Carcere, il Garante: “Nordio contro la nostra autonomia” di Eleonora Martini Il Manifesto, 13 agosto 2025 Bavaglio del Ministero sui suicidi in cella: parla Mario Serio, membro dell’autorità nazionale nata a difesa dei diritti dei detenuti. “Ho scritto una lettera al presidente, Riccardo Turrini Vita, per chiedere chiarimenti sulla rettifica - inviata, a mia insaputa, a nome dell’intero Collegio - che, oltre ad allinearsi prontamente alla posizione del Ministero di Giustizia, sostanzialmente smentisce il nostro stesso rapporto sui decessi di detenuti in carcere. Attendo una risposta”. Il professor Mario Serio - che in quota opposizione fa parte dell’ufficio del Garante nazionale dei diritti delle persone private di libertà insieme alla terza componente, l’avvocata Irma Conti, scelta dalla Lega - torna a sottolineare il suo dissenso con il modus operandi dell’autorità nata per essere terza e indipendente, e finalizzata a garantire il rispetto dei diritti fondamentali delle persone recluse. La nota, diramata dall’ufficio del Garante dopo la reprimenda partita da via Arenula, contraddice il vostro stesso report in cui si parla di “situazione preoccupante” riguardo al numero dei suicidi in carcere. Lei ne era a conoscenza? No, se fossi stato interpellato avrei suggerito di riflettere sulla opportunità di smentire in sostanza noi stessi. Anche perché il comunicato si conclude in modo assolutamente perentorio affermando che nessun’altra interpretazione è consentita. Ma la verità è che la prima interpretazione dei dati era nostra, ed era diversa da quella del Ministero. E allora, quale delle due deve restare in piedi? Sembrerebbe quella del Ministero. Perché le due versione sono in contraddizione, al di là della piccola differenza sui numeri? Non ci sono possibilità di conciliazione perché il Garante dice che la situazione è grave ed è destinata a diventarlo ancora di più. Per il Ministero invece il trend è in calo rispetto al 2022 perché c’è una minuscola percentuale di suicidi in meno. Allora, siccome non c’è una lettura comune dei dati, tra le due interpretazioni il Garante aderisce a quella del Ministero, rimangiandosi quella che aveva dato autonomamente. Non avevate letto il report, prima della pubblicazione? No, perché si tratta di rapporti di natura obiettiva che elaborano dati provenienti dal Dap, senza un particolare approfondimento critico. Ogni eventuale aggiunta ha solo il carattere dell’ovvietà. Perché, che i suicidi siano 46 o 48, non si può far altro che dire che la situazione, nelle carceri, è allarmante. Non occorre una condivisione collegiale né particolarmente approfondita, perché da sempre - e anche in questo caso - i report sono redatti con grande senso della misura. C’è il tentativo di scaricare le responsabilità sul professor Giovanni Suriano che ha curato il report? Mi auguro di no, perché parliamo di un professionista serio. Tra l’altro scelto dall’avvocata Irma Conti come referente diretto per la materia penale in ragione della sua competenza. Ma, vede, l’anomalia non è soltanto questo riallineamento immediato ma è anche la risposta stizzita del Ministero, quasi una manifestazione di delusione. Come a dire: proprio da voi arrivano queste critiche? Ed è la prima volta che accade. Eppure, ai tempi del Garante Mauro Palma i report erano molto più critici, anche contro governi di centrosinistra... Il problema è che non viene contestata la veridicità delle informazioni o il metodo di studio. Infatti lo scenario non cambia, se il numero dei decessi varia di poche unità. C’è un unico obiettivo possibile, in materia di suicidi in carcere, un unico numero possibile. Il numero è zero, tutto il resto, qualunque unità si aggiunga allo zero, è comunque una sconfitta. È il tentativo di azzerare l’indipendenza di un’autorità nata - all’interno di una dialettica democratica di pesi e contrappesi - per fare le pulci alle istituzioni e difendere i diritti delle persone private di libertà? Non si era mai sentito che il controllato si ribella al controllore che fa il proprio dovere. Contestando il fatto che il Collegio possa esporre analisi critiche, si sta davvero mettendo in crisi il modello di autonomia del Garante, che è tenuto ad esprimere pareri e dare raccomandazioni. Ieri il sindacato di polizia penitenziaria Spp ha accusato Nordio di tentare “goffamente di negare l’innegabile”. E ha affermato che con questo governo, “come si evince dai dati, i suicidi e i morti totali nelle carceri sono stati per tre anni consecutivi al massimo storico negli ultimi 30 anni”... Non mi importa se con Nordio siano di più o di meno. Come Garante posso solo dire che il numero dei suicidi e dei morti in carcere deve tendere a zero. La nota del Collegio sembra portare la firma dell’avvocata Irma Conti. La quale evidentemente ha un rapporto privilegiato con il presidente Turrini Vita, rispetto a lei. È così? Non credo che abbia un rapporto preferenziale. Forse il presidente non era neppure stato informato, come è già accaduto in altre occasioni. Vuole dire che ciascuno può emanare comunicati a insaputa del presidente del Collegio? E allora perché non lo fa anche lei? Perché sono un uomo delle istituzioni. Suicidi e morti in carcere, i Garanti: “Serve impegno, non polemiche sui dati” Il Dubbio, 13 agosto 2025 I numeri, da soli, non raccontano tutto. Dietro ogni statistica ci sono storie, volti, vite interrotte. Eppure, quando si parla di suicidi e morti in carcere, la narrazione pubblica si ferma troppo spesso alla freddezza delle cifre. All’Adnkronos Samuele Ciambriello, Garante dei detenuti campano e portavoce della Conferenza nazionale dei Garanti territoriali delle persone private della libertà personale, fa un’analisi molto chiara della situazione: “Suicidi e morti di carcere e in carcere: si danno i numeri! Oltre l’anonimato dei numeri, ci sono le persone. Che si è fatto negli ultimi dieci anni? Il 2024 è stato l’anno con più morti in carcere di sempre. Le regioni più colpite sono state Lombardia, Lazio, Campania e Sicilia. Un picco di una emergenza in corso da quattro anni. Un dato che interroga, che inquieta, ma il ministro Nordio stiracchia i numeri e cinicamente dice che non c’è emergenza, non c’è allarme”. “Almeno sulle morti in carcere - prosegue Ciambriello - i numeri non dovrebbero diventare materia di opinione politica, ma stimolo per azioni concrete. Servono provvedimenti urgenti e misure deflattive della popolazione carceraria, affinché l’esecuzione della pena sia compatibile con il volto costituzionale del nostro Paese”. Riprendendo le parole di Ennio Flaiano, Ciambriello osserva: “La situazione è grave, ma non seria”. Un’amara sintesi di come l’emergenza carceraria venga affrontata: con imbarazzo e distanza, come se la questione fosse marginale. “Il carcere, ancora una volta, - sottolinea il garante campano - mette a disagio il potere politico non tanto per le sue condizioni spesso inumane, quanto per il fatto che trova voce attraverso i garanti territoriali, le associazioni, gli operatori che ci lavorano ogni giorno e persino i sindacati della polizia penitenziaria. Secondo il portavoce dei Garanti, l’attenzione dovrebbe concentrarsi su interventi immediati: più risorse per la salute mentale in carcere, percorsi alternativi alla detenzione per i reati minori, un potenziamento delle misure di reinserimento sociale. “Dietro ogni morte - conclude - c’è una storia che non possiamo ignorare. Trasformare quei numeri in un impegno concreto è l’unico modo per rendere giustizia non solo a chi non c’è più, ma anche alla dignità della nostra democrazia”. Il sindacato della penitenziaria smentisce Nordio: “Situazione esplosiva, agenti allo stremo” di Conchita Sannino La Repubblica, 13 agosto 2025 Beneduci, segretario di Osapp: “Assurdo dire che non c’è allarme. Di fronte a suicidi e sofferenza psichica, anche il personale è in difficoltà. Organici ridotti, mentre aumenta solo al Dap: ce ne sono 900 in più”. Non solo la tragedia di chi vive condizioni disumane in cella e decide di farla finita. “Quello che non arriva sui giornali sono le centinaia di atti di autolesionismo, è l’assoluta insufficienza dell’assistenza sanitaria, è la forte sofferenza psichica. Ogni giorno i drammi e le gravi carenze delle carceri si trasformano anche in aggressioni e ricadono sulle spalle degli agenti penitenziari. Che continuano a essere pochi e sempre più esposti alle conseguenze del sovraffollamento”. Il giorno dopo lo strappo tra il ministro Nordio e il garante nazionale per i detenuti, un’analisi impietosa arriva dal segretario di uno dei maggiori sindacati della polizia penitenziaria, Leo Beneduci, di Osapp, 5mila iscritti, ultima grave aggressione a Siracusa, ai danni di un agente pestato, 48 ore fa. Ieri, era stato il Garante nazionale a diffondere, come di norma, il report sui primi sette mesi dell’anno, segnalando i 146 decessi in totale (48 suicidi, 30 morti per cause “ancora da determinare”, 69 per cause naturali e uno per un incidente) e sottolineando la necessità di invertire la rotta. Ma ecco la nota piccata degli uffici di via Arenula - “Nessun allarme, per quanto sia un dato sconfortante siamo sotto il livello ereditato dal precedente governo nel 2022” - che spinge anche il Garante a una precipitosa integrazione sull’effettiva riduzione del numero dei suicidi. Le opposizioni reagiscono indignate: per Pd, Avs, +Europa, Iv, si tratta di “una contabilità cinica e vergognosa”. Segretario Beneduci, “nessun allarme” assicura via Arenula. Risulta anche a voi? “Purtroppo c’è una situazione esplosiva. Diciamo che l’allarme dura da tempo, e i suicidi offrono l’aspetto più drammatico ed evidente. Nessuno pensa mai al fatto che quei morti sono anche il frutto delle condizioni di precarietà e di abbandono in cui versa la polizia penitenziaria. Che su certi fenomeni, con le altre figure istituzionali, dovrebbe vigilare. E soprattutto, essere posta nelle condizioni di fare prevenzione”. Perché non accade? “La penuria di organici pesa ancora molto. Occorrerebbe un investimento serio innanzitutto per quanto riguarda le attività a diretto contatto con tutta la popolazione delle persone detenute”. Ma il governo ha celebrato a più riprese l’arrivo di migliaia di nuovi agenti... “In realtà, vediamo che hanno potenziato a dismisura gli addetti ai servizi “sedentari”. Vuole un esempio? Solo al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, il Dap, al momento ci sono 900 unità in più del previsto. Stiamo parlando del 140% di incremento, mentre è diminuito quello delle carceri”. E com’è, in pieno agosto, la situazione generale in cui operate? Con quale preparazione? “Proprio questo è il punto. Il personale deve affrontare ogni giorno tossicodipendenze, sindromi psichiatriche, risse, aggressioni, danneggiamenti: e spesso avendo alle spalle solo quattro mesi di corso. Ma per comprendere emergenze latenti e silenziose come quelle che portano all’autolesionismo o al suicidio occorre una formazione strutturata, o anni di esperienza”. Il ministero ha annunciato il nuovo decreto con 74 milioni di euro per formazione e reinserimento dei detenuti. Non è una strada? “Scelte dettate più da ragioni di marketing politico, che dalla reale volontà di affrontare i problemi. C’è peraltro una grande contraddizione mai risolta: se una parte del governo fa campagna elettorale sulla restituzione dei detenuti extracomunitari ai paesi di origine, Nordio stanzia quei 74 milioni per le attività lavorative di detenuti che per la maggior parte sono gli stessi che a fine pena dovranno essere espulsi. Intanto, per la polizia penitenziaria che lavora con turni massacranti, non ci sono strumenti di difesa e ormai neanche un euro per le prestazioni straordinarie, visto che i fondi sono esauriti”. Ma come sono oggi le condizioni delle persone che vedete ogni giorno, e vivono in penitenziari che esplodono per il sovraffollamento? “Ci sono due prospettive. Da un lato c’è l’aumento a dismisura di attività in carcere da parte delle associazioni criminali, con traffici a pagamento di telefonini e di sostanze varie: situazione che produce veri e propri ricatti a cui molti detenuti, anche per reati non gravi, non sanno sottrarsi. Dall’altro lato, c’è una massa di persone che non hanno voce, che non sanno come difendere la propria dignità: non a caso sono aumentate le sindromi psichiatriche, mentre mancano del tutto medici, psicologi”. La sanità penitenziaria continua a essere così carente? “La sanità penitenziaria è un vero e proprio baratro”. Suicidi in carcere: lo psicologo spiega come si valuta il rischio di Giorgia Venturini fanpage.it, 13 agosto 2025 Lo psicologo Vito Michele Cornacchia, che ha lavorato in diversi istituti penitenziari d’Italia, spiega quali potrebbero essere stati gli errori sul caso di Stefano Argentino, in carcere con l’accusa del femminicidio di Sara Campanella e morto suicida la scorsa settimana. La Procura di Messina ha aperto un fascicolo per far luce su quanto accaduto a Stefano Argentino, il ragazzo che settimana scorsa si è tolto la vita in carcere. Era accusato del femminicidio di Sara Campanella e il prossimo 10 settembre sarebbe dovuto iniziare il processo nei suoi confronti. Fin da subito il ragazzo aveva espresso l’intenzione di togliersi la vita tanto che appena entrato in carcere era scattata l’alta sorveglianza, che però gli era stata tolta 15 giorni prima il suicidio. Ora sette persone sono indagate, tra cui la direttrice e la vicedirettrice del carcere. Ma cosa succede all’interno delle carceri in un caso simile? Quali potrebbero essere stati gli errori? A Fanpage.it lo ha spiegato lo psicologo Vito Michele Cornacchia che ha lavorato in diversi istituti penitenziari d’Italia. Come si valuta rischio suicidio nelle carceri? Proteggere l’incolumità, la salute e la prevenzione del rischio di autolesionismo e/o suicidario dovrebbero essere gli elementi della ‘normalità’ all’ingresso del detenuto in carcere, sia per il dettato Costituzionale e le norme UE sia per il mandato dell’ordinamento Penitenziario che affida la responsabilità della tutela del detenuto agli organismi che rappresentano lo Stato italiano. La valutazione del rischio anti-conservativo che sfida l’istinto di conservazione, tipico dell’essere umano, non è mai affidata al singolo operatore ma ad un’équipe multi-professionale che si riunisce ad hoc, a seconda dei casi, anche quotidianamente se il rischio è elevato. All’ingresso in istituto la persona ristretta viene immatricolata e l’operatore è tenuto a chiedere se ha problemi con altri detenuti; effettua riscontri su eventuali precedenti carcerazioni o situazioni critiche evidenziate dal fascicolo personale ed informa gli altri operatori circa la tipologia del reato. Viene visitato dal medico e dallo psichiatra che somministrano scale specifiche per la valutazione del rischio e valutano in prima battuta la necessità dell’’attenzionamento’ (ex grande sorveglianza), informando tempestivamente la direzione e il ‘responsabile della Sorveglianza’, presente in quel momento. Contemporaneamente effettua colloqui con il Funzionario giuridico pedagogico e lo psicologo. In qualche istituto è lo stesso Direttore e/o il Comandante di reparto che ‘accolgono’ il detenuto. Ogni operatore elabora una scheda per le proprie competenze professionali che dovrebbe confluire in una cartella relativa al rischio di autolesionismo e suicidario. Nel caso di un elevato indice di rischio si convoca ‘immediatamente’ lo Staff multidisciplinare straordinario per le decisioni (sostegno, attenzionamento, sorveglianza a vista e, soprattutto, se può ‘stare da solo’) e l’organizzazione degli interventi (allocazione, visite quotidiane dei vari specialisti, anche in cella, eventuale ricorso al supporto dei volontari per i bisogni essenziali ecc.). Il punto è questo: il percorso sopracitato della persona ristretta all’ingresso in istituto è attuato in tutte le carceri italiane? Mi sembra di no. Nell’esperienza, quasi trentennale, in particolare presso la Casa Circondariale di Lucca, mi è spesso capitato che il nuovo giunto si trovasse in imbarazzo dal numero di colloqui effettuati con i vari operatori, nel giro di poche ore o di un giorno, adducendo che in altre realtà carcerarie la situazione era completamente diversa e gli operatori si vedevano di rado o dopo mesi! Da annotare che in molte regioni italiane, tra cui primeggia la Toscana, esistono dei protocolli specifici per il disagio psichico e per la prevenzione del rischio anticonservativo con riserva di fondi per l’assunzione di psicologi, ahimè annuali, da destinare in vari istituti, secondo criteri statistici. Quali errori potrebbero essere stati commessi nel caso di Stefano Argentino? Purtroppo, secondo la mia esperienza, i fattori predittivi e l’intenzionalità anticonservativa con indice elevato di rischio all’ingresso, non si esauriscono in quindici giorni, soprattutto per la tipologia del reato, aggravato dal verosimile forte senso di colpa e dalla probabile presenza di un processo d’infuturazione con vissuti negativi costanti. Questi indicatori possono emergere in una vera presa in carico psicologica di elevato spessore professionale. A mio parere, le risorsa utili per avere un quadro ‘ad ampio spettro’ possono essere la somministrazione di un test di personalità multifattoriale insieme a scale per la depressione e la C-SSRS (Columbia-Suicide Severity Rating Scale) che