Sentinelle di Michele Passione* Ristretti Orizzonti, 12 agosto 2025 “Il suicidio di una persona sottoposta a privazione della libertà personale è per definizione l’evento critico che esercita il maggiore impatto emotivo, che coinvolgere maggiormente gli operatori chiamati ad intervenire sia sotto il profilo operativo, ma anche sotto quello umano ed etico”. Comincia così, con un refuso e un’allitterazione, l’analisi dei decessi in carcere (Report relativo al periodo gennaio - luglio 2025) pubblicata l’8 agosto scorso sul sito istituzionale dal Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Poco più avanti (pg. 4), si afferma che “il suicidio costituisce un evento sentinella, in quanto si tratta di una morte potenzialmente evitabile”, riprendendo una definizione rinvenibile anche sul sito del Ministero della Salute - Agenas. Si direbbe un esercito nutrito, ma evidentemente poco efficace, se a montare la guardia non cambia nulla. Seguono dati, cifre, informazioni; qualche accennata analisi (in particolare, sulla macroscopica percentuale dei suicidi in Sezioni a custodia chiusa - 36 - a fronte di quelli - 8 - avvenuti in Sezioni a custodia aperta). A tal proposito, la prima chiave di lettura di una così alta differenza (3/4 del totale) viene proposta (Fattori strutturali) come legata al fatto che “le sezioni chiuse ospitano generalmente detenuti con profili di rischio più elevati o in situazioni disciplinari più severe”. In disparte la molteplicità dei fattori che possono incidere sulla drammatica scelta di togliersi la vita, è appena il caso di notare come queste Sezioni non siano affatto deputate ad ospitare detenuti sottoposti a “situazioni disciplinari più severe”, né con “profili di rischio più elevati”, potendosi rinvenire in altre ragioni (…) la causa di tale distinzione di regime detentivo. Tant’è. Alla citata analisi dei dati ha fatto seguito il piccato commento del Ministero della Giustizia, che ha affermato esserci “nessun allarme suicidi come stamane paventato dal Garante”, e che anzi, “il dato è al di sotto della media ereditata dal Governo nel 2022, che aveva visto 84 suicidi in un anno”. Tanto si sa, l’importante è dare la colpa ad altri, a chi ti ha preceduto, e poco importa che i numeri dicano altro. Pur essendo smentito dagli stessi dati forniti dal Garante (cfr. il grafico n.2, a pg.4 del Report, che riporta informazioni di flusso non riferibili solo all’ultimo semestre), l’Autorità di garanzia è immediatamente corsa al riparo, “smentendo” di aver creato interpretazione allarmistica, e soprattutto ponendosi “in linea con quanto rilevato dal Ministero della Giustizia”, affermando infine che “ogni altra interpretazione è, pertanto, fuorviante della realtà dei fatti”. In linea. Non è un buon segno ipotizzare, come è corso a fare il Garante nel suo Comunicato Stampa di ieri, che la riduzione dei suicidi nel semestre ultimo rispetto a quello dell’anno precedente possa “rappresentare un possibile miglioramento delle condizioni detentive o dell’efficacia delle misure di prevenzione adottate”, senza spiegare quali, limitandosi ad auspicare una riduzione della popolazione penitenziaria. Dare i numeri esige di fare i conti con la realtà, non con i desiderata governativi. Autonomia, indipendenza, esigono altro. Altrimenti basta il Dap, si fa prima e si risparmia. *Avvocato Suicidi in carcere, Nordio nega l’”allarme”. Il Garante lo segue di Eleonora Martini Il Manifesto, 12 agosto 2025 Le opposizioni protestano e parlano di “macabra contabilità” da parte di Nordio. Sono 48 il numero dei suicidi dietro le sbarre dall’inizio dell’anno, come attesta il Dap, o 53, come registrato dall’associazione Ristretti Orizzonti? Ma soprattutto, qual è la soglia per cui è lecito allarmarsi? Domande che attendono risposte, mentre nella calura d’agosto perfino una tragedia come quella delle morti in carcere può trasformarsi in un cinico calcolo politico. Succede così che il ministro Nordio abbia sentito ieri il bisogno di smentire l’”analisi dei decessi in carcere” pubblicata dal Garante nazionale delle persone private di libertà nel quale, pur registrando una leggera flessione di morti rispetto all’anno scorso, ne emerge comunque un quadro preoccupante e inaccettabile. “Nessun allarme come paventato stamane dal Garante. Il dato numerico, certamente sconfortante, registrato nei primi 8 mesi di quest’anno è sotto la media nazionale dell’ultimo triennio”, è il dispaccio correttivo che parte a metà pomeriggio da Via Arenula. Un colpo al cuore per il Collegio targato Merloni che subito dirama una “precisazione” e assesta una bacchettata alle agenzie di stampa che avrebbero “mal interpretato”. “In linea con quanto rilevato dal Ministero della Giustizia”, si legge nella nota del Garante Turrini Vita, “al 31 luglio 2025 si registra una diminuzione significativa del numero di suicidi rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, 12 in meno”. Mentre Irma Conti, nel collegio in quota Lega, incassa la “riduzione” come “possibile miglioramento delle condizioni detentive o dell’efficacia delle misure di prevenzione adottate”. Qualunque esse siano. E così, le 49 pagine del serio e dettagliato report, curato da Giovani Suriano (collaboratore anche di Mauro Palma), si perdono in uno squallido conteggio. Le opposizioni protestano e parlano di “macabra contabilità” da parte di Nordio. D’altronde, dopo l’analisi dei dati e soprattutto delle storie dei detenuti suicida, l’autore del rapporto scrive: “I numeri mostrano una situazione preoccupante: 294 suicidi totali in 4 anni rappresentano una media annuale di 73,5 casi. La variazione tra il minimo del 2021 (59 casi) e il picco del 2022 (84 casi) indica un incremento del 42% nel giro di un anno, seguito presumibilmente da una stabilizzazione o lieve riduzione negli anni successivi”. Poco importa, dunque, se il numero complessivo dei decessi sia, finora, di 146 o 153. Se si registra uno zero virgola in più o in meno. Interessa invece il “dato davvero significativo” e la “riflessione profonda sul ruolo delle “fragilità sociali” nel contesto detentivo” riportati nello stesso report del Garante: “16 persone ‘senza fissa dimora’ su 46 suicidi (34,8%) - si legge - suggeriscono come l’assenza di un riferimento abitativo stabile possa accentuare sentimenti di disperazione. La disoccupazione è un altro fattore cruciale”. E “il ‘basso grado di istruzione’ può rendere più difficile l’accesso a strumenti di supporto psicologico o sociale”. Tre condizioni che, secondo l’analista del Garante, “spesso si sovrappongono, alimentando una spirale di marginalizzazione che si amplifica in carcere”. Eppure, per il ministro Nordio non c’è alcun allarme. Suicidi in carcere, bufera su Nordio: “Nessun allarme, siamo sotto la media” di Irene Famà La Stampa, 12 agosto 2025 Sono oltre 140 gli uomini e le donne che hanno perso la vita in carcere dall’inizio dell’anno. Quarantasei detenuti hanno deciso di suicidarsi, chi togliendosi il respiro con lenzuola e lacci delle scarpe utilizzate come cappi chi inalando gas dai fornelletti da cucina. In quella possibilità di riscatto, in quel futuro, in quel reinserimento nella società non ci hanno creduto. E fuori dai cancelli dei penitenziari li attendeva solo la disperazione. Tre detenuti sono morti per cause da accertare, sessantanove per cause naturali e uno per un incidente. Lo raccontano i dati del Dap, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, contenuti nell’ultimo report del Garante nazionale per i diritti delle persone private della libertà. Questi i numeri. Il ministero della Giustizia diffonde una nota: “Nessun allarme suicidi”. Il dato, “certamente sconfortante, registrato nei primi otto mesi di questo anno è sotto la media nazionale dell’ultimo triennio”. Ed è la stessa Garante nazionale dei detenuti, l’avvocata Irma Conti, a precisare, in linea con quanto dichiarato dal ministero della Giustizia, che “al 31 luglio 2025 si registra una diminuzione significativa del numero di suicidi nelle carceri italiane rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. I dati, come riportati dallo stesso report pubblicato, evidenziano: al 31 luglio del 2024 un totale di 58 suicidi, che scendono a 46 allo stesso periodo di quest’anno, con una riduzione quindi di 12 unità”. E aggiunge: “Ogni altra interpretazione è, pertanto, fuorviante della realtà dei fatti”. Nessun “allarme”, dunque, ma “questa riduzione può rappresentare un possibile miglioramento delle condizioni detentive o dell’efficacia delle misure di prevenzione adottate”. Il ministero della Giustizia, nella nota, sottolinea che “nei primi otto mesi del 2025 si sono registrati 46 suicidi in carcere con una media mensile di sei”. E aggiunge: “Certamente un numero che impone misure strategiche di ampio respiro, sulle quali il Ministero è fortemente e quotidianamente impegnato”. Poi la “doverosa premessa per consentire una lettura corretta dei dati, che per quanto sconfortante, è al di sotto della media mensile ereditata dal governo nel 2022, che aveva visto 84 suicidi in un anno”. Un susseguirsi di sottolineature. E si scatena la polemica politica. Debora Serracchiani, responsabile giustizia del Partito Democratico, attacca: “Il cinismo, la spudoratezza e la spregiudicatezza del ministro Nordio e del suo ministero non conoscono limiti. Le carceri italiane sono ormai una vera e propria emergenza nazionale per combattere la quale questo governo non sta facendo nulla”. E aggiunge: “Tutte le proposte fatte fin qui, dalla liberazione anticipata, alle case territoriali, alle comunità e strutture per detenuti tossicodipendenti e con disagio psichiatrico, sono finite in un cassetto o sono state sonoramente bocciate dalla maggioranza. Del resto, un ministro che pensa che il sovraffollamento serva per impedire i suicidi, non conosce neppure la vergogna”. Anche la senatrice di Avs Ilaria Cucchi non nasconde lo sdegno: “In Italia oggi non c’è proprio nulla di normale sul tema carceri. Parlare di “normalizzazione” di fronte a decine e decine di morti che continuano a verificarsi in un Paese che vuol definirsi civile e democratico è un insulto all’intelligenza e alla sensibilità dei cittadini. “Nessuno” e cioè zero è il solo dato che può essere definito “normale” quando parliamo di suicidi in carcere”. E per Riccardo Magi, segretario di +Europa, “il governo prova grottescamente a smentire la gravità della situazione dei suicidi nelle carceri fornita dal Garante nazionale per i diritti delle persone private della libertà e fa una macabra contabilità per vincere la gara con i precedenti governi sui numeri dei detenuti che si sono tolti la vita”. Si discute, si fa di conto e sullo sfondo restano le storie di quei 44 uomini e 4 donne, di quei 24 italiani e 22 stranieri, per cui la cella è diventata oblio e ha stritolato l’anima. E c’è un numero ulteriore che dovrebbe scuotere le coscienze: se 24 detenuti suicidi era stati condannati in via definitiva, diciassette erano in attesa di un primo giudizio. Non erano ancora finiti davanti a un giudice. Fragilità rimaste invisibili. “L’approssimarsi della fine della pena e il sovraffollamento sono punti critici - è scritto nel rapporto - Il filo che lega tutti i fattori di rischio per il suicidio è l’incertezza e la perdita di speranza per il futuro, che porta a non tollerare un dolore mentale insopportabile e tormentoso il quale esclude ogni altra via di uscita rispetto alla morte”. Nel report si riflette sull’importanza degli strumenti di supporto psicologico e sociale. Su come “il suicidio costituisce un evento sentinella in quanto si tratta di una morte potenzialmente evitabile. E comporta la necessità di analizzare le condizioni organizzative, strutturali, procedurali, di risorse e formazione di ogni servizio”. E l’associazione Antigone commenta: “Il numero dei suicidi avvenuti in carcere fino ad oggi è ancora una volta drammatico. È una conta tragica che non ammette sottovalutazioni”. La morte di un uomo dietro le sbarre, affidato alle cure dello Stato, è una sconfitta per tutti. E lo è anche discutere sui numeri dei decessi. Suicidi nelle carceri, per il Garante “urgente occuparsene”. Ma per il ministero non c’è allarme di Stefania Da Lozzo huffingtonpost.it, 12 agosto 2025 Quarantasei suicidi dall’inizio dell’anno, ma per la Giustizia il “dato al di sotto della media mensile ereditata dal Governo nel 2022”. Dall’inizio del 2025, 46 persone si sono tolte la vita all’interno delle carceri italiane. Il dato, reso noto dal Garante nazionale per i diritti delle persone private della libertà, è contenuto nell’ultimo report basato sui dati del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria aggiornati al 31 luglio. Su un totale di oltre 140 decessi in carcere nei primi sette mesi dell’anno, i suicidi rappresentano il 31,5%, seguiti da 30 morti per cause da accertare (20,5%), 69 per cause naturali (47,3%) e una per cause accidentali (0,7%). “294 suicidi totali in quattro anni rappresentano una media annuale di 73,5 casi”, si legge nel report. “La variazione tra il minimo del 2021, 59 casi e il picco del 2022, 84 casi indica un incremento del 42% nel giro di un anno, seguito presumibilmente da una stabilizzazione o lieve riduzione negli anni successivi”. “Il Paese ha l’urgenza di adoperarsi per rendere l’esecuzione della pena non solo efficiente ed efficace sul piano della prevenzione” afferma il Garante “ma anche compatibile con il suo volto costituzionale, improntato ai principi di umanità, finalismo rieducativo ed ‘extrema ratio’ della detenzione”. Senza una “riduzione cospicua del numero dei detenuti” e investimenti nell’esecuzione penale esterna e nell’assistenza sociale, avverte il report, “la situazione, già insostenibile, potrà solo peggiorare”. Dei 46 suicidi, 44 riguardano uomini e 2 donne; 24 erano cittadini italiani e 22 stranieri provenienti da sette diversi Paesi. “Sebbene gli stranieri rappresentino solo il 31,56% della popolazione carceraria, sono coinvolti in circa il 47,8% dei suicidi. Questo scarto suggerisce un rischio suicidario significativamente più alto tra i detenuti stranieri”. L’età media delle vittime secondo il report, è circa 42 anni anche se si registrano 22 casi di suicidi sotto i 39 anni. “Risulta particolarmente significativo il dato secondo cui 17 delle persone suicidatesi erano in attesa di primo giudizio”, alto anche il numero di suicidi avvenuti a fine pena, 16 casi. Ad influire su questo fenomeno secondo il Garante ci sono diverse variabili tra cui l’età, l’impatto della detenzione, l’attesa del giudizio e le condizioni sociali ma anche “l’approssimarsi della fine della pena, la perdita di speranza per il futuro e l’incertezza” sono variabili che aumentano il rischio di suicidio tra i detenuti. I suicidi si sono verificati in 32 sono case circondariali, 4 case di reclusione e una casa lavoro. La regione con il maggior numero di casi è la Lombardia con 10 casi e in aumento anche i casi di autolesionismo 7.486 episodi di cui ben 693 nel solo carcere milanese di San Vittore mentre le manifestazioni di protesta, come scioperi della fame e della sete sono state 3500 in tutt’Italia. Dall’inizio dell’anno si sono registrati 70 decessi per cause naturali, il Garante sottolinea come esista una “crisi sanitaria strutturale del sistema penitenziario italiano”, con particolare gravità “per detenuti anziani e giovani adulti”. Secondo il Garante, serve “un intervento sistemico urgente che affronti le cause strutturali di questa mortalità evitabile, garantendo il diritto costituzionale alla salute anche in ambito penitenziario”. A poche ore dalla pubblicazione del dossier, arriva la replica ufficiale del Ministero della Giustizia: “Nessun allarme suicidi come stamani paventato dal Garante” si afferma con una nota “il dato numerico è sotto la media nazionale dell’ultimo triennio”. Nel dettaglio, “nei primi otto mesi del 2025 si registrano 48 suicidi nelle strutture penitenziarie con una media mensile di 6” una media che per quanto, “sconfortante” secondo il ministero è un “dato al di sotto della media mensile ereditata dal Governo nel 2022, che aveva visto 84 suicidi in un anno”. Il Ministero sottolinea nella nota il suo impegno in misure strategiche di ampio respiro per limitare il fenomeno dei suicidi nelle carceri. Carceri, per Nordio 46 suicidi “non sono un allarme”. Pd: “Cinismo senza limiti” di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 12 agosto 2025 Il ministero della Giustizia interviene con un comunicato per minimizzare l’ultimo report del Garante dei detenuti: ma i numeri sono aggiustati. Accuse dalle opposizioni. Non c’è “nessun allarme suicidi” nelle carceri italiane, perché nei primi sette mesi del 2025 si sono tolti la vita “solo” 46 detenuti: un numero “sotto la media nazionale dell’ultimo triennio”. È la tesi di un cinico comunicato stampa del ministero della Giustizia guidato da Carlo Nordio, emesso in risposta ai dati diffusi lunedì dal collegio del Garante nazionale dei detenuti e aggiornati al 31 luglio. Nel report si legge che i suicidi nei penitenziari finora sono stati appunto 46, una media di 6,5 al mese, e rappresentano circa un terzo delle cause di morte dietro le sbarre: si segnalano poi il “rischio suicidario significativamente più alto tra i detenuti stranieri” e l’“allarmante” tasso registrato tra i più giovani (un ristretto su due tra chi ha scelto di uccidersi aveva