Carceri, il Governo è diviso: Forza Italia chiede riforme, no di Delmastro di Conchita Sannino La Repubblica, 14 agosto 2025 Divergenze sulla strategia da adottare per sovraffollamento e suicidi. Il dramma carceri spacca il governo. Esplodono a destra, nelle ore più calde (in tutti i sensi), le divergenze sulla strategia da adottare per sovraffollamento e suicidi. “Meno chiacchiere, più autocritica”, è la ruvida sveglia di ferragosto che fa suonare Forza Italia, a firma del deputato Calderone, contro i meloniani. Ma il sottosegretario Delmastro tiene il punto. Mentre anche FdI è divisa al suo interno. Il partito di Tajani: servono riforme - Non si è ancora spento lo scontro tra via Arenula e le opposizioni sul report dei troppi morti in prigione, arrivati a quota 148, stilato tre giorni fa dal Garante nazionale e subito ridotto a una retromarcia dal governo - “Ma non esiste un allarme suicidi, siamo nella media”, era stata la piccata e contestatissima reprimenda del Ministero - che ora la polemica si riacutizza tutta nel campo della maggioranza. “Nessuna riforma sulla custodia cautelare. Nessuna riforma sulle misure alternative e sulla liberazione anticipata”, ma ora “occorre mettere mano alle riforme”, preme in una nota polemica l’azzurro Tommaso Calderone: che chiede appunto “autocritica, e meno chiacchiere” per il popolo dei disperati. Anche perché, argomenta, “è passato un altro anno, continuiamo ad assistere a decine di detenuti che si suicidano. Non abbiamo risolto il problema e sono i freddi numeri a dirlo”. Ma FdI respinge gli attacchi: nessun provvedimento svuotacarceri, nessun cedimento. E anche se Forza Italia è spinta a ritoccare i toni più aspri con una seconda versione più soft, e lo sbianchettamento delle parole “chiacchiere” e “autocritica”, segue comunque la replica del sottosegretario alla Giustizia Delmastro. Ma FdI insiste: nessun allarme - “Non è all’ordine del giorno”, per il meloniano Delmastro, “qualsivoglia misura che eroda la certezza della pena e, in una maniera o nell’altra, che non risponda alle esigenze di giustizia per le vittime dei reati e di sicurezza per i cittadini”. Anzi, il sottosegretario - il cui peso avrebbe influito sulla nota accusata di “vergognoso cinismo” tre giorni fa - rilancia: “Stiamo realizzando un piano carceri con 750 milioni di euro di investimenti, cifra mai vista in Italia, già finanziata per recuperare 10.000 posti mancanti. Sono nato circa 50 anni fa, quando c’era già il sovraffollamento e mancavano circa 10.000 posti detentivi. Oggi ne mancano sempre 10mila. E tutti i provvedimenti svuota-carceri si sono rilevati fallimentari”. Ma la destra, e la stessa FdI, non può certo vantare compattezza sul tema. Basti dire che il presidente La Russa da mesi preme pubblicamente per accogliere invece la proposta di legge Giachetti, sull’ampliamento della liberazione speciale anticipata, riscuotendo già a maggio l’adesione plateale di FI, che con il viceministro Francesco Paolo Sisto disse: “Se accade, non saremo noi a storcere il naso”. Sostegno anche da un’altra figura apicale, come il vicepresidente del Csm, Fabio Pinelli, di area Lega. L’affondo dei garanti regionali - Ma intanto la frattura è sotto gli occhi di tutti. E gioca sulla sofferenza di quasi 70mila detenuti. Non a caso sono scesi in campo, solo poche ore fa, tutti i garanti regionali con il portavoce Samuele Ciambriello: esprimendo “il più profondo sconcerto per le esternazioni” del Ministero che “negava l’esistenza di un allarme sociale”. Una posizione, aggiunge Ciambriello con Repubblica, dal coordinamento della Conferenza nazionale dei Garanti territoriali, “che è stata ripresa successivamente da una integrazione di un solo esponente del collegio del Garante nazionale. Portando avanti la tesi che la riduzione di poche unità dei suicidi, rispetto a picchi precedenti, può rappresentare ‘un possibile miglioramento delle condizioni detentive o dell’efficacia delle misure di prevenzione adottate’. Ecco, sono parole di una gravità inaudita. Mai si era riusciti a spaccare il fronte del collegio del garante nazionale: che, in ossequio alla Costituzione, entra quotidianamente in carcere e constata le gravi carenze del sistema. Dalla fatiscenza delle strutture alla carenza del personale; dall’inadeguatezza delle prestazioni sanitarie all’impossibilità di realizzare con continuità progetti educativi, e il preoccupante e crescente livello di sovraffollamento”. L’ultimo suicida, un 17enne - E la tragedia non si arresta. Tutto avviene mentre c’è un altro detenuto che si toglie la vita a Treviso: è il più giovane di un insostenibile elenco, un 17enne di origini tunisine che ha usato i jeans per impiccarsi, nell’istituto penale minorile della città. Ed è morto dopo tre giorni di agonia in ospedale. Sarebbe, per la formale contabilità del Dap, il 49esimo suicidio, forse il 50esimo dall’inizio dell’anno ad oggi. Ma, poiché quel ragazzo è spirato in un reparto sanitario, quel decesso, come gli altri 30 della stessa ‘casistica’, resterà burocraticamente in conto alla casella “morti per cause da accertare”, senza il rischio così di appesantire e sfondare il tetto di chi continua a togliersi la vita nei penitenziari italiani. Denuncia Susanna Marietti, coordinatrice nazionale e responsabile dell’osservatorio sulla giustizia minorile di Antigone: “A partire dal Dl Caivano, c’è un sovraffollamento mai esistito prima anche nelle carceri minorili con un approccio sempre più punitivo, al posto di quello educativo. Abbiamo raccontato di crescenti tensioni, e visto l’abuso di psicofarmaci. Non possiamo perdere i ragazzi così giovani. Non possiamo vederli morire in carcere”. Caro Nordio, in carcere è strage di Stato di Coordinamento della Conferenza Nazionale dei Garanti Territoriali L’Unità, 14 agosto 2025 Il Coordinamento della Conferenza nazionale dei Garanti territoriali delle persone private della libertà personale esprime il più profondo sconcerto per le esternazioni del Ministro Nordio, il quale, nel commentare i dati sui decessi in carcere resi noti dal Garante Nazionale (48 suicidi, 30 morti per cause “ancora da determinare”, 69 per cause naturali e uno per un incidente), ha negato l’esistenza di un allarme sociale, in quanto i numeri sarebbero “sotto il livello ereditato dal precedente governo nel 2022”. Le parole del Ministro Nordio sono state poi riprese nella replica del Garante nazionale che ha specificato che “questa riduzione può rappresentare un possibile miglioramento delle condizioni detentive o dell’efficacia delle misure di prevenzione adottate”. Parole, queste, che sono di una gravità inaudita, specie per chi, avendo ben in mente quanto scritto all’art. 27 della Costituzione italiana, entra quotidianamente in carcere e constata le gravi carenze del sistema (dalla fatiscenza delle strutture alla carenza del personale; dall’inadeguatezza delle prestazioni sanitarie all’impossibilità di realizzare con continuità progetti educativi) e il preoccupante e crescente livello di sovraffollamento. Parole, queste, che appaiono ancor più gravi per chi, come noi, Garanti territoriali, è testimoni di storie di sofferenza umana, di solitudine e di abbandono, a cui il Ministro Nordio, con il suo commento, sembra non dare importanza, dimenticando, cinicamente, che non si tratta solo di numeri, ma di persone e che, per ciò solo, ogni morte in (e di) carcere è un fallimento dello Stato, rappresentando la cifra di una politica pubblica (penitenziaria) che non sta funzionando. È evidente che, se si registrasse annualmente un numero così elevato di suicidi in qualsiasi altro luogo pubblico di custodia (che sia una scuola, un ospedale o un ricovero per persone anziane) l’atteggiamento di chi ricopre un ruolo Istituzionale sarebbe ben diverso. Anche volendo prescindere da ciò, la Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà personale ricorda che lo stesso Presidente della Repubblica ha usato toni allarmanti nel descrivere le condizioni di vita nelle carceri italiane e, in occasione dell’incontro con il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, unitamente ad una rappresentanza della Polizia penitenziaria, avvenuto il 30 giugno scorso, con parole molto dure, ha affermato che: “È drammatico il numero di suicidi nelle carceri, che da troppo tempo non dà segni di arresto. Si tratta di una vera e propria emergenza sociale, sulla quale occorre interrogarsi per porvi fine immediatamente”. Parole queste che non stanno ancora avendo alcun seguito né sembrano tradursi in interventi concreti che sappiano garantire, nell’immediato, condizioni di vita dignitosa alle persone detenute, come da tempo i Garanti territoriali chiedono e continueranno a chiedere. Ma soprattutto, sono parole che smentiscono appieno le parole del Ministro Nordio e rendono evidente l’inerzia di questo Governo nel rapportarsi a ciò che rappresenta una vera e propria strage di Stato. Tutto ciò, francamente, è inaccettabile. *Samuele Ciambriello, Portavoce della Conferenza, Garante della Campania Francesco Maisto, Garante di Milano Valentina Calderone, Garante di Roma Giuseppe Fanfani, Garante della Toscana Valentina Farina, Garante della Provincia di Brindisi Veronica Valenti, Garante di Parma Suicida un detenuto di 17 anni. Garanti territoriali: Nordio sbaglia di Eleonora Martini Il Manifesto, 14 agosto 2025 Si dice pronto “a mobilitazioni mai viste”, il Sindacato di polizia penitenziaria. Aveva solo 17 anni ed era di origine tunisina, l’ultimo - in ordine di tempo - detenuto morto suicida in carcere. Il più giovane di quest’anno. È deceduto ieri in ospedale dopo tre giorni di agonia: nella notte tra domenica e lunedì aveva usato i jeans che indossava per impiccarsi nella sua cella del Centro di prima accoglienza annesso all’Istituto per minori di Treviso. Sale così a 54 il numero totale dei suicidi in carcere dall’inizio del 2025, secondo il report curato da Ristretti Orizzonti che riporta anche una piccola biografia delle persone decedute, ove possibile. Una morte che invece non troverà posto nel conteggio tenuto dal Dap perché avvenuta in ospedale. Ma che, secondo il sindacato di Polizia penitenziaria (Spp), “inchioda il ministro Nordio a pesanti responsabilità”. “I suicidi dall’inizio dell’anno confermano che gli under 30, i detenuti alla prima detenzione, gli stranieri, specie extracomunitari, insieme a tossicodipendenti e malati psichici sono le categorie della popolazione carceraria a maggiore rischio”, sottolinea il segretario Aldo Di Giacomo che indica la “stage silente di detenuti” come “priorità dell’emergenza carceraria”. Il sindacato si dice pronto a “mobilitazioni mai viste sino ad oggi per inchiodare il ministro alle proprie responsabilità e dare la possibilità al governo di trovare risposte immediate al dramma quotidiano delle carceri”. Ieri anche il Coordinamento della Conferenza nazionale dei Garanti territoriali dei detenuti ha espresso “il più profondo sconcerto” per la nota con la quale il ministro Nordio ha smentito i dati dell’ultimo rapporto sui decessi in carcere, pubblicato dal Garante nazionale, negando l’esistenza di un allarme sociale. Le parole del Guardasigilli - spiega il Coordinamento - unitamente a quelle usate dallo stesso Collegio nazionale per rientrare nei ranghi imposti dal governo, sono “di una gravità inaudita”. A Nordio, i Garanti territoriali (comunali e regionali, dunque di ogni orientamento politico) ricordano che “ogni morte in (e di) carcere è un fallimento dello Stato, e rappresenta la cifra di una politica pubblica (penitenziaria) che non sta funzionando”. Suicidio nell’IPM di Treviso. Antigone: “un dramma che racconta la crisi del sistema minorile” di Andrea Oleandri* Ristretti Orizzonti, 14 agosto 2025 “La tragedia delle morti in carcere arriva anche negli Istituti Penali per Minorenni dove un ragazzo di 17 anni si è suicidato, poche ore dopo il suo arresto, nell’IPM di Treviso. Era stato soccorso ancora vivo e portato in ospedale dove è deceduto poche ore dopo. Si tratta di un dramma che testimonia la crisi del sistema della giustizia minorile. L’ultimo episodio di un ragazzo che si era tolto la vita nelle carceri per minori risaliva al 2003. Questo arriva proprio all’indomani delle minimizzazioni e l’indifferenza del ministro della Giustizia Nordio sui suicidi, cui si è accodato il Garante nazionale per i diritti delle persone private della libertà con un proprio comunicato. Abbiamo spesso denunciato come, a partire dal DL Caivano, si sia iniziato a registrare un sovraffollamento mai esistito prima, nonché la chiusura delle carceri minorili con un approccio sempre più punitivo, al posto di quello educativo che aveva portato tutta Europa a guardare con interesse al modello della giustizia minorile italiano. Abbiamo raccontato di crescenti tensioni, sfociate in forme di protesta che hanno interessato tutti gli IPM, proteste che raccontano un disagio profondo da intercettare e che invece il governo preferisce punire con il decreto sicurezza. Abbiamo denunciato l’abuso di psicofarmaci. Recentemente, insieme a Defence for Children Italia e Libera abbiamo promosso un appello firmato da cento tra associazioni, autorità garanti e personalità, attraverso cui abbiamo chiesto al governo di fermarsi e tornare indietro ad un sistema che metta al centro la persona e i suoi bisogni. Non possiamo perdere i ragazzi così giovani. Non possiamo vederli morire in carcere”. Queste le dichiarazioni di Susanna Marietti, coordinatrice nazionale e responsabile dell’osservatorio sulla giustizia minorile di Antigone. *Ufficio Stampa Associazione Antigone Sicurezza, svolta Pd: “Non lasciamo il tema in mano alla destra” di Mauro Bazzucchi Il Dubbio, 14 agosto 2025 L’uccisione di Cecilia De Astis da parte di tre bambini rom ha scosso anche il Nazareno. L’ex segretario Veltroni chiede un cambio di approccio, Serracchiani lo segue. “Per la sinistra la parola sicurezza dovrebbe smettere di essere un tabù”. A dare la linea senza giri di parole è l’ex-sindaco di Roma e segretario del Pd Walter Veltroni, con un intervento sul Corriere della Sera. Muovendo dalla tragica uccisione di Cecilia De Astis ad opera di tre bambini rom alla periferia di Milano, Veltroni prende ovviamente le distanze dalla propaganda securitaria e con toni incendiari della destra (in primis del leader della Lega Matteo Salvini), ma si concentra su quello che a suo avviso è un difetto dei progressisti italiani, al quale colpevolmente non si è ancora trovato un antidoto: la refrattarietà a parlare di sanzioni e di severità per chi delinque. “Non dovrebbe essere un tabù”, osserva l’ex-leader dem, “perché la parola sicurezza confina con la parola legalità. Il rispetto delle leggi”, prosegue, “in primo luogo quelle che garantiscono l’integrità della persona, è un dovere per ogni sistema democratico. E non esistono mai giustificazioni”, prosegue, “neanche