nell’identificazione dei fattori di rischio oltre alla storia personale e familiare si occupa dello stato mentale e degli ‘stressor recenti’ insieme alla valutazione del comportamento, delle idee suicidarie, delle risorse e dei fattori protettivi e, dove in ultima, si possono sviluppare indicazioni per eventuali azioni da intraprendere in condivisione con altri operatori. Questo comporterebbe un valutazione-rivalutazione da effettuare in tempi lunghi con l’intervento ‘quotidiano’ dei vari operatori tacciando ‘piccoli passi’ in un segmento di disagio e sofferenza estrema anche se apparentemente celata in comportamenti ‘adeguati’. Come si vede, proteggere la vita di una persona è abbastanza complesso, se poi aggiungiamo che nel sistema penitenziario le figure professionali ‘ci sono e non ci sono’, ‘vanno e vengono’ e gli psicologi e gli psichiatri si contano su poche decine, come si fa a regolarizzare un servizio Nuovi Giunti che dovrebbe essere il punto di partenza del percorso di integrazione della persona proveniente dalla libertà con pochi operatori e la situazione del sovraffollamento? Di più, osserviamo una disparità di percorsi e di interventi tra Carcere e Carcere. Una dismogeneità che rimanda alle scelte del DAP che favoriscono interrogativi sulla qualità organizzativa e decisionale. Ritornando al caso Argentino, mi sembra una decisione affrettata nel togliere l’attenzionamento dopo quindici giorni sulla base di un semplice presunto comportamento nella norma, quando nella complessità di talune situazioni, è necessario svolgere opportuni e specifici interventi valutativi che hanno bisogno di un monitoraggio costante e di tempi adeguati in una vera e propria presa in carico della persona che può durare anche mesi con una graduazione del livello per es. da Sorveglianza a vista ad Attenzionamento a sostegno. Quando uno psicologo può decidere di togliere l’alta sorveglianza? Abbiamo visto che non può mai essere lo psicologo a togliere l’attenzionamento o la sorveglianza a vista ma l’équipe o lo Staff multidisciplinare. Lo psicologo come altri specialisti partecipa ed offre i suoi indicatori tecnico-professionali e valutazioni alla decisione collegiale. Poi, quale psicologo? Nell’ordinamento penitenziario è previsto l’esperto ex articolo 80 che dovrebbe interessarsi del Nuovo Giunto e dei detenuti definitivi. In molte realtà si fa confusione sul ruolo e magari si affida l’ex articolo 80 solo l’osservazione scientifica della personalità e si delega allo specialista psicologo dell’ASL, quando c’è, o nel caso della Regione Toscana agli specialisti convenzionati per l’assistenza psicologica. Inoltre, in quasi tutte le carceri esistono gli psicologi dei Servizi per le dipendenze patologiche. Naturalmente si tratta di numeri esigui che non possono soddisfare le necessità impellenti come nel caso del rischio suicidario. Successivamente alla sorveglianza a vista, come si potrebbe intervenire? Ho già espresso la mia opinione, dopo la sorveglianza a vista (che può durare alcuni giorni) si dovrebbe graduare con il livello di ‘Attenzionamento’ (se può stare da solo o non) per un lungo periodo sino all’inserimento lavorativo del detenuto. Al contrario quando la situazione è critica e gli interventi risultano vani si dovrebbe attuare il ricovero presso l’SPDC proprio per la prevalenza del diritto alla salute e della vita della persona. Ha senso metterli in isolamento? Se stessero con altri detenuti questi potrebbe aiutarli? L’isolamento in genere è previsto per un massimo di 15 giorni ma non è il caso di una persona a rischio anti-conservativo, anzi si dovrebbe fare i famosi ‘piccoli passi’ grazie alla presa in carico della persona e favorire l’integrazione con gli altri. Nel caso specifico, proprio per la tipologia del reato che prelude al rischio di violenze da parte degli altri detenuti, a mio parere, funzionerebbe il peer to peer, trovare volontari ad hoc tra i detenuti che potrebbero favorire il processo d’integrazione insieme al graduale superamento del disagio con la partecipazione attiva e quotidiana di tutti gli operatori. Non dovrebbe mai essere lasciato solo, in nessun momento della giornata!!! Anni fa, nel carcere di Prato, proprio come nel caso Argentino, un detenuto ad alto rischio suicidario, approfittò dell’uscita dei compagni di cella per togliersi la vita. Qual è il problema delle carceri italiane? Ogni giorno si parla di sovraffollamento e di suicidi in carcere. Si parla poco dell’organizzazione ‘pratica’ dei servizi per la tutela della persona e dei diritti. Assistiamo ‘all’abbaiare’ di taluni politici, senza riflettere sui controlli e sulla disomogeneità tra carcere e carcere. Si potrebbero salvare tante vite umane superando la generalizzazione di un problema quale il sovraffollamento che persiste da anni, come causa di tutto, occupandosi nello specifico dell’organizzazione e verifica dei protocolli sul rischio suicidario, sulla effettiva necessità di aumentare il numero di psicologi e psichiatri (con preparazione professionale specifica) e sulle responsabilità di chi non svolge il proprio dovere. Carceri, al via tre appalti per lavori in Emilia Romagna, Campania e Puglia Il Dubbio, 13 agosto 2025 Tre gare d’appalto, per un valore complessivo di 10,2 milioni di euro, per dare respiro a un sistema penitenziario in affanno. Il ministero della Giustizia annuncia in una nota l’avvio di interventi in tre istituti di pena - in Campania, Emilia- Romagna e Puglia - con l’obiettivo di recuperare posti detentivi e migliorare le condizioni interne delle strutture. I bandi, gestiti da Invitalia in qualità di Centrale di Committenza, riguardano tre cantieri distinti: a Santa Maria Capua Vetere (Caserta) sono previsti lavori di riqualificazione da 4,9 milioni di euro; a Castelfranco Emilia (Modena) un intervento da 1,5 milioni; a Trani (Barletta- Andria- Trani) progettazione ed esecuzione di opere per 3,8 milioni. Si tratta di un tassello del piano straordinario affidato al Commissario nominato per fronteggiare il sovraffollamento carcerario, problema che da decenni grava sull’Italia e che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha più volte richiamato come violazione della dignità umana. In molte strutture, la popolazione detenuta supera del 30- 40% la capienza regolamentare, con celle sovraffollate, carenza di spazi per attività e condizioni igieniche spesso precarie. “Nominato per far fronte alla situazione di sovraffollamento degli istituti penitenziari - prosegue la nota - il Commissario Straordinario è impegnato in collaborazione con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del ministero della Giustizia - nella realizzazione di un ampio programma di interventi di ampliamento, riqualificazione e ristrutturazione delle strutture carcerarie esistenti. La realizzazione di questi interventi rappresenta il primo passo per la valorizzazione e la trasformazione degli istituti penitenziari coinvolti e consentirà di recuperare numerosi posti detentivi: una risposta concreta e strutturata al grave problema del sovraffollamento carcerario che affligge l’Italia da anni”. L’iniziativa si inserisce in una fase di crescente attenzione politica sul tema, complice l’aumento di episodi di tensione e proteste all’interno delle carceri, e le richieste delle organizzazioni sindacali della polizia penitenziaria per interventi urgenti. Le gare resteranno aperte fino al 16 settembre 2025, termine entro il quale le imprese interessate potranno presentare le proprie offerte. Tutte le informazioni sono disponibili sulla piattaforma telematica di Invitalia, InGaTE. Se i lavori procederanno secondo i tempi previsti, i tre cantieri potrebbero restituire in tempi relativamente rapidi nuovi spazi detentivi, alleggerendo la pressione su un sistema che, secondo i dati ufficiali, conta oggi oltre 60 mila detenuti a fronte di poco più di 51 mila posti regolamentari. Un gap che non si colma solo con l’edilizia, ma per cui, in assenza di riforme strutturali, ogni nuovo posto può fare la differenza. La politica in ferie e noi abbandonati in cella come i cani in autostrada di Gianni Alemanno e Fabio Falbo Il Dubbio, 13 agosto 2025 Com’era ormai previsto, la politica è andata in ferie, abbandonando le persone detenute come si lasciano per strada gli animali domestici che danno fastidio. Dovremmo fare una campagna di comunicazione sociale simile a quella per i cani abbandonati. Invece di volpini, bassotti e bastardini vari, che ci guardano con occhi struggenti e la lingua di fuori, potremmo metterci le foto delle tante persone detenute che sono state lasciate a morire nelle loro celle, mentre parlamentari e uomini di governo raggiungevano le loro mete estive. Molto meno accattivanti dei cagnetti, queste persone, sarebbero però degli esseri umani. Potremmo mettere la fotografia di Antonio R., 88 anni, il più anziano del nostro Reparto, mentre si affaccia dalla sua celletta singola, sempre più magro e consumato. Il Tribunale di sorveglianza ha detto ancora una volta di no alla sua detenzione domiciliare. E lui langue aspettando l’esito del ricorso in Cassazione, previsto in autunno. Passando vicino alla cabina telefonica, qualche giorno fa, l’ho sentito piangere mentre parlava con qualche familiare. Gli è venuta anche una bronchite che nessuno gli cura. Quando ci dice “Io mi ammazzo” noi gli rispondiamo, “calma Antonio, adesso arriva la Cassazione…”. E se Cassazione gli dirà no, cosa ci inventeremo? Oppure potremmo mettere la fotografia di Roberto C., 77 anni, mentre legge i fumetti “Tex” seduto sugli scalini delle rampe che portano ai piani superiori. Piccolo e minuto com’è, sembra proprio un bambino. Aspetta seduto sugli scalini, sempre più rassegnato, sempre più triste, che il Magistrato di sorveglianza si accorga della sua età e di tutti i suoi malanni. C’è anche l’immagine inquietante di Giuseppe C. mentre gira per il Reparto tenendosi con la mano l’ernia inguinale espulsa, un malloppo grande quasi quanto un pugno, che non viene operata. Molto meno impressionante sarebbe invece la fotografia di Francesco R., che a vederlo sembra un tranquillo giovane uomo, ma che in realtà cammina su un filo rischiando la vita. “Prognosi quad vitam” (a rischio di vita) dice il referto del 15 maggio scorso dell’Asl Roma C, perché rischia il blocco di tutti e due i suoi reni. A dicembre dovrebbe entrare in dialisi, ma sua moglie si è offerta di donargli un rene, donazione che deve avvenire prima dell’inizio della dialisi. Ma sono cinque, dico cinque, volte che la visita propedeutica salta per mancanza di scorte. E il carcere non riesce neanche a fornirgli i medicinali e i nutrienti necessari, nonostante la Regione Lazio gli versi mensilmente i soldi necessari per l’acquisto di questi prodotti. Francesco ha fatto un esposto, si prepara a farne un altro. Potrebbe anche essere assegnato ai domiciliari, viste le sue condizioni, ma siccome è in carcere per due diversi procedimenti, un magistrato ha dato parere favorevole, ma l’altro no. E lui continua a rimanere in sospeso nel suo “quoad vitam”. E poi ce ne sono tante altre di cartoline che si potrebbero inviare solo da questo Braccio G8, che come ho detto tante volte è il “reparto bene” delle carceri laziali. Vi lascio immaginare cosa troveremmo se andassimo negli altri reparti di Rebibbia, o a Regina Coeli, che in confronto al G8 sono dei gironi danteschi. Ma noi non possiamo andarci, dovrebbero invece fare delle ispezioni i “garanti dei detenuti” e dovrebbero strillare come matti per tutti questi casi. Ma qui vediamo solo il garante regionale, dottor Anastasia, più rassegnato che combattivo. Quello nazionale è scomparso, mentre quello comunale è stato avvistato mentre andava a fare un’ispezione al contestato centro per gli immigrati in Albania (avrebbe fatto meglio a fermarsi sulla Tiburtina, dove c’è Rebibbia…). La politica però un segno di vita l’ha lasciato, prima di questa pausa estiva. Mercoledì scorso, durante uno dei Laboratori di “Nessuno Tocchi Caino”, a cui ha partecipato con un ottimo intervento il vicepresidente del Csm, avvocato Pinelli, è comparso, tra gli applausi delle persone detenute, il Presidente del Senato Ignazio La Russa. Pur con tutte le cautele del caso, ci ha lasciato la speranza che in autunno possa essere approvato un disegno di legge, elaborato dalla vicepresidente Pd Anna Rossomando, per rendere automatica, per molte fattispecie, la concessione della detenzione domiciliare nell’ultimo anno e mezzo di pena. Posso dire che, io Gianni Alemanno, mi sono un po’ commosso nel vedere nel mio vecchio amico La Russa (78 anni) l’unico esponente di centrodestra pronto a battersi per una causa così giusta ed evidente? Riuscirà a convincere gli altri? Con questa speranza, affrontiamo questo bagno di caldo ferragostano, sostenendoci a vicenda, accaldati, sudati, un po’ rimbambiti, a torso nudo e in calzoncini, come se fossimo a Coccia de’ Morto. E ci porteremo sulle spalle tutti quelli che stanno cedendo, non li abbandoneremo, perché non siamo bestie ma esseri umani. Un solo dubbio ci scuote: dove andrà in vacanza il ministro della Giustizia, Carlo Nordio? Che ci fa Bennardo dietro le sbarre? di Elisabetta Zamparutti L’Unità, 13 agosto 2025 Bennardo Bommarito è in carcere da più di trent’anni. Oggi non ci vede, è solo e fragile. Va liberato, perché la giustizia non può essere punizione senza umanità. È cieco, ha 90 anni, lo assiste solo il sen. D’Alì. Sono ormai nove anni che Nessuno tocchi Caino anima il laboratorio “Spes contra Spem” nel carcere di Opera a Milano, dove ci rechiamo ogni mese. Ogni mese per nove anni, per essere speranza contro ogni speranza, essendoci il rischio che in carcere prevalga la disperazione perché luogo di privazione non solo della libertà. Ne abbiamo avuto prova (l’ennesima!) l’8 agosto, quando siamo entrati, sotto il sole rovente, a via Camporgnago 40 dopo aver fatto una scelta. Perché, se prima ai laboratori potevano partecipare i detenuti di vari circuiti quali l’alta sicurezza 1, alta sicurezza 3 e media sicurezza, seduti nel teatro dedicato a Marco Pannella, in parti ben separate l’una dall’altra, poi si è disposto che facessimo il laboratorio circuito per circuito. Senonché ad agosto si è aggiunta un’ulteriore restrizione, perché ci è stato comunicato che nella stessa giornata non potevamo fare che un solo circuito. Così abbiamo scelto di farlo con i detenuti dell’AS3. L’incontro ci ha dato la forza che si può trarre quando, accaldati e assetati, si beve l’acqua di sorgente. Perché il laboratorio fa accedere al pozzo dell’essere autentico di ognuno di noi. Si sgretolano tutte le incrostazioni mentali fatte di giudizi e pregiudizi e si vede la natura pura sia di chi abita questi luoghi che del luogo stesso. Abbiamo così visto e ascoltato detenuti manifestare la loro coscienza, elevata e orientata ai diritti umani. E abbiamo visto un luogo, quello del carcere, che da strumento di privazione della libertà diventa una pena corporale, strumento di privazione di tutto, di quelli che sono i fondamentali sensi umani, financo della vista. È accaduto che uno dei nostri più assidui partecipanti, Bennardo Bommarito, siciliano di 89 anni, che nei nove anni di tenuta del nostro laboratorio non è mai mancato all’appuntamento, la volta scorsa non ci fosse. “Avrà avuto una telefonata o una visita in corso”, ci eravamo detti notando la sua mancanza, perché mancava il suo sorriso, la sua vitalità. Tant’è che l’8 agosto c’era. Tuttavia lo abbiamo trovato accasciato su una sedia a rotelle. Aveva una stampella tra le gambe. E gli occhi chiusi. Li ha chiusi perché non ci vede più. I suoi begli occhi azzurri si sono spenti. Nel giro di un mese, prima un occhio se ne è andato. Poi l’altro lo ha seguito. “Non ci vedo più” è stato quello che Bennardo ci ha detto appena siamo entrati nel teatro dove si svolge il laboratorio. “È terribile”, ha quasi urlato con una faccia pallida e china verso il basso, come se volesse un po’ nasconderla. Parla a voce alta perché cerca di compensare con la voce quella parte di sé che non vede più. Lo assiste in tutto e per tutto il senatore Antonio d’Alì, che alla bella età di 73 anni incarna la parabola del buon samaritano, la misericordia e la compassione cristiana verso il suo prossimo, il compagno con cui divide la cella. È Antonio che, buttato dietro le sbarre con tanto di feroce gogna mediatica, ha deciso di prendersi cura di quest’uomo. Accudisce Bennardo di prima mattina, lo lava, lo veste. Poi va all’aria un paio d’ore. Chi si occupa o si è occupato di anziani sa cosa vuol dire prendersi una pausa da un impegno che ti assorbe ogni energia. Poi, tornato in cella, lo affianca in tutte le altre necessità quotidiane, fino a sera, quando Bennardo si sdraia a letto per trovare nel buio della notte quel conforto che la luce del giorno non può mai dare a un cieco. Men che mai in estate e men che mai a un siciliano che si presentava, appena i raggi del sole lo permettevano, sempre abbronzato. Bennardo è in carcere da oltre trent’anni e sta nel circuito di alta sicurezza 3. Come diceva Leonardo Sciascia, non c’è nulla di più certo delle coincidenze. Il fatto di aver l’ultima volta scelto quel circuito è stato ciò che ci ha permesso di conoscere quel mistero triste che riguardava la sua assenza al nostro precedente laboratorio. Penso che non si sia trattato di una coincidenza neppure quella volta in cui, un paio d’anni