meno di 39 anni). “Il Paese ha l’urgenza di adoperarsi per rendere l’esecuzione della pena non solo efficiente ed efficace sul piano della prevenzione, ma anche e non secondariamente compatibile con il suo volto costituzionale, improntato ai principi di umanità, finalismo rieducativo ed extrema ratio della detenzione”, è l’appello del Garante. Un quadro che dovrebbe tormentare, o quantomeno indurre a un rispettoso silenzio, l’amministrazione responsabile delle condizioni delle carceri (il sovraffollamento medio, informa lo stesso report, è al 144,2%). E invece il dicastero di via Arenula nel primo pomeriggio sceglie di inviare una nota ai giornalisti in cui “smentisce” - così si legge nel titolo - “l’allarme del Garante”: “Nessun allarme suicidi come stamani paventato dal Garante. Il dato numerico, certamente sconfortante, registrato nei primi otto mesi di questo anno è sotto la media nazionale dell’ultimo triennio”, esordisce il comunicato. Un’affermazione che il ministero ricava stiracchiando i numeri: ai suicidi registrati fino a luglio, su cui si basa l’analisi del Garante, vengono aggiunti quelli segnalati finora nel mese di agosto, considerandoli però solo due, e non tre come invece indica il report. Il totale diventa quindi di 48, che viene diviso per otto mesi, nonostante agosto non sia ancora nemmeno a metà, ottenendo “una media mensile di sei”. Questo, secondo Nordio, sarebbe il dato “sotto la media dell’ultimo triennio” (che da gennaio a tutto agosto è di 6,9 suicidi al mese). Considerando le serie gennaio-luglio contenute nel report, però, il dato 2025 è invece perfettamente in linea con quello degli ultimi tre anni: nel 2022 e nel 2023 infatti i suicidi al 31 luglio erano stati 40, nel 2024 58, per una media che è esattamente di 46. Considerando anche il 2021 (quando erano stati 32) il trend risulta addirittura in crescita. La contro-narrazione però non si ferma qui. Dopo aver premesso che il numero dei suicidi “impone misure strategiche di ampio respiro, sulle quali il ministero è fortemente e quotidianamente impegnato” e promesso “la profusione di un diuturno e inesausto impegno”, il dicastero sente il bisogno di rivendicare che il dato è anche “al di sotto della media mensile ereditata dal governo nel 2022, che aveva visto 84 suicidi in un anno”. Ovviamente però non si cita il dato dello scorso anno, in pieno governo Meloni, quando i suicidi sono stati 83, praticamente altrettanti. Un atteggiamento che scatena le opposizioni: “Il cinismo, la spudoratezza e la spregiudicatezza del ministro Nordio e del suo ministero non conoscono limiti”, attacca la responsabile Giustizia del Pd Debora Serracchiani. “Le carceri italiane”, denuncia all’agenzia di stampa LaPresse, “sono ormai una vera e propria emergenza nazionale per combattere la quale questo governo non sta facendo nulla. Neppure l’allarme di oggi del solitamente silente Garante dei detenuti smuove le coscienze dei vertici di via Arenula. Tutte le proposte fatte fin qui, dalla liberazione anticipata, alle case territoriali, alle comunità e strutture per detenuti tossicodipendenti e con disagio psichiatrico, sono finite in un cassetto o sono state sonoramente bocciate dalla maggioranza. Del resto, un ministro che pensa che il sovraffollamento serva per impedire i suicidi, non conosce neppure la vergogna”, accusa, citando una recente uscita di Nordio secondo cui il maggior numero di compagni di cella aiuta a prevenire iniziative autolesionistiche. Sul comunicato del ministero interviene anche la senatrice di Alleanza Verdi e Sinistra Ilaria Cucchi: “Non si può parlare di “normalizzazione” quando un essere umano viene costretto al suicidio come unica via per sottrarsi alla tortura di una condizione disumana. Parlare di “normalizzazione” di fronte a decine e decine di morti che continuano a verificarsi in un Paese che vuol definirsi civile e democratico è un insulto all’intelligenza e alla sensibilità dei cittadini. “Nessuno”, e cioè zero, è il solo dato che può essere definito “normale” quando parliamo di suicidi in carcere”, sottolinea. Durissimo il segretario di +Europa Riccardo Magi: “Il governo prova grottescamente a smentire la gravità della situazione dei suicidi nelle carceri fornita dal Garante nazionale per i diritti delle persone private della libertà e fa una macabra contabilità per vincere la gara con i precedenti governi sui numeri dei detenuti che si sono tolti la vita. Peccato che il ministero della Giustizia cancelli i trenta decessi per cause da accertare, che si sommano al numero dei morti per cause naturali che, come sottolineato opportunamente dal Garante, sono l’effetto della drammatica carenza di una effettiva assistenza sanitaria in carcere. Un bollettino di guerra di cui il governo e il ministero della giustizia si dovrebbero solo vergognare”, accusa. E su X il senatore dem Filippo Sensi scrive: “Raramente mi sono vergognato di qualcosa di un governo del mio paese come di questa nota sui suicidi in carcere, diffusa oggi. Mi fa orrore il cinismo, il disprezzo, l’arroganza, la totale mancanza di comprensione e umanità. Sono stato a Rebibbia ieri. Ho trovato più dignità”. Dopo cinquant’anni di flop in Parlamento l’affettività in carcere è ancora un miraggio di Lorenzo D’Avack Il Dubbio, 12 agosto 2025 Mario Follieri, nel corso della VI Legislatura (1975), quale Senatore della Repubblica, svolse le funzioni di Relatore della legge sull’Ordinamento giudiziario, battendosi per l’affermazione del diritto alla sessualità dei detenuti (art. 15). La proposta, proprio a seguito dell’impegno di diversi senatori, fu approvata a Palazzo Madama e poi respinta alla Camera. La tesi di fondo sostenuta era quella che lo Stato, per essere autorevole e rispettato, dovesse dimostrarsi giusto prima di tutto nei confronti dei deboli e, quindi, dei detenuti. Aggiungasi un altro aspetto che fu evidenziato: il fenomeno della cosiddetta “omosessualità temporanea o indotta”. Questo essere omosessuali non è una scelta consapevole, appare di contro un effetto dell’adattamento al contesto carcerario. Questo pregiudica, destrutturandola, l’identità individuale e sociale del soggetto rappresentando uno degli aspetti più problematici della reclusione, durante la quale si possono sviluppare le “anormalità” sessuali e la conseguente sofferenza nell’individuo. Il problema della sessualità in carcere ha trovato oggi una adeguata soluzione grazie alla Corte Costituzionale (10/2024) e alla Cassazione (8/2024), che hanno riconosciuto il diritto all’affettività e alla sessualità dei detenuti. La Corte costituzionale ha tutelato il diritto all’affettività in carcere, dichiarando che la detenzione non può annullare i diritti fondamentali della persona. Consegue, pertanto, la dichiarata illegittimità costituzionale dell’articolo 18 dell’ordinamento penitenziario nella parte in cui non prevedeva che la persona detenuta potesse essere ammessa a svolgere i colloqui, anche affettivi, con il coniuge o la persona con lei stabilmente convivente, quando non ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina. La Cassazione, a sua volta, riaffermava la portata dei principi affermati dalla Consulta. Nella sentenza si ribadisce che la richiesta di poter svolgere colloqui con la propria moglie in condizioni di intimità debba essere effettivamente realizzata, essendo stato affermato che tali incontri costituiscono una legittima espressione del diritto all’affettività e alla coltivazione dei rapporti familiari, e possono essere negati solo per “ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina”. In questo contesto nascono le Linee guida del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (DAP) e le nuove regole per i colloqui intimi, stabilendo che possono essere concessi, nel numero di quelli visivi (mensili), con una durata massima di due ore e con la chiusura della porta. Ricordiamo che il carcere prospetta per il condannato l’obbligo di espiare la sanzione inflittagli, ma nello stesso tempo pone a carico dello Stato la responsabilità, impostagli dalla Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” (art. 27Cost.). Le vicende successive all’inizio dell’espiazione diventano, pertanto, un affare dell’Autorità preposta, tenuta a curarsene a norma dei principi dell’Ordinamento penitenziario. Peraltro, il ricordo dell’On. Follieri mostra come già nella metà degli anni Settanta cominciasse a farsi strada il principio che l’espiazione della pena non è tanto né solo un’afflizione, una limitazione della libertà, con tutte le conseguenze che da ciò derivano, ma è soprattutto la possibilità per il condannato di emendarsi, di migliorare le sue qualità, la sua intelligenza, la sua coscienza, per essere rimesso nel circuito sociale. In definitiva, possiamo ritenere che la rieducazione possa attuarsi attraverso i seguenti percorsi: lavoro, istruzione, libero culto di ogni religione e contiguità con la realtà, nonché vicinanza al nucleo familiare. E se si sostiene che vanno rispettati non solo i diritti umani del detenuto, ma anche i suoi bisogni umani, tra questi certamente è possibile far rientrare la sessualità. Le Linee guida del DAP fissano ora una disciplina volta a stabilire termini e modalità di esplicazione del diritto all’affettività, individuando i destinatari, interni ed esterni, per la concessione di colloqui intimi, fissando il loro numero, la loro durata, la loro frequenza, con la conseguente determinazione delle misure organizzative interne. Dai dati aggiornati al dicembre 2024, la platea di potenziali beneficiari è di circa 17mila detenuti su oltre 61 mila detenuti. Attualmente, nonostante i progressi, permangono difficoltà nell’attuazione di questo diritto, a causa della mancanza di spazi dedicati, e delle valutazioni discrezionali delle direzioni penitenziarie. In sintesi, mentre il diritto all’affettività e alla sessualità in carcere è stato riconosciuto, la sua reale attuazione presenta ancora delle necessità di ulteriori interventi normativi e strutturali. Numerose sono state le proposte di legge in materia di affettività e sessualità, calendarizzate per la discussione, ma mai discusse. Questo suscita critiche, imbarazzi, polemiche, oltre che perplessità. La sessualità costituisce l’unico aspetto della vita di relazione dei detenuti a non essere normativizzato, quasi che la privazione sessuale, come in passato, debba necessariamente continuare ad accompagnare lo stato di detenuto. La detenzione non è gratis e in carcere il lavoro è pochissimo di Anita Fallani Il Domani, 12 agosto 2025 “Un sistema repressivo e frustrante”. In una lettera scritta da alcune detenute del padiglione femminile vengono denunciate le criticità dell’istituto Lorusso e Cotugno di Torino: dalle perquisizioni invasive alla mancanza di spazi, dal caldo infernale alle difficoltà di lavorare. “Vieni punito perché hai praticato la sopraffazione e ti ritrovi in un sistema che in gran parte si regge sulla sopraffazione”. “Siamo alcune delle detenute del padiglione femminile del carcere di Torino. Torino da sempre è un carcere più che problematico, la nuova “gestione” nel reparto femminile non semplifica le cose, il pacchetto sicurezza ci impedisce anche le forme di protesta più pacifiche, lotte che il [carcere] femminile per richiamare l’attenzione porta avanti da anni, tanto da essere definite ‘le ragazze di Torino’” è l’incipit di una lettera inviata da una detenuta della casa circondariale Lorusso e Cotugno al collettivo torinese “Mamme per la libertà di dissenso”. La lettera parla delle difficoltà di convivenza obbligata tra le detenute nella sezione: gli spazi sono pochi e tocca usare i letti a castello, il caldo inoltre rende “il clima incandescente” e funziona come un detonatore per lo scoppio delle liti. Oltre alle perquisizioni che vengono definite “invasive ed eccessive, destabilizzano l’equilibrio mentale anche delle detenute sane psicologicamente”, l’autrice della lettera insiste sulla difficoltà per chi vive la detenzione di lavorare e guadagnare qualcosa, una lamentela ricorrente nelle lettere recapitate al collettivo. La detenzione non è gratis - Scrive: “Riguardo al lavoro ci dovrebbe essere una graduatoria la quale non viene rispettata, varie detenute hanno spese fuori di qua e figli da dover mantenere e il carcere è costoso”. Diversamente da come si è soliti credere, la detenzione non è gratis. L’articolo 188 del codice penale infatti recita: “Il condannato è obbligato a rimborsare all’erario dello Stato le spese per il proprio mantenimento negli istituti penitenziari dove ha scontato la pena”. Le persone detenute, quindi, devono contribuire economicamente al costo della propria detenzione e a disciplinare questo contributo c’è l’articolo 2 dell’Ordinamento penitenziario la cui approvazione risale al 1975. L’O.p., questo l’acronimo usato per riferirsi al regolamento, prevede che le spese a cui il condannato deve contribuire sono gli alimenti e il corredo e che “il rimborso delle spese di mantenimento ha luogo per una quota non superiore ai due terzi del costo reale”. La norma del 1975, tra l’altro, dice anche che l’obbligo di rimborso per le spese di mantenimento è un obbligo personale, non trasmissibile o cedibile a terzi. Insomma, come racconta anche la detenuta della casa circondariale di Torino, l’unica che può pagare il carcere è lei che il carcere lo sconta. Per decenni il costo mensile per la permanenza in cella addebitato al detenuto era di 56 euro ma da 10 anni esatti, invece, con l’entrata in vigore di una circolare firmata dall’allora ministro della Giustizia Andrea Orlando la quota mensile è salita a 112,36 euro. Chi è nelle condizioni fisiche e psichiche per poterlo fare chiede di lavorare in modo da saldare il debito contratto con lo Stato per la permanenza in cella e avere un po’ di soldi per comprare i beni previsti dal sopravitto, cioè quella lista approvata dall’istituto penitenziario contenente i generi alimentari e i beni per la cura personale che i detenuti possono acquistare a proprie spese. Un lavoro per pochi - “In carcere c’è pochissimo lavoro e quel poco che c’è viene spalmato su tutti quelli che ne fanno richiesta, in modo da far lavorare molto poco quante più persone possibili” ha riferito a Domani Alessio Scandurra, coordinatore dell’osservatorio dell’associazione Antigone. “Anche per noi dell’associazione è difficile capire davvero quante persone lavorano perché sappiamo che la ratio è far lavorare poco un po’ tutti. Si innesca quindi una rotazione, per cui in un anno alla stessa mansione lavorano più persone. Il problema, però, sta nel fatto che i dati forniti dal Ministero non fanno questa distinzione, riportano un dato aggregato che dice quanti sono quelli che lavorano in un anno. Alcuni, però, lavorano per pochissime ore e lo fanno per un periodo molto breve mentre altri che svolgono mansioni più impegnative, lavorano molte ore e per periodi più lunghi. Il dato aggregato del Ministero, però, questa cosa non la dice. Mette tutto insieme” ha spiegato Alessio Scandurra. I dati a disposizione sul sito del Ministero si fermano a dicembre del 2024 e riportano che i detenuti lavoranti alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria sono 18.063 mentre quelli che lavorano attraverso altri progetti sono 3.172. A fine 2024 la popolazione detenuta nelle carceri italiane sfiorava le 62mila persone di cui poco più di 21mila hanno avuto la possibilità di lavorare: appena un terzo. “C’è poi da aggiungere che i detenuti che lavorano alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria, che sono la maggioranza, percepiscono una remunerazione pari ai due terzi di quanto stabilito dai contratti collettivi nazionali di lavoro. Cioè fanno lo stesso lavoro delle persone in libertà ma, per legge, percepiscono un terzo in meno. Insomma, è difficile lavorare perché di lavoro ce n’è pochissimo ma quando ci riescono prendono poche centinaia di euro e da quella somma devono togliere i 112,36 delle spese di mantenimento che vengono subito sottratte dal conto” ha spiegato Alessio Scandurra. “La legge, comunque, dice che chi vive in condizioni di degenza può richiedere che venga estinto il debito maturato con il carcere per la vita passata in cella. Sappiamo per esperienza che molti il debito non lo saldano mai ma non sappiamo dire quanti siano, non siamo riusciti a trovare dati in merito. Certo è che chi può e vuole lavorare si trova nella condizione paradossale di avere una piccola somma di denaro che viene subito trattenuta dal carcere. Finisce che chi lavora per rendersi utile e non pesare sui familiari è l’unico che paga il prezzo della detenzione”, ha detto Scandurra. In riferimento alla lettera della detenuta ha commentato: “Il carcere è un sistema repressivo che crea enorme frustrazione. Queste persone entrano in carcere perché hanno infranto delle norme ma una volta lì ti ritrovi a vivere un sistema dove la violazione della legge è quotidiana e sistematica. Vieni punito perché hai praticato la sopraffazione e ti ritrovi in un sistema che in gran parte si regge sulla sopraffazione. Pensavi di essere il cattivo, ti scopri vittima. Si crea una grande confusione esistenziale, secondo me, no?”, ha concluso. Ha 90 anni, è cieco e lasciato senza cure: così in carcere viene violato il diritto alla salute di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 agosto 2025 Il ronzio monotono delle luci in corridoio