaduto: “Quando c’era in discussione l’anno scorso la liberazione anticipata, Forza Italia si era espressa a favore, poi è arrivato il fischio del comando e tutti sono rientrati a testa bassa. La prima dichiarazione di Calderone corrisponde all’assoluta realtà, poi evidentemente qualcuno gli ha corretto il tiro. Ma anche nella marcia indietro, di fatto, esprime un’autocritica: non stanno facendo nulla”. Sul presunto “svuota-carceri” il deputato di Italia Viva non risparmia fendenti: “Delmastro fa solo propaganda, è una posizione politico-amministrativa quanto meno retrograda, perché continua a parlare di svuota-carceri rispetto alla liberazione anticipata, che è in vigore da oltre 20 anni: è la legge Gozzini. Io propongo di estendere da 45 a 75 i giorni”. Calderone, intanto, chiarisce al Dubbio di non aver agito su input di partito: “La mia è un’iniziativa individuale. Non ho fatto nessuna dichiarazione in contraddizione con quelle del sottosegretario Delmastro, perché sono due piani diversi. È vero che il governo sta facendo molto per l’edilizia carceraria e per infoltire gli organici della polizia penitenziaria, ma il problema dei suicidi esiste ed è drammatico”. Un dramma reso ancora più evidente dall’ultimo episodio: un ragazzo di appena 17 anni, morto tre giorni dopo aver tentato di impiccarsi nel carcere minorile di Treviso. Il più giovane detenuto suicida del 2025, che porta il bilancio a 54 dall’inizio dell’anno. Debora Serracchiani, responsabile Giustizia del Pd, accusa il governo di minimizzare: “Ogni singolo morto in carcere è la negazione del nostro ordinamento civile, è il fallimento dello Stato. Un ragazzino di 17 anni che si uccide mentre è affidato alla giustizia deve scuotere la coscienza di tutti. Non si permetta a nessuno di dire che siamo “sotto la media”: oltre cinquanta morti ad oggi sono una strage”. Parole che si inseriscono in un dibattito già acceso nei giorni scorsi, dopo che il ministero della Giustizia aveva giudicato “non allarmanti” i dati del Garante nazionale, scatenando le opposizioni e le associazioni attive nelle carceri. Sul piano delle soluzioni, Calderone insiste sulla necessità di riforme mirate: “Su 62.000 detenuti, circa 15.000 sono in custodia cautelare: statisticamente il 50% verrà assolto. Significa 7.500 potenziali innocenti in carcere. Basterebbe lavorare sulla custodia cautelare: se ci fosse una legge, come il ministro Nordio ha annunciato più volte e su cui ho presentato una proposta, il tre quarti del problema sarebbe già risolto”. Il deputato forzista si dice in sintonia anche con il presidente del Senato Ignazio La Russa: “Se si approvasse la legge sulla custodia cautelare e quella sulla liberazione anticipata, come vuole anche La Russa, il problema sarebbe risolto. Nel frattempo si potrebbero costruire le nuove strutture”. Ma Delmastro non arretra: “A coloro che si innamorano di misure alternative o clemenziali ricordo che sono nato circa 50 anni fa, quando c’era già sovraffollamento e mancavano 10.000 posti detentivi”. Per Giachetti si tratta di un vero e proprio siluro nei confronti di La Russa del quale dice: “Va dato atto che da quando ha preso in mano questa questione si sta impegnando in questa moral suasion, incaricando anche la senatrice del Pd Anna Rossomando di studiare una proposta di legge. Ma per il sottosegretario di FdI la via maestra resta una sola: “Stiamo realizzando un piano carceri con 750 milioni di euro di investimenti, cifra mai vista in Italia, già finanziata per recuperare 10.000 posti mancanti”. Una chiusura granitica a ogni provvedimento di clemenza che, secondo diversi osservatori, è anche legata alla volontà del governo di non aprire fronti interni mentre è in corso la delicata riforma sulla separazione delle carriere, uno dei punti più sensibili dell’agenda della maggioranza. Danilo Rihai è l’ennesimo detenuto suicida: Nordio ha usato parole vergognose di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 15 agosto 2025 Danilo è morto in ospedale, dopo 48 ore di agonia. Il Governo lo conteggerà tra le morti in carcere? No. Ecco perché. Aveva 17 anni. Si è impiccato con i suoi jeans nella cella del centro di prima accoglienza annesso al carcere minorile di Treviso. Si chiamava Danilo Rihai e veniva dalla Tunisia. Era un minore straniero non accompagnato, di cui oggi sono pieni gli istituti penali per minorenni. Ragazzini per i quali mancano strutture di accoglienza e che si ritrovano a vivere per strada di piccoli espedienti. Sono mesi e mesi che lo denunciamo: le carceri minorili fanno schifo. È la prima volta nella storia che sono sovraffollate come quelle degli adulti e si fatica a prestare ai giovani detenuti le attenzioni individualizzate che il percorso di un adolescente necessita. Il decreto Caivano del settembre 2023 ha fatto precipitare il sistema della giustizia minorile italiana, da modello che era considerato nell’intera Europa, al degrado più totale. Nelle nostre visite abbiamo trovato ragazzi chiusi in cella quasi l’intera giornata, in condizioni igieniche disgustose, imbottiti di psicofarmaci cosicché stessero zitti e buoni. Danilo è morto in ospedale, dopo 48 ore di agonia. Il governo lo conteggerà tra le morti in carcere? No, perché così il Ministero della Giustizia sceglie di riportare i dati di questa drammatica conta: chi ha la fortuna di impiccarsi e morire immediatamente potrà comparire nell’elenco; chi invece fa l’errore di lasciare il tempo per essere trasportato in ospedale non risulterà nella lista dei morti in carcere. Come non fosse mai esistito. Come se il suo passaggio nelle nostre galere, e forse su questa Terra, non si fosse mai compiuto. Qualche giorno fa il ministro Nordio ha detto parole vergognose sul fatto che i 46 suicidi da lui così conteggiati al ribasso - che sono invece a oggi 54, di cui l’ultimo si è portato via la breve vita di Danilo - non costituirebbero “nessun allarme suicidi”, in quanto il numero sarebbe “sotto la media nazionale dell’ultimo triennio”. Poche ore dopo il Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, i cui dati erano all’origine dell’allarme invocato dalla stampa, si è affrettato a emanare un comunicato di allineamento al governo: “in linea con quanto rilevato dal Ministero della Giustizia, si precisa quanto segue. Al 31 luglio 2025 si registra una diminuzione significativa del numero di suicidi nelle carceri italiane rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (…): al 31 luglio del 2024 un totale di 58 suicidi, che scendono a 46 allo stesso periodo di quest’anno, con una riduzione quindi di 12 unità”. *Coordinatrice dell’Associazione Antigone Detenzione, dignità e rieducazione: perché le parole di Alemanno non si possono ignorare di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 15 agosto 2025 Le parole di Gianni Alemanno dal Braccio G8 di Rebibbia non possono essere liquidate come un semplice sfogo personale. Rappresentano, piuttosto, la voce di un’intera comunità dimenticata, composta da uomini e donne reclusi in un sistema penitenziario che, invece di assolvere alla funzione costituzionale di rieducazione, troppo spesso diventa un luogo di abbandono, degrado e disperazione. In Italia, la condizione delle carceri è da anni oggetto di denunce da parte di organismi internazionali, associazioni, garanti e giuristi. Celle sovraffollate, strutture fatiscenti, personale insufficiente e carenza di programmi trattamentali: queste criticità si intrecciano in una spirale che colpisce indistintamente detenuti e operatori. In questo quadro, la denuncia di Alemanno non è soltanto un atto di autolegittimazione, ma un contributo necessario al dibattito pubblico su una questione che riguarda la dignità umana e lo Stato di diritto. È un paradosso estivo. L’immagine evocata - la “politica in ferie” e i detenuti abbandonati “come cani in autostrada” - è volutamente dura, ma non priva di fondamento. Nei mesi estivi, la macchina giudiziaria rallenta, le attività penitenziarie si riducono, e i tempi per decisioni fondamentali, come quelle relative a permessi o misure alternative, si dilatano ulteriormente. Questo comporta un aggravamento della tensione interna, mentre situazioni sanitarie o familiari emergenziali restano sospese in un limbo burocratico. Tra le figure più colpite da questa instabilità ci sono gli “ex art. 80”, professionisti specializzati - psicologi, psicoterapeuti e criminologi - che operano a contratto per l’amministrazione penitenziaria. Il loro ruolo è cruciale: ascoltano, mediano, progettano percorsi di reinserimento, individuano fragilità psicologiche e prevengono situazioni di rischio. Eppure, il loro impiego è segnato da precarietà contrattuale, stipendi bassi e mancato riconoscimento istituzionale. Molti di loro, pagati a ore e spesso senza garanzie, condividono con i detenuti la frustrazione di lavorare in un sistema immobile. Subiscono il logoramento emotivo derivante dal contatto quotidiano con sofferenza, rabbia e disperazione, senza ricevere adeguato supporto psicologico o formativo. La loro condizione è un termometro della scarsa priorità che lo Stato attribuisce alla funzione rieducativa della pena. Fortunatamente il Legislatore sta valutando che percorsi di stabilizzazione intraprendere. Alemanno, proprio nella sua lettera, ricorda indirettamente un principio basilare: la privazione della libertà non può mai tradursi in privazione della dignità. La Costituzione, all’art. 27, sancisce che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. Ma come può avvenire questo in istituti che non garantiscono cure mediche tempestive, spazi adeguati, accesso al lavoro e alla formazione? Le statistiche sui suicidi in carcere - decine di casi solo nei primi mesi dell’anno - non sono numeri isolati, ma l’effetto di una condizione sistemica di abbandono. L’assenza di interventi strutturali produce un doppio danno: mina la possibilità di recupero del detenuto e logora irrimediabilmente il tessuto umano di chi, come gli ex art. 80, cerca di sostenerlo. Ben inteso, perché chi scrive non vuole essere frainteso. Difendere le parole di Alemanno non significa ignorare le responsabilità individuali che lo hanno condotto alla detenzione. Significa, piuttosto, riconoscere che la civiltà di uno Stato si misura dal modo in cui tratta le persone private della libertà. Una giustizia che rinuncia alla propria funzione di reintegrazione sociale diventa soltanto un meccanismo di esclusione, alimentando recidiva e marginalità. Gli appelli lanciati da personalità pubbliche, specie quando provengono dall’interno delle mura, hanno il merito di riportare la questione carceraria al centro dell’agenda politica. Ma serve un’azione coordinata quale la velocizzazione del processo di valorizzazione degli ex art. 80, con contratti dignitosi, stabili, oltre al potenziamento dei servizi sanitari e psicologici negli istituti di pena; lo snellimento delle procedure per la concessione di misure alternative e permessi; piani di edilizia penitenziaria per ridurre sovraffollamento e degrado strutturale. Le parole di Gianni Alemanno, lette senza pregiudizio, sono un atto di denuncia collettiva: parlano di una frattura tra la missione costituzionale della pena e la realtà quotidiana delle carceri italiane. Una frattura che colpisce detenuti, personale penitenziario, operatori esterni e, in ultima analisi, l’intera società. Ignorare questo grido significa accettare un modello di giustizia incapace di offrire una seconda possibilità e di tutelare la dignità umana. Ascoltarlo, invece, è il primo passo per restituire allo Stato il volto di una democrazia matura, che non ha paura di guardare nelle proprie zone d’ombra e di intervenire per sanarle. *Avvocato, Direttore Ispeg La riforma vera della giustizia è una mission politica di cui finora non c’è traccia di Ettore Jorio Gazzetta del Mezzogiorno, 15 agosto 2025 “Sotto ostaggio dei giudici”, è il termine più ricorrente nel linguaggio politico per testimoniare due cose: la voglia della magistratura di intervenire sull’esercizio delle politiche governative (l’ultima quella della Corte di giustizia su quella migratoria); l’aggressione nei confronti di esponenti della politica attiva attraverso il loro esercizio obbligatorio dell’azione penale. In entrambi i casi, il ricorso ad un siffatto linguaggio, che spesso arriva ad essere arricchito da particolari epiteti buoni per dimostrare (sic!) l’esistenza dinamica di un “partito dei giudici”, costituisce una plateale offesa alla Costituzione. Non solo. Serve forse a dissolvere l’attenzione dal “partito contro la magistratura” formatosi nelle file della maggioranza che governa il Paese. Il Giudice, e con esso il potere giudiziario, è espressione dell’ordinamento, anche eurounionale, e costituisce il terzo potere dello Stato. In quanto tale deve assicurare la tutela dello Stato di diritto ed esercitare l’azione penale ogni qual volta vengano violate le leggi comportanti reati. Ma da parte di chiunque, nessuno escluso. Appare pertanto stomachevole ogni campagna “diffamatoria” messa in campo dalla politica, con il contributo di certa stampa, allorquando vengano avviate indagini e condivisi i relativi rinvio a giudizio di esponenti più o meno noti della politica. Specie di quelli che l’abbiano eretta a proprio stabile lavoro. Il condividere un siffatto operato non vuole dire asserire la bontà del giustizialismo, come taluni ritengono di affermare. È tutt’altro. È il garantismo offerto dalla Costituzione, quella che con la recente approvazione del Ddl costituzionale perfezionata il 22 luglio scorso si intende stravolgere. Peraltro, facendo passare tale revisione della Costituzione, ricorrendo al vocabolario della politica, per la “riforma della giustizia”, che è tutt’altra cosa. Quanto approvato con 106 senatori favorevoli, 61 contrari e 11 astenuti - nella vulgata comune ritenuto funzionale ad essere speso come separazione delle carriere dei magistrati - altro non è che un Ddl costituzionale. Un provvedimento - quello licenziato dal Senato in seconda e definitiva lettura con una maggioranza insufficiente e che dovrà essere pertanto sottoposto ad un referendum popolare confermativo (art. 138, comma 2) - che è inteso a modificare gli artt. 87, 102, 104, 105, 106, 107 e 110 della vigente Costituzione. Proprio per una siffatta caratteristica, posseduta dal Ddl costituzionale di iniziativa del Governo, è quantomeno improprio definirlo “Riforma della Giustizia”, che significherebbe mettere mano alla intera disciplina del terzo potere dello Stato. Un gioco da niente, certamente non perseguibile limitandosi a distinguere lo stato giuridico dei magistrati impegnati nel penale che esercitano il ruolo requirente da quelli che svolgono la funzione giudicante. La riforma della Giustizia, che toccherebbe ben altre dimensioni di confronto di quelle trattate dall’anzidetto Ddl costituzionale recante “Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare”, dovrebbe essere organicamente finalizzata ad individuare un diverso modo di concepire la funzione della Magistratura. Meglio, a regolare e regolamentare i suoi diversi ruoli che vengono esercitati per produrre la Giustizia. Per conseguire un tale pregevole risultato, necessiterebbe l’assunzione di una convinta mission politica rappresentativa dell’aspettativa del legislatore “costituzionale” di migliorare strutturalmente la composizione delle diverse giurisdizioni sotto il profilo della loro dinamicità di esercizio differenziato. Questa sarebbe una ratio apprezzabile perché intesa a velocizzare i processi e, quindi, a pervenire alle decisioni più ragionevoli, forse accorciando i gradi di giudizio che per la loro eccessività rendono difficili e lunghi gli esiti processuali, facilitando nel contempo la maturazione di prescrizioni spesso indebite. Tutto questo può trovare la sua sintesi in una sequela di provvedimenti legislativi funzionali a riscrivere le giurisdizioni a tal punto da ottimizzare secondo l’esprit des lois unitario un prodotto normativo coordinato e strutturalmente adeguato che renda il giudizio della magistratura più conforme alle esigenze di Giustizia. Per pervenire ad una tale importante aspettativa di grande interesse pubblico, occorre un forte impegno del Parlamento, ma certamente diverso da quello esercitato sino ad oggi in tale presunto senso. Ripensando, dopo il verosimile tonfo referendario, a quanto deciso sino ad oggi in termini di “separazione delle carriere”, ma rivedendo altresì quella riforma della Corte dei conti, utile a sottrarre dalle responsabilità decisori politici e dirigenti, beneficiati della buona fede per presunzione iuris tantum, e a mettere le catene ai polsi della Magistratura contabile che, così come la si pretende, andrebbe a perdere il significativo ruolo che la Costituzione le ha riconosciuto (art. 100). Proseguire negli interventi a completamento della ratio manifestata dalla maggioranza, per il momento in due occasioni al lordo del Ddl cosiddetto Foti, significa intercettare la volontà di dividere, rispettivamente, il giudice requirente comunque dal giudicante e di spazzare via molti dei presidi di legalità contabili, indispensabili a fare giustizia dei conti del sistema autonomistico territoriale. Certamente, più complessi ad esito della spesa dei fondi Pnrr. Ciò che sta accadendo - che trascura tra l’altro la revisione del processo tributario e forse l’eliminazione del privilegio della politica di incidere nella composizione della magistratura amministrativa di secondo grado - è infatti l’esatto contrario di quanto occorra per mettere mano alla vera “Riforma della Giustizia”. Il tutto con la pretesa di mettere in campo ratio diverse e spiriti legislativi contraddittori ma strumentali al conseguimento di un prodotto legislativo apprezzabile, che eviti l’esercizio ideologico delle diverse giurisdizioni, tanto nocive alla realizzazione della giustezza degli esiti dei diversi processi, che come si sta facendo oggi si tendono ad evitare piuttosto che a rendere più corretti. Reati in calo del 9%, dice il Governo: e il Dl sicurezza? di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 15 agosto 2025 Il report sui primi sette mesi del 2025 fa a pezzi la “politica della paura” che il centrodestra continua a praticare. Il dossier di fatto smentisce la narrazione del governo sul dilagare del crimine nel Paese, rendendo sostanzialmente inutile il recente decreto sicurezza. Perdono di senso, in generale, tutti i recenti inasprimenti di pena uniti alla creazione di nuovi reati. Nei primi sette mesi del 2025 i reati sono calati del 9% rispetto allo stesso periodo del 2024. I furti (-7,7%), le rapine (-6,7%) e le violenze sessuali (-17,3%) registrano diminuzioni sensibili. Sostanzialmente stabili gli omicidi, da 178 a 184. Le persone denunciate scendono a 461.495 (- 8%), di cui 91.975 in stato di arresto. Di seguito i dati essenziali degli altri “capitoli” del dossier. violenza di genere: più ammonimenti - Sono in leggero aumento gli omicidi commessi da partner o ex partner (da 33 a 38, + 15,1%). Crescono invece in maniera significativa gli ammonimenti del questore: + 70,6% complessivo, con punte dell’84,6% per stalking. Al momento sono attivi oltre 12mila braccialetti elettronici, di cui quasi 6mila antistalking. Controlli e Zone Rosse - Oltre 928mila persone sono state controllate nelle “zone rosse”, aree a più alta incidenza di criminalità. Gli allontanamenti sono stati 6.187, in gran parte riguardanti cittadini stranieri (74,6%). Le operazioni “ad alto impatto” hanno portato a quasi un milione di persone controllate e oltre 1.800 arresti. Droga, terrorismo e cybercrime - Le operazioni antidroga calano (-8,9%) ma aumentano le quantità sequestrate: 29,2 tonnellate (+12%). Crescono gli arresti per estremismo (+53,8%) e raddoppiano i casi che coinvolgono minorenni. Sul fronte informatico, calano gli attacchi alle infrastrutture critiche (-21,7%), ma sono in crescita i casi legati ad antiterrorismo ed alle frodi online. Ordine pubblico: meno “casi critici” - Le manifestazioni di piazza scendono a 7.294 (-11,1%), con un calo molto marcato di quelle sindacali. In forte diminuzione i feriti tra le forze di polizia (- 35,4%). Sicurezza urbana e progetti locali - Dal Fondo sicurezza urbana arrivano 71,5 milioni di euro a 451 comuni per contrastare disagio giovanile, baby gang, degrado e “mala movida”. La videosorveglianza riceve 108,6 milioni per finanziare 490 progetti. Sono previsti fondi specifici per prevenire truffe agli anziani, garantire scuole e spiagge sicure, e per contrastare le occupazioni abusive. Sicurezza nelle stazioni e sulle strade - Nei primi sette mesi dell’anno sono state controllate quasi 2,8 milioni di persone nelle stazioni ferroviarie. Sul fronte della sicurezza stradale si segnala un calo degli incidenti mortali (-4,4%) e delle vittime (-6,7%). Potenziamento delle forze dell’ordine - Dal 2022 a oggi sono state assunte quasi 40mila nuove unità tra Polizia di Stato, Carabinieri e Guardia di Finanza, con ulteriori 7.586 ingressi previsti entro fine 2025. Anche i Vigili del fuoco vedono un rafforzamento, con 5.328 assunzioni nel triennio e altri 1.560 arrivi entro l’anno. Interdittive antimafia - Maxi crescita del 22,8% per i beni confiscati (5.979 tra immobili, aziende e beni mobili), per un valore di 217 milioni di euro. Anche le interdittive antimafia aumentano sensibilmente (+20%). Per vittime di mafia e usura sono stati stanziati 20 milioni di euro. Immigrazione: arrivi stabili, più rimpatri - Dal 1° gennaio al 14 agosto 2025 sono arrivati 38.568 migranti (+2,1%). Secondo il Viminale sono state bloccate dalla Libia e dalla Tunisia le partenze di 40mila persone. I rimpatri crescono del 12,1%, quelli volontari assistiti superano le 18mila unità. Le richieste di asilo in calo del 22%. Aumentano invece i dinieghi (+58%). Frontiere e flussi regolari - I controlli alla frontiera con la Slovenia hanno riguardato oltre 1 milione di persone, con 7.835 stranieri irregolari individuati. Per i flussi regolari, il decreto 2025 prevede 181.450 ingressi di lavoratori non comunitari, destinati a salire a quasi mezzo milione nel triennio successivo. Soccorso pubblico e incendi - Nei primi sette mesi dell’anno i Vigili del fuoco hanno effettuato oltre 572mila interventi. Prosegue il piano di presidi rurali stagionali per proteggere i parchi, con 23 strutture attivate dal 2023. Meno reati, più fermati. E sono soprattutto stranieri di Alice Oliviero Il Manifesto, 15 agosto 2025 Oggi, come da tradizione a Ferragosto, il Viminale rende pubblici i dati sulle attività svolte nei primi sette mesi dell’anno. Meno male che oltre alle parole ci sono anche i numeri. Era la fine di maggio quando un rapporto del Consiglio d’Europa raccomandava all’Italia uno studio uno studio sulla profilazione razziale da parte delle forze dell’ordine. La polemica fu grande, così come l’indignazione che scese dal governo e dai partiti della maggioranza. Oggi, come da tradizione a Ferragosto, il Viminale rende pubblici i dati sulle attività svolte nei primi sette mesi dell’anno e viene fuori che, in effetti, quella raccomandazione aveva una sua ragion d’essere: nel capitolo dedicato alle zone rosse si dice che, al 10 agosto, sono state controllate 928.491 persone, 389.485 delle quali straniere. Significa il 42% del totale. Gli allontanati per reati contro la persona, contro il patrimonio e in materia di stupefacenti sono stati 6.187, di cui stranieri 4.616, ovvero il 74,6%. Per quello che invece riguarda le cosiddette operazioni ad alto impatto, ovvero quelle che riguardano aree urbane specifiche e mirano a limitare i fenomeni che generano “allarme sociale”, il ministero dell’Interno dichiara 2.961 attività con 954.013 persone controllate (340.850 stranieri, di cui 1.755 espulsi). Notevole, nell’anno del caso Almasri, pure i numeri relativi ai “blocchi delle partenze” (236.231) con focus in particolare sulla Tunisia (26.773 bloccati al primo luglio) e proprio dalla Libia (13.243). In proiezione verranno superati i dati del 2024 (21.762 dalla Libia e 80.942 dalla Tunisia) e del 2023 (17.190 dalla Libia e 76.321 dalla Tunisia). Bloccare le partenze significa fare “accordi con i paesi di partenza e di transito”. Così, in un’intervista al Giornale del 4 maggio, Matteo Piantedosi parlava della situazione libica: “Ci sono rapporti di grande collaborazione all’insegna del rispetto reciproco. Le autorità libiche, pur tra molte difficoltà, stanno contrastando le partenze indotte dai traffici di esseri umani”. E mentre gli sbarchi sulle coste italiane segnano un leggero aumento (+2,1%) rispetto all’anno passato, scendono invece i sì alle richieste d’asilo (-22%). Da qui si giustifica anche il +58% dei provvedimenti di diniego. Salgono anche i rimpatri: 3.463 al 31 luglio, +12,1% sullo stesso periodo del 2024. Altro tema sul quale i numeri chiariscono, anzi smentiscono, le parole è quello delle stazioni. Nel decreto sicurezza, le aree ferroviarie venivano descritte come pericolosissime, e infatti sono state create delle curiose aggravanti geografiche per i reati che vengono commessi da quelle parti. Ebbene, su 2,8 milioni di persone controllate nei primi sette mesi dell’anno, i reati contestati sono tutti in calo: -5% i furti, -8% le rapine, -36,4% la droga sequestrata, -72,9% i danneggiamenti. Scendono anche i reati di ordine pubblico: le manifestazioni di piazza sono scese dell’11,1% e quelle “con criticità” sono passate dalle 236 dei primi sette mesi del 2024 alle 190 del 2025. Giù anche i feriti tra le forze di polizia: -35,4%, da 147 a 95. Tribunale per le persone, i minori e le famiglie: rinunciare al progetto non penalizzi la giustizia di Claudio Cecchella* Il Dubbio, 15 agosto 2025 Alla riunione del 10 luglio 2025 della Commissione ministeriale di studi per l’entrata in vigore del Tribunale per le persone, i minorenni e le famiglie voluto, nel complesso delle riforme sulle controversie minorili e familiari, dalla legge n. 206 del 2021, con principi direttivi poi attuati dalla delega, con decreto