fa, trascorremmo ore a discutere nel teatro del carcere di Opera e Bennardo, in una delle poche volte in cui ha preso la parola, ci ha parlato di sua moglie. Ci raccontò che non stava bene ma lo fece in un modo comunque tale da non affliggerci. Solo che, quando uscimmo dal laboratorio, chiese a Sergio di chiamarla, salutarla per lui. Al telefono rispose, mi pare, il figlio che ci informò che la signora Bommarito se ne era andata, forse proprio nel momento in cui lui, in carcere con noi, la invocava. Chiamammo subito la direzione e chiedemmo che, con la stessa delicatezza che lui aveva usato nei nostri confronti parlandoci della moglie, lo informassero dell’accaduto facendogli fare una telefonata ai figli. E così è stato. Non so cosa accada al cuore di un uomo, o di una donna, quando, nell’impossibilità di muoversi, si viene colti da una di quelle notizie, come la morte di un proprio caro, che non si vorrebbe mai ricevere. Cosa esplode dentro mentre si ripensa a una vita fatta anche di lunghe assenze, di dolori, volutamente o meno, inflitti e di dolori comunque subiti. Cosa si rompe, cosa si spezza, cosa muore dentro quando sai che quel corpo amato non lo vedrai più, non lo toccherai più, neanche freddo? Vedere un uomo ridotto nelle condizioni in cui abbiamo visto Bennardo venerdì scorso ci fa riflettere sul senso della pena. Una pena che non è solo privazione della libertà ma è una torsione che affligge fisicamente il corpo e la sfera sensoriale fino ad annientarla, fino a far perdere la vista. Non sappiamo se questo torcere il corpo abbia causato direttamente la cecità, che ci dicono sia dovuta a una lesione del nervo ottico, o se la sofferenza di una pena meramente afflittiva sia tale per cui Bennardo stesso si sia detto che è giunto il tempo di non vedere più, perché quello che ha intorno è inguardabile. È insostenibile alla vista. Sta di fatto che un uomo nato nel 1936 - in quell’anno Benito Mussolini proclamava l’Impero italiano - è oggi in carcere senza poter più usare gli occhi. Conoscerà anche la cella, dopo oltre 30 anni di branda, come si dice in gergo carcerario, in modo tale da poterla vivere a occhi chiusi, ma questo non toglie che ti assale l’angoscia a guardarlo. Durante il laboratorio - ma questa riflessione non la facciamo solo qui - tutti si sono chiesti che senso abbia tutto questo e quale rieducazione sia ancora da esigere da quest’uomo alla soglia dei suoi novant’anni. Ci siamo chiesti fino a che livello di degrado umano e civile dobbiamo arrivare prima di riuscire a rispettare la dignità di quest’uomo. A chi ha potere e credo anche dovere di farlo, dico: liberate Bennardo Bommarito, figlio di una terra e una storia d’altri tempi che lui non rivedrà e vivrà mai. L’uomo del reato non esiste più. Oggi, è solo, cieco, inerme, con il suo fine pena mai. Che non sia terribile e spietata, come quella dell’occhio per occhio, la giustizia verso di lui. Interrogatorio preventivo “inutile” quando è il Riesame a farti arrestare di Antonio Alizzi Il Dubbio, 13 agosto 2025 Con la sentenza numero 27815/ 2025, la sesta sezione penale della Corte di Cassazione ha stabilito che l’obbligo di interrogatorio preventivo dell’indagato non si applica quando, a seguito di appello del pubblico ministero contro il rigetto della misura cautelare, il Tribunale del Riesame decide di accoglierlo, purché il procedimento garantisca pienamente il diritto di difesa. Il caso riguardava un uomo e una donna, accusati di avere introdotto in carcere quasi 300 grammi di cannabis. Il Tribunale di Napoli, in riforma del rigetto del gip, aveva disposto la custodia in carcere per l’uomo e l’obbligo di dimora per la donna. La difesa lamentava la nullità dell’ordinanza per violazione dell’articolo 291, comma 1- quater, c. p. p., introdotto dalla legge 114/ 2024, che prevede l’interrogatorio preventivo nei casi di misura cautelare fondata sul pericolo di reiterazione (articolo 274 lettera c), salvo specifiche eccezioni. La Cassazione ha escluso la nullità, chiarendo che l’interrogatorio è obbligatorio solo prima di disporre la misura in prima istanza. Inoltre, se il gip rigetta la richiesta del pubblico ministero, l’obbligo non si attiva, mentre in caso di appello del pubblico ministero, il contraddittorio è già garantito dal procedimento dinanzi al tribunale del Riesame di competenza, dove l’indagato può comparire e chiedere di essere sentito. La Suprema Corte di Cassazione ha richiamato la giurisprudenza formatasi sulle misure interdittive, applicandola ora anche a quelle coercitive. Sul tema, gli ermellini evidenziano: “La questione” deve essere risolta negativamente, “in quanto la ratio della norma, che mira a garantire all’indagato un pieno contraddittorio anticipato, attraverso un subprocedimento che prevede il deposito degli atti e il diritto a prenderne visione, è soddisfatta anche nel giudizio di appello promosso dal pubblico ministero, trattandosi di procedimento in cui sono pienamente garantiti sia il contraddittorio sia il diritto di difesa dell’indagato. La stessa relazione illustrativa sopra richiamata ha chiarito che con l’articolo 291 comma 1- quater del codice di procedura penale introducendo l’interrogatorio preventivo, il legislatore ha inteso estendere alle misure cautelari coercitive la regola precedentemente prevista dall’art. 289, comma 2, del codice di procedura penale per le misure cautelari interdittive”. Ed ancora: “Si può, dunque, fare riferimento alla giurisprudenza formatasi in materia, secondo cui l’applicazione della sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio o servizio in accoglimento dell’appello del pubblico ministero non deve essere preceduta dall’interrogatorio dell’indagato, in quanto il diritto al contraddittorio è assicurato dalla possibilità per il predetto di comparire all’udienza per la trattazione del gravame e di chiedere di essere interrogato”. La Cassazione ha respinto anche le censure sui gravi indizi di colpevolezza, rilevando che la quantità di droga era incompatibile con l’uso personale e verosimilmente destinata allo spaccio tra detenuti. Nello specifico, la sesta sezione penale scrive: “Il secondo motivo è infondato in quanto l’ordinanza impugnata fa rinvio al provvedimento del Giudice per le indagini preliminari che, pur avendo respinto l’istanza di applicazione di misura cautelare per difetto di esigenze cautelari, aveva ritenuto sussistenti gravi indizi di colpevolezza sulla base del fascicolo fotografico agli atti e, segnatamente, dei fotogrammi che riprendono il momento della cessione dello stupefacente. Il Tribunale ha, poi, con motivazione che non viene intaccata dalle generiche deduzioni difensive, rilevato che il quantitativo di stupefacente (295,07 grammi di cannabis) è assolutamente incompatibile con l’uso personale ed è “più probabilmente funzionale allo spaccio con altri detenuti della casa circondariale”. Quanto alle esigenze cautelari, per l’uomo è stato valorizzato il precedente per estorsione e il fatto che la condotta sia stata commessa durante la detenzione; per la donna, la “spregiudicatezza” nel trasporto di stupefacente in carcere, bilanciata dall’incensuratezza, ha giustificato l’obbligo di dimora. Infondato anche il motivo della mancata indicazione di misure alternative: il Tribunale ha motivato sull’inadeguatezza di soluzioni meno afflittive per prevenire contatti criminali. Campania. Intervista a Lucia Castellano: “I nostri progetti per la dignità dei detenuti” di Leandro Del Gaudio Il Mattino, 13 agosto 2025 Parla la provveditrice regionale dell’amministrazione penitenziaria. Un obiettivo su tutti da perseguire, specie nei giorni più duri dell’anno, quelli a ridosso della settimana di Ferragosto: “Rendere le carceri sempre più vicine alla Costituzione, sempre più in linea con il rispetto della dignità delle persone che le abitano”. Fa caldo a Napoli, la provveditrice regionale dell’amministrazione penitenziaria Lucia Castellano è al suo posto: è al lavoro per occuparsi delle mille facce del pianeta penitenziari in Campania. Provveditrice, fa caldo, sarà un ferragosto durissimo per chi vive in carcere, non trova? “Come ogni anno lavoro a Ferragosto. Ho dato delle indicazioni precise ai direttori degli istituti penitenziari in Campania, a proposito del cambiamento delle ore di aria, per evitare le fasi del giorno più calde. Assieme ai miei colleghi, abbiamo lasciato aperti di notte i “blindi” (porte blindate esterne alle celle), oltre a garantire la presenza di frigoriferi nelle stanze e di nebulizzatori nei vari cortili di passeggio. Abbiamo distribuito ventilatori, molti dei quali donati dal Garante o da Fondazione con il Sud. Sappiamo che ci sono criticità strutturali e di sovraffollamento, che non vanno mai ignorate, ma lo sforzo di tutti è migliorare la condizione dei reclusi, rispettandone la dignità”. Poggioreale, sette giorni fa, la visita dei vertici del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, qual è la situazione nella casa circondariale partenopea? “Abbiamo inaugurato un cortile per il passeggio, che offre ombra e aree per la lettura e la socialità. È un passo in avanti, sappiamo che ci sono altri problemi legati al sovraffollamento e a questioni strutturali: a Poggioreale, attualmente i detenuti sono 2087, per una capienza prevista di 1624; i posti disponibili sono addirittura inferiori, per la ristrutturazione di due reparti”. Criticità ataviche, non crede? “Che sono al centro del nostro lavoro. Lo stesso capo del dipartimento Stefano De Michele ha avuto modo di conoscere i progetti messi in campo nel penitenziario, vale a dire le attività di studio e di formazione, il cineforum, l’artigianato, la gastronomia. Ha anche assaggiato la pizza cucinata dai nostri detenuti”. Sovraffollamento, come intervenire? “Assieme alla rete dei direttori e degli educatori, ovviamente in sintonia con il Tribunale di Sorveglianza e della magistratura, si punta ad agire su un doppio binario: trasferimenti mirati, verso altri istituti, che tengano conto della vocazione dei rispettivi territori, ma anche delle attitudini e le capacità dei detenuti. Chi è bravo, ad esempio nel tessile, può andare a lavorare in un carcere specializzato in questo tipo di attività; stesso discorso per quanto riguarda l’agricoltura o altri ambiti lavorativi. Puntiamo ad agevolare i cosiddetti flussi in uscita con il sistema delle misure alternative. Mi riferisco ai cosiddetti dimittendi, che hanno da scontare altri due anni e che possono - in sintonia con la magistratura - sfruttare il sistema delle misure alternative”. Studio e lavoro in cella, in cosa consistono le attività messe in campo nelle nostre carceri? “Abbiamo tanti detenuti che lavorano alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, solo una parte minoritaria è assunta da datori di lavoro esterni. Ovviamente il nostro obiettivo è rafforzare gli investimenti provenienti dall’esterno, aumentare i lavori professionalizzanti, specie se hanno un raccordo sul territorio. Ho istituito una commissione regionale per il lavoro penitenziario (prevista dall’ordinamento penitenziario), che si avvale anche del contributo di associazioni di categoria, imprese private e no profit. Reputo decisivo il ruolo svolto dalla Regione, che ha finanziato e sostenuto progetti in grado di valorizzare la traiettoria verso la committenza esterna. Più nello specifico, si fa in modo che donne e uomini possano sviluppare i propri talenti in relazione alle specificità coltivate all’interno di una determinata casa circondariale. Abbiamo creato un brand “Fatti a manetta”, che conferma l’importanza di esportare l’esempio virtuoso dei tanti detenuti che hanno trovato una possibilità di riscatto personale proprio attraverso il lavoro”. Studio e sport... “Abbiamo tanti reclusi che seguono corsi scolastici di diverso ordine e grado. Anche il polo universitario di Secondigliano è un vanto, mentre a breve inaugureremo palestre e corsi agonistici. Il mondo delle carceri è complesso, non solo di aspetti negativi, lavoriamo in sinergia per attuare giorno per giorno i principi della nostra Costituzione”. Piemonte. Quei diritti non garantiti ai carcerati di Davide Ferrario Corriere di Torino, 13 agosto 2025 Domenica il Corriere ha pubblicato una replica di Roberto Martinelli del Sappe a un mio intervento in cui criticavo l’idea, espressa dal nuovo Garante dei Detenuti regionale, che il Garante si debba occupare anche della polizia penitenziaria e non solo dei carcerati. Nonostante nello scritto esprimessi tutto il mio rispetto per i lavoratori, la cui condizione ho conosciuto nella mia esperienza di volontario, Martinelli usa un tono di aperta polemica. Amen, me ne farò una ragione senza farmi venire l’orticaria (parole sue). Resta aperto il tema: ha senso che un Garante dei Detenuti si preoccupi anche del personale di custodia? Ovvio che non deve avere pregiudizi nei loro confronti: sono lavoratori sfruttati in modo perfido, ripeto. Ma è evidente a ogni persona di buon senso che in una situazione disastrosa come quella delle carceri italiane non ci si può aspettare che il Garante sia una specie di figura ecumenica “a 360 gradi”, come si è autodefinita. Sono i direttori e i provveditori, semmai, a dover armonizzare i problemi di tutte le componenti del carcere. Non solo. Contro parte del personale a Biella e Ivrea sono in corso inchieste per abusi; a Torino c’è un processo e a Cuneo c’è stata un’udienza preliminare per le stesse ragioni. Come si fa a credere che in queste situazioni il Garante dei Detenuti, nella sua funzione istituzionale di difensore dei loro diritti, possa avere una posizione super partes? Il (precedente) Garante a Cuneo si è costituito parte civile. Martinelli aggiunge che “ai detenuti delle carceri italiane e piemontesi sono garantite ogni tipo di tutela (sic), a cominciare dai diritti relati all’integrità fisica”. La realtà è che mentre scriveva queste parole a Torino si è ammazzato il secondo detenuto del 2025, il 53° in Italia. Al netto delle buone intenzioni, è di questo che si deve occupare un Garante: del perché nei fatti questa tutela non è affatto garantita. Roma. Celle forno e senza bagni, l’inferno di Regina Coeli: “I maiali vivono meglio” di Conchita Sannino La Repubblica, 13 agosto 2025 Nella Casa circondariale romana il tasso di sovraffollamento è al 200%, fino a sei persone in nove metri quadri. Nell’agosto in cui ministro Nordio e governo alzano il tono sulle carceri, dicono calmi, nessun allarme, siamo nella media, metti piede a Regina Coeli, superi il quinto varco metallico e, lungo il tetro corridoio, li trovi tutti. Gli spettri, gli uomini trattati da bestie: 1102 persone dietro le sbarre, ragazzi e vecchi, stranieri e romani, incensurati finiti lì per stalking o sospettati di mafia, e comunque quasi il 50 per cento di nordafricani, in un istituto in cui i posti effettivi sono meno della metà, 513. E con un solo agente di polizia penitenziaria per oltre 90 detenuti, a volte anche più di 150, dipende dai turni, e dalle malattie. Entri e il buongiorno te lo dà la distesa di sacchi di immondizia, aspettano lì da ore. Un po’ di luce dal fondo, è un aborto di cortile, rettangolo di quattordici metri quadrati con l’asfalto rovente: sarebbe lo spazio dell’ora d’aria, su cui un ragazzo maghrebino, Hashir, lui da solo, sta facendo ossessivamente dieci, venti o forse trenta giri al minuto. Fa segno a gesti che la terra brucia e alla fine schizza dentro, stremato. Qualche recluso ride. Altri immobili, uno ciondola. Da qualche buco arriva un vento che è tanfo, urine, cacca, a terra cicche, sporcizia. Ma qui a piano terra sono fortunati. Sono celle di 9 metri quadri e sono in 3 su un unico letto a castello: ai piani di sopra, nello stesso spazio, ci stanno anche in sei. E senza un vero wc, solo pochi hanno quello in alluminio, gli altri un foro in terra e il lavandino attaccato. E gridano perché non hanno un tavolo, e ogni tanto gettano escrementi dalla finestra tra dileggio e “che schifo” urlato dagli altri. Questa è Regina Coeli, nell’estate italiana del “siamo nella media”, qui il sovraffollamento è a +200 per cento, con le brande che hanno occupato la barberia, la sala socialità, tutto, ogni spazio. Con i suicidi a quota 48 in Italia e i morti di prigione totali arrivati a 148 fino al 31 luglio scorso. È la famigerata Settima Sezione, la peggiore. È l’Alcatraz che tutti conoscono, che tutto schiaccia in un tempo primitivo senza diritto né legge - non solo carcerati, ma direttori, comandanti, agenti penitenziari, tutti diversamente vittime - quella dove ieri sono arrivati Roberto Giachetti, deputato di Iv che si batte per la liberazione speciale anticipata, insieme con Rita Bernardini, alla centesima missione di Nessuno Tocchi Caino e all’ennesimo sciopero della fame, e con Renata Polverini. Tre ore. Non dimenticabili persino per chi, dei penitenziari del Paese, tocca di continuo la non-dignità. E lo sfaldamento dell’articolo 27 della Costituzione. “Quello che abbiamo visto a Regina Coeli supera qualunque peggiore immaginazione. Un quadro in cui i maiali nelle porcilaie, grazie alla normativa europea, vivono meglio dei detenuti nel carcere”, rileva Giachetti. Che presenterà una denuncia “molto dettagliata alla Procura di Roma. E sia chiaro: la colpa non è di quel direttore o di quel comandante o degli agenti, ma di un sistema che si vuole perpetuare così. Anche per furore ideologico, anche