s’interrompe solo quando B. B. alza le braccia e tenta di orientarsi con la stampella: un gesto che somiglia a un atto di fiducia, eppure si traduce in inciampi, urti contro il bordo del letto, un sordo tonfo a terra. In quasi trenta anni di detenzione, quell’uomo di novant’anni non aveva mai conosciuto una simile fragilità. Ma la vera svolta è arrivata il 28 giugno 2025, quando ha scoperto - senza che nessuno in carcere se ne accorgesse davvero - di aver perso la vista all’occhio destro. Per quattordici giorni la sua richiesta di soccorso è rimasta lettera morta. Nessun medico penitenziario, nessuna ambulanza interna, nessuna parola di conforto: soltanto il silenzio di chi - pur responsabile della sua salute - ha deciso che non era urgente. È soltanto dopo due settimane che la direzione del carcere di Opera si “accorge” del problema e programma per il 14 luglio una visita oculistica al Fatebenefratelli di Milano. Ma il 14 luglio la cecità colpisce anche l’altro occhio, e solo il giorno successivo B. B. ottiene una TAC cranica. L’avvocata Simona Giannetti, suo legale, ha potuto apprendere la cecità totale di un uomo che negli anni ‘ 90 - quando entrò dietro le mura di Opera - aveva ancora il sapore delle televisioni a tubo catodico e delle riviste ingiallite. Ma per la Casa di Reclusione, nei documenti ufficiali, quella diagnosi è soltanto una scusa per restare nel suo limbo: la cartella clinica di B. B. non è mai stata consegnata al tutore P. B. né alla difesa, nonostante entrambi fossero legittimati a fornire il consenso informato ai trattamenti. Dal 21 al 28 luglio l’avvocata Giannetti invia diffide e solleciti: prima alla direzione sanitaria, poi al Magistrato di Sorveglianza di Milano, chiedendo un ricovero urgente, il trasferimento in ospedale e l’accesso ai documenti clinici. Ogni lettera è un grido di rabbia civile: “È irrimediabilmente violato l’articolo 32 della Costituzione”, scrive, “il diritto alla salute non può essere soggetto a rinvii o interpretazioni”: eppure nessuna risposta è arrivata. L’istanza depositata il 25 luglio giace su un tavolo senza data di discussione, come se il tempo delle carte avesse meno valore di quello di un detenuto senza vista. A quest’ultima è seguita ordinanza istruttoria del Magistrato di Sorveglianza che ha chiesto una relazione al carcere -, non ancora decisa. Nel frattempo, la difesa tenta un altro appello: un permesso premio di poche ore, per permettere a B. B. di coltivare gratuitamente un pezzetto di giardino di una parrocchia di fronte al carcere. Il parroco, vecchia conoscenza di B. B., si era offerto di seguirlo, ma rigettata la richiesta con motivazioni che suonano come una beffa: “assenza di prova di revisione critica”, “mancata partecipazione ai corsi di giustizia riparativa”, corsi che un novantenne e cieco non può certo frequentare. È qui il paradosso: la “collaborazione” diventa un requisito astratto che nessuno si cura di spiegare, mentre il diritto alla cura - sancito dall’articolo 11 dell’Ordinamento Penitenziario - è un’idea rimasta sulla carta. Nei rapporti medici, infatti, si parla di “declino cognitivo”, di “necessità di monitoraggio neurologico e assistenza quotidiana”, ma in cella l’unico supporto è fornito da un compagno di reclusione ultra-settantenne, che gli versa la minestra, rifà il letto, lo sorregge quando la stampella lo abbandona. La storia di B. B. non è un caso isolato: è il tragico specchio di un sistema che, di fronte all’urgenza di un novantenne cieco, preferisce aggrapparsi a formalismi e cavilli anziché al buon senso. I silenzi di Opera diventano il coro di un’apparente normalità, in cui perfino la Cassazione, nel rigettare il ricorso sul permesso premio, non ha sentito il bisogno di prendere in considerazione la sua salute. Adesso si confida almeno a un interessamento del Garante regionale lombardo per le persone private della libertà personale. La lettera inviata dall’avvocata Giannetti è un documento implacabile: punto per punto ricostruisce le istanze inevase, il mancato dialogo tra amministrazione e direzione sanitaria, il rifiuto sistematico di ogni apertura. È un appello che chiede solo due cose banali: un ricovero urgente e la consegna della cartella clinica. Ma è abbastanza per restituire a B. B. l’ultimo scampolo di umanità che gli rimane. Se le istituzioni non interverranno, la vera sconfitta non sarà la cecità di un uomo di novant’anni, ma il rifiuto di riconoscerlo come persona. E la pena più dura non sarà quella già scontata per intero, ma l’indifferenza che continua a trattarlo come un’ombra. Sulla carta, lo scopo dell’espiazione della pena è ben altro. Come la costituzione insegna. Sorteggio, Csm, concorsi, le due linee sulla giustizia. Il Governo verso la stretta di Francesco Bechis Il Messaggero, 12 agosto 2025 Sul tavolo del ministro Nordio, in vista della ripresa di settembre, ci sono già le leggi attuative della riforma costituzionale. Mediazione con i pm più lontana. Due riforme in una. Bastone e carota. Da settimane i tecnici del ministero della Giustizia lavorano alle leggi attuative della separazione delle carriere di giudici e pm. Ovvero ai testi normativi che dovranno trasformare in realtà la riforma costituzionale delle toghe sognata a suo tempo da Silvio Berlusconi e avviata a un semaforo verde del Parlamento entro la fine dell’autunno. Partito in vacanza tra Costa azzurra e montagna, il Guardasigilli Carlo Nordio troverà al rientro sulla sua scrivania due diverse versioni della riforma pronte, o quasi, a un primo varo. Una allunga una mano ai magistrati. L’altra no. E ad avere più chance di andare avanti, se il clima fra governo e giudici dovesse toccare ancora temperature tropicali, è proprio quest’ultima. Una riforma “dura”, tradotta in leggi che davvero separano una volta per tutte le strade di magistrati inquirenti e giudicanti. A partire dal sorteggio secco dei togati dentro al Consiglio superiore della magistratura. Un tiro alla sorte senza mediazioni di alcun tipo per scegliere i magistrati che dovranno sedere nel plenum di Palazzo dei Marescialli. Sperando così, come ama ripetere la premier, di “scardinare” le correnti al suo interno. Nello stesso pacchetto di leggi limate dai consiglieri di Nordio, spiegano fonti qualificate, si affrontano dossier di primissimo ordine, al netto del sorteggio. Come il concorso per l’accesso alla magistratura. Se dovesse passare la linea oltranzista i concorsi diventeranno due, paralleli. Per chiarire fin da subito agli aspiranti magistrati che saranno costretti a scegliere di fronte al bivio pm-giudici. Senza poter tornare indietro. Che dire invece del Csm? Anche l’organo di autogoverno delle toghe italiane, in questa versione, finirebbe diviso in due, uno per gli inquirenti, l’altro per i magistrati giudicanti. Magari perfino con due sedi separate: è un’idea sul tavolo, anche se rischia di rivelarsi assai costosa. Fra le proposte in cantiere caldeggiate dai “falchi” al ministero, l’idea di estendere ad altre magistrature la competenza dell’Alta Corte, l’organo che dovrà dirimere le controversie disciplinari dei magistrati. Come alla Corte dei Conti o alla magistratura amministrativa. E la riforma “soft”? È pronta anche questa. Prevede il sorteggio “temperato” dei membri togati del Consiglio superiore della magistratura, ovvero lascia ai magistrati uno spazio per “selezionare” le toghe a Palazzo dei Marescialli. E sempre questa versione, invece che sdoppiarlo, immagina due sezioni all’interno di un unico Csm: una per i pm, un’altra per i giudici. Come unico resterebbe il concorso per accedere alle due diverse carriere. Insomma una separazione “light”, senza scardinare dalle fondamenta il sistema giudiziario italiano. I lavori dovevano procedere più a rilento. Dopotutto prima va approvata la riforma costituzionale in Parlamento, poi il centrodestra inizierà a preparare la battaglia referendaria. Invece nelle ultime settimane c’è stata un’accelerazione. Ed ecco che la riforma “bifronte” dei giudici - o meglio la sua attuazione - è alle ultime limature. La mano di Nordio e del governo sarà piuma o ferro, per citare Mario Brega? Dipende, si diceva, dal clima di collaborazione fra poteri dello Stato alla ripresa post-estiva. I precedenti - con la recente escalation di tensioni, dalla vicenda Almasri al caso Open Arms - fanno presagire una mano “pesante” del governo quando la riforma dei giudici dovrà essere calata a terra. Certo, tutto può succedere. Il Colle osserva da vicino. E la stessa premier vuole preservare alcuni equilibri. Proprio sulle leggi attuative della riforma si fondava l’intesa - rivelatasi poi assai fragile - fra Palazzo Chigi e l’Associazione nazionale magistrati guidata da Cesare Parodi. Riassumibile così, dal punto di vista del governo: noi andiamo avanti sulla riforma, ma troveremo un modo per smorzare e tagliare dove serve nella fase attuativa. Ora tutto rischia di tornare in discussione. Non è escluso che alla fine il governo imbocchi un terzo binario: un “mix” fra le due versioni pronte sulla scrivania del ministro. Si vedrà. Di sicuro la giustizia dominerà l’agenda nei mesi a venire. Ieri è tornata al centro, ma per il dossier carceri. Il ministero di Nordio ha smentito l’allarme sui suicidi in cella lanciato dal garante dei detenuti, nel 2025 “sono sotto la media nazionale”. Quanto basta per innescare le opposizioni. Affonda Riccardo Magi, segretario di Più Europa: “Sui suicidi, una strage di Stato, il governo fa macabra contabilità”. Riforme e Pnrr. Le misure insufficienti introdotte nel sistema della giustizia di Claudio Castelli Il Sole 24 Ore, 12 agosto 2025 Con il Pnrr giustizia ci siamo presi impegni estremamente ambiziosi di digitalizzazione, riduzione dei tempi processuali ed eliminazione dell’arretrato civile. Mentre per il raggiungimento di alcuni di questi (il Dt penale e l’arretrato) siamo prossimi all’obiettivo, quello di riduzione del 40% dei tempi civili (il Dt) è lontano e oggi sembra irrealistico: ala. dicembre 2024 eravamo arrivati ad una diminuzione del 20,1% e il dato sulle pendenze del I trimestre 2025 non è incoraggiante (solo - 0,4 per cento). Un intervento di Ministero e governo era quindi atteso, specie dopo che il C.S.M. era stato sollecitato ed aveva avanzato una serie di proposte ed idee. Il 4 agosto è stato approvato un D.L. che, al di là della propaganda, è per certi versi deludente e per altri pericoloso. Senza per questo trascurare le misure positive e condivisibili come l’estensione dell’utilizzo dei Giudici onorari di pace nei Tribunali, la proroga della permanenza dei giudici ausiliari nelle Corti di Appello e l’aumento di organico della magistratura di sorveglianza di 58 unità. Per arrivare ad una diminuzione del Dt al 40% in pochi mesi avremmo bisogno di un calo delle pendenze o di un aumento delle definizioni di circa 200.000 procedimenti. Per fare questo bisogna pensare ad interventi immediati di abbattimento delle pendenze, se possibile ricorrendo a risorse dall’esterno. Difatti puntare fondamentalmente su applicazioni dagli uffici virtuosi a quelli in difficoltà rischia di risolversi in una partita di giro con guadagni per gli uni e perdite per gli altri. Gli interventi proposti sono limitati ed insufficienti: so magistrati del massimario applicati alle udienze civili della Cassazione, 20 magistrati applicati nelle Corti di Appello “critiche”. Anche la misura simbolicamente più efficace, che pure presenta moltissime controindicazioni, ovvero l’applicazione da remoto di soci magistrati che continuando ad essere assegnati nei loro uffici di appartenenza, dovrebbero scrivere altre so sentenze civili a testa, porterebbe, se rispettati gli standard, a 25.000 definizioni in più, del tutto insufficienti. Con il risultato, però di aprire una nuova frontiera nel processo civile, in cui concetti come il giudice naturale, la competenza territoriale, l’udienza in presenza, la stessa qualità dei provvedimenti verrebbero superati ed abbandonati per introdurre un insidiosissimo lavoro a cottimo (giustamente appena abbandonato per i giudici di pace). Ed è ben difficile che poi si torni indietro, come tutta la normativa di emergenza ci insegna. La concessione di poteri straordinari ai capi degli uffici per derogare alle norme e per pigiare sull’acceleratore della produttività rivela una visione organizzativa autoritaria e perdente: sappiamo che l’organizzazione vincente è quella che coinvolge, basata su regole condivise. Né derogare ai carichi esigibili può portare ad un aumento delle definizioni, dato che già oggi questi limiti sono abitualmente superati. La ristrutturazione del tirocinio dei neo magistrati non solo è del tutto irrazionale (8 mesi nelle Corti di Appello civili ed uno solo in Procura), ma è ininfluente ai fini della produttività dell’ufficio. Del resto il tirocinio, come dice la parola stessa, serve per formare e preparare alle funzioni giudiziarie, non per dare ausilio agli uffici giudiziari. Sorprende poi che non si adottino gli interventi più efficaci suggeriti dal CSM: non una parola sulla sorte degli oltre 8.000 funzionari UPP (su cui le promesse di stabilizzazione sono sempre più lontane), nessun ricorso a magistrati civili in pensione e la rinuncia ad intervenire sui procedimenti tributari ed in tema di cittadinanza e protezione internazionale che da soli potevano ridurre di oltre 100.000 procedimenti le pendenze, dando una fortissima spinta alla riduzione del Dt. Le presenti sono quindi misure pacificamente insufficienti che più che coinvolgere e responsabilizzare sembrano voler spostare la responsabilità da un Ministero finora in larga parte inerte sul Pnrr agli uffici giudiziari. Ci vuole più responsabilità e più coraggio con un’ottica di coinvolgimento e di sinergia e c’è da augurarsi che in sede di conversione ci si renda conto di limiti e pericoli. È evidente che in un momento in cui la magistratura viene costantemente delegittimata, questo è particolarmente difficile. Ma questa sarebbe la necessità per raggiungere obiettivi cardine per il nostro Paese e che rappresenterebbero un fortissimo miglioramento del funzionamento della giustizia. Io giudice dico che il sorteggio è il solo rimedio al correntismo di Alberto Iannuzzi* Il Dubbio, 12 agosto 2025 Il sistema dell’estrazione a sorte è destinato a spezzare il legame esistente tra i componenti eletti nel Csm e le correnti associative. La proposta di sorteggiare i componenti del Csm, al di là del giudizio complessivo sulla riforma della giustizia proposta dal ministro Nordio, ha il merito di aver riportato l’attenzione sulle questioni istituzionali riguardanti il Csm, che sembravano archiviate dopo la riforma Cartabia. A tal riguardo, è bene subito evidenziare che la scelta del sistema elettorale non è soltanto una questione di osservanza e coerenza con i principi costituzionali, dal momento che è necessario individuare anche le condizioni più idonee a dare attuazione a quei principi, avuto riguardo alle dinamiche su cui la normativa andrà ad incidere. Se così è, il punto di avvio di qualsiasi riflessione sulla riforma elettorale del Csn non può non trarre l’abbrivio dallo “scandalo Palamara” e da ciò che ha significato per la magistratura, scandalo che - sia beninteso - non può essere confinato al ristretto ambito delle responsabilità di Luca Palamara, dal momento che esso, per come si evince in maniera nitida dalle migliaia di conversazioni cristallizzate nelle chat acquisite, risulta essere il portato di un sistema che ha inciso profondamente sul funzionamento del Csm, trasformandolo in un organo governato dalla lottizzazione degli incarichi, con la sistematica sostituzione del criterio del merito con quello dell’appartenenza alla corrente associativa. In particolare, la vicenda relativa alla trattativa per la nomina del procuratore della Repubblica di Roma, nota come scandalo dell’”Hotel Champagne”, appare solo quella più eclatante e allarmante, in quanto dimostrativa dell’esistenza di un sistema di interferenze esterne all’organo consiliare, portatore di interessi opachi. Nonostante queste premesse, che hanno spinto il Capo dello Stato Mattarella a parlare di “modestia etica”, la riforma elettorale targata Cartabia, che pure sembrava voler porre fine al sistema correntocratico, non ha posto un argine alla degenerazione correntizia, se è vero che nell’attuale Csm i consiglieri, sebbene eletti formalmente al di fuori delle correnti di appartenenza, nell’esercizio del voto all’interno del Csm continuano a far riferimento, tranne rare eccezioni, agli schieramenti correntizi di appartenenza. Insomma, le correnti continuano a spirare ancora con forza! Per converso, il sistema dell’estrazione a sorte è destinato a spezzare il legame esistente tra i componenti eletti nel Csm e le correnti associative, creando le condizioni oggettive affinché ciascun consigliere possa essere libero di valutare e decidere le pratiche consiliari, applicando i criteri previsti dalla legge, senza essere condizionato dall’appartenenza correntizia, seguendo cioè la stessa logica con cui ciascun magistrato, dotato di indipendenza, decide le cause sottoposte alla propria cognizione. Peraltro, nessun pregiudizio subirebbe l’associazionismo giudiziario: l’Anm tornerebbe a svolgere la sua naturale funzione di tutela dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura, oltre che di controllo dell’attività del Csm, e