quelle sociali, per la violenza contro altri”. “Il bisogno di sicurezza chiede una risposta, ed è prevalente, con i temi economici, nelle preoccupazioni degli italiani. Ignorarlo”, conclude Veltroni, “è sbagliato e pericoloso”. A metà mattinata, mentre sale il pressing degli esponenti di maggioranza contro il sindaco di Milano Beppe Sala e in genere contro l’approccio delle forze di centrosinistra ai problemi legati al controllo del territorio, la deputata e responsabile giustizia del Nazareno, Debora Serracchiani, con una dichiarazione edulcorata ma significativa, che potrebbe sembrare scontata ma in casa Pd non lo è sempre stata (“i nomadi che sbagliano devono pagare”) lascia intendere che il segnale lanciato da Veltroni è stato recepito anche all’interno del gruppo dirigente del partito. Che certamente sta presentando, da quando al comando si è insediata Elly Schlein, una certa divaricazione di sensibilità sul tema sicurezza dalla parte di esponenti più a contatto col territorio, vale a dire il cosiddetto partito degli amministratori locali e i vertici romani. Di Veltroni è stato per lunghi anni strettissimo collaboratore il senatore Walter Verini, che già in tempi non sospetti aveva posto l’accento sulla necessità, da parte della sinistra, di non eclissare un tema così sentito dai cittadini come quello della sicurezza delle strade e della protezione dei propri beni. Un concetto ribadito al Dubbio: “Il primo pensiero”, osserva Verini, “naturalmente deve andare alla povera Cecilia de Astis, una donna che faceva la volontaria, che è stata uccisa e i cui cari meritano giustizia. Ma non si può non pensare anche al fatto che questi bambini non sapevano probabilmente cos’era giocare assieme ad altri bambini in una scuola. Non sapevano cos’è un percorso di educazione, ma semplicemente conducevano una vita allo stato brado. La soluzione”, prosegue, “ovviamente non è spianare il campo rom per trasferire quel disagio, quella asocialità, da un’altra parte. Il tema è che bisogna lavorare sulle integrazioni, perché dove c’è il degrado e fragilità sociale si annidano i problemi legati alla sicurezza e alle paure. Questo però non risolve il problema della paura quotidiana che attraversa la società. C’è da rispondere adesso a un bisogno immediato di sicurezza. Noi abbiamo bisogno di potenziare le forze dell’ordine che già ora fanno un lavoro enorme, magari sottopagati. Abbiamo bisogno”, prosegue Verini, “di potenziare i sistemi di videosorveglianza, di presidiare il territorio Abbiamo bisogno cioè di interventi che diano anche visivamente al cittadino il senso di maggiore sicurezza, perché poi i più poveri, i più fragili sono quelli che prendono i trasporti pubblici, ad esempio, ed è la gente che vive con più paura. Bisogna fare in modo che assieme a forti opere di bonifica sociale e quindi di interventi per migliorare la qualità della vita, ci siano anche immediati interventi proprio legati all’ordine pubblico, alla sicurezza e noi dobbiamo chiederli, altrimenti questo terreno delle paure e delle insicurezze lo coltiva in maniera barbara questa destra. Che tra l’altro governa da due anni e mezzo, anni in cui la percezione e il senso di paura della società sono aumentati. Eppure loro hanno introdotto una trentina di nuovi reati, forse anche una quarantina. Hanno riempito fino all’inverosimile persino le carceri minorili, dal Beccaria a Nisida”. Come detto, però, al pari di Veltroni, Verini sottolinea il limite culturale della sua parte politica: “Va detto che storicamente la sinistra avuto come un tic, una sorta di diffidenza per la sanzione. È come dire, ‘ci vorrebbe ben altro’. È ovvio che la sinistra debba pensare che la sanzione non basti, ma adesso, qui ed ora, la signora che prende la metropolitana deve prenderla in sicurezza, l’anziano che esce di casa non deve avere paura che venga in qualche modo rapinato o che il suo appartamento venga svaligiato. Quindi bisogna fare in modo che a queste insicurezze, a queste paure in gran parte vere, in parte percepite anche per la propaganda noi diciamo ‘siamo qui con te, condividiamo il tuo stato d’animo”. Non solo ruspe: ora la Lega lancia la gogna dei veri “delinquenti” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 14 agosto 2025 Salvini rincara la dose sul caso di Milano: “Basta buonismo con i rom”. E il partito si attiva per una nuova campagna “anti-crimine”: stavolta con foto vere sui manifesti. Le ruspe non bastano più. Il partito di Matteo Salvini ora ha progetti più ambiziosi: una campagna estiva “anti-crimine con foto di delinquenti veri”. Una gogna pubblica in piena regola, dunque, di cui la Lega può servirsi per ottenere ben due risultati in un colpo: promuovere il decreto Sicurezza e rispondere al caso di Milano, dove la 71enne Cecilia De Astis è stata travolta da un’auto pirata con a bordo quattro minori rom. Il tutto ingaggiando un secondo round con il Campidoglio, che a Roma aveva rimosso i manifesti-antiscippo affissi dal Carroccio perché carichi di stereotipi e lesivi della dignità dei soggetti ritratti. Ma andiamo per ordine. Il nuovo slancio del Capitano è arrivato ieri, quando Salvini è tornato a invocare le ruspe per “radere al suolo” il campo rom di Milano, alludendo anche a “pseudo “genitori”“ da arrestare. Con lo stesso post sui social, il viceministro era andato quindi all’attacco del sindaco Beppe Sala. E non contento dello scontro con il centrosinistra, che lo accusava di “sciacallaggio”, questa mattina il leader leghista ha rincarato la dose: “Serve agire subito - si legge nel post sui social - con l’intervento dei servizi sociali, troppo spesso cauti quando ci sono di mezzo famiglie che vivono nelle roulotte o nelle baracche, per intervenire su quei bambini e metterli in condizione di non ripetere i gravissimi reati appena commessi. Basta con la tolleranza e il buonismo nei confronti dei rom e di gente che è davvero difficile definire genitore”. In questo quadro si inserisce anche la mossa della Lega, che ha lanciato la nuova campagna insieme ai dati del Viminale sui reati commessi all’interno delle metropolitane in Italia nei primi cinque mesi dell’anno: quei numeri, dice il partito, “certificano che le persone denunciate o arrestate per furto con destrezza nelle metro sono in numero di 26 per la Bosnia-Erzegovina, in numero di 20 per la Romania e in numero di 32 di nazionalità ignota. Nessun’altra comunità - prosegue la nota - ha numeri così rilevanti”. Il che legittimerebbe, dunque, la gogna nei confronti di rom e neri, protagonisti della prima campagna promossa dal Carroccio con slogan del tipo: “Scippi in metro? Ora finisci in galera senza scuse”. Censurata dal sindaco dem Roberto Gualtieri con quello che il Corroccio definisce “bavaglio comunista”, la prima infornata di manifesti riportava volti generati con l’intelligenza artificiale. Mentre ora si tratterà di “fotografie reali” che saranno “diffuse entro agosto”, con persone in carne e ossa: come lady scippo - annuncia la nota - che “secondo i media ha accumulato 150 reati in vent’anni, evitando la galera anche per le sue costanti gravidanze”. “Con le nuove regole, per lei sarà più difficile delinquere e restare impunita”, assicura il partito di via Bellerio. Che chiaramente non tralascia il tema delle occupazioni abusive: ne sa qualcosa l’europarlamentare di Avs Ilaria Salis, già protagonista di una card dedicata all’argomento. Il manganello leghista sulla tragedia di Milano di Alice Oliviero Il Manifesto, 14 agosto 2025 Dopo l’incidente di via Saponaro, Salvini attacca ancora: “Agire subito”. E parte una nuova campagna “contro la criminalità”. Anche se non è al Viminale, Matteo Salvini si comporta come se fosse il ministro dell’Interno. O il capo della polizia giudice, giuria e soprattutto giustiziere. La tragedia milanese della settantunenne Cecilia De Astis, travolta e uccisa in via Saponaro da un’automobile con quattro minorenni a bordo, è l’occasione giusta per tirare fuori tutto il repertorio: dall’evocazione della ruspa come panacea di tutti i mali alla proposta di sgomberare, anzi di distruggere, tutti i campi rom, con annesso attacco al sindaco Beppe Sala accusato di essere troppo accondiscendente verso il crimine e i criminali, soprattutto se non sono italiani. “Serve agire subito - ha detto Salvini - con l’intervento dei servizi sociali, troppo spesso cauti quando ci sono di mezzo famiglie che vivono nelle roulotte o nelle baracche, per intervenire su quei bambini e metterli in condizione di non ripetere i gravissimi reati appena commessi. Basta con la tolleranza e il buonismo nei confronti dei rom e di gente che è davvero difficile definire genitore”. Dal Pd, non a torto, Lia Quartapelle fa notare che in ogni caso “la responsabilità dell’ordine pubblico, incluso il fatto di fermare e punire chi è colpevole di reati, è del ministro dell’Interno. Se Salvini fosse una persona seria chiederebbe conto a Piantedosi. I quattro ragazzini rom coinvolti nell’incidente di martedì scorso hanno tutti meno di quattordici anni - il più grande ne ha 13, la più piccola 11 compiuti a marzo - dunque per la legge italiana non sono imputabili. La polizia locale li ha fermati in meno di 24 ore e la procura dei minori ha deciso di riaffidarli alle famiglie perché, allo stato, manca il presupposto della “pericolosità sociale”. La valutazione che verrà fatta nei prossimi giorni riguarda possibili provvedimenti di natura non penale per i genitori: è possibile, insomma, che intervengano i servizi sociali. Al campo di via Selvanesco, periferia sud di Milano, sono rimaste in totale una decina di roulotte: la maggior parte degli abitanti se ne sono andati appena la storia dell’investimento è salita di tono. Paura di ritorsioni, probabilmente: del resto le parole del vicepremier sono difficili da ignorare il timore che le cose si mettano male appare ampiamente fondato. Ieri mattina, a un certo punto, si era anche diffusa la notizia che i bambini coinvolti nell’incidente fossero spariti nel nulla, ma la polizia ha smentito nel giro di poche decine di minuti: “La situazione è sotto controllo”. Quella di Salvini, per il resto, è una campagna estiva e il fatto di cronaca alla fine della fiera non serve solo a rafforzare il concetto. Dopo che tre settimane fa il Comune di Roma aveva fatto rimuovere alcuni manifesti leghisti sul decreto sicurezza (il motivo è che violavano i regolamenti in fatto di contenuti discriminatori), ieri è partita la nuova campagna “anti crimine” a base di “foto di delinquenti veri”. E così abbiamo come testimonial “Lady scippo” e Ilaria Salis. “I dati del Viminale sui reati commessi all’interno delle metropolitane in Italia nei primi 5 mesi dell’anno - sottolinea la Lega in una nota - certificano che le persone denunciate o arrestate per furto con destrezza nelle metro sono in numero di 26 per la Bosnia-Erzegovina, in numero di 20 per la Romania e in numero di 32 di nazionalità ignota. Nessun’altra comunità ha numeri così rilevanti. Dati in linea con lo stesso periodo dell’anno scorso, quando erano stati: 36 della Bosnia-Erzegovina, 37 della Romania e in numero di 21 di nazionalità ignota”. Da qui la campagna “per valorizzare il decreto sicurezza”. Nei nuovi cartelloni si vede un gruppo di donne tra cui una che, “secondo i media” avrebbe accumulato “150 reati in vent’anni, evitando la galera per le sue costanti gravidanze”. Quanto a Salis, vera e propria ossessione per la destra da quando è stata eletta al parlamento europeo e contestualmente è uscita dalle carceri ungheresi dell’amico Orbàn, il concetto è espresso così: “Occupi una casa? Ti buttiamo fuori in 24 ore”. Sotto, in un fumetto, l’eurodeputata di Avs dice “occupare una casa è legittimo”. I piccoli rom di Milano non sono imputabili. Ma politica e giustizia ciarliera invece sì di Maurizio Crippa Il Foglio, 14 agosto 2025 “Radere al suolo” un campo rom, quello di via Salvanesco a Milano da cui sono usciti i quattro bambini che hanno travolto e ucciso con un’auto rubata Cecilia De Astis, è il peggior modo di esprimere la peggiore delle idee, e bene ha fatto il sindaco Sala a rispondere a Salvini che “sulla morte di una persona è vergognoso speculare”. Altri hanno detto “sciacallaggio”, e se lo merita. C’è però anche di peggio, nelle gride senza costrutto di Salvini: parole come le sue sono il più comodo degli assist per permettere a tutti gli altri di nascondersi dietro le fetenzie della destra “low and disorder”, sono l’alibi per evitare di parlare dei fatti veri, della cosa in sé. Di un problema grave di legalità e persino di mancato controllo del territorio che nasce da una politica ipocrita, figlia di una sociologia un tanto al pezzo per cui è sempre colpa del “disagio sociale”, della “mancata integrazione” ma in cui manca sempre il principio di responsabilità. Più comodo buttarla in sociologia, in scusante politica, o peggio ancora di trincerarsi dietro la lingua di legno di una magistratura al di sotto del suo ruolo. Per sintetizzare questa tecnica di nascondimento basta l’attacco del commento di Nicoletta Verna sulla Stampa: “Prima e al di là di qualunque polemica, strumentalizzazione, contrapposizione tra destra e sinistra, buonismo e razzismo”. Ma prima di cosa? Prima di una donna ammazzata perché qualcuno, a partire dai genitori, o dalla loro comunità di appartenenza, non dalla società in astratto, si disinteressa del principio di legalità? Dare la colpa ai Salvini è una scorciatoia. Anche Piantedosi, del resto, non è certo contento delle sparate del capo della Lega. Che servono però a evitare di domandarsi come mai quei campi abusivi non siano non diremo certo “smantellati”, ma bonificati, controllati, visitati ogni tanto dalle forze dell’ordine, almeno per vedere se i bambini vanno a scuola. Se il sindaco Sala avesse usato metà della cazzimma con cui risponde a Salvini per rintuzzare le assurdità delle inchieste sull’edilizia saremmo in un’altra Milano. Più comodo assumere l’aria meditabonda, tutti i giornali, e parlare del “disagio degli adolescenti”. Ma che c’entra? Comodo andare a intervistare i magistrati in pensione, come Maria Carla Gatto, ex presidente del Tribunale per i minorenni a Milano, che dà la colpa alla scuola: “Inutile punire gli under 14, la soluzione è la scuola”. La scuola è il secondo paravento meccanico, dopo la fragilità economica, ma evitando elegantemente di dire che quei quattro bambini a scuola non sono mai andati, perché dai campi rom non li mandano e non c’è uno straccio di carabiniere di Pinocchio che vada a prenderli. Come è possibile che si creino giustizia e sicurezza se sono affidate al burocratese della magistratura che si esprime così: “Una mancanza da parte della società di intercettare il disagio e non approntare tutti quegli interventi utili per evitare che i ragazzi non solo violino la legge ma che non abbiano neanche rispetto dell’altro né delle