Riflettiamo su cos’è il carcere: espiazione o occasione per rinascere? di Adriano Fabris Avvenire, 11 agosto 2025 L’aumento dei suicidi, le condizioni indegne degli istituti penitenziari, gli agenti di custodia insufficienti: bisogna trovare il modo per agire subito, ripartendo dall’idea di giustizia. Come tutte le estati, anche in questo periodo si torna a parlare della situazione nelle carceri. È una situazione insostenibile per vari motivi. I detenuti in troppi casi sono rinchiusi in spazi ridotti, gli agenti di custodia sono in numero insufficiente, gli edifici adibiti a prigione risultano sovente inadeguati. Non stupisce quindi il fatto che periodicamente esplodano ribellioni o che la rabbia, la frustrazione, la disperazione accumulate vengano rivolte contro di sé. L’aumento dei suicidi nei penitenziari italiani - una tragedia a cui “Avvenire” ha dedicato diverse inchieste, anche raccontando le storie personali di chi non ce l’ha fatta - è un segnale terribile, che deve farci non solo pensare, ma agire: agire subito. Per agire in maniera efficace e giusta, però, bisogna anzitutto riflettere sulla funzione del carcere. Bisogna decidere se esso è solo il luogo in cui si espia una colpa, attraverso la reclusione di chi l’ha commessa, oppure se è anche, e magari soprattutto, un’occasione per riabilitarsi. È chiaro che non ci può essere una trasgressione senza punizione: è il modo per ripristinare relazioni equilibrate all’interno della società. Ma è altrettanto chiaro che la punizione non può esaurirsi in se stessa. Se fosse così, sarebbe qualcosa di sterile. Sono sterili, infatti, sia il macerarsi puro e semplice nella mortificazione per ciò che d’irreparabile è stato fatto, sia la volontà di vendicarsi del dolore che è stato inflitto. Se ci si ferma a questo non c’è sbocco, non c’è via d’uscita alla situazione provocata da un male fatto o subìto. Questo male, certo, è per molti aspetti irreparabile. La vittima di un omicidio non ritorna in vita; chi è stato oggetto di violenza ne porta il segno per sempre. Ma, ripeto, limitarsi all’espiazione del gesto compiuto non basta, ripagare della stessa moneta chi ha fatto un torto non porta a nulla. Bisogna invece trovare il modo, per quanto possibile, di ripristinare le relazioni e di reinserire chi ha fatto del male in quella rete di legami che proprio lui (o lei) ha spezzato. Ecco la differenza tra la vendetta e la giustizia. Per farlo non bastano certo le parole. Ci sono azioni che, anche nell’attuale condizione di carenza strutturale che il carcere conosce, possono essere concretamente compiute. Si tratta ad esempio di specifiche attività di formazione. In esse non conta solo ciò che viene insegnato. Conta soprattutto quanto viene veicolato con tali attività. Da sette anni sono coinvolto al carcere di Lugano in una serie di corsi di comunicazione consapevole organizzati dall’Ufficio Assistenza Riabilitativa del Canton Ticino, in collaborazione con la Facoltà di Teologia dell’Università della Svizzera Italiana. Lo scopo dei corsi è di aiutare chi li sceglie a gestire comunicativamente i conflitti, evitando che le emozioni negative prendano il sopravvento e che i conflitti portino ad atti violenti. Ogni lezione comprende interazioni concrete e simulazioni, e si conclude con un esame finale. Come dicevo, l’importante in questi corsi è soprattutto ciò che passa attraverso il confronto fra docenti e studenti, e che viene messo in opera nelle relazioni degli studenti fra loro. Si tratta in particolare di due cose: rispetto e speranza. Rispetto significa riconoscere la dignità di chiunque, anche di chi ha sbagliato. Speranza vuol dire che per tutti c’è la possibilità di cambiare, che questa possibilità è reale e che il mondo non coincide con le mura di una prigione. Basta provare a invertire la rotta: pur portando su di sé la responsabilità e il peso del passato. Se si configura in questo modo, la giustizia può contribuire davvero a riparare il male compiuto. Può non solo limitarsi a stabilire una punizione commisurata al reato commesso ma aprirsi al ripristino - anche secondo i percorsi che la legislazione italiana ha recentemente definito - di quelle relazioni positive che il colpevole ha distrutto. Certo, non è facile arrivarci. Le ferite inferte, spesso, sono ancora troppo dolorose. Chi chiede scusa non sempre è sincero, o non capisce fino in fondo ciò che ha fatto. Ma se il carcere non vuol essere solo il luogo in cui sconta una pena, cioè il posto in cui è rinchiuso - talvolta senza rispetto per la sua dignità - chi ha commesso un reato, bisogna scommettere sulla possibilità che un cambiamento vi sia. E bisogna anzitutto farglielo capire. Altrimenti continueremo a raccogliere, come purtroppo molto spesso oggi accade, solo le conseguenze della sua disperazione. Nelle carceri italiane diritti e rieducazione restano lettera morta di Nadia Conticelli* La Stampa, 11 agosto 2025 il cinquantesimo anniversario della riforma carceraria sarebbe un’occasione per dirci se quello spirito, in una fase di grandi riforme nello spirito costituzionale, abbia trovato reale applicazione e dato i frutti sperati. E invece ci si trova a contare i suicidi, già oltre 50 e siamo a poco più di metà anno. Ai problemi endemici dell’istituzione carceraria italiana - organico carente, strutture fatiscenti e inadeguate - si è aggiunto un disinvestimento sulle attività: dai laboratori all’istruzione superiore, filo tenue che collega detenzione e orizzonte di reinserimento sociale. Tra una notizia di cronaca e l’altra i mantra del governo sono nuove carceri e solidarietà alla polizia penitenziaria. Due temi importanti, declinati però a colpi di slogan. Le forze dell’ordine in carcere lavorano in condizioni di forte precarietà, legata al sottodimensionamento dell’organico e al forte disagio fisico, psicologico e strutturale in cui vivono i detenuti. Affrontare il tema della vivibilità all’interno degli istituti di pena e dei reali percorsi di rieducazione significa affrontare i problemi quotidiani di tutti coloro che sono trattenuti o che lavorano all’interno di queste strutture. Non ci sono scorciatoie. Ed è preoccupante lo scivolone politico, e anche di merito, dei colleghi consiglieri regionali di Fratelli d’Italia rispetto al ruolo del Garante. Una figura di garanzia che ha il compito specifico di coadiuvare l’applicazione della legge nel rispetto dei diritti e delle condizioni della popolazione carceraria. Servono nuovi carceri? Cominciamo a intervenire su quelle già esistenti, garantire il personale sufficiente per le misure alternative alla detenzione, procedimenti rapidi e rispettosi della dignità e della vita delle persone. Non serve cercare altri tappeti dove spazzare sotto la polvere, bisogna affrontare il problema della polvere. In tal senso, il lavoro dei Garanti regionale e comunale sono stati encomiabili. Senza partigianeria, un aiuto per le istituzioni, di denuncia ma anche di collaborazione nell’individuare le migliori soluzioni possibili. La maggioranza regionale a trazione meloniana ha voluto invece imprimere una direzione diversa, superficiale e politicamente identitaria, che non mira a risultati concreti e verrà pagata sulla pelle da tutti coloro che conducono, per un motivo per l’altro, l’esistenza all’interno delle carceri. In questo quadro, la scelta della/del Garante torinese si carica di una valenza e di una responsabilità particolare nell’individuare una figura che sia di reale garanzia, di esperienza, con capacità di dialogo e confronto istituzionale. I presupposti ci sono. *Consigliera regionale del Pd Polizia penitenziaria disarmata anche moralmente dalla burocrazia: ora sogna la fuga dal Dap di Leo Beneduci* Il Fatto Quotidiano, 11 agosto 2025 Tra i poliziotti penitenziari crescono sfiducia, disaffezione e fatalismo di chi ritiene che non vi sia più alcun futuro nel proprio lavoro. Polizia penitenziaria disarmata anche moralmente dalla burocrazia: ora sogna la fuga dal Dap. È ormai un dato di fatto: gli appartenenti alle Forze di Polizia che operano nelle strade hanno in dotazione strumenti e protezioni anche legali, mentre gli agenti di Polizia penitenziaria che operano nelle carceri sono disarmati di tutto e pagano in prima persona le conseguenze delle innumerevoli conflittualità-contraddizioni del sistema, comprese quelle intestine all’Amministrazione penitenziaria centrale - il Dap - per l’accaparramento delle poltrone più remunerative. E’ però il cannibalismo burocratico fatto di ritardi e di disposizioni inattuabili da parte di un centro che non comprende più quello che accade nelle proprie diramazioni (le carceri) ciò che sta disarmando anche moralmente la Polizia penitenziaria, perché gli istituti penitenziari sono oggi un coacervo di traffici (sostanze e telefonini) controllati dalle criminalità, di armi rudimentali, di aggressioni tra le etnie e verso il personale e di gravissime carenze sanitarie (nei confronti di tossicodipendenti, malati cronici e affetti da patologie psichiatriche) che chi dispone di un bagaglio di pochi mesi di formazione (quattro mesi, al momento, per diventare agente), con una carenza media degli organici del 25% in ogni sede, non può né prevenire né contrastare. Ma la politica e le istituzioni, in generale, del carcere vedono solo il sovraffollamento e i suicidi, che certamente sono un male, ma non il male assoluto di un sistema che non funziona, che non produce maggiore sicurezza per la collettività - semmai esattamente il contrario - e che oggi penalizza, più o meno allo stesso modo, chi nel carcere paga il proprio debito e chi nel carcere lavora. Il Corpo di Polizia Penitenziaria nasce dalla smilitarizzazione dell’ex Corpo degli Agenti di Custodia di cui alla Legge 15 dicembre 1990, n.395, ma la legge ha miseramente fallito le propria principale finalità, atteso che l’unificazione dell’Amministrazione penitenziaria verso un indirizzo e attività univoci, in tutti i propri innumerevoli profili professionali (oltre 30) e a partire da quello di direttore penitenziario, dopo 35 anni non si è verificata e tuttora convivono all’interno del Dap almeno 5 aree contrattuali distinte, oltre ad innumerevoli contratti di diritto privato. Sempre in virtù della medesima legge 395/1990, gli appartenenti al Corpo di Polizia penitenziaria dispongono delle qualifiche di agenti ed ufficiali di Polizia Giudiziaria, per le quali dipenderebbero da Prefetti e Questori, e in ragione del Codice della Strada di agenti di Polizia Stradale, ma l’unica e concreta dipendenza funzionale e gerarchica è quella nei confronti dei direttori penitenziari che, pur non appartenendo alle Forze di Polizia con relative qualifiche, dispongono direttamente e in ogni momento dell’impiego dei poliziotti penitenziari. Si tratta di contraddizioni di particolare peso e che nel tempo hanno determinato esse stesse l’inerzia di un sistema che non si evolve al passo con i tempi (se non attraverso progetti di ampliamento dei posti detentivi che, come sembrerebbe, in assenza di incrementi di organico andranno a moltiplicare i già ingenti carichi di lavoro interni, con turni anche di 12-14 ore consecutive giornaliere, piuttosto che attenuarli). La Polizia Penitenziaria, che pure rappresenta l’87% dei dipendenti del Dap, non vede minimante riconosciuti il proprio ruolo e le proprie peculiarità di unico Corpo di Polizia dello Stato, che oltre alle attribuzioni tipiche delle Forze di Polizia, oltre ai compiti di sorveglianza e custodia, assolve a funzioni di vera e propria pacificazione sociale nella diretta partecipazione alle attività di osservazione e di trattamento rieducativo dei detenuti all’interno delle carceri. In quelle stesse carceri dove stanno crescendo a dismisura nei poliziotti penitenziari la sfiducia, la disaffezione e il fatalismo di chi ritiene che non vi sia più alcun futuro nel proprio lavoro. Fortemente sintomatica, quindi, la direttiva del Ministro dell’Interno del 17 dicembre 2024 che diventa il manifesto dell’esclusione della Polizia Penitenziaria. Il titolare dell’Interno dà istruzioni operative dettagliate a Prefetti, Capo della Polizia, Comandanti di Carabinieri e Guardia di Finanza, trascurando completamente l’impatto degli arresti sulle competenze della Polizia Penitenziaria e ovviamente sulle carceri; Servizi straordinari interforze “ad alto impatto”, 800 militari dell’Operazione Strade Sicure, “Patti per le Stazioni Sicure”, daspo urbano, ordinanze sindacali coordinate. Tutto pianificato per chi cattura, niente per chi deve custodire, ovvero mantenere vigenti anche in carcere le regole dello Stato e della civile convivenza Eppure, l’interazione tra Ministero dell’Interno e quello della Giustizia si era sviluppata con la circolare Gabrielli sulle rivolte. Ma evidentemente Piantedosi ha percepito l’attuale inconsistenza del Dap e ha preferito non coinvolgerlo, lasciando la Polizia Penitenziaria nell’Atlantide sommersa di Largo Daga a Roma: da una parte il Viminale che costruisce metodicamente strategie coordinate e operative, dall’altra il Dap e il Ministero della Giustizia che improvvisano continuamente l’emergenza penitenziaria attraverso l’approssimazione burocratica. Un’approssimazione che i poliziotti penitenziari ascoltano ogni giorno e che li fa sentire sempre più soli nelle avversità, fino al punto di lasciar loro immaginare una diversa collocazione, più idonea e confacente alle proprie attribuzioni e alle proprie esigenze e non più presso un Dap costoso e inutile, che non li merita, non li riconosce e che ormai va lasciato da solo nella propria decadenza. *Segretario Sindacato Polizia Penitenziaria La giustizia italiana e una crisi di sistema che non si può più ignorare di Claudio Cerasa Il Foglio, 11 agosto 2025 Al di là dei singoli casi di conflitto con la politica, al di là delle esondazioni dei pm. È l’impianto istituzionale che, per come è costruito, espone i magistrati alla tentazione o al sospetto di agire fuori dal proprio ruolo. Con tutto il rispetto, francamente, anche basta, grazie. Con tutto il rispetto, onestamente, anche meno scemenze, grazie. Con tutto il