se riconosco la buona volontà di La Russa”. Tre docce per 60-70 detenuti. Ma la domenica zero. “In che senso?”, chiede Giachetti. Oscar si fa sotto, tatuato: “Avete capito, la domenica possiamo puzzare”. Risate. Ecco, più avanti, “la cella dei gay”. In tre. Loro li chiameremo Federico, John e Sami, vivono chiusi 23 ore su 24, in un “forno”. “Ci fanno uscire alle 8 per la doccia - racconta “Fede” - rientriamo e stiamo qui fino alla mattina dopo. Dicono: meglio per voi. Come omosessuali corriamo rischi”. Salvo, sui 50, è di Procida: reato associato ai clan, tumore alla prostata e nessuna certezza di cura. Cesare spunta in parte dalla cella, fa impressione, sembra un fachiro: ha sviluppato l’abilità di premere le orecchie e far passare il capo nell’unico spazio tra le sbarre, lì dove passa “il rancio”. Ma è al piano di sopra che l’umanità è (ancora) più calpestata. Qui sono in 6 negli stessi 9 metri: gli egiziani Ziaid e Kabra hanno 19 e 24 anni, l’algerino Roman ne ha 40, Abdul di 24, Ami di 50 e Sidique di 33. I letti lasciano 160 centimetri per passare. Tre parole sanno dire, quelle che servono: “Questo-no-umano”. Ma “lo stato più inaccettabile, brado - dice il deputato renziano - è quello che ho visto nella cella 23: da mostrare a tutta l’Europa”. In tre, Aboubakar, Buba e Pistamos, tra i 20 e i 30 anni, non hanno un wc, ma un foro: il muro pieno di sputi, fanno pipì in terra da giorni, cacca, uno si protegge con un lenzuolo sudicio, “sale un fetore che opprime il respiro”, sottolinea il deputato di Iv. Resistere? Per ubriacarsi con nulla, racconta Jose, si fa macerare la frutta per giorni nei secchi, ne esce una specie di alcol: ne hanno sequestrati 26, recipienti marci. Ma fossero quelle le “sostanze” da stoppare. Corrono i traffici potenti. Due: droga e telefonini. Ci sono gli schiavi e ci sono i padroni. Come fuori, peggio. “Sentire Nordio, governo, e tristemente anche il Garante nazionale dei detenuti, dire che la situazione sia sotto controllo fa orrore. È fuori controllo la situazione, sono fuori controllo il ministro e questa maggioranza”, dice Giachetti. La vicedirettrice Antonella Rasola saluta, torna in ufficio. Tornano ai loro posti anche il dirigente della penitenziaria Fernando Stazzone, che da facente funzioni prova a sopperire a buchi, mancanze, e il vicecomandante Emanuele Ripa. Padre Vittorio Trani, il francescano, è sempre dentro coi fantasmi. “Zurka, perché a piedi nudi?”, domanda. Gli hanno rubato vestiti e scarpe. Lui segna: gambiano Z., pantofole. Se ne va con tanti appunti, Giachetti: “Qualcuno dovrà rispondere di quello che sta accadendo”. E di quello che non si sta facendo per evitare che accada. Il Beccaria di Milano è lo specchio di un sistema di Chiara Pannullo contropiano.org, 13 agosto 2025 Il carcere minorile Beccaria di Milano è uno degli specchi in cui lo Stato riflette la propria immagine senza il trucco del linguaggio istituzionale. Lì, un ragazzo - già sottratto al mondo, già consegnato a un’istituzione che si presenta come “rieducativa” - tenta di compiere l’unico atto di libertà radicale che gli resta: decidere la propria fine. Viene strappato a quell’istante non per la sacralità della vita, ma per riaffermare la proprietà dello Stato sul suo corpo. E subito dopo viene colpito, insultato, marchiato da una frase che porta con sé secoli di dominio: “ti mangio il cuore”. Non è l’ira incontrollata di un singolo, ma un gesto perfettamente inscritto nella funzione dell’apparato repressivo: “salvarti” per poter disporre di te, e ricordarti che ciò che ti resta non ti appartiene. Il carcere minorile non è un’anomalia dentro una democrazia compiuta: è la prosecuzione della sua struttura di classe con altri mezzi. È il terminale di un percorso che inizia molto prima delle sbarre, nelle scuole che separano e indirizzano, nei quartieri recintati dal degrado, nella precarietà trasformata in destino, nella retorica della sicurezza che traduce la povertà in colpa. I giovani che arrivano qui non sono frutto del caso: sono stati selezionati dal meccanismo economico e sociale che li ha resi eccedenza, residuo che il capitale non impiega ma deve sorvegliare. In questo quadro, il gesto dell’agente è la forma elementare di una pedagogia della sottomissione. La minaccia al cuore - simbolo di volontà, coraggio, capacità di resistere - è una dichiarazione di guerra all’ultima porzione di sé che il detenuto potrebbe ancora opporre. Non basta rinchiudere: occorre spegnere ogni possibilità di insubordinazione interiore, impedire che la disperazione si converta in coscienza, che l’isolamento produca parola e organizzazione. È per questo che il pestaggio non è un “abuso”, ma un atto perfettamente funzionale: non indebolisce l’istituzione, la rafforza, perché imprime nella carne e nella memoria la gerarchia che la sorregge. Che le indagini si allarghino a decine di figure - agenti, dirigenti, personale sanitario - non è la prova di un cedimento, ma di una coesione interna. La violenza è un lavoro collettivo: chi colpisce, chi tace, chi falsifica, chi archivia, tutti concorrono a mantenere l’ordine interno ed esterno. Non ci sono “mele marce”, ma un albero piantato e coltivato per dare quel frutto. E finché quell’albero resterà in piedi, il frutto continuerà a maturare. Il Beccaria è un frammento della geografia del contenimento: scuole-ghetto, pattuglie di quartiere, centri per migranti, carceri per adulti. Luoghi diversi per un’unica funzione: mantenere la distanza fra chi produce ricchezza senza possederla e chi la detiene senza produrla. In tempi di crisi permanente, quando il sistema non può più integrare tutti, il carcere diventa una discarica sociale dove confinare corpi inutilizzabili, sottraendoli alla possibilità di organizzarsi. Non rieduca, non cura: conserva e immobilizza, trasformando il potenziale conflitto in docilità o annichilimento. La frase “ti mangio il cuore” racchiude in sé l’essenza di questa funzione: non solo punire, ma divorare ciò che ancora batte e potrebbe ribellarsi. È la confessione involontaria che il potere ha paura di ciò che resta vivo nei corpi che opprime. Per questo il cuore deve essere inghiottito, ridotto a silenzio, reso inoffensivo. Ed è questa paura che spiega la ferocia: il timore che la marginalità si trasformi in forza collettiva. Non è questione di “umanizzare” il carcere, di renderlo più tollerabile, perché la sua funzione è inseparabile dalla sua violenza. Ogni riforma che ne mantenga intatta la logica sarà solo un’imbellettatura dell’acciaio. Finché resterà intatto l’ordine che lo alimenta, ogni salvataggio sarà seguito da un colpo, ogni vita restituita solo per essere posseduta, ogni cuore vivo un cuore in pericolo. Ecco la verità dolente: il Beccaria non è il fallimento di un’idea nobile, è il successo di un disegno antico. E finché il disegno non verrà strappato dalle mani di chi lo traccia, altre mura, altre celle, altri corpi, altri cuori seguiranno la stessa traiettoria. Non ci saranno eccezioni, perché qui non c’è errore: c’è sistema. Treviso. Minore tenta il suicidio in carcere, Ostellari: “Presto un altro Cpa a Mestre” di Lorenza Raffaello Corriere delle Alpi, 13 agosto 2025 Il sottosegretario alla Giustizia commenta l’ultimo fatto tragico avvenuto nel capoluogo della Marca. E lancia la proposta di rivedere la legge Zampa: “Ricollocamenti assistiti, in accordo con i servizi sociali”. I primi giorni di settembre partiranno i lavori che porteranno all’apertura del nuovo Centro di prima accoglienza di Mestre, sarà una struttura completamente riadattata all’interno del tribunale dei Minori. È quanto ha annunciato il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Ostellari, che coglie l’occasione di commentare l’ultimo fatto tragico avvenuto nel capoluogo della Marca commesso da un minore non accompagnato e lanciare la proposta, come leghista di modificare la legge Zampa. Un ennesimo episodio drammatico che coinvolge un minorenne e l’Istituto penitenziario minorile di Treviso. La situazione sta degenerando? “La situazione dell’esecuzione penale e della giustizia minorile in Italia è critica da anni. I motivi sono principalmente tre: l’aumento esponenziale di reati compiuti da minori, la chiusura di due istituti per minorenni ad opera di precedenti governi di sinistra, le mancate assunzioni di personale di polizia penitenziaria”. Il ragazzo era uno straniero non accompagnato, è corretto che si trovasse in quella struttura? “Non parlo di casi particolari, anche perché quanto accaduto deve addolorare tutti. Aggiungo però un punto importante. Circa il 45% dei circa 600 detenuti nel circuito minorile italiano sono minori stranieri non accompagnati. E un numero altissimo di ragazzi senza famiglia è affidato ai Comuni, che sono costretti a fare un extra lavoro per tentare di assisterli in modo adeguato. Tutto questo in virtù della vecchia legge Zampa, che è arrivato il momento di modificare”. Come? “Prevedendo dei ricollocamenti assistiti, previo accertamento dei collegamenti che questi minori hanno nel loro paese di origine, in accordo con i servizi sociali e non più come avviene oggi. Altrimenti, lo dico chiaramente, il sistema non potrà reggere”. Il fatto è avvenuto nel Cpa, una struttura all’interno del carcere, ma separata. Anche quella versa in condizioni estreme (sovraffollamento, spazi ristretti, mobilio vecchio, niente aria condizionata) come il minorile? “Non risulta un particolare affollamento all’interno del Cpa di Treviso. Semplicemente quella struttura, esattamente come il locale Ipm, sarà dismessa il prima possibile, come da programma. Per farlo siamo al lavoro da mesi”. Ci sono novità al riguardo? “Sì, la novità è che i primi giorni di settembre inizieranno i lavori di ristrutturazione del nuovo centro di prima accoglienza del Veneto con sede presso il tribunale dei minori di Mestre. Investimento di 800 mila euro per ripristinare una struttura realizzata molti anni fa e mai utilizzata. All’interno troveranno posto sino a 10 minori, che alloggeranno in delle stanze dedicate e allestite appositamente dove rimanere in attesa di decisioni da parte dell’autorità giudiziaria”. Recentemente è stato inaugurato l’Ipm dell’Aquila ci sono novità su quello di Rovigo? “Dopo quello dell’Aquila, inaugureremo a settembre il nuovo istituto per minorenni di Lecce. Entro l’anno apriremo anche Rovigo. In tutto avremo circa 80 posti in più che ci consentiranno di programmare la chiusura del minorile di Treviso”. Firenze. Sollicciano, dalla lista Schmidt un appello a Nordio Corriere Fiorentino, 13 agosto 2025 Ennesima richiesta di visita al carcere di Sollicciano per le condizioni invivibili e il sovraffollamento che hanno portato anche a casi di suicidio, inoltrata al ministro della Giustizia, Carlo Nordio. Dopo gli appelli di sindaci, assessori e parlamentari (finora rimasti tutti disattesi) questa volta è il turno del consigliere comunale della lista Schmidt, Paolo Bambagioni. “Mantenere Sollicciano o chiuderlo? A margine dell’ottimo lavoro condiviso svolto dalla commissione Sociale e dal Consiglio comunale, ho voluto dare il mio contributo per risolvere l’attuale stallo del carcere di Sollicciano, che è il contenitore di tante problematiche. La funzione del carcere non può essere far vivere le persone in una vera e propria bolgia dantesca: è dare loro un’opportunità di recupero, meditando sugli errori commessi. Per trovare una soluzione, ho chiesto al ministro della Giustizia una visita”, spiega Bambagioni, presidente della commissione Controllo a Palazzo Vecchio. “Non bastano le analisi da 110 e lode, le commissioni studiano, riflettono, ma non producono risultati; allo stesso modo, non bastano interventi tampone, ma serve una risposta concertata, strutturale, definitiva”. Anche la maggioranza dem raccoglie l’appello. “Bene che anche Bambagioni chieda l’intervento del ministro Nordio”, commentano il capogruppo Pd Luca Milani, i vice Cristiano Balli e Alessandra Innocenti e il presidente della commissione 4, Edoardo Amato che ha condotto una ricognizione dei problemi della struttura. “Sono necessari interventi strutturali. È quindi fondamentale dare seguito alle promesse già fatte dal sottosegretario Delmastro”. Genova. Celle torride e sovraffollate, il sopralluogo della Camera Penale nel carcere di Marassi di Marco Lignana La Repubblica, 13 agosto 2025 La presidente ligure Fabiana Cilio: “Occorre ri-calendarizzare urgentemente la proposta di Giachetti volta ad ampliare i benefici della liberazione anticipata”. In visita anche la pm Francesca Rombolà e la presidente dei gip Nicoletta Guerrero. Il caldo si fa sempre più soffocante mano a mano che si salgono i piani. E di ventilatori, che pure sono stati comprati da più parti, se ne vedono davvero pochissimi. In questi giorni di caldo torrido, di bollini rossi, di stop ai lavori all’aperto, il carcere di Marassi è più inferno del solito. Al sovraffollamento cronico si uniscono gli effetti della temperatura insopportabile. Così ieri mattina una delegazione è andata in visita a uno degli istituti penitenziari più vecchi d’Italia: nel sopralluogo, organizzato dalla Camera penale italiana, insieme alla presidente ligure Fabiana Cilio e al segretario Nicola Scodnik, c’erano anche la a presidente della sezione gip del tribunale di Genova Nicoletta Guerrero e la sostituta procuratrice Francesca Rombolà. A dimostrazione della consapevolezza anche da parte degli uffici giudiziari delle difficili condizioni di vita e di lavoro dei detenuti e degli agenti di polizia penitenziaria. “Abbiamo voluto dare un segno di attenzione e vicinanza da parte dei penalisti rispetto a tutte le problematiche penitenziarie - spiegano gli avvocati Cilio e Scodnik - mettendoci anche a disposizione per contribuire fattivamente con la nostra associazione per cercare di costruire quell’indispensabile ponte ideale tra il carcere ed il mondo esterno”. Non c’è, naturalmente, soltanto il problema caldo. in un carcere che ospita 675 detenuti di cui oltre la metà stranieri: “Si tratta - dicono gli avvocati - di un istituto del tutto inadeguato a dare risposte in termini di rispetto dei diritti dei detenuti che soffrono condizioni di vita per la più parte inaccettabili, che molto spesso sono all’origine di pericolosi conflitti sociali come anche i recenti episodi accaduti a Genova hanno dimostrato, nonostante gli sforzi del personale amministrativo e degli operatori della polizia penitenziaria che si trovano a convivere con risorse economiche assai limitate che non consentono di poter garantire ai detenuti di vivere dignitosamente il loro percorso “dietro le sbarre”. E in effetti a lavorare fuori dal carcere sono soltanto in due, mentre un’altra ventina svolge attività all’interno di Marassi. Per il resto, zero impegni. La proposta concreta della Camera Penale è la ri-calendarizzazione urgente della proposta di legge presentata da Roberto Giachetti, volta ad ampliare in via straordinaria i benefici della liberazione anticipata per le persone detenute. A Repubblica, lo stesso Giachetti ha spiegato: “Ci sono due numeri che fanno paura: il sovraffollamento carcerario e l’organico sottodimensionato della polizia penitenziaria. E poi al di là delle condizioni inumane e degradanti nelle quali vivono i detenuti è la paralisi del sistema a preoccupare, dalla carenza di assistenti sociali a quella degli psicologi. Si fa fatica a garantire addirittura l’ora d’aria, che dovrebbe essere un diritto per persone che magari stanno in cella 18 ore al giorno. E invece certe volte è compromessa dal fatto che essendoci pochi agenti di custodia, non riescono col sovraffollamento a garantirla a tutti. È una situazione che obiettivamente sta esplodendo”. L’amore non dovrebbe mai finire in gabbia: ecco la vera “riforma penitenziaria” di Valentina Stella Il Dubbio “L’amore in gabbia. La ricerca della libertà di un reduce dal carcere” è la nuova opera di Donatella Stasio, pubblicata con Castelvecchi editore. Nelle 182 pagine, in un intreccio con la “biografia” di un ex detenuto di nome Gianluca, l’autrice, che da decenni approfondisce, tra gli altri, i problemi dell’esecuzione penale, fa una denuncia chiara e severa dell’attuale sistema di detenzione ma in generale della difficoltà del nostro Paese a garantire diritti fondamentali, soprattutto ai più fragili. Attraverso un rapporto costruito per via epistolare e in una serie di incontri vis a vis con Gianluca, la giornalista che ha guidato l’Ufficio comunicazione della Consulta e portato per la prima volta i giudici costituzionali in “viaggio” nelle carceri, ricorda al lettore cosa significhi “tenere in gabbia, insieme al corpo, anche la mente e il cuore, chiudere tutto a doppia mandata e buttare la chiave. Dentro, ma anche fuori dal carcere”. Ecco, un proposito coraggioso: in un momento in cui la maggioranza degli italiani continua ancora a pensare che il carcere sia una cantina sociale dove rinchiudere le cose - in questo caso esseri umani - che non ci servono più; in un’Italia in cui un terzo degli elettori è a favore della pena di morte, il libro di Stasio si schiera valorosamente in controtendenza rispetto al cosiddetto sentire comune. E lo fa raccontando proprio la vita di Gianluca. Un ormai ex ragazzo cresciuto nel vuoto affettivo della periferia a nordovest di Milano, a Quarto Oggiaro, tra povertà materiale e silenzi emotivi. A diciassette anni il suo primo ingresso in carcere. Spaccio