istituzioni”. E poi i castelli in aria delle soluzioni addotte: “La procura presso il Tribunale dei minorenni potrebbe chiedere l’avvio di un procedimento amministrativo con la predisposizione di un progetto educativo da realizzarsi eventualmente anche attraverso il loro collocamento in comunità”. Addavenì. La magistratura, che dovrebbe esercitare il famoso controllo di legalità, partorisce una trafila di astrazioni tribunalizie da regno borbonico. Lo sanno o no che c’è un problema di legalità che non viene affrontato? La procuratrice capo per i minori di Torino, Emma Avezzù, parla del “divario sociale sempre più ampio” e di “famiglie fragili abbandonate a sé stesse”. Sempre un divagare il can per l’aia, come pure “l’ascensore sociale che è venuto meno”. Non funziona, per lei, nemmeno la sottrazione ai genitori dei minori che compiono reati: “Quando i i giudici minorili hanno creato la tutela dei bambini allontanandoli dalle famiglie è nato Bibbiano”. Infatti i quattro bambini di Selvanesco sono tornati in famiglia. Bene no? Beppe Sala dice che “per quanto riguarda gli insediamenti rom” il Comune “da anni persegue una politica di superamento”. Che fuori dal linguaggio ottuso della politica vuol dire aver fatto poco o nulla. Su Repubblica Viola Ardone ha scritto che “la giustizia non è vendetta: è verità, è riparazione, è azione”. Affermazione che ha senso, ma solo se si premette che giustizia è ristabilimento della legalità, delle responsabilità e quindi anche della punizione - ma i genitori, per quanto difficilmente punibili dalla legge, pare siano già svaniti. Dice però bene Ardone: “Forse la domanda iniziale andrebbe trasformata: non chi ha la colpa di quello che è successo, ma a chi tocca impedirlo. In quale punto della sua giovanissima vita quel bambino è stato abbandonato e da chi”. Certo la colpa non è della società, intesa nella sua comoda astrazione. Forse invece è delle politiche e delle leggi che negano il problema. Certo che se i magistrati qualche volta si occupassero delle chat dei campi abusivi, invece che di quelle degli architetti, sarebbe un’altra Milano. Le nostre responsabilità sui campi rom di Gianfranco Pellegrino* Il Domani, 14 agosto 2025 Chi ha la responsabilità genitoriale ed espone i propri figli a condizioni di incuria e negligenza ha colpe, certamente. Ma l’esercizio della cura e del controllo non possono avvenire allo stesso modo in tutti i contesti. Non c’entra nulla chi avrebbe dovuto occuparsi della scolarizzazione dei bambini a bordo dell’auto pirata di Milano? Non c’entra nulla chi dovrebbe occuparsi del fatto che vivono senza fogne? Non sono fattori che rendono più difficile l’onestà e la cura? Nella Sicilia dei tardi anni Novanta nella quale sono cresciuto, molti minori guidavano. Guidavano l’auto dei genitori e tutte le forme possibili e immaginabili di motocicli, guidavano, taluni, anche il trattore. Si favoleggia anche di uno che guidava la mietitrebbia. Guidare faceva parte dell’educazione del maschio, del rito di passaggio. Io che non guidavo conservo, nonostante tutta la mia civilizzazione, una spina interna dolorosa di inferiorità. Non mi ricordo incidenti. E ovviamente chi guidava lo faceva con mezzi la cui proprietà era indiscussa. Si guidava, ma non si rubava. Né ovviamente si pensava che questi pre-adolescenti e adolescenti fossero responsabili dell’assurdità di infrangere leggi e norme elementari di precauzione e buonsenso. Diciamo che c’era una specie di cordone di controllo, permissivo ma potente, da parte della società adulta. Per esempio, mentre si perdonava il giretto in macchina per viali di campagna, non si ammetteva il giro su strade trafficate. E non si ammetteva, almeno dove sono cresciuto io (piccola borghesia di provincia), che si marinasse la scuola. Invece, i bambini protagonisti degli incresciosi fatti di Milano a scuola non andavano da tempo, e non mi pare che le antenne di chi si cura della dispersione si fossero attivate. Ed è evidente che la responsabilità genitoriale in un campo rom viene esercitata diversamente. I minori non sono responsabili delle loro condotte, anche lesive e delittuose, come si è detto immediatamente e dappertutto, nei commenti a questi fatti. Chi non ha le condizioni per esercitare una scelta autonoma non può essere ritenuto responsabile. Ma la responsabilità, anche di chi ne è capace, può avere gradi. Si può riconoscere agli adulti in condizioni psicologiche precarie un minore grado di responsabilità. Lo stesso vale per chi si trovi in condizioni estreme di emergenza. Allora, se si considera il quadro ampio, di chi sono le responsabilità di quanto commesso da questi bambini? Solo dei loro genitori, che vivono in una specie di campo di concentramento (perché questo sono i campi rom, e non ci sono argomentazioni di nessun tipo che li giustifichino)? Non c’entra nulla chi avrebbe dovuto occuparsi della scolarizzazione di questi bambini? Non c’entra nulla chi dovrebbe occuparsi del fatto che ci siano persone, sul proprio territorio, che vivono senza fogne? Non c’entra nulla chi dovrebbe considerare che condizioni di indigenza non giustificano i furti, non giustificano la negligenza, ma sono fattori che rendono più difficile l’onestà e la cura? Chi ha la responsabilità genitoriale ed espone i propri figli a condizioni di incuria e negligenza ha colpe, certamente. Buon senso e legislazione vigente possono portare a togliere a genitori carenti il diritto di custodia e controllo dei propri figli. Ma l’esercizio della cura e del controllo non avvengono, né possono avvenire, allo stesso modo in tutti i contesti. E i nostri giudizi su quanto un genitore sia buono mutano a seconda dei contesti. Situazioni difficili e contesti di degrado rendono molto più pesanti doveri di cura che è molto più semplice eseguire quando si hanno buoni redditi e si vive in case pulite. Il dramma di Cecilia De Astis e di suo figlio Filippo Di Terlizzi non si può sottovalutare. Ma per capirlo si deve pensare che esso derivi non solo dagli ultimi anelli della catena, né dai penultimi - non dai guidatori incauti, né dai loro genitori - ma da chi vive serenamente, magari in spiaggia, dimenticandosi che sul proprio territorio sono possibili quelle condizioni di degrado. E fa ancora più specie che questo accada nel comprensorio di una città di cui negli ultimi mesi si è parlato per affitti impossibili e speculazioni edilizie di lusso. Bisogna capire se in questo paese crediamo ancora nell’eguaglianza. Se ci crediamo, non possiamo tollerare differenze così stridenti a pochi chilometri di distanza. Quanto dista quel campo rom dal centro scintillante di Milano? E che cosa separa il destino di quei guidatori minorenni della Sicilia della mia infanzia - alcuni di loro sono diventanti brillanti e stimati professionisti nel frattempo - da quello dei bambini rom di Milano? Davvero solo l’insipienza dei loro genitori? *Filosofo I bambini fantasma traditi dalla politica di Chiara Saraceno La Stampa, 14 agosto 2025 I quattro bambini coinvolti nell’omicidio automobilistico di una donna al Gratosoglio, periferia di Milano, vivevano in un campo nomadi bosniaco, alcuni da diversi mesi, altri da più tempo. Eppure, sembra che nessuno sia mai andato a scuola, né che la loro esistenza, come quella di tutti gli altri bambini e adolescenti che si trovano in quel campo, sia mai stata segnalata alle autorità scolastiche o al servizio di assistenza sociale. Probabilmente non hanno neppure mai visto un medico e ricevuto una vaccinazione. L’informalità del campo, che si avvale di un terreno di proprietà privata di qualcuno del gruppo, la frequente mobilità dei gruppi familiari che vi abitano, la chiusura del gruppo etnico-culturale che fugge, o è fuggito in passato, da persecuzioni, il loro essere stranieri e spesso senza documenti sembra abbiano favorito un non voler vedere e un non voler intervenire: per assicurarsi che questi bambini avessero la possibilità di andare a scuola e vivessero in condizioni igienico-sanitarie accettabili, per parlare con le mamme, zie e nonne (non sembra ci siano uomini in quel campo) per persuaderle a mandare i bambini a scuola invece che lasciarli tutto il giorno a se stessi e alle proprie risorse, per capire se avrebbero accettato un’altra soluzione abitativa. Finché non “davano fastidio” li si è lasciati nel loro mondo la cui “alterità” legittimava la de-responsabilizzazione di chi avrebbe dovuto intervenire. Quei bambini, come gli altri del campo, sono rimasti invisibili fino a quando non hanno commesso la pazzia, non solo di rubare un’auto, ma di salirvi lasciando che uno di loro la guidasse, fino a che il joy ride si è trasformato in tragedia. Allora sono entrati di prepotenza all’attenzione delle istituzioni come piccoli criminali, “purtroppo” non punibili stante la giovanissima età, di cui valutare l’allontanamento dalle famiglie e dal campo a causa della loro possibile pericolosità sociale e dell’inadeguatezza educativa della famiglia. Senza che ci si interroghi sulla responsabilità delle istituzioni pubbliche che fino ad ora non li hanno visti, cercati, aiutati, anche se la loro presenza era nota e monitorata dalla polizia municipale. E che cosa fare per tutti gli altri bambini e adolescenti che abitano in quel campo (e le loro mamme), per non lasciarli nell’invisibilità che preclude loro ogni alternativa. La soluzione facile proposta da Salvini - “bruciamo il campo” - o anche la sola espulsione senza alternative, come spesso avviene con i campi rom, sposta solo altrove l’invisibilità di esseri umani cui non si riconosce neppure la dignità dell’esistenza. Non ho dubbi, anche per esperienza personale in altri, “più facili”, contesti, che sia difficile entrare in relazione con le persone di questa comunità, stabilire un minimo di rapporto di fiducia. Richiede tempo, pazienza, ricerca di mediazioni, di un equilibrio tra rispetto delle differenze culturali e difesa dei diritti dei bambini a poter crescere in sicurezza e sviluppando altre capacità che non vivere alla giornata e rubacchiando qua e là, negoziazione di compromessi, offerta di alternative praticabili e credibili. È troppo facile e auto-assolutorio credere che a chi vive in questi luoghi vada bene vivere così, senza acqua corrente, servizi igienici, in mezzo ai campi e tra la spazzatura, senza altro orizzonte temporale che il qui e ora. Questo paziente lavoro di connessione e mediazione non può essere lasciato solo all’iniziativa volontaria, ma deve impegnare anche le istituzioni pubbliche. Non è detto che abbia sempre successo, ma bisogna provarci, almeno per i bambini. Il cappellano del Beccaria: “Togliere i bimbi alle famiglie? Valutazione seria e non emotiva” di Chiara Campo Il Giornale, 14 agosto 2025 C’è una Giustizia che supplisce, non richiesta, alle scelte politiche (urbanistica a Milano, infrastrutture a Genova e immigrazione in tutto lo Stivale) e c’è una Giustizia che supplisce alle scelte che la politica non fa colpevolmente: si va dai temi etici (fine vita) alla facoltà di togliere dei bambini a dei genitori che non li mandano a scuola e li lasciano delinquere. Ed eccoci al caso milanese dei ragazzini bosniaci (rom) che hanno preso un’auto e l’hanno lanciata contro una donna di settantun anni, ammazzandola sulle strisce pedonali. Sono perlopiù i tribunali dei minori a togliere la potestà a certi genitori e a fare quello che la politica non è riuscita a fare, ossia intervenire quando l’incuria educativa, la mancata scolarizzazione e l’affiliazione a contesti criminali hanno messo a rischio i loro figli. I casi ci sono e le motivazioni sono documentate: il termine “rom” non compare quasi mai nei provvedimenti (per riservatezza) ma c’è un corpus di sentenze lette e schedate da chi ha avuto accesso agli atti. Il Tribunale per i minorenni di Roma, per esempio, tra il 2006 e il 2012 ha redatto 87 sentenze di adottabilità su minori rom: un quarto per mancata frequenza scolastica, un terzo con violazione sistematica delle regole delle strutture (in cui vivevano) e il 28 per cento per criminalità dei genitori, a reati. È questo il quadro che la politica ha delegato ai giudici. Poi ci sono dei casi legati alla criminalità più seria. A Reggio Calabria, fra il 2012 e il 2016, il Tribunale ha adottato severi provvedimenti su una trentina di ragazzi legati a famiglie della ‘ndrangheta: l’obiettivo, dichiarato, era sottrarli a un contesto criminale strutturale in virtù del in certi contesti rom, non necessariamente in quello milanese. Resta che è la magistratura a fare il lavoro sporco laddove la politica non arriva: sottrarre i figli a un destino criminale quando scuola, servizi e amministrazioni hanno fallito. Quanto accaduto a Milano “è un fatto tragico che dispiace immensamente, dietro cui c’è un problema serio, ma le soluzioni emergenziali non servono, non si può andare avanti a decreti”. Lo dice don Claudio Burgio (foto), cappellano del carcere minorile Beccaria. “È vero - dice il sacerdote - che l’etnia rom ha una cultura difficile da integrare, ma negli anni ricorda - sono stati fatti tanti passi avanti e togliere i bambini alle loro famiglie dovrebbe essere frutto di una valutazione seria e non emotiva, tenendo anche conto che spesso i minori rom scappano dalle comunità”. “Per affrontare il problema dei minori sottolinea il sacerdote che è anche fondatore della comunità Kairos ci vuole un progetto politico sistemico, anni fa ci fu un’emergenza rom minorile, con ragazzini sfruttati, ma qualcosa è stato fatto: grazie a una politica di integrazione, di aiuto e scolarizzazione dei minori, non è più quel periodo, tanto che oggi al Beccaria ci sono solo due o tre ragazzini rom”. “Nei campi rom infanzia negata. Recuperarli? Proviamo, ma vince la legge del campo” di Giampiero Rossi Corriere della Sera, 14 agosto 2025 Don Paolo Steffano è un prete di 60 anni che si è sempre “sporcato la tonaca” in comunità difficili. Prima di approdare al Gratosoglio, si era già misurato con il Corvetto. “Ma quale infanzia? Nei campi è solo un dato anagrafico, già molto prima dei 13 anni si vivono esperienze da brividi. Altro che guidare l’auto, quello è il minimo, lo fanno tutti”. Don Paolo Steffano è un prete di 60 anni che si è sempre “sporcato la tonaca” in comunità difficili. Prima di approdare al Gratosoglio, periferia all’estremo Sud di Milano, si era già misurato con il Corvetto - altro storico quartiere popolare - e prima ancora a Baranzate, prima cintura dell’hinterland settentrionale, al confine con Quarto Oggiaro, dove la Babele delle fragilità comprendeva anche un campo nomadi. Don Paolo, lei conosce i quattro ragazzini che erano a bordo di quell’auto? “Forse li ho incrociati, ma non ho avuto a che fare direttamente con loro”. Però di bambini provenienti dagli insediamenti rom della zona lei ne ha conosciuti? “Sì, cerchiamo di coinvolgerli nelle nostre attività e alcuni