rispetto, sinceramente, quando si parla di giustizia in Italia, forse, sarebbe il caso di togliersi gli affettati dagli occhi e iniziare a guardare la realtà per quello che è, non per quello che vorremmo vedere. E la realtà, purtroppo, ci dice qualcosa che da anni ci ostiniamo a non voler vedere. Qualcosa che non riguarda le singole inchieste della magistratura. Qualcosa che non riguarda il singolo caso oggetto di conflitto. Qualcosa di molto più importante della storia di Almasri, della storia dei paesi sicuri, della storia dell’urbanistica, della storia di Ilva. Il problema, quando si parla di giustizia in Italia, è che in troppi fanno finta di vivere in un paese semplicemente che non c’è. Il punto non è soltanto ragionare sulle esondazioni delle procure. Il punto è capire che per come è fatta oggi la giustizia italiana è impossibile non pensare che dietro un’inchiesta ci possa essere qualcosa di diverso dalla volontà genuina di accertare un fatto. La colpa non è dei magistrati, neppure di quelli più disinvolti. La colpa è non voler capire che il dramma della giustizia italiana è negare che vi sia un sistema malato, tossico, corrosivo, costruito in modo tale da rendere le esondazioni sistematiche, da rendere la criminalizzazione della politica come un atto dovuto, da rendere la politicizzazione della magistratura come un tratto della normalità giudiziaria. Quando si parla del conflitto tra magistratura e politica non è sufficiente ragionare solo sui rapporti di forza che esistono in un determinato periodo storico. Bisognerebbe avere il coraggio di fare un passo in avanti e capire che quello che abbiamo ormai accettato come la normalità coincide con un sistema che normale non è. Non è normale avere una magistratura dotata di un potere immenso e di reati vaghi per poter agire in modo discrezionale, andando a costruire processi sulla base di sospetti e non di prove. Non è normale avere una magistratura all’interno della quale si fa spesso, non sempre per fortuna, carriera sulla base dell’appartenenza correntizia, e sulla base dunque non dei risultati ottenuti ma della notorietà acquisita da un magistrato. Non è normale avere una magistratura che considera l’utilizzo del processo mediatico come un ordinario strumento di rafforzamento delle tesi accusatorie. Non è normale avere un magistrato che quando sbaglia più che punito viene spostato da una sede a un’altra. Non è normale avere una magistratura che considera un suo dovere occuparsi non solo delle responsabilità individuali ma anche dei fenomeni sociali. Non è normale avere un sistema giudiziario rappresentato da associazioni sindacali che non considerano un’anomalia attivarsi per fare campagna elettorale contro un ministro o contro un governo e non è normale in un paese come l’Italia in cui grazie a un sistema giudiziario capace di trasformare i sospetti in sentenze a qualche magistrato potrebbe venire in mente di usare la clava giudiziaria anche per affermare le proprie idee politiche. Quando si parla di giustizia in Italia, quando si parla del rapporto tra potere giudiziario e potere legislativo ed esecutivo, spesso si parla in astratto, si parla come se l’Italia fosse un paese normale in cui la giustizia è sempre estranea a ogni tentazione politica, in cui le indagini non vengono mai portate avanti con strumenti impropri, in cui gli strumenti della giustizia non vengono mai utilizzati per entrare in un perimetro che nulla dovrebbe avere a che fare con il perimetro giudiziario. Quando si parla di giustizia in Italia, però, bisognerebbe avere il coraggio di dire che le cose non stanno così, che gli equilibri tra potere giudiziario e potere legislativo non sono stati guastati dalla politica, ma sono stati guastati dai magistrati, alcuni dei quali oggi si pentono fortissimamente anche di quello che hanno fatto in passato, e che dunque prima di trasformare un’indagine in una condanna, un sospetto in una prova, un’intercettazione in una sentenza, bisognerebbe pensare se davvero, come si dice in queste ore, la delegittimazione della magistratura, di quella più disordinata e spregiudicata, sia opera della politica, brutta e cattiva, o se la delegittimazione della magistratura sia opera di chi, rifiutandosi di osservare un sistema che non funziona come dovrebbe, considera la difesa dello status quo come l’unico modo per non cambiare nulla in una stagione in cui bisognerebbe cambiare molto. Non è una critica ai magistrati in quanto tali, ma a un impianto istituzionale che, per come è costruito, espone anche i più scrupolosi alla tentazione o al sospetto di agire fuori dal proprio ruolo. Il problema, quando si parla del caso Almasri, del caso paesi sicuri, del caso urbanistica, non è tanto ragionare sulla singola inchiesta, sul modo in cui eventualmente la magistratura abbia trovato un modo per criminalizzare la politica. Il punto, in questi casi, è provare a fare un salto logico, un salto in avanti, e ammettere che se vi sono sospetti che la magistratura possa agire non solo per mettere in luce eventuali reati ma anche per arrivare a scopi diversi la colpa non è della politica che denuncia ma di chi non capisce una verità che meriterebbe di essere illuminata: la delegittimazione della magistratura non dipende della politica ma dipende da una magistratura che ha trasformato la difesa della sua irresponsabilità nell’unico modo per difendere la nostra Costituzione. Con tutto il rispetto, francamente, anche basta, grazie. Il referendum sulla giustizia? Il Governo lo può perdere di Alberto Gentili huffingtonpost.it, 11 agosto 2025 Il sondaggista Antonio Noto: “La partita referendaria è un vero scoglio, su un tema sensibile, e potrebbe avere un importante impatto sul governo”. Si voterà pro o contro il Governo. E il referendum confermativo rischia di avere l’effetto di una bomba. Certo, c’è il Guardasigilli Carlo Nordio che appena può dispensa ottimismo: “Vinceremo sicuramente”. E Meloni non è stata da meno: “Gli italiani sono e saranno con me”. Ma la premier non ne deve essere così sicura, se nei giorni scorsi ha commissionato alcuni sondaggi per conoscere l’orientamento di voto degli italiani e sta aspettando trepidante i risultati. E se ha già detto chiaro e tondo che non si dimetterà, nel caso che al referendum (per il quale non è necessario il quorum) dovesse prevalere il no. Giorgia è tutt’altro che tranquilla. Anzi, è piuttosto nervosa. La ragione la spiega ad Huffpost il sondaggista Antonio Noto: “La partita referendaria è un vero scoglio, una cosa seria, su un tema sensibile, delicato, e potrebbe avere un importante impatto sul governo”. Anche perché “gli italiani, al contrario dei politici, non nutrono un’avversione nei riguardi dei magistrati e non sono contro di loro. Tutt’altro”. In più, secondo Noto, “come è accaduto alla riforma di Renzi nel 2016, alla fine il voto si politicizzerà. Si voterà pro o contro il governo. E il centrodestra ha la maggioranza in Parlamento grazie alla legge elettorale, ma nel Paese a prevalere e a pesare di più sono le forze d’opposizione nel loro insieme. Dunque…”. Dunque il referendum confermativo rischia di avere l’effetto di una bomba. Con danni collaterali per il governo superiori a quelli di un’eventuale sconfitta alle elezioni regionali d’autunno. “In questa tornata elettorale”, osserva Noto, “al massimo il centrodestra perderà le Marche. Ma, anche se così fosse, la polemica durerà una settimana e poi Meloni potrà proseguire tranquilla. Se invece la premier dovesse uscire sconfitta dal referendum su una riforma politicamente sensibile come quella della giustizia, l’impatto potrebbe essere ben più serio…”. È questa la ragione che ha spinto Meloni a portarsi avanti con il lavoro e ad avviare, di soppiatto, la campagna referendaria. La prova? Quando, nei giorni scorsi, i giudici che indagano sul rilascio del generale e criminale libico Almasri hanno chiesto l’autorizzazione a procedere contro Nordio, il sottosegretario Alfredo Mantovano e il ministro degli Interni, Matteo Piantedosi, la premier non si è limitata a stigmatizzare la decisione dei magistrati. Ha parlato di “disegno politico”. Ha chiamato, astutamente, in causa i giudici sul tema (popolare) dello stop ai migranti: “E’ come se in qualche maniera si volesse frenare la nostra opera di contrasto all’immigrazione illegale”. E ha lanciato il sospetto che l’azione dei magistrati sia una ritorsione per la separazione delle carriere: “Ovviamente a me non sfugge che la riforma della giustizia procede e passi spediti e ho messo in conto eventuali conseguenze”. Concetti rilanciati, con commuovente spirito di squadra, dagli alleati Matteo Salvini e Antonio Tajani. Adesso, per capire se la campagna contro i giudici solletica gli elettori, Meloni attende i sondaggi. L’ultima rilevazione, quella di Youtrend del primo agosto, ha fotografato una sostanziale parità: 51% per il sì e il 49% degli italiani per il no. Ma questo scarto non basta a tranquillizzare la premier perché, come osserva Noto, “Renzi nel 2016 aveva tutti i sondaggi a favore. Però, mese dopo mese, il voto si politicizzò e alla fine ne uscì sconfitto. E si dimise”. Non sarà questo, vista anche l’assenza di un’alternativa di governo, l’eventuale epilogo per Meloni. Ma, di certo, una sconfitta referendaria avrebbe sul centrodestra l’effetto di uno tsunami. Tant’è che a via della Scrofa, quartier generale dei Fratelli d’Italia, c’è addirittura chi non esclude una frenata sulla riforma della giustizia. Finora la maggioranza ha previsto il via libera, a tappe forzate, entro l’anno. La strada non è poi così lunga: manca il secondo e ultimo sì del Senato e della Camera. Ma, se diventasse concreto il rischio di una batosta al referendum, la separazione delle carriere dei magistrati potrebbe diventare improvvisamente meno urgente. Un po’ ciò che è accaduto al premierato, quello finito nel cassetto. “Il rinvio però è solo di ipotesi remota, del terzo tipo”, si affretta a precisare un colonnello meloniano. Anche perché a questo punto, con il feroce scontro con i magistrati in atto, la frenata avrebbe per la premier il sapore della resa. E la clamorosa rinuncia alla sbandierata, ma finora disattesa, aspirazione riformista. Perciò per Meloni tanto vale rischiare, cavalcando una riforma apprezzata pure da diversi moderati fuori dal perimetro del centrodestra. E soprattutto, si diceva, Giorgia non ha alcuna intenzione di mollare palazzo Chigi. “E visto che né Salvini, né Tajani vogliono andare a elezioni”, conclude Noto, “in caso di sconfitta si blinderebbero tutti assieme al governo. Se invece alle urne prevalesse il sì, la maggioranza riprenderebbe forza e slancio in vista delle elezioni della primavera del 2027”. La sinistra e quel vizio di lasciare le chiavi dell’opposizione ai magistrati di Paolo Delgado Il Dubbio, 11 agosto 2025 Da Tangentopoli al caso Almasri, al di là del merito giuridico delle questioni, l’opposizione ha ceduto nuovamente alla tentazione di accodarsi alle toghe. Dalla deflagrazione nucleare di Tangentopoli sono passati 32 anni. I partiti che in quell’estate carica di tensione dominavano ancora la scena politica italiana sono scomparsi tutti da tre decenni. Un’intera generazione politica successiva ha calcato le scene, guidato a turno il governo e l’opposizione per poi sparire nella panchina dei pensionati più o meno di lusso. Eppure, a sinistra, la tentazione di affidare alla magistratura il timone dell’opposizione non è scalfito. Al contrario, quella tentazione si impone ancor più di allora e con modalità ancora più assolute, senza nemmeno più quei margini di dubbio e di difesa dell’autonomia della politica che albergavano ancora nei dirigenti del Pds-Ds, a partire da Massimo D’Alema. Senza l’intervento della magistratura quello dell’opposizione si riduce puntualmente a un balbettio inoffensivo. Il caso dei centri in Albania ne è una prova vistosa, ma lo sono ancora di più il dl Sicurezza e ora il caso Almasri. Contro il dl Sicurezza erano mobilitate entrambe le parti che si occupano della giustizia per professione: era stato bocciato, caso quasi unico, dall’avvocatura come della magistratura. I dubbi e il malessere del Colle erano palesi e quasi esibiti. Le divisioni all’interno della maggioranza correvano sotto pelle col forte rischio di emergere se solo si fosse data l’occasione opportuna. Così non è stato. Alle prese con il più rilevante e il peggiore tra gli atti di questo governo, l’opposizione è apparsa paralizzata. Sarebbe andata allo stesso modo sul caso Almasri: molti strilli ma nessuna incisività se non si fosse messa di mezzo la magistratura, con una mossa peraltro nel complesso tanto goffa da rischiare di portare molta acqua al mulino della destra. “La vicenda non toglierà un voto alla destra ma gliene regalerà 10, anzi 20”, diceva ieri in tv Paolo Mieli e forse esagerava un po’ ma non troppo. L’opposizione pigola e squittisce quando ci si muove sul terreno della politica. Prova se non proprio a ruggire almeno a farsi sentire se è al coperto di una decisione della magistratura. I trasferimenti in Albania sono illegali prima e più che sbagliati. Il delitto del governo italiano è aver liberato un aguzzino inseguito da mandato di cattura internazionale, ma mantenere gli accordi sciagurati con la Libia lo è di più. Accordi che hanno poi spinto il governo a rimettere in libertà Almasri. La ragion d’essere di una intera parte politica, petizioni di principio come quella sul salario minimo a parte, sembra essere l’occhiuto controllo sulla legalità o meno degli atti del governo, al punto che un dirigente dell’opposizione, probabilmente trascinato dall’enfasi, si è lanciato qualche sere fa in tv in un increscioso “Per invadere un altro Paese bisogna che lo dica un giudice”. Sic! Questa capitolazione della politica va molto al di là dello spesso furbesco schieramento a fianco del potere togato negli anni di Tangentopoli e nella lunga fase immediatamente successiva. Allora l’opposizione, soprattutto il Pds poi Ds, sperava che la magistratura indagando sulla corruzione mettesse fuori gioco i rivali politici spianando la strada per una