di droga e detenzione di armi: queste le accuse, e poi le condanne. Da quel dì inizia la lunga storia di un corpo che si ammala: di droga, di violenza, di solitudine. In totale resterà dietro le sbarre per undici anni. Alla fine Gianluca è uno di quelli che ce l’ha fatta, che è riuscito a costruire una vita “normale” dopo quella “innaturale” del carcere. È riuscito a riemergere dall’apnea di libertà e diritti, a cominciare dal diritto all’affettività. E già, perché Gianluca non ha potuto vivere l’amore fisico con le sue fidanzate dietro le sbarre. A lui, come alle tante migliaia di detenuti, non è restato che procurarsi da sé il piacere. “Quando mi masturbavo - dice senza filtri Gianluca - era una sorta di rituale, dovevo essere sicuro di non offendere nessuno, pensavo principalmente alla mia compagna, se ce n’era una, fare l’amore con lei era plausibile, così mi sembrava di essere meno sporco agli occhi di tutti - detenuti, guardie e anche miei. Raggiunto l’orgasmo mi sentivo in colpa comunque. Calava quella tensione sessuale e mi cedevano le gambe”. Ma l’amore in carcere non è solo una questione privata: è anche politica, sottolinea Stasio, ricordando come “il carcere che funziona è quello che produce libertà, come usava dire Alessandro Margara. E la libertà sta dentro i corpi, le menti e i cuori”. Ciononostante, scrive la giornalista nel suo “L’amore in gabbia”, “in carcere, l’intimità, l’affettività, la sessualità non sono considerate espressioni della personalità umana, tanto meno un diritto. Sono un lusso, addirittura un privilegio, e chi ha violato la legge - dal mafioso al ladruncolo, dal tossicodipendente allo straniero, dal detenuto di Alta sicurezza a quello comune - non ha diritti né privilegi né lussi, non merita niente, neppure di respirare”. E poi, a proposito di alcune dichiarazioni fatte in tempi recenti da Andrea Delmastro Delle Vedove sui nuovi blindati della polizia penitenziaria, Stasio scrive: “E che ‘ intima gioia’, che godimento questa mancanza d’aria, specie per i ‘ più pericolosi’, abbiamo sentito dire da un sottosegretario alla Giustizia del nostro governo. Perciò, ben venga anche la desertificazione affettiva del carcere! E pazienza se la Corte costituzionale ha detto che invece non va bene”. E come sappiamo è lontanissima in tutti gli istituti di pena la messa in posa di questo nuovo diritto sancito dalla Consulta. Stasio, infine, volge lo sguardo ai diritti negati pure oltre le sbarre: “In gabbia vengono tenuti anche altri diritti di libertà riconosciuti dalla Corte costituzionale ma sgraditi alla maggioranza: il diritto al suicidio assistito in presenza di determinate condizioni; il diritto dei figli di coppie omogenitoriali di essere riconosciuti da entrambi i genitori che li hanno voluti e cresciuti; il diritto delle madri di condividere realmente la scelta del cognome, materno o paterno, da attribuire ai figli, fin dalla nascita, e, in caso di disaccordo, di assegnare loro il doppio cognome. Diritti, questi ultimi, che presuppongono anch’essi un’educazione all’affettività, purtroppo impossibile in presenza di un potere pervasivo che punta a imporre le proprie posizioni ideologiche”. Il carcere non è un mondo a parte, ma un pezzo di società che richiede attenzione di Flavia Belladonna* Il Denaro, 13 agosto 2025 Affrontare sovraffollamento, suicidi e reinserimento richiede politiche strutturali, coordinate e rispettose dei diritti fondamentali. Lo racconta chi le storie di fragilità e solitudine celate dietro alle sbarre le vive da vicino. Una ragazza di 17 anni che ha perso da poco la madre. Un forte legame con il padre. Una vita a scuola come tante. Poi, un giorno, una lite con la nuova compagna del padre mentre è in cucina. Riceve uno schiaffo. E d’istinto lei, con il coltello che ha in mano per cucinare, trafigge la donna. Poi il carcere. E il tentato suicidio. È la storia di Sofia, protagonista del film “Una figlia” di Ivano De Matteo, con Ginevra Francesconi e Stefano Accorsi. Una storia di quelle che si leggono sui giornali, di liti familiari, di violenza. Quello che ci racconta il regista, però, è ciò che si nasconde dietro a queste storie. La vita sconvolta di un’adolescente, quasi in stato di trance, che perde i contatti con il resto del mondo. Mentre intanto ci si chiede: quanto può perdonare un genitore? Perché la vita cambia non solo per chi è dentro, ma anche per chi resta fuori. Nel carcere è nascosto un universo di oltre 250mila storie, tra detenute e detenuti, soggetti in esecuzione esterna e in attesa di esecuzione della pena. Nove su dieci sono uomini. Persone che hanno commesso gravi crimini, anche imperdonabili agli occhi della società, ma che restano esseri umani titolari di diritti e dignità umana, secondo l’art. 27 della nostra Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Il sovraffollamento, l’inadeguatezza delle strutture, la mancanza di personale e fondi e il dramma dei suicidi sono temi che non possono essere ignorati. Secondo i dati riportati nel Rapporto ASviS, l’Italia è al sestultimo posto su 27 Paesi Ue relativamente al 16esimo Obiettivo di sviluppo sostenibile “Pace, giustizia e istituzioni solide” dell’Agenda 2030 dell’Onu. Un Obiettivo che, con il suo Target 16.3, si occupa anche di “promuovere lo stato di diritto a livello nazionale e internazionale e garantire parità di accesso alla giustizia per tutti”. “Il sistema carcerario è contrassegnato da una grave e ormai insostenibile condizione di sovraffollamento, nonché da condizioni strutturali inadeguate di molti istituti”, ha affermato alcune settimane fa il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, “sono necessari interventi di manutenzione e ristrutturazioni da intraprendere con urgenza nella consapevolezza che lo spazio non può essere concepito unicamente come luogo di custodia ma deve includere ambienti destinati alla socialità, all’affettività, alla progettualità del trattamento”. Nel 2023 c’erano 117,6 detenute e detenuti per 100 posti disponibili, rispetto a un obiettivo al 2030 di azzerare il sovraffollamento. Inoltre, secondo Antigone, anche se continua a calare la percentuale di persone detenute in custodia cautelare, le persone in attesa di giudizio e presunte innocenti continuano a rappresentare più di un quarto delle detenute e dei detenuti. Dal ministero della Giustizia si leva un primo segnale sul sovraffollamento: entro settembre una task force ministeriale valuterà la fattibilità di interventi in favore dei reclusi con ancora due anni da scontare e che non abbiano avuto sanzioni disciplinari. Ad affrontare le innumerevoli sfide del carcere ci sono i 254 direttrici e direttori degli istituti penitenziari del nostro Paese, a fronte di un organico previsto di 350 unità, secondo i dati al 31 dicembre 2024 riportati in un articolo su Avvenire. Un articolo che dà voce a chi il carcere lo vive da vicino. La direttrice di Brescia, Francesca Paola Lucrezi, parla della sofferenza doppia che vivono le detenute donne, che hanno vissuto “quasi sempre storie di violenze e di traumi subiti, oltre che di reati commessi” e che essendo state fulcro del proprio nucleo familiare vedono le proprie famiglie disgregarsi portandole in uno stato di profonda solitudine. Le direttrici di Busto Arsizio Maria Pitaniello e di Varese Carla Santandrea entrano invece nel merito del tema suicidi, che “non dipendono solo dal sovraffollamento ma dalla fragilità degli ultimi fra gli ultimi con cui siamo chiamate a confrontarci ogni giorno e che arrivano in cella”. Secondo il 21esimo Rapporto di Antigone - focus sui suicidi, il 2024 è stato l’anno con più suicidi in carcere di sempre, almeno 91, mentre tra gennaio e maggio 2025 almeno 33. Molte persone decedute erano giovanissime, tante le persone di origine straniera. Diverse le situazioni di marginalità sociale. Alcune avevano disagi psichici, altre passati di tossicodipendenza. Come la storia raccontata da Antigone di un 55enne, di origini calabresi, suicida, arrestato per una rapina che aveva fruttato un bottino di appena 55 euro, il quale aveva restituito i soldi e risarcito il danno alla parte offesa. Avrebbe finito di scontare la pena nel 2027. Potenziare il supporto psicologico e psichiatrico, con assistenza immediata nei momenti critici (come l’ingresso in carcere), rafforzare la formazione del personale, migliorare la qualità della vita in carcere e dare centralità al reinserimento sociale anziché adottare un approccio punitivo diventano in questo contesto azioni cruciali. Tra le esperienze di reinserimento sociale, voglio raccontarne una particolarmente significativa che ho scoperto attraverso una persona a me cara. Si tratta del Pastificio Futuro, un progetto che offre una seconda possibilità ai ragazzi detenuti nel carcere minorile di Casal del Marmo di Roma, dando loro lavoro, dignità e speranza. Sul sito del pastificio si possono leggere alcune celebri parole di Papa Francesco, che ha poi creduto fortemente nell’iniziativa, sostenendola anche con una generosa donazione proveniente dai propri risparmi personali: “Non abbiate paura di diventare artigiani di sogni e di speranza. I sogni più belli si conquistano con speranza, pazienza e impegno, rinunciando alla fretta… Anche se sbagli, potrai sempre rialzare la testa e ricominciare, perché nessuno ha il diritto di rubarti la speranza”. Oggi la diffusione dei prodotti del pastificio Futuro, disponibili nei supermercati, attraverso e-commerce e il punto vendita dedicato, sta aumentando molto. Un risultato che dimostra come offrire fiducia e opportunità concrete possa cambiare il destino di tanti giovani. Tornando al mondo dietro alle sbarre, il 2024 è stato anche l’anno con più decessi in carcere in generale: sono 246 le persone che hanno perso la vita nel corso della loro detenzione, “segno di un carcere sempre più malato”, come si legge nel Rapporto Antigone. Per la direttrice uscente di San Vittore, Elisabetta Palù, “da fuori bisognerebbe iniziare a curare le ferite del carcere”: politiche sociosanitarie più attente al disagio psichico o alla tossicodipendenza soprattutto delle giovani e dei giovani, con progetti educativi, con un occhio di riguardo alle prime e seconde generazioni di stranieri. Palù parla dell’aumento dei detenuti tossicodipendenti, delle diagnosi psichiatriche che portano con sé nel 75% dei casi, della necessità di formazione per gli agenti. Le direttrici delle carceri lombarde denunciano la solitudine non solo della popolazione detenuta, ma anche dell’amministrazione penitenziaria. Alcune risposte migliorative sembrano però poter arrivare, secondo quanto emerso dalla giornata del 7 luglio “Le persone dimenticate”, promossa dall’Organismo congressuale forense presso il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel), in cui si è parlato di sovraffollamento, suicidi e lavoro in carcere. Il presidente del Cnel Renato Brunetta, già ministro per la Pubblica amministrazione e l’innovazione, in apertura dell’incontro ha proprio sottolineato che il tema carcerario non può più essere affidato solo alla buona volontà dei singoli: per dare risposte strutturali servono interventi sistemici, replicabili in tutti gli istituti penitenziari italiani. Per questo, ha affermato, “abbiamo avviato un accordo con Cassa depositi e prestiti, coinvolgendo le sue partecipate, per promuovere numerosi progetti di investimento in carcere: spazi, formazione, capitale umano, logistica, tecnologie, contrattualistica. Parallelamente, stiamo lavorando per includere i detenuti nella piattaforma Siisl del ministero del Lavoro, nata per il matching tra domanda e offerta per i soggetti più fragili. Un’infrastruttura che, se estesa anche al mondo penitenziario, potrà diventare uno strumento reale di reinserimento sociale e lavorativo. È un lavoro complesso, ma necessario. Solo dando struttura, visione e continuità all’azione istituzionale, potremo onorare davvero l’articolo 27 della nostra Costituzione”. Per affrontare realmente il dramma del carcere, serve il coraggio di mettere al centro le persone, le storie, le fragilità. Occorre passare da una logica emergenziale a una visione sistemica, capace di costruire risposte strutturate, coordinate, replicabili. Ma serve anche una scelta collettiva di civiltà: riconoscere che il carcere non è un mondo a parte, ma parte della nostra società. Un luogo dove si decide se credere ancora o meno nella possibilità del cambiamento. Alla possibilità di poter tornare a essere qualcosa di più del proprio reato. A poter essere guardati, un giorno, non solo per ciò che si è fatto, ma per ciò che si potrà ancora diventare. Proprio come Sofia. *Comitato di Redazione dell’ASviS Le radici delle discriminazioni, anche istituzionali, nella cultura europea di Andrea Valdambrini Il Manifesto, 13 agosto 2025 L’indagine di Oiza Q. Obasuyi, “Lo sfruttamento della razza”, edito da Derive Approdi. “Nessuno governo”, neppure di sinistra, sottolinea l’autrice, “ha abrogato le norme che imprigionano (…) stranieri e straniere (…) nelle maglie della segregazione”. Chi di noi si definirebbe razzista? Di sicuro in pochi, se si escludono i convinti estremisti di destra che fanno ancora oggi delle discriminazioni su base etnica il loro credo. Ben altra cosa è il razzismo introiettato, a livello dei singoli ma anche collettivo, attraverso la secolare percezione di superiorità rispetto al resto del mondo, che affonda le proprie radici nel colonialismo e nello schiavismo. Oggi quel percorso si è in parte invertito, e la migrazione sta contaminando in positivo una società come la nostra che tradizionalmente si interroga su molti temi - dalle libertà civili al senso della guerra -, ma raramente esce dalla compattezza del proprio sguardo “bianco”. È da questo punto di vista alternativo che prende le mosse Lo sfruttamento della razza. Le nuove gerarchie della segregazione di Oiza Q. Obasuyi (Derive Approdi, pp. 143, euro 16). L’autrice, lei stessa giovane italiana afrodiscendente e attivista, ha il merito di accendere un faro intorno a un dibattito per noi ancora iniziale, anche se più sviluppato in paesi europei a più forte immigrazione, nato negli Usa delle lotte storiche della liberazione nera negli anni ‘70 e ‘80, che arriva fino al movimento Black Lives Matter. Per spiegare la necessità di combattere il razzismo in cui siamo immersi, l’autrice si basa su una solida impalcatura teorica. Rimonta all’opera seminale del sociologo americano Cedric Robinson, che nel suo Black Marxism (1983) ha legato indissolubilmente capitalismo e razzismo come marchio della civiltà occidentale. Lungo questa linea incontra poi la riflessione di Angela Davis, icona del femminismo antirazzista americano, che negli stessi anni ha indicato la persistenza delle discriminazioni verso le persone definite “razzializzate” (cioè quelle che vengono inquadrate attraverso la “razza” come costruzione sociale) anche all’interno delle democrazie liberali. Partendo da queste premesse, Obasuyi sostiene che il suprematismo esplicito di vecchi e nuovi fascismi, non si può combattere senza analizzarne le radici nella tradizione europea: quella di inscrivere i diritti universali in convenzioni e costituzioni, assolvendosi così dal dovere di applicarle. Ma l’ostacolo maggiore al superamento delle discriminazioni risulta essere quello che l’autrice racchiude nel concetto di “razzismo istituzionale”. Quest’ultimo può essere esemplificato da un caso tragico, tra i tanti elencati nell’ampia parte del saggio dedicata alla situazione italiana - definita senza mezzi termini “desolante”. Moussa Balde, migrante 22enne guineano, viene aggredito per strada nel 2021 a Ventimiglia, dove era arrivato superando il confine francese. Lo Stato non persegue chi lo ha assalito senza ragione (si tratta di tre italiani), mentre è proprio il migrante a dover pagare per il reato di clandestinità, una delle tante forme con cui viene sistematicamente criminalizzata l’immigrazione. Rinchiuso nel Cpr di Torino, il ragazzo si toglierà la vita pochi giorni dopo. Leggi e decreti dello Stato vanno dunque nella direzione dell’espulsione dalla società, tanto da far percepire i migranti come un corpo estraneo. In questo consiste l’aspetto istituzionale della discriminazione: “Nessuno governo”, neppure di sinistra, sottolinea l’autrice, “ha abrogato le norme che imprigionano (…) stranieri e straniere (…) nelle maglie della segregazione”. Di questo razzismo - che potremmo definire più voluto per convenienza politica che dettato dalla paura - Obasuyi passa in rassegna le mille sfumature. Il lettore ripercorrerà tutte le ingiustizie di Stato nei confronti delle persone razzializzate nel campo dell’immigrazione e della mancanza di libertà di movimento, del lavoro e del diritto negato alla cittadinanza. Le donne risultano doppiamente svantaggiate in questa triste casistica e l’Italia svetta in negativo, perfino all’interno della “Fortezza Europa”, con Meloni leader delle pratiche discriminatorie (si veda il modello Albania). Una cosa è certa: il tema affrontato in questo saggio riguarda da vicino la maggioranza non razzializzata della popolazione. C’è da chiedersi come si possa ancora parlare di democrazia in senso pieno di fronte a forme di segregazione conclamate. È sbagliato ignorare la sicurezza di Walter Veltroni Corriere della Sera, 13 agosto 2025 Il bisogno di sicurezza chiede una risposta, ed è prevalente, con i temi economici, nelle