legislativo n. 149 del 2022, il suo presidente, il sottosegretario alla Giustizia e senatore Andrea Ostellari, ha enunciato la volontà del Ministero, insieme a una proroga di un anno dell’entrata in vigore, di presentare un disegno di legge di abrogazione dell’organo, che non entrerà quindi più in vigore. È la fine impietosa di una delle scelte di principio della riforma, che attuava l’idea - a 91 anni dall’entrata in vigore del Tribunale per i minorenni e a 85 anni dall’entrata in vigore dell’articolo 38 delle disposizioni di attuazione che attuava il bipolarismo di competenze nella materia, unicum dell’esperienza normativa italiana - di una ritrovata unificazione delle competenze presso un nuovo organo giurisdizionale specializzato, in coerenza con la unificazione e generalizzazione del rito speciale, codificato negli articoli 473 bis e seguenti del codice di procedura civile. Accanto all’unificazione, l’idea era anche quella del giudice di prossimità alle persone coinvolte nella controversia, con l’articolazione circondariale del Tribunale unico e - aspetto non secondario nelle battaglie dell’Avvocatura a tutela del contraddittorio - l’estromissione dalla camera di consiglio del giudice esperto, destinato, come deve essere anche sul piano costituzionale (articolo 111 Cost.), alla funzione di ausiliario del giudice quale consulente tecnico sottoposto al dibattito dei consulenti di parte e degli avvocati, a cui era esentato, quando la sua opinione tecnica era resa esclusivamente in camera di consiglio. In verità l’Avvocatura aveva accettato obtorto collo quello strano modello - in cui, per evidenziare alcune anomalie, all’interno dell’unico organo era contenuta sia l’articolazione di primo grado che l’articolazione di secondo grado, il magistrato assegnato non aveva una sede territoriale definita, dovendo emigrare in continuazione secondo le direttive del dirigente in una sede circondariale oppure nella sede distrettuale e, infine, appariva relegata alla sola esperienza la formazione specialistica del giudice - per assecondare la conservazione dei ruoli dirigenziali dei Presidenti dei Tribunali per i minorenni, le cui funzioni sarebbero cessate con la sezione specializzata al cui vertice è posto il Presidente del Tribunale ordinario. L’idea era serpeggiata in uno storico tavolo di lavori progettuali, organizzato dal Cnf, nella persona dell’allora delegata alla materia familiare e minorile, avvocata Maria Masi, come compromesso per ammorbidire la posizione dell’Associazione di magistrati minorili (ma non servì a nulla, perché quel progetto incontrò alla fine ostacoli tali da esaurire la legislatura senza poter essere discusso in Parlamento). È un’impietosa fine, a cui era condannato, per la clausola di invarianza finanziaria imposta dalla Ragioneria di Stato. L’Avvocatura non ha nostalgia verso il modello, tuttavia è estremamente preoccupata - e inizierà una stagione di progetti suggeriti all’Esecutivo e al Parlamento, ovviamente anche alle Associazioni dei magistrati, nonché di vigilanza attiva sulle iniziative che saranno intraprese - che, da un lato il bipolarismo costituisca soluzione definitiva e non transitoria e che venga resuscitata sine die l’istituzione del Tribunale per i minorenni, con la sua componente onoraria in seno alla decisione o, quello che è peggio, che si metta mano all’articolo 38 per sottrarre competenze al Tribunale ordinario a favore del Tribunale per i minorenni. Pur essendo necessaria una discussione all’interno degli organi dell’Osservatorio, a cui si procederà sin dai primi giorni del prossimo mese di settembre, come idee che esprime il suo Presidente, salvo quindi il vaglio delle opinioni degli organi centrali della Associazione, si può sin d’ora sottolineare alcuni aspetti su cui non è possibile declinare la posizione dell’Avvocatura: il bipolarismo è necessariamente soluzione transitoria; la scelta di trasformare il Tribunale ordinario, a cui sono affidate le materie devolute a questo organo, in sezione specializzata, deve offrire un indirizzo chiaro verso la unificazione dell’intera materia nella sezione specializzata; per consentire la creazione di sezioni specializzate nei Tribunali minori e periferici, dove non esiste un giudice dedicato esclusivamente alla famiglia, è necessario in primo grado abbandonare il modello della collegialità, che viene recuperato in secondo grado, secondo una soluzione normativa rigidamente collegiale dell’appello, costituente un’opzione evidente e significativa della riforma del processo e, quindi, adottare - come nell’esperienza confinante della sezione lavoro e come nell’opzione originaria della riforma - il modello del giudice monocratico; è necessario che il giudice esperto nei Tribunali per i minorenni non acceda alla camera di consiglio, pur potendo essere deputato a singoli atti del processo delegati con provvedimento motivato dal giudice togato, ad esclusione dell’ascolto del minore; è necessario che la ripartizione delle competenze resti quella dell’articolo 38 delle disposizioni attuative e norme richiamate, ovvero sia affidato al Tribunale per i minorenni - in regime transitorio - la sola materia della responsabilità genitoriale, la convalida dei provvedimenti di cui all’articolo 403 c. p. c., la materia dell’adozione. È necessaria, ancora, una profonda riforma della materia dell’adozione, non essendo tollerabile che segua le forme di un rito diverso dal rito unificato e che, particolarmente nei procedimenti sullo stato di adottabilità, assuma un giudizio finale con il giudice esperto in camera di consiglio senza il contraddittorio delle parti, e ovviamente per altre ben note ragioni di diritto sostanziale, più volte sollecitate dalla Corte costituzionale. Salvo una condivisione associativa, che potrebbe condurre a alcune modifiche: questa la linea per la quale il Presidente dell’Osservatorio intende ispirare la propria iniziativa nei prossimi mesi. *Professore ordinario e Presidente di Ondif Lazio. Migliorare la vita detentiva in carcere, aperto il Bando “Costruire il futuro” rietinvetrina.it, 15 agosto 2025 Da oggi è aperto il Bando “Costruire Futuro 2025” attraverso il quale la Regione Lazio, nell’ambito della legge regionale 7 del 2007, stanzia 250mila euro per interventi volti al miglioramento della vita detentiva e al reinserimento sociale delle persone private della libertà personale in custodia presso gli Istituti Penitenziari del Lazio. Il Bando, che scade il 30 settembre, è rivolto ad organizzazioni no profit aventi sede legale nel Lazio e che abbiano nel proprio statuto uno scopo attinente alle tematiche trattamentali. I progetti in questione sono finalizzati al sostegno della genitorialità e al miglioramento dei legami affettivi e relazionali. L’obiettivo principale è garantire il rispetto dei diritti fondamentali delle persone private della libertà personale, supportando il loro benessere psicofisico e promuovendo forme di espressione, creatività e riflessione. Si mira inoltre ad accompagnare i detenuti nel reinserimento sociale, incentivando l’accesso a misure alternative alla detenzione. Le iniziative specifiche includono il mantenimento e lo sviluppo dei legami familiari, migliorando la qualità degli incontri tra il detenuto e i suoi cari, sia nella relazione di coppia che nel rapporto genitore-bambino. Particolare attenzione viene data alla promozione di una genitorialità responsabile. Inoltre, i percorsi proposti sono volti a ridurre la recidiva, in particolare per quanto riguarda i reati legati alla violenza di genere. Attraverso azioni di sensibilizzazione e prevenzione, si intende promuovere il rispetto e la valorizzazione delle diversità. Infine, sono previsti percorsi di informazione, orientamento e formazione per favorire un reinserimento efficace nella società. Tutte le informazioni sono consultabili sul sito della regione Lazio e su LazioEuropa.it. “La Giunta Rocca è impegnata per riaffermare il volto costituzionale della pena e assicurare la dignità di ogni persona che si trova a vivere e lavorare in carcere. Le misure che intendiamo portare avanti con questo Bando hanno l’obiettivo di trasformare l’esperienza della detenzione da momento di sofferenza a occasione di riflessione umana e di crescita personale. Solo rendendo concreta la promessa di reinserimento sociale è possibile rendere la detenzione in carcere utile tanto al detenuto, che potrà sperare in una nuova vita dopo la pena, quanto alla società. Insieme alle risorse stanziate per il progetto dell’odontoambulanza e a quelle per il diritto allo studio universitario, abbiamo messo in campo un pacchetto di misure che potrà contribuire a migliorare la vita negli istituti penitenziari, pur nella consapevolezza che il lavoro da fare è ancora molto” - sottolinea l’assessore al Personale, alla Sicurezza urbana, alla Polizia locale, agli Enti locali e all’Università della Regione Lazio, Luisa Regimenti. Sicilia. L’appello al presidente Schifani: “Nomini il nuovo Garante regionale dei detenuti” Ristretti Orizzonti, 15 agosto 2025 I Garanti dei detenuti di Palermo, Messina e Siracusa hanno scritto una lettera al Presidente della Regione Siciliana Renato Schifani affinché provveda al più presto alla nomina del nuovo Garante regionale. Il posto è infatti vacante dal primo aprile scorso, dopo le dimissioni del dott. Santi Consolo. La Regione Sicilia ha ben 23 istituti penitenziari: nessun’altra regione italiana ha la stessa quantità di strutture detentive (la Lombardia ne ha 18, il Lazio e la Campania 15, la Toscana 16). Attualmente i garanti territoriali sono appena tre, Pino Apprendi per il Comune di Palermo, Giovanni Villari per quello di Siracusa e Lucia Risicato per quello di Messina: solo tre garanti territoriali possono tuttavia limitarsi a lambire il disagio di migliaia di detenuti rimasti senza una figura di garanzia di riferimento. Sovraffollamento e suicidi denunciano una situazione di emergenza nazionale senza precedenti, già oggetto della protesta nazionale dei Garanti territoriali il 30 luglio scorso. I Garanti, confidando nella possibilità di un confronto diretto col Presidente, auspicano che la figura del nuovo Garante regionale possieda - com’è indispensabile - competenza ed esperienza specifiche, maturate sul campo, e che non sia invece il frutto di logiche di partito incompatibili con la natura terza e autonoma di ogni organo di garanzia. Treviso. 17enne morto suicida in carcere. “Serviva sostegno sociale e psicologico, non la cella” di Francesco Brun Corriere del Veneto, 15 agosto 2025 “Questo ragazzo aveva problemi che richiedevano attenzione e sostegno. Quali interventi sono stati attivati per il suo percorso di accoglienza e integrazione? Come mai si è ritenuto opportuno il collocamento in un istituto penale, e non in una struttura specializzata in grado di offrire supporto psicologico e sociale? Nelle decisioni prese, si è tenuto conto dei traumi che molti minori portano con sé nel loro viaggio verso l’Italia?”. Domande alle quali è fondamentale trovare una risposta quelle poste, in particolar modo alle istituzioni vicentine, da Emanuela Natoli, presidente dell’associazione Movimentiamoci Vicenza. Al centro della discussione è la tragica fine di Danilo Rihai, il 17enne tunisino morto mercoledì due giorni dopo aver tentato di togliersi la vita all’interno del carcere minorile di Treviso. Il ragazzo, un minore non accompagnato arrestato sabato dalla polizia per il caos creato a Vicenza, è stato trovato impiccato nella sua cella dal personale carcerario, privo di respiro da circa 6-7 minuti. A nulla sono servite le cure dei medici del Ca’ Foncello, le sue condizioni erano troppo gravi. “Non intendo giustificare comportamenti violenti o reati - le parole della presidente Natoli -, ma non si può liquidare questa vicenda con indifferenza: è morta una persona! E ogni vita merita rispetto e dignità. I progetti destinati ai minori stranieri non accompagnati quali risultati concreti stanno ottenendo? È stato fatto tutto il possibile per prevenire esiti tragici? Se in un percorso di tutela non si interviene in modo efficace, è necessario riflettere sul funzionamento del sistema e, se opportuno, rivedere incarichi e procedure. Questo ragazzo non aveva una famiglia accanto. Per questo mi aspetto che le figure preposte al monitoraggio e alla presa in carico garantiscano presenza, attenzione e continuità. O il rischio è che si ritrovi, di fatto, da solo. Queste domande non riguardano solo un singolo caso, ma la visione di società che vogliamo costruire. Un 17enne - conclude - non dovrebbe mai arrivare a togliersi la vita in una cella”. Riahi era giunto a Vicenza a gennaio. Il ragazzo, di cui si sono occupati Comune e prefettura, era stato portato in un albergo di Vicenza, dal quale era fuggito tre volte, e quindi a partire da febbraio in alcuni centri di accoglienza straordinaria della provincia, dai quali aveva fatto quattro volte dentro e fuori. Il giovane si era poi spostato nel Padovano, e l’ultima sua notizia era del