facile vittoria elettorale. Poi, mancato quell’obiettivo nel 1994, ha puntato sulla delegittimazione per via giudiziaria dell’avversario Silvio. Oggi le cose stanno diversamente. La magistratura interviene non sugli eventuali scheletri nell’armadio dei leader politici, di destra o di sinistra, ma interviene direttamente sulle scelte politiche, poco importa quanto discutibili, dei governi e delle amministrazioni. L’opposizione, nel frattempo geneticamente modificata dall’impatto di un partito come il M5S e del suo house organ Il Fatto, si accoda. Il risultato è illustrato nei particolari proprio dal caso Almasri: su tutto infuria la polemica tranne che sulla sola nota realmente dolente, il patto con Tripoli, i finanziamenti a una Guardia Costiera composta da trafficanti, i metodi adoperati da chi sorveglia le coste per conto dell’Italia, i lager, le torture, le uccisioni, gli Almasri che sono tanti e non uno solo. Quanto insistere nel battere questa via come continua a fare la sinistra sia esiziale per il sistema politico in generale è evidente, essendo la politica stessa, che non può mai ridursi al controllo di legalità, è evidente. Quanto sia opportunisticamente utile anche solo sul piano spiccio del consenso, invece, è molto più che incerto. Violenza di genere, la teoria e la pratica di Giusi Fasano Corriere della Sera, 11 agosto 2025 I tempi di attesa per avere un braccialetto elettronico uno vanno ben oltre i ragionevoli quattro giorni fissati dal contratto fra la Giustizia e Fastweb per attivare tecnici e apparecchio. I buoni propositi, si sa, non costano niente, e intendo nel senso economico vero e proprio. Così come non costava nulla quell’annuncio che diceva “abbiamo abolito la povertà”, è sempre a costo zero che abbiamo salutato - con favore, e stavolta credendoci molto di più - l’ipotesi dell’utilizzo massiccio dei braccialetti elettronici previsto dalla recente legge Roccella in materia di violenza di genere. “Ne abbiamo potenziato l’efficacia come strumento di controllo delle misure cautelari”, ha detto la ministra alle Pari opportunità Eugenia Roccella illustrando le novità previste dal suo provvedimento. E in effetti è tutto vero, sulla carta. Il problema, come sempre, è che poi le regole vanno applicate e se fino alla teoria si cammina nel territorio della ragionevolezza e della logica, nella realtà poi si entra (spesso) nei campi minati, e lì diventa tutto molto più complicato. I campi sono minati soprattutto dal numero di braccialetti disponibili: troppo pochi rispetto alla richiesta, e il che significa una sola cosa, cioè che i tempi di attesa per averne uno vanno ben oltre i ragionevoli quattro giorni fissati dal contratto fra la Giustizia e Fastweb per attivare tecnici e apparecchio. I campi sono minati anche da qualche problema tecnico o di linea telefonica, ma sul fronte tecnologico tutto è superabile. Quindi è su quello pratico, numerico, che è necessario intervenire. Per farla breve: serve un investimento reale. Soldi. Modifica del contratto. Serve prevedere un numero massimo di braccialetti elettronici mensili che vada oltre i 1.200 attuali (attivati per tutti i tipi di reati, non soltanto quelli di genere). Anche perché le cifre del loro utilizzo crescono in fretta: a dicembre del 2023 il numero di braccialetti attivi era 5.695, di cui 1.018 era dedicato a casi di stalking. Alla fine del 2024 i dispositivi in azione erano praticamente il doppio: 10.458, di cui 4.677 con funzione anti-stalking. Il procuratore di Tivoli Francesco Menditto, da sempre attento al tema della violenza domestica, ha detto ai microfoni del Tg regionale della Rai che “ne servirebbero almeno 1.500 al mese”, che “basterebbe una modifica contrattuale”. Si tratta di “pochi soldi per dare più sicurezza alle vittime”. E ha aggiunto che “lo abbiamo segnalato a tutti i livelli”. Ecco. Cari “tutti i livelli”, adesso lo sapete: stavolta serve davvero poco perché i buoni propositi diventino realtà. Obbligatorio l’espresso assenso del difensore all’elezione di domicilio presso il suo studio di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 11 agosto 2025 Si tratta di vera e propria condizione di efficacia dell’indicazione espressa dall’indagato di voler domiciliarsi presso il difensore d’ufficio ai fini della valida ricezione degli atti da parte dell’autorità giudiziaria procedente. Non è valido luogo di notificazione lo studio del difensore presso cui l’indagato ha inteso domiciliarsi se il legale non ha avuto modo di assentire all’elezione di domicilio. Non è quindi abnorme la restituzione degli atti al pubblico ministero se la notifica all’indagato dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari prevista dall’articolo 415 bis del Codice di procedura penale è irregolare perché è stata effettuata presso il difensore di ufficio senza che questi fosse stato interpellato e avesse di conseguenza accettato l’elezione di domicilio presso il suo studio come dichiarata da parte dell’indagato stesso. La Corte di cassazione penale - con la sentenza n. 28903/2025 - ha respinto infatti il ricorso del procuratore contro l’ordinanza con cui il Tribunale in sede predibattimentale aveva disposto la restituzione degli atti al Pm per l’irregolarità della notifica dell’avviso al difensore d’ufficio che non aveva assentito all’elezione di domicilio presso di lui fatta dalla persona sottoposta alle indagini. La tesi del ricorso - Secondo il ricorrente l’adempimento della notificazione dell’avviso di conclusione delle indagini era invece da considerarsi regolare perché fatta al domicilio eletto dalla persona sottoposta alle indagini, cioè “presso lo studio del difensore”. Ciò in base alla norma dell’articolo 157 ter del Cpp che disciplina le notifiche degli atti introduttivi del giudizio all’imputato non detenuto. Al limite - prosegue il ricorso - va affermata la nullità della notifica per la mancata accettazione da parte del difensore d’ufficio dell’elezione di domicilio. Ma non con la conseguenza della restituzione degli atti, che sarebbe da giudicare illegittima regressione del procedimento. In quanto - prosegue il ricorso - sempre a norma dell’articolo 157 ter del Cpp la notifica nulla spetta ripeterla al giudice del dibattimento. Invece, proprio a causa della restituzione degli atti al Pm l’adempimento andava ripetuto dallo stesso Pm e con le medesime modalità di quanto già fatto inizialmente in base all’articolo 415 bis del Codice. Sulla legittimità o meno della conseguente regressione del procedimento - dovuta alla restituzione degli atti al Pm - lo stesso Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di cassazione aveva proposto di rinviare la questione alle sezioni Unite penali. L’interpretazione contraria della Cassazione - Ma la Suprema Corte opta per una declaratoria di infondatezza del ricorso interpretando le disposizioni contenute nell’articolo 162 del Cpp che regolano le formalità per la regolare comunicazione del domicilio eletto o dichiarato o mutato. La norma in primis statuisce che l’indicazione sia raccolta nel verbale (in caso di identificazione da parte della polizia giudiziaria), tramite telegramma o lettera raccomandata con sottoscrizione autenticata da un notaio, da persona autorizzata o dal difensore stesso. Ma la stessa norma al suo comma 4 bis prevede precisamente che l’elezione di domicilio presso il difensore d’ufficio non dispiega i suoi effetti se unitamente a essa il giudice non riceve l’espresso assenso del difensore indicato come “domiciliatario”. Il comma è stato aggiunto dalla legge 103/2017 e poi modificato dalla Riforma Cartabia. Sempre in base al nuovo comma è previsto che il difensore deve attestare al giudice però di aver comunicato all’imputato il proprio mancato assenso o la causa che gli abbia impedito di effettuare tale comunicazione. Da tutto ciò deriva che va affermata la centralità dell’assenso del difensore ai fini dell’efficacia dell’elezione di domicilio. La norma erroneamente letta dal ricorso - La Cassazione dissente dal richiamo fatto dal ricorrente alle regole dettate dall’articolo 157 bis del Cpp e seguenti sulle forme della notifica perché in realtà non riferite all’avviso di conclusione delle indagini e soprattutto perché previste per la successiva sequenza procedimentale dopo che la prima notifica non sia andata a buon fine, ossia la norma regola le notifiche “successive alla prima” ex articolo 157 del Cpp. E, nel caso risolto, non risulta che sia stata fatta una notifica precedente. Ma si fa riferimento solo all’elezione di domicilio (non accettata dal legale) indicata nel verbale di identificazione. Ciò che non consente la notifica al difensore d’ufficio senza che presso il medesimo sia stato eletto valido domicilio. La norma invocata dal ricorso disciplina in effetti le notifiche che prescindono dall’avvenuta elezione di domicilio. Conclusioni - Nell’escludere che nel caso concreto la restituzione degli atti al Pm - per l’invalidità della notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari - sia stata illegittima la Cassazione precisa di aver già affermato, ad esempio, che le notifiche in via generale al difensore d’ufficio dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari e del decreto di citazione diretta a giudizio dell’imputato (con elezione di domicilio presso il difensore d’ufficio nella fase delle indagini preliminari) sono affette da nullità assoluta nel caso in cui l’avvocato abbia rifiutato la domiciliazione. Piemonte. Togliete la tassa regionale più inutile sui detenuti che studiano all’università di Rocco Sciarrone* La Stampa, 11 agosto 2025 Nel marzo del 2024 il Consiglio Regionale del Piemonte aveva approvato un ordine del giorno in cui si impegnava ad affrontare la questione dell’esenzione della tassa regionale per il diritto allo studio universitario degli studenti detenuti. Una misura di intervento concreto e poco onerosa sul piano finanziario, a fronte della situazione drammatica degli istituti penitenziari. Purtroppo ancora una volta il tema non è stato considerato meritevole di attenzione in occasione dell’assestamento di bilancio discusso in questi giorni in Consiglio. Eppure, il progetto del Polo Universitario Penitenziario dell’Università di Torino, nato 25 anni fa, è riconosciuto come esempio di eccellenza a livello nazionale. Attualmente coinvolge studenti in sette Istituti penitenziari del Piemonte, prevalentemente nella Casa Circondariale Lorusso e Cutugno di Torino, e nelle carceri di alta sicurezza di Saluzzo e Asti. L’iscrizione è riservata agli studenti che presentino i requisiti di merito previsti dai regolamenti di Ateneo, quindi anche un numero minino di esami da sostenere. Nell’anno accademico in corso gli iscritti sono 154, distribuiti in 22 corsi di laurea, numero che aumenta di anno in anno. Il Polo si avvale di un contributo da parte della Fondazione Compagnia di San Paolo, che garantisce la fornitura dei libri di testo e delle attrezzature informatiche e la retribuzione dei tutor didattici. L’Ateneo di Torino ha esentato gli studenti detenuti dal pagamento delle tasse, ma il 25% del contributo della Compagnia di San Paolo (circa 25mila euro annui) viene utilizzato per pagare le tasse regionali. Queste risorse potrebbero essere impiegate per potenziare servizi e qualità dell’offerta formativa. Quantomeno paradossale, considerando che la tassa regionale riguarda in gran parte servizi (mense, trasporti, alloggi) a cui gli studenti detenuti non accedono. In diverse regioni, tra cui la Lombardia, i detenuti iscritti all’Università sono da tempo esenti dal pagamento di questa tassa. Favorire il diritto allo studio all’interno del carcere è utile non solo come strumento di crescita culturale, ma anche come via per ridurre il rischio di recidiva, quindi per promuovere il reinserimento sociale e lavorativo. Incomprensibile dunque la chiusura verso un provvedimento che avrebbe benefici concreti a fronte di un esiguo impegno di bilancio. *Docente di Sociologia delle mafie e delegato del Rettore per il Polo Universitario Penitenziario dell’Università di Torino Torino. Caro sindaco, scegli un Garante indipendente per difendere i diritti dei detenuti di Roberto Tricarico* La Stampa, 11 agosto 2025 Caro sindaco Lo Russo, ieri La Stampa ha raccontato ancora di un lenzuolo bianco. Triste strumento del cinquantatreesimo suicidio nelle carceri italiane, il secondo a Torino nel 2025. Un detenuto di 45 anni ha prelevato dal suo letto quel lenzuolo, è entrato nel bagno e si è tolto la vita. Più voci, compresa la tua, da sempre denunciano il sovraffollamento del carcere Lorusso e Cotugno. Una struttura che scoppia, non certo di salute. La Garante dei Detenuti del Comune, Monica Gallo, ha parlato di situazione “gravissima”. Sono d’accordo. Il carcere delle Vallette è parte della città e a noi tutti spetta il compito di prendersene cura, sindaco in primis. Conosco e conosciamo la tua sensibilità, sin da quando, da colleghi nel Consiglio comunale del Pd, organizzammo a Palazzo Civico un convegno su questo tema. Forte di questo legame, mi permetto di scriverti per chiederti di aprire una discussione, la più ampia possibile, sul futuro del carcere in città. A partire dal prossimo Garante. È una nomina che spetta al tuo ufficio, anche se per la funzione di garanzia che deve esprimere, sarebbe stato più opportuno che fosse prerogativa del Consiglio comunale. Il nuovo Garante non deve certo rispondere a orientamenti dell’esecutivo o di partito. Sarebbe un errore. Quello che hanno commesso Riva Vercellotti e Roberto Ravello, accusando Bruno Mellano “di scarsa attenzione per le altre figure che lavorano in carcere”. In sostanza la critica è quella di aver fatto il proprio dovere “solo” a difesa dei detenuti. Bene ha fatto quindi la Società della Ragione a lanciare l’appello, già sottoscritto da più di 250 persone e associazioni per sostenere che “Mellano sia la scelta migliore per succedere a Monica Gallo. Per equilibrio, tenacia, competenza e rigore è il candidato giusto come Garante dei detenuti di Torino”. Lo sanno bene le tre elette di Avs in Regione (Ravinale, Cera, Marro), il Pd con il suo segretario Domenico Rossi, i radicali e tante forze politiche, anche della maggioranza di Palazzo Lascaris. Anch’io ho sottoscritto l’appello. Quando, più di trent’anni fa, nacque l’ufficio del Garante, Luigi Manconi ne spiegava il valore. Una voce per la tutela dei diritti degli “ultimi” e per il rispetto dell’articolo 27 della Costituzione. Per porre al centro del senso della pena il reinserimento sociale. Obiettivo invece sconosciuto al nuovo governo. Per questo occorrono energie per dare speranza, facendo leva su tutta la nostra capacità di resistenza. Torino è la città di Gobetti e in anni torbidi bisogna raccogliere il suo invito all’intransigenza. S’indichi quindi una figura che per coerenza e rigore sappia rappresentare questa sfida. Per questo, caro sindaco, ti chiedo di fare la scelta giusta. *Assessore al Comune di Torino 2001-2011 Milano. Torture carcere Beccaria, le vittime chiederanno i danni al ministero di Rosario Di Raimondo La Repubblica, 11 agosto 2025 “Erano affidati allo Stato”. L’avvocato di uno dei 33 ragazzi maltrattati nell’istituto minorile: “Il ministero deve rispondere per la responsabilità oggettiva”. Gli avvocati dei giovani detenuti vittime del “sistema Beccaria” sono pronti a chiedere i danni. Non solo agli agenti penitenziari accusati di torture e violenze sui ragazzi ma anche al ministero della Giustizia per la sua “responsabilità oggettiva”. Questa idea accomuna diversi legali delle parti offese: 33, in tutto, quelle che la procura - con le pm Rosaria Stagnaro e Cecilia Vassena e la procuratrice aggiunta Letizia Mannella - chiede al gip di sentire durante un “incidente probatorio”, audizioni che consentiranno di cristallizzare le testimonianze per farle diventare prove. A maggior ragione, sostiene un legale, se viene dimostrato che la direzione del carcere sapeva delle violenze nell’istituto minorile, andate avanti tra il 2021 e la primavera del 2024: tre ex direttori sono indagati per presunte omissioni, così come il personale sanitario. Anche dal dipartimento di giustizia minorile sono arrivate denunce in procura. Il passo decisivo sarà la costituzione di parte civile delle vittime. Nella fase iniziale dell’inchiesta l’avvocata Barbara Squassino ha seguito uno dei detenuti picchiati, di cui conosce la storia, i problemi, le ferite. “Io chiederei assolutamente un risarcimento al ministero. Perché parliamo di persone affidate allo Stato. E se verranno ravvisate responsabilità, tutti gli enti coinvolti dovranno rispondere”. Il suo assistito oggi ha 18 anni, vive a Genova, è senza fissa dimora, un passato drammatico e un presente difficile. È un minorenne, nel novembre 2023, quando più poliziotti gli urlano “clandestino, bastardo, arabo zingaro”, lo ammanettano, lo colpiscono a cinghiate sui genitali fino a farlo sanguinare, lo rinchiudono nudo in cella. Sempre lui, mentre dorme, viene svegliato da un poliziotto - oggi accusato di violenza sessuale - che gli dice: “Stai tranquillo, voglio solo fare l’amore con te”. Episodi agli atti dell’inchiesta seguita dalla squadra Mobile. L’avvocata Squassino è andata a trovarlo quando è finito il periodo di detenzione al Beccaria: “È stato ricoverato a lungo in neuropsichiatria. Stava male, piangeva. Era molto arrabbiato. Una persona affidata allo Stato, ancor più se minorenne, non può subire questo. Ha passato una vita d’inferno. Certo, ha commesso diversi reati: droga, qualche rapina. Saranno anche minori difficili ma pur sempre ragazzini, esseri umani, non carne da macello. Vedremo cosa emergerà dai processi”. Anche l’avvocato Stefano Deluca punta a costituirsi parte civile con il ragazzo che assiste: “Che sapesse o meno, il ministero deve rispondere per la responsabilità oggettiva”. Milano. Torture nel carcere Beccaria: “Compare io ti mangio il cuore” di Anna Giorgi Il Giorno, 11 agosto 2025 L’inquietante quadro di violenze emerge dalle carte con cui la Procura chiede l’incidente probatorio. Sono 33 le vittime il cui racconto sarà “cristallizzato” davanti al giudice, salgono a 42 gli indagati. Sputi in faccia, calci e pugni sull’intero corpo, in un caso anche un colpo alla testa con uno stivale, torture con lacci al collo dei detenuti, insulti, spesso razzisti. Emergono comportamenti “disumani” dalle carte della richiesta di incidente probatorio avanzato dalla Procura nei confronti di 42 indagati tra vertici, medici e agenti in servizio al carcere minorile Beccaria. Maltrattamenti, lesioni, falso e torture che ora vedono salire la lista dei responsabili - i primi 13 arresti risalgono all’aprile 2024 - e mettono in fila più episodi di violenza, dal 2021 al marzo 2024. Nel novembre 2023 un ragazzo di origine araba viene colpito da alcuni agenti della penitenziaria con “più cinghiate anche sulle parti genitali fino a provocarne il sanguinamento”. Frequenti le violenze psicologiche e fisiche e le umiliazioni: in più occasioni i detenuti vengono portati all’interno di una stanza priva di telecamere e aggrediti in gruppo, anche utilizzando le manette per immobilizzarli. “Compare io ti mangio il cuore” è una delle frasi più crude pronunciate da un poliziotto della penitenziaria prima di colpire un ragazzino. Tra gli indagati anche le ex direttrici Cosima Buccoliero e Maria Vittoria Menenti e Raffaella Messina, per un periodo reggente dell’istituto, indagate per non aver vigilato e per aver “omesso di impedire le condotte reiterate violente e umilianti all’interno dell’Ipm Beccaria commesse dagli agenti della polizia penitenziaria a loro sottoposti, ai danni di numerosi detenuti”. C’erano agenti che in gruppo, anche di venti, infierivano su ragazzini ammanettati dietro la schiena, “perché così era impossibile per loro parare i colpi con le mani”. Botte date con tale violenza che fanno dire a una minorenne: “Hanno spaccato un mio amico (...). Giuro, c’aveva qua sul labbro l’impronta della suola degli anfibi. Sanguinava dalla bocca ed era tutto gonfio”, racconta uno dei minorenni. Ed era talmente noto a tutti il “metodo educativo degli agenti” che i giovani detenuti fra loro si organizzavano, c’era chi si copriva “con tanti vestiti a strati perché così sentiamo meno male”. E chi aspettava l’arrivo dei picchiatori bagnando il pavimento e gettando sapone sperando di farli cadere, a chi si insaponava tutto per ‘far scivolare’ i pugni. Tre sanitari, un coordinatore sanitario, un medico e un coordinatore infermieristico, all’epoca dei fatti in servizio all’istituto Beccaria sono indagati per aver redatto “referti falsi o concordati con gli agenti della Polizia Penitenziaria in relazione alle lesioni patite dai detenuti e assistito a plurime aggressioni realizzate dagli agenti della Polizia Penitenziaria, omettendo di attivare qualsiasi segnalazione o intervento”. Nell’aprile dello scorso anno in occasione del tentativo di suicidio di un minorenne, gli agenti erano rimasti a guardare un giovane che si metteva al collo una corda fatta con alcune lenzuola che aveva attorcigliato. Gli agenti dall’esterno cominciano a minacciarlo: “Se entriamo lì ti facciamo a pezzi noi”. Dopo il tentativo di impiccagione e il risveglio dalla perdita di coscienza del giovane, gli agenti cominciano a prenderlo a schiaffi, poi lo colpiscono con una forte ginocchiata sul fianco, mentre piangeva e continuava a dire di voler morire. A quel punto, così si legge nelle carte depositate, siccome il ragazzo dopo la ginocchiata tenta di fuggire, una ventina di agenti lo circondano e cominciano a picchiarlo con pugni, schiaffi e calci per poi lasciarlo dentro la cella ammanettato in modo che non si potesse muovere. Nel maggio dello stesso anno un minore aveva chiesto agli agenti un pezzo di cioccolata e, a causa del rifiuto, aveva cominciato ad autolesionarsi. A quel punto gli agenti lo portano in un seminterrato lo prendono a calci su tutto il corpo e nel viso fino a quando il detenuto resta a terra. Uno degli agenti lo colpisce con ripetuti calci nella pancia e con un calcio in faccia che gli provoca uno svenimento. Poi, dopo che il detenuto riprende i sensi, lo costringono a spogliarsi e siccome tremava lo picchiano nuovamente. Quando il minorenne ha una crisi asmatica lo colpiscono con due schiaffi a mano aperta facendogli sbattere la testa contro il muro difronte all’infermiere che gli somministrava il “Ventolin”. Milano. Violenze nel carcere Beccaria, la prima denuncia: “Brutale pestaggio per un accendino” di Andrea Gianni Il Giorno, 11 agosto 2025 L’avvocato Deluca assiste una delle 33 vittime “Non voleva tornare lì, i responsabili vanno puniti”. Il ricordo dell’avvocato Stefano Deluca torna al 2023, all’udienza al Tribunale per i minorenni di Milano durante la quale notò gli ematomi sul volto del suo assistito, un ragazzo all’epoca minorenne che era detenuto al Beccaria per aver tentato una rapina armato di coltello. “I poliziotti mi hanno menato - riferì quel giorno il giovane - non voglio tornare al Beccaria”. La sua è stata la prima denuncia ricevuta dalla Procura, e ora quel ragazzo è tra le 33 persone offese che dovranno comparire davanti al gip per l’incidente probatorio e confermare i loro racconti. Come ha reagito, quando il ragazzo le ha rivelato le violenze? “Ho pensato che tutto questo è intollerabile e non può passare sotto silenzio il fatto che venga picchiata una persona nelle mani dello Stato. Quel giorno c’era anche la madre del ragazzo, e ne ho parlato con un operatore del carcere presente all’udienza. Ho pensato subito che fosse necessario sporgere denuncia, ma sono serviti mesi per convincere il ragazzo”. Per quale motivo era contrario? “Pur essendo uscito dal carcere, temeva di subire ritorsioni. Non solo se fosse tornato al Beccaria, ma anche all’esterno. Alla fine si è convinto, ma la nostra denuncia in un primo momento fu archiviata. Poi la Procura ha ripreso in mano il caso, le indagini sono andate avanti e sono emersi tutti gli altri episodi. L’anno scorso sono arrivati gli arresti degli agenti della polizia penitenziaria, e ora attendiamo la chiusura delle indagini”. Come è avvenuta la violenza nei confronti del suo assistito? “Aveva chiesto agli agenti un accendino perché voleva fumare una sigaretta nella cella e, siccome lo avevano fatto attendere per mezz’ora, ha iniziato a fare rumore. Così lo hanno preso, lo hanno portato in un’altra stanza e lo hanno picchiato”. Ora dovrà tornare davanti al giudice per l’incidente probatorio. Quali traumi ha lasciato quell’episodio? “Quando ci sentiamo non ne vuole parlare, è come se lo avesse rimosso. Adesso vive tra Milano e Catania, purtroppo sempre in una situazione di disagio. Noi chiediamo che vengano accertate tutte le responsabilità, perché è intollerabile l’idea che qualcuno possa mettere le mani addosso agli altri, e intendiamo costituirci parti civili. Una punizione dei responsabili sarebbe anche un monito: certe cose non devono accadere. Nel frattempo due degli agenti arrestati hanno offerto un risarcimento, di circa mille euro a testa, che noi abbiamo accettato”. Milano. All’Ipm Beccaria non si è tradita solo la legge, ma l’idea stessa di umanità di Romano Pesavento* angelipress.com, 11 agosto 2025 Il Coordinamento Nazionale Docenti della disciplina dei Diritti Umani esprime profondo sdegno e preoccupazione per quanto emerso dall’indagine della Procura di Milano sulle violenze, fisiche e psicologiche, subite dai giovani detenuti dell’Istituto Penale Minorile “Cesare Beccaria”. Le accuse, che parlano di torture, maltrattamenti aggravati, lesioni, condotte omissive, falsi referti e persino di un episodio di violenza sessuale, non raccontano solo un grave fatto di cronaca giudiziaria: descrivono un fallimento culturale ed educativo che interroga l’intera società. Chi lavora in un istituto penitenziario minorile non ha soltanto un compito di custodia, ma esercita una funzione educativa che lo Stato stesso riconosce e affida. Quando questa funzione viene stravolta, il danno va oltre le vittime dirette. Ogni ragazzo sottoposto a umiliazioni e violenze impara, suo malgrado, che il potere può trasformarsi in abuso, che la legge può essere piegata, che la dignità può essere negata. È un insegnamento rovesciato, in totale antitesi con ciò che la scuola e l’educazione alla legalità cercano di trasmettere ogni giorno: il rispetto reciproco, la giustizia, la fiducia nelle istituzioni. Per questo il caso Beccaria non può essere relegato alle aule di tribunale. Deve entrare anche nelle aule scolastiche, come occasione di riflessione e di discussione. Parlare di questi episodi con gli studenti significa far capire che la legalità non è un concetto astratto, ma una pratica quotidiana che deve valere per tutti, in ogni luogo e in ogni circostanza, tanto più quando si esercita un ruolo di responsabilità verso persone fragili o private della libertà. La scuola può e deve aiutare a formare cittadini consapevoli, ma questo compito rischia di essere vanificato se le istituzioni non sono coerenti nel rispetto dei principi che pretendono di insegnare. Il nome “Beccaria” dovrebbe evocare l’idea che la pena sia proporzionata, umana e finalizzata alla rieducazione. Oggi, se le accuse troveranno conferma, quel nome è stato tradito. E con esso, l’idea stessa che l’educazione possa cambiare le persone. È dovere dello Stato ristabilire la verità, garantire giustizia e restituire fiducia, non solo ai ragazzi direttamente coinvolti, ma a tutti i giovani che guardano e cercano di capire se il mondo degli adulti in cui stanno entrando è capace di essere giusto. *Presidente CNDDU Monza. Celle sovraffollate e con insetti: “Carceri a numero chiuso” di Dario Crippa Il Giorno, 11 agosto 2025 Un carcere a “numero chiuso”. Case territoriali di reinserimento sociale. Mettere mano a soluzioni come amnistia e indulto. Queste in sintesi le proposte di legge depositate dopo la visita sabato mattina del Gruppo +Europa di Monza al carcere cittadino organizzata con l’associazione “Nessuno tocchi Caino” e la Camera Penale di Monza che ha visto anche la partecipazione di alcuni consiglieri comunali e del sindaco di Triuggio, Pietro