sono venuti in campeggio. Ne ricordo uno che cercava continuamente l’attenzione, ma si è comportato benissimo. Poi, poco dopo il rientro, un giorno ha preso l’auto del nonno ed è andato a schiantarsi contro un palo per distruggergliela, perché c’era in corso una lite familiare. Una cosa spiazzante, appena tornano alla realtà del campo diventano altre persone. E guardi che se quei quattro fossero andati in giro con quell’auto il giorno dopo, quando in quel punto c’è il mercato, sarebbe stata una strage tipo Nizza o Berlino”. Ma il fatto di circolare al volante di un’auto da bambini è così frequente? “Eh sì. Per noi prendere un bambino sulle ginocchia e fargli girare il volante è un gioco, lì dentro invece guidano davvero. Perché a loro l’infanzia è negata, vivono precocemente da adulti”. Quindi è possibile stabilire rapporti con quei bambini e con le loro famiglie? “Non con tutti, per entrare nel campo bisogna conquistare la fiducia di qualcuno e comunque ci sono zone vietate e spesso guerre interne. I bambini si lasciano coinvolgere, il problema è che quando diventano adulti la legge del campo si impone e li ritira dalla vita, non li vedi più, diventano come gli altri adulti”. Quindi cosa si può fare? “È una questione atavica, non ci sono risposte, la cronaca nera prevale su tutto, azzera il lavoro di tanti e allarga il solco delle diffidenze. Però a quel punto l’errore è appiattire tutto sulla questione dei rom, perché ci va di mezzo tutto il quartiere, che di fragilità ne contiene tante”. Cioè? “Bisogna distinguere. C’è il mondo rom, che comprende il campo regolare di Chiesa rossa e l’insediamento selvaggio di via Selvanesco, senza nemmeno acqua corrente, con persone non intercettabili. E poi c’è il quartiere. Con tanta gente bella ma anche affaticato da tremende fragilità familiari, delinquenza, bande, risse, ragazzini con il coltello, case popolari fatiscenti, occupazioni. Ma siamo riusciti a costruire qualche percorso virtuoso, abbiamo festeggiato persino qualche laurea”. E su questo come si dovrebbe agire? “Dal punto di vista politico c’è un rimpallo di responsabilità. E invece servono investimenti duraturi e non di facciata, altrimenti ogni tanto ci scappa il morto”. L’ex procuratore dei minori: “Niente carcere per i bambini. L’unica arma è la prevenzione” di Marianna Vazzana Il Giorno, 14 agosto 2025 Ciro Cascone per 20 anni è stato ai vertici della Procura del Tribunale dei minori di Milano. “Uno dei pochi baluardi di civiltà che ci sono rimasti è il non mandare i bambini in carcere. Ora, sull’onda dell’emotività, si invocano misure restrittive per quanto accaduto a Milano e ci si stupisce del fatto che quei ragazzini rom (i quattro minorenni tra cui una bimba tra gli 11 e i 13 anni che hanno rubato un’auto con cui poi è stata travolta e uccisa la 71enne Cecilia De Astis, ndr) siano stati riaffidati alle famiglie e non allontanati dai genitori, senza disporre per esempio l’ingresso in comunità. Ma negli ultimi anni gli strumenti a disposizione sono cambiati: le ultime riforme della giustizia minorile pendono a tutela degli adulti (motivo per cui è più complesso disporre allontanamenti) più che dei minori. Un cambio di passo dopo Bibbiano”. In un caso del genere non sarebbe stato possibile agire altrimenti? “Allontanare un minore da una famiglia è sì possibile ma richiede un procedimento molto più lungo rispetto al passato, anche recente. Non esiste uno “strumento d’emergenza” per casi particolari come questo. Sono sicuramente applicabili le cosiddette misure rieducative il cui procedimento è cambiato proprio lo scorso anno: il nuovo articolo 25 del regio Decreto legge 1404 del 1934 (oggetto di modifiche e aggiunte già nel 1956 e nel 1977, ndr) attribuisce al Tribunale per i Minorenni la competenza a intervenire per avviare “progetti educativi”, procedimenti amministrativi rieducativi che richiedono tempo, un percorso specifico, nel corso del quale è possibile anche un allontanamento dalla famiglia con collocamento in comunità, ma non in emergenza. Anche la modifica dell’articolo 403 del codice civile (che regola l’intervento della pubblica autorità a favore dei minori in situazioni di emergenza, ndr) ha irrigidito le procedure. Tutto questo da un lato tutela le famiglie, il mondo adulto, ma dall’altro allunga le tempistiche in situazioni di emergenza. Senza contare un altro grosso problema: le comunità non sono sufficienti. Ci sono ragazzi che aspettano mesi prima di potervi farvi accesso, nonostante le misure dei giudici”. È possibile prevenire? “La prevenzione è l’unica arma. E si fa con la scuola e con i Servizi sociali. Sembra scontato ma serve una mappatura, un censimento, anche di chi sosta in una città per alcuni mesi, anche di chi vive in un insediamento abusivo. Perché la persona non è mai “abusiva”. La scolarizzazione è il primo passo. Ma nello stesso tempo ci vogliono risorse, che sono investimenti sociali per il futuro, affinché la frequenza scolastica sia reale; quindi, occorre dare strumenti ai Servizi sociali e far intervenire l’autorità giudiziaria se dei bambini non vanno a scuola. Altrimenti sono destinati a diventare delle “schegge impazzite”. E dove si educano, a quel punto?”. In questi giorni c’è anche chi punta il dito contro l’età imputabile... “Un minore di 14 anni non è imputabile, e questo è un dato oggettivo. Questo è stabilito nel Codice penale del 1930, che fissa il limite di età per essere ritenuti penalmente responsabili di un reato a 14 anni. Non era certo un legislatore “buonista”, stiamo parlando del codice Rocco nato 95 anni fa. Una logica c’è: a quell’età sono immaturi, sono per certi versi ancora “bambini”. E siamo sicuri di voler mandare dei bambini in carcere? Carceri già sovraffollate di adulti. Fortunatamente i reati commessi da minori di 14 anni sono a livelli bassi, paragonati alla situazione degli altri Paesi, e nella maggior parte dei casi si tratta di furti. Questo di Milano è un caso eccezionale, che ha messo in luce tutta la complessità del sistema”. Treviso. 17enne muore in ospedale dopo il tentato suicidio nel carcere minorile di Francesco Brun e Nicola Rotari Corriere del Veneto, 14 agosto 2025 Danilo Rihai era ricoverato a Treviso: è la più giovane vittima in cella da inizio anno. È morto dopo 48 ore nel reparto di Terapia intensiva dell’ospedale Ca’ Foncello di Treviso Danilo Rihai, il diciassettenne di origini tunisine che nella notte tra domenica e lunedì ha tentato di togliersi la vita all’interno del carcere minorile di Treviso, impiccandosi con i suoi jeans. Il giovane è rimasto appeso senza respiro per circa 6-7 minuti prima che il personale carcerario riuscisse a liberarlo e a chiamare i soccorsi. Le condizioni cliniche erano apparse disperate, tanto che il ragazzo è rimasto sempre attaccato alle macchine. L’esame del corpo ha confermato la presenza di abrasioni al collo compatibili con l’impiccagione. Tutto era iniziato sabato, all’ora di pranzo. Rihai aveva tentato di scippare un anziano all’altezza di Ponte San Michele, in centro a Vicenza, facendolo cadere. Poco dopo ha colpito di nuovo in viale Margherita e in una pizzeria di via X Giugno, dove ha afferrato il polso di un cliente tentando di rubargli l’orologio, i mpugnando un coltello. Allontanato dai presenti, ha aggredito altre persone, tuffandosi nel Retrone per fuggire alla polizia. Riemerso in contrà Santi Apostoli, ha sfondato l’ingresso di un appartamento e si è barricato dentro. Qui ha creato scompiglio: nudo alla finestra, ha spruzzato un estintore, rotto vetri e lanciato oggetti sugli agenti. Dopo due ore è stato bloccato con un taser e arrestato. Il diciassettenne era giunto a Vicenza a inizio anno, dopo essersi spostato dal Nord Africa all’Italia. In quanto minore straniero non accompagnato, una volta individuato è stato indirizzato in una struttura di accoglienza. Rientrando nella fascia 14-18, la competenza del ragazzo era cogestita da prefettura e Comune. A metà gennaio, era stato rintracciato sul territorio e portato nella notte in un albergo di Vicenza, ma soltanto dopo qualche ora si era allontanato dalla struttura. Alla fine dello stesso mese era stato ritrovato dalla polizia locale, sempre a Vicenza, e riportato nell’albergo cittadino, dal quale si era allontanato il giorno seguente. Nuovamente rintracciato a inizio febbraio dagli agenti della questura, era stato accompagnato nella struttura ricettiva, dove era rimasto poco, venendo trovato dopo tre giorni a Padova, dalla Polfer. A fine febbraio, dopo che si era liberato un posto in un Cas (centro di accoglienza) per minori dell’alto Vicentino, è stato accompagnato nella struttura: entrato il 26 febbraio, è uscito il giorno dopo. A inizio marzo era stato ritrovato e accompagnato in un altro Cas dell’alto Vicentino, ma il giorno stesso era fuggito. Alla fine del mese stesso discorso, trovato e accompagnato in un centro della provincia dal quale se n’era andato dopo pochi minuti, così come a inizio aprile, in tutto per quattro volte. Rihai si era quindi spostato nel Padovano, e l’ultima sua notizia era del mese scorso, quando il Pronto intervento sociale di Este ne aveva denunciato la scomparsa. “Questa volta il ministro Nordio deve prendersi le sue responsabilità - dice Aldo Di Giacomo, vicesegretario dei sindacati di polizia penitenziaria - Rihai è la più giovane vittima dall’inizio dell’anno, la 54esima. Anche questo suicidio conferma che gli under 30, i detenuti alla prima detenzione, gli stranieri, i tossicodipendenti e le persone affette da malattie psichiche sono le categorie a maggiore rischio e necessitano di maggiori attenzioni”. Treviso. Suicidio al minorile: “Un ragazzo che si poteva recuperare, andava aiutato prima” di Carlotta Bazza* trevisotoday.it, 14 agosto 2025 Danilo Rihai. Ha un nome il ragazzo che si è ammazzato nel Cpa di Treviso a soli 17 anni. Minore non accompagnato, tunisino. È andato in bagno e i jeans che indossava sono stati lo strumento per togliersi la vita. Sembra impossibile che sia riuscito ad impiccarsi in pochi atroci attimi. Era in stato di fermo per una scorribanda a Vicenza che lo aveva visto responsabile di reati, certo. Ma ad oggi, alla luce di questo tragico episodio nella città del ministro della giustizia abbiamo ancora il coraggio di non vedere? Il ministro Nordio per l’appunto dice che va tutto bene, che è tutto nella norma. Bugie. Basta. È ora di agire concretamente e non di restare immobili come il ministro Nordio. Sappiamo che i detenuti in moltissime strutture penitenziarie d’Italia vivono come dei maiali, è stato detto, carne da macello. Hai sbagliato? Ora Paghi. Giusto sì, si deve pagare, termine duro che non dà speranza, ed è qui il nodo. La speranza la dà solo la prospettiva di riabilitazione, la rieducazione. Questo suicidio di un minorenne ci mette di fronte a due grandi temi, la prevenzione e le carenze strutturali e di sovraffollamento delle carceri. Ci costringe a guardare un film che non vorremmo vedere, per rieducare, questa volta, noi che siamo fuori. Questo film lo dobbiamo guardare senza possibilità di chiudere gli occhi, costretti così a porci qualche domanda, per esempio, e se entrasse mio figlio in carcere? Magari complice il decreto Caivano del ben scortato Nordio? Ci andrebbero ancora bene le carceri che sono fuori norma, fatiscenti, disumane? Questo suicidio è avvenuto tra prima e dopo le porte dell’inferno dell’Ipm e ci parla di un male di vivere, di un minore non accompagnato, senza genitori, senza vita, senza perché e senza speranza a cercare una vita migliore in questa Italietta, scappato dalla Tunisia dopo chissà quali orrori. Un ragazzo che si poteva recuperare, che andava aiutato prima. Invece queste persone vengono trattate come bestie appena arrivano in Italia, poi però tutti a commuoverci al cinema puliti e comodi di fronte al film di Matteo Garrone, “Io capitano”. Ma è arrivato il momento di agire, assumendosi la responsabilità e creando la consapevolezza che il carcere della città è comunità, è roba nostra, siamo noi. E poi c’è la politica: ora basta chiacchiere, Nordio si assuma le responsabilità di quello che sta succedendo e faccia qualcosa per affrontare il problema, investa le risorse che servono. Chiederò con più forza che il consiglio comunale vada in visita al carcere di Treviso per sentire anche solo l’odore delle celle, per guardare negli occhi una realtà che non può più aspettare. Non possiamo più tacere, siamo tutti responsabili, Nordio per primo. *Consigliera comunale del Partito Democratico Messina. Tenta di impiccarsi con l’elastico degli slip: detenuto salvato da un agente Gazzetta del Sud, 14 agosto 2025 L’uomo, in condizioni gravissime, è stato trasportato d’urgenza al pronto soccorso. A pochi giorni dal tragico suicidio del detenuto Stefano Argentino avvenuto nel carcere di Messina, un nuovo episodio drammatico ha rischiato di trasformarsi in tragedia. “Appena due giorni fa - riferisce la Fp Cgil di Messina - un detenuto del circuito penitenziario alta sicurezza, sottoposto al regime del 14-bis presso il Reparto “Ex protetto”, ha tentato di togliersi la vita impiccandosi con l’elastico delle mutande. L’intervento tempestivo di un agente di Polizia Penitenziaria, in servizio presso il Reparto, ha evitato il peggio”. “L’Assistente di Polizia Penitenziaria - spiega il sindacato - notando un atteggiamento anomalo del detenuto, è intervenuto prontamente. Nonostante fosse costretto a ricoprire due posti di servizio contemporaneamente - situazione purtroppo frequente nella Casa Circondariale di Gazzi a causa della cronica carenza di organico - dopo pochi secondi dal tentativo di impiccamento ha fatto immediato accesso nella cella, liberando il detenuto dal cappio e attivando i soccorsi sanitari. Il recluso, in condizioni gravissime, è stato trasportato d’urgenza al pronto soccorso”. Il Segretario Generale della Fp Cgil di Messina, Francesco Fucile, e il Coordinatore Provinciale Fp Cgil Polizia Penitenziaria, Giovanni Spanò, dichiarano: Questo episodio dimostra ancora una volta la professionalità, il sangue freddo e l’abnegazione degli agenti di Polizia Penitenziaria, troppo spesso lasciati soli a fronteggiare situazioni di estrema gravità. Il gesto eroico del collega merita il plauso di tutti, nonché un dovuto riconoscimento da parte dell’Amministrazione Penitenziaria. Ma non possiamo ignorare il contesto di carenze di organico e la pressione costante che grava sull’esiguo personale. È inaccettabile - proseguono Fucile e Spanò- che eventi di questa portata siano ormai all’ordine del giorno. Servono interventi strutturali, più risorse e maggiore attenzione, da parte dell’Amministrazione Penitenziaria, alla salute mentale dei detenuti. Presso il carcere di Messina vi sono troppi ristretti con problematiche di vario genere o responsabili di aggressioni al personale, che affollano impropriamente il Reparto di ‘transito’ dell’istituto. Purtroppo, nonostante le nostre continue sollecitazioni, il Provveditore Regionale della Sicilia non ha ancora disposto il loro trasferimento, mettendo così in serio rischio l’incolumità degli agenti e privando al contempo i detenuti di un corretto percorso rieducativo. La Fp Cgil rinnova l’appello alle istituzioni perché intervengano con urgenza, adottando misure concrete per garantire condizioni di lavoro sicure e dignitose al personale di Polizia Penitenziaria e per prevenire nuove tragedie all’interno dell’istituto messinese. Torino. Cerca di suicidarsi in carcere, agente penitenziario se ne accorge e lo salva di Nicolò Fagone La Zita Corriere di Torino, 14 agosto 2025 Senza il salvataggio si sarebbe registrato il secondo suicidio nel giro di una settimana nel carcere Lorusso e Cutugno di Torino. Un detenuto italiano ha tentato di togliersi la vita nel carcere Lorusso e Cutugno di Torino, ma il suo gesto è stato sventato grazie all’intervento tempestivo di un agente della Polizia Penitenziaria. L’episodio è avvenuto ieri, martedì 12 agosto, intorno alle 19.30, nel padiglione E - “Arcobaleno”, durante la pausa per la cena, momento in cui il personale in servizio è ridotto al minimo. Ma per fortuna la tragedia è stata solo sfiorata. L’uomo era riuscito a realizzare un cappio rudimentale ricavato dall’elastico dei boxer, fissandolo alle grate della finestra della cella e infilandovi la testa. L’agente però, notata la situazione, è entrato immediatamente nella cella e lo ha sollevato di peso, liberandolo dal nodo e salvandogli la vita. Se l’agente non si fosse accorto subito di quello che stava accadendo, oggi si parlerebbe dell’ennesimo suicidio nelle carceri italiane e del secondo nel territorio torinese nel giro di una settimana. Lo scorso 7 agosto, infatti, a togliersi la vita era stato un 45enne di Genova la cui condanna era appena diventata definitiva (per questo episodio la procura ha aperto un’inchiesta per omicidio colposo). A commentare l’episodio è il segretario generale dell’Osapp, Leo Beneduci, che definisce il gesto dell’assistente “l’esempio di cosa sia davvero la Polizia Penitenziaria: uomini e donne in uniforme al servizio dello Stato nelle carceri che, oggetto di accuse spesso infondate per abusi e torture da attribuire invece alle gravissime carenze del sistema e all’inefficienza dell’Amministrazione, salvano vite grazie alla loro professionalità e al loro spirito di sacrificio. Senza quel poliziotto penitenziario - prosegue il leader del sindacato - i report di una politica, per lo più assente ai problemi penitenziari, citerebbero oggi un morto in più nelle nostre carceri. È ora che alla buona volontà ed al coraggio delle donne e degli uomini della polizia penitenziaria si aggiunga il reale interesse del governo attraverso progetti, al momento del tutto inesistenti (se non per un incremento dei posti detentivi che in assenza di risorse umane aggraveranno gli attuali problemi suicidi compresi), per la riqualificazione ed il potenziamento del Corpo quale unica forza di polizia dello Stato addetta non solo ad incarichi di polizia ma anche con attribuzioni di vera e propria pacificazione sociale”. Roma. Il diario resistente da Rebibbia tra istanze “premature” e “serenamente” rigettate di Fabio Falbo Il Dubbio, 14 agosto 2025 In questa campagna d’informazione su questo sistema carcerario collassato mi domando se questa perenne emergenza doveva essere raccontata e scritta da persone detenute (che di certo avranno delle ripercussioni) o se la stessa doveva essere affrontata ad esempio da alcuni Garanti dei diritti delle persone detenute che alle volte sono fuori le sedi di competenza del Comune di Roma. Mi sono imbattuto nella disperazione di una persona detenuta di nome Alessandro Virno Lamberti che ricevette un rigetto come un’idrometeora (per rimanere in tenia) e questo quasi a fine pena. Il rigetto l’ha ricevuto dal Tribunale di sorveglianza di Roma firma del dottor Luigi Miraglia (Presidente) e dal dottor Massjmo Di Lauro (Relatore), con questa dicitura: “pertanto l’istanza è certamente prematura e va serenamente rigettata”. Quello che fa paura a noi persone detenute è proprio questo lessico che di giuridico ha ben poco. Quel “serenamente” e io aggiungo “variabile” se riferito a una persona detenuta che è disperata diventa deleterio se si pensa a come una persona detenuta è sempre ancorata a qualche speranza desiderata come ci ricordava Papa Francesco. Mi ricordo ancora I. e parole dette dal Giudice costituzionale Luca Antonini nel docufilm a cui ho partecipato “11 Viaggio della Corte costituzionale nelle carceri”, lui affermava che la Costituzione si capisce facendola reagire sui casi e io non potevo esimermi di non indicare il caso su esteso facendo riferimento al modo di come si rigetta e sulle parole usate e se le stesse hanno qualcosa di diritto. In questa lunga detenzione ho letto tante ordinanze (meno) di accoglimento e (più) di rigetto tra i toni che ho notato in questa ordinanza sono offensivi per il rispetto che viene dato alla nostra Costituzione. Credo che viviamo in un’epoca in cui il potere sembra sfuggire al controllo dei più, mentre l’ingiustizia si insinua nei meccanismi della società con una naturalezza inquietante. Chi dovrebbe proteggere i deboli spesso li opprime, e chi cerca la verità viene messo a tacere. In questo scenario, mi chiedo, come può un uomo restare virtuoso in un sistema che premia l’arroganza e punisce l’onestà? L’ingiustizia non è una novità, è una costante della storia umana. Ma ciò che conta davvero non è il mondo esterno, bensì la nostra risposta a esso. Il potere può corrompere, ma non ha potere sulla mia anima, se non glielo concedo, la vera sfida è restare giusti anche quando tutto intorno sembra spingere nella direzione opposta. Spesso mi trovo a riflettere su queste ingiustizie e su come distinguere tra giustizia e vendetta. La rabbia, in certi momenti, sembra l’unica risposta possibile, ma ho imparato che la rabbia è un fuoco che brucia prima chi la ospita. La giustizia, invece, è fredda, lucida, paziente, non nasce dall’impulso, ma dalla ragione. Mi chiedo sempre, “ciò che faccio, migliora il mondo o solo il mio orgoglio ferito? E se il potere stesso è costruito sull’ingiustizia? Se le leggi proteggono chi le scrive, e non chi le subisce? In quei momenti, cerco di essere legge per me stesso e per le persone detenute che chiedono il mio aiuto. Non posso cambiare l’intero sistema, ma posso governare il mio piccolo regno interiore. Ogni uomo giusto è una cittadella e molte cittadelle, insieme, possono cambiare il corso della storia, non è rassegnazione, è discernimento. Non confondo la calma con la resa, combatto, ma non mi consumo, agisco, ma non mi agito. La mia forza è nella costanza, non nel clamore e poi c’è la tentazione del potere. Quando ero fuori in libertà nelle mie aziende poteva accadere di conferire per meritocrazia un posto tra coloro che dovevano decidere il miglior andamento aziendale, gli facevo capire a loro il prezzo dell’integrità, gli ricordavo che il potere non è un premio, è una prova. Chi lo desidera troppo, spesso ne è indegno, chi lo teme, forse è il più adatto. Ma solo chi lo esercita con giustizia, senza accanimento, può davvero dire di averlo dominato. Forse è questo il vero compito del filosofo in una “Caverna”, non cambiare il mondo con la forza, ma con l’esempio. Essere giusto in un mondo ingiusto è già una forma di rivoluzione, e forse il potere più grande non è quello che si esercita sugli altri, ma quello che si conquista su di, sé. Lo Scrivano di Rebibbia, tramite questi racconti di vita carceraria, vi porterà nei meandri oscuri, dove viene amministrata una giustizia celata nel nome del Popolo italiano. Sulmona (Aq). È grave e senza cure: allarme per il caso Cozzolino di Francesco De Felice Il Dubbio, 14 agosto 2025 C’è un punto, nella giustizia penale, in cui la pena smette di essere afflittiva e diventa disumana. Quel punto, nella vicenda di Luigi Cozzolino, 43 anni, detenuto presso la Casa di Reclusione di Sulmona e assistito dall’avvocata Guendalina Chiesi, vicepresidente dell’associazione “Quei Bravi Ragazzi Family”, è stato superato da tempo. Cozzolino soffre di gravi e croniche patologie potenzialmente letali che, secondo numerose consulenze mediche e relazioni specialistiche, rendono la sua permanenza in carcere incompatibile con il diritto fondamentale alla salute. Il quadro clinico è pesantissimo: diabete mellito di tipo 1 scompensato, con crisi ipoglicemiche e iperglicemiche documentate (valori tra 62 e 547 mg/ dl), retinopatia diabetica proliferante bilaterale in rapida evoluzione verso la cecità, ipertensione arteriosa severa, polineuropatia diabetica agli arti e una sindrome depressiva maggiore con ideazione suicidaria. Anche un medico legale incaricato, Carlo De Rosa, ha confermato l’incompatibilità della detenzione con le condizioni di salute, indicando la necessità di un’assistenza sanitaria strutturata e continua, impossibile da garantire nell’attuale istituto. La Casa di reclusione di Sulmona non dispone di un vero centro clinico penitenziario, ma solo di una semplice infermeria interna, priva di strutture e personale specialistico per gestire malattie così complesse. Nessuna équipe endocrinologica stabile, nessun monitoraggio specialistico, nessuna risposta adeguata alle emergenze quotidiane. Eppure, di fronte a questo quadro, la magistratura di sorveglianza ha respinto la richiesta di differimento della pena per gravi motivi di salute, sostenendo che la condizione di Cozzolino sarebbe “gestibile” in carcere. Una decisione che ignora evidenze mediche e rischia di trasformare una pena detentiva in una condanna a morte travestita da legalità. Qui sta il nodo centrale: qualunque sia la condanna, il diritto alla salute deve prevalere. La Costituzione lo afferma chiaramente (art. 32), la giurisprudenza lo ribadisce, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo lo ha sancito più volte. Nessun detenuto può essere abbandonato, soprattutto se gravemente malato: la pena deve rispettare la dignità umana e non trasformarsi in un trattamento inumano o degradante. Il ricorso in Cassazione, recentemente depositato, insiste su questo punto: negare cure adeguate significa violare in modo strutturale il diritto alla vita e alla dignità. Le motivazioni del rigetto non tengono conto delle consulenze medico- legali, ignorano l’assenza di una struttura idonea e non affrontano il problema dell’assistenza reale in un contesto privo di adeguata medicalizzazione. Sul caso è intervenuta Nadia Di Rocco, presidente dell’associazione “Quei Bravi Ragazzi Family”, da anni impegnata nella difesa dei diritti umani dei detenuti: “Siamo profondamente preoccupati per la vicenda di Luigi Cozzolino. Le sue condizioni sono clinicamente drammatiche e ben documentate, e nonostante ciò continua a essere trattenuto in una struttura priva dei mezzi minimi per garantirgli cure adeguate. Il diritto alla salute è inviolabile e deve prevalere su ogni altra esigenza dello Stato, compresa quella detentiva. Quando lo Stato arresta un uomo, assume su di sé il dovere di proteggerne la vita, non di ignorarla”. “Purtroppo - aggiunge Nadia Di Rocco - non è un caso isolato. Sono molti i detenuti che si trovano in condizioni analoghe e l’associazione è intervenuta più volte per ottenere differimenti di pena o trasferimenti in strutture cliniche. Alcune battaglie sono state vinte, ma molte restano ignorate. Continueremo a denunciare, a documentare e a far valere i diritti fondamentali: nessuna pena può giustificare l’abbandono di cure sanitarie idonee ed adeguate”. L’associazione “Quei Bravi Ragazzi Family” ricorda che il grado di civiltà di un Paese si misura anche dalle condizioni delle sue carceri. La pena non può consistere in trattamenti inumani o degradanti: la Costituzione italiana non prevede la pena di morte, e negare cure adeguate significa, di fatto, reintrodurla. Bologna. Le condizioni alla Dozza sono ancora critiche bolognatoday.it, 14 agosto 2025 Le condizioni dei lavoratori e della popolazione carceraria della Dozza sono ancora critiche. Stavolta a dirlo è un rapporto dell’Osservatorio carcere dell’Unione delle Camere penali italiane, che ha effettuato un sopralluogo nel penitenziario bolognese nella mattina di mercoledì 13 agosto. Gli associati della Camera penale “Franco Bricola” di Bologna, in una nota, manifestano la loro “massima vicinanza nei confronti di chi è costretto a eseguire misure cautelari o a espiare la sua condanna in condizioni che non sono degne di un Paese che si fregia di una Carta Costituzionale in cui è scritto a chiare lettere che “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Già nel 2021 la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva condannato l’Italia per la situazione di grave sovraffollamento delle carceri, considerando questa condizione come “una forma di trattamento inumano e degradante. In quel momento “i detenuti presenti negli istituti penitenziari erano 66.585 e il tasso di sovraffollamento era del 148%. La situazione oggi è molto vicina a quella del 2012: secondo i dati diff usi dal Ministero della Giustizia, al 31 luglio 2025 i detenuti presenti nelle carceri italiane erano 62.569 e, in base all’ultimo report del Garante nazionale dei diritti dei detenuti, il tasso medio effettivo di affollamento è del 144,2%” si legge ancora nella nota. “La situazione della casa circondariale di Bologna - continua il testo - si inserisce esattamente in questo quadro nazionale. Oggi i detenuti ristretti sono 787 a fronte di una capienza regolamentare di 457 posti; 569 stanno scontando una condanna definitiva, 218 sono in attesa di giudizio. Il numero degli ingressi è in costante aumento”. Il rapporto cita poi il numero alto di morti in carcere: ben 146 da inizio anno, di cui due a Bologna. Per questo, gli associati rilanciano alcune proposte per snellire le carceri italiane, come la libertà anticipata speciale o strumenti più consolidati come l’indulto o l’amnistia. Serve “un cambio di paradigma culturale sulla stessa idea del carcere, sia come pena che come misura cautelare, valorizzando con maggiore convinzione e coraggio le misure cautelari e le misure alternative diverse da quelle carcerarie - conclude il documento -. Non c’è più tempo e non ci sono alternative, se non accettare passivamente che tante persone muoiano mentre sono affidate alla custodia dello Stato o vivano la privazione della libertà in condizioni disumane e degradanti”. Bolzano. “Riqualificazione necessaria, servono più docce e telecamere” di Lorenzo Nicolao Corriere dell’Alto Adige, 14 agosto 2025 Una visita nei giorni più critici del caldo agostano. Una delegazione dei Verdi, formata dalle consigliere Brigitte Foppa (Provincia) e Chiara Rabini (Comune), insieme all’avvocato e