le correnti associative ritornerebbero a essere espressione dei diversi orientamenti ideali esistenti all’interno della magistratura associata, secondo la loro originaria vocazione culturale. In altri termini, è necessario che il Csm sia meno governato dalla politica e dalle correnti associative, che spesso strizzano l’occhiolino alla maggioranza governativa di turno, diventando inflessibili con i magistrati scomodi, non allineati e non iscritti ad alcuna corrente, che hanno il solo torto di svolgere la loro funzione in maniera indipendente, preoccupandosi solo di applicare il principio della soggezione alla legge. Non hanno ragion d’essere, invece, le obiezioni sollevate sul sorteggio dei componenti togati del Csm, laddove evidenziano oltre misura alcune criticità, ottenebrando e obliterando con disinvoltura i mali evidenti del sistema correntizio e la perdita totale di autorevolezza e di prestigio che ne è derivata. In particolare, a coloro che si affannano a esprimere dubbi e perplessità circa il rispetto delle regole democratiche bisogna ricordare che il Csm non è un organo di rappresentanza politica, e che il sorteggio rappresenta la più antica procedura democratica, già in uso nell’Atene del V secolo a. C., e oggi diffusa nelle giurie popolari. Quanto poi alla capacità dei sorteggiati di rappresentare degnamente il Csm, occorre rammentare che i magistrati, nello svolgimento dell’attività giudiziaria, anche in sede monocratica, possono essere chiamati ad occuparsi di vicende ben più delicate delle pratiche consiliari, vicende che spesso richiedono valutazioni estremamente complesse, e che nel Consiglio possono avvalersi di un apparato di funzionari in possesso di elevate competenze professionali. E comunque sia, “contra factum non valet argumentum”! La risposta più adeguata alle perplessità sollevate in merito alla presunta idoneità dei sorteggiati risiede proprio nella concreta esperienza istituzionale, dal momento che il primo sorteggiato della storia consiliare, il consigliere Andrea Mirenda, ha dimostrato che qualunque magistrato indipendente e autonomo è in grado di affrontare degnamente e fattivamente l’impegno consiliare anche se privo di copertura correntizia. In conclusione, ritengo che il sorteggio, pur con i limiti propri di ogni sistema elettorale, non vada giudicato con un atteggiamento preconcetto, e, anzi, debba essere considerato con favore, essendo oggi l’unico rimedio in grado di stroncare in radice il sistema correntocratico e di restituire credibilità all’autogoverno della magistratura. *Già presidente vicario della Corte di appello di Potenza Per risolvere la carenza di braccialetti elettronici basterebbe comprarli. Ma il Governo non lo fa di Federica Olivo huffingtonpost.it, 12 agosto 2025 I dispositivi sono insufficienti per tutelare tutte le donne che hanno subito maltrattamenti, stalking o reati simili. Fastweb ne fornisce 1200 al mese al ministero dell’Interno: “E siamo disposti a rinegoziare il contratto”. Ma nell’esecutivo nessuno se ne occupa. Da Milano alla Campania, passando per Lazio e Toscana, la situazione è diversa ma l’allarme è lo stesso: mancano i braccialetti elettronici. O meglio, sono pochi. Insufficienti per tutelare tutte le donne che hanno subito maltrattamenti, stalking o reati simili. Ma cosa sono i braccialetti elettronici? Si tratta di strumenti di sicurezza, simili, appunto, a un bracciale, o meglio a una cavigliera, che hanno tre scopi. Possono essere imposti (su disposizione del giudice e in base alla gravità del caso) ai denunciati per stalking, a chi è stato accusato di un reato definito da “codice rosso” - violenza sessuale, maltrattamenti, violazione del divieto di avvicinamento alla vittima ecc. - e, infine, ai detenuti hanno i requisiti per uscire dal carcere e andare ai domiciliari, restando, però sotto il controllo della Polizia. Con una legge del 2023 è stata estesa di molto la possibilità di utilizzare il braccialetto elettronico, a tutela delle donne. In effetti lo strumento, come ci fanno notare fonti delle forze dell’ordine, se usato, è piuttosto efficace. Perché consente mettere in sicurezza le donne che denunciano uno stalker o un compagno violento, senza dover mandare direttamente l’accusato in carcere. Negli ultimi mesi, come ha fatto notare ad aprile 2025 il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, è stato registrato un notevole aumento del ricorso al braccialetto elettronico: “Sono attualmente più di 12 mila i braccialetti elettronici attivati per le diverse finalità applicative, di cui oltre 5.700 in chiave antistalking”, ha dichiarato il ministro. Un incremento, rispetto a soli sei mesi prima, di almeno 1500 unità. Ci sono, insomma, 1500 donne in più aiutate dallo Stato. Ma le altre? La domanda sorge spontanea se si pensa che - secondo i dati della Polizia di Stato aggiornati a marzo 2025 - le segnalazioni di stalking sono state 20.258, nel solo 2024. Se si esclude una lievissima flessione nel 2022, il dato è in costante aumento dal 2019. Naturalmente è possibile una sola persona sia stata accusata di stalking più di una volta. E non è detto che a tutte le denunce debba corrispondere la richiesta di braccialetto elettronico: per i casi più gravi c’è il carcere preventivo, per quelli meno gravi possono esserci misure diverse dal braccialetto, o anche niente. Ma anche tenendo in considerazione questi elementi, il problema resta. Quale problema? Che di braccialetti ce ne sono pochi. O, almeno molti meno di quanti ne servono in concreto. In Lazio, ad esempio, secondo il procuratore di Tivoli Francesco Menditto, ne mancano 300. E, quindi, 300 donne restano senza tutela. Perché i giudici, se non ci sono le condizioni per la custodia cautelare in carcere, non possono fare altro che lasciare l’uomo a piede libero. E se questo non rispetta il divieto di avvicinarsi alla donna, non ci sarà nessun braccialetto a segnalare alla Polizia un intervento immediato. Per risolvere il problema bisognerebbe avere più braccialetti disponibili. Non è un’impresa impossibile, basterebbe chiedere ufficialmente al fornitore di produrne di più. E pagarlo per questo. Chi li fornisce al governo, grazie a un contratto con il ministero dell’Interno, è Fastweb. Contattata da HuffPost, la società spiega: “Il contratto con il ministero dell’Interno prevede l’attivazione in media di mille braccialetti elettronici al mese, con punte fino a 1200”. Con le nuove norme a tutela delle donne, però, “le richieste di attivazione sono aumentate in modo esponenziale, determinando la rapida e sistematica saturazione delle attuali soglie contrattuali e rendendo impossibile soddisfare tutte le esigenze”. La società di telecomunicazioni assicura che negli ultimi mesi, nonostante tutto, ha attivato sempre più di 1200 bracialetti e, ci viene ancora spiegato, “si è resa disponibile da subito con il ministero a rinegoziare i dispositivi da fornire”. Nonostante questa apertura, però, nessun cambiamento è all’orizzonte. Si assiste, inoltre, a un rimpallo di responsabilità tra i ministeri: da un lato il ministero della Giustizia, che sostiene che a gestire il dossier debba essere il Viminale perché “materialmente fa il contratto”. Dall’altro il Viminale che, invece, ritiene che a dover dare l’input per modificare il contratto debba essere via Arenula perché, è il senso del ragionamento, “visto che a decidere a chi assegnare il braccialetto elettronico è il giudice”. In mezzo a questo balletto, il governo che ha scritto il reato di femminicidio, imponendo per questo l’ergastolo, lascia le donne vive senza tutela. La carenza di questi dispositivi ha anche un’altra conseguenza: la lesione dei diritti dei detenuti. Capita, infatti, che il giudice stabilisca che un recluso possa uscire dal carcere e andare ai domiciliari, a patto che indossi il braccialetto elettronico. Se, però, questo braccialetto non c’è, il detenuto deve restare (o tornare) in carcere. L’associazione Antigone segnala ad HuffPost alcuni casi paradossali: è successo, infatti, che alcuni detenuti siano usciti dal carcere e accompagnati a casa dalla Polizia penitenziaria, perché il giudice aveva dato il via libera ai domiciliari. Arrivati a casa, però, il tecnico che avrebbe dovuto installare il braccialetto non c’era. Risultato? Il detenuto è stato riportato in prigione, con la promessa che di uscire la settimana successiva. Ammesso che, nel mentre, avessero trovato il braccialetto. Con buona pace dell’efficienza della giustizia. E della necessità di combattere il sovraffollamento delle carceri. Detenuti al 41-bis: legittimo vietargli la cottura di alimenti oltre le ore 20 di Vincenzo Giglio terzultimafermata.blog, 12 agosto 2025 Cassazione penale, Sez. 1^, sentenza n. 28012/2025, 15/30 luglio 2025, ha affermato la legittimità del divieto per i detenuti sottoposti al regime dell’art. 41-bis, Ord. Pen., di cuocere alimenti oltre le ore 20. Con ordinanza emessa il 28 novembre 2024 il Tribunale di Sorveglianza rigettava il reclamo proposto da AP, detenuto sottoposto al regime speciale di cui all’art. 41-bis legge 26 giugno 1975, n. 354 (Ord. pen.), presso la Casa circondariale di XXX, finalizzato a ottenere l’autorizzazione a trattenere nella propria cella, oltre le ore 20 di ogni giorno, utensili per cucinarsi i pasti. Avverso questa ordinanza il detenuto, a mezzo del suo difensore, proponeva ricorso per cassazione, articolando un’unica censura difensiva. Con questa doglianza, in particolare, si deducevano la violazione di legge e il vizio di motivazione del provvedimento impugnato, conseguenti al fatto che il Tribunale di sorveglianza non aveva correttamente enunciato le ragioni che imponevano di ritenere che la direzione della Casa circondariale avesse esercitato la propria potestà organizzativa nel rispetto della previsione dell’art. 36, lett. b), d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230, che demanda al regolamento interno di ciascuna struttura carceraria la disciplina degli orari relativi all’organizzazione del sostentamento e dell’alimentazione della popolazione detenuta. Le considerazioni esposte imponevano l’annullamento dell’ordinanza impugnata. Decisione della Suprema Corte - La questione dell’ambito di esplicazione del diritto di cottura dei cibi, relativamente ai detenuti sottoposti a regime detentivo differenziato di cui all’art. 41-bis Ord. pen., è stata oggetto di un ampio dibattito giurisprudenziale a partire dalla sentenza della Corte costituzionale 12 ottobre 2018, n. 186. Con tale pronuncia, in particolare, la Corte costituzionale dichiarava la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lett. f), Ord. pen., facendo venire meno il divieto, assoluto e non sindacabile, per la categoria di detenuti in discorso, di “cuocere cibi” (Corte cost., sent. n. 186 del 2018). In questo ambito, costituisce espressione di un orientamento ermeneutico consolidatosi, che quello che è censurabile in sede giurisdizionale, perché elusivo dei principi affermati dalla pronuncia n. 186 del 2018 della Corte costituzionale, non è la previsione, per i soggetti sottoposti al regime di cui all’art. 41-bis Ord. pen., di fasce orarie di cottura dei cibi differenziate rispetto a quelle riservate ai detenuti comuni, quanto, piuttosto, la determinazione di fasce orarie non accompagnata dall’individuazione e dall’esplicitazione di ragioni apprezzabili che le giustifichino. Ne consegue che non è consentita la determinazione di fasce orarie di cottura che presentano, quale unica finalità, quella di ottenere, attraverso di esse, una maggiore afflittività della detenzione dei soggetti sottoposti al regime di cui all’art. 41-bis Ord. pen., in linea con quanto, da ultimo, affermato da Sez. 1, n. 43528 del 28/06/2023, Ministero della Giustizia, Rv. 285204 - 01, secondo cui: “In tema di ordinamento penitenziario, è legittima la disposizione del regolamento d’istituto che, incidendo sulle sole modalità di esercizio del relativo diritto, stabilisca il divieto di cottura dei cibi in determinate fasce orarie, a condizione che riguardi tutti i detenuti e non solo quelli sottoposti al regime detentivo di cui all’art. 41-bis Ord. pen., risolvendosi, in tal caso, in un’ingiustificata differenziazione del regime penitenziario, tale da assumere, in concreto, un carattere sostanzialmente vessatorio”. Infatti, nel dichiarare illegittimo la disposizione dell’art. 41-bis, comma 2- quater, lett. f), Ord. pen., limitatamente al divieto di cuocere cibi per i detenuti sottoposti al regime differenziato di cui allo stesso articolo 41-bis., la Corte costituzionale ha riconosciuto a tale categoria di soggetti ristretti il diritto controverso, pur contemperandolo con le regole intramurarie finalizzate ad assicurare l’ordine e la sicurezza interna, consentendone la fruizione limitata a determinate fasce orarie, purché le stesse non si caratterizzino per una durata irrisoria ed elusiva di principi costituzionalmente garantiti (Corte cost., sent. n. 186 del 2018, cit.). In altri termini, la previsione di limiti alla possibilità di cucinare al di fuori delle fasce orarie, stabilite con il regolamento di istituto, laddove imposta in termini che non siano irrisori ovvero elusivi, costituisce un legittimo esercizio della potestà riconosciuta all’Amministrazione penitenziaria dall’art. 36, comma 2, lett. b), d.P.R. n. 230 del 2000, secondo cui “il regolamento interno disciplina gli orari relativi all’organizzazione della vita quotidiana della popolazione detenuta o internata […]” (Sez. 1, n. 22056 del 21/04/2021, non mass.). Rispetto a queste modalità di esercizio della potestà riconosciuta all’Amministrazione penitenziaria, viene correlativamente affermata la sindacabilità in sede giurisdizionale dei provvedimenti con i quali viene regolamentato l’esercizio del diritto dei soggetti sottoposti al regime di cui all’art. 41-bis Ord. pen. mediante l’individuazione di fasce orarie di autorizzazione alla cottura dei cibi, ritenuta indispensabile per impedire che eventuali risultino irragionevoli. Né potrebbe essere diversamente, dovendosi ribadire che è necessario evitare che, mediante la determinazione di limitazioni orarie irragionevoli, venga introdotta, tra i detenuti comuni e quelli sottoposti al regime detentivo differenziato di cui all’art. 41-bis Ord. pen., un’ingiustificata differenziazione del regime penitenziario, tale da assumere, in concreto, un carattere sostanzialmente vessatorio per questi ultimi, che determinerebbe un’ingiustificata lesione delle facoltà riconosciute, a tutti i detenuti, dall’art. 27, terzo comma, Cost. Ne deriva ulteriormente che devono ritenersi legittime le disposizioni del regolamenti d’istituto - analoghe a quelle vigenti presso la Casa circondariale di XXX, dove è recluso il ricorrente - che, incidendo sulle sole modalità di esercizio del relativo diritto, stabiliscano il divieto di cottura dei cibi in determinate fasce orarie, a condizione che tali limitazioni traggono la propria giustificazione da ragioni di controllo intramurari e non si risolvano in un’ingiustificata differenziazione del regime penitenziario dei soggetti dei soggetti sottoposti al regime di cui all’art. 41-bis Ord. pen., tale da assumere, in concreto, un carattere sostanzialmente vessatorio, contrastante con la previsione dell’art. 27, terzo comma, Cost. (tra le altre, Sez. 1, n. 11050 del 22/11/2023, dep. 2024, non mass.; Sez. 1, n. 18910 del 06/03/2024, non mass.). In buona sostanza, la previsione di fasce orarie in cui l’attività di cottura dei cibi è consentita integra la mera regolamentazione intramuraria dell’esercizio di un diritto del detenuto, con la precisazione che attraverso tale disciplina non può essere ripristinata quella maggiore afflittività del trattamento detentivo differenziato che la Corte costituzionale, con la richiamata pronuncia, ha ritenuto illegittima. Ne consegue che il parametro di riferimento per stabilire la legittimità della previsione delle modalità di esercizio del diritto per i detenuti soggetti al regime differenziato è costituito dal trattamento riservato ai detenuti comuni ristretti presso lo stesso istituto e alle esigenze di sicurezza proprie della struttura penitenziaria considerata (Sez. 1, n. 18910 del 06/03/2024, cit.). In questa cornice, appare evidente che, per verificare l’eventuale violazione dei diritti del detenuto, occorre esplicitare le ragioni per le quali la definizione delle fasce orarie nel corso delle quali è consentito cucinare ai detenuti assoggettati al regime differenziato di cui all’art. 41-bis Ord. pen., non costituisce una scelta esorbitante dal ragionevole contemperamento tra il riconoscimento della possibilità di cucinare i cibi e le modalità di controllo della camera di detenzione dei soggetti sottoposti allo stesso regime, che deve essere effettuato alla luce dei principi affermati dalla sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 2018. L’applicazione di questa regula juris non può che indurre a ritenere legittima la decisione impugnata, dovendosi, in proposito, ribadire che, all’interno della Casa circondariale di XXX, i detenuti sottoposti al regime differenziato di cui all’art. 41-bis Ord. pen., a differenza degli altri soggetti ristretti, sono autorizzati a cucinare entro fasce orarie prestabilite e che la limitazione dell’autorizzazione a determinate fasce orarie non costituisce una particolare afflittività delle modalità