preoccupazioni degli italiani. Essere il quarto governo più longevo della storia repubblicana è certamente un merito, in un assetto istituzionale, quello italiano, segnato dalla pervicace volontà della politica di prosperare sull’instabilità, con leggi elettorali ispirate al desiderio di consentire a ciascuna forza politica, anche quella con meno consenso, di risultare decisiva per il mantenimento di un governo. Non capendo, così, che si condanna la democrazia ad una sorta di eutanasia. In un tempo dannatamente veloce i governi, ce ne sono diversi in Europa, che passano più tempo ad assicurarsi il consenso di chi ne fa parte piuttosto che a decidere non fanno altro che consolidare l’idea che sia preferibile l’autorità di un singolo che decide piuttosto che la farraginosa democrazia. Il governo Meloni è durato più di molti altri. Un merito ma, insieme, un onere. Più un governo ha avuto tempo a disposizione e più deve rendere conto ai cittadini del suo lavoro. E, sinceramente, obiettivamente, non si può dire che la vita degli italiani e delle loro famiglie sia cambiata in meglio o, comunque, sia cambiata. Voglio affrontare, ancora una volta, un tema, quello della sicurezza. Perché è un cardine, non solo elettorale ma identitario, della nuova destra che oggi ha conquistato il governo in tanti Paesi occidentali. Che però non è riuscita a trovare soluzioni. Si è dimostrato, anche negli Usa, che non sono i muri, le carceri speciali e le disumane deportazioni in campi di reclusione che risolvono il problema. Credo di poter dire che mai la percezione di insicurezza su tutti i fronti sia stata così alta, anche in Italia. Nonostante lo sforzo gigantesco delle forze dell’ordine, la vita degli italiani è attraversata da una crescente sensazione di ansia e di disagio per l’incolumità delle persone e dei loro beni. I furti negli appartamenti e nei negozi, le aggressioni a donne, le truffe agli anziani, la violenza efferata di tanti fatti di cronaca, il ritorno delle armi da fuoco nelle grandi città, i delitti compiuti da giovanissimi, come quello di Milano in cui dei ragazzini che hanno tra undici e tredici anni, il tempo del gioco e della scuola, rubano un’auto, la guidano a velocità folle per le strade, travolgono una donna uccidendola e poi si rifugiano nel loro campo rom. O l’italiano di 26 anni che ha violentato una donna di 80 e poi l’ha costretta a consegnargli i soldi presi dal bancomat. È un dato di fatto che gli italiani, dopo anni di governo di destra, si sentono più insicuri. Quello della sicurezza è un tema complesso, che va sottratto alla demagogia. Esso riguarda, la sinistra dovrebbe finalmente capirlo, gli strati più deboli della popolazione: gli anziani, chi vive nelle periferie, chi prende i mezzi pubblici. E poi le donne, che vivono con la paura di uscire da sole la sera. La sinistra dovrebbe capire che quello della sicurezza è un enorme tema di giustizia sociale. Sono stato in Paesi in cui le grandi città sono devastate dalla criminalità comune e i ricchi vivono asserragliati in quartieri bunker. Non è questo il destino che dobbiamo auspicare per la vita dei nostri figli. E non bastano le pur necessarie riforme che devono, nell’accorciare le ingiustizie sociali, rimuovere parte delle cause della violenza diffusa. Questo è un vasto, giusto, programma, da sostenere con rinnovato vigore. Ma il problema di un anziano scippato o di una ragazza aggredita si pone ora. Per affrontarlo bisogna, a mio avviso, agire su più fronti. Il primo è potenziare la presenza sul territorio delle forze dell’ordine, con particolare riguardo alle zone periferiche delle grandi città e al contrasto delle nuove forme di delinquenza digitale. Poi governare con rigore e apertura il fenomeno dell’immigrazione, con l’obiettivo, non sembri un paradosso, di non lasciare solo chi viene sul nostro territorio avendone diritto. Tutte le teorie di esclusiva identificazione dei problemi di ordine pubblico con il fenomeno immigrazione si sono rivelate, di fatto, sbagliate. E tuttavia, una volta sottratto il tema alle varie demagogie populiste, esiste ed è grande il problema di come garantire, al tempo stesso, accoglienza, integrazione e rigoroso rispetto delle regole della convivenza civile. Le grandi civiltà vivono solo se sanno far convivere difesa della propria identità e apertura al mondo. Mai solo l’una, mai solo l’altra. L’immigrazione va regolata, con un mix di fermezza e di piena integrazione, e non demonizzata. E poi grandi piani di riqualificazione delle periferie urbane. Se i miliardi di euro per il Ponte sullo Stretto fossero stati investiti in piani comunali per la luce, gli spazi scolastici e culturali e le forze di polizia nelle periferie urbane, penso si sarebbe fatta la cosa giusta. Così come sarebbe corretto immaginare politiche attive per i bambini e i ragazzi, a cominciare dall’apertura permanente di spazi sociali, in primo luogo le scuole. Bisognerebbe affrontare il problema delle carceri che dovrebbero essere luogo che favorisce il reinserimento sociale dei detenuti. Bisognerebbe tornare a mettere nel mirino la lotta al traffico della droga che circola con spaventosa facilità. Ci sono quartieri delle città che sono off limits, veri supermercati dell’eroina o della cocaina presidiati da vedette. Tutti lo sanno, ma va avanti così da anni. Per la sinistra la parola sicurezza dovrebbe smettere di essere un tabù. Negarne l’importanza o ridursi a scimmiottare le ricette della destra sono due strade fallimentari. Non dovrebbe essere un tabù perché la parola sicurezza confina con un’altra, che invece, giustamente, piace: legalità. Il rispetto delle leggi, in primo luogo quelle che garantiscono l’integrità della persona, è un dovere per ogni sistema democratico. E non esistono mai giustificazioni, neanche quelle sociali, per la violenza contro altri. E se dico sicurezza e legalità non posso non pensare alla grande rimozione della lotta alla mafia, alla camorra e alla ‘ndrangheta, sempre più infiltrate nelle attività finanziarie e commerciali di buona parte del Paese. Il bisogno di sicurezza chiede una risposta, ed è prevalente, con i temi economici, nelle preoccupazioni degli italiani. Ignorarlo, per tutti, è sbagliato e pericoloso. Se la politica parla invece di agire di Flavia Perina La Stampa, 13 agosto 2025 Salvini rilancia il suo “radere al suolo”, versione 2025 dell’inno alla ruspa. Ma la questione rom si risolve con case normali in quartieri normali. Tre ragazzini e un bambino di undici anni provenienti da un campo Rom, un’auto rubata, una pensionata investita e uccisa a pochi metri da casa. Momento d’oro per Matteo Salvini che può rilanciare il suo “radere al suolo”, versione 2025 dell’inno alla ruspa che dieci anni fa finì pure sulle t-shirt. Radere al suolo i campi, chi li abita, colpevoli e innocenti, adulti e bambini, e non si capisce bene perché stando al governo le ruspe non le mandi subito e i radicali provvedimenti invocati dai suoi colleghi non siano già oggetto di decreto: espulsioni, revoca della patria potestà, demolizione delle roulotte e spostamento altrove di chi ci abita. O meglio, si capisce se si ricordano le rivolte di Torre Maura, quando la ricollocazione di una ventina di famiglie Rom con 33 bambini diventò un caso nazionale per le barricate alzate da gruppi di estrema destra, che alla fine l’ebbero vinta. O quando gli stessi gruppi, a Casal Bruciato, misero in fuga una famiglia Rom dalla casa popolare che gli era stata regolarmente assegnata. Nei campi no, ma nemmeno nei quartieri o nei centri di accoglienza, e allora, dove? La questione Rom rappresenta una sfida irrisolvibile se si continua a guardarla con gli occhi dell’ideologia e della propaganda così come si fa dagli anni Ottanta, da entrambe le parti. Fu all’epoca che la cultura progressista, e per prime le giunte a guida socialista del Lazio, introdussero l’idea che i campi fossero una “scelta culturale”, l’elemento centrale della tradizione nomade, e non l’esito di povertà materiale e di frettolose fughe dalle guerre. Mentre in Germania o in Spagna si lavorava a programmi di integrazione, da noi è avvenuto l’opposto: la separazione dei Rom in nome di un abitare “altro” è stata incoraggiata da una miriade di norme locali. Siamo diventati il Paese dei campi e delle baraccopoli, e ancora adesso si stenta a dire: quegli spazi non sono romantiche riserve degli ultimi girovaghi d’Europa ma luoghi di segregazione e spesso di educazione alla violenza. Una seria destra di governo rovescerebbe quel racconto e sceglierebbe politiche diametralmente opposte per ottenere nell’arco di una generazione o due quel che in gran parte del continente è già successo, cioè la fine degli insediamenti monoetnici e del nomadismo di necessità che sposta i Rom da un campo all’altro, sgombero dopo sgombero, per mancanza di alternative. Qualcuno, a dire la verità, ci prova. Il ministro dell’Istruzione Valditara invita a prendere di petto la questione educativa: “Vergognoso è non fare nulla, lasciando che bambini e ragazzi crescano nel degrado, nell’illegalità, nella assenza di istruzione, nella mancanza di regole”. Scuola e integrazione come sola alternativa (la sola disponibile in una società democratica) alla delinquenza e all’abuso, praticato e subìto: come dargli torto? Eppure la voce di Valditara - e, speriamo, la sua capacità di inventarsi qualcosa per evitare che migliaia di ragazzini crescano nell’abbrutimento - ieri è rimasta isolata. Il resto del centrodestra ha preferito accodarsi al neo-ruspismo di Salvini. Vergognoso è non fare nulla, verissimo. Ma vergognoso è anche rinunciare alla sfida politica dell’integrazione in case normali di quartieri normali - una sfida “di destra”, in questo specifico caso - per rifugiarsi nelle parole d’ordine del vecchio sovranismo d’opposizione. Radere al suolo, sgombero immediato, spianiamo tutto, sono parole di successo, che hanno portato tanti voti e in qualche caso determinato vittorie sui territori. Ma restano parole: non cambiano nulla, non risolvono nulla. Salvini: “Radere al suolo il campo rom”. Sala: “Vergognoso speculare” di Andrea Siravo La Stampa, 13 agosto 2025 Tante le reazioni della politica alla morte della donna a Milano, travolta dall’auto pirata guidata da bambini. Il sindaco Sala replica al ministro dei Trasporti: “Vergognoso speculare su una morte così terribile”. Hanno tra gli 11 e i 13 anni i ragazzini fermati per aver investito e ucciso con un’auto rubata la 71enne Cecilia De Astis a Milano. I giovani sono stati trovati all’interno di un accampamento abusivo di nomadi in via Selvanesco, non lontano dal luogo della tragedia. Di origini bosniache, sono nati tutti in Italia. “Cecilia, 71enne milanese, stava camminando nel quartiere Gratosoglio a Milano in una calda giornata di agosto. È stata travolta e uccisa da un’auto pirata, rubata e guidata, come riportano le cronache, da quattro minorenni rom. Pare di neanche dieci anni! - scrive il su X il vicepremier e leader della Lega Matteo Salvini -. Se quanto riportato dai giornali rispondesse al vero, sarebbe pazzesco. Campo rom da sgomberare subito, e poi radere al suolo, dopo anni di furti e violenze, pseudo “genitori” da arrestare e patria potestà da annullare. Sindaco Sala e sinistre, ci siete??? Una preghiera per la povera Cecilia”. Un post che scatena il dibattito sull’ex Twitter, con il leader di Azione, Carlo Calenda, che risponde a stretto giro: “Io sono favorevole allo sgombero di tutti i campi Rom. Non ho capito però perché lo chiedi al Sindaco e non al Ministro degli Interni. Mi sembra una presa per i fondelli dei cittadini per ragione di propaganda politica. Il che è fondamentalmente l’unica cosa che fai nella vita”. Critico nei confonti el vicepremier anche Davide Faraone, vice-presidente di Italia Viva: “Uno sciacallaggio inaccettabile di fronte alla morte di una persona. La sicurezza si garantisce con i presidi delle forze dell’ordine, con la certezza della pena, con la lotta al degrado e con l’educazione. Non con I tweet populisti di Matteo Salvini”. Sulla stessa linea di Salvini c’è il segretario milanese di Fratelli d’Italia, Simone Orlandi, che punta il dito contro “Il Modello Milano del sindaco Sala che mostra i suoi limiti proprio in queste drammatiche dinamiche: criminalità infantile, insediamenti abusivi e totale assenza di controllo”. Orlandi chiede a nome del partito “lo sgombero immediato e definitivo di tutti gli accampamenti abusivi in città”. “Una tragedia che non può rimanere impunita - scrive su Facebook il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana -. I responsabili sono stati rintracciati: secondo le prime notizie stampa hanno tutti tra gli 11 e i 14 anni. Assurdo. Sono stati fermati all’interno di un campo rom di Milano. Le forze dell’ordine stanno perquisendo le loro abitazioni. Cecilia De Astis è stata travolta da un’auto rubata lanciata a tutta velocità. Non è un “incidente”. È il frutto di una catena di illegalità, arroganza e impunità che parte da lontano e che non può più essere tollerata”. Alle affermazioni di Salvini arriva la replica del sindaco Giuseppe Sala: “Sulla morte di una persona in circostanze così terribili trovo vergognoso speculare, soprattutto da parte di alti rappresentanti del governo. Siamo vicini alla famiglia della donna scomparsa. Non ci sono dubbi che le famiglie dei ragazzi coinvolti devono rendere conto di quanto è successo. E su questo chiederemo la massima intransigenza. Per quanto riguarda, invece, la presenza di insediamenti rom e il loro superamento, il tavolo di coordinamento con le Forze dell’ordine è in Prefettura, organo periferico del Ministero degli Interni. Il Comune di Milano ha iniziato da anni e persegue tuttora una politica di superamento dei campi rom: le giunte di centrosinistra ne hanno chiusi 24 - 4 autorizzati e 20 irregolari - in 12 anni, dal 2013 al 2024. Le giunte di centrodestra, che adesso gridano, quando sono state al governo della città solo 1. Ignorare queste informazioni in maniera strumentale per farsi pubblicità, vuol dire prendere in giro i cittadini”. “I quattro ragazzini individuati dalla polizia locale come responsabili dell’investimento della povera Cecilia De Astis sono poco più che bambini. Bambini che vivono in uno dei tanti campi rom di Milano, in ambienti criminogeni nei quali imparano a rubare e a delinquere. Dove sono i servizi sociali? -commenta invece Romano La Russa, assessore regionale alla Sicurezza della Regione Lombardia, che poi invita a - smettere di nasconderci dietro all’alibi della differenza culturale: che cosa aspettano i servizi sociali a intervenire per “salvare” questi minori da famiglie che non sono in grado di farli crescere normalmente? Una società civile non può accettare che dei bambini siano usati dai genitori per rubare, basta vedere cosa accade in metropolitana e sulle strade ogni giorno”. Christian Garavaglia, capogruppo di FdI al Pirellone commenta: “È tempo di smettere di girarsi dall’altra parte, non possiamo più tollerare che esistano aree franche dove le regole e il rispetto per la vita umana non abbiano valore. Le istituzioni, a tutti i livelli, devono intervenire con forza per ripristinare la legalità e la sicurezza, non solo per i cittadini milanesi, ma anche per prevenire che simili tragedie possano ripetersi”. La vita nei campi rom: due chilometri a piedi per andare a scuola, la diffidenza dei quartieri di Silvia Calvi e Giampiero Rossi Corriere della Sera, 13 agosto 2025 “Questi sono ragazzini allo sbando, abbandonati a loro stessi, man mano che crescono, sono sempre in giro a fare casino, magari riuniti in bande. Inutile stupirsi, se cresci in questo contesto è difficile prendere un’altra strada, hai bisogno di aiuto”. Le parole di don Paolo Steffano grondano amarezza. Lui da prete, responsabile della Comunità pastorale del Gratosoglio - lo storico quartierone popolare dove si è consumata la tragedia di lunedì mattina - conosce la realtà ruvida delle strade di questo estremo Sud metropolitano, in cui le fragilità si sommano e si scontrano. E conosce anche i ragazzini che ogni giorno sgusciano fuori dai campi nomadi che per loro dovrebbero essere “casa”. E infatti, il prete racconta: “In questi anni abbiamo organizzato diverse attività per coinvolgerli: il doposcuola, un corso di ginnastica, il pranzo insieme una volta a settimana, li abbiamo portati anche in campeggio. I ragazzini vengono, partecipano, ma non sono costanti: la cosa difficile è riuscire a tenerli agganciati”. E ad ogni fattaccio, compresi quelli che non raggiungono le cronache, “nel quartiere si alimentano scintille di rabbia”. E allora diventa difficile anche chiedere e dare solidarietà a quei bambini senza infanzia. Proprio lì vicino, lungo la sponda sinistra del Naviglio Pavese, sorge il “Villaggio delle rose”, nome che vezzeggia il più grande campo nomadi di Milano. È lì, in via Chiesa Rossa, dal 2002 e raccoglie 70 famiglie per un totale 260 persone tra italiani, sinti lombardi, rom harvati, provenienti da Istria e Croazia. Oltre a questo, attualmente in città gli insediamenti riconosciuti sono quelli di via Impastato (periferia Sud-Ovest, al confine con San Donato Milanese), via Negrotto (a Nord-Ovest, a ridosso di Villapizzone e Bovisa). Tre in tutto. Ufficialmente vi abitano 112 famiglie, 416 persone. Perché negli ultimi 14 anni il numero degli insediamenti per nomadi nel capoluogo lombardo (dopo, Roma