Cicardi. Visitati in particolare la sezione di Prima Accoglienza, il Reparto di Osservazione Psichiatrica, la sezione Isolamento e la sezione D (monitoraggio sanitario). “Il carcere di Monza sintetizza molto bene le principali carenze strutturali del sistema penitenziario italiano, nonostante gli eccezionali sforzi di chi ci lavora e un’articolata offerta di attività trattamentali”, ha dichiarato Francesco Condò, tesoriere del Gruppo +Europa Monza. Nell’elenco dei problemi: “l’elevato sovraffollamento (735 detenuti a fronte di una capienza di 411); alta incidenza di detenuti con problemi psichiatrici e/o di dipendenza; un caso di suicidio quest’anno, oltre a diversi tentativi di suicidio; carenze di organico del personale di polizia, amministrativo e di mediazione culturale; mancanza di una formazione specifica al personale di polizia per la gestione di detenuti con problemi psichiatrici; strutture vetuste e inadeguate; 13 camere al momento inagibili per infestazione di cimici”. “Tra le altre cose, durante la visita alla sezione D abbiamo riscontrato che alle 13, orario in cui inizia uno dei turni di passeggio, i cortili risultano privi di zone d’ombra. Inoltre, abbiamo assistito in diretta a un improvviso piccolo allagamento nel corridoio, conseguente a perdite d’acqua”. Napoli. Radicali e PD tornano nelle carceri: “Sistema al collasso, servono misure urgenti” avellinotoday.it, 11 agosto 2025 Delegazione bipartisan in visita a Napoli Poggioreale e Avellino Bellizzi. Lunedì 11 agosto una delegazione di Radicali Italiani, accompagnata da Toni Ricciardi (Partito Democratico), visiterà la Casa circondariale di Napoli Poggioreale e la Casa circondariale di Avellino “Bellizzi”. Dopo la visita a Poggioreale, conferenza stampa davanti al carcere alle ore 13; ad Avellino, alle ore 18, sempre davanti all’istituto. Problemi strutturali e diritti violati nelle carceri italiane - “Torniamo in due carceri che conosciamo bene, dove sovraffollamento, degrado strutturale, carenze di personale e condizioni di vita disumane sono ormai la regola - dichiarano Filippo Blengino e Bruno Gambardella, segretario e presidente del Comitato nazionale di Radicali Italiani - In quasi tutte le carceri italiane, la violazione dei diritti umani e’ sistematica, mentre il Parlamento si concede un mese di ferie senza dedicare neppure un minuto a discutere decisioni urgenti. Appello per azioni immediate contro il collasso del sistema penitenziario - Suicidi, emergenza psichiatrica, recidiva altissima: segnali inequivocabili di un sistema penitenziario al collasso. Chiediamo che sia subito accolto l’appello di Rita Bernardini - e quello ignorato del Presidente La Russa - per misure urgenti Non farlo significa scegliere la propaganda contro la verità, e condannare un Paese intero a convivere con la propria vergogna”, concludono. Rimini. “Le condizioni del carcere sono sempre più critiche” riminitoday.it, 11 agosto 2025 “Le condizioni della Casa circondariale di Rimini sono sempre più critiche. Lo sostengono i sindacati del Personale Penitenziario, non da adesso, non in solitudine ma sembra ignorati dalle istituzioni”. Così Ivan Innocenti del Consiglio Genera Partito Radicale, approfondendo i numeri del sovraffollamento e le conseguenze indicate dai sindacati Sappe, Sinappe, Osapp. “Il carcere riminese prevede 118 posti regolamentari - esordisce. 23 di questi posti sono nella prima sezione, luogo che l’Ausl ha indicato a rischi salute per i detenuti e dove il magistrato di sorveglianza riconosce ai ristretti con pena definitiva il “trattamento inumano e degradante” previsto dal l’articolo 3 della Carta Europea dei Diritti Umani. Questa situazione è ormai certificata da numerosi anni”. “Il ministero poi indica una capienza detta “tollerabile” - prosegue -. Questa capienza è di 165 persone, corrisponde al 40% in più rispetto alla capacità della struttura. Questo numero ha origine dalla sentenza detta “Torregiani”, della Corte di Giustizia Europea, che stabilisce in modo automatico che c’è tortura ogni qualvolta la superficie per detenuto è inferiore a 3 metri quadrati. Ora i sindacati denunciano una presenza di 173 detenuti che posso confermare non essere insolita e riscontrata in diverse visite effettuate. Questa situazione di sovraffollamento intollerabile è da ritenersi tale. L’intera struttura infatti diventa luogo di trattamento inumano e degradante”. “Dal comunicato dei Sindacati della Polizia Penitenziaria si evince che gli stessi lavoratori soffrono di questa situazione, come ne soffrono i detenuti, e loro stessi ne sono vittima - continua -. Bene fanno gli operatori penitenziari a denunciare questa situazione che, oltre a essere illegale, coinvolge la coscienza di chi vi opera e solleva, otre a questioni di giustizia e legalità, questioni morali”. Il 15 agosto una delegazione del Partito Radicale sarà in visita alla casa circondariale di Rimini. “Sarò costretto a portare nuovamente testimonianza dell’indifferenza delle istituzioni cittadine a questa situazione di degrado umano che richiederebbe una chiara presa di distanza stigmatizzando quando avviene nel proprio territorio amministrato, chiedendo che venga interrotta immediatamente questa situazione di violazione costituzionale e dei diritti umani - conclude -. Una richiesta che da lungo tempo è disattesa nonostante le evidenze”. Siracusa. Carcere di Cavadonna, modello virtuoso con il Garante dei detenuti libertasicilia.it, 11 agosto 2025 Siracusa è tra le pochissime città in Sicilia - insieme a Palermo ed Erice - ad avere già un Garante comunale dei diritti delle persone private della libertà. Un ruolo che, negli anni, ha permesso di mantenere un canale diretto con il carcere di Cavadonna, monitorando le condizioni di vita dei detenuti e segnalando criticità. Adesso anche Catania sembra pronta a colmare un vuoto istituzionale durato anni. Dopo la sollecitazione dell’ex garante regionale Santi Consolo, che aveva denunciato l’assenza di referenti nelle principali città, e l’intervento del suo predecessore Salvo Fleres, l’assessore ai Servizi sociali Bruno Brucchieri ha annunciato la stesura del regolamento per istituire la figura. “Faccio parte da sempre di Nessuno tocchi Caino e sono particolarmente sensibile all’argomento - spiega Brucchieri. Mi auguro di portare il testo in giunta già alla prossima riunione”. Il modello, nelle intenzioni, è anche quello siracusano: un garante vicino alla comunità, capace di visitare periodicamente le strutture detentive e di segnalare situazioni di sovraffollamento o disagio. Nel territorio catanese gli istituti penitenziari di Bicocca e piazza Lanza contano rispettivamente 189 e 431 detenuti, a fronte di capienze ben inferiori. La speranza, conclude Brucchieri, è che “entro il 2025 Catania possa avere finalmente un garante, così come Siracusa”. Torino. Rete torinese contro Cpr: “Il nuovo Garante dovrà occuparsene” lospiffero.com, 11 agosto 2025 Il futuro Garante delle persone provate della libertà personale “dovrà occuparsi anche delle centinaia di persone trattenute contro la loro volontà e senza aver commesso reati nel Cpr di Corso Brunelleschi, che la Città vuole, come noi, chiudere. L’assenza in questo dibattito ci preoccupa e rischia di spostare l’attenzione dal chi al che cosa”. Ad affermarlo è la Rete torinese contro tutti i Cpr, in una nota “Nel mese di luglio - viene aggiunto - abbiamo chiesto e ottenuto un incontro con il sindaco Lo Russo sulla scelta del futuro garante dei diritti delle persone private della libertà personale. Abbiamo ribadito l’importanza di una scelta condivisa e qualificata per la figura del garante dei diritti delle persone private della libertà personale che si occuperà, come ha fatto Monica Gallo, di carcere, di Cpr e di ogni condizione in cui le persone sono private della libertà personale”. “Durante il colloquio - spiega la rete - abbiamo sottolineato tre punti fondamentali. Competenza: il nuovo garante deve avere un profilo solido in materia di diritti umani, migrazioni e inclusione sociale. Effettiva indipendenza: deve essere una figura realmente autonoma, in grado di monitorare e denunciare eventuali violazioni senza condizionamenti. Continuità: riteniamo essenziale che prosegua il lavoro svolto dalla predecessora, garantendo coerenza nelle politiche di tutela”. “Consideriamo la scelta del garante non una formalità ma un segnale politico chiaro sulla volontà di proteggere i diritti di tutte e tutti, specialmente delle persone più vulnerabili. Il sindaco scelga sulla base di un mandato che risponda a requisiti che permetteranno di continuare a monitorare condizioni sempre più critiche delle persone nel Cpr, anche a seguito di continue restrizioni alle visite che non hanno ancora permesso, né alla Cgil né alla Rete No Cpr che ne hanno fatto richiesta, di entrare e valutare la situazione sanitaria, umanitaria, personale”. Bologna. Il grido d’allarme degli infermieri in carcere: “Siamo reclusi anche noi, troppo stress” di Daniela Corneo Corriere della Sera, 11 agosto 2025 I sanitari in servizio alla Dozza denunciano: “Qui non vuol venire nessuno a lavorare e dopo anni non c’è turn over”. Il Nursind e l’Opi: “Condizioni usuranti, servono meccanismi d’incentivazione”. Il racconto di Anna. Nessuno ci vuole andare. E quelli che accettano di lavorare lì, poi sentono di non avere vie d’uscita. “Il carcere alla fine diventa un carcere anche per noi”. A lanciare un grido d’aiuto sono gli infermieri che lavorano alla Dozza, alcuni dei quali lavorano lì da anni, senza però avere una prospettiva d’uscita, nonostante le richieste di mobilità. Il racconto di una giovane infermiera - Anna (nome di fantasia, ndr), è una giovane infermiera appena trentenne. Lavora con i detenuti da tre anni. Per scelta. “Ma adesso non ce la faccio più. Ho chiesto la mobilità due volte, ma senza risultati. Il carcere è un posto dove si potrebbe star bene, se i lavoratori fossero più ascoltati, ma alla fine non si sta bene per niente. C’è chi scappa dopo un solo giorno, chi si mette in malattia appena arrivato, chi resiste ma è in burnout”. Ma il problema è che, essendoci un turn over praticamente nullo, nonostante gli infermieri alzino bandiera bianca e chiedano di poter cambiare prospettiva, di prospettive di fatto non ne hanno. “150 terapie da preparare ed episodi scioccanti” - I lavoratori chiedono da tempo attraverso i sindacati che nei confronti di chi lavora alla Dozza ci sia un occhio di riguardo. “Il carcere ha dinamiche tutte sue - racconta Anna - che impari con il tempo, ma all’inizio può essere scioccante”. Perché gli infermieri non devono solo preparare tra le 100 e le 150 terapie psichiatriche ogni giorno, ma si trovano anche a gestire situazioni molto delicate. “All’inizio - dice Anna - può essere una doccia fredda, c’è chi tra i detenuti si taglia, chi ingoia lamette, chi si fa male. Non capita tutti i giorni, ma quando succede si è davanti a scene forti e servirebbe un periodo di affiancamento più lungo per chi entra a lavorare lì come infermiere”. La carenza di personale e l’assenza di turn over - “Sul carcere - spiega Antonella Rodigliano, segretaria provinciale e regionale del sindacato Nursind - chiediamo un cambiamento da diversi anni. Poche persone accettano di andare a lavorare là, ma poi si fa fatica a uscire. Bisognerebbe incentivare un lavoro di questo tipo e poi dare a questi infermieri una priorità in uscita. Non c’è gestione del personale da parte della Ausl e si perdono risorse importanti, i giovani se ne stanno andando”. In carcere attualmente, secondo dati forniti ai sindacati dalla Ausl qualche settimana fa, “lavorano 26 infermieri, un coordinatore infermieristico, 5 Oss, 4 tecnici della riabilitazione psichiatrica e un educatore”, spiega il Nursind. Ma non bastano, secondo gli addetti ai lavori. Operatori in burnout - Mara Fuzzi, 54 anni, 34 di lavoro alle spalle di cui quattro alla Dozza dal 2020 al 2024, è una dirigente del Nursind che la situazione del carcere la conosce bene. “Il carcere -racconta Fuzzi - è un luogo si per sé particolare, si vede il cielo con le sbarre per tutto il turno, si vive reclusi e con un carico di lavoro intenso. Non si viene quasi mai accontentati sui turni, che spesso sono in carenza di personale, e la conciliazione con la vita privata è pressoché impossibile”. Fuzzi ha chiesto di uscire dopo quattro anni di lavoro e l’anno scorso è stata accontentata: “Un miracolo, non succede mai”, dice lei. Che spiega: “Quello del carcere è un lavoro stimolante, ma ci si usura molto anche a livello emotivo, si va in burnout. Servirebbe un supporto psicologico”. Le richieste dell’Ordine degli infermieri - Una situazione nota anche all’Ordine degli infermieri di Bologna: “Tra tutti gli avamposti - dice il presidente Pietro Giurdanella - quello del carcere è tra i più a rischio. C’è una carenza di 3-4 unità, perché nessuno è incentivato ad andare. Bisognerebbe sedersi a un tavolo con la Ausl e provare ad affrontare i problemi in modo strutturale. Cosa mettiamo in campo per incentivare gli infermieri a restare o ad andare a lavorare in luoghi sensibili come il carcere che portano a un logoramento maggiore?”