di detenzione. Tale limitazione, infatti, è esclusivamente finalizzata a preservare la salubrità degli ambienti carcerari; l’ordinata convivenza dei detenuti sottoposti al regime detentivo speciale di cui all’art. 41-bis Ord. pen.; la gestione dei controlli da parte degli operatori penitenziari, che devono eseguire verifiche giornaliere periodiche di tale categoria di ristretti. Il Tribunale di sorveglianza, quindi, sulla base di un percorso argomentativo ineccepibile, riteneva che una tale differenziazione oraria fosse giustificata dalle esigenze di sicurezza connesse al regime detentivo speciale di cui all’art. 41-bis Ord. pen. e dalla necessità di un’ordinata convivenza, che dovevano essere valutate alla luce della peculiare condizione intramuraria dei detenuti sottoposti al regime di cui si controverte, ristretti presso la Casa circondariale di XXX, nel cui ambito soggettivo andava ricondotto il ricorrente. Occorre, pertanto, affermare conclusivamente che, nel caso in esame, il divieto di utilizzare nella propria camera di detenzione, oltre le ore 20 di ogni giorno, utensili per consentire al ricorrente di cucinarsi i propri pasti, tenuto conto della sua condizione di detenuto sottoposto al regime differenziato di cui all’art. 41-bis Ord. pen., presso la Casa circondariale di XXX, appare pienamente rispettoso del dettato normativo dell’art. 36, lett. b), d.P.R. n. 230 del 2000. Treviso. Tenta di impiccarsi in carcere: 17enne tunisino in fin di vita di Nicola Rotari e Francesco Brun Corriere del Veneto, 12 agosto 2025 L’hanno trovato impiccato, nella notte tra domenica e lunedì, per costruire il cappio aveva utilizzato i suoi stessi jeans: una scena terribile quella che si sono trovati di fronte gli agenti della polizia penitenziaria del carcere minorile di Treviso. Da quel momento, è stata una corsa contro il tempo per salvargli la vita. Lui è un 17enne di origini tunisine, minore non accompagnato, trasferito a Treviso solo due giorni fa dalla questura di Vicenza: ha tentato di togliersi la vita in cella. Era circa mezzanotte quando è stato notato dagli agenti e le sue condizioni erano già disperate: immediatamente lo hanno liberato e hanno lanciato l’allarme. Nel frattempo è stato allertato il medico della vicina casa circondariale, che in pochi minuti ha raggiunto il reparto e ha iniziato le manovre di rianimazione, continuate poi con l’arrivo del personale del Suem 118. Stabilizzato sul posto, il 17enne è stato trasportato d’urgenza al pronto soccorso del Ca’ Foncello, dove è ora ricoverato in terapia intensiva. Le sue condizioni sono molto gravi: ha ancora battito cardiaco e respiro autonomo, ma la prognosi resta riservata e difficilmente verrà sciolta nelle prossime ore. Il giovane infatti è rimasto senza ossigeno per diversi lunghi minuti. “Il Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità - si legge in una nota ufficiale della casa circondariale - evidenzia la prontezza e la professionalità dell’intervento della polizia penitenziaria. Due agenti hanno attuato le prime manovre rianimatorie, garantendo l’estrema tempestività dei soccorsi. È stato fatto tutto il possibile per salvargli la vita. L’amministrazione esprime la propria vicinanza al ragazzo e rimane in contatto con il presidio sanitario per seguire l’evolversi della situazione”. L’episodio ha lasciato il segno nella comunità penitenziaria trevigiana, già provata negli ultimi anni da eventi gravi: due mesi fa un incendio aveva causato l’intossicazione di un detenuto e di due agenti, mentre nell’aprile 2022 la rivolta scoppiata tra le mura dell’istituto aveva portato alla sua temporanea chiusura, con il trasferimento di tutti i giovani in altre carceri italiane. Il 17enne era arrivato al carcere minorile di Treviso sabato sera, poche ore dopo una giornata di scorribande che aveva tenuto in scacco il centro di Vicenza. Secondo le denunce presentate in questura, intorno all’ora di pranzo avrebbe tentato di strappare la collanina a un anziano a ponte San Michele, facendolo cadere a terra e ferendolo. Pochi minuti dopo, un episodio simile in viale Margherita, ancora contro un anziano, e quindi in via X Giugno, all’esterno della pizzeria del consigliere comunale Nicolò Naclerio. Qui avrebbe tentato di sfilare l’orologio a un cliente, impugnando un coltello con l’altra mano. Respinto dai presenti, il giovane avrebbe aggredito altre persone, una delle quali in piazza dei Signori, prima di tuffarsi nel Retrone per sfuggire alla polizia. Uscito dall’acqua, si sarebbe arrampicato fino al secondo piano di un palazzo di contra’ Santi Apostoli, forzando l’ingresso di un appartamento e barricandosi all’interno. Lì avrebbe messo a soqquadro le stanze, lanciato vetri e oggetti dalla finestra e spruzzato un estintore addosso ai presenti e agli agenti. Gli agenti della questura, la polizia locale, i vigili del fuoco e i sanitari del Suem hanno dovuto intavolare trattative per due ore fino a quando il 17enne è stato bloccato con un taser e portato via in manette. E accompagnato a Treviso. E qui, dopo quella sequenza di atti violenti, un gesto disperato dietro le sbarre. Ora, in attesa che i medici sciolgano la prognosi, resta sospeso anche il destino giudiziario del giovane, arrivato in Italia senza genitori e già con alle spalle una vita ai margini. Torino. Tre requisiti per il Garante dei detenuti di Mauro Palma La Stampa, 12 agosto 2025 Si chiude una positiva stagione per quanto attiene alla funzione di garanzia dei diritti delle persone private della libertà a Torino. Monica Cristina Gallo ha ben interpretato il ruolo di Garante nei dieci anni di mandato, promuovendo l’effettività dei diritti delle persone che, ristrette nella loro libertà, hanno una particolare vulnerabilità rispetto ai diritti soggettivi che l’ordinamento prevede. Diritti che possono essere regolati, ma mai annullati. E ciò indipendentemente dal motivo che ha determinato tale privazione: illecito penale (carcere), irregolarità amministrativa (centri chiusi per migranti), vicissitudini della vita per coloro che sono degenti in reparti psichiatrici ospedalieri o residenti in case di accoglienza e supporto che possono a volte volgere verso una concreta privazione della libertà personale. Gallo lo ha fatto promuovendo la cultura di appartenenza sociale anche di questa parte della popolazione. Spesso fuori dalla percezione comune e, a volte, dalla stessa decisione di chi ha responsabilità politica, che si fermano al di qua di quelle mura e di quei cancelli. Inutili e pretestuosi, quindi, gli avvertimenti di chi, proprio in Piemonte e in una sede istituzionale, ha in questi giorni polemicamente parlato di “strabismo” nel rivolgere lo sguardo solo alle persone ristrette, dimenticando la complessità del sistema: accuse ingiuste rivolte al Garante regionale anch’egli a fine mandato, solo per giustificare faticosamente la propria scelta di una nuova figura per la successione. Torino - e qui mi riferisco al Comune - ha una buona tradizione, sin da quando il 7 giugno 2004 deliberò, unanimemente con una sola astensione, l’istituzione del Garante dei diritti dei cittadini detenuti (e la sottolineatura di “cittadini” non è di poco conto). Ora si trova di fronte a una nuova scelta e nel frattempo la fisionomia di questa figura, sia per la sua estensione in Comuni e Regioni, sia per l’esperienza dal 2016 del Garante nazionale, si è meglio definita a partire da tre assi: indipendenza, professionalità e sensibilità al tema dei diritti. L’indipendenza è valore non definibile solo attraverso la non appartenenza ad ambiti politici - o l’ancor più grave designazione su indicazione politica - perché si estende anche all’autonomia rispetto ad ambiti associativi di provenienza e alla capacità di prescindere da impostazioni culturali che pure hanno caratterizzato il proprio precedente cammino. Ricordo ancora la centralità di questo concetto nel mio impegno, prima come presidente del comitato che in Europa svolge tale compito sulla base di un trattato ratificato dagli Stati, sia poi chiamato a presiedere il neo-istituito Garante nazionale. Troppo limitativo è il riferimento al controllo degli incarichi avuti o dei compiti amministrativi ricoperti, perché l’indipendenza è un atteggiamento del proprio agire che va al di là di questi. La professionalità è un pre-requisito imprescindibile - oggi in modo particolare - che richiede conoscenza di questi luoghi, delle loro norme, delle loro difficoltà, del loro vivere quotidiano, soprattutto nell’attuale difficile contesto, e che non è certo riassumibile in qualche improvvida frase recentemente detta da chi ha assunto tale ruolo ad altri livelli, riassumibile nel “non avere dimestichezza, ma nell’esserne affascinati”. Quanto alla sensibilità sociale è quella che ci ricordano gli articoli 2 e 3 della nostra Costituzione e il suo richiamo a “rimuovere gli ostacoli”. Per tutti, soprattutto per coloro che sono in questa specifica vulnerabilità. Torino dovrà essere, come nel passato, adeguata a tale specifico compito di individuare quel punto dello spazio cartesiano che sia definito da quei tre assi e che non ne dimentichi alcuno. Milano. Minori stranieri non accompagnati in fuga dalla miseria. “La violenza unico alfabeto” di Andrea Galli Corriere della Sera, 12 agosto 2025 Le Comunità non bastano. Gli esperti: più mediatori in strada. In notti di commissariati e caserme, il sabato e la domenica e magari anche il lunedì o qualsiasi altro giorno, e nell’attesa, tenuti lì da poliziotti e carabinieri che di altro dovrebbero occuparsi anziché fare gli assistenti sociali, nell’attesa che qualche comunità risponda, e risponda d’avere un posto libero, ecco, anche ciò che è haram, proibito dal Corano, ad esempio la carne di maiale, i ragazzini lo prendono, ingoiano, divorano. Capita che siano a digiuno da, boh, s’è perso il conto, e gli agenti vanno a comprare quel che trovano in giro per sfamarli. Anche questa è estate milanese. Ora, prima che i permalosi protestino sdegnati, capiamoci subito: non è un processo a Milano, una città e un’alleanza di pubblico e privato che come nessuno in Italia (lo testimoniano le risposte, la progettualità) riceve e gestisce, a tratti prova a gestire, un tale flusso di minori non accompagnati, per lo più egiziani in quanto l’Egitto ha subìto nella sua voce principale, cioè il turismo, i devastanti anni della pandemia, e con un effetto a catena ha aumentato i propri debiti facendo crollare la moneta nazionale, e intanto non s’arresta l’arrivo di profughi, dalla Palestina, dalla Siria, dal Sudan, il che alza (ulteriore) tensione nella popolazione stanca e impoverita e spinge un numero maggiori di egiziani a emigrare, verso destinazioni quali l’Italia, la Lombardia, Milano e il suo hinterland, zone di storici arrivi nei decenni, in maggioranza, certamente, arrivi fecondi di fatica, umanità e umiltà, animi generosi e grati, riscatti e successi. Preoccupa, disorienta gli analisti, il crescente doppio tema: la crescita numerica, e una filosofia esistenziale dei minori d’approdo priva di una meta definitiva quanto, al contrario, la considerazione di un’Europa nel suo insieme geografia ampia e variegata di pellegrinaggio, o meglio scrivere di perpetuo vagabondaggio, prima una nazione, poggiando su amici in precedenza emigrati, poi un’altra chiedendo aiuto a vecchi parenti: fra questi ragazzini, in questa quotidianità misera e - giocoforza? - famelica, predatoria, con una spaventosa inclinazione all’illegalità senza remore né pentimenti come narrano al Corriere finanche antichi investigatori duri. Ha riferito proprio al nostro giornale l’appassionato imam Abdullah Tchina, il primo nominato in un istituto di pena minorile (il Beccaria), che “la vita non è un codice binario, giusto oppure sbagliato: esiste la moderazione, esiste il compromesso. Gli errori si possono riparare con la pazienza, ma se c’è la volontà”. E di nuovo al Corriere, l’illuminato, e figura rara, considerando il suo ambiente professionale, Silvio Tursi, a capo della cooperativa sociale “Tempio per l’infanzia”, così ha già detto: “A Milano servono mediatori molto esperti, di strada. D’accordo gli studi universitari, ma bisogna saper stare dentro le dinamiche di una città, ci si deve misurare con chi si porta dietro la reale sofferenza e se la gioca ogni benedetto giorno... La maggior parte dei ragazzini vive tantissimo la strada. E tu devi esserci, in strada, devi sapere come starci”. Il Beccaria prima menzionato è quello dei 42 indagati per pestaggi e torture (direttori e agenti andranno a processo... La lettura delle carte giudiziarie è un autentico viaggio nei soprusi, nelle connivenze, nelle codardie del gruppo che si copre); la struttura è vetusta: serve un altro Beccaria? Oppure servono più carceri minorili? E le comunità d’accoglienza? Non bastano, certi minorenni vengono assegnati a strutture in Liguria, salvo, s’intende, scappare dopo mezz’ora senza, s’intende pure questo, nessuno che li insegua. Fatti loro. Si dice che non tutto quanto avviene qui a Milano viene veicolato alla stampa, permane questo timore di alterare la narrazione d’una Milano sicura, tranquilla, ultra-residenziale e a misura di turisti pure negli angoli disgraziati... Ma ci sono i furti, anzi ci sono rapine di sproporzione immani tra, con rispetto, quel che è il bottino, tipo una collanina, e la ferocia mossa per conquistarla. La violenza come unico alfabeto appreso e perpetuato da questi ragazzini. Belluno. Protesta nel carcere contro il sovraffollamento e il caldo di Sandy Fiabane Il Dolomiti, 12 agosto 2025 “Condizioni già denunciate, servono più investimenti per favorire il reinserimento nella società”. Non si è trattato di una rivolta, ma di una protesta collettiva per condizioni detentive che si riferiscono a tutto il territorio nazionale: così il segretario generale Cisl Fns Robert Da Re commenta la manifestazione di sabato contro il sovraffollamento da parte dei detenuti nella Casa Circondariale di Belluno. Una situazione già denunciata dal sindacato, che chiede soprattutto investimenti per la rieducazione dei detenuti. “I fatti della Casa Circondariale di Belluno non sono riconducibili a una rivolta. C’è stata una protesta collettiva per le condizioni detentive, che comunque si riferiscono a tutto il territorio nazionale, non solo alla realtà bellunese”. Sono le parole di Robert Da Re, segretario generale Cisl Fns (Federazione nazionale sicurezza) Belluno Treviso, a margine della notizia apparsa sui media locali di una manifestazione dei detenuti nella serata di sabato contro il caldo e il sovraffollamento. Secondo i dati del Ministero della giustizia, la Casa Circondariale di Belluno ospita 106 detenuti su 89 posti regolamentari (7 i posti non disponibili). Il personale di polizia penitenziaria conta 78 agenti effettivi, più 8 amministrativi e 2 educatori. “I tre istituti penitenziari del territorio - spiega Da Re a Il Dolomiti - cioè la Casa Circondariale di Belluno, quella di Treviso e l’Istituto per minori di Treviso, sono tutti sovraffollati. In particolare, la Casa Circondariale di Treviso, fino a un mese fa, era il penitenziario più affollato d’Italia”. Qui il Ministero certifica ad oggi 225 detenuti su 132 posti regolamentari. Il tema, purtroppo, non è nuovo nel nostro Paese. Al 30 giugno 2025, erano 62.728 le persone detenute nelle carceri italiane, a fronte di una capienza regolamentare di 51.300 posti. Secondo l’associazione Antigone, però, i letti non disponibili sono oltre 4.500, perciò il tasso di affollamento reale si attesta al 134,3%. Cosa fare dunque? “Non è il sindacato - risponde Da Re - che può trovare soluzioni a problematiche alle quali, in tempi non sospetti, proprio il sindacato ha spesso denunciato la situazione che si sarebbe creata in futuro. Purtroppo il futuro è arrivato, con carenze croniche di personale, sovraffollamento della popolazione detenuta e nella grande maggioranza dei casi strutture inadeguate e obsolete. Sicuramente servono ingenti investimenti per creare una rete che possa lavorare sulla rieducazione dei detenuti, perché il carcere serve per far rielaborare al reo l’azione criminale posta in essere, per costruire delle solide basi per un reintegro dello stesso nel tessuto sociale in modo che non sia più indirizzato a condotte delittuose, diventando contributo e non peso per la società. Diversamente, il carcere resta solo un contenitore”. “Pertanto - conclude - sono sicuramente da rinforzare gli investimenti per l’assistenza sociale, creando come dicevo una rete solida e duratura, non come ora che il peso viene scaricato sui Comuni, i quali spesso non hanno neanche la disponibilità di un’assistente sociale”. Un compito, quello di prevenire la recidiva e favorire il reintegro nella società, ribadito anche da Alberto Quagliotto, direttore della Casa circondariale di Belluno, in occasione della presentazione del protocollo con il Comune per la manutenzione degli spazi pubblici: un’iniziativa pensata proprio come un’opportunità di riscatto e reinserimento per persone in semilibertà (qui l’articolo). Iniziative positive che, però, non bastano. San Gimignano (Si). Nel carcere c’è stata tortura di Stato giuristidemocratici.it, 12 agosto 2025 Intervista con l’Avv. Simonetta Crisci. Continuiamo gli approfondimenti dedicati alle violenze nelle carceri. Dopo l’intervista con l’Avv. Luigi Romano sul complesso iter giudiziario a seguito