mese scorso, quando il Pronto intervento sociale di Este ne aveva denunciato la scomparsa. Sabato Rihai aveva tentato di scippare un anziano all’altezza di Ponte San Michele, a Vicenza, colpendo poi in viale Margherita e in una pizzeria di via X Giugno. Avrebbe poi aggredito altre persone, tuffandosi nel fiume Retrone per sfuggire alla polizia. Riemerso in contra’ Santi Apostoli, si è introdotto in un appartamento. Qui ha creato scompiglio: nudo alla finestra, ha spruzzato un estintore, rotto vetri e lanciato oggetti. Dopo due ore era stato bloccato con un taser e arrestato. Prato. Un detenuto italiano di 58 anni è morto nel carcere per cause naturali La Nazione, 15 agosto 2025 È successo nella notte tra mercoledì 13 e giovedì 14 agosto. Lo comunica la Uil Polizia penitenziaria. L’uomo, in carcere per reati contro il patrimonio e la persona, ha accusato un malore nella notte ed è stato subito soccorso prima dal personale di polizia penitenziaria e poi dal personale medico e infermieristico presente nella struttura. All’arrivo del 118 tuttavia era già troppo tardi. L’uomo era già morto. “Un episodio spiacevole - commenta la Uil Polizia penitenziaria di Prato - che segna ancora una volta l’istituto cittadino. In pieno periodo estivo con il personale che continua a lavorare a ritmi stressanti e impossibili. Le attenzioni e le promesse date alla Casa circondariale da parte della politica e dei vertici dell’amministrazione sono di fatto rimaste solo chiacchiere”. Torino. Detenuto suicida nel carcere, s’indaga su segnalazioni e sorveglianza di Jacopo Ricca rainews.it, 15 agosto 2025 Aperto un fascicolo per omicidio colposo. L’avvocata del 45enne morto il 7 agosto: “Era in una condizione di fragilità nota all’amministrazione”. I carteggi tra i diversi uffici dell’amministrazione penitenziaria, ma anche le relazioni degli psichiatri. Sono alcuni dei documenti che saranno vagliati dagli investigatori per cercare di capire se il suicidio del 45enne genovese, trovato senza vita nella sua cella del carcere Lorusso e Cutugno di Torino giovedì 7 agosto, si potesse evitare. Il pm, Davide Pretti, ha aperto un fascicolo per omicidio colposo, al momento senza indagati, e dopo l’autopsia fatta lunedì dal medico legale, Alice Porceddu, la salma dell’uomo è stata messa a disposizione della famiglia. Il suicidio - Il detenuto, che aveva da poco iniziato a scontare una condanna definitiva per diversi reati tra cui furto e ricettazione, era in una condizione di fragilità che - spiega la sua avvocata Roberta Di Meo - era stata segnalata al carcere: “I genitori avevano già avvisato l’amministrazione penitenziaria di questa condizione - ha raccontato - Ora chiediamo chiarezza. Serve un’indagine approfondita per verificare eventuali responsabilità o negligenze”. Sulla dinamica ci sono pochi dubbi: il 45enne ha usato un lenzuolo per farne una rudimentale corda da stringere al collo, ma gli inquirenti sono al lavoro per ricostruire le sue ultime ore in carcere e capire se ci fossero segnali che avrebbero potuto portare ad aumentare la sorveglianza. Le criticità - Secondo il sindacato di polizia penitenziaria Osapp una delle criticità è legata anche alla carenza di personale: nella sera di martedì 12 agosto - sempre a Torino - approfittando proprio dei pochi operatori presenti, un altro detenuto ha tentato di impiccarsi usando come cappio l’elastico dei boxer. A salvarlo proprio un agente che lo ha visto quando già si era appeso alle sbarre. Torino. Mellano: “Celle invivibili, l’emergenza non si ferma d’estate” di Rebecca De Bortoli La Stampa, 15 agosto 2025 La denuncia di Ferragosto dei Radicali su sovraffollamento, caldo e mancanza di attività. Problemi strutturali, sovraffollamento, carenza di servizi. E il caldo che rende le celle uno scampolo di inferno in terra. Mentre a livello nazionale parte l’esposto contro il ministro della Giustizia Carlo Nordio per “concorso omissivo” sui suicidi dietro le sbarre, il Partito Radicale torinese organizza l’iniziativa ‘Ferragosto in carcere’, dove con una visita all’interno delle mura, in questo caso della casa circondariale Lo Russo e Cotugno, cerca di riaccendere l’attenzione e denunciare le condizioni in cui vivono i detenuti. Un’iniziativa che va avanti dal 2008: “Nonostante l’impegno costante degli operatori e degli educatori, molte criticità restano irrisolte. I professionisti provano a sopperire a numerose mancanze, ma i loro sforzi riescono solo in parte a colmare le lacune di un sistema che fatica a garantire dignità e sicurezza. L’iniziativa vuole proprio accendere un faro su queste condizioni durante il mese estivo, quando l’attenzione mediatica e politica si abbassa e il caldo rende le celle ancora più invivibili, in assenza totale di sistemi di refrigerazione” dicono l’ex deputato Alberto Nigra e l’ex garante dei detenuti della Regione Piemonte Bruno Mellano (in corsa per lo stesso ruolo in Comune). Solo pochi giorni fa si è verificato un nuovo suicidio e, a distanza di poco, un tentativo analogo. Nella sezione coinvolta da questa vicenda- che ospita 37 detenuti - il clima è pesante. I compagni di detenzione si sono mostrati consapevoli dei rischi che corre chi vive in una condizione di isolamento emotivo e sociale. “Un detenuto più riservato può finire facilmente in un cono d’ombra, dove la scarsa cura può diventare totale assenza”, viene riferito da Mellano e Nigra. Chi non ha la possibilità di protestare o chiedere aiuto, rischia di diventare un numero in più nelle tragiche statistiche: 53 suicidi in carcere in Italia dall’inizio dell’anno (o 48, secondo il Dap), 3 in Piemonte, 2 a Torino e 1 a Cuneo. E tutto questo nonostante negli anni siano stati avviati tentativi di miglioramento e progetti di sostegno che, numeri alla mano, sembrano essere insufficienti. Attualmente, nel carcere delle Vallette sono presenti 1.329 detenuti in sezione giornaliera, a cui si aggiungono 47 ammessi al lavoro esterno e 59 in regime di semilibertà. Il totale è di 1.435 persone, circa 450 detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare. A questo si aggiunge la criticità di una ventina di posti non disponibili per lavori di ristrutturazione. In tutto il Piemonte, le celle inutilizzabili per manutenzione ammontano a 261. “Il carcere d’estate si svuota di attività, ma non di detenuti”, denuncia l’ex garante. “I tirocini scolastici e molte altre attività vengono sospesi, riducendo così le occasioni di impegno e accrescendo il ruolo punitivo e non rieducativo della struttura. Le attività che restano, pur interessanti, risultano comunque insufficienti rispetto al numero di persone presenti” continuano a spiegare. Un dato positivo riguarda lo stanziamento di 12,5 milioni di euro per interventi strutturali nel carcere di Torino. Resta però aperta la questione di dove collocare i detenuti durante i lavori, dato che i padiglioni dovrebbero essere svuotati. I miglioramenti che si potrebbero fare, però, sono tanti: secondo quanto previsto dal regolamento penitenziario del 2000, per esempio, ogni cella dovrebbe essere dotata di una doccia privata accanto al bagno. L’applicazione effettiva di questa norma trasformerebbe forse un po’ la qualità della vita all’interno delle celle. Tuttavia, secondo l’ex deputato Nigra, interventi parziali non sono più sufficienti: “Questa struttura carceraria andrebbe abbattuta e completamente ripensata e scegliere di investire sulla rieducazione e non sulla punizione. Ruolo che dovrebbe avere il carcere. Invece un fattore che dimostra la tendenza opposta è che molte delle attività proposte sono considerate riempitivi di tempo, senza un reale impatto sulla crescita o sul reinserimento dei detenuti. Si dovrebbe ripensare dell’intero sistema e soprattutto abbattere il sovraffollamento per concentrarsi sulle persone tramite l’introduzione di pene alternative, l’estensione di misure come l’indulto e sconti di pena legati alla buona condotta. Purtroppo - conclude - il clima politico attuale sembra andare in direzione opposta. Si parla di costruire più carceri, ma non si lavora sulle persone”. Messina. “Criticità strutturali al carcere di Gazzi”, ispezione Pd dopo il suicidio in cella tempostretto.it, 15 agosto 2025 Ieri la deputata Marino e il segretario provinciale Hyerace hanno visitato la Casa circondariale di Gazzi. Presto un’interrogazione al ministro Nordio. “Pur presentando condizioni complessivamente migliori rispetto a molti altri istituti penitenziari - anche grazie all’impegno della direzione e del personale - la Casa circondariale di Gazzi evidenzia alcune criticità ormai strutturali del sistema penitenziario nazionale. La seria professionalità della direzione e del personale risulta tangibile, pur non senza enormi difficoltà quotidiane, ma sono tanti i problemi riscontrati”. Così, in una nota, il Partito democratico dopo l’ispezione di ieri mattina al carcere di Messina da parte della deputata Stefania Marino e del segretario provinciale del Pd Armando Hyerace. La visita era stata annunciata in seguito al suicidio del detenuto Stefano Argentino. “Un fatto che segna una doppia sconfitta per lo Stato, sia sul piano della giustizia per la giovane Sara Campanella, sia su quello della tutela di chi è affidato alle istituzioni. Alle famiglie di entrambi questi giovani va il mio pensiero, con tutto il senso di responsabilità che il ruolo di parlamentare mi impone”, ha commentato la parlamentare. Nel corso dell’ispezione, i due esponenti dem hanno avuto modo di “dialogare lungamente con un’amministrazione penitenziaria profondamente segnata dall’accaduto”. “Le criticità strutturali del carcere di Messina” - Ed ecco le note dolenti elencate da Marino e Hyerace: “Insufficienza della pianta organica, sia per il personale di polizia penitenziaria sia per gli operatori; necessità urgenti di manutenzione delle strutture; grave carenza di personale educativo e trattamentale, fondamentale per il percorso di reinserimento sociale dei detenuti”. Interrogazione parlamentare al ministro e una proposta all’amministrazione comunale - La deputata del Pd ha assunto “l’impegno di portare all’attenzione del ministro della Giustizia Nordio le problematiche riscontrate, attraverso un’interrogazione parlamentare volta a sollecitare interventi concreti e immediati”. Da parte suo, il segretario Hyerace fa sapere che “il gruppo consiliare dem solleciterà all’amministrazione comunale l’avvio di uno sportello che garantisca anche per i detenuti di Gazzi i servizi erogati dagli uffici municipali”. Verona. “Il sovraffollamento a Montorio? È una bomba a orologeria” di Christian Gaole Corriere di Verona, 15 agosto 2025 L’iniziativa “Ristretti di agosto” con Comune e Camere Penali: ieri la visita. “Riportare il carcere dentro i confini della legalità costituzionale, restituendo dignità ai detenuti”. Questo l’obiettivo dell’iniziativa “Ristretti di agosto”, organizzata dall’Unione delle Camere Penali Italiane. Anche Verona ha voluto prendere parte al progetto, che è stato presentato ieri nella casa circondariale di Montorio. Hanno aderito all’iniziativa il sindaco Damiano Tommasi, la vicesindaca Barbara Bissoli, il garante dei detenuti don Carlo Vinco e l’avvocato Alessandro Favazza, membro del direttivo della Camera Penale di Verona. La situazione rimane invariata rispetto alla denuncia fatta da don Vinco nei mesi scorsi, proprio sulle pagine del Corriere di Verona: a fronte di 335 posti regolamentari, questo carcere ospita 629 detenuti e la carenza di personale penitenziario non riesce a supplire ai bisogni. “Questi sono giorni in cui si dovrebbe stare con la propria famiglia”, ha esordito il primo cittadino, che ha aggiunto: “In carcere l’assenza di tutto ciò si avverte in maniera ancora più forte. La tensione si percepisce ed è acuita dal fatto che durante questo periodo di festività e vacanze la carenza di personale di sorveglianza impedisce ai detenuti di usufruire pienamente degli spazi comuni e delle attività di formazione e intrattenimento che normalmente svolgono”. Il Comune ha attivato diversi progetti in collaborazione con il carcere di Montorio, per esempio, il centro “Nav” (Non Agire Violenza), che accoglie uomini detenuti che hanno commesso maltrattamenti e cercano di trovare una strada diversa rispetto a quella che avevano imboccato. “Siamo più che consapevoli che il tema dell’inserimento nel mondo del lavoro è cruciale - ha sottolineato Tommasi - per dare non solo una possibilità di rinascita a chi ha intrapreso un percorso di vita sbagliato, ma anche dignità personale. Il Comune sta investendo molto in questa direzione. Il nostro assessorato ai servizi sociali, in collaborazione con l’assessorato alla sicurezza e alla legalità, anche tramite il tavolo interistituzionale per il carcere promosso da Palazzo Barbieri e alcune realtà del terzo settore, si è attivato per favorire percorsi di rigenerazione anche grazie al lavoro. Il tutto finalizzato a un progressivo rientro nella società”. “I posti regolamentari sono 335 a fronte, oggi, di 629 detenuti ospitati