. La Ausl: “Grave carenza generale di infermieri” - La Ausl di Bologna, attraverso Stefania Dal Rio, direttrice assistenziale, si dice disponibile al confronto. “La grave carenza di personale infermieristico - spiega Dal Rio - influenza anche l’ambito del carcere. Nel 2024 non c’è stata alcuna richiesta di mobilità, mentre quest’anno ci sono state due domande per lavorare alla Dozza che ci consentiranno di valutare le mobilità in uscita”. Per Dal Rio “in questo momento in carcere non abbiamo particolari carenze, ma siamo certo nel momento delle ferie estive”. Presto un percorso di “benessere organizzativo” - In ogni caso la Ausl promette: “Verrà presto proposto agli infermieri un percorso di benessere organizzativo per affrontare con la massima disponibilità il tema dei turni e le questioni di sovraccarico e burnout”. Insomma, conclude Dal Rio: “Il tema è alla nostra attenzione, siamo disponibili al confronto”. Milano. Insegnare arte al Beccaria: “Ma è sempre più difficile” di Jessica Castagliuolo Il Giorno, 11 agosto 2025 Con Albania Pereira i giovani detenuti hanno affrescato il cortile interno “Basita dall’inchiesta, i ragazzi non mi han detto nulla. Serve un cambiamento”. Il cortile interno del Beccaria, tutto intorno al giardino, è affrescato con un murale floreale e onirico. A realizzarlo sono stati i ragazzi detenuti, con l’aiuto di Albania Pereira, la docente del laboratorio di arte. Si reca all’Istituto penale minorile due volte a settimana, per aiutare i ragazzi a “esprimersi con i colori”. Ma il suo lavoro, ammette, “è sempre più difficile”. “Credo che le cose debbano cambiare a livello strutturale”, osserva, riferendosi alle difficoltà che il carcere continua ad affrontare, dal sovraffollamento al continuo aumento di minori stranieri non accompagnati, che hanno più difficoltà a integrarsi, anche tra loro. Una situazione che ha portato a continue rivolte e all’evasione di alcuni detenuti, ma anche alle indagini della Procura di Milano, che ha rivelato presunti abusi ai danni dei ragazzi da parte degli agenti penitenziari, con 42 persone iscritte nel registro degli indagati. Secondo la docente, “agenti ed educatori devono lavorare insieme, mano nella mano. Ora le cose sono cambiate, ci sono nuovi agenti e la situazione mi sembra migliorata”. Quanto alle indagini, “non so cosa pensare, mi lasciano basita: ricordo quel periodo e i ragazzi non mi hanno mai parlato di nulla. Anzi, ricordo che uno di loro considerava uno degli agenti poi finiti in carcere (ad ora sono 13 quelli arrestati e 8 quelli sospesi, ndr) come un padre”. Tuttavia, “il clima di insicurezza è ancora forte”, sottolinea Pereira. Sui ragazzi aggiunge: “La situazione di disagio aumenta fuori e anche in carcere. Sono chiusi, hanno alle spalle un passato il più delle volte traumatico, far fiorire la loro creatività è sempre più difficile”. Paglia: “Ruini sbaglia, sul fine vita serve una legge. Non si può lasciar decidere le Regioni” di Giacomo Galeazzi La Stampa, 11 agosto 2025 L’arcivescovo: “Il Parlamento a settembre è chiamato a decidere, lo faccia con la più larga maggioranza possibile”. “Il Senato sta per approvare un disegno di legge sul fine vita. È bene che una materia come questa non sia lasciata alle Regioni. Ed è bene ricordare che il tema del “fine vita” è ben più ampio della legge. Ognuno muore a modo suo”, afferma l’arcivescovo Vincenzo Paglia, presidente della Commissione ministeriale per la riforma dell’assistenza sanitaria e sociosanitaria per la popolazione anziana istituita dal dicastero della Salute e presidente emerito della Pontificia accademia per la vita. E cita Gustavo Zagrebelsky: “sulle questioni ultime si è sempre penultimi”. Secondo l’ex presidente Cei, Camillo Ruini “sul fine vita meglio nessuna legge che una cattiva legge”. È così? “Il Parlamento riprenderà a settembre la discussione sul fine vita. Bisogna vigilare perché non si tratta, secondo le indicazioni della Consulta, di creare alcun diritto alla morte. Bensì, al contrario, di circoscrivere attentamente ipotesi in cui assistere al suicidio non sarebbe più punibile. Necessaria è una legge che tuteli le persone più vulnerabili e sole. È opportuno che in una materia come questa si approvi una legge che abbia il più largo consenso possibile. Non si può lasciare la decisione alle singole Regioni. Occorre che sia votata a larghissima maggioranza. Un tema delicato richiede un supplemento di attenzione. Il “fine vita” è più largo di qualsiasi dettato legislativo. Non solo perché ciascuno muore a modo suo e non è possibile prevedere una morte univoca. La Chiesa (e non solo) è contraria alla eutanasia, al suicidio assistito e all’accanimento terapeutico. E all’abbandono terapeutico di cui nessuno parla ma che è il problema più largo in questo campo. Troppi malati gravi sono lasciati soli”. Perché accade questo? “Le cure palliative, pur introdotte da una legge, non sono affatto uniformi nel territorio italiano: una sfida urgente e una grave lacuna. Per favorire una adeguata consapevolezza, la Pontificia accademia per la vita ha promosso un Piccolo Lessico per aiutare ad orientarsi in un ambito così delicato e assieme urgente”. È d’accordo con Ruini che non ci sia bisogno di un partito cattolico. È d’accordo? “Sono in molti anche cattolici a non ritenere possibile oggi un “partito cattolico”. C’è invece bisogno che i cattolici sentano la responsabilità di intervenire sulla vita politica. In un mondo globalizzato, smarrito e conflittuale, mancano visioni unitive che appassionino. E qui c’è un grande spazio per i cattolici. Karol Wojtyla diceva che gli uomini soffrono per “mancanza di visione”. E Giorgio Gaber nel ‘94 cantava: “E pensare che c’era pensiero”. Abbiamo bisogno di visioni che uniscano e appassionino. Tanto più che oggi tutto è globale. Il cattolicesimo italiano e quello europeo sono in ritardo. Rischiamo l’irrilevanza. C’è troppa autoreferenzialità. Anche tra i cattolici”. La reazione al sovranismo? “C’è una cultura maggioritaria che porta inesorabilmente individui, gruppi e Paesi a concentrarsi sul proprio “particulare”. Cambiamento d’epoca significa che per la prima volta nella storia l’uomo ha nelle sue mani il potere di distruggere se stesso e il creato. E ciò dal ‘45 con la bomba nucleare, poi con il cambiamento climatico e infine con le tecnologie emergenti e convergenti con le quali si può manipolare l’umano radicalmente. Basti pensare al potere dell’Intelligenza Artificiale. Eppure si torna tranquillamente a parlare di nucleare senza tanto scandalo, mentre si sdogana il ricorso alle armi”. Soffia lo “spirito di Caino”? “Abbiamo 59 guerre aperte, con quelle dell’Ucraina e di Gaza sul cui esito è nebbia fitta, mentre false narrazioni e obblighi mercantili rischiano di soffocare una pace che non solo non potrà essere giusta ma neppure duratura. Ovunque prevalgono gli interessi di parte. È caduto il “noi” ed è iniziata la dittatura dell’”io”. Max Stirner aggiungeva: “l’Io facilmente si crede l’Unico”. Gli altri sono nemici da eliminare o soggiogare. Eppure c’è stato un momento nel quale abbiamo sperato in una pace a portata di mano: nel 1989 alla caduta del Muro di Berlino. E in effetti nei due-tre anni successivi ci furono momenti di pace: si firmò la pace in Mozambico, furono scritti gli accordi di Oslo, cadde l’apartheid in Sud-Africa. Passarono appena tre anni e iniziò la “guerra balcanica” divenuta l’inizio della “balcanizzazione” del mondo. Dall’89 ad oggi sono stati costruiti 77 muri. La globalizzazione del solo mercato ha creato squilibri crescenti. Un iper-individualismo ha infettato il mondo intero come un virus velenoso e inarrestabile che ha indebolito le democrazie che si trasformano in “democrature” e “autocrazie”. Quali sono le cause? “Alla globalizzazione del mercato non è seguita la globalizzazione della solidarietà. Ecco disuguaglianze crescenti e insopportabili. Individui, gruppi, popoli si sono impauriti e ripiegati su stessi. Mancano visioni comuni: qui è il cuore del problema. È urgente una nuova cultura politica: quale Italia vogliamo, quale Europa immaginiamo, quale assetto internazionale promuoviamo? Serve uno scatto di pensiero. Nel secondo dopoguerra, di fronte al dramma della seconda guerra mondiale e al crollo del nazifascismo, alcuni intellettuali, a Camaldoli e a Ventotene, immaginarono il futuro dell’Italia e dell’Europa. Oggi è un tempo analogo”. E l’irrilevanza dell’Ue? “Il mondo ha bisogno di un’Europa che sia davvero Europa, di quella che promosse una cultura solidale e universale. Qui il cristianesimo ha più storia, più esperienza, più invenzione. È una eredità da dissotterrare e spendere per l’oggi. Cattolici e laici, uomini e donne di buona volontà, dobbiamo impegnarci assieme per una nuova Europa. Il cristianesimo europeo deve rinnovarsi e allearsi con gli umanesimi laici per una visione comune del futuro. Va contrastata l’abitudine alla guerra e la corsa alle armi, e rinvigorita la passione per una fraternità universale. Le passioni sono diventate tristi, i sentimenti deboli, i pensieri fragili, le affezioni sbiadite e la violenza continua ad avvelenare le relazioni. La stessa democrazia è a rischio. L’umanesimo è in pericolo sotto i colpi degli opposti estremismi del fondamentalismo religioso e del materialismo tecnocratico. È urgente una nuova alleanza (anche tra cattolici e laici) per immaginare un futuro che sia per tutti”. Casarini: “Torniamo in mare a salvare i naufraghi. L’Italia in Libia sostiene i criminali” di Marika Ikonomu Il Domani, 11 agosto 2025 Tra i fondatori dell’ong Mediterranea Saving Humans, presto nel Mediterraneo con la seconda nave. Il fondatore è stato spiato e rinviato a giudizio. “Siamo una minaccia. Monitoriamo i rapporti tra persone come Almasri e il nostro paese”. Un rinvio a giudizio per favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, lo spionaggio da parte dei servizi, i continui fermi amministrativi alle navi delle ong e l’assegnazione di porti lontani. “Da quando siamo nati siamo sottoposti a una guerra continua da parte dei governi, di qualsiasi orientamento politico”, spiega Luca Casarini, fondatore di Mediterranea Saving Humans. “Per Meloni e Salvini c’è in più un tema elettorale”, quella che secondo lui è un’ossessione per la deterrenza: “Il mare deve essere un deterrente. E la morte è un deterrente. Per questo non ci devono essere tanti soccorsi”. Ora Mediterranea è in partenza con una seconda nave. Il raddoppio, per Casarini, è la migliore risposta al rinvio a giudizio. A quando la partenza? A breve, stiamo ultimando tutte le certificazioni e lavorando al training per l’equipaggio. È una nuova nave che si aggiunge alla flotta civile. Si chiamerà “Mediterranea” ed è molto più grande rispetto alla Mare Jonio, che opera da sette anni il soccorso civile in mare. Come diceva il subcomandante Marcos (leader zapatista delle Ezln, ndr) noi siamo un esercito che ha come obiettivo quello di sciogliersi. Un’impostazione che Mediterranea ha nel suo Dna. Non ci si può abituare alla pratica umanitaria come routine e al nostro mare come fossa comune. Il vero obiettivo è il cambiamento delle politiche alla base di questa tragedia che dura da più di dieci anni: la guerra contro le persone in movimento. Nel mondo sono 122 milioni, secondo l’Onu. Qual è oggi la politica migratoria europea e italiana? Il tentativo è di trasformare il Mediterraneo in un confine. Per farlo bisogna omettere il soccorso, fare tabula rasa dei sistemi di aiuto, e respingere. Con insufficienza di mezzi, o propensione al non intervento in situazioni di naufragio: le persone muoiono o vengono prese dalla guardia costiera libica o dalla guardia nazionale tunisina, trasformate a suon di milioni di euro in polizia di frontiera. Noi interveniamo sull’omissione di soccorso in mare, obbedendo alle convenzioni internazionali, inserendoci nel conflitto tra sovranità degli stati e diritto internazionale. I morti in mare non sono dovuti agli incidenti, ma al respingimento come unica politica, in tutto il percorso migratorio. Basti pensare alle deportazioni nel deserto in Tunisia, anche con i soldi europei. La premier Meloni è stata recentemente in Turchia, Libia e Tunisia. In queste visite nessuno ha mai parlato di diritti umani. Questa è la politica estera italiana di respingimento. L’Italia ha riportato in Libia il torturatore Almasri, permettendogli di sfuggire al processo della Corte penale internazionale. Dai documenti del tribunale dei ministri sono emersi i ricatti a cui è sottoposta l’Italia. Con chi tratta il nostro paese? I nostri servizi segreti dell’Aise hanno definito quella con la milizia Rada di Almasri “una collaborazione molto proficua”. È una milizia che vive di traffico di armi, droga, petrolio di contrabbando, di ricatti per la protezione dell’aeroporto internazionale di Mitiga. Almasri e Al-Buti, ricercato dalla Cpi e arrestato in Germania, sono criminali. Per capire la gravità di queste dichiarazioni: è come se un esponente di governo dicesse di avere una proficua collaborazione con Totò Riina. Nella collaborazione di cui parla l’Aise ci sono i lager libici, centri in cui si pratica stupro sistematico, tortura, uccisioni di massa, vendita di schiavi. Come fanno i servizi a non saperlo? Si può definire complicità o “solo” interesse di stato? In Libia l’Italia sostiene un sistema di orrore, questo ha fatto e sta facendo. E il governo ha aiutato una persona accusata dello stupro di un bambino perché serve a impedire che donne, uomini e minori possano chiedere asilo in Italia. Questa è la “proficua collaborazione”. Cosa fa Almasri da quando è tornato in Libia? Almasri cerca di stare in vita. Perché in Libia un meccanismo per evitare il processo è ammazzare gli imputati. Bija e Al Kikli sono stati uccisi. Rimane protetto dalla Rada, la cui funzione istituzionale è stata ridimensionata ma non interdetta. In Germania invece Al-Buti è stato arrestato... E non è nemmeno una personalità come Almasri. Se Al-Buti viene estradato, succede quello che sarebbe successo se il governo italiano non avesse favorito la fuga di Almasri. La Cpi può incardinare un processo da cui può emergere il vero significato di questa proficua collaborazione. Il mondo deve sapere. Siete stati intercettati per anni. Perché siete considerati una minaccia alla sicurezza nazionale? Mediterranea è nata nel 2018, io e altri siamo stati spiati fin da marzo 2019, considerati subito minaccia per la sicurezza nazionale. Siamo piuttosto una minaccia alla politica del governo. Una politica molto violenta, se consideriamo che ogni anno i morti in mare accertati sono 2/3mila, a cui si aggiungono i naufragi fantasma. Uno dei motivi dello spionaggio è che facciamo un lavoro di ricerca sui rapporti tra questi assassini libici e l’Italia. Sappiamo la pericolosità di queste persone. L’Italia ha costruito con loro una relazione, permettendo impunità. Nei nostri telefoni si cercano nomi e cognomi dei potenziali testimoni delle torture, perché l’Italia ha paura del processo all’Aia. La destra ha fatto saltare la