attivista dei radicali Fabio Valcanover, ha fatto il punto sulle attuali condizioni, storicamente difficili, della casa circondariale di via Dante a Bolzano. Almeno 120 detenuti per 50 unità della polizia penitenziaria. Una capienza ideale di 88 e accettabile di 96. Sono questi i numeri diffusi dal direttore del carcere Giovangiuseppe Monti, riscontrati anche da chi ha svolto il sopralluogo. “Alla struttura servirebbero almeno 80 agenti - spiega Monti - ma il nervo scoperto è rappresentato dall’assenza di personale amministrativo, da selezionare attraverso bandi della Provincia. Il patentino di bilinguismo, dal quale passa la selezione, è spesso un limite”. Il lavoro svolto dal 2023 dai vertici della Casa circondariale sembra però andare nella giusta direzione. “Abbiamo riscontrato una situazione accettabile, se confrontiamo lo stato attuale con qualche anno fa o la media nazionale - ha commentato Foppa -. L’impegno c’è, ma è necessario fare in modo che nel carcere ci sia tanto l’esecuzione rigorosa della pena, quanto un ambiente che offra ai detenuti un percorso rieducativo, che permetta loro di reintegrarli nella società”. Soddisfazione quindi per il cantiere che sarà completato i primi di settembre. Circa un milione e mezzo di investimento per migliorare tetto e facciata dell’edificio, ma anche aggiungere più docce (una per cella) e altre telecamere per la videosorveglianza, che monitorino soprattutto il versante del torrente Talvera. Il vero obiettivo è però ora quello di un Provveditorato regionale (al momento Bolzano deve fare riferimento a Padova), “per dare valore all’autonomia anche da questo punto di vista”, ha precisato Foppa, una delle autrici della mozione. La consigliera comunale Rabini puntualizza invece l’urgenza dei lavori, in attesa del nuovo carcere, che dovrebbe essere realizzato nella zona industriale: “La riqualificazione di via Dante era assolutamente necessaria. Per tanto tempo questi interventi sono stati rimandati perché sarebbe stata presto realizzata una nuova struttura. Ora non si poteva più attendere, perciò confidiamo si proceda in tal senso, aggiungendo all’attuale riqualificazione un riammodernamento della caserma, una mensa per gli operatori e l’introduzione di uno spazio riservato alla salute”. La Spezia. Nuovi spazi, altri problemi. Visita a Villa Andreino della Camera Penale di Massimo Merluzzi La Nazione, 14 agosto 2025 La recente ristrutturazione interna del carcere sta portando nuovi detenuti. Gli avvocati spezzini hanno aderito al progetto nazionale “Ristretti in agosto”. La conclusione degli interventi di ristrutturazione all’interno del carcere Villa Andreino pone di fronte alla problematica di arrivo di nuovi detenuti provenienti da altri istituti penitenziari nazionali e contemporaneamente alla carenza di personale. L’affollamento, seppur non così gravoso come in altre realtà carcerarie, e la necessità di personale sono stati i temi ribaditi nella visita organizzata dalla Camera Penale della Spezia, nell’ambito del progetto “Ristretti in agosto” promosso dell’Unione delle Camere Penali Italiane. All’incontro coordinato per la Camera Penale della Spezia dall’avvocato Raffaella Nardone, vicepresidente e responsabile del locale Osservatorio Carcere, hanno preso parte alcuni avvocati del foro spezzino, l’onorevole e vice sindaco Maria Grazia Frija, l’assessore comunale cittadino e avvocato Manuela Gagliardi e Agostino Codispoti garante comunale dei diritti delle persone private della libertà personale. La casa circondariale della Spezia oggi ospita poco meno di 200 detenuti e, circa, 120 agenti di polizia penitenziaria (quasi 80 le unità in mancanti). “La conclusione dei lavori di ristrutturazione - hanno spiegato al termine dell’incontro - comporta l’arrivo massivo e non ponderato, di nuovi detenuti. Un fattore che ha iniziato ad acuire un già evidente problema legato tanto al sovraffollamento, quanto all’effettività del servizio trattamentale. Quest’ultimo, connotato sempre dalla preziosa disponibilità del personale, anche in questo caso sotto organico, guidato dalla responsabile Licia Vanni. L’area sanitaria, che deve ancora affrontare decine di detenuti affetti da franche diagnosi di malattia psichiatrica ma che permangono nel circuito inframurario pare aver trovato un rinnovato equilibrio in ragione della firma, da poche settimane, di un documento che dovrebbe definire le procedure per l’integrazione delle funzioni sanitarie all’interno degli istituti penitenziari cercando di far fronte all’assenza continuativa di medici e all’inefficienze strutturali. L’accesso alle attività sociali, elemento imprescindibile per poter godere dell’uscita dalle celle dalle celle per otto ore al giorno è formalmente garantito per tutti anche se alcuni detenuti, pur sporadicamente, hanno lamentato difficoltà nel fare accesso ad alcune delle attività che la casa circondariale”. L’onorevole Frijia ha ringraziato l’Unione delle Camere Penali per l’attenzione ei monitoraggio dell’istituto penitenziario. “Abbiamo trovato una struttura operativa e ben amministrata, dove personale e direzione lavorano con impegno e professionalità. Allo stesso tempo, abbiamo potuto rilevare le nuove esigenze emerse a seguito della recente ristrutturazione”. Aosta. Carcere di Brissogne, dopo l’ennesimo decesso la politica si muove (per ora) solo a parole valledaostaglocal.it, 14 agosto 2025 A denunciare la situazione, con un’interrogazione depositata l’8 agosto, è stata la consigliera regionale Minelli. Negli ultimi giorni la Casa circondariale di Brissogne è tornata sotto i riflettori, grazie alle visite di alcuni esponenti politici nazionali. Un segnale di attenzione che, almeno sulla carta, sembra indicare una sensibilità ritrovata verso la condizione del carcere valdostano. Sensibilità che però rischia di restare confinata alle dichiarazioni d’intenti, soprattutto se confrontata con il silenzio calato sulla notizia più grave: nella notte tra l’1 e il 2 agosto un giovane detenuto è morto in cella, in circostanze che, secondo le poche fonti disponibili, porterebbero all’ipotesi di suicidio. Negli ultimi dodici mesi, altri due detenuti hanno perso la vita, uno dei quali sempre per suicidio, e diversi tentativi sono stati sventati. A denunciare la situazione, con un’interrogazione depositata l’8 agosto, è stata la consigliera regionale Minelli. In una nota diffusa da Alleanza Verdi e Sinistra Valle d’Aosta si sottolinea che “si moltiplicano episodi di tensione: il personale di polizia penitenziaria denuncia criticità organizzative e difficoltà nella gestione quotidiana; i detenuti protestano; i volontari, che svolgono un ruolo fondamentale, segnalano un crescente disagio tra la popolazione carceraria”. Nell’interrogazione Minelli chiede al Governo regionale “se sia a conoscenza di quanto avvenuto nella notte tra l’1 e il 2 agosto e se il decesso sia da attribuirsi a suicidio; quanti siano stati i detenuti deceduti negli ultimi due anni, distinguendo i casi di suicidio, e quanti gli atti anticonservativi sventati; se vi siano difficoltà o criticità incontrate dal volontariato carcerario e da altre associazioni nello svolgimento di attività socio-ricreative; se il Presidente della Regione, che ricopre anche funzioni prefettizie, abbia avuto interlocuzioni con la Direttrice del carcere e quali informazioni abbia ricevuto”. Sempre nella nota, AVS Valle d’Aosta ricorda che “come forza politica riteniamo indispensabile che le istituzioni regionali si occupino concretamente della Casa circondariale di Brissogne e delle condizioni di chi vive e lavora in quell’ambiente. La popolazione detenuta e le sue esigenze non possono essere ignorate o considerate di minore importanza rispetto a quelle di altri cittadini, in un’ottica riabilitativa e di reinserimento sociale e lavorativo”. Parole nette, che arrivano in un momento in cui l’agenda politica regionale - complice la campagna elettorale ormai avviata - sembra moltiplicare le promesse di attenzione verso temi sociali. Ma resta il dubbio che, sul carcere di Brissogne, la distanza tra dichiarazioni e azioni concrete sia ancora molto più ampia delle sbarre che separano la vita all’interno da quella fuori. Acireale (Ct). “All’Ipm il 90% dei detenuti sono stranieri, mediazione culturale insufficiente” cataniatoday.it, 14 agosto 2025 Lo dichiara il segretario regionale del Pd Sicilia, Anthony Barbagallo, che oggi ha compiuto una visita ispettiva all’Istituto penale per minorenni di Acireale, in compagnia del segretario del circolo locale, Francesco Licciardello e con il consigliere comunale, Francesco Fichera. “Nelle giornate più torride dell’anno siamo stati a visitare il carcere minorile di Acireale. Abbiamo riscontrato diverse problematiche che erano già evidenti nei precedenti accessi presso altri istituti dell’Isola ma che oggi, in questa struttura, saltano all’occhio e meritano particolare attenzione: il 90 per cento dei minori ospitati sono stranieri, tutti provenienti da paesi differenti. Su 18, al momento, solo 2 sono italiani. Davanti a questi numeri risulta del tutto insufficiente il numero di mediatori culturali che operano all’interno dell’Istituto (solo 2 esperti esterni ex art. 80) e il numero di ore che questi - nonostante gli sforzi e l’enorme disponibilità - possono svolgere, per limiti di carattere esclusivamente economico”. Lo dichiara il segretario regionale del Pd Sicilia, Anthony Barbagallo, che oggi ha compiuto una visita ispettiva all’Istituto penale per minorenni di Acireale, in compagnia del segretario del circolo locale, Francesco Licciardello e con il consigliere comunale, Francesco Fichera. Più in generale nel mondo minorile, a livello nazionale, si registra la mancanza di una visione progettuale rispondente alle esigenze specifiche dell’attuale utenza minorile. E le modalità di “trattamento” sono rimaste ancorate a modelli ormai desueti che non tengono conto dei cambiamenti della popolazione minorile ospite degli Ipm. “L’ispezione di oggi - aggiunge - conferma le profonde contraddizioni del sistema della giustizia minorile italiano, da modello europeo a contesto critico a rischio. Purtroppo il governo ha scelto di rispondere alla crisi con nuove strutture (Rovigo, L’Aquila, Lecce, Santa Maria Capua Vetere, più una sezione minorile alla Dozza), anche se in molti casi i roboanti annunci delle prossime aperture sono state di fatto smentite e rinviate a data da destinarsi. Ma l’illusione dell’edilizia e dei commissari straordinari si traduce nella costruzione di nuove celle per contenere gli stessi vecchi problemi irrisolti: investire in cemento - prosegue - invece che in intelligenza, risorse umane e formazione specialistica è una strategia miope e fallimentare. Considerata la tipologia di reati per cui i ragazzi sono detenuti e le condizioni sociali, economiche ed educative di provenienza, assai più utile sarebbe - conclude - investire sulla prevenzione primaria, destinando quel fiume di risorse sui servizi sociali territoriali”. Ivrea (To). Corso di gelateria in carcere con il Soroptimist di Franco Farnè La Sentinella del Canavese, 14 agosto 2025 Hanno raddoppiato la forza e il valore anche simbolico delle rispettive sorellanze le Sorores optimae dei club Soroptimist di Torino e Ivrea-Canavese che si sono nuovamente unite in un’iniziativa, nell’ambito del progetto nazionale “Si sostiene… in carcere”, promosso dal Soroptimist International d’Italia, in collaborazione con la famosa azienda bolognese Fabbri 1905, simbolo dell’eccellenza italiana, nonché leader internazionale nel mondo della gelateria e da sempre impegnata nel sociale, e sostenuta dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Si tratta del corso di gelateria tenutosi nella sezione femminile della Casa circondariale Lorusso-Cutugno di Torino e dedicato a detenute che hanno così potuto acquisire competenze professionali che potranno spendere, si spera con successo, una volta scontata la pena e uscite dal carcere. Il corso, conclusosi il 9 luglio scorso ha avuto una docente formatrice d’eccezione in Rosa Pinasco, gelatiera genovese dalle grandi doti professionali e umane. “Le partecipanti al corso di base - spiega la presidente del club eporediese, Eugenia Enrico - hanno avuto modo di imparare un mestiere che potrà aiutarle a superare un sofferto disagio umano e sociale, stimolare la loro crescita personale e dar loro una nuova prospettiva di vita. Sono lieta di aver condiviso questo progetto con la presidente del club di Torino, Ivana Celona, rafforzando ulteriormente l’amicizia che lega le reciproche realtà. E di aver condiviso con lei anche l’emozione e la soddisfazione nell’ascoltare le impressioni entusiaste delle partecipanti, durante il momento conviviale in cui ci hanno fatto assaggiare il gelato, frutto del loro impegno, al quale è seguita la consegna dei diplomi da parte della formatrice”. “È dall’ottobre 2017 - ricorda Ines Bisi, puntuale addetta stampa e pierre del Club di Ivrea e Canavese - che con il progetto “Si sostiene”, i Club Soroptimist si sono impegnati a livello territoriale nella realizzazione di corsi di vario genere in istituti con sezioni femminili che hanno coinvolto 1.100 detenute. I club italiani che hanno aderito al progetto e che hanno attuato corsi per parrucchiera, estetista, pasticciera, sarta, cake designer, governante, torrefattrice, apicoltrice, bibliotecaria, corsi per la manutenzione del verde e la coltivazione di orti sono 66”. E sottolinea: “Le detenute che, dopo aver seguito i corsi, hanno fruito di borse-lavoro retribuite dentro o fuori dal carcere sono 90. Numerose le iniziative di educazione ed empowerment anche su temi culturali ed artistici quali cineforum, lettura, scrittura, pittura, fotografia, musica e corsi di coro, e in crescita i percorsi di sostegno alle attività motorie/sportive, con la dotazione di attrezzatura a spazi e palestre, e i percorsi di medicina di genere e di prevenzione, quali nutrizione, ginecologia, cardiologia e osteoporosi, per sostenere il diritto alla salute attraverso conoscenza e consapevolezza. Sono dati e risultati che danno valore al progetto che deve continuare a crescere”. “Sul fine vita dico no a una legge in sfregio alla Consulta” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 14 agosto 2025 Parla Pierantonio Zanettin, relatore di Forza Italia al Senato: “Meglio una norma imperfetta che nessuna norma”. A settembre l’esame a Palazzo Madama dopo l’altolà della Corte sul ruolo del Servizio sanitario. Palazzo Madama riaprirà i battenti soltanto tra un mese. Ma l’azzurro Pierantonio Zanettin dovrà arrivarci in anticipo, ai primi di settembre, per riaprire il dossier sul fine vita nelle commissioni riunite Giustizia e Affari sociali del Senato. “Ci siamo lasciati in un clima abbastanza sereno, di disponibilità e dialogo”, dice ottimista il relatore di Forza Italia. Che condivide