presso la casa circondariale di Montorio, quindi, sono quasi il doppio rispetto alla capienza”, ha dichiarato l’avvocato Favazza. “Questo dato ci preoccupa, perché da un lato il governo non sta mandando avanti la riforma Giacchetti sulla liberazione anticipata speciale e dall’altro, interviene prevedendo reati come quello della rivolta, che non fanno altro che aumentare il numero della popolazione detenuta. Speriamo che questa iniziativa della Camera Penale, col patrocinio dell’Unione e del Comune, con cui ha un tavolo condiviso, si possa andare avanti con il tentativo di lenire la pena e di ricondurre a dei criteri di legalità”. “Servirebbero molte più risorse, ma non possiamo attenderci che arrivino solo dai privati, dovrebbero giungere anche da uno Stato un po’ più attento rispetto a questo fenomeno” del sovraffollamento, ha concluso Favazza. Per l’avvocato, questo fenomeno è una bomba a orologeria. Trento. “La situazione nel carcere di Spini peggiora, la politica locale è indifferente” gazzettadellevalli.it, 15 agosto 2025 La situazione nel carcere di Gardolo peggiora. Visita ispettiva alla Casa circondariale di Gardolo della consigliera provinciale Movimento Casa Autonomia, Paola Demagri, insieme al Garante dei detenuti Giovanni Maria Pavarin e alla sua collaboratrice Federica Rottaris. “La situazione peggiora, ma l’impegno non si ferma - spiega la consigliera provinciale Paola Demagri. Ogni anno mi dedico con costanza alla comunità che vive e lavora all’interno del carcere: detenuti, polizia penitenziaria, professionisti sanitari ed educatori. Ogni anno porto alla luce le criticità, cerco soluzioni, raccolgo testimonianze. Ma ogni anno mi scontro con l’indifferenza della politica locale. Forse perché i detenuti non votano, o non risiedono in Trentino? Forse perché il carcere è considerato un mondo a parte, da ignorare finché non esplode? Eppure, la Casa Circondariale di Spini di Gardolo è parte integrante della nostra comunità. E come tale, merita attenzione, rispetto e investimenti”. “Ieri - prosegue Demagri - insieme al Garante dei detenuti Giovanni Maria Pavarin e alla sua collaboratrice Federica Rottaris, ho effettuato una visita ispettiva congiunta alla struttura. L’obiettivo era duplice: monitorare la situazione del personale sanitario e verificare le condizioni del reparto cucina. Ma ciò che è emerso va ben oltre. Sovraffollamento e sotto-organico: una bomba sociale. I numeri parlano chiaro. L’accordo tra Provincia e Governo prevede una capienza di 240 detenuti. Oggi ce ne sono 370: 331 uomini e 39 donne. Di questi:114 sono “protetti”, 4 in regime di semilibertà,14 rientrano nell’articolo 21, 190 sono extracomunitari, 86 sono in custodia cautelare, 10 sono in carico alla REMS di Pergine Valsugana”. “A fronte di questo sovraffollamento - aggiunge - la polizia penitenziaria è drammaticamente sotto organico: 160 agenti in servizio contro i 199 previsti dalla pianta organica. Il personale è stremato, il clima è teso, la gestione è al limite. Sanità in affanno, cucina sotto osservazione. Il personale sanitario medico è composto in gran parte da gettonisti, con un forte sottodimensionamento degli infermieri. Il carcere non è considerato un ambiente appetibile dall’Azienda Sanitaria: chi ci lavora vuole andarsene, chi potrebbe entrare non lo fa. Le difficoltà sono accentuate dal fatto che la visione clinica dei sanitari spesso si scontra con quella ambientale degli agenti, generando tensioni e ostacolando la gestione dei detenuti. Sul fronte alimentare, i detenuti lamentano porzioni ridotte e distribuzioni non eque. Questo genera malcontento e rischia di esasperare ulteriormente un clima già fragile”. “Durante la visita - conclude la consigliera provinciale - abbiamo analizzato l’intero processo di preparazione dei pasti e individuato criticità che saranno affrontate nelle sedi competenti. È stato segnalato l’uso di alcolici e sostanze stupefacenti che non provengono dall’interno del carcere, ma che comunque circolano. Inoltre, la struttura - che fa capo al Provveditorato del Triveneto - accoglie detenuti da regioni limitrofe, generando un flusso continuo di ingressi e transiti che aggrava il carico di lavoro e destabilizza la comunità interna. Serve una svolta politica. Il mio impegno, insieme a quello del Garante Pavarin, non si limita alla denuncia. Chiediamo con forza al Presidente Fugatti di tornare a battere i pugni sul tavolo del Ministero della Giustizia. Servono: più agenti, più risorse per i progetti di reinserimento e un Provveditorato autonomo per il Trentino Serve una presa di coscienza politica che non si limiti a visite simboliche, ma si traduca in atti concreti. Se davvero vogliamo offrire ai detenuti una possibilità di riscatto, dobbiamo partire da qui: dal riconoscere che anche chi ha sbagliato ha diritto a un futuro che si ricostruisce partendo dal carcere”. Pavia. Al carcere di Vigevano arriva il 41-bis? araldolomellino.it, 15 agosto 2025 Il 41-bis arriverà al carcere di Vigevano? È questa l’indiscrezione che trapela sul destino del penitenziario ducale: la possibile introduzione nella casa di reclusione di Vigevano di una sezione con detenuti al regime di 41-bis causa incertezza sul prossimo futuro della struttura dei Piccolini. Secondo indiscrezioni chiuderebbe la sezione femminile che sarebbe sostituita da una del “carcere duro” che prevede l’isolamento dei reclusi in celle singole e controllate 24 ore su 24. Rosalia Marino, direttrice del carcere di Vigevano, prossima al trasferimento alla casa circondariale di Opera, riferisce che “non si sa ancora nulla di certo” riguardo al numero di detenuti in regime di 41 bis che arriverebbero nella struttura dei Piccolini, mentre sul portale del Ministero della Giustizia sono stati pubblicati gli atti per la gara terminata il 21 luglio relativa ai lavori di manutenzione straordinaria e adeguamento per ospitare detenuti soggetti al 41 bis. L’importo dell’appalto è di 986.259 euro. Non c’è certezza sui tempi degli interventi, così come non c’è su un’eventuale riorganizzazione del personale della polizia penitenziaria: “Non ho notizie certe a riguardo - dichiara Michele De Nunzio, segretario regionale dell’Uil Pa Penitenziari - è sicuramente un argomento delicato, il cui compimento, se confermato, non sarebbe ad ogni modo così imminente, anzi richiederebbe del tempo. Si dovrebbero sicuramente tenere conto anche le nostre esigenze, visto che siamo sempre sotto organico e svolgiamo turni straordinari. Il carcere duro, inoltre, presenta diverse difficoltà sia per i detenuti che per l’amministrazione penitenziaria. Le principali problematiche riguardano l’isolamento, le restrizioni ai contatti con l’esterno e le difficoltà di gestione all’interno degli istituti”. Il caso è anche politico, con il Partito Democratico di Vigevano che chiede se il sindaco Ceffa e l’amministrazione sono stati “informati in merito ai lavori di adeguamento del padiglione - si legge in una nota stampa di Arianna Spissu, consigliera comunale dei democratici - e se si stanno muovendo in qualche modo. La città non può essere messa a conoscenza di un fatto così rilevante solo a lavori conclusi. Inoltre, sul fronte sicurezza ogni trasferimento esterno di detenuti al 41 bis (all’ospedale, per esempio) richiederebbe, oltre agli agenzi specializzati, anche la presenza di pattuglie delle forze dell’ordine locali: le nostre, già sotto organico e con tutto quello che succede a Vigevano ogni giorno, sono pronte a reggere questo peso? Vogliamo risposte”. Bergamo. Apre un Centro di giustizia riparativa in collaborazione con l’associazione InConTra di Ilaria Dioguardi vita.it, 15 agosto 2025 Un Centro di giustizia riparativa verrà istituito nel Comune lombardo in collaborazione con l’associazione InConTra. In ogni fase dell’esecuzione penale, offrirà la possibilità di accedere a programmi, i cui esiti potranno incidere positivamente sull’ottenimento di benefici come permessi premio, lavoro esterno o liberazione condizionale. L’assessore Marcella Messina: “È importante che questo centro non sia isolato, ma attraversi tutte le aree di intervento”. Anna Cattaneo (InConTra): “Ora va potenziato il lavoro di dialogo tra i mediatori e gli operatori del diritto” Bergamo avrà un centro di giustizia riparativa accreditato presso il ministero della Giustizia. Verrà istituito in collaborazione con l’associazione InConTra, già individuata dalla Corte d’appello di Brescia come ente riconosciuto nei territori di riferimento di Brescia, Bergamo, Cremona e Mantova. Il servizio offrirà, in ogni fase dell’esecuzione penale, la possibilità per le persone coinvolte di accedere volontariamente a programmi di giustizia riparativa, i cui esiti potranno incidere positivamente sull’ottenimento di benefici quali permessi premio, lavoro esterno o liberazione condizionale. “Questa possibilità è veramente importante, come amministrazione ci stiamo lavorando da molti anni”, dice Marcella Messina, assessore Politiche sociali, sport, longevità e salute del comune di Bergamo. Un costante lavoro di rete - “In occasione della Conferenza locale per la giustizia riparativa della Corte d’appello di Brescia dello scorso 23 luglio, il comune di Bergamo ha confermato la propria disponibilità ad avviare un centro di giustizia riparativa sul proprio territorio, in attuazione dell’art. 92 del decreto legislativo n. 150/2022, adottato in seguito alla Legge delega n. 134/2021 (la “riforma Cartabia”)”, continua Messina. “L’amministrazione comunale ha ribadito l’impegno a promuovere in modo sempre più efficace progetti di mediazione dei conflitti, finalizzati allo sviluppo della comunità locale, attraverso un costante lavoro di rete con cittadini, associazioni e istituzioni pubbliche. È stata del tutto inaspettata la comunicazione della possibilità di aprire un centro di giustizia riparativa accreditato dal ministero della Giustizia nella nostra città, pensavamo di doverci unire a Brescia. Il riconoscimento di un centro a Bergamo vuol dire dare voce a tutto il lavoro svolto in questi anni”. Un centro che attraversa tutte le aree di intervento - “Vogliamo dare un luogo fisico al centro, in uno spazio del comune, nel cuore della città in un quartiere molto bello, Borgo Palazzo. Alcuni dipendenti comunali seguono questa progettualità, nella sede opereremo insieme ai mediatori dell’associazione InConTra. Mi sembra un lavoro molto interessante, sposa l’idea di un rapporto su questo tema in cui si intrecciano il pubblico e il privato”. L’assessore sottolinea che “è importante che questo centro non sia isolato, ma attraversi tutte le aree, a partire da minori e famiglia, e dal lavoro in carcere: deve esserci un’integrazione trasversale di tutti gli interventi messi in atto”. “Ho ricevuto il protocollo per la costituzione del centro di giustizia riparativa, da parte del ministero, precondizione per poter poi accedere al finanziamento, lo porterò in Giunta il prossimo 28 agosto”, prosegue Messina. Il protocollo dà delle linee di indirizzo, definendo dei Lep, Livelli essenziali di prestazione. “Ad esempio, dice che devono esserci sei mediatori esperti operativi venti ore ciascuno alla settimana, interpreti e che il comune può fare un appalto per il reperimento di queste risorse che deve partire entro 15 giorni dallo stanziamento dei fondi”. Nel protocollo è anche scritto che l’istituzione dell’ente deve avvenire “senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, essendo prevista la copertura mediante fondi propri iscritti nel bilancio dell’ente e mediante la quota del Fondo per il finanziamento degli interventi in materia di giustizia riparativa di cui all’art. 67, comma 1, del decreto legislativo n.150/2022”. Il finanziamento non è stato ancora quantificato. InConTra: da 20 anni al lavoro per la giustizia riparativa - L’associazione InConTra si è costituita giuridicamente nel 2023, ma il centro di giustizia riparativa di Bergamo è nato molto prima, nel 2005, all’interno della Caritas diocesana, su spinta di un sacerdote, don Virgilio Balducchi, che all’epoca era cappellano in carcere. “Lavoriamo da 20 anni sul territorio. La giustizia riparativa è la giustizia dell’incontro, per questo ci chiamiamo così”, dice Anna Cattaneo, mediatrice esperta, presidente dell’associazione InConTra. “È importante sottolineare che il modello di giustizia riparativa è consensuale e volontario, è un percorso che iniziano solo le persone che vogliono farlo. Nel momento in cui chi ha commesso un reato si ravvede perché nell’incontro con la sua vittima, con la persona offesa, riesce a capire quello che ha fatto e a comprendere la sua responsabilità attivandosi per una riparazione, è chiaro che noi tutti ci guadagniamo. Perché la persona che attiva un percorso riparativo il reato commesso probabilmente non lo commetterà più”. Sinergia tra Bergamo e Brescia- In questo momento nel centro di giustizia riparativa InConTra di Bergamo operano 10 mediatori esperti e 20 mediatori sono in attesa di concludere l’iter formativo come