e Napoli, terza città italiana per presenze) si è costantemente ridotto. Erano 24, punteggiavano la mappa della città e ospitavano almeno 3.000 persone. Agli atti di Palazzo Marino risulta che l’ultima apertura - cioè proprio il Villaggio delle rose - fu deliberata nella primavera del 1999 (giunta di centrodestra, sindaco Gabriele Albertini). Poi, dal 2011, sono iniziate chiusure e smantellamenti, una ventina di aree, molte delle quali erano occupate da accampamenti abusivi. Che ciclicamente ricompaiono. Ma come si svolge la vita all’interno degli insediamenti dove bambini e adolescenti crescono tra caravan, roulotte, container e baracche? “La metà degli abitanti del villaggio di Chiesa Rossa sono minori e vanno a scuola, frequentano l’Istituto comprensivo Arcadia - spiega Paolo Cagna Ninchi, presidente dell’Associazione Upre Roma, nata nel 2009 per promuovere la cultura rom e sinti e il dialogo con le istituzioni -. Una volta c’era uno scuolabus che li portava, ma due anni fa è stato soppresso e, quando non li accompagnano i genitori, i bambini devono percorrere a piedi i due chilometri e mezzo che separano il campo dall’istituto. Non è un piccolo disagio, e anche questo contribuisce a far sentire questi bambini emarginati”. Ma la precarietà li avvolge anche quando sono a “casa”. Un’indagine condotta un paio d’anni fa dalla Caritas Ambrosiana riassume in modo impietoso le condizioni di vita nei campi nomadi: spazi ridotti, problemi di igiene, mancanza di servizi, in qualche caso anche dell’accesso all’acqua potabile. Tra gli adulti, poi, domina la disoccupazione, abbinata a bassi livelli di istruzione, difficoltà ad accedere ai documenti e - non di rado - guai con la giustizia. E tutto questo, probabilmente, contribuisce al dato più impressionante denunciato dalla Caritas: una speranza di vita di 10 anni inferiore alla media nazionale. E all’indomani di un fatto come quello di lunedì, il muro della diffidenza si alza ulteriormente. “Siamo di fronte a una doppia tragedia, la morte di una donna innocente e il dramma di quattro bambini che si sono resi responsabili di un atto che segna la loro vita, al di là delle responsabilità penali - osserva ancora Paolo Cagna Ninchi -. Ma amareggia anche che, subito, è stato tirato in ballo chi non c’entra, considerato comunque colpevole in quanto rom, cioè gli abitanti del villaggio di via Chiesa Rossa. Una realtà che oltretutto, dallo scorso giugno, si sta organizzando per diventare un modello anche per le altre città europee”. Il progetto è quello di costituirsi cooperativa a proprietà indivisa: le famiglie che non vorranno farne parte accetteranno la collocazione nelle case Sat (servizi abitativi transitori), come previsto dal Comune a partire da settembre. “Le altre dovranno organizzarsi e assumere la gestione dei consumi e della logistica del villaggio, che da settembre sarà ridotto ai confini del 2002, mentre gli spazi occupati successivamente verranno liberati”. Ma la grande paura è che, l’ondata di rabbia spazzi via tutto: “Ma questo non è uno spazio abusivo - dice Tony Deragna, rom italiano residente al Villaggio delle rose - anzi, noi in questo progetto abbiamo investito i nostri risparmi”. Nel campo rom dei 4 ragazzini piovono pietre e insulti: “Noi poveri, non animali” di Maria Novella De Luca La Repubblica, 13 agosto 2025 Tra le roulotte e i rifiuti di via Selvanesco, periferia a sud della città: “Vogliamo bene ai nostri ragazzi, andavano a scuola ma era troppo lontana”. Il parroco: in questo quartiere guidano tutti fin da piccoli. All’imbrunire nel campo rom di via Selvanesco le uniche luci sono quelle dei fuochi e delle collane di lampadine appese fuori dalle roulotte, resti tristi di qualche vecchio festeggiamento. L’odore di gomma bruciata, di immondizia, di fogne a cielo aperto e di masserizie ammuffite fa lacrimare gli occhi. Due carcasse di auto semi carbonizzate, tra giocattoli rotti, bici scassate e un paio di topi morti segnano l’ingresso al campo, monito, sembra, a non avvicinarsi troppo. “Basta guardare ancora, non siamo cattivi, siamo poveri, andate via, mica siamo animali”, dice una donna-ragazza con accento slavo, avrà forse diciott’anni, un bambino in braccio, altri due alle calcagna, la pancia grossa di un parto prossimo, l’unica che accetta di dire qualcosa, prima che le altre la fermino. “Noi vogliamo bene ai nostri figli, andavano a scuola ma scuola è lontana”, mormora in una mescolanza tra italiano e slavo, i pochi uomini osservano ostili, i bambini, tanti, corrono tra cumuli di immondizia invasa da mosche. È in questa favela malsana e invasa dal tanfo, nella campagna che circonda un pezzo di periferia sud di Milano, dove resistono ancora cascine e appezzamenti coltivati, che sono cresciuti, invisibili alla società fino a quando non hanno ucciso una donna, i quattro ragazzini che hanno investito e spento la vita di Cecilia De Astis. Come in un gioco feroce, mescolando residui d’infanzia a vite già corrotte, una bambina di undici anni, due dodicenni e un tredicenne dopo aver comprato un mucchio di magliette con il disegno dei Pokemon, hanno rubato l’auto del turista francese e travolto poi Cecilia. I Pokemon, un’auto, la morte. E allora bisogna venire qui, dove giornalisti e telecamere sono stati accolti con lanci di pietre, in questa conca sterrata che quando piove diventa acquitrino, fango e melma, di proprietà di una delle famiglie che lo abitano, per capire come possano esistere dei bambini invisibili. Semi adolescenti che non vanno a scuola, rubano, hanno le facce da grandi, poi un giorno il gioco diventa troppo grande e una donna muore. Dove sono cresciuti? Le anagrafi scolastiche si sono accorte della loro assenza? “Qui tutti i ragazzini rom guidano già a 12-13 anni” dice don Paolo Steffano, parroco di ben quattro chiese nel quartiere di Gratosoglio, dove la povera Cecilia De Astis è stata uccisa dall’auto guidata, sembra, dal più grande dei “bambini”, un tredicenne. Racconta di un pezzo di campagna diventata una sorta di zona franca, dopo gli sgomberi di quasi tutti i campi rom di Milano, con assegnazione di case popolari e in alcuni casi di buona integrazione. “Da diversi mesi vediamo arrivare nuove famiglie e molti minorenni. Vanno in giro, compiono furti, rompono i vetri delle auto. Ma fino a ieri si erano sempre macchiati di furti e danni di piccolo cabotaggio”. Fino a ieri appunto. Fino alla morte di Cecilia. Da qualche parte, ma ben nascosti e protetti dagli adulti, nel campo di via Selvanesco, i quattro ragazzini sono già tornati alle roulotte. Affidati alle famiglie, non punibili per la loro giovane età. Probabilmente poi, a meno che non scenda l’oblio, di nuovo, su questa enclave di invisibili, qualcuno dovrà pensare al loro recupero. “Ma quale recupero - sbotta fuori da una baracca un anziano che qui aveva il suo orto urbano - quelli sono peggio delle cavallette, rubano tutto, se non rubano distruggono. Io avevo qui le mie piante, non ho più nulla”. Perché non c’è soltanto il campo rom in quest’area coltivata a girasoli. Ci sono, chissà da quanti anni, case di lamiera, rifugi per disperati, una strana popolazione mista di persone che camminano con borse, fagotti, vecchie biciclette e carrelli della spesa con la ferraglia presa dai cassonetti. Davanti al ristorante “Al Garghet” a poche centinaia di metri dal campo di via Selvanesco, il giardiniere romeno sta innaffiando le piante. “Qui la vita è diventata difficile. Noi al ristorante abbiamo dovuto aumentare la sicurezza. Quei quattro che hanno messo sotto e ucciso la signora, io li conosco bene, venivano anche qui a fare casino, chiedevano Coca Cola, vino, facevano rumore. Sta succedendo qualcosa di strano: di notte qui intorno c’è un gran traffico di furgoni che entrano ed escono dalla zona delle roulotte. E da quando hanno chiuso anche gli ultimi campi, loro sono sempre di più”. Loro. Favela ai margini di una città ricca e feroce che ormai esclude i giovani, le famiglie, dove la povertà aumenta, così come l’altezza dei grattacieli travolti dall’ultimo scandalo del mattone. Favela che la destra vorrebbe radere al suolo, tutti via cancellati, mentre la Caritas ricorda che l’unica strada, pur nella pretesa della legalità “sono percorsi di accompagnamento, vanno chiamate le istituzioni a esercitare il proprio ruolo”. Bisogna chiederselo allora dove erano le istituzioni mentre questi quattro ragazzini crescevano. Per intercettarli, includerli, proteggerli anche dalle loro stesse famiglie. Perché ciò che resta, mentre scende la notte e bisogna andare via da questa periferia agreste che diventa terra di nessuno, sono il degrado, i cani randagi e il tanfo di copertoni bruciati. Niente acqua corrente, niente fogne. Un uomo arriva a portare via la futura mamma che aveva detto qualche parola. “Questa è la nostra zona, voi non potete entrare”. Restano quattro bambini con il destino segnato, forse un futuro in comunità, o in affido familiare, cresciuti senza infanzia e senza futuro. A meno che di questi invisibili qualcuno torni a occuparsi. La madre del più giovane sull’auto che ha ucciso Cecilia De Astis: “Ora me lo porteranno via” di Andrea Siravo La Stampa, 13 agosto 2025 “Piango per quella donna e per mio figlio. Sono sconvolta, non ne sapevo niente”. “È dall’alba che piango, per mio figlio e per la signora. Cosa posso dire?”. Esce dagli uffici della polizia locale con in braccio il figlio più piccolo. Ha poco più di anno e piange perché ha fame. Gli compra un pezzo di pizza mentre l’altro suo bambino, quello di undici anni, rimane con gli agenti insieme agli altri tre amici. Sono tutti coinvolti nell’incidente stradale in cui è rimasta uccisa Cecilia De Astis. Di questa giovane donna, non scriviamo né il nome né pubblichiamo una fotografia, per non identificare il figlio. L’undicenne, il più piccolo della compagnia, non era al volante della Citroën, ma uno dei passeggeri. La donna è provata e disorientata. Nel breve tragitto tra la pizzeria e un parchetto, prima di rientrare nella sala d’attesa del comando di via Pietro Custodi, dice di aver smarrito la carta d’identità. Signora, quando ha scoperto cosa era successo? “Questa notte (quella tra lunedì e martedì, ndr) mio figlio me l’ha raccontato. Al mattino presto è arrivata la polizia e ci hanno portato qui”. È stata una confessione spontanea? “No, io e le altre madri a partire dalle 20 di ieri sera abbiamo visto le auto della polizia passare più volte nelle vicinanze di dove stiamo. Non capivamo e non sapevamo cosa pensare. Ci siamo insospettite”. Quindi le è venuto il pensiero che suo figlio e gli amici potessero essere rimasti coinvolti in qualcosa di brutto? “Era ormai tardi quando i bambini sono rientrati. Abbiamo chiesto cosa stava succedendo. Loro si sono messi a piangere. Ci hanno raccontato di questa tragedia, dell’incidente, di quello che era successo”. Dalle prime indagini è emerso che l’auto che il più grande dei bambini sarebbe stata rubata da loro stessi il giorno precedente. Lei e le altre madri ne eravate a conoscenza? “Domenica mattina sono usciti insieme a piedi come fanno ogni giorno. Se avessimo visto loro in auto li avremmo fermati. Questo è certo, ma non lo sapevamo. Devono averla trovata abbandonata con le chiavi dentro o l’avranno rubata, ma non vicino al campo. Il giorno dell’incidente sono rientrati e non hanno detto niente”. In questa tragedia una donna di 71 anni è morta. Cosa si sente di dire ai parenti e ai figli della vittima? “È dall’alba che piango, per mio figlio e per la signora. Cosa posso dire? Non sono adulti, sono dei bambini. Non so proprio cosa dire, non so che pensare”. Da quanto abitate nel campo di via Selvanesco? “Siamo arrivati sette/otto mesi fa. Da quando mio marito è finito in galera per aver commesso dei vecchi reati. Ci spostiamo di frequente. Prima di Milano siamo stati per qualche periodo a Roma e Bologna. Al campo siamo solo donne e bambini”. Teme che nelle prossime settimane le possano portare via suo figlio? “Si, mi hanno detto che potrebbe andare in comunità. Così come gli altri tre bambini”. La magistrata Maria Carla Gatto: “Inutile punire gli under 14, la soluzione è la scuola” di Chiara Evangelista Corriere della Sera I quattro ragazzi fermati non saranno processati perché non imputabili. L’ex presidente del Tribunale per i minori di Milano: “Nei crimini dei ragazzini modi sempre più violenti. Gravi disfunzioni sociali, mancano investimenti convinti”. La magistrata Maria Carla Gatto adesso è in pensione, dopo 45 anni di carriera, ma gli ultimi 8 li ha trascorsi come presidente del Tribunale per i minorenni di Milano. Dottoressa, sono in aumento i casi di criminalità giovanile nel capoluogo lombardo? “Non nel numero ma nelle modalità violente con cui i fatti sono commessi”. A cosa è dovuto questo fenomeno? “Le cause possono essere le più diverse: l’uso di sostanze stupefacenti in età sempre più precoce, l’influenza negativa del mondo dei social network, forme di disagio psichico crescente. Situazioni che spesso sono associate a gravi disfunzioni sociali e scolastiche. Mancano investimenti convinti e coordinati da parte dei servizi sia nel settore sociale sia in quello sanitario”. Quali sono i fronti su cui bisogna agire? “Bisogna sicuramente investire nella prevenzione. In particolare, lo strumento vincente - secondo me - è la scuola. Deve essere immediata la segnalazione dei casi di abbandono scolastico. A Milano, per esempio, si sta agendo portando avanti accordi di collaborazione tra gli uffici minorili della Procura e gli uffici scolastici”. Qual è la sua lettura dell’ultimo caso di cronaca, i 4 minori in auto che investono e uccidono una donna di 71 anni? “Si ricollega a una mancanza da parte della società di intercettare il disagio e non approntare tutti quegli interventi utili per evitare che i ragazzi non solo violino la legge ma che non abbiano neanche rispetto dell’altro né delle istituzioni”. I quattro ragazzi fermati non saranno processati perché il codice penale prevede la non imputabilità fino ai 14 anni. Secondo lei occorre abbassare la soglia di imputabilità? “Non ritengo sia utile. I ragazzi non sono in grado di comprendere le conseguenze delle loro azioni a quell’età e di conseguenza non si asterrebbero comunque dal porle in essere solo perché destinatari dell’azione penale. L’obiettivo, invece, è quello di correggere le loro azioni, far intraprendere loro un percorso di responsabilizzazione, guidandoli e orientandoli in assenza di figure autorevoli nell’ambito familiare”. I genitori rispondono civilmente in un caso come questo? “Sì, per omessa educazione e vigilanza. Il decreto Caivano ha introdotto poi un’ipotesi di reato a carico dei genitori per mancato rispetto dell’obbligo scolastico dei figli”. Nel decreto Caivano sono presenti delle misure anche per i minori di 14 anni. Può essere la norma uno strumento utile? “Il decreto ha previsto una maggiore collaborazione tra gli uffici minorili, la Questura e i servizi sociali per interventi più rapidi. Si rafforza la possibilità per il giudice minorile di applicare misure di sicurezza, prescrizioni educative anche per i minori al di sotto dei 14 anni”. Quali misure potrebbero essere adottate nei confronti dei quattro ragazzi che sono stati fermati a Milano? “La Procura presso il Tribunale dei minorenni potrebbe chiedere l’avvio di un procedimento amministrativo con la predisposizione di un progetto educativo da realizzarsi eventualmente anche attraverso il loro collocamento in comunità. Naturalmente qualora il percorso scolastico sia stato interrotto il primo obiettivo è quello di riavviarlo. Il tragico fatto di cui sono stati autori ha certamente segnato il loro futuro e ha spezzato la vita della vittima, causando un immenso dolore ai suoi familiari, ma dobbiamo sperare che la società riesca a rimediare alle carenze di attenzione e cure che finora hanno contraddistinto la vita di questi ragazzini”. “Sotto i 14 anni il carcere non è la soluzione, ma questo non assolve i genitori” di Gabriella Cerami La Repubblica, 13 agosto 2025 Sull’omicidio di Cecilia De Astis, il procuratore del tribunale dei minori di Milano: “Anche le neuroscienze confermano l’immaturità dei preadolescenti. Bisogna lavorare sull’inclusione”. Luca Villa, da procuratore del tribunale dei minori di Milano, può spiegare cosa prevede la legge nel caso in cui un reato venga commesso da minori di 14 anni? “Ci sono tre strade. Il procedimento civile, quello amministrativo o quello penale”. Perché non è previsto un processo penale se un minore di 14 anni uccide una persona? “È vero che avendo meno di 14 anni non ci sarà un processo penale perché non si è imputabili. Ma, se il minore è ritenuto socialmente pericoloso è prevista la possibilità di applicare le misure di sicurezza compreso l’ingresso in comunità. Purtroppo però ci sono sempre meno comunità”. E ciò cosa provoca? “Non si trovano comunità di rieducazione dove far andare i ragazzi e negli ultimi anni, specie al nord, il problema si è decisamente aggravato. Ci sono più ragazzi coinvolti nel circuito penale per reati gravi, meno comunità e ancor meno quelle terapeutiche in grado di gestire l’attuale complessità dei minori autori di reato”. Qualche esempio? Si può risolvere il problema radendo al suolo i campi rom, come dice il leader della Lega Matteo Salvini? “Lavoro a Milano da più di vent’anni nel settore minorile. Conosco bene la realtà dei campi