con il senatore meloniano Ignazio Zullo il dovere di “sintesi” in Parlamento. Ormai il grosso è fatto, dopo mesi di faticosa negoziazione e la fase di illustrazione degli oltre 140 emendamenti conclusa prima della pausa estiva. Ma sul testo della maggioranza ora pesa una nuova incognita: la sentenza della Consulta sull’eutanasia, che a fine luglio ha rimescolato le carte in tavola. “Non si può fare una legge in sfregio alla Corte - chiarisce subito Zanettin - non avrebbe senso”. E dunque, senatore, è tutto da rifare? La Consulta parla esplicitamente di un ruolo di garanzia del Servizio sanitario nazionale, che nel testo attuale resta invece escluso per ciò che riguarda la strumentazione, il farmaco e il personale... Innanzi tutto la Corte esclude l’eutanasia, e per farlo attribuisce al Servizio sanitario, o comunque allo Stato, il compito di mettere a disposizione del malato che sia completamente paralizzato uno strumento idoneo all’autosomministrazione del farmaco. E per la prima volta cita un “diritto” dei più fragili... Io tenderei ad escludere che la Corte abbia affermato un diritto al suicidio assistito. Siamo sempre nel campo di una scriminante rispetto all’articolo 580 del codice penale (istigazione o aiuto al suicidio, ndr), che esclude la punibilità di chi agevola il proposito del paziente. Non possiamo spingerci oltre, ovvero all’omicidio del consenziente disciplinato dall’articolo 579. Il dibattito sul fine vita si muove tra questi due binari, tra diritto e scelta. Dove pende il legislatore? Abbiamo sempre chiarito che rimarremo nel tracciato della Corte, almeno come relatori: l’intenzione non è di allargare il perimetro delle sentenze, semmai di circoscriverlo. Poi, ovviamente, il Parlamento sarà sovrano. Arriveranno emendamenti dei relatori? L’obiettivo è di realizzare modifiche che migliorino il testo, che sia il più condiviso possibile. In questi mesi non sono mancate frizioni all’interno della maggioranza, anche per ciò che riguarda il ruolo del Ssn. Sul quale FdI sembra irremovibile, mentre Forza Italia nutre i suoi dubbi. Troverete la quadra? Il clima che si è instaurato in Commissione, soprattutto nell’ultima fase, fa ben sperare. Ci sono state aperture significative. Ma di certo non bastano le intenzioni e le dichiarazioni di principio, che bisognerà tradurre in atti normativi, su una materia su cui occorre la massima cautela. Io ci metterò tutto l’impegno possibile, come ho fatto in questi mesi, e spero che riusciremo a cucire un abito su misura: se vogliamo fare questa legge non possiamo avere numeri risicati. Teme sorprese sul voto? Non faccio pronostici, vivo giorno per giorno. Ma leggo segnali positivi e vedo che c’è la volontà di fare la legge. Eppure c’è chi non la vorrebbe? Il fatto che questa legge sia criticata tanto dai Pro vita quanto da Marco Cappato mi fa pensare che abbiamo trovato un buon punto di equilibrio. Non troveremo mai la norma perfetta. Ma io dico che è meglio una legge imperfetta che nessuna legge. Così come sarebbe meglio non fare affatto una legge che nasca già in palese contrasto con la Corte: sarebbe un conflitto istituzionale. Il dibattito ingaggia anche il Vaticano, da ultimo con un botta e risposta a distanza tra Camillo Ruini e Vincenzo Paglia. La Chiesa è tra i negoziatori in campo? Ho trovato dialogo, mai ingerenze. E lo stesso vale per il governo, che lascia lavorare il Parlamento. Mi sembra che anche mons. Paglia sia dell’idea che serve una legge per impedire il caos, con le Regioni che vanno a ruota libera. A questo proposito, a novembre è prevista l’udienza della Consulta sulla legge della Regione Toscana impugnata dal governo... Credo che la sentenza arriverà ad iter ancora in corso. Vedremo cosa deciderà la Corte, ma credo che dovrà stabilire l’incompetenza delle Regioni, dal momento che ci muoviamo nell’ambito del diritto penale. La Consulta ha chiesto al Parlamento di legiferare sei anni fa con la sentenza 242 del 2019 sul caso Cappato-DjFabo. E da allora è intervenuta più volte per definire i limiti del fine vita. Il legislatore rischia di essere “scippato” del suo potere? Se questo scippo c’è stato, è avvenuto sei anni fa. Ma io sono tra coloro che difendono il tanto vituperato Parlamento, che resta lo specchio del Paese: se in questi anni una legge non si è fatta, forse vuol dire che non c’era la spinta necessaria. La Corte può essere più avanti, e questo lo vediamo anche in altre materie, come quella relativa al doppio cognome, di cui pure discutiamo in commissione Giustizia. Insomma, sono un po’ di anni che la Corte ha allargato il suo perimetro di azione, ma se questo sia un bene o un male lo lascio dire ad altri. Laura Santi, giornalista umbra morta tramite suicidio assistito, ha lasciato una “lettera-testamento” nella quale si rivolge direttamente al Parlamento. L’ha colpita? Laura Santi ha chiesto una legge che consenta di scegliere in maniera più semplice, meno burocratica. E mi sento certamente chiamato in causa. Ci sono storie che straziano, da ogni punto di vista. Ma il nostro compito è ragionare in astratto, considerare tutti i casi, ed evitare al contempo la cultura dell’abbandono e dello scarto. Migranti. Il giudice dice sì al permesso per il richiedente asilo che è già integrato in Italia di Tiziana Roselli Il Dubbio, 14 agosto 2025 Con la sentenza n. 375/2025, la Corte d’appello di Perugia ha ribaltato un precedente rigetto e riconosciuto il diritto alla protezione umanitaria - oggi “permesso di soggiorno per casi speciali” - a un cittadino nigeriano residente in Umbria dal 2016. La decisione, che giunge dopo un iter giudiziario lungo e complesso, segna un ulteriore passo in un filone giurisprudenziale che attribuisce crescente peso al radicamento sociale e lavorativo dei richiedenti asilo in Italia. Un caso iniziato cinque anni fa. La vicenda giudiziaria era iniziata nel 2020, quando la Commissione territoriale e poi il Tribunale avevano respinto la domanda di protezione internazionale. Nel 2023, anche la Corte d’Appello aveva confermato il diniego. Ma la Corte di cassazione, con l’ordinanza n. 24264/ 2024, ha annullato la sentenza, definendo “meramente apparente” la motivazione sul rigetto della protezione umanitaria e ordinando un nuovo esame alla Corte umbra. La storia. Il richiedente, originario di Agbor, nello Stato del Delta, appartiene all’etnia Igbo e professa la fede cristiana pentecostale. Ha lasciato la Nigeria nel 2015, spinto da condizioni di estrema povertà, instabilità e violenze diffuse. Durante il transito in Libia, ha denunciato di essere stato sfruttato come manodopera forzata e di aver subito un sequestro. Giunto in Italia, ha intrapreso un percorso di integrazione considerato “esemplare” dai giudici: corsi di lingua italiana, partecipazione a iniziative culturali, impiego stabile nel settore edile dal 2022 e attività sportiva nella squadra “Foligno International Football Club”. La cornice normativa. La protezione umanitaria, disciplinata fino al 2018 dall’art. 5, c. 6, del Testo unico sull’immigrazione, trova fondamento nell’art. 2 della Costituzione, che tutela la dignità umana in tutte le sue forme. Con il D. L. 113/ 2018, il legislatore ha sostituito l’istituto con una serie di permessi “tipizzati” (per protezione sociale, vittime di violenza domestica, sfruttamento lavorativo, motivi di salute, calamità, atti di valore civile). Pur in un quadro normativo più restrittivo, la giurisprudenza ha continuato a riconoscere margini interpretativi, soprattutto quando il richiedente dimostra un’integrazione stabile e significativa in Italia. L’analisi della Corte. Nella nuova valutazione, i giudici di Perugia hanno sottolineato che la protezione umanitaria - oggi “casi speciali” - resta una misura “atipica e residuale” che può essere concessa quando emergano gravi motivi legati alla tutela dei diritti fondamentali. La Corte ha applicato il criterio dell’”analisi comparativa”: confrontare le condizioni di vita attuali del richiedente in Italia con quelle che troverebbe nel Paese d’origine. Il radicamento in Umbria è stato definito “solido e consolidato”, frutto di anni di lavoro, relazioni sociali e partecipazione attiva alla comunità. Il rimpatrio, hanno osservato i giudici, determinerebbe “uno sradicamento lesivo della vita privata e familiare”, in contrasto con l’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Condizioni in Nigeria. A sostegno della decisione, la Corte ha richiamato fonti ufficiali aggiornate: il portale “Viaggiare Sicuri” del Ministero degli Esteri, rapporti di Amnesty International e dati dell’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo (EASO). Questi documenti evidenziano come, nello Stato del Delta e in altre aree della Nigeria, permangano criticità legate a instabilità politica, insicurezza diffusa, disoccupazione e degrado socioeconomico. Secondo la Corte, il rientro forzato esporrebbe l’uomo a un “significativo peggioramento delle condizioni di vita”, con rischi per il suo diritto all’autodeterminazione e alla dignità personale. Un permesso per vivere e lavorare. Con il dispositivo, la Corte ha ordinato il rilascio di un permesso di soggiorno per “casi speciali”, che consente al beneficiario di vivere e lavorare legalmente in Italia, garantendogli sicurezza giuridica e stabilità. Le spese processuali sono state compensate, in considerazione della particolarità della materia e dell’evoluzione normativa e giurisprudenziale in tema di protezione umanitaria. Migranti. Naufragio a Lampedusa: “Mio marito e mio figlio scomparsi tra le onde” di Lara Sirignano Corriere della Sera, 14 agosto 2025 C’è anche il giovane che non trova più suo fratello. I morti sono almeno 27. Tutto è accaduto in pochi istanti. “Avevo mio figlio in braccio e mio marito accanto. Non so come, ci siamo ritrovati in acqua. Le onde mi hanno portato via tutti e due”. Della sua famiglia è rimasta in vita solo lei, una giovane somala scappata da un Paese dilaniato dalla violenza che in mare, ieri, ha perso tutto. Gli operatori dell’hotspot di Lampedusa e i volontari dell’accoglienza ascoltano in silenzio il racconto della profuga scampata all’ultima tragedia dell’immigrazione. Ventisette i morti ripescati a largo dell’isola. Un bilancio che si aggraverà, certamente nelle prossime ore, perché all’appello mancano uomini, donne, bambini. I soccorsi - I superstiti, partiti dalla Libia su due diversi barconi, sono arrivati in condizioni drammatiche: sotto choc, in lacrime, le labbra bruciate dall’acqua salata che sono stati costretti a bere. Soccorsi dalla Guardia Costiera, toccata terra si sono inginocchiati e hanno pregato. “Hanno voluto ringraziare il loro dio per essere giunti sani e salvi al termine di un viaggio terribile”, dice un operatore della Croce Rossa Italiana che dal molo ha visto arrivare i naufraghi. “Quando gli abbiamo offerto dell’acqua ci hanno guardato come se stessero ricevendo un dono grandissimo”, ricorda. Ma quella della giovane somala è solo una delle drammatiche storie raccontate da chi si è salvato. I superstiti - Stretto dai compagni in un abbraccio, un ragazzo, anche lui somalo, singhiozza in un angolo. Ai soccorritori ha detto di aver perso il fratello. “Non dice la sua età ma è giovanissimo”, spiegano i volontari. Poi c’è l’egiziano che ai mediatori culturali dell’hotspot ha rivelato di aver lasciato in mare tre cugini. Terribili anche le testimonianze del naufragio. “Su una barca eravamo in 45, sull’altra in 52 - ricordano i superstiti - Siamo partiti dalla Libia, da Zwara, ma abbiamo fatto una tappa a Tripoli. Dopo un’ora di traversata, l’imbarcazione più piccola ha cominciato a imbarcare acqua. C’è stato il panico”. Scene viste più volte in passato. Chi è finito in mare ha cercato di salire sull’altro “legno”, qualcuno ce l’ha fatta. Pure la seconda barca, però, già fatiscente e sovraccarica, probabilmente per il peso eccessivo, si è ribaltata. Chi ha avuto la forza è rimasto aggrappato ai relitti rovesciati. I più piccoli e i più deboli sono stati portati via dal mare. Per il viaggio che li ha uccisi i migranti avevano pagato seimila euro. A terra, saputo dei naufragi, la macchina della accoglienza si è messa subito in moto. I volontari hanno preparato il latte e i kit con i vestitini per i bambini. “Non sono mai arrivati”, dice un operatore. Si fa notte a Lampedusa, ma gli sbarchi non si fermano. Le motovedette di Frontex e della Guardia di finanza, mentre sono ancora in corso le ricerche dei dispersi, soccorrono un barchino di metallo di 8 metri con 48 persone a bordo. Vengono da Camerun, Guinea Konakry e Mali e raccontano d’essere partiti da Sfax, in Tunisia, avendo pagato per il viaggio 850 euro a testa. Loro ce l’hanno fatta Noi ci salviamo solo qui e ora di Bernard Henry-Levy La Stampa, 14 agosto 2025 In Ucraina l’Europa è con le spalle al muro: se Zelensky rifiuterà la falsa pace voluta da Putin e Trump, saremo capaci di opporci agli Usa? Nessuno sa, mentre scrivo, cosa verrà fuori dall’incontro di venerdì in Alaska tra Putin e il presidente Trump. Se il vertice ci sarà, come è probabile, il presidente russo avrà ottenuto una foto valida per il visto di riammissione nell’insieme delle nazioni. Il presidente americano, invece, avrà dimostrato di non essere stato travolto dall’ondata di collera della sua base alla quale aveva detto: “Vi verrà l’acquolina in bocca, miei cari, sono in arrivo le succose rivelazioni del caso Epstein”. Poi, però, all’ultimo momento le aveva tolto il piatto da sotto il naso. Gli europei saranno stati messi in disparte. Salvo ripensamenti dell’ultimo minuto, Zelensky non sarà stato preso in considerazione. E, quantunque nell’arena politica possa sempre accadere di tutto, quantunque si possa sperare di vedere Trump toccato dalla grazia ucraina o costretto dalla minoranza dei rappresentanti - che, nell’ambito della sua maggioranza, non ne possono più di vedere la Russia putiniana, l’eterna nemica dell’America, infangare la loro bandiera e ridicolizzare i loro valori -, è più plausibile che possa accadere quanto segue. Un piano americano, con l’apparenza del buonsenso, confonderà le opinioni e maschererà la sua infamia sotto l’opinabile involucro di uno “scambio di territori”, barattando terre ucraine (occupate e mantenute) con altre terre ucraine (dove l’esercito di Zelensky resiste e che si avrà la bontà d’animo di lasciargli). Come sempre, potrei sbagliarmi. Tuttavia, ho parlato con uno degli inviati di Trump. Al Congresso ho perorato la causa dell’Ucraina, una, indivisibile e libera, e mi sono fatto un’idea abbastanza precisa di quello che la maggioranza dei Maga desidera. C’è davvero da temere che l’ultima parola, ahimè, non sia quella. Si può immaginare, pertanto, la gioia malvagia delle opinioni, l’euforia dei mercati finanziari e le acclamazioni dei pacifisti che - come i “cons”, i “cretini” di cui parlò Daladier di ritorno