previsto dalla riforma Cartabia. “Oltre a quello di Bergamo, anche il centro di giustizia riparativa di Brescia è stato accreditato dal ministero. Adesso il lavoro interessante sarà quello di creare una sinergia forte tra i due centri”, prosegue Cattaneo, “per far sì che ci sia un modus operandi che faciliti l’evasione di tutte le richieste che arriveranno dal territorio. L’aspettativa è che ci sarà molto lavoro”. La giustizia riparativa “si può attivare durante tutte le fasi del procedimento penale: nell’indagine, nella cognizione, nell’esecuzione. Un importante lavoro, in parte già fatto da quando è stata promulgata la legge 150/2022 ad oggi, che adesso dovrà essere potenziato, è quello di dialogo tra i mediatori e gli operatori del diritto (i magistrati e gli avvocati), per poter comprendere quali possono essere le prassi più idonee per attivare i percorsi di giustizia riparativa nelle diverse fasi del procedimento penale”, continua Cattaneo. “Serve molta collaborazione per far sì che la giustizia riparativa sia messa nella condizione di esprimere la sua vocazione originaria. È indispensabile, se vogliamo che sia uno strumento che vada a segno e non sia soltanto un modo per evadere delle pratiche giudiziarie, perché se diventa quello abbiamo perso tutti. In gioco c’è una visione diversa della giustizia, una visione che può facilitare davvero la costruzione di una società più responsabile, più matura, più adulta”. Roma. A Ferragosto tornano le feste della solidarietà di Sant’Egidio Corriere della Sera, 15 agosto 2025 Pranzo a Trastevere, cocomerate nelle carceri. Per Sant’Egidio sarà un Ferragosto pieno di iniziative che rappresentano una risposta all’abbandono e alla solitudine: un messaggio di pace e di solidarietà in un tempo segnato da guerre e violenze, ma anche da troppa indifferenza per chi ha bisogno di sostegno e di amicizia. Tanti i momenti di incontro e i pranzi, coronati dalla tradizionale cocomerata, a Roma e in altre città italiane, per gli amici di sempre: anziani soli, persone senza fissa dimora, migranti, alcuni dei quali giunti con i corridoi umanitari e ormai integrati. Saranno anche molti di loro a preparare i pasti e a servirli a tavola, tra loro, a quattro anni esatti dalla grande fuga di Kabul che cominciò il 15 agosto del 2021, alcuni afghani accolti da Sant’Egidio. Nella Capitale l’appuntamento per il tradizionale pranzo di Ferragosto è venerdì 15 agosto, alle 12, alla mensa di via Dandolo 10. Ma il “Ferragosto della solidarietà” sarà vissuto anche nei numerosi cohousing e convivenze realizzati da Sant’Egidio con anziani, persone con disabilità, ex senza fissa dimora. Eventi particolarmente sentiti, per le condizioni difficili degli istituti penitenziari italiani, saranno le cocomerate in diverse carceri: giovedì 14 agosto nel complesso femminile di Rebibbia, dalle 10 in poi, e venerdì 15 agosto, sempre dalle 10 in poi, nel Nuovo Complesso maschile, a Regina Coeli e al minorile di Casal del Marmo, per un totale di oltre 3mila detenuti che verranno raggiunti. Lo stesso avverrà anche nei due istituti di Civitavecchia. Feste, pranzi ed altri eventi di solidarietà si svolgeranno non solo a Roma ma anche a Milano (alle 18.30 del 15 agosto a Corvetto, nello spazio Living Together, via dei Cinquecento 7), a Genova (alla mensa di piazza Santa Sabina, nel carcere di Marassi, alla Casa dell’Amicizia di Pra’ e in altri luoghi della città), a Padova (dalle 17 alla Casa dell’Amicizia, via Santa Maria in Conio 12) e in altre città italiane. A proposito di rom. Le domande vere da fare di Maurizio Ambrosini Avvenire, 15 agosto 2025 Era da qualche tempo che i rom erano scomparsi dalle cronache, come se fossero scomparsi anche dagli interstizi urbani in cui le loro componenti più marginali cercano rifugio. Dopo essere stati il bersaglio niente meno che di un’emergenza nazionale nel non lontano 2008, con Maroni ministro degli interni e Veltroni sindaco di Roma, erano stati sostituiti da altri “diversi” sgraditi ed elevati al rango di massima minaccia all’ordine sociale: segnatamente i profughi in arrivo dal mare. Un incidente stradale dai contorni obiettivamente inquietanti, perché accaduto per colpa di ragazzini neppure legalmente imputabili, è bastato a riaccendere il fuoco dell’antiziganismo. Gli incidenti stradali anche mortali in Italia sono un’emergenza quotidiana: 3.039 vittime nel 2024, otto al giorno, 52 ogni milione di abitanti contro una media Ue di 45 (Aci-Istat). Raramente hanno una risonanza che va al di là delle cronache locali. Per suscitare tanta emozione e relative richieste di misure draconiane, occorreva che la incredibilmente giovane età dei responsabili si saldasse con l’appartenenza a una minoranza mal vista e relegata in un insediamento etnicizzato. Come avviene solitamente in questi casi, la colpa individuale o al più familiare diventa colpa collettiva. Da punire scacciando il gruppo nel mirino e radendo al suolo le sue precarie abitazioni. Povertà, emarginazione, cattive condizioni di vita diventano una colpa, concause delle malefatte dei figli. Suonano emblematiche le reazioni delle autorità. Andiamo dal ministro Salvini che come soluzione propone la ruspa, al sindaco Sala che rivendica orgogliosamente di aver attuato un numero di sgomberi di campi rom molto superiore agli avversari politici. Certificando così la propria subalternità culturale alla controparte. Se la soluzione sono gli sgomberi, e non i progetti d’integrazione, vuol dire che hanno ragione coloro che additano i rom come una minaccia da estirpare, senza se e senza ma. Da notare che a Milano i progetti d’integrazione ci sono, ma a quanto pare si preferisce lasciarli nell’ombra Le soluzioni semplici e brutali tuttavia ancora una volta sono illusorie. Le ruspe non sono bacchette magiche che fanno scomparire le persone. Semplicemente spostano il disagio un po’ più lontano, a volte innescando caroselli che dopo qualche tempo riportano i malcapitati al punto di partenza, più sradicati, disorientati e impoveriti di prima. È vero che i campi rom, anche regolari, si sono rivelati una cattiva idea, deprecata dall’Unione Europea. Istituiscono, anche nei casi migliori, villaggi “etnici”, esposti alla stigmatizzazione e all’isolamento sociale. Peggio ancora quando sono informali e senza regole, se non quelle imposte dai più forti tra i residenti. Le soluzioni vanno però cercate nel quadro della lotta alla povertà, al disagio abitativo, all’esclusione dal mercato del lavoro, su cui molto pesano i processi di etichettatura. Dovremmo domandarci chi è disposto a dare lavoro a un rom, chi ad affittargli casa, chi ad averlo come vicino. E le politiche pubbliche dovrebbero intervenire per rimediare a questi fallimenti del mercato e della società civile. Nel quadro delle risposte dovrebbero rientrare misure più incisive per favorire l’inserimento e il successo scolastico dei minori provenienti da famiglie rom, compreso il sostegno che il mondo associativo può dare con le sue iniziative di educazione extrascolastica. Quando un giovanissimo sbaglia, tanto più se appartiene a un gruppo così pesantemente discriminato, dovremmo chiederci non solo dov’era la famiglia, ma dov’erano la scuola, i servizi sociali, i potenziali datori di lavoro dei genitori, le realtà associative del territorio. Troppo semplice e al fondo consolatorio alzare il solito muro tra noi e loro, chiedere di allontanarli, immaginare di purificare la società dalle sue contraddizioni emarginando ancora di più una minoranza già emarginate. Politiche migratorie dell’Occidente: un omicidio colposo di massa di Stefano Levi Della Torre volerelaluna.it, 15 agosto 2025 Le migrazioni, spinte dalle guerre, dai cambiamenti climatici, dal divario delle opportunità tra regioni del mondo, sono un fenomeno gigantesco che non può che crescere, perché i fattori che le muovono non vanno decrescendo, ma anzi intensificandosi. La fine del compromesso bipolare del mondo negli anni Novanta e, poi, quella dell’illusione precipitosa di un mondo monopolare sotto l’egemonia delle potenze vincitrici della “guerra fredda” (Stati Uniti e, al loro seguito, Europa) hanno aperto un periodo di sconvolgimenti che non hanno ancora trovato nessun temporaneo equilibrio, costellando il pianeta di conflitti e di guerre. In Occidente, che va perdendo una centralità di secoli nel mondo, la realtà e la sensazione di perdita favorisce la destra che si pone come resistenza e difesa conservatrice o reazionaria a questa realtà e alla diffusa sensazione di declino. L’Occidente, un tempo invasore del mondo, ora si sente invaso. Le immigrazioni crescenti sono una rappresentazione antropomorfa di questa inversione di tendenza. Non c’è una strategia politica dell’immigrazione, anche perché la destra avanza guadagnando sulla rinuncia a tentare almeno qualche soluzione di un problema enorme che suscita le paure popolari di cui essa si nutre; e la sinistra, e l’UE, per paura della destra, tenta di contenerla concorrendo coi suoi stessi criteri di resistenza, respingimento e condiscendenza tecnico-finanziaria a regimi autoritari (Turchia, Tunisia, Libia…) perché facciano barriera e gestiscano in proprio le atrocità inerenti. Le migrazioni sono costellate di tragedie e di morte. Scriveva La Rochefoucauld che siamo sempre capaci di sopportare il male altrui. Ma questa sopportazione non esime da colpa. A che cosa assistiamo, dall’alibi della nostra impotenza? Non solo al paradosso più esibito e grottesco, quello della persecuzione para-giuridica di chi tenta di salvare gente in mare o nei deserti o nei boschi o nei Lager, ma anche a qualcosa che sfugge a un nome eppure deve esser nominato: quando vediamo che si lasciano affondare barche affollate di migranti e si maschera il lasciarlo accadere come fosse prodotto da confusione e goffaggine, quando si respingono nel deserto migranti non per ucciderli ma perché muoiano per conto loro e per loro responsabilità, e vediamo che tutto ciò, moltiplicandosi negli anni, si è fatto sistema, a che fattispecie e nome dobbiamo assegnarlo? È omicidio colposo (ipocritamente “colposo”) di massa. E quando Stati, governi, forze politiche e UE non possono non sapere che la notizia di queste morti di massa sono diffuse, pare quasi (in realtà non pare, è certo) che queste morti vengano usate per terrorizzare e dissuadere i migranti dal migrare. E come possiamo nominare questo cortocircuito tra il lasciar morire e la diffusione inevitabile della sua notizia? Io la chiamerei terrorismo dissuasivo di Stato. Questi crimini sistematici mostrano quanto travalichino la semplice “omissione di soccorso”. Le prossime generazioni avranno da domandarsi non solo come abbia potuto la nostra generazione non intervenire con più responsabilità sul clima, ma anche come abbia potuto rendersi connivente, per consenso o per indifferenza, con i crimini di massa sopra nominati. Dopo la seconda guerra mondiale e la Shoà, il giurista Raphael Lemkin si impegnò con tutte le sue forze per fare ammettere il crimine di genocidio come fattispecie del diritto internazionale, al fine di riconoscerne il passato e prevenirne il ripetersi. Ora, su questo tutt’altro argomento, mi domando se non sia il caso di impegnarsi a che l’”omicidio colposo di massa” e i suoi annessi vengano riconosciuti nel diritto internazionale come crimini. Migranti. La strage senza immagini di Lampedusa, l’ennesima tragedia che “si poteva evitare” di Angela Gennaro Il Domani, 15 agosto 2025 Dopo il naufragio con almeno 27 morti, decine di dispersi e 60 sopravvissuti, sull’isola “porta d’Europa” continuano gli sbarchi. Ong e opposizione rilanciano l’appello per una missione di soccorso internazionale nel Mediterraneo Centrale, dove dall’inizio dell’anno sono morte e disperse quasi 700 persone: “Le nostre navi veloci avrebbero potuto soccorrere i migranti, perché nessuno le ha allertate?”