delle violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere proponiamo un approfondimento con l’Avv. Simonetta Crisci sul processo seguito alle violenze del 2018 nel carcere di San Gimignano. Si tratta del primo processo in cui con la sentenza in primo grado a Siena nel 2023 e in appello a Firenze nel 2025 è stato riconosciuto il reato di tortura di stato, previsto dall’art. 613 bis co. 2 c.p., contro agenti penitenziari per violenze contro detenuti. L’episodio di cui ci occupiamo è avvenuto nel carcere di San Gimignano. Di che carcere si tratta? Il carcere di San Gimignano è in Toscana, vicino Firenze. Non è tra le carceri più nominate ma ha delle criticità molto forti: sovraffollamento e la presenza di un reparto “speciale” per il regime di isolamento di triste nomea. L’episodio di cui ci occupiamo non è una rarità. Analoghe situazione avvengono purtroppo in tanti altri carceri come a Cuneo nel 2023 o a Modena e Santa Maria Capua Vetere dove si cercò di giustificare le violenze con il clima di tensione del periodo del Covid. Si tratta di sintomi gravissimi della crisi strutturale della concezione del carcere come luogo di pena invece che come luogo di riabilitazione, come luogo della cultura del controllo dove è più facile che avvengano simili fatti. Cosa è successo nel carcere di San Gimignano nell’ottobre 2018? Tutto è cominciato quando è stato organizzato il trasferimento di un detenuto fisicamente molto labile e debole da una cella a un’altra. Nel processo le guardie, che sono state incriminate, hanno detto che siccome dovevano trasferirlo da una cella all’altra sono andati a prenderlo. Peccato che un semplice trasferimento sia diventato un’operazione organizzata di 15-16 persone tra dirigenti e guardie semplici che sono andate nella cella di questo ragazzo nel reparto di isolamento. Tra l’altro questo ragazzo era stato messo lì per volontà di un capo delle guardie, che senza Consiglio di disciplina aveva preso questa decisione. Non c’era ragione che stesse lì, poverino, isolato, senza parlare con nessuno ed infatti voleva tornare in un reparto normale e si lamentava. Per fare questa operazione di trasferimento hanno messo degli uomini a controllare le telecamere, ma non ci sono riusciti visto che il filmato di quanto è avvenuto è stato fondamentale assieme alle testimonianze per far emerger la verità su quello che è successo. Il processo nasce dalle denunce di altri detenuti che hanno visto picchiare il ragazzo nei corridoi, hanno visto che lo trascinavano per terra togliendogli addirittura i vestiti, che l’hanno sbattuto in un’altra cella dove poi sono entrate delle guardie. I detenuti delle altre celle hanno sentito i colpi delle violenze esercitate contro il ragazzo e ne hanno sentito i lamenti. Probabilmente non era la prima volta che succedevano cose del genere. Alcuni detenuti fanno una denuncia e chiesto l’attenzione del Garante dei detenuti. Così è nata l’inchiesta a cui è seguito il processo. Praticamente il ragazzo è stato picchiato mentre lo trasferivano da una cella all’altra, altri detenuti se ne sono accorti ed invece di stare zitti hanno chiamato il Garante per segnalare l’accaduto? Uno dei detenuti ha anche urlato “basta, smettetela” ma le guardie gli hanno dato un pugno in faccia. La versione delle guardie è che il detenuto avrebbe sputato contro di loro e perciò avrebbero messo una mano sullo spioncino per coprirsi dallo spunto. La versione non ha retto e sono stati condannati anche per questo episodio. La prima a sapere della denuncia dei detenuti è stata la psicologa del carcere, che ne ha parlato al direttore. A questo punto vengono fatte delle relazioni di servizio non solo in ritardo ma anche scritte per falsificare l’accaduto. A questo punto è partito il procedimento? Sono stati interrogati tutti quelli che potevano sapere qualcosa compresi i detenuti che hanno fatto la denuncia. Si è aperto così il procedimento che poi è andato avanti. Sono stati acquisiti i filmati delle telecamere da cui si vedeva chiaramente cosa era successo. La difesa delle guardie carcerarie è stata che si erano organizzate per il trasferimento perchè quel detenuto era un po’ pericoloso, senza ovviamente spiegare cosa significasse. Al detenuto, intanto trasferito in un altro carcere dove avrebbe dovuto essere curato non per i traumi subiti nell’aggressione ma in generale, è stato riconosciuto dai giudici, secondo l’articolo 613 bis, che l’aggravamento del suo stato psichico dipendeva proprio da quanto gli era successo a San Gimignano. Fermiamoci proprio sull’articolo 613 bis co. 2 c.p., riconosciuto in questo processo. Puoi dirci la sua specificità? È l’articolo di tortura di stato. Una forma autonoma di reato che è stato aggiunto a quello generico che dice che chiunque punisce con violenza o minacce gravi o con crudeltà chiunque viene condannato. Nella specificazione di tortura di stato uno dei criteri basilare è proprio chi esercita la violenza. In questo caso l’agente penitenziario in quanto pubblico ufficiale. La qualità della persona che attua con più condotte un trattamento inumano, degradante, contro la dignità di una persona privata della libertà, qualifica la tortura di stato. Torniamo al caso di San Gimignano. La Procura decide di avviare il procedimento usando proprio il reato di tortura di Stato, ci sono anche costituzioni di parte civile? Sì, io partecipo al processo perché ho curato la costituzione di parte civile dell’Associazione Yairaiha Onlus, la prima che ha mandato in Procura un esposto. Per cui riassumendo: i detenuti denunciano, altre associazioni appoggiano, costituendosi parte civile oltre al Garante e si avvia il processo sulla base dei filmati e delle testimonianze. I giudici hanno analizzato tutte le specificità proprio del reato di tortura di stato. In altri processi essere un pubblico ufficiale potrebbe essere un’aggravante ma qui è alla base del reato contestato. La tortura di Stato viene individuata proprio con l’elemento che è il pubblico ufficiale che usa, abusa dei poteri in violazione dei doveri di persona che rappresenta lo Stato. Si viene condannati anche per il fatto di aver creato un pregiudizio verso la pubblica amministrazione: chi sente che un pubblico ufficiale picchia la gente, tra l’altro detenuta quindi impossibilitata a difendersi, vede nello stato un nemico, vede riflessa una immagine negativa dello Stato. Quanti sono gli agenti penitenziari coinvolti? In tutto circa una quindicina ma alcuni hanno fatto rito abbreviato e sono stati condannati con pene minori, dai tre ai quattro anni. Cinque sono rimasti nel processo. Come è andato l’iter processuale? Presso il Tribunale di Siena nel marzo 2023 in primo grado c’è stata la condanna di circa sei anni per gli agenti imputati. Nell’aprile 2025 c’è stata la conferma della condanna nel processo d’Appello presso la Corte di Firenze e le motivazioni sono state depositate pochi giorni fa. Nella sentenza d’Appello c’è stata l’applicazione di attenuanti. Attenuanti in Appello? Nell’Appello c’è stata la richiesta del Procuratore Generale di attenuanti generiche prevalenti che sono state applicate. Sinceramente non abbiamo capito le motivazioni. Un conto è chiedere le attenuanti perché ad esempio una guardia è stata obbligata a fare una certa cosa dal suo superiore che lo ha ricattato minacciandolo di trasferimento o altro o promettendogli un avanzamento di carriera, ma in questo caso nessuno ha parlato di situazioni simili. Tutti hanno partecipato volontariamente: sono stati chiamati e sono andati, nessuno è stato minacciato da un superiore. La cosa importante è che anche in Appello è stato riconosciuto il reato di tortura di stato... Sì, questa è la prima condanna in cui è stato applicato il reato di tortura di stato, prima a Siena e adesso nell’appello a Firenze che l’ha confermato. È una cosa importante perché in altri casi, come mi pare a Cuneo, sono state riconosciute lesioni gravi ma è stata tolta la tortura. Spesso succede che i giudici derubricano il reato di tortura che invece va riconosciuto in questi casi proprio per la qualifica come pubblico ufficiale di chi commette il reato contro persone detenute. C’è un nesso tra l’alto tasso di suicidi nelle carceri e le condizioni di detenzione. Questo nesso è dato anche da comportamenti come quelli messi in atto a San Gimignano. C’è un costante divario tra episodi di questo tipo e l’articolo 27 che dice che la pena dipende dalla riabilitazione del condannato. La cultura del controllo, fatta di sovraffollamento, tolleranza zero, episodi di violenza creano una condizione di fatto insostenibile che porta drammaticamente all’aumento dei suicidi. L’istituzione totale leva la dignità della vita. Napoli. Allarme nel carcere di Poggioreale: “Cinquecento detenuti di troppo” napolitoday.it, 12 agosto 2025 Sono stati 130 i decessi registrati dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria da inizio del 2025: 37 suicidi, 29 decessi per cause da accertare, 63 decessi per cause naturali, un decesso accidentale. Nel rapporto del garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale si sottolinea come nel periodo 2021-2024 in carcere si sono verificati 294 suicidi con una media di circa 73,5 suicidi/anno con un minimo di 59 (2021) e un massimo di 84 nel 2022. Nel 2024 i suicidi accertati dal Dap sono 83, i decessi per cause da accertare 18. Delle 37 persone che si sono suicidate 14 (circa il 38%) avevano una fine pena inferiore a 3 anni: 5 entro il 2025, 5 entro il 2026 e 4 entro il 2027, e a esclusione di due persone, tutte avevano una posizione giuridica ‘definitiva’. Altre 14 (circa il 38%) erano in attesa di primo giudizio. Il sovraffollamento è tra i punti critici, si legge nel rapporto. Tra le situazioni più rilevanti, spiccano quelle nella casa circondariale di Bergamo, dove l’indice sovraffollamento è 184,59 (a fronte di una capienza di 319 persone, i detenuti presenti sono 587), a Foggia 214,79 (per 364 la capienza, 668 i reclusi), a Modena di 154,99 (371 i posti disponibili, 575 i presenti), a Poggioreale Napoli di 157,73 (2101 i detenuti presenti a fronte di una capienza di 1624), a Regina Coeli Roma 190,73 (1091 i detenuti per 572 posti disponibili) e a Verona di 184,78 (619 presenti contro una capienza di 335). Avellino. “In carcere persone che dovrebbero stare in cura, non dietro le sbarre” avellinotoday.it, 12 agosto 2025 Sovraffollamento, promesse disattese e criticità strutturali: la visita dei Radicali rilancia l’allarme sulla situazione penitenziaria avellinese: “Bambini non devono trovarsi in carcere, ma c’è una stanza arredata come un asilo nido”. Due città, due carceri, un’unica diagnosi: il sistema penitenziario italiano continua a stare male, e non da oggi. Questa mattina, una delegazione di Radicali Italiani, con l’onorevole Toni Ricciardi del Partito Democratico, ha visitato la Casa circondariale di Napoli Poggioreale e quella di Avellino “Bellizzi”. Il mandato era chiaro: vedere, ascoltare, confrontare le promesse del Parlamento con la realtà di chi, in quelle mura, vive o lavora. Sovraffollamento e violazione dei diritti: una costante drammatica - “Torniamo in due carceri che conosciamo bene - hanno esordito Filippo Blengino e Bruno Gambardella - dove sovraffollamento, degrado strutturale, carenze di personale e condizioni di vita disumane sono ormai la regola”. Hanno aggiunto che “in quasi tutte le carceri italiane la violazione dei diritti umani è sistematica, mentre il Parlamento si concede un mese di ferie senza dedicare un minuto a discutere provvedimenti urgenti. Suicidi, emergenza psichiatrica, recidiva altissima: segnali inequivocabili di un sistema penitenziario al collasso”. Emergenza salute mentale nelle carceri: REMS insufficienti - A Bellizzi, Blengino ha messo subito il dito nella piaga: “Questa è la seconda tappa di oggi, dopo Poggioreale. Qui ad Avellino la situazione è migliore rispetto al passato. Ma in carcere ci sono persone che non dovrebbero trovarsi lì perché affette da gravi patologie psichiatriche, a contatto con personale che, pur svolgendo il proprio lavoro con dedizione, non possiede le competenze specifiche per gestirle adeguatamente”. Per loro, ci sarebbero le REMS, “che però sono fallimentari poiché dispongono di pochissimi posti”. Numeri e condizioni: la realtà tra celle affollate e carenze strutturali - Non è l’unica emergenza. “I disturbi psichiatrici in carcere - ha detto - vanno dalla depressione ai tentativi di suicidio e agli atti di autolesionismo. Qui sono meno frequenti che altrove, ma restano un fenomeno che non si può ignorare”. Sui numeri non ha fatto sconti: “Oggi ci sono 540 detenuti a fronte di una capienza di 500. In estate le attività scolastiche si fermano, quelle trattamentali sono praticamente azzerate. Questo significa più persone in meno spazio: sei o sette per cella. E in queste condizioni il reinserimento sociale, previsto dalla pena, non funziona, come dimostrano i tassi di recidiva”. Contrasti tra vecchio e nuovo: tra aree fatiscenti e padiglioni rinnovati - Ha poi tracciato un quadro a due facce: “L’area infermeria è in condizioni fatiscenti, mentre il padiglione nuovo ha arredi adeguati, infissi blindati, bagni in buono stato. Ma il problema dell’acqua persiste: per dodici ore di notte non è disponibile”. Sul personale, Blengino ha rilevato “una carenza grave nel settore educativo, fondamentale per il reinserimento sociale. Quanto alla Polizia penitenziaria, non c’è una forte carenza come altrove, ma anche qui c’è la ‘sabatite’: assenze per malattia concentrate il sabato o il lunedì, che gravano su chi è in servizio e aumentano la pressione su un comparto già fragile”. Il ruolo del Parlamento e le criticità della struttura storica - Ricciardi ha rivendicato il lavoro parlamentare: “Questo carcere è stato oggetto di tre mie interrogazioni, alle quali il sottosegretario Delmastro ha risposto evidenziando interventi sulla pianta organica, sui numeri e su altri aspetti”. Ma ha precisato: “Le principali criticità sono nella struttura storica: basta guardare l’altezza delle mura per capire che gli interventi ordinari non bastano”. Segnali positivi e realtà difficili: tra biblioteca e asili nido in carcere - Ha citato alcuni segnali positivi, come la nuova biblioteca, ma anche immagini che definisce “di forte impatto emotivo”: “In più occasioni abbiamo denunciato che i bambini non devono trovarsi in carcere; ma quando entri e ti trovi una stanza arredata come un asilo nido, capisci che quella realtà non dovrebbe essere lì”. Gestione del personale e il nodo delle assenze nel fine settimana - Sul fronte del personale, il giudizio è netto: “Si registra una fase acuta di assenze per malattia nei fine settimana. Credo sia necessario ripristinare la ‘legge Brunetta’ anche per la Polizia penitenziaria, perché in presenza di tali regole le assenze tendono a ridursi”. Le prospettive dopo la visita: miglioramenti e criticità persistenti - Quanto agli obiettivi della visita, Ricciardi ha spiegato: “Volevamo verificare se, dopo le denunce di questi anni, qualcosa fosse cambiato e se le dichiarazioni rese in aula dal sottosegretario corrispondessero al vero. Abbiamo controllato numeri, personale e nomina della nuova vice direttrice. Si è intervenuti, ma resta il problema idrico, un nodo atavico. E occorre mantenere alta l’attenzione, perché del carcere si parla solo quando scoppia un caso di cronaca. Bisogna entrarci, parlare con chi ci lavora e confrontarsi anche con i detenuti”. Una cartolina dal carcere: tra criticità e speranze deluse - Piccole criticità sono state segnalate alla direzione: “Se risolte - ha concluso - potrebbero migliorare il dialogo con i detenuti e ridurre le tensioni. Resta molto da fare, ma la situazione è meno grave di quanto ci aspettassimo”. E così, tra vecchi muri, celle stipate e rubinetti asciutti, il carcere continua a essere la cartolina ingiallita di un’Irpinia che, davanti allo specchio, preferisce sempre guardare altrove. Monza. Visita alla Casa circondariale: la situazione è a dir poco critica ilcittadinomb.it, 12 agosto 2025 Tra i problemi che sono stati evidenziati nell’iniziativa della Camera penale, allargata ad altre realtà, il sovraffollamento. Molto severo nel merito Paolo Piffer. Una delegazione della Camera penale di Monza sabato 9 agosto si è recata, unitamente all’associazione Nessuno Tocchi Caino, ad alcuni rappresentanti del Consiglio comunale di Monza e ad altri amministratori locali, alla casa circondariale di via Sanquirico. La visita si è inserita nel solco dell’invito che l’Unione Camere Penali Italiane, di pari passi con l’Osservatorio Carcere Unione delle Camere Penali italiane, ha rivolto alle Camere territoriali, affinché si effettuino sopralluoghi nelle carceri nel mese più caldo. Casa circondariale: i numeri dipingono il dramma - La situazione da questo punto di vista è, come è noto e come è stato ribadito dall’amministrazione penitenziaria (dimostratasi estremamente disponibile ed attenta), oltremodo critica: a Monza vi è un affollamento del 184%, con 735 detenuti a fronte di una capienza di 411. Ben 13 celle risultano chiuse per disinfestazione, vi è grave carenza soprattutto per quel che concerne la mediazione culturale, il personale sanitario ed amministrativo ed i presidi medici e psichiatrici. Risultano attivi percorsi scolastici e di recupero, assistenza alle dipendenze e lavoro, ma i