nomadi e forse ci si dimentica dei tanti abusivi che erano presenti in città. Il lavoro, che è stato avviato da tempo è l’inclusione di queste realtà in circuiti virtuosi che puntino sull’integrazione e a una riduzione programmata e accompagnata delle realtà illegali. Altrimenti si aggrava solamente il problema”. Ha spiegato che, secondo la legge, il minore non è imputabile, ma il genitore del minore che commette il reato lo è? “Sul versante civile il genitore è responsabile dei danni cagionati dal figlio. Sul versante penale se si ritiene che il comportamento del figlio sia causato dai genitori, sia per un difetto nell’educazione che per un’omessa vigilanza su condotte che avvengono nella sua sfera di possibile intervento, può esserci una corresponsabilità. Ma è una valutazione che compete al pm degli adulti”. È giusto, secondo lei, che un minore di 14 anni non possa essere imputato? “Anche le neuroscienze ci confermano l’immaturità dei preadolescenti, è un principio presente nella gran parte degli ordinamenti a livello internazionale. Il fascino del lavoro con i minori è la conoscenza della storia, della biografia dei giovani coinvolti nel procedimento penale. Quando si leggono le relazioni, si ascoltano i minori e si conoscono i genitori, la domanda che spesso ci si pone è se quel ragazzo ha avuto davvero delle alternative nella vita”. Quali sono, dunque, gli strumenti alternativi al processo? “Come ho detto prima, gli strumenti per un intervento alternativo li abbiamo. Ma per metterli in campo gli enti locali devono essere dotati di risorse. Di sicuro l’alternativa per un infraquattordicenne non è il carcere: troverebbe solamente dei ragazzi più grandi da imitare”. Eppure, ha detto il vicepremier leghista poche settimane fa, bisogna equiparare i reati dei minorenni a quelli dei maggiorenni, anche perché i sedicenni “non sono più come una volta”... “Un tempo mi domandavo per quale ragione il legislatore del 1930, che non mi pare sia tacciabile di “buonismo”, avesse previsto la diminuzione fino a un terzo della pena per i reati commessi dai minorenni. Penso di averlo scoperto, o comunque mi sono dato una spiegazione, durante un incontro con dei ragazzi alcuni anni fa”. Può raccontare cosa è successo durante l’incontro di cui parla? “Quando mi hanno chiesto che pena si può infliggere per un furto di una moto, io dissi 6 mesi di carcere e loro mi guardarono increduli commentando che era tantissimo. Se in un processo condanno un quarantenne a 6 mesi per un furto, l’imputato si gira verso l’avvocato ringraziandolo e pensando che è andata bene”. E un ragazzo invece? “Da ragazzi la percezione del tempo è completamente diversa. Pensiamo a noi stessi: un anno scolastico durava una vita. Da adulti gli anni passano molto più velocemente ed è giusto che il legislatore tenga conto di questa diversa percezione del tempo”. Ci sono però reati diversi, si va dal furto di una moto all’uccisione di una donna... “Sulla diversità dei reati c’è solo l’impatto dei social, degli strumenti informatici, la diversa declinazione dei reati e un recente aumento della quota dei reati violenti. Ma se tale malessere è derivato, come sostengono alcuni psicologi dell’età evolutiva, dall’isolamento sociale derivato dall’abitudine dei genitori di regalare lo smartphone ai figli quando compiono 10 anni, torniamo all’inizio del discorso sulla responsabilità degli adulti”. Serve un surplus di attenzione da parte della società civile? “Serve maggiore attenzione da parte di tutti, ciascuno nel proprio ruolo”. Salute mentale, chiacchiere e repressione di Pietro Pellegrini* Il Manifesto, 13 agosto 2025 Il Piano d’azione salute mentale 2025-30 precisa che non vi saranno nuovi oneri a carico della finanza pubblica. I pur apprezzabili richiami alla visione olistica, alla salute mentale nell’intero arco di vita e alle direttive dell’Oms sembrano destinati a restare sulla carta. Lo stato reale dei servizi e la dotazione di personale non viene analizzata. Per colmare le carenze, servirebbe circa 1 miliardo di Euro. La struttura dei dipartimenti di salute mentale, comprensivi di neuropsichiatria infanzia adolescenza, psichiatria, dipendenze patologiche e psicologia non vede direttive precise e, per gli aspetti organizzativi, rinvia alle competenze regionali. Si prevede di istituire lo psicologo “di primo livello” senza tenere conto di altri documenti sull’organizzazione della psicologia clinica e di comunità. La salute mentale degli adolescenti ha bisogno di diversi interventi e di nuovi servizi territoriali ed ospedalieri. In particolare andrebbero programmati almeno 400 posti, onde evitare i ricoveri di persone di minore età in reparti per adulti. L’attenzione al neurosviluppo, Adhd, autismo e disabilità intellettiva, rischia di essere un mero enunciato, con conseguenti delusioni degli utenti e delle loro famiglie, se non si costituiranno equipe per realizzare i percorsi diagnostico terapeutico assistenziali comprensivi di servizi semiresidenziali, gruppi appartamento e progetti personalizzati con budget di salute. Lo stesso vale per la salute mentale perinatale, esordi psicotici, disturbi della nutrizione e alimentazione. In ambito penitenziario il piano propone un aumento del numero di posti delle articolazioni tutela salute mentale da 320 a oltre 3.000 (5% della popolazione detenuta) con l’idea di arrivare addirittura al 10%. Il costo gestionale da prevedere è di oltre 300 milioni anno oltre gli ingenti spese strutturali per realizzare i reparti. Con gli stessi investimenti si possono attuare misure alternative alla detenzione in carcere, favorire progetti di inserimento in strutture residenziali e comunità terapeutiche, promuovere progetti per l’abitare e il lavoro. Occorre introdurre liberazione anticipata e numero chiuso come prevede la proposta di legge Magi recentemente presentata. Per quanto attiene l’attuazione della legge 81/2014 non si sostengono i centri di salute mentale che seguono circa 7mila pazienti con misure giudiziarie, dei quali 4.800 circa in strutture residenziali, con un crescente impegno economico (circa 300 milioni/anno). La lettura della sicurezza e della gestione del rischio rilancia seppure indirettamente l’idea della pericolosità della persona con disturbi mentali con conseguenze sullo stigma e il pregiudizio. Una torsione securitaria tanto più preoccupante alla luce della proposta di legge Zaffini e in assenza di un chiaro e deciso orientamento verso il no restraint, il superamento delle contenzioni, la riduzione dei Tso. Totalmente nell’ombra il ruolo dell’ospedalità privata e la residenzialità psichiatrica, che pur assorbendo dal 50 al 70% delle risorse dei DSM non viene ripensata secondo le linee guida per la deistituzionalizzazione. Il tema dei diritti, della partecipazione di utenti esperti, di familiari, della rete degli enti del terzo settore non assume un ruolo centrale nell’affrontare i problemi di vita reale, quotidiana: il reddito, la casa il lavoro, la socialità. La salute mentale deve essere parte di tutte le politiche per affrontare i determinanti sociali, povertà diseguaglianze, solitudine, cronicità, polipatologie e invecchiamento della popolazione. Occorre un coinvolgimento di tutte le articolazioni sociali e un impegno politico trasversale e interistituzionale per un adeguato investimento in salute mentale almeno del 5% della spesa sanitaria. *Direttore dipartimento assistenziale integrato salute mentale dipendenze patologiche Ausl di Parma Ecco qua il Decreto sicurezza: chiede l’ambulanza al Cpr e lo mandano in carcere di Angela Nocioni L’Unità, 13 agosto 2025 Al Cpr di San Gervasio, in Basilicata, salgono sul tetto in 9 per chiedere di portare in ospedale chi collassa. Arrestati per rivolta e danneggiamento. Applicato l’arresto in flagranza differita. È finito dalla cella del Cpr a quella del carcere di Potenza. L’accusano di “rivolta e danneggiamento”, lo indicano come l’istigatore della protesta. Chiedeva dal tetto del Cpr di San Gervasio, in Basilicata, quel che i detenuti (illegalmente detenuti, tutti) chiedono invano da giorni: di poter essere portati in ospedale se collassano dal caldo, di chiamare un’ambulanza quando svengono, di avere un cibo per esseri umani. Siccome ci sono stati altri collassi e l’ambulanza non è stata chiamata, in 9 sono saliti il 5 agosto sul tetto per urlare quelle richieste. Due di loro sono stati arrestati in flagranza. Gli altri sette, riconosciuti nelle foto e video della polizia, sono stati arrestati in flagranza differita con l’applicazione della norma indecente dell’ultimo decreto sicurezza 2025 (D.L. 48/2025, convertito in legge n. 80 del 9 giugno 2025) che ha esteso l’uso della flagranza differita anche a reati commessi nel corso di manifestazioni pubbliche. Tutti gli arresti sono stati convalidati in un’unica udienza per direttissima. Il considerato promotore della protesta è in carcere a Potenza, gli altri sono stati spediti in vari Cpr. Due a Bari, uno forse a Macomer, in Sardegna. Gli altri non si sa. Nei giorni seguenti ci sono state almeno due espulsioni e altri trasferimenti. Dice Francesca Viviani dell’Associazione giuridica studi sull’immigrazione: “Proteste per le condizioni disumane in cui vengono tenuti rinchiusi lì dentro ce ne sono spesso, questa volta si è saputo perché fuori dal Cpr era in corso un pacifico sit-in di attivisti e associazioni per ricordare il Oussama Darkaoui, morto nel cpr il 5 agosto dell’anno scorso. Vengono usati come in tutti i Cpr psicofarmaci in eccesso, Rivotril e Xanax, anche per chi non ne avrebbe nessun bisogno, li tengono sedati”. L’avvocato Arturo Raffaele Covella: “Sono chiusi in gabbie con temperature in questi giorni altissime, non gli fanno usare il campo da calcetto, il cibo è pessimo e chi si sente male non viene curato. Dovrebbe stare almeno 5 ore al giorno un medico nel Cpr, ma è già successo che per giorni e giorni non va nessuno, l’abbiamo già denunciato in passato alla Procura”. Dice la garante provinciale dei detenuti, Carmen D’Anzi, che è entrata ieri insieme alla consigliera regionale dei 5 stelle Alessia Araneo: “Non ci hanno dato i nomi dei reclusi. Non ci sono ventilatori, fa caldissimo. I bagni sono alla turca e sia le docce che i bagni non hanno porte per evitare suicidi. I letti sono in cemento, ancorati al pavimento. Le celle hanno sbarre laterali e grate che impediscono di vedere il cielo”. Il Cpr è nel nulla, a sette chilometri di distanza dal paese di Palazzo San Gervasio, ma uscendo da lì l’unico modo per arrivare in paese è andarci a piedi perché non ci sono mezzi di collegamento. Era stato chiuso e poi è stato riaperto. Scrive Maurizio Tritto nel libro di Stefano Galieni e Yasmine Accardo Non ci potete rinchiudere ed. Left: “Il Comune voleva aprire comunque a tutti i costi per una questione economica territoriale. Palazzo è un paese di circa 3.500 persone effettivamente residenti (…). L’apertura del Cpr significava posti di lavoro ed opportunità economiche per albergatori e ristoratori locali, alimentari ed altri. Tanti tra carabinieri, polizia, guardia di finanza devono infatti, per svolgere le attività legate alla detenzione, collocarsi con stabilità a Palazzo utilizzando quindi le strutture locali per alloggio e vitto. (…) Nel gennaio 2020 avevo già fatto, sempre come cittadino, due esposti alla Procura di Potenza, chiedendo di indagare sull’abuso di psicofarmaci. I due esposti vennero considerati parzialmente fondati. Successivamente Adu (Associazione diritti umani) fece altri esposti, in particolare relativi alla mancanza di garanzia del diritto di difesa, le difficoltà di contatto con i legali e varie anomalie relative a nomine improprie o mancanza di nomine per le convalide dei trattenimenti. Ad esempio alcuni reclusi, nonostante avessero chiesto esplicitamente di poter essere assistiti dall’avvocata Bitonti non erano riusciti ad ottenerne la nomina, continuando ad essere assistiti da avvocati d’ufficio. Anche l’Asgi aveva più volte segnalato anomalie ed abusi in merito al diritto di difesa. Il boom su quanto accade all’interno del Cpr arriva con il servizio di Striscia la notizia, trasmesso il 20 gennaio 2023, in cui si mostrano i detenuti prendere psicofarmaci, da qui è partita una seconda indagine da parte della procura di Potenza. (…). Vorrei solo che questo luogo orribile chiudesse. Le indagini hanno portato agli arresti domiciliari di un ispettore di polizia e all’interdizione del direttore del centro (Alessandro Forlenza dell’ex Engel Italia srl) e di alcuni medici, come riportato su diverse testate giornalistiche e dallo stesso procuratore nelle interviste sul caso all’inizio di gennaio 2024. Nonostante il chiaro ed efficace servizio di Striscia la notizia, la Prefettura è rimasta in silenzio”. L’appello per la pace ha 12mila nomi. Quelli dei bimbi morti in guerra di Chiara Pazzaglia Avvenire, 13 agosto 2025 Dodicimila nomi di bambini morti dal 7 ottobre 2023 ad oggi in Israele e a Gaza, saranno letti - senza distinzione tra israeliani e palestinesi - durante una lunga maratona di preghiera, a partire dalle 15 di domani, presso i ruderi della chiesa di Santa Maria Assunta di Casaglia a Monte Sole, in provincia di Bologna, per iniziativa dell’arcivescovo, il cardinale Matteo Maria Zuppi, presidente della Cei, e dei monaci “dossettiani” della Piccola Famiglia dell’Annunziata. I dati Unicef parlano di 18mila piccole vittime e altrettanti feriti: Bologna, in questi due anni, ne ha accolti diverse decine nei propri ospedali, perché potessero curarsi e trovare conforto. Ma per chi ha perso la vita, l’unico gesto possibile è elencarli chiamandoli per nome, offrendo a loro e alle famiglie almeno il ricordo di un’identità. Il cardinale Zuppi non è nuovo a queste iniziative: ogni anno, con la Comunità di Sant’Egidio, Caritas, Comunità Papa Giovanni XXIII, Acli e altre associazioni guida la preghiera “Morire di speranza”, dedicata a chi muore in mare cercando una vita migliore. Anche in quell’occasione vengono letti i nomi delle vittime, per restituire loro dignità. La stessa cosa verrà fatta domani in un luogo simbolico del bolognese e della storia nazionale. È un po’ stupito Paolo Barabino, superiore del ramo maschile della Piccola Famiglia dell’Annunziata, che ha organizzato l’iniziativa con il cardinale pensandola come momento di preghiera pubblica, senza però aspettarsi l’eco mediatica e le numerose richieste di partecipazione che stanno giungendo in queste ore. “Non è propriamente un’idea originale - racconta - perché anche in altre città è stata realizzata”. I nomi delle vittime tra zero e dodici anni sono stati presi da elenchi ufficiali: “Le vittime israeliane sono 16, identificate grazie a un documento testuale fornito dal governo, con foto e storie. Le vittime palestinesi sono circa 12mila, contenute in un elenco con età, nomi in arabo e traslitterati. Questo è stato fornito dal ministero della salute di Gaza e riportato dal Washington Post in ordine di età” racconta il monaco. Considerando anche i minori tra i 12 e i 17 anni, i nomi salgono a 18mila. Sono stati uccisi nei loro letti, o mentre giocavano, al ritmo di uno all’ora. Per compilare l’elenco, il ministero della salute di Gaza ha utilizzato registri ospedalieri, degli obitori, testimonianze di familiari e fonti giornalistiche verificate. Ma, con l’avanzare del conflitto, identificare i morti è diventato sempre più difficile, a causa del collasso del sistema sanitario. La scelta del luogo della lettura è altamente simbolica. Tra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944 le colline di Monte Sole, nell’Appennino bolognese, furono teatro di uno dei più atroci eccidi compiuti dalle truppe naziste in Italia: circa 770 civili furono vittime di una brutale operazione di rastrellamento. Nella frazione di Casaglia, dove si terrà la lettura che durerà fino a tarda sera, gli abitanti cercarono rifugio nella chiesa di Santa Maria Assunta, di cui il 15 ricorre la festa, affidandosi alla preghiera. Ma l’arrivo dei soldati tedeschi trasformò quel luogo sacro in un teatro di morte: il parroco, don Ubaldo Marchioni, fu ucciso con una raffica di mitra insieme a tre anziani. Poco dopo, nel vicino cimitero, 197 persone, tra cui 52 bambini, furono massacrate. La violenza si estese alle frazioni vicine: dei 770 civili uccisi, circa un terzo erano bambini e diversi tra sacerdoti e suore subirono la stessa sorte, tra cui don Giovanni Fornasini, oggi beato, il cui corpo fu ritrovato mesi dopo, decapitato, sotto la neve. La brutalità dell’eccidio raggiunse livelli disumani: alcuni bambini furono gettati vivi tra le fiamme, altri decapitati mentre erano ancora in braccio alle madri. Monte Sole rimane un simbolo del dolore e della resistenza civile contro la barbarie della guerra e Giuseppe Dossetti non ha mai tralasciato di ricordare come i bambini siano sempre le vittime più innocenti di tutte le guerre. Ma la preghiera e la lettura guidate da Zuppi vogliono essere anche un segno di speranza e un appello a “fermare la devastazione della guerra nella Striscia di Gaza. Vogliamo ricordarne i nomi uno per uno, per onorare ognuno di loro e strapparlo all’anonimato. Nessuno è un numero. Ogni persona ha un nome, la sua identità. Tutti hanno pari dignità. Per la Terra Santa come tra Russia e Ucraina l’unica via davvero percorribile è mettersi attorno a un tavolo per giungere il prima possibile a un cessate il fuoco”.