nostra audizione al Parlamento Ue, perché si vuole insabbiare tutto. È stato il sottosegretario Alfredo Mantovano ad autorizzare l’uso dello spyware Graphite, aprendo un altro capitolo molto più pesante, a 20 giorni dal mio ingresso al Sinodo. Forse l’obiettivo non ero solo io. La politica dell’intollerabile, che non sappiamo più immaginare di Sergio Labate* Il Domani, 11 agosto 2025 A ottant’anni da Hiroshima, il presidente degli Stati Uniti non ha rilasciato alcuna dichiarazione per ricordare l’evento. Nelle stesse ore dava spettacolo sul terrazzo della Casa Bianca, facendo finta di voler installare lì sopra un arsenale nucleare. Contemporaneamente Netanyahu annunciava di voler occupare illegalmente una terra stremata. L’intollerabile è diventato l’unica agenda politica del nostro tempo. La mia generazione è l’ultima che è stata abituata a pensare che la lezione della storia indicasse due eventi intollerabili: la bomba atomica e il genocidio. Siamo stati fortunati, non li abbiamo vissuti. Ma tutta la nostra iniziazione civile era affidata alla memoria dei testimoni e segnata dalla minaccia di queste due esperienze limite, oltre le quali l’assoluta potenza dell’uomo si trasforma in una radicale impotenza: l’eventualità che tutto non ci sia più e che nulla abbia alcuna legittimazione razionale. Il fatto che oggi ci troviamo allo stesso tempo a celebrare gli ottant’anni di Hiroshima e a riconoscere che l’intollerabile è ormai al centro dei nostri discorsi non può essere semplicemente constatato. Per chi conserva coscienza del reale, la domanda su come sia possibile questa contemporaneità dovrebbe diventare la questione fondamentale della nostra epoca. Qualcuno direbbe che la colpa è delle generazioni successive, nei confronti delle quali abbiamo sostituito il fremito etico dell’intollerabile con la comoda istituzionalizzazione dei giorni della memoria. Certo, per i nostri figli è più facile vedere un tiktoker piuttosto che leggere Primo Levi. Ma il dato di fatto condanna noi - che Levi lo abbiamo mandato quasi a memoria - e assolve loro - che ci paiono ancorati solo alla superficie delle cose. Chi sono coloro che hanno reso egemoni parole che dovevano essere ormai impronunciabili? Vladimir Putin, Benjamin Netanyahu, Donald Trump: figli della Seconda guerra mondiale e cresciuti nel terrore rispetto a quei due eventi intollerabili. Sono le generazioni nutrite della consapevolezza che stanno letteralmente condannando a morte le generazioni che continuiamo con supponenza a ritenere più ignoranti di noi. Così la questione diventa ancora più scomoda. Come è possibile che questa trasgressione dell’intollerabile avvenga a causa di persone che sono cresciute dentro il divieto di fare ciò che con tanta libertà stiamo ormai già facendo? Qualcuno risponderebbe che vi è stato un salto di qualità psicotico nell’esercizio della sovranità. Che il potere sempre più concentrato in un sol uomo si congiunge a un diffuso senso di derealizzazione, di perdita della realtà rispetto agli effetti delle nostre scelte e delle nostre azioni. Vale per tutti, in fondo. Se il tempo che prima dedicavamo alla lettura lo dedichiamo ai social, questo è uno degli effetti collaterali (non certo indesiderati): non sappiamo più davvero ciò che facciamo e crediamo che le azioni non producano effetti reali sul mondo. Quanto alle guerre, è più semplice affidarle ai droni e non distinguere più tra il mestiere del soldato e quello del gamer professionista (tanto ci saranno sempre i poveracci, le comparse reali delle nostre guerre controllate a distanza, civili e militari uniti dall’esser esercito di riserva sacrificabile al nostro bisogno di crudeltà). Ma anche questa risposta, che contiene certamente parti di verità, suona stanca e non all’altezza dell’esercizio dell’intollerabile diventato ormai quotidiano. Non si tratta più di cercare una ragione per le piccole miserie, ma di capire come sia possibile l’ingiustificabile. Che è tale anche perché non si riesce a concepire fino in fondo. Scriveva Anders: “Quanto più grande è l’effetto possibile dell’agire, tanto più è difficile concepirlo, sentirlo e poterne rispondere; quanto più grande lo “scarto”, tanto più debole il meccanismo inibitorio. Liquidare centomila persone premendo un tasto è infinitamente più facile che ammazzare una sola persona”. La sproporzione - Nessuno può percepire realmente cosa sia un genocidio, cosa sia davvero una crisi atomica. L’intollerabile contiene in sé anche questa sproporzione: siamo esseri umani incapaci persino di immaginare ciò che le nostre conoscenze scientifiche sono arrivati a produrre. E infatti, aggiungerebbe Anders, siamo incapaci di utopie positive, perché gli utopisti sono coloro che riescono a immaginare ciò che non sono riusciti ancora a produrre. È con questo che dobbiamo fare i conti: con una civiltà che ha perso il senso della realtà e che è anche incapace di immaginare ciò che, per la scala di grandezza tragica a cui appartiene, non si può percepire se non in parte. Non sappiamo né immaginiamo più l’intollerabile, che pure stiamo concretamente preparando. Il 6 agosto, a ottant’anni da Hiroshima, il presidente degli Stati Uniti ha ritenuto di non rilasciare alcuna dichiarazione solenne per ricordare l’evento. Nelle stesse ore dava spettacolo sul terrazzo della Casa Bianca, facendo platealmente finta di voler installare lì sopra un arsenale nucleare. Contemporaneamente Netanyahu annunciava di voler occupare illegalmente una terra stremata, perseguitando, deportando e uccidendo persone per il solo fatto che la abitano. L’intollerabile è diventato l’unica agenda politica del nostro tempo. E noi non possediamo più strumenti nemmeno per immaginarlo. *Filosofo È lotta tra logica e fanatismo: ora palestinesi e israeliani hanno lo stesso nemico, Netanyahu di Anna Foa La Stampa, 11 agosto 2025 La decisione di rioccupare Gaza scuote il Paese e riunisce le opposizioni. E così, alla fine, è successo: il governo israeliano ha deciso quella che è in sostanza una rioccupazione di Gaza e il trasferimento di un milione di palestinesi da Gaza City, con un prolungamento della guerra non quantificato, ma come ha aggiunto ieri Benjamin Netanyahu in una conferenza stampa per i giornalisti stranieri, “breve”. Mentre scrivo, le strade delle città israeliane si sono riempite di manifestanti che chiedono la pace, la liberazione degli ostaggi, la fine del massacro dei palestinesi. Ovunque, a Tel Aviv e a Gerusalemme, nelle altre città del Paese, piccole e grandi, a maggioranza ebraica o araba. La decisione del governo ha scosso tutto il Paese. Le famiglie degli ostaggi, di fronte al loro abbandono nel momento in cui non c’è più tempo per salvarli, hanno lanciato la proposta dello sciopero generale. La madre di un ostaggio ha detto a Netanyahu che se ci sarà la conquista di Gaza e gli ostaggi verranno assassinati, “vi daremo la caccia nelle piazze, alle elezioni, in qualsiasi luogo e in qualsiasi momento”. Se Hamas non fosse guidato da terroristi non dissimili da quelli che stanno al governo in Israele, se volesse davvero vincere la guerra della propaganda, li libererebbe subito tutti senza condizioni. A che servono degli ostaggi se chi li dovrebbe voler liberare non se ne cura e anzi li condanna a morte? Si moltiplicano i video che ci mostrano ragazze e ragazzi giovanissimi che rifiutano di andare a compiere crimini a Gaza. Si citano i numeri, angosciosissimi, dei soldati suicidi. Si leva alta la voce di chi invita a disobbedire agli ordini ingiusti. Prima della funesta decisione di Netanyahu, si erano levate le voci degli esperti, gli ex dirigenti dell’esercito e dei servizi segreti. E per ultimo, l’esercito si era opposto alla prospettiva di continuare questa guerra, creando con il governo una spaccatura difficilmente sanabile. Il capo di stato maggiore, Eyal Zamir, ha detto, sembra, che questa decisione trascinerà Israele in un “buco nero”. Non è certo un uomo di sinistra, è stato messo al suo posto dallo stesso Netanyahu. Intanto non si ferma la mattanza dei civili a Gaza. Continuano ad essere uccisi quanti attendono di raggiungere un po’ di cibo, se dall’Idf, dai contractors o dalle bande che rubano il cibo poco importa a chi cade mentre porge una scodella vuota. Bambini e adulti arrivano in ospedale moribondi per la fame, e a curarli sono medici e infermieri altrettanto affamati. Questa ultima tappa di questa immane tragedia ha riunificato, mi sembra, le varie anime dell’opposizione al governo, quanti hanno a lungo rimosso le sofferenze dei palestinesi privilegiando la terribile situazione degli ostaggi e ora marciano nelle manifestazioni reggendo in una mano le foto dei bambini di Gaza, nell’altra quelle degli ostaggi moribondi; l’anima di chi ha a lungo approvato la guerra pensando che servisse a liberarsi di Hamas e quella che vi ha visto da subito, o quasi, una terribile vendetta attuata sugli innocenti. Il cambiamento dello stato d’animo è iniziato con l’uccisione dei bambini, con l’arresto degli aiuti e la carestia, ed ora sembra arrivato ad una svolta in cui ebrei e palestinesi possono pensare di combattere lo stesso nemico. Forse durerà, sempre che Netanyahu non partorisca qualche altra idea di morte. Intanto, neanche questo basta ai suoi ministri più estremisti. Smotrich minaccia di lasciare il governo perché vede nelle dichiarazioni di Netanyahu una possibilità di fare marcia indietro su questa decisione. È il ministro che vuole bloccare ogni aiuto a Gaza, il fanatico che vuole fondare il sistema politico israeliano sulla Torah, come l’Iran lo fonda sulla sharia. Per il momento, pesa anche la reazione internazionale, quella dell’Onu, della Ue, dei tanti Paesi che hanno condannato la decisione israeliana. Netanyahu ha risposto in una conferenza stampa rivolta ai giornalisti stranieri, gli stessi a cui, insieme con quelli israeliani, è stato finora proibito l’accesso a Gaza. Vi ha di fatto ribadito le sue posizioni, giustificandole con la necessità di combattere i terroristi di Hamas, ancora forti e in grado di ripetere l’eccidio del 7 ottobre, ma mitigandole con la promessa di aiuti alimentari a Gaza come quelli già realizzati. Una promessa davvero inquietante, se si pensa ai palestinesi uccisi dall’esercito israeliano durante i cosiddetti aiuti. L’ondata di rabbia e di dolore che sembra aver sovrastato l’angoscia di questi mesi di guerra e che sta sollevando Israele contro il suo governo sarà placata da queste promesse? Un abisso si è scavato nel Paese tra chi vuole seguire Bibi in quel “buco nero” e chi vuole salvare Israele e la sua morale. È troppo tardi? Vinceranno di nuovo i fanatici come in quel 70 d.C., quasi duemila anni fa, quando gli zeloti scatenarono la guerra con Roma e portarono alla distruzione il regno di Giuda? O vinceranno la ragione, il compromesso, l’umanità? Crosetto: “Il governo di Israele ha perso ragione e umanità. Combattere i terroristi non è più una scusa” di Alessandro De Angelis La Stampa, 11 agosto 2025 Il ministro della Difesa: “A Gaza negati diritto e civiltà. Servono decisioni che obblighino il premier a fermarsi”. Appena iniziata l’intervista, Guido Crosetto riceve un messaggio: “Ministro buongiorno. Per info: AirDrop Gaza. Lanciati 16 CDS da circa 800KG l’uno per un totale di 12.800KG. Velivolo appena atterrato”. Lo legge col tono di chi ne ha fatto una questione di principio. Da giorni sta coordinando e seguendo in prima persona l’invio degli aiuti a Gaza: “Quel che sta accadendo - ci dice - è inaccettabile. Non siamo di fronte a una operazione militare con danni collaterali, ma alla pura negazione del diritto e dei valori fondanti della nostra civiltà. Noi siamo impegnati sul fronte degli aiuti umanitari, ma oltre alla condanna bisogna ora trovare il modo per obbligare Netanyahu a ragionare”. Non sembra. Ha appena dichiarato che l’occupazione è il modo migliore per “liberare” Gaza... “Un conto è liberare Gaza da Hamas, un conto dai palestinesi. La prima si può chiamare liberazione. Cacciare invece un popolo dalla sua terra è ben altro, e il termine usato mi pare del tutto improprio”. Uno strumento di pressione potrebbe essere riconoscere lo Stato di Palestina. È un segnale politico, o no? “No, perché quello Stato non c’è e riconoscere uno Stato che non c’è rischia di trasformarsi solo in una provocazione politica in un mondo che muore di provocazioni. Va costruito un percorso per attuare la storica risoluzione Onu dei “due popoli, due Stati”, difendendo il diritto della Palestina ad esistere e avere uno Stato e quello di Israele a vivere in sicurezza, il che significa che va, al contempo, estirpato il terrorismo di Hamas”. Tra un po’, però, un popolo sarà raso al suolo… Ma perché nessun governo europeo prende un treno per Gaza come per Kiev? “Perché troverebbe come interlocutore un governo, quello di Israele, che non è disposto a dialogare perché ha assunto una linea fondamentalista e integralista. La legittima difesa di una democrazia di fronte a un terribile attacco terroristico subito non convince più. Siamo di fronte a un progetto di segno diverso: la conquista di un territorio straniero mettendo in conto una catastrofe umanitaria”. Se, come pare, Netanyahu non si ferma, quel percorso di cui parlava è pura teoria. Non pensa che sia venuto il momento che la comunità internazionale si ponga il problema delle sanzioni? “Come sa, penso che l’occupazione di Gaza e alcuni atti gravi in Cisgiordania segnino un salto di qualità di fronte al quale vanno prese delle decisioni che obblighino Netanyahu a ragionare. E non sarebbe una mossa contro Israele, ma un modo per salvare quel popolo da un governo che ha perso ragione e umanità. Bisogna sempre distinguere i governi dagli Stati e dai popoli come dalle religioni che professano. Vale per Netanyahu, vale per Putin, i cui metodi, ormai, pericolosamente si assomigliano”. A proposito, Putin ha dichiarato che l’accordo scaturito dal vertice di Londra è un volantino nazista... “Oramai vedo che i vertici del Cremlino utilizzano questo termine con una frequenza quotidiana. Denota una familiarità che insospettisce”. Cosa vi aspettate ora sull’Ucraina dopo il vertice di Londra? “L’Europa ha espresso la posizione tenuta con convinzione in questi tre anni. È la posizione del diritto internazionale, quella per cui non si può imporre nulla a uno Stato sovrano ingiustamente invaso, ma toccherà ad esso decidere il perimetro accettabile di una trattativa di pace”. Dice il vicepresidente JD Vance: “L’accordo non renderà felici né Mosca né Kiev”... “Vede, la posizione del diritto internazionale sarebbe la pedissequa ricostruzione di ciò che c’era prima, confini territoriali compresi. La realpolitik impone una flessibilità che, però, ovviamente, non può essere sinonimo di pura annessione di territori. Il quantum di flessibilità non può essere imposto all’Ucraina contro la sua volontà. Due Paesi forti non possono mettersi d’accordo sulla pelle del più debole. Il perimetro lo devono scegliere i contendenti”. Per come sta prendendo forma, il vertice in Alaska è un incontro su Zelensky e non “con” Zelensky. Per poi dire: ingoia il rospo sennò sei tu che non vuoi la pace... “L’Europa deve sostenere convintamente la partecipazione di Zelensky al vertice. Evidentemente non è questione di simpatia o antipatia verso la persona. Un vertice su un Paese aggredito richiede la presenza dei rappresentanti del Paese di quel popolo, gli unici veri titolari del loro destino. Non c’è accordo possibile senza il coinvolgimento e la firma dell’Ucraina”. È chiaro che Trump fa di tutto per dimostrare che l’Europa non è in gioco. Dai dazi alle crisi internazionali... “Trump fa, semplicemente, Trump. Persegue il suo disegno con estrema coerenza e realismo all’ennesima potenza: sono il più forte e mi gioco la mia forza, in ogni ambito. Nello specifico dell’Ucraina: aveva promesso una qualsiasi forma di pace e ora ha bisogno, anche agli occhi della sua opinione pubblica, di dare un segnale tangibile”. Vero: però sulla pelle dell’Ucraina e anche dell’Europa. Vuole uno scalpo... “Trump si muove nel mondo che c’è. Detta brutalmente: se l’Europa avesse un peso rilevante, da superpotenza, sarebbe stato costretto a muoversi diversamente. E, invece, l’Europa ha costruito le condizioni per essere un attore politico scarsamente rilevante. Ogni nazione continua ad avere la sua politica estera, militare, economica. E ci sono tanti leader nazionali, anche piuttosto ripiegati ognuno dentro il proprio orizzonte domestico”. Non crede che anche il luogo scelto sia uno schiaffo? Putin ricevuto su territorio americano. Più legittimazione di così… “Su questo non mi scandalizzo come non mi scandalizzo del golf club scozzese scelto per l’accordo sui dazi. Fa parte del trumpismo, come racconto e come coreografia. In fondo anche Camp David era una residenza privata. Mi scandalizzo che, pur essendo tutto ampiamente prevedibile, l’Europa è stata incapace di fare un salto di fronte a una sfida esistenziale”. È solo America First o, in fondo, Trump non è del tutto autonomo da Putin? Prima della Trump Tower faceva operazioni immobiliari a Mosca…. “Penso che Trump sia autonomo da tutti, fuorché dagli interessi che persegue una sua agenda senza contemplare barriere: diplomatiche, economiche, politiche”. Se viene meno l’appoggio americano, l’Europa è pronta ad assumersi le sue responsabilità? “L’Europa ha il dovere di assumersi le sue responsabilità, che si raggiunga o no un accordo in Alaska. E ha il dovere di continuare a sostenere Kiev, come ha fatto finora, fino a che non ci saranno le condizioni che Zelensky, come dicevamo, sceglierà di accettare. Alcuni Stati, che più percepiscono la minaccia russa, come i baltici, la Polonia e la Germania, si sono assunti grandi responsabilità”. E l’Italia? “Abbiamo fatto, con coerenza e senza tentennamenti, quello che abbiamo potuto. La differenza, rispetto agli altri, non riguarda tanto il governo, ma il “sistema Paese” nel suo complesso. Rispetto ad altre nazioni si fa fatica a condividere il dato di fondo. E cioè che aiutare l’Ucraina significa aiutare se stessi e la propria sicurezza. Da noi non c’è limite alla demagogia politica, pur di prendersi la scena. La disgrazia più grande, in tempi così gravi e difficili”. Qui c’è un punto politico. Le posizioni italiane su Kiev (sostegno a Zelensky) e su Gaza (no all’occupazione) entrano in conflitto con la linea di Trump. Siete pronti a scegliere tra Europa e Trump? “Ogni nazione è sovrana. E noi non ci svegliamo la mattina pensando se ciò che facciamo è giusto o sbagliato in base a ciò che pensa Trump. L’occupazione di Gaza è inaccettabile e pericolosa, nei suoi effetti di destabilizzazione epocale dell’area. Lo diciamo in base alle nostre convinzioni e a una nostra idea autonoma di interesse nazionale. Un Mediterraneo destabilizzato è un danno enorme per l’Europa”. Venezuela. Alberto Trentini compie 46 anni, il compleanno in carcere del cooperante italiano di Anna Maselli Corriere della Sera, 11 agosto 2025 L’operatore umanitario è in prigione dal 15 novembre del 2024. L’appello di chi lo conosce: “Tanti auguri Alberto, ti aspettiamo a casa”. Un compleanno diverso, amaro, senza sorrisi e candeline. Oggi, 10 agosto, Alberto Trentini compie 46 anni. L’operatore umanitario originario del Lido di Venezia, rinchiuso da 270 giorni nelle carceri venezuelane, non festeggerà con i genitori Armanda ed Ezio, con i parenti e gli amici che da quasi nove mesi promuovono una campagna di solidarietà per chiedere il suo ritorno a casa. Non si sa se lo dirà a qualche suo compagno di cella, se qualcuno gli farà gli auguri, se riuscirà per qualche minuto a trovare sollievo nonostante le terribili condizioni in cui versano i detenuti del Rodeo I (nello stato di Miranda, a 30 chilometri da Caracas). Di certo la distanza oggi si fa ancora più insopportabile. Le due telefonate e le pastiglie - Da quando, il 15 novembre 2024, è stato arrestato assieme al suo autista Rafael Ubiel Hernandez Machado nei pressi di Guasdualito, città al confine con la Colombia, ci sono stati alcuni piccoli passi in avanti: innanzitutto le due telefonate concesse alla famiglia, la prima a maggio dopo sei mesi di assordante silenzio, la seconda a fine luglio, in cui Trentini ha ribadito di trovarsi in buone condizioni di salute, di assumere regolarmente i farmaci (soffre di pressione alta) e di essere preoccupato per i genitori, per il papà che sta poco bene. La novità più recente è però la nomina di Luigi Vignali, direttore generale per gli italiani nel mondo, come inviato speciale della Farnesina a Caracas, con l’obiettivo di sollecitare la liberazione di Alberto e di altri detenuti di origine italiana. “Stiamo facendo tutto il possibile” - La prima missione esplorativa in Venezuela però è stata rinviata in quanto a Vignali non è stato concesso di entrare nel Paese: “Abbiamo mandato in un inviato che era gradito anche alla famiglia ma è il governo venezuelano a decidere se fare avere un colloquio o no”, ha detto il ministro degli Esteri Antonio Tajani, interpellato sulla vicenda. “Stiamo cercando di fare tutto il possibile, non è così semplice”. Ciò non significa che la trattativa sia naufragata: il dialogo prosegue seppur a fatica perché il Governo italiano (come pure l’Unione europea) non riconosce quello del presidente Nicolás Maduro dopo le contestate elezioni del 28 luglio 2024. Cooperante esperto - Trentini è un cooperante esperto, ha alle spalle 20 anni di missioni in giro per il mondo. Dopo la laurea presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia ha proseguito gli studi all’estero, specializzandosi in assistenza umanitaria. In Inghilterra ha conseguito un master in ingegneria delle acque e della salute, che lo ha portato a operare in Sud America, Etiopia, Nepal, Grecia e Libano, ricoprendo anche incarichi importanti per diverse organizzazioni. L’ultima è la ong Humanity & Inclusion con cui è volato in Venezuela, per portare aiuti ai più fragili e alle persone con disabilità. L’accusa: “Terrorismo e cospirazione” - Trentini non ha fatto nulla, non c’entra niente con i dissidenti che contestano il regime di Maduro eppure è stato arrestato con la generica accusa di “terrorismo e cospirazione”. In quasi nove mesi non ha mai ricevuto la visita di un ambasciatore o di un avvocato e oggi, nel giorno del suo compleanno, gli amici lanciano un pensiero e un appello: “Buon compleanno Alberto, ti aspettiamo a casa. Sei nei nostri pensieri, non sei solo”. Venezuela. Due giornalisti raccontano l’incubo delle carceri di Federico Cenci interris.it, 11 agosto 2025 Si chiamano Roberto Di Matteo, Filippo Rossi e Jesus Medina. La loro recente esperienza ha alzato, per l’ennesima volta, il velo sulla libertà di stampa calpestata in alcuni Paesi. I tre giornalisti, recatisi in Venezuela per realizzare un’inchiesta, sono stati arrestati venerdì scorso, 6 ottobre, e rilasciati quarantotto ore dopo. Il racconto - Oggi pomeriggio, presso la sede della Federazione nazionale della stampa italiana, hanno tenuto una conferenza stampa per raccontare l’accaduto. “Ci teniamo anzitutto a ringraziare la Farnesina e il corpo diplomatico italiano in Venezuela”, hanno detto. Un particolare “grazie” lo hanno inoltre rivolto alla direzione de Il Giornale, quotidiano per cui collaborano. “Quando siamo stati arrestati, ci hanno tolto tutto ciò che avevamo con noi, ricordavamo però il numero della redazione a memoria e li abbiamo chiamati appena possibile - hanno spiegato -. E loro si sono immediatamente prodigati per aiutarci, pagandoci infine i biglietti aerei per il ritorno Italia”. Il motivo del viaggio in Venezuela - L’italiano Di Matteo e lo svizzero Rossi sono partiti oltre due settimane fa, dopo aver preparato il lavoro con mesi d’anticipo. “Siamo andati in Venezuela per raccontare le tante storie che questo Paese sta offrendo in questo momento”, hanno spiegato. I due ragazzi hanno sottolineato di essere partiti con l’intenzione di dare una visione imparziale di quanto sta accadendo nel Paese latino-americano, nonché di essersi mossi con la massima cautela, organizzando interviste e movimenti già dall’Italia. La “trappola” - Dopo aver passato diversi giorni zaini in spalla e telecamere puntate sul vivace caleidoscopio sociale venezuelano, i due giornalisti europei e il loro accompagnatore locale, Jesus Medina, sono tuttavia incappati in una “trappola” - come hanno spiegato durante la conferenza - preparata non si sa da chi. Venerdì si sono recati presso il carcere di Torocon, dove avevano in programma un’intervista (già fissata) con il direttore del penitenziario per un’intervista. Giunti sul luogo, sono stati dichiarati in arresto dallo stesso direttore. L’accusa ufficiale: aver voluto far entrare “attrezzature audiovisive senza autorizzazione”. In realtà - affermano i giornalisti - “non avevamo con noi nulla di non autorizzato di nascosto”. Per altro, gli oggetti sottratti dalle autorità venezuelane, non sono stati più riconsegnati ai tre legittimi proprietari. I veri motivi dell’arresto - E allora qual è il reale motivo dell’arresto? “Possiamo formulare solamente ipotesi”, precisano i due giovani. Con loro era presente Medina, un collega molto accreditato che scrive per Dollar Today, notiziario vicino all’opposizione. Potrebbe essere stato lui ad aver insospettito le autorità e ad aver fatto scattare le manette. “Noi lo abbiamo scelto - specificano ancora i giornalisti europei - al di là delle sue convinzioni politiche, per la sua capacità di muoversi a Caracas e di fornirci contatti di persone da intervistare”. A motivo dell’onestà intellettuale del loro referente locale, essi raccontano che grazie a lui, prima dell’arresto, avevano avuto l’opportunità di incontrare i “collectivos”, organizzazioni para-governative, e raccogliere liberamente il loro punto di vista. Le condizioni carcerarie - Dietro le sbarre, essi raccontano di essere stati trattati bene dalle guardie carcerarie. “Ci hanno messi in una cella dedicata soltanto a noi tre, mentre altri detenuti affollavano celle molto strette”. Il ricordo che portano dietro è di un penitenziario in condizioni rovinose. Ratti, servizi igienici carenti (per usare un eufemismo), mancanza persino del vitto per i detenuti e di acqua corrente potabile. In via del tutto eccezionale, a loro tre venivano portati i pasti. Il rientro in Italia - Dopo le quarantotto ore di custodia cautelare, i tre giornalisti sono stati rilasciati in “libertà piena”. Hanno contribuito le testimonianze dei militari presenti al momento dell’arresto, i quali hanno potuto vedere che i reporter non stavano introducendo nessun apparecchio non autorizzato. “Saremmo voluti restare in Venezuela per completare la nostra inchiesta - spiegano - ma avevamo percepito il rischio latente per la nostra sicurezza”. Così non hanno potuto realizzare la seconda parte del lavoro, durante il quale avevano previsto di dar voce principalmente ai filo-governativi, dopo aver intervistato soprattutto membri dell’opposizione. La situazione del Venezuela - Ciò che hanno potuto verificare è che il Venezuela è un Paese “in stato di anarchia” e di “assoluta povertà”. Il governo non ha più il controllo di tutto il territorio nazionale: “alcune zone sono in mano alla criminalità”, raccontano i due giornalisti. I quali hanno inoltre raccolto testimonianze di venezuelani che denunciano abusi di potere durante la distribuzione di beni che avvengono periodicamente: “Ci hanno raccontato che avvengono prepotenze della polizia”, che si accaparra il cibo a discapito di altri cittadini. Per dare le dimensioni della condizione di miseria, hanno raccontato che il salario medio fino a una settimana fa era di 135mila bolivares (circa 11euro) e che un pacco di farina costa 20mila bolivares (1,60euro). L’indigenza è testimoniata anche dal fatto che negli ospedali manca spesso l’acqua. Nei nosocomi su dieci parti cesarei, sette provocano infezioni (spesso mortali) alle partorienti. “Pochi giorni prima dell’arresto - raccontano i giornalisti - Medina aveva pubblicato le foto di alcune donne che stavano morendo in un ospedale pubblico”. Forse quelle immagini potrebbero essere il motivo dell’arresto dei tre giornalisti.