percorsi sono critici e le risorse davvero limitate. Casa circondariale: l’affondo di Paolo Piffer - L’appuntamento è stato commentato in seguito da Paolo Piffer, uno dei consiglieri comunali presenti: “Come sta la casa circondariale di via Sanquirico? La risposta è tristemente semplice: male. Un po’ di numeri. Più di 700 detenuti per una capienza massima prevista di 411. La metà sono tossicodipendenti e circa 250 sono presi in carico dall’area sanitaria per disturbi psichiatrici. Le nostre carceri assomigliano sempre di più a degli ospedali e questo non va bene. Il 46% dei detenuti sono stranieri e c’è una forte carenza di mediatori linguistici e culturali. Se non ci si capisce, non si può creare una relazione e tentare una rieducazione”. L’affondo è quindi proseguito: “Quelli che lavorano sono poco più di 200, pochi, troppo pochi se si considera che la recidiva in Italia in caso di percorso lavorativo durante la pena si riduce dal 70% al 3%. Gli agenti penitenziari lavorano sotto organico e sono chiamati a gestire situazioni delicate, che vanno anche oltre la loro professionalità”. Casa circondariale: un settore trascurato dalla politica - L’analisi ha inoltre allargato il suo orizzonte alle necessità operative: “Quali strade quindi per superare un sistema che è al collasso e che reimmette spesso nella società persone che stanno peggio di quando sono state arrestate? Servono più risorse per garantire più servizi e più operatori, indulto o amnistia per ridurre il sovraffollamento e rendere più efficaci i trattamenti interni, depenalizzare alcuni reati (in carcere dovrebbe starci solo chi è socialmente pericoloso), più misure alternative. Un detenuto che esce a fine pena rappresenta un fallimento del sistema, chi è “malato” dovrebbe trovare una collocazione in strutture più idonee: comunità, rems etc. Purtroppo il carcere ha un grosso difetto, quello di non portare voti, e questo chi fa politica lo sa molto bene. Nessun governo negli ultimi 30 anni è riuscito a fare una riforma coraggiosa e seria: i risultati sono quelli che ho descritto sopra”. Lucca. La Garante lancia l’allarme: “Oltre 90 detenuti, situazione drammatica” noitv.it, 12 agosto 2025 La Garante dei diritti dei detenuti del carcere di Lucca Giulia Gambardella: “Al San Giorgio non è presente una mensa e alcuni detenuti sono costretti a mangiare il pasto sul letto. Le temperature sono alte alcune celle arrivano ad ospitare anche 4 detenuti”. “San Giorgio, la situazione è drammatica”. “San Giorgio, la situazione è drammatica”. È questo il grido d’allarme lanciato dall’avvocato Giulia Gambardella, Garante dei diritti dei detenuti del carcere di Lucca. “Basti pensare che i detenuti attualmente presenti sono 94 compresi i semi liberi, a fronte di una capienza massima della struttura di circa 65 postazioni. Le celle sono strutturate per ospitare 2 detenuti ciascuna, ma in questo momento sono condivise da almeno 3 detenuti se non 4 per cella”. “Attualmente al carcere di Lucca sono presenti 94 detenuti con una capienza massima di circa 60 - precisa Gambardella -. Quindi la situazione è davvero drammatica. Le temperature sono altissime e per cella si arriva anche a 4 ospiti. Ci tengo a ricordare che all’interno del carcere di Lucca non è presente una mensa, la sezione cosiddetta chiusa, dove i detenuti stanno nel corridoio delle celle, ciascuno di loro è costretto anche a mangiare il proprio pasto sul letto perché non sanno come muoversi all’interno degli spazi. All’interno delle celle ci sono anche i servizi igienici quindi vi lascio immaginare la situazione attuale qua dentro al san Giorgio. È molto caldo e proprio per questa ragione abbiamo pensato, nel nostro piccolo, di raccogliere donazioni per i ventilatori”. Ferrara. Dopo le violenze in carcere: “Nessun attacco personale. Denunciamo un sistema” Il Resto del Carlino, 12 agosto 2025 Le collettive TransFemm rivendicano i volantini contro l’assessore Coletti “Chiediamo azioni di sensibilizzazione e supporto in via Arginone”. A seguito del grave episodio avvenuto nel carcere in via Arginone, abbiamo deciso di denunciare pubblicamente gli aspetti più gravi della vicenda, affiggendo dei volantini informativi in diverse zone della città. Rivendichiamo con forza la nostra azione, dal momento che la (non) risposta che abbiamo ricevuto, contrariamente a quanto si possa pensare, ci ha confermato che se non fossimo intervenuti? con queste modalità, del fatto non si sarebbe detto altro. La nostra azione non è stata un attacco personale a singole figure politiche o istituzionali e, diversamente da ciò che si è implicato, i volantini affissi non contengono insulti né affermazioni diffamatorie: riportano esclusivamente i fatti accaduti e la nostra idea degli stessi. Il nostro obiettivo è stato, ed è, denunciare un sistema che continua a marginalizzare e ignorare le persone più vulnerabili, in particolare le persone transgender e detenute, che nella prassi si trovano spesso in una condizione di assoluta assenza di tutela. Troviamo inaccettabile che una denuncia di violenza, con le sue implicazioni, sia stata liquidata in pochi minuti di confronto in consiglio comunale, di cui ancora meno secondi dedicati a un generico riferimento all’avvio di un’indagine: una risposta che ci dice quanto, un tema così delicato, sia in realtà sottovalutato dalle forze politiche. A confermarci questa scarsa considerazione del tema, il misgendering compiuto dall’incaricata assessora Coletti: una forma di micro aggressione (volontaria o involontaria che sia: non smette di esistere) che nega l’identitá della persona. Ma anche le dichiarazioni dell’ex direttrice del carcere di Ferrara: crediamo che siano parole simili a contribuire ad alimentare un clima di pregiudizio e ostilità, non qualche volantino attaccato con lo scotch. Ribadiamo la nostra richiesta: le figure competenti di Comune e Carcere devono essere più chiare nel definire le proprie responsabilità e il proprio ruolo, nei fatti e nella loro prevenzione in futuro, attraverso la creazione di sezioni apposite per detenuti trans anche a Ferrara, implementazione di misure, in linea col diritto internazionale, che garantiscano la serenità delle persone trans detenute, l’avvio di progetti di sensibilizzazione, supporto e sportello all’interno del carcere, l’avvio di progetti di sensibilizzazione, anche nel tessuto cittadino, sulle identità trans, coinvolgendo le scuole e l’università, col supporto di persone della comunità. Il confronto non ci spaventa, quello che davvero ci fa paura è l’indifferenza: quel disinteresse che continuate a dimostrare focalizzandovi sulla forma della nostra azione, e non sui suoi contenuti e le sue ragioni. Un’analisi più approfondita dei temi è affrontata nei comunicati reperibili sui nostri canali social: IG @/ferrara.transfem. Le collettive Ferrara TransFemm e Out!*Ferrara Brescia. “Nessuno può salvarti se tu non lo vuoi”, intervista a un detenuto prossimo alla libertà di Stefania Vezzoli primabrescia.it, 12 agosto 2025 A 45 anni ha ripreso in mano la sua vita, rialzandosi da un tunnel scandito da tossicodipendenza, rapine, violenza e autolesionismo. Un’infanzia difficile, segnata dagli abusi e dal bullismo. Una rabbia che cova, cresce, dilaga. E, poi, la dipendenza dalla droga, la “fame” di soldi facili, le rapine, la violenza, l’autolesionismo, l’arresto, il carcere. Si dice che quando si tocca il fondo si può solo risalire, ma non è sempre così. C’è chi nel tunnel ci resta, impantanato, intrappolato. Lui, però, c’è l’ha fatta. Tra pochi mesi finalmente sarà libero, avrà pagato interamente il suo conto alla giustizia. Si è disintossicato, ha affrontato un percorso di recupero durissimo, ha trovato un lavoro e, all’età di 45 anni, è pronto finalmente a riprendere in mano la sua vita, a ricominciare da capo. Ci siamo incontrati in un bar nelle due ore di permesso (è ancora ai domiciliari). Con coraggio ed eccezionale forza di volontà, ha deciso di raccontare la sua storia, dall’inizio, senza omettere nulla. E lo ha fatto nella convinzione e nella speranza che possa servire a qualcuno che, da quel fondo, non si è ancora rialzato. Hai avuto un’infanzia difficile: te la senti di parlarne? Sono stato un figlio senza un padre, nel senso che lui non era presente, se ne è andato quando ero piccolo. Sono entrato in collegio e sono stato vittima di bullismo. Poi c’è stata una possibilità di riavvicinamento con mio papà, potevo andare da lui in estate, anche se si era rifatto una vita, una nuova famiglia. Io desideravo trascorrere del tempo con lui, sebbene questo significasse subire violenze dalla “matrigna” e abusi sessuali dalla mia “sorellastra”. A mia mamma e a mia sorella, però, non ho mai detto nulla: avevo paura che non mi mandassero più da mio padre. Dentro avevo tanta rabbia, ma nonostante ciò la mia adolescenza è stata normale: facevo sport, soprattutto calcio, andavo in moto. Ero un ragazzo come tanti altri. Quando e come sono cambiate le cose? Intorno ai vent’anni. La rabbia è esplosa e mi ha diviso da tutti quelli che mi volevano bene. Un amico mi ha fatto provare la droga e mi è piaciuta fin da subito. Ho iniziato a spacciare, ho cambiato compagnie e ambienti. Lo spaccio mi ha dato i soldi che non avevo mai avuto, le ragazze, era tutto relativamente facile. A un certo punto ho perfino deciso di smettere di lavorare (lavoravo nell’edilizia) per dedicarmi solo ad attività illegali. La mia famiglia forse aveva capito qualcosa, ma non voleva vedere. Nessuno, comunque, avrebbe potuto aiutarmi in quel momento, nessuno. Sembrava tutto bello, ma era l’inizio di un incubo... Per dieci anni sono andato avanti a spacciare e non sono mai stato arrestato. Mi sono fermato perché non riuscivo più a venderla: era di più quella che consumavo. Per un po’ ho provato a vivere alla giornata, cedendo piccole quantità. Sono entrato nel giro del crack e ho iniziato a usarlo per due anni, finché sono stato in fin di vita. Mi hanno ricoverato all’ospedale Sacco di Milano, e li ho deciso di smettere con il crack, ma non di disintossicarmi. Ho fatto un “salto di qualità”: sono entrato in una banda di albanesi e ho dato il peggio di me, non avevo più paura di niente, mi sentivo protetto. Sembrava tutto rose e fiori, ma poi ho capito che non potevo più uscirne. Nel 2015, ho commesso un reato grave, una rapina, ma ci hanno preso: il processo è durato quasi cinque anni e alla fine sono stato condannato. Un verdetto pesante, arrivato nel momento per te più sbagliato, proprio quando stavi provando a cambiare vita... Sì, avevo trovato un lavoro normale, una fidanzata (dovevamo sposarci), un hobby sportivo. Ma ho perso tutto. Sono entrato in carcere e ho chiesto aiuto. Mi sono iscritto al servizio Dipendenze e ho intrapreso un percorso difficile e faticoso. Dopo circa 18 mesi sono stato accolto nella comunità terapeutica di Manerbio, dove ero già stato, e questo è stato un passaggio fondamentale. Ho trascorso lì 33 mesi ai domiciliari terapeutici, senza permessi fino al 25esimo mese, quando il magistrato di sorveglianza ha accolto la mia richiesta di poter andare a trovare mia mamma, che in carcere avevo visto solo due volte (non volevo che ci venisse). Per me era fondamentale riabbracciare la mia famiglia per ripartire, ne avevo bisogno, ero stanco. Man mano mi sono stati dati altri permessi e in particolare la possibilità di allenare una squadra di calcio all’Academy Virtus Manerbio. All’inizio ero in preda all’ansia, avevo paura di essere giudicato, quelli come me portano una specie di marchio addosso. E il fatto stesso di avere ricevuto fiducia mi spaventava: sentivo che era una grande occasione e non volevo sprecarla. Mi sono reinserito, pian piano, ho iniziato anche un tirocinio lavorativo tramite la scuola IAL di Brescia in un’azienda, finché ho trovato lavoro presso la Coop 81, che mi ha dato fiducia e che ringrazio immensamente. Cosa ti ha insegnato tutto questo? Ho imparato che se vuoi fare una cosa, devi farlo per te stesso, e non perché te lo dicono gli altri. L’impulso deve venire da te, le persone che hai vicino, anche se mosse dalle migliori intenzioni, non possono aiutarti se tu per primo non vuoi. Mi ha insegnato che è importante affidarsi a dei professionisti e fidarsi. Bisogna chiedere aiuto, recuperare il dialogo con la famiglia, anche se costa fatica. Ma devi anche dimenticare il passato, altrimenti non riesci a cambiare. Io non mi sono mai lamentato della pena altissima che mi è stata data (otto anni in primo grado, ndr), ho pagato il prezzo che avevo con la giustizia e ora sono in pace. So che ho buttato via metà della mia vita tra delinquenza e tossicodipendenza, ma il conto da pagare prima o poi arriva. A chi si trova nella situazione in cui ero io dico: chiedete aiuto subito, perché per precipitare basta un attimo. Ci sono stati momenti in cui ti sei arreso? Ho tentato due volte il suicidio perché non vedevo una via d’uscita. Tutte e due le volte sono stato fortunato perché mi hanno salvato. Ti senti di poter dire: “Ce l’ho fatta?” Bisogna andare avanti giorno per giorno, a piccoli passi, perché per ricaderci basta un attimo. Mi sta aiutando avere piccoli obiettivi raggiungibili. Sono diventato una persona migliore, ma non devo mollare la presa. Cosa ti ha salvato? Sicuramente non il carcere. Va bene che hai sbagliato, ma in quanto uomo hai diritto a una dignità e il carcere è un luogo di tortura, una palestra criminale. Non serve a redimerti, ma a tenere le persone parcheggiate. I percorsi alternativi invece possono davvero cambiarti: certo devi avere la volontà. Io ringrazio la comunità terapeutica di Manerbio, lo SMI (Servizio Multidisciplinare Integrato) di Ospitaletto, la Coop 81, la scuola IAL di Brescia, l’Academy Manerbio, gli avvocati che mi hanno difeso (Valeria Bertin e Gianbattista Scalvi), la mia psicologa dottoressa Karin Spinelli e per finire il responsabile Nicola Danesi. La libertà ai tempi di Meloni e Trump: la democrazia vive di scorciatoie di Nadia Urbinati* Il Domani, 12 agosto 2025 Una ricerca degli scienziati politici Benjamin Page e Martin Gilens mostra che una corrispondenza tra le opinioni dei cittadini e le politiche effettive è possibile solo se ciò che la maggioranza vuole coincide con ciò che vogliono le minoranze economiche. La libertà di parlare c’è (ancora) ma è inefficace. Vale al massimo come prova che esiste. La parola che ben rende l’idea di uno scivolamento delle democrazie costituzionali verso posture autoritarie è “scorciatoia”. Secondo una ricerca empirica del 2014 riconfermata negli anni, gli Stati Uniti sono tecnicamente un’oligarchia. A condurre la ricerca furono Benjamin Page e Martin Gilens, due autorevoli scienziati politici che non sono né massimalisti, né estremisti di sinistra, come i giornalisti italiani amano etichettare coloro che non si limitano a contare i sassi sui quali inciampano. Page e Gilens sono giunti a questa conclusione utilizzando uno standard democratico piuttosto semplice e minimo: vedere se le preferenze e le convinzioni politiche della maggioranza dei cittadini influenzano effettivamente la politica. La ricerca indica che tale influenza è molto debole. Mostra che una certa corrispondenza tra le opinioni dei cittadini e le politiche effettive è ancora possibile, ma solo se ciò che la maggior parte dei cittadini vuole coincide con ciò che vogliono le minoranze economiche. Contrariamente all’ideale democratico, la legislazione negli Stati Uniti semplicemente non tiene conto degli interessi, delle opinioni e del ragionamento della maggior parte dei cittadini. Anzi, ne tiene conto solo se queste collimano con le politiche che soddisfano alcune specifiche preferenze. Pertanto, tecnicamente parlando, gli Stati Uniti non sono una democrazia. I cittadini possono manifestare o sottoscrivere migliaia di petizioni online. Nessuno se ne cale, si direbbe nel bel paese. La libertà di parlare c’è (ancora) ma è inefficace. Vale al massimo come prova che esiste. Le discussioni sul “deficit democratico” sono cominciate in effetti nell’Unione Europea con la crisi economica del 2008. Un esempio: nelle elezioni del 2015 in Grecia, un partito politico con un programma economico sostenuto dalla maggioranza dei cittadini venne democraticamente eletto, ma invece di attuare il programma, ha finito per riproporre le precedenti politiche di austerità che i cittadini avevano respinto alle urne. Di nuovo: la libertà di esprimere opinioni e indicare preferenze resta inefficace e l’arte di governare è spesso una capitolazione. La libertà politica democratica non è come quella civile, nel senso che non è sufficiente averla: occorre che provi ai suoi cittadini che è efficace. Diversamente questi rischiano di perdere fiducia nella democrazia e, magari, farsi convincere da leader autoritari che sarebbe meglio lasciare a loro l’onere di opinare e di decidere. La politica è interessata alla realizzabilità e non è solo libero associarsi e parlare. Ci sono problemi che gruppi e classi di persone avvertono e conoscono, e ci sono strategie per dare loro una risposta. In una democrazia questo processo è collettivo e pluralistico, apre cioè l’arena pubblica alla discussione e alla competizione affinché una parte, quella maggioritaria, abbia la possibilità di mettere in atto, o almeno di provarci, quel che ha promesso nel rispetto delle regole costituzionali. Succede sempre più sistematicamente che le