. Ha perso il marito e la bambina, che era tra le sue braccia, tra le onde. Viene dalla Somalia, e il suo è uno dei racconti delle 60 persone sopravvissute al naufragio di mercoledì 13 agosto a 14 miglia a sud di Lampedusa. Le vittime accertate al momento sono 27: tra i corpi ritrovati c’è anche quello di una bimba di non più di un anno e mezzo, e quelli di tre adolescenti. E mentre le operazioni di ricerca proseguono, non è chiaro il numero delle persone ancora disperse: tra le 20 e le 40. La dinamica è confusa. Dai primi racconti raccolti dalle organizzazioni umanitarie nell’hotspot di Lampedusa, dove si trovano 58 sopravvissuti (altri due uomini sono stati trasferiti in ospedale ad Agrigento), sono due le imbarcazioni in vetroresina partite nella notte di martedì dalla Libia. In totale a bordo ci sono tra le 92 e le 97 persone. A un certo punto uno dei due barconi inizia a imbarcare acqua e alcune persone - in parte o tutte? - si trasferiscono sull’altro. Che, stracarico, si capovolge. A intervenire sono i mezzi di Guardia Costiera, Finanza e Frontex. La procura di Agrigento apre un fascicolo per naufragio colposo. Vengono da Pakistan, Egitto, Sudan, Somalia. Ventuno sono minorenni stranieri non accompagnati, principalmente egiziani. “Le condizioni fisiche sono abbastanza buone”, spiegano dalla Croce Rossa a Domani. “Le persone stanno bene, anche se ancora molto scosse e tristi e addolorate per aver perso amici, in alcuni casi familiari, durante il viaggio. La nostra equipe multidisciplinare si sta occupando di loro, anche attraverso attività di supporto psicologico”. Sull’isola “porta d’Europa” non si fermano gli sbarchi dopo il naufragio, con l’arrivo nelle ultime ore di più di 150 persone. Al momento all’hotspot di contrada Imbriacola ci sono, dice la CRI, 240 persone in totale: 158 adulti, 18 donne, 64 minori. Vengono soprattutto da Bangladesh, Egitto e Somalia. “Dobbiamo dire le cose come stanno: si poteva evitare”, tuona Mediterranea Saving Humans con il capo missione Luca Casarini. “Il governo, da Matteo Salvini a Matteo Piantedosi fino alla premier Giorgia Meloni, si rifugia dietro frasi di circostanza per riproporre la solita formula: colpa dei trafficanti di esseri umani. Perché, chiedo a Meloni, non avete diramato in tempo un alert a tutte le navi presenti in quel tratto di mare, in modo da far convergere verso quell’imbarcazione più mezzi possibili?”, dice Casarini. “Le nostre navi veloci avrebbero potuto soccorrere i naufraghi, ma nessuno le ha allertate. Perché?”, si chiede l’ong Sea-Watch. “La nostra Aurora e altre ong, se indirizzate, avrebbero potuto soccorrere le persone in pochi minuti. Qualcuno sapeva della presenza di quelle barche?”. Nel frattempo in mattinata a Salerno è arrivata la nave di Sea-Watch con 71 persone salvate in mare, tra cui 40 minori (38 minori stranieri non accompagnati) e due donne incinte. Otto ragazzine sarebbero vittime di tratta. “Abbiamo sempre chiesto un rafforzamento delle operazioni di ricerca e salvataggio. Auspichiamo un meccanismo regionale europeo, un supporto forte al Sistema Paese Italia”, dice a Domani Filippo Ungaro di Unhcr. Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) almeno 370 persone sono morte e 300 risultano disperse nel Mediterraneo centrale dall’inizio dell’anno al 9 agosto. Oltre 14mila sono le persone nello stesso periodo intercettate in mare e riportate in Libia. Per l’Agenzia Onu per i rifugiati le vittime nel Mediterraneo centrale sono il 70 per cento di quelle di tutto il Mediterraneo. E la Libia resta il primo paese di partenza, il 90 per cento degli arrivi via mare in Italia. “Strage senza immagini: zero dalla Guardia Costiera in mare, zero dal porto di Lampedusa”, chiosa su X Sergio Scandura, cronista di Radio Radicale e uno dei maggiori esperti di tracciamento di navi e aerei. “Serve a far passare “in cavalleria” questo ennesimo dramma. Parlarne al massimo mezza giornata, nascondere i corpi dei vivi e dei morti: evitare al governo un altro incubo stile Cutro. Ciao”. Anche Casarini rilancia sulla necessità di “un piano di soccorso vero, invece che incentivare l’omissione di soccorso come strumento per i respingimenti e usare i naufragi come deterrenza alle partenze, che ci saranno comunque”. Il governo “smetta di collaborare con i capi dei trafficanti, e faccio un nome per tutti: Almasri”. E, “una volta per tutte, di fare la guerra alle navi di soccorso, sottoposte continuamente a provvedimenti di fermo amministrativo pretestuosi, o inviate in porti lontani per allontanarle dal mare, dove servirebbe la loro presenza”. Questa è “una strage frutto di politiche sbagliate, politiche emergenziali della propaganda”, dice Nicola Fratoianni di Avs. “Serve una missione internazionale di ricerca e soccorso. E risposte strutturali a una questione strutturale come l’immigrazione, non certo ricette populiste ciniche ed inefficaci”. “Bisogna espandere le vie legali”, prosegue Ungaro. L’Italia “si è dotata di una legge sui corridoi lavorativi innovativa che funziona: rifugiati in paesi terzi vengono formati da aziende italiane e poi arrivano qui dopo un’adeguata formazione di settore e linguistica”. Unhcr a giugno ha certificato 122 milioni di persone in fuga da conflitti e persecuzioni. Dieci anni fa erano la metà. Invece “dei tagli brutali ai finanziamenti umanitari”, “bisogna andare alla radice dei conflitti, e investire nello sviluppo dei paesi limitrofi che ospitano il 70 per cento delle persone”. Ucraina. Ma di questo vertice resterà solo la foto di Domenico Quirico La Stampa, 15 agosto 2025 Oggi è, senza mezzi termini, un momento epocale. Ma solo potenzialmente: perché si riduce ad un attimo, a un guizzo di Storia che domani potrebbe già esser diventato un rimorso, una occasione perduta, niente. Già, ad Anchorage avrebbe potuto essere ma non fu. Il Tempo è l’essenza della politica internazionale, sapere quel è il momento opportuno; non c’è miglior definizione della abilità politica. I due leader che si incontrano oggi sono all’altezza di saper afferrare quel momento per attenuare la sorda effervescenza che, su sfondi di macerie, ha invaso il formicaio umano? O lo useranno solo per una proiezione di immagine che consolidi le loro dirigenze per motivi diversi discusse e traballanti? Quei diavoli dei greci e dei romani avevano già compreso tutto, distinguendo tra le guerre per la sopravvivenza, in cui in gioco sono il territorio e la comunità (la lingua, il sangue e il suolo così cari al micidiale nazionalismo ottocentesco), e quelle per il predominio, i conflitti “de imperio” di Cicerone e che oggi definiremmo guerre di status. Contrariamente a una interpretazione semplicistica, ma legata a concreti interessi, soprattutto di alcuni leader europei da Macron ai polacchi alla Meloni, alla mediocrissima burocrazia dell’Unione sguattera di tutte le cucine politiche, e ovviamente ai voraci pescecani economici della Guerra Lunga, quella che si svolge in Ucraina non è un massacro per alcuni chilometri di territorio. È una guerra per la egemonia, la “epikrateia” dei greci, che si può tradurre come “comando”, “potere eminente”. Lo è nei progetti di chi l’ha scatenata con la illegale invasione del territorio dell’Ucraina. Un pretesto non un scopo: scatenando un “conflitto impossibile” in quello che era “il cuore della terra”, svenando con brutalità darwiniana l’ordine monocratico esistente, vuole il riconoscimento da parte degli Stati Uniti, unico avversario che ritiene alla sua altezza, di una posizione eminente. Una identità di potenza che va al di la del controllo diretto di alcuni territori. La egemonia è fatta di sfere di influenza, di alleati apparentemente sovrani ma legati a limiti da non superare, a allineamenti automatici. La lettura della storia dell’impero americano e di quello sovietico restituisce una spettacolare identità di metodo. L’interlocutore-nemico è dunque non Zelensky e la sua Ucraina che paga la logica della prepotenza che è di tutti gli imperi, democratici o autocratici. In questa logica si possono anche scambiare o restituire territori, l’importante è che si rispettino le regole della rispettiva egemonia. Per questo il Donbass o una sua parte avrebbe meno valore dell’obbligo per Kiev di entrare nell’alleanza atlantica. Oppure, terribile possibilità, la guerra può continuare come problema secondario rispetto ad esempio una spartizione consensuale dell’Artico. La guerra del Vietnam non compromise i rapporti tra Usa e Urss. La definizione della nuova “eikrateia” russa è il vero tema di oggi ad Anchorage, con ogni probabilità già definita nelle trattative dietro le quinte tra il Cremlino e Washington. Zelenzky costretto ad accontentarsi, in attesa di scoprirlo, di viaggetti in capitali di potenze defunte, lo ha capito subito: “Il summit di oggi è una vittoria di Putin”. È così. Quello che Putin cerca da venticinque anni con virulenza prima verbale poi militare non sono i territori perduti dell’Urss. È una fotografia: dove compaiono lui, il restauratore della potenza russa a qualsiasi costo, e il bislacco comandante in capo della superpotenza fino ieri egemone solitaria, che spiegano, fianco a fianco, non i destini di Pokrovsk o di Kharkov ma delle rispettive ingerenze nel mondo. Il termine summit fu coniato per il linguaggio diplomatico da Churchill nel 1950, nel periodo più buio della guerra fredda. Il termine arcaico che usò per incontro, “parley”, è un dotto riferimento shakesperiano, ovvero un faccia a faccia pericoloso tra nemici. Da tentare “perché in ogni caso non potrebbe peggiorare le cose”. Il rischio aleggia su ogni vertice. Nel caso di oggi è legato alla personalità dei due protagonisti che appartengono entrambi all’età dei prepotenti, insofferenti all’alfabeto della diplomazia classica, che impone interlocutori alla pari, e pazienza astuzia attendismo. Ma entrambi appartengono all’età dei prepotenti. Restano in bilico molte domande: quali illusioni si è fatto ciascuno dei due sull’avversario? Come vuol giocare la propria mano? Restano le trappole dei pregiudizi, del capriccio, della carreggiata dell’abitudine, la supponenza poco intelligente. A Vienna nel 1961 Kruschev, un rivoluzionario sopravvissuto a Stalin, e Kennedy, il giovane miliardario americano, scoprirono di detestarsi: la conseguenza fu la crisi di Cuba e il più grande rischio corso dal mondo di precipitare nella apocalisse nucleare. Papua Nuova Guinea. Carlo D’Attanasio è rientrato in Italia dopo 5 anni di carcere da innocente di Natalia Distefano Corriere della Sera, 15 agosto 2025 Lo scorso luglio il velista pescarese, affetto da una grave patologia oncologica, è stato assolto dall’accusa di traffico internazionale di droga. Al suo arrivo lo sfogo: “Ho tentato il suicidio, poi ho deciso di curarmi da solo”. Prima le lacrime di commozione e poi la gioia incontenibile per essere riuscito a “baciare di nuovo la terra italiana” per Carlo D’Attanasio, il velista pescarese accusato di traffico internazionale di stupefacenti e assolto a fine luglio dalla Corte d’Appello della Papua Nuova Guinea dopo cinque anni di detenzione. Ricoverato al policlinico Umberto I - Lo skipper, affetto da una grave patologia oncologica, poco dopo le 8 è arrivato a Fiumicino con un volo di linea da Singapore, assistito durante il viaggio da un’equipe medica. Ad accoglierlo il suo avvocato Mario Antinucci. Ora sarà ricoverato nel reparto oncologico del Policlinico Umberto I di Roma. D’Attanasio: “Ho tentato il suicidio” - “Ce l’ho fatta!”, le sue prime parole non appena arrivato in Italia. “Alla fine ho ottenuto quello per cui abbiamo lottato e sono stato assolto con la formula piena. Arrivare a questo è stata però davvero dura. Ho rischiato di morire tante volte”, ha raccontato D’Attanasio. Il velista si è sfogato, ricordando gli anni della detenzione in Papua Nuova Guinea: “All’inizio sono stato completamente abbandonato a me stesso; ho tentato il suicidio ma oggi sono qui a raccontare questa lunga vicissitudine. Adesso sono felicissimo”. Ha riferito di essersi curato da solo - è affetto da una patologia oncologica al quarto stadio - e di aver utilizzato diversi trattamenti sperimentali altrimenti sarebbe morto. “Lì non ho ricevuto alcun tipo di trattamento. Il problema fisico è quello che mi ha distrutto di più perché mentalmente sono forte”. Il suo legale: “È innocente, assolto con formula piena” - Dal legale è arrivata poi la precisazione: “Carlo D’Attanasio è tornato in Italia perché è stato assolto con formula piena e immediatamente rimesso in libertà perché il fatto non sussiste. Carlo D’Attanasio ha speso 5 anni di vita in quell’inferno per non aver commesso nulla. È una persona innocente, è una persona onesta, perbene e lo ha dimostrato con le prime dichiarazioni: non ha infatti alcuna acrimonia nei confronti di chi lo ha cannibalizzato”. Iran. Il nuovo rapporto di Human Rights Watch sul bombardamento israeliano contro Evin ilpost.it, 15 agosto 2025 La prigione simbolo del regime iraniano, colpita a giugno: il rapporto aggiunge informazioni sulle persone uccise, sui danni e su ciò che successe dopo. Human Rights Watch (Hrw), una delle più note ong internazionali che si occupano di diritti umani, ha pubblicato un report sulle conseguenze del bombardamento israeliano sulla prigione iraniana di Evin, a Teheran, lo scorso 23 giugno, cioè il giorno prima che finisse la guerra combattuta per 12 giorni tra Israele e Iran. Sull’attacco sono state diffuse le versioni dei due governi, e nelle settimane successive sono state pubblicate delle ricostruzioni giornalistiche. Il rapporto di Human Rights Watch raggruppa le informazioni disponibili e aggiunge dettagli sulle modalità in cui è stato condotto, sui danni che ha causato e su cosa è successo dopo ai detenuti. La prigione di Evin è operativa dal 1972, e già prima della Rivoluzione islamica del 1979 vi venivano rinchiusi dissidenti politici. Con la creazione della Repubblica Islamica dell’Iran, una teocrazia guidata da religiosi sciiti, la prigione è diventata un temuto simbolo del regime: i detenuti sono spesso rinchiusi senza delle reali accuse ma per motivi politici o ideologici, vivono in celle comuni sovraffollate e in pessime