da Monaco, sibilando all’orecchio di Alexis Leger, detto Saint-John Perse, che non avevano idea di quale menzogna stessero acclamando - si ritroveranno immediatamente oltre al disonore anche una nuova guerra ancora più terribile e ancora più mondiale. Ciò su cui non sussistono dubbi, al contrario, è che gli ucraini non prenderanno mai parte a questa disfatta e non accetteranno un piano che, da qualunque parte lo si consideri, equivarrebbe a una capitolazione. Perché mai dovrebbero farlo? Quando si sono perduti tanti connazionali e tanti dei propri cari, quando si sono viste ammucchiarsi cataste dei morti, quando a ogni angolo di strada ci si imbatte in eroici uomini e donne divenuti mutilati, è mai possibile cancellare tutto, quasi si trattasse di un calcolo errato alla lavagna, “sofferenze inutili”, “morti inutili”? E, soprattutto, fino a quando si continuerà a ripetere, come un disco rotto, che “il tempo gioca a favore della Russia” e che “l’Ucraina è in difficoltà”, tenuto conto che in tre anni e mezzo di combattimenti la prima non è riuscita a conquistare che l’uno per cento del territorio desiderato e che non passa settimana senza che la seconda possa vantare una vittoria eclatante in territorio russo che attira l’ammirazione dell’intera comunità internazionale? Certo, tutto può ancora cambiare. Io non sarò mai più ucraino degli ucraini, ma credo che Zelensky non abbia motivo di cedere a una soldataglia russa che lui sa essere demoralizzata, rimpinguata da mercenari ancora meno motivati e che, su taluni fronti, ricorda lo stato d’animo dei combattenti del 1917 che alzarono le armi in segno di resa e prepararono la pace separata di Brest-Litovsk. Resta l’atteggiamento degli alleati e, in particolare, dell’Europa. Se l’Ucraina rifiuterà la falsa pace senza garanzie di sicurezza che si tenterà di imporle in Alaska e se Trump, esasperato, se ne tirerà fuori - come non smettono di minacciare dietro le quinte i suoi consiglieri (“non esasperate il presidente… se il presidente dovesse perdere la pazienza, manderà tutti a quel paese e lascerà i belligeranti ai loro giochi…”), saremo capaci di opporci a un’America che non abbiamo avuto il coraggio di contrariare per la questione dei dazi doganali? Raccoglieremo, al posto suo, il guanto della sfida che il Cremlino ha lanciato al mondo libero, con una mossa senza precedenti da ottanta anni a questa parte? Il ministro tedesco degli Affari esteri fa sul serio quando, in visita a Kiev, promette di dotare l’Ucraina di una “difesa aerea” degna di questo nome? La formula di una Coalizione di volenterosi, lanciata a Londra il 2 marzo dal primo ministro britannico Starmer, è un’idea campata per aria, un progetto nato morto, oppure le verranno accordati i mezzi per esistere prima di concludere un cessate il fuoco che, al momento, tutto sembra indicare che si farebbe a spese degli ucraini? E il presidente Macron, che nel corso degli anni ha allacciato rapporti di fiducia con il suo omologo Zelensky, sarà ascoltato quando ripete che le frontiere dell’Ucraina sono le nostre frontiere, che la sua guerra è la nostra guerra, che difendendola è anche per noi che combattiamo? In Ucraina, l’Europa è con le spalle al muro. Adesso o mai più, dice il gran maestro degli orologi che scandiscono il tempo degli uomini liberi. Un giorno, che Dio non voglia, la macchina infernale, lanciata a tutta velocità, non potrà più fermarsi ed egli dirà: il momento giusto era ieri o mai più. Quel momento è passato. È troppo tardi. Egitto. Processo Regeni, la legale Ballerini finisce nel mirino di Gennaro Grimolizzi Il Manifesto, 14 agosto 2025 Minacce e attacchi concentrici contro l’avvocata che difende la famiglia del giovane ucciso in Egitto. Il sospetto di una regia occulta e la solidarietà di penalisti e Coa. Una raffica di messaggi intimidatori e calunniosi via social, a qualsiasi ora e da profili falsi. È la singolare strategia di chi sta portando avanti gli attacchi contro l’avvocata Alessandra Ballerini del Foro di Genova, che da quasi dieci anni assiste la famiglia di Giulio Regeni, il ricercatore universitario ucciso in Egitto nel gennaio 2016. Il processo sulla morte di Regeni davanti alla Corte di Assise di Roma, a carico di quattro imputati con cittadinanza egiziana appartenenti ai servizi segreti del Cairo, è giunto quasi alla conclusione. Entro la fine dell’anno è attesa la sentenza. L’avvocata Ballerini difende pure la madre di Alberto Trentini, il cooperante veneziano arrestato nel novembre 2024 in Venezuela e tuttora in carcere a Caracas. L’aggressione del cittadino egiziano - L’ondata di minacce e messaggi offensivi è partita nei mesi scorsi. A febbraio l’avvocata Ballerini ha assunto la difesa in favore di un cittadino egiziano, ospitato in una struttura per richiedenti asilo di Genova, per un ricorso avverso il decreto di rigetto della domanda di protezione internazionale. Contestualmente, la professionista ha consigliato l’assistenza medica e psicologica, provocando nel soggetto un radicale cambiamento del comportamento. Un giorno l’uomo si è presentato nello studio legale di Ballerini, a Genova, senza prendere appuntamento, con la pretesa di parlare con l’avvocata. La richiesta non venne esaudita. Da qui la reazione incontrollata: il cittadino egiziano ha iniziato ad urlare e a minacciare i presenti, facendo pure riferimento all’intenzione di procedere contro Alessandra Ballerini per avergli consigliato di sottoporsi ad una visita medica. In quella occasione è stato necessario l’intervento della polizia per calmare e allontanare l’uomo dallo studio legale, il quale, dopo qualche giorno fece perdere le proprie tracce nel trasferimento ad un’altra struttura per richiedenti asilo. Tuttora non si sa se questa persona sia ancora in Italia o se sia stata rimpatriata. Tre mesi fa il cittadino egiziano è ritornato a farsi vivo. Questa volta su Facebook, seppur con altre identità presumibilmente ricollegabili a lui, modificate di volta in volta. Sul social sono stati pubblicati commenti minacciosi e ingiuriosi nella pagina personale di Ballerini e in quelle in cui si chiede giustizia per Giulio Regeni. Episodi prontamente denunciati al commissariato di polizia di Genova Centro. Il “leone da tastiera” ha addirittura attribuito all’avvocata Ballerini la responsabilità della morte di Regeni con la complicità dei servizi segreti italiani. Una tesi strampalata volta a scoraggiare chi, da anni, con dedizione e prove alla mano cerca di far luce sulla morte del nostro connazionale in Egitto. Il lavoro del diffamatore e calunniatore seriale è stato meticoloso nel corso dei mesi. Oltre a prendere di mira Ballerini, in molti casi è riuscito a recuperare i numeri di telefono delle persone in contatto con la professionista sui social network e a inviare loro alcuni messaggi su WhatsApp da utenze egiziane sempre diverse. Pare che nel Paese governato dal generale Al-Sisi sia molto difficile che una singola persona riesca ad avere più di una sim telefonica. Le modalità d’azione fanno pensare non solo ad un soggetto ossessionato dalla legale della famiglia Regeni, ma anche ad una regia occulta - non in Italia - con obiettivi precisi: intimidire l’avvocata e gli altri destinatari dei messaggi e generare disinformazione, soprattutto in un momento cruciale del processo in corso davanti alla Corte di Assise di Roma. Alessandra Ballerini non sottovaluta affatto l’ondata di attacchi - non a caso ha subito denunciato tutto -, che giungono da più parti, allo stesso tempo è sempre più determinata a far emergere la verità davanti ai giudici di Roma sull’uccisione di Giulio Regeni. Al fianco di Ballerini si è schierata l’Unione delle Camere penali italiane. I penalisti stigmatizzano l’aggressione in corso. In una nota della Giunta, dell’Osservatorio avvocati minacciati e dell’Osservatorio difesa d’ufficio, viene espressa preoccupazione per le minacce di morte e le intimidazioni sui social media da parte del sedicente cittadino egiziano per il ruolo difensivo svolto da Ballerini. “A prescindere dalle nostre radicate convinzioni - si legge nel documento delle Camere penali -, già espresse in ordine alla condivisibilità di un giudizio instauratosi a seguito della nota sentenza costituzionale additiva n. 192/2023, contro imputati ignari della vocatio in iudicium, è con estrema preoccupazione che segnaliamo e seguiamo questo ennesimo attacco a un difensore durante un processo mediatico e ricco di risvolti politici che, sin dagli esordi, lo hanno caratterizzato distorcendone la funzione che gli sarebbe, invece, propria. Quest’aggressione che per organizzazione, modalità e intensità fa temere per la messa in pericolo non solo della funzione difensiva, ma finanche per l’incolumità stessa della collega, impone però una ferma e inequivoca condanna da parte dell’avvocatura e, in particolare, dei penalisti italiani, ormai troppo spesso assurti agli onori delle cronache per essere stati vittime di violenti attacchi verbali e, addirittura, fisici”. Alcuni Coa hanno sottolineato l’inviolabilità del diritto di difesa. L’Ordine degli avvocati di Palermo, (presieduto da Dario Greco) e quello di Bologna (presieduto da Flavio Peccenini) hanno espresso solidarietà a Ballerini. Analoga iniziativa, su impulso dell’avvocata Paola Timarco del Foro di Roma, è stata presa da una quarantina di legali di tutta Italia. Le toghe hanno rivolto un appello al Governo, affinché adempia “ai doveri che discendono dall’adesione alla Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione degli avvocati”. I firmatari del documento intendono realizzare iniziative per ripristinare “il libero e sereno svolgimento dell’attività difensiva che l’avvocata Ballerini, nella delicata ed impegnativa vicenda giudiziaria, relativa al Caso Regeni, sta esercitando nel pieno rispetto dei propri doveri deontologici e dei compiti che l’avvocato è chiamato a svolgere, affinché sia assicurata l’inviolabilità costituzionalmente riconosciuta del diritto di difesa di ogni parte del giudizio”. Stati Uniti. A Washington la Guardia Nazionale contro i senzatetto: “Ora rischiano il carcere” di Iacopo Luzi La Stampa, 14 agosto 2025 Gli ottocento soldati mandati da Trump hanno iniziato a schierarsi nella capitale martedì. L’obiettivo del presidente è reprimere la criminalità. Le truppe della Guardia Nazionale hanno iniziato a schierarsi nella capitale degli Stati Uniti martedì sera, mentre il piano del presidente Donald Trump di utilizzare il governo federale per reprimere la criminalità in città prende rapidamente forma. I primi soldati sono stati dispiegati per assistere gli agenti della polizia metropolitana - ora sotto il controllo diretto del presidente per un mese - mentre si prevede che il contingente completo di 800 soldati sarà operativo entro la fine della settimana. Emblematica la scena contrastante che si poteva osservare martedì al tramonto, sotto l’obelisco dedicato al presidente George Washington, nel National Mall: cinque veicoli militari e una dozzina di membri della Guardia Nazionale cittadina pattugliando la zona in una tranquilla serata estiva, mentre numerose persone facevano jogging con le cuffie, si riposavano sull’erba o portavano a spasso i loro cani. Uno dei soldati, consultato da La Stampa, offre una spiegazione approssimativa: “Siamo qui giusto per dare un’occhiata. Per farci vedere dalla gente”. Contemporaneamente, membri di numerose agenzie federali, tra cui gli agenti doganali del CBP e quelli anti-narcotici della DEA, hanno compiuto arresti in vari quartieri della città, in particolare in zone problematiche come Columbia Heights e Anacostia. Sui social, i residenti della capitale - con una popolazione di quasi 700.000 persone - stanno criticando ampiamente questo dispiegamento massiccio di forze dell’ordine, nonostante il tasso di criminalità in città sia diminuito drasticamente quest’anno. “Chi supporta quest’operazione sicuramente non vive a DC”, scrive Ant su Instagram. A fargli eco è Sean Gregory, che osservando le truppe nel National Mall scuote la testa sconsolato: “È tutto teatro. Una dimostrazione plateale di forza, arrestando qualche persona, solo per dare l’impressione di avere già sotto controllo la situazione”. La sindaca Muriel Bowser, dopo aver incontrato martedì diversi funzionari dell’amministrazione Trump, ha adottato un tono molto deciso, definendo le azioni del presidente come una “spinta autoritaria” e “un’intrusione nella nostra autonomia”. Oltre ai criminali, un altro obiettivo della Casa Bianca sono i senzatetto della città. Chiunque di loro non obbedisca all’ordine presidenziale di lasciare la capitale rischierà addirittura il carcere. “Ai senzatetto sarà data la possibilità di lasciare il loro accampamento, di essere portati in un rifugio per senzatetto, di ricevere servizi per la tossicodipendenza o la salute mentale e, se rifiutano, saranno soggetti a multe o al carcere”, ha dichiarato ai giornalisti la portavoce della Casa Bianca, Karoline Leavitt. Leavitt ha affermato che l’amministrazione sta valutando strategie per trasferire i senzatetto “lontano dalla capitale”. Andy Wassenich, direttore delle politiche di Miriam’s Kitchen, un’organizzazione che offre servizi ai senzatetto, ha affermato che il suo team sta cercando di avvertire la gente. Ha inoltre aggiunto che c’è ancora molta confusione riguardo a cosa comporti realmente questa campagna di repressione. Il miglior consiglio che sta dando agli homeless in città è: “Andate in un rifugio se potete, se riuscite a sopportarlo. Se avete qualcuno con cui potete stare, toglietevi dalla strada, cercate un rifugio e fateci sapere cosa possiamo fare per voi”. Trump, miliardario e promotore immobiliare, ha descritto i senzatetto come uno dei tanti gruppi che hanno “invaso” Washington, tra cui “gang violente e criminali assetati di sangue, bande nomadi di giovani scatenati e maniaci drogati”. Ha paragonato la repressione che intende attuare alle azioni intraprese dalla sua amministrazione per mettere in sicurezza il confine tra Stati Uniti e Messico. Le autorità federali stimano che la popolazione senza fissa dimora di Washington sia pari a 5.616, con un aumento del 14,1% rispetto all’anno precedente. Tuttavia, come conferma Andy Wassenich, finora si sono viste poche prove che la popolazione senza fissa dimora sia stata direttamente interessata dal pugno duro della Casa Bianca. Per esempio, domenica sera, di fronte alla stazione dei treni cittadina, un piccolo gruppo di agenti federali è arrivato alla Union Station - un luogo di ritrovo per senzatetto - e ha interrogato brevemente una persona che si trovava lì. Dopo circa quindici minuti, gli agenti, provenienti da diverse agenzie federali, se ne sono andati senza troppa pubblicità e non hanno fatto nulla per disperdere le persone che si erano radunate lì, anzi, dicendo loro che potevano rimanere per la notte.