opinioni e le preferenze della maggioranza dei cittadini siano inascoltate, anche se sul loro numero i partiti contano per vincere e governare. Poi, quando sono al governo, fanno sempre più platealmente quel che vogliono, ovvero quel che vuole la parte della società che economicamente conta di più. Dunque, si promette di tagliare le tasse e di rifinanziare la sanità: le due cose non stanno facilmente insieme. Allora, ci si ingegna in una bella strategia mediatica che faccia credere che le due cose stanno insieme. Le facce dei leader che come i preti sull’altare fanno omelie in solitario quasi ogni giorni ha la funzione del medico che rassicura il bambino malato magari con parole mielose: una sanatoria ricompensa del declino della sanità pubblica, un’opera pubblica faraonica darà lavoro a molti. Un’altra strategia è quella di creare tempeste di sabbia con il ventilatore: il carovita morde le vacanze degli italiani e l’eco della stampa orienta l’opinione verso i bagnini. I quali sono certamente esosi (non dovunque) ma una stampa seria dovrebbe chiedersi chi sono gli italiani che vanno verso le spiagge libere (sempre più rare). Forse il turismo di massa non regge all’inflazione, ai salari da fame, alla precarizzazione. E forse lo stesso ceto medio, nonostante i regalini dei condoni, alla fine si trova a scartare il ristorante per un McDonald’s. Poi, una volta che la sabbia si sarà posata, arriverà l’omelia della presidente del consiglio che racconterà la favola bella del paese che va a gonfie vele, e se non lo vediamo è a causa di chi dall’opposizione solleva dubbi. Guai ai dubbi nel paese dove tutto va per il meglio. *Politologa La chiarezza della Consulta e i diritti sul fine vita di Chiara Saraceno La Stampa, 12 agosto 2025 Nella lunga intervista rilascia ieri a questo giornale, Mons. Paglia ha fatto alcune dichiarazioni che meritano qualche chiarimento. La prima riguarda l’oggetto delle diverse sentenze della Corte Costituzionale sul suicidio assistito. Esse non riguardano solo la non punibilità di chi aiuta, in determinate circostanze precisamente definite dalle sentenze del 2019 e poi del 2024 a porre fine alla propria vita. Riguardano anche sia il diritto a lasciarsi morire rifiutando consapevolmente e liberamente cure necessarie alla sopravvivenza o di iniziare una dipendenza da sostegni vitali, sia, appunto, di essere aiutati a porre fine alla propria vita quando ci si trovi a dipendere da sostegni vitali, si sperimentino sofferenze intollerabili e si percepisca la propria condizione come non degna. Un diritto non a morire (che prima o poi tocca a tutti), ma a decidere quando farlo se la vita è diventata non solo soggettivamente, ma oggettivamente intollerabile. Va ricordato che da tempo il suicidio non è un crimine nel nostro ordinamento. Le sentenze della Corte Costituzionale lo rendono accessibile, in nome del principio di uguaglianza, non discriminazione e soprattutto autodeterminazione, a condizioni molto circoscritte e di estrema sofferenza fisica e psichica, a chi, pur desiderandolo, non può procedere totalmente da solo/a. Per evitare che le persone dipendenti da sostegni vitali siano spinte a desiderare il suicidio dalla inadeguatezza, cattiva qualità (non solo tecnica, ma umana) dei sostegni che ricevono, le sentenze più volte richiamano l’obbligo che il Servizio Sanitario Nazionale le fornisca in modo adeguato e accessibile a tutti. Ribadiscono anche la necessità che le cure palliative siano garantite come un diritto a tutti coloro che potrebbero giovarsene. Un diritto a riceverle, cosa che è ben lungi dall’essere realizzata nel nostro Paese, come giustamente ricorda Mons. Paglia, non un obbligo a sottostarvi per un certo periodo di tempo prima di chiedere di poter fare richiesta di suicidio assistito, come invece vorrebbe il disegno di legge della maggioranza sul fine vita. Ma anche una volta garantiti questi diritti, secondo la Corte, se ci sono le condizioni da essa definite, il suicidio assistito va reso possibile. Non solo, vi è una responsabilità precisa del Servizio Sanitario Nazionale sia nell’accertare l’esistenza delle condizioni, sia nel provvedere il necessario. Questo obbligo (che il disegno di legge della maggioranza sembra invece ignorare) appare particolarmente esplicito nell’ultima sentenza della Corte, del maggio scorso, quando ha respinto la richiesta di una signora tetraplegica che il farmaco letale le venisse somministrato da una persona di sua fiducia dato che lei non era in grado di fare i minimi movimenti necessari per provvedere da sé. La Corte, infatti, ha riconosciuto che, in nome del principio di uguaglianza, anche chi, nelle condizioni da essa definite, non può provvedere da sé, ha diritto a porre fine alla propria vita con l’aiuto del Servizio Sanitario Nazionale se lo desidera. La richiesta è stata respinta perché l’Azienda Sanitaria da cui la signora dipende non aveva fatto una ricerca sufficientemente esaustiva sull’esistenza di strumenti di somministrazione del farmaco che potessero essere azionati da un comando oculare, l’unico (ancora) possibile per la signora. Vale la pena di riportare per esteso l’argomentazione della Corte: “Deve infatti affermarsi che la persona rispetto alla quale sia stata positivamente verificata, nelle dovute forme procedurali, la sussistenza di tutte le condizioni da questa Corte indicate … - ovvero, l’esistenza di una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, avvertite come assolutamente intollerabili da una persona tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, o per la quale simili trattamenti sono stati comunque indicati, anche se rifiutati, e tuttavia capace di prendere decisioni libere e consapevoli - ha una situazione soggettiva tutelata, quale consequenziale proiezione della sua libertà di autodeterminazione, e segnatamente ha diritto di essere accompagnata dal Servizio Sanitario Nazionale nella procedura di suicidio medicalmente assistito, diritto che, secondo i principi che regolano il servizio, include il reperimento dei dispositivi idonei, laddove esistenti, e l’ausilio nel relativo impiego”. Una legge che regoli in modo chiaro e univoco procedure, tempistiche e responsabilità delle diverse istituzioni è necessaria per uscire dalla casualità delle scelte politiche e sanitarie locali e nazionali. Sarebbe opportuno che non venisse approvata da una parte sola e magari con voto di fiducia, ma fosse sostenuta da un ampio consenso, come auspica Mons. Paglia. Anche se proprio lui sembra chiudere prima di incominciare: “La Chiesa è contraria al suicido assistito”. Una posizione legittima, ovviamente, che impegna i fedeli, ma che non può essere usata contro le sentenze della Corte e i paletti minimi che hanno individuato entro cui trovare un equilibrio tra il principio di autodeterminazione e la difesa della vita. Albania, il tribunale dà la protezione a due migranti del Bangladesh di Michele Gambirasi Il Manifesto, 12 agosto 2025 Il ricorso contro la decisione di ottobre della Commissione territoriale. Erano stati tra i primi ad arrivare a Gjader all’avvio del protocollo. È stata riconosciuta la protezione internazionale a due dei dodici migranti che per primi varcarono le porte del centro di Gjader in Albania, lo scorso 18 ottobre, quando ancora era in vigore la prima fase del protocollo. A vincere il ricorso contro la decisione della Commissione territoriale, che il 17 ottobre aveva dichiarato la “manifesta infondatezza” delle loro domande, sono stati due cittadini provenienti dal Bangladesh, uno dei paesi ritenuti “sicuri” dal governo. Allora la Commissione valutò le domande in meno di 24 ore dopo un colloquio tenuto a distanza, nel corso delle “procedure accelerate di frontiera” che l’esecutivo ha voluto sperimentare per la prima volta in un paese terzo. Ribaltando la decisione della Commissione, il tribunale di Roma ha disposto in un caso il riconoscimento dello status di rifugiato; nell’altro invece ha assegnato la “protezione sussidiaria”, una forma di protezione concessa nei casi in cui non sussistono le motivazioni per riconoscere lo status di rifugiato, ma si ritiene che il rimpatrio comporti il rischio di esposizione a “trattamenti inumani o degradanti”. Le motivazioni delle sentenze sono state notificate dalla Sezione speciale immigrazione del tribunale di Roma lo scorso 8 agosto, ma i provvedimenti risalgono all’inizio di luglio. Il primo dei due ricorrenti è stato riconosciuto come rifugiato in virtù della sua appartenenza a uno specifico gruppo sociale, quello delle “vittime di tratta a scopo lavorativo”. L’uomo, padre di quattro figlie, era fuggito dal Paese a seguito delle minacce di morte ricevute dal fratello ed era arrivato in Libia, dove aveva lavorato senza ricevere stipendio e in seguito imprigionato per cinque mesi. Era stato liberato solo dopo che le figlie ne avevano pagato il riscatto, vendendo le proprietà di famiglie e indebitandosi con creditori privati a tassi da usura. Ciò, unitamente alla condizione di marginalità della famiglia, aggravata dal vivere in una zona soggetta ad alluvioni che rendevano impossibile lavorare la terra per tre mesi l’anno. “Esprimiamo soddisfazione per l’accoglimento della domanda, che si è rivelata tutt’altro che infondata al punto che è stata riconosciuta una responsabilità dell’amministrazione che è stata condannata a pagare le spese processuali” ha commentato Silvia Calderoni, una delle avvocate dei ricorrenti. Il tribunale, infatti, non condividendo la decisione della Commissione che non aveva ritenuto esistesse il rischio di un “danno grave” in caso di rimpatrio, ha disposto che sia l’amministrazione a pagare le spese di lite, circa duemila euro. Anche nel secondo caso i giudici hanno considerato che i debiti contratti in Bangladesh per finanziare il viaggio avrebbero esposto l’uomo al rischio di retrafficking, ovvero di ricadere nella tratta. Per questo gli ha accordato una protezione sussidiaria di cinque anni, smentendo quanto stabilito dalla Commissione. Un altro ricorso riguardante uno dei dodici migranti arrivati a Gjader dopo il primo viaggio della Libra è tutt’ora in corso. I pronunciamenti sono antecedenti alla sentenza della Corte di giustizia europea del primo agosto, ma le indicazioni coincidono: “Il concetto di Paese sicuro non può essere ridotto a una valutazione geopolitica: anche in Stati formalmente stabili chi vive in condizioni di estrema vulnerabilità può subire violenze gravissime. La sentenza valorizza il potere del giudice di verificare, caso per caso, la legittimità della designazione di un Paese come “sicuro” avvalendosi di fonti plurime e diverse da quelle dell’amministrazione, purché affidabili e nel rispetto del principio del contraddittorio” ha commentato Paolo Iafrate, anche lui tra i difensori dei due migranti. Siria. I rapimenti a catena delle donne e delle ragazze alauite di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 12 agosto 2025 Da febbraio Amnesty International ha ricevuto informazioni attendibili su almeno 36 rapimenti di donne alauite di età compresa tra i tre e i 40 anni. Dai rancori tra comunità siriane, in un ciclo di attacchi e ritorsioni che dalla caduta di Bashar al-Assad pare non avere fine, emergono dati poco noti e raccapriccianti. Da febbraio Amnesty International ha ricevuto informazioni attendibili su almeno 36 rapimenti di donne alauite di età compresa tra i tre e i 40 anni, avvenuti nelle province di Latakia, Tartus, Homs e Hama, ad opera di individui non identificati. Di questi casi, 28 sono stati segnalati da due attiviste, da due giornalisti e dalla Syrian Feminist Lobby, un’organizzazione indipendente per i diritti umani. La metà delle 28 donne e ragazze è stata liberata. La sorte e il luogo in cui si trovano le altre rimangono sconosciuti. Amnesty International ha indagato direttamente su otto dei 36 rapimenti, ai danni di cinque donne adulte e di tre minorenni. Solo due delle otto persone rapite sono riuscite a fare ritorno alle proprie famiglie. L’organizzazione per i diritti umani non è a conoscenza di alcun arresto, incriminazione o procedimento giudiziario nei confronti dei responsabili. Amnesty International ha intervistato alcuni parenti stretti delle otto donne e ragazze rapite. In quattro casi, le famiglie sono state contattate dai sequestratori tramite numeri siriani o utenze straniere, di paesi come Iraq, Emirati Arabi Uniti e Turchia, per chiedere un riscatto o per minacciarle nel caso in cui cercassero le loro congiunte. In sei casi, le stesse vittime di sequestro affermavano di essere in buona salute. Un parente di una ragazza ha raccontato: Era andata in città. La famiglia la aspettava di ritorno nel primo pomeriggio, orario dell’ultima corsa del taxi per il suo villaggio. Ha scritto un messaggio dicendo che era arrivata, ma dopo qualche ora, invece di vederla tornare, la famiglia ha ricevuto una chiamata da un numero straniero che diceva: ‘Non aspettatevi che torni. Vi stiamo chiamando per farvelo sapere. Non provate a cercarla’. Alcune settimane dopo, è stata fornita una prova che la ragazza era ancora in vita ed è stato chiesto un riscatto. La famiglia ha pagato, ma la ragazza non è stata liberata. Due delle rapite, che erano sposate, hanno contattato le rispettive famiglie per chiedere il divorzio dai mariti, informandole che sarebbero state, o erano già state, costrette a sposare i loro sequestratori. Una parente di una delle donne ha raccontato: Tre giorni dopo la sua scomparsa, la famiglia ha ricevuto dei messaggi vocali da un numero straniero. Era lei. Ha detto: ‘Sto bene… Non preoccupatevi per me… Non mi ha fatto del male, ma mi ha sposata. Mi ha detto che non posso tornare…’. In un altro caso, una ragazza minorenne è stata rapita a scopo di estorsione. In seguito, la famiglia è stata informata dalle forze di sicurezza siriane che la giovane era stata “data in sposa”. Amnesty International ha verificato in modo indipendente i dettagli del caso, confermando che il matrimonio è avvenuto senza il consenso dei genitori della ragazza e con ogni probabilità senza l’autorizzazione del tribunale, quindi è illegale secondo la legge siriana. Amnesty International ha ricevuto una fotografia che mostra una ragazza sotto i 18 anni, rapita per ottenere un riscatto, con evidenti segni di percosse. In un altro caso, Amnesty International ha visionato un video in cui un familiare spiegava che il sequestratore, dopo aver rapito la sua parente insieme al figlio, le aveva rasato i capelli per punirla dopo che aveva rifiutato di sposarlo. Per come sono avvenuti, i rapimenti delle donne e delle ragazze alauite potrebbero configurarsi come tratta di esseri umani. In tutti gli otto casi documentati da Amnesty International, le famiglie hanno denunciato formalmente la scomparsa dei propri cari alle autorità, compresa la polizia locale e la Sicurezza generale, sia nella zona in cui è avvenuto il rapimento sia nel luogo di residenza. Tuttavia, in tutti i casi tranne uno le autorità non hanno fornito informazioni sullo stato delle indagini. Un parente di una donna rapita a febbraio ha contattato più volte la Sicurezza generale, fornendo anche il numero di telefono del presunto sequestratore che li aveva contattati. Nonostante ciò, a oggi, la famiglia non ha ricevuto alcuna informazione o aggiornamento da parte delle autorità. In tre casi, i familiari hanno riferito ad Amnesty International che polizia e Sicurezza generale li hanno accusati di essere responsabili del rapimento, ad esempio rimproverandoli per aver permesso alle donne o alle ragazze di uscire di casa o deridendoli per non aver saputo proteggerle o ancora hanno ignorato piste e prove concrete, affermando che erano irrilevanti o false, nonostante la loro evidente attendibilità. Una parente di una donna rapita direttamente dalla propria abitazione ha raccontato i tentativi disperati della famiglia di ritrovarla: La famiglia si è rivolta alla Sicurezza generale e ha presentato una denuncia ufficiale, ma il trattamento è stato terribile… Hanno accusato la famiglia di non essere riuscita a impedirne il rapimento… La famiglia si è pentita di esserci andata. Poi però nelle settimane successive sono tornati [alla Sicurezza generale], ma non è cambiato nulla. Si sono sentiti dire solo che non era successo niente e che non si sapeva chi l’avesse presa. Alcuni familiari che hanno ricevuto richieste di riscatto, compresi i parenti di una minorenne, hanno dichiarato ad Amnesty International di aver informato la Sicurezza generale di ogni telefonata, fornendo il numero telefonico e i nomi delle persone a cui dovevano essere inviati i pagamenti, ma non risulta che le autorità abbiano intrapreso alcuna azione. Nei casi in cui le donne e le ragazze sono state liberate, spesso i familiari hanno subito smesso di parlare dell’accaduto. Hanno spiegato che la scelta è stata motivata principalmente dalla paura di ritorsioni, da parte sia dei responsabili - che non sono stati arrestati - che delle autorità, che hanno intimato alle famiglie di stare zitte e ordinato alle sopravvissute di negare che il rapimento fosse mai avvenuto. Il 22 luglio il Comitato d’inchiesta istituito dal presidente siriano al-Sharaa per indagare sulle uccisioni avvenute sulla costa siriana ha laconicamente dichiarato di non aver ricevuto alcuna segnalazione di rapimenti di donne o ragazze. *Portavoce di Amnesty International Italia