condizioni igieniche, oppure in celle di isolamento piccole e senza finestre. Tra dicembre e gennaio è stata detenuta a Evin per circa tre settimane anche la giornalista italiana Cecilia Sala. Secondo i media e i funzionari iraniani, nell’attacco del 23 giugno sono state uccise almeno 80 persone tra personale del carcere, detenuti, familiari in visita e persone che si trovavano nelle vicinanze. L’ong sostiene che il numero sia probabilmente più alto, sulla base delle testimonianze delle famiglie di alcuni prigionieri, inclusi alcuni uccisi quel giorno. I media di stato iraniani hanno reso nota l’identità, di 41 persone uccise tra il personale carcerario, 13 che facevano lì il servizio civile e 5 detenuti. BBC News ha verificato che che le persone detenute uccise sono state di più, almeno 7. Human Rights Watch ha scritto che al momento dell’attacco a Evin c’erano più di 1.500 persone detenute. Centinaia di loro sono oppositori politici, dissidenti, giornalisti e cittadini stranieri, perseguitati dal regime iraniano e detenuti in condizioni disumane. Sulla base di questo l’ong ha accusato Israele di aver bombardato un luogo che non era considerabile un obiettivo militare, peraltro senza diramare prima avvertimenti (cosa che aveva fatto in altre occasioni durante la guerra, per esempio ordinando l’evacuazione di alcune zone di Teheran) e a un orario in cui erano consentite le visite, quindi durante il quale il carcere sarebbe stato più frequentato. Un ritratto di Ruhollah Khomeyni, guida suprema dell’Iran tra il 1979 e il 1989, su un muro di Evin, il 29 giugno Analizzando i video disponibili e le fotografie satellitari, Human Rights Watch ha identificato almeno otto punti del complesso di Evin colpiti dal bombardamento. Il 23 giugno Israele aveva detto di aver colpito la porta della prigione, anche per dare l’idea di un attacco mirato e soprattutto simbolico. L’ong ha riscontrato danni più estesi: oltre agli ingressi a nord e sud (quello principale), è stato distrutto il centro per i visitatori, da cui passano i familiari dei detenuti per portar loro vestiti e medicine. Sono stati danneggiati anche un edificio che ospita i magistrati e diversi padiglioni della parte centrale del complesso, dove si trovano l’infermeria, la cucina e vari reparti di detenzione, cioè con le celle. Il vicedirettore di Human Rights Watch per il Medio Oriente, Michael Page, ha detto che “gli attacchi […] hanno ucciso decine di civili senza un evidente obiettivo militare, in violazione del diritto e in quello che è un apparente crimine di guerra”. Page ha spiegato che l’attacco ha messo a rischio la vita delle persone detenute, che già vivevano in condizioni pessime e in molti casi per accuse strumentali. Il 23 giugno le autorità israeliane avevano citato motivazioni militari solo in un secondo momento, concentrandosi sugli obiettivi simbolici - e quindi propagandistici - dell’attacco. I ministri israeliani Israel Katz (Difesa) e Gideon Sa’ar (Esteri) avevano detto che l’intento era proprio colpire luoghi legati al regime e al suo apparato repressivo, in una fase della guerra in cui il governo israeliano sperava di indebolire il regime iraniano al punto da farlo crollare (con il cosiddetto “regime change”). Human Rights Watch inoltre ha denunciato che, dopo l’attacco a Evin, i prigionieri sono stati trasferiti in due altre grosse carceri della provincia di Teheran: quella femminile di Qarchak e quella maschile di Fashafouyeh, entrambe sovraffollate e note per le frequenti violazioni dei diritti umani. Dopo l’attacco i media iraniani avevano detto che una parte dei prigionieri di Evin era stata trasferita in altri penitenziari, ma non si era saputo quanti né dove. Human Rights Watch ha ricostruito che le forze di sicurezza iraniane, mandate a Evin subito dopo l’attacco, hanno minacciato con le armi i prigionieri da trasferire, senza dar loro tempo di recuperare i loro effetti personali, e hanno picchiato quelli dei reparti maschili. Venerdì scorso alcuni detenuti sono stati riportati a Evin, dove secondo i media iraniani sono state costruite nuove strutture. Dopo l’attacco del 23 giugno le famiglie di molti prigionieri non hanno più saputo nulla di loro. Tra questi ci sono anche cittadini stranieri, di almeno nove paesi. In quei giorni si era parlato del caso di due francesi, Cécile Kohler e Jacques Paris, detenuti da tre anni con accuse di spionaggio, di cui il governo francese aveva chiesto la liberazione. Per più di una settimana non si erano avute loro notizie, nonostante i funzionari iraniani sostenessero che fossero sopravvissuti: il 2 luglio un diplomatico francese ha potuto incontrarli, ma non si sa dove siano detenuti. Turchia. Processo di pace o no, mai così tanti prigionieri curdi nelle carceri di Murat Cinar Il Manifesto, 15 agosto 2025 Dallo scorso marzo in Turchia una decina di condannati per reati legati al terrorismo e con pene superiori alla soglia del 30 y?l s?n?r? (limite informale dei trent’anni di detenzione oltre cui la scarcerazione dovrebbe avvenire per legge) sono tornati in libertà dopo aver scontato, in media, più di tre decenni dietro le sbarre. Le liberazioni sono avvenute in un momento in cui, seppur senza un protocollo formale, è in corso un fragile tentativo di riavvio del dialogo tra lo Stato turco e il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk), con Abdullah Öcalan e il partito politico Dem come interlocutori centrali. Tra i liberati vi sono persone con gravi problemi di salute e ultraottantenni. Ma i centri penitenziari sono tuttora pieni di persone in attesa di essere scarcerate. Come spiega Diren Yurtsever, caporedattrice dell’agenzia Mezopotamya, “in molti casi le scarcerazioni sono state rinviate per motivi assurdi: chi, con le gambe amputate, non veniva ritenuto di buona condotta perché ‘non praticava sport’, o chi restava in cella per cavilli senza basi giuridiche”. A queste persone non è stato applicato l’infaz yakma, il meccanismo che in Turchia consente alle autorità di prolungare la detenzione di un condannato nonostante abbia già scontato la pena, di solito motivandolo con presunte violazioni disciplinari. La liberazione sarebbe dunque un obbligo di legge. Tra le persone scarcerate in questi mesi c’è Veysi Aktas, detenuto per oltre 31 anni nel carcere di massima sicurezza di Imral?, dove è recluso anche Öcalan, con cui ha lavorato negli ultimi mesi al processo di pace. C’è poi Soydan Akay, rilasciato dopo 32 anni e sette ricoveri ospedalieri per gravi patologie, tra cui il cancro. Ismail Hakk? Tursun, in carcere da oltre 32 anni, ha ricordato alla scarcerazione che “ci sono tanti detenuti in fin di vita che devono essere liberati al più presto”. Infine, S?dd?k Güler, 85 anni, è uscito dopo più di tre decenni nonostante un certificato medico attestasse da tempo la sua impossibilità a condurre una vita autonoma. Secondo Yurtsever, non c’è stato alcun cambiamento legislativo che giustifichi le recenti scarcerazioni: “Non serve una nuova legge, basterebbe applicare quelle esistenti. Ma raramente si esce dopo trent’anni, di solito solo al 31° o 32°, e per ragioni arbitrarie. Migliaia di persone, molte gravemente malate o anziane, restano in carcere nonostante i requisiti per la liberazione. Le decisioni passano dai Comitati di sorveglianza delle carceri, privi di giuristi, che agiscono in modo discrezionale e senza trasparenza”. Yurtsever ribadisce che la liberazione di questi detenuti non è un passo negoziale: “È un obbligo legale, non il frutto di un accordo. Si cerca di dare l’idea che le carceri siano oggetto di trattativa politica, ma né lo Stato né il Pkk parlano di un protocollo in corso”. Yurtsever aggiunge che la sua redazione riceve da tempo lettere di detenuti in cui si denuncia come, in particolare nelle carceri di Sincan e Bak?rköy, esista “una scelta non giuridica e arbitraria per continuare a trattenere le persone”. La Turchia detiene un numero impressionante di persone: a fine marzo, le carceri ospitavano più di 300mila detenuti, oltre 42mila in più rispetto alla capacità, confermando un trend in crescita rispetto agli anni precedenti e con uno dei tassi più alti d’Europa. Detenuti anche politici dell’opposizione, amministratori, accademici e giornalisti non vicini al Pkk, spesso con accuse politiche o di terrorismo. Emblematico il caso di Murat Çal?k, ex sindaco Chp, trattenuto nonostante condizioni critiche, una violazione legale e umana” secondo l’Ordine degli Avvocati di Istanbul. Ömer Faruk Gergerlioglu, deputato Dem, denuncia da tempo che lo Stato ritarda il rilascio fino a quando il prigioniero è ormai in fin di vita, definendo questi decessi “omicidi di Stato”. Ha inoltre denunciato situazioni estreme come il taglio dell’acqua nelle carceri, servizi igienici insufficienti e la prima richiesta formale del ministero della famiglia per tutelare detenuti con malattie degenerative, come Ibrahim Güngör, affetto da Alzheimer e cancro alla prostata, che ormai non riconosce nemmeno la figlia. Sebbene alcune scarcerazioni possano sembrare un passo verso la pace, migliaia di casi di ingiustizia e trascuratezza persistono, alimentando sfiducia nel sistema giuridico in Turchia. Afghanistan. “Sui diritti gli occidentali ora sanno che sono stati sconfitti” di Giuliano Battiston Il Manifesto, 15 agosto 2025 Per fare un bilancio di questi quattro anni di Emirato islamico abbiamo intervistato Antonio Giustozzi, il più autorevole studioso dei Talebani, autore tra l’altro di “The Taliban at War, 2001-2021” (Hurst). Quanto è solido oggi l’Emirato? La percezione è che il regime si consolidi e che aumentino le pulsioni totalitarie da Kandahar, da dove governa l’Amir, con un numero crescente di decreti per controllare la popolazione. Sul lungo termine è rischioso, soprattutto se le regole ferree finiranno per riguardare anche gli uomini, ma per ora c’è il consolidamento: l’opposizione armata e non armata è a pezzi, lo Stato islamico è messo male, i Talebani hanno ottenuto fino a 3 miliardi di dollari con le tasse, lo sfruttamento minerario è superiore rispetto al governo precedente e i rapporti regionali sono buoni. Qualcuno avrebbe scommesso che i Paesi regionali avrebbero aiutato l’opposizione. Invece è arrivato il riconoscimento da parte della Russa… I Paesi della regione non hanno mai avuto interesse a sostenere l’opposizione, a eccezione del Tagikistan, che pare stia trovando un compromesso: i Talebani hanno trasferito alcuni gruppi jihadisti tagichi - fonte di preoccupazione per Dushanbe - in aree più lontane dal confine. Kazakistan e Uzbekistan pensano di riconoscere l’Emirato e la Cina non tarderà molto. C’è già un ambasciatore talebano a Pechino. Anche con il Pakistan i rapporti stanno migliorando. Alcuni tagichi del National Resistance Front hanno chiesto aiuto al Pakistan contro i Talebani, ma sono stati rimandati a casa. Una volta che i rapporti con Islamabad si stabilizzeranno, in pratica tutti i confini saranno “chiusi”, controllati: difficile far arrivare armi e sostegno a un’eventuale resistenza. Poco più di un anno fa si parlava della riapertura delle ambasciate occidentali a Kabul. Oggi tira tutt’altra aria. Perché? Perché i diplomatici europei a Doha e Kabul parlavano con il fronte dei pragmatici, tra i Talebani, che promettevano grandi cose, come risolvere la questione delle donne. Ma non hanno ottenuto nulla: gli occidentali ora sanno che sono stati sconfitti. L’Amir li ha messi in riga. Il leader supremo ha rimesso in riga anche l’oppositore principale, Sirajuddin Haqqani, ministro di fatto degli Interni… Sirajuddin ha giocato su troppi tavoli. Sono circolate voci su un presunto colpo di stato contro l’Amir. Sirajuddin sarebbe andato negli Emirati proprio per accelerarlo, illudendosi che gli americani lo avrebbero aiutato. Ma ha fallito e perso la faccia. Tornato in Afghanistan, l’Amir gli ha proposto un accordo: pieno controllo delle forze di sicurezza per l’Amir, in cambio della revisione di alcune politiche di genere. Serajuddin ha rifiutato. Fino a che non si definisce l’assetto istituzionale e la distribuzione di potere, i conflitti interni rimarranno. Per ora l’Amir ha centralizzato il potere, preso controllo delle finanze e portato a sé molti comandanti militari. Il consenso dei Talebani appare circoscritto. Come mai non si vedono forme di opposizione più strutturate? La base del regime è poco ampia, ma la società è perlopiù passiva, non ci sono segni significativi di opposizione, a parte le poche donne che manifestano. Le comunità locali mediano con i Talebani, lontano dalle telecamere. La società civile non ha mai recuperato l’eredità di 20 anni di occupazione degli americani, abituati a pagare tutti per ogni cosa. Ne è uscita una società civile di salariati. L’amir e la sua cerchia hanno quasi il monopolio nel clero al sud e in parte dell’ovest, ma all’est il clero non è uniformemente deobandi. In una provincia come Nangarhar, i Talebani fanno fatica